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Riassunto Psicologia dell'educazione

Riassunto Psicologia dell’educazione
La psicologia dell’educazione studia l’apprendimento in contesti scolastici e non.
L’apprendimento
Il tema centrale della psicologia dell’educazione è quello dei processi e delle dinamiche di
insegnamento/apprendimento.

-
L’apprendimento viene solitamente definito come un cambiamento che si manifesta in un
individuo per effetto dell’esperienza. Questo cambiamento può riguardare:
Il comportamento
La conoscenza
L’apprendimento inteso come cambiamento di conoscenza riguarda la relazione tra stimoli
ambientali e risposte non direttamente osservabili (pensiero, ragionamento, ricordo, soluzione di
problemi).
L’apprendimento inteso come cambiamento di comportamento riguarda la relazione tra gli stimoli
ambientali e le risposte direttamente osservabili.

-
L’apprendimento può anche essere : intenzionale/incidentale:
L’apprendimento intenzionale è quello che avviene attraverso progettazione,
organizzazione o consapevolezza.
L’apprendimento incidentale è quello che avviene senza “premeditazione”.
La nascita della psicologia dell’educazione
Secondo Boscolo si può far risalire la nascita della psicologia dell’educazione ai primi anni del XX
secolo:
-
Thorndike (1903) “Educational Psychology”
Journal of Educational Psychology
Psicologia dell’istruzione e Psicologia dell’educazione vengono spesso usati come sinonimi, ma
possiamo notare una sottile differenza:
-
La psicologia dell’istruzione si occupa principalmente dello studio scientifico
sull’acquisizione di conoscenze, abilità e atteggiamenti in contesti di istruzione;
La psicologia dell’educazione si occupa principalmente dei processi e delle dinamiche di
insegnamento e apprendimento.
Negli ultimi decenni si è realizzato un riavvicinamento tra psicologia dello sviluppo e psicologia
dell’istruzione. Gli studiosi della psicologia dello sviluppo si sono progressivamente interessati
all’istruzione poiché:
-
La conoscenza è una componente importante dello sviluppo cognitivo
La scolarizzazione influisce notevolmente sullo sviluppo delle abilità cognitive
L’apprendimento e la cultura sono i veicoli maggiori dello sviluppo
Cognizione fredda, calda, tiepida
Nello studio dell’apprendimento scolastico non devono essere considerate esclusivamente
variabili di tipo cognitivo. Un concetto attuale e completo di apprendimento porta a considerare
una molteplicità di fattori e interazioni. Tra i fattori implicati nell’apprendimento vi sono infatti
quelli emozionali, motivazionali, relazionali e contestuali. Alcuni autori parlano di “cognizione
calda” in contrasto con la “cognizione fredda” o “tiepida”, proprio in riferimento a tutti gli aspetti
motivazionali, emotivi, relazionali e contestuali da tenere presenti perché influenzano cosa, come
e quanto si impara.
Il Comportamentismo
La nascita del comportamentismo viene fatta risalire al 1913, anno in cui compare l’articolo di
Watson “La psicologia così come la vede il comportamentista”. Tale prospettiva si afferma agli inizi
del Novecento nel contesto nordamericano,avviandosi ad avere successo grazie anche al carattere
pragmatico proprio di quella cultura: infatti il comportamentismo dominerà lo scenario della
ricerca scientifica in psicologia almeno fino alla fine degli anni ’50. L’articolo di Watson viene
considerato il manifesto della prospettiva comportamentista. Qui vengono tracciate le linee
fondamentali di questo nuovo approccio: in primo luogo tale disciplina doveva avere come proprio
oggetto di studio il comportamento osservabile e come obiettivo la possibilità di prevederlo e
controllarlo; quindi si doveva adottare come ogni altra disciplina delle scienze naturali, un metodo
di tipo sperimentale e oggettivo. Il movimento di pensiero si chiama infatti comportamentismo
proprio per la scelta del contenuto da studiare, il comportamento manifesto, e del metodo di
ricerca che deve rispondere alle esigenze di oggettività. Si dovevano utilizzare solo costrutti
connessi al concetto di comportamento, come ad esempio “stimolo” o “risposta”, rifiutando ogni
altro elemento concettuale che si riferisse alla mente e ai suoi contenuti. Occorreva, infine, per
fare della psicologia una scienza, liberarla da tutte le categorie concettuali ambigue ereditate dalla
filosofia, come quelle di “mente” o “coscienza” e prendere in esame il comportamento come unico
elemento oggettivamente osservabile. IL bersaglio polemico di Watson era l’uso del metodo
introspettivo in psicologia, introdotto dal filosofo e fisiologo tedesco Wilhelm Wundt nel suo
laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia nel 1879. (Bisogna infatti ricordare che in psicologia
i paradigmi teorici rappresentavano quasi sempre una reazione al paradigma teorico precedente).
Wundt aveva cercato di sistematizzare le scoperte in ambito psicologico fino ad allora ottenute.
Egli studiava percezioni, sensazioni, coscienza e conoscenze in base a ciò che dicevano i soggetti
partecipanti ai suoi esperimenti. Dobbiamo distinguere tra:
-
Sensazione : processo in cui i miei sensi vengono attivati dall’esterno
Percezione: sono io che do senso a quello che ho visto o sentito
L’introspezione consisteva, secondo i criteri messi a punto da Wundt, nell’auto-osservazione dei
propri stati psichici da parte del soggetto. Questi, opportunamente addestrato dallo
sperimentatore, era sistematicamente guidato mediante interrogazione a produrre un resoconto
soggettivo che permettesse di quantificare fenomeni psichici quali, ad esempio, intensità, durata
ed estensione della sensazione prodotta da uno stimolo. L’introspezione è un metodo molto
soggettivo perché fa riferimento all’elaboratore centrale (il cervello) di ogni singolo individuo, da
cui ne conseguono output diversi. La critica di Watson era centrata sull’assunto che l’introspezione
non garantiva un controllo sulla procedura sperimentale tale da permettere di replicare i risultati
ottenuti, inoltre Watson sosteneva che questa metodologia ricorreva a categorie descrittive degli
stati psichici (sensazione, appercezione, volizione) soggette a interpretazione soggettiva e non di
chiara definizione.
Retroterra filosofico-culturale: l’approccio evoluzionista di Charles Darwin, in particolare l’idea
che diverse le specie viventi si siano evolute attraverso una progressiva selezione naturale:
diventava sensato, quindi, per comprendere come funziona il comportamento umano, studiare il
comportamento animale. Questa connessione evoluzionista tra le diverse specie risolveva anche
alcuni problemi di tipo metodologico: si poteva compiere sugli animali una serie di esperimenti
che sarebbero stati impossibili sull’uomo e generalizzare a quest’ultimo le leggi individuate con gli
studi primi. Un secondo elemento di ispirazione è la filosofia positivista di Auguste Comte, la quale
sosteneva il primato della conoscenza scientifica su un’analisi oggettiva dei dati di realtà.
L’apprendimento in prospettiva comportamentista
I comportamentisti si rifiutavano di occuparsi della “coscienza” e si riferivano al comportamento
come unico oggetto possibile di indagine. Il comportamento di ogni individuo è determinato in
modo casuale, secondo regole costanti, dall’ambiente che presenta agli individui degli “stimoli” ai
quali associare delle “risposte”. Il comportamentismo critica l’innatismo enfatizzando il ruolo
dell’ambiente. L’apprendimento non è altro, quindi, che la creazione di associazioni stabili tra
risposte dell’individuo e stimoli dell’ambiente; qualsiasi comportamento è riconducibile ad una
catena di apprendimenti successivi; predisponendo un ambiente idoneo, secondo questa visione,
sarebbe possibile forgiare qualsiasi comportamento desiderato in un individuo. L’obiettivo di
questo approccio era, dunque, individuare le condizioni che permettono l’apprendimento,
rispondendo a 3 questioni: come si creano tali associazioni ? come si mantengono nel
tempo?come si estinguono? I comportamentisti cominciarono a studiare l’influenza delle
ripetizione delle sequenze stimolo-risposta sul mantenimento delle associazioni, la capacità di
discriminare tra stimoli o di generalizzare le risposte da una situazione nota ad altre situazioni
nuove. Nello sviluppo di questo approccio distinguiamo 3 fasi che corrispondono all’affermarsi di 3
diversi paradigmi, definiti rispettivamente: del condizionamento classico, del condizionamento
operante e dell’apprendimento sociale.
Prima fase: condizionamento classico
IL primo comportamentismo si principalmente sviluppato sul paradigma del condizionamento
classico ispirato agli studi di Ivan Petrovic Pavlov. IL fisiologo russo stava conducendo alcuni studi
sui cani per studiarne l’apparato gastrointestinale. A tal fine aveva creato un sistema che misurava
la salivazione delle ghiandole poste all’interno della bocca: creava una fistola nella guancia del
cane, in corrispondenza della ghiandola salivare e introduceva una cannula che raccoglieva la
saliva. La cannula era collegata ad un sistema elettro-magnetico che quantificava numericamente
le gocce di saliva. Lo stimolo incondizionato (SI), ovvero la polvere di cane, produceva un risposta
incondizionata (RI), la salivazione che è una risposta che fa parte del repertorio comportamentale
dell’animale, un riflesso. Durante il processo di condizionamento si associava uno stimolo neutro
(SN) come il suono di una campanella allo stimolo incondizionato (SI). La ripetuta associazione tra
SN e SI porterà lo stimolo neutro da solo a produrre la risposta di salivazione che chiameremmo a
questo punto Risposta Condizionata (RC), e lo stimolo neutro diventerà uno Stimolo Condizionato
(SC).
SCHEMA CONDIZIONAMENTO CLASSICO
Prima del condizionamento : SI (carne)- RI (salivazione)
Processo di condizionamento : SN (suono)- SI (carne)- RI (salivazione)
Dopo il condizionamento : SC (suono)- RC (salivazione, risposta condizionata)
Pavlov trasse questa legge quando osservò che il cane produceva saliva alla vista delle persone
abitualmente addette alla consegna dei pasti. La salivazione al momento di assumere cibo (stimolo
incondizionato) è definita “riflesso/risposta condizionata”, in quanto reazione automatica innata
dell’apparato digerente animale. Invece, la salivazione del cane alla vista dell’addetto al cibo è
definibile come una reazione appresa o “riflesso/risposta condizionata”, costituitasi tramite
associazione tra persona (stimolo condizionato) e cibo (stimolo incondizionato). Per questo, invece
di parlare di schema di associazione Stimolo- Risposta (S-R), sarebbe più giusto parlare di StimoloStimolo (S-S), in quanto vi è apprendimento quando c’è associazione tra due stimoli. Pavlov scoprì
che in questo modo era possibile condizionare la salivazione dei cani attraverso i più svariati
stimoli (un campanello, una luce, ecc.): era sufficiente far precedere in diverse presentazioni lo
stimolo incondizionato (cibo) dallo stimolo condizionato (es. campanella).
Watson, giunto a considerare il condizionamento pavloviano un principio fondamentale di
spiegazione del comportamento animale e umano, nutriva un’enorme fiducia nelle possibilità
educative: gli appariva relativamente semplice poter addestrare un bambino ad essere quello ce
l’adulto desiderava (medico, avvocato, artista o anche mendicante e ladro) indipendentemente
dalle sue tendenze,attitudini , abilità, nonché dall’etnia di appartenenza.
Seconda fase: condizionamento operante
Nell’associazione S-S l’individuo impara a fare previsioni sull’ambiente. L’associazione S-S non
consente però all’animale o all’essere umano di controllare l’ambiente. Esistono quindi altre forme
di apprendimento in cui, anziché apprendere le relazioni tra eventi ambientali, gli organismi
apprendono la relazione tra il proprio comportamento e gli eventi ambientali. Edward Thorndike
(1903) fu il primo scienziato a studiare questo tipo di apprendimento utilizzando alcune ingegnose
GABBIE-PROBLEMA. Nei suoi esperimenti poneva i gatti all’interno della gabbia e il cibo fuori di
esse. Se il gatto voleva il cibo doveva imparare a premere una leva posizionata all’interno della
gabbia per aprire la porta. Thorndike valutava anche il tempo che il gatto impegnava per aprire la
gabbia durante le prove successive. Se la prima volta che il gatto apriva la porta il cibo era buono,
la seconda volta il tempo di latenza era minore (capiva più velocemente cosa doveva fare). Se le
volte successive i cibo non era buono il comportamento del gatto era meno veemente. Questo
tipo di apprendimento (in cui il gatto va a tentativi prima di premere la leva) era definito
apprendimento per prove ed errori. Thorndike individuò alcune leggi come quella “dell’esercizio”
(la ripetizione della sequenza rafforzava l’associazione stimolo-risposta), ma soprattutto la legge
dell’effetto, secondo cui quando una data risposta è seguita da una conseguenza piacevole,
questa risposta sarà sempre più strettamente connessa alla situazione ambientale in cui è
avvenuta. L’organismo tenderà a ripetere la stessa risposta quando si troverà nello stesso
contesto. Quando una risposta è seguita da una conseguenza spiacevole, la connessione tra gli
stimoli ambientali e la risposta si indebolisce. La conseguenza spiacevole diminuisce la probabilità
che la risposta sia ripetuta la prossima volta che il soggetto si trova nella stessa situazione. T.
anticipa il concetto di rinforzo, anche se non ne parla esplicitamente. Tuttavia tale apprendimento
riguardava l’associazione tra comportamenti relativamente semplici, appartenenti al repertorio
“innato” del soggetto, che venivano associati a stimoli nuovi, di per sé non in grado di attivare tali
riflessi. Va le pena di precisare che nella prima fase i comportamentisti studiavano il processo per
cui un soggetto impara non tanto comportamenti nuovi, quanto a trasferire comportamenti del
proprio repertorio “innato” a situazioni nuovi o a combinare tra loro alcuni di questi
comportamenti. Un cambiamento di tale prospettiva fu introdotto da Burrhus Frederic Skinner
che continuò il lavoro di Thorndike a partire dalla fine degli anni ’40. Skinner si proponeva come
“comportamentista radicale”, sostenendo la necessità di superare la contrapposizione tra
comportamenti osservabili (e quindi studiabili) e fenomeni mentali non studiabili. Anche i
fenomeni mentali (ad es. il pensiero), sosteneva Skinner, sono attività che si svolgono “all’interno
della pelle” e quindi riconducibili a comportamenti che li manifestano: il nostro comportamento
non è guidato da tali attività interne, ma è anzi determinato dalle conseguenze che ad esse
seguono, prodotte dall’ambiente. Il protocollo di ricerca di Skinner prevedeva l’utilizzo della
skinner box. Skinner lavorava generalmente con ratti e piccioni. La parete frontale della skinner
box era generalmente dotata di una leva sporgente che il ratto doveva abbassare per ottenere il
cibo. L’animale esplorando la gabbia, premerà per caso la leva e riceverà un rinforzo (il cibo).
L’associazione creata è denominata R-E (tra rappresentazioni di comportamenti e esiti). In seguito
a tale associazione il ratto imparerà che premendo la leva può avere il cibo. Il condizionamento
operante porta il ratto ad emettere risposte nuove, che non facevano parte del repertorio
comportamentale dell’animale. Il processo di condizionamento in questo caso è connesso al
concetto di rinforzo ed è chiamato condizionamento strumentale o operante. Il condizionamento
operante si distingue da quello classico in quanto in quest’ultimo l’animale non è libero di
muoversi e di produrre repertori comportamentali (si studiano associazioni tra stimoli e risposte
fisiologiche); nel condizionamento operante l’animale impara un comportamento che non faceva
parte del suo repertorio (es. impara ad aprire la porta con la leva per ottenere cibo). Skinner
distinse due classi di comportamenti: rispondenti e operanti. I comportamenti rispondenti erano
rappresentati da semplici riflessi condizionati, così com’erano stati spiegati dai principi del
condizionamento classico. I comportamenti operanti erano definiti da Skinner come quei
comportamenti volontari che appartengono al repertorio del soggetto e che vengono emessi in
assenza di un particolare stimolo che li precede: operano sull’ambiente, ciò agiscono su di esso,
anziché subirne l’azione. Nel condizionamento operante un comportamento appartenente al
repertorio di risposte che un animale o un essere umano può emettere viene rinforzato
positivamente quando, ad esempio riceve una ricompensa: ciò ne determina l’aumento della
frequenza di emissione. Il comportamento operante diventa condizionato quando passa sotto il
controllo di uno stimolo particolare. Ad esempio, una leva posizionata in un labirinto di per sé non
è uno stimolo in grado di attivare una qualche risposta naturale di un topo che si muove in tale
spazio. Tuttavia, se casualmente il topo preme la leva (comportamento operante) e ottiene una
porzione di cibo (stimolo rinforzante) e se questa sequenza si ripete per un certo numero di volte,
si può dire che l’azione di premere la leva è stata condizionata in modo operante: la funzione del
cibo che si presenta sempre subito dopo aver premuto la leva, è quella di aumentare la frequenza
di tale comportamento. L’esempio più famoso della forza di questo approccio è rappresentato
dall’esperimento di Skinner sui due piccioni che giocano a ping pong, condizionati dallo
sperimentatore, mediante stimoli rinforza tori, a colpire con il becco la pallina. Il rinforzo è un
qualche cosa che aumenta la probabilità che il comportamento si verifichi. Esso può essere:


Positivo: qualcosa che viene aggiunto alla situazione e che produce una sensazione
piacevole (es. cibo)
Negativo: rinforzo che provoca piacevolezza togliendo qualche cosa di spiacevole (es. viene
tolta una punizione; viene tolta la corrente dal pavimento della skinner box quando il topo
preme la leva; il bambino autistico – che non tollera rumori in classe- viene fatto uscire
come premio se usa l’espressione “per favore posso uscire”).
Si parla, invece, di punizione quando lo stimolo rinforzatore produce una situazione negativa,cioè
esso è un qualcosa che diminuisce la probabilità che il comportamento si verifichi. Essa può
essere:


Positiva: un qualcosa di negativo che aggiunge qualcosa alla situazione (es: uno sculaccione
per un comportamento negativo; la scossa al ratto se preme la leva sbagliata);
Negativa: viene tolto qualcosa di piacevole (es: togliere l’uso della play al bambino, togliere
il cibo al ratto).
Skinner elaborò numerosi programmi che diedero vita a vere e proprie “macchine per insegnare” .
Edward Tolman (1932) definì il comportamento strumentale come intenzionale poiché la risposta
è prodotta per ottenere qualcosa. Tolman divise dei topolini in 3 gruppi:
1. Gruppo: senza rinforzo, trovavano molto lentamente la strada;
2. Gruppo: rinforzati da subito;
3. Gruppo: per 10 giorni senza rinforzo, trovavano la strada molto lentamente (gli studiosi
comportamentisti pensavano che dato che non c’era rinforzo non ci sarebbe stato
apprendimento).
All’undicesimo giorno Tolman diede il rinforzo all’uscita al 3° gruppo che molto rapidamente
raggiungeva l’uscita, nel giro di un giorno equiparandosi alla velocità del 2°gruppo che aveva
sempre ricevuto il rinforzo. Perciò si abbassò molto velocemente il periodo di latenza, talmente
velocemente che non si spiegava con il rinforzo. Per questo Tolman dovette postulare il concetto
di apprendimento latente, infatti nei topolini del 3°gruppo c’era stato apprendimento durante i
primi 10 giorni, ma non lo avevano utilizzato perché non era necessario; non appena viene dato il
rinforzo l’apprendimento da latente diventa manifesto. Ma dov’era tale apprendimento? In quelle
che Tolman chiamerà MAPPE MENTALI, che stavano nella mente, la famosa black box.
Si cambiò lo schema classico da:
S
R
a S O R
stimolo
organismo risposta
(qui era collocata la black box)
Tolman segna il passaggio dal comportamentismo al cognitivismo.
L’approccio comportamentista ha influenzato principalmente due settori della ricerca legati ad
aspetti della psicologia dell’istruzione:


Il settore di ricerca dell’istruzione programmata;
Il settore di ricerca dell’addestramento militare.
Il modello applicato all’istruzione programmata è quello del condizionamento operante di
Skinner. L’approccio che faceva riferimento al condizionamento operante veniva applicato ad un
metodo di programmazione di corsi o unità didattiche di autoistruzione che gli alunni potevano
svolgere individualmente. Il punto di partenza era la rigorosa definizione degli obiettivi e
l’accertamento dei prerequisiti posseduti dallo studente. L’idea di fondo di tale approccio è basata
su alcuni principi tipici del comportamentismo:
-
-
Gradualità: il comportamento complesso da apprendere viene scomposto in componenti
più semplici;
Partecipazione attiva: l’allievo non può essere solo recettivo o rispondente ma deve essere
anche operante ovvero deve essere attivo per tutto il tempo sul materiale di
apprendimento;
Conoscenza immediata dei risultati: l’allievo deve ricevere un feedback immediato sulle
sue risposte per ogni passo di apprendimento;
Adattamento dei tempi del percorso dell’allievo: l’alunno deve poter disporre di tutto il
tempo necessario realizzare una prestazione di buon livello e deve essere indirizzato verso
percorsi di recupero di livello più elementare.
La programmazione di tipo lineare (o unisequenziale) prevedeva la suddivisione di contenuti di un
corso in piccole unità di formazione. Le informazioni venivano presentate gradualmente e
alternate a domande di verifica per accertare l’apprendimento del materiale. Ogni risposta
corretta diventava un rinforzo e contemporaneamente uno stimolo all’apprendimento successivo.
Per garantire la partecipazione attiva dello studente veniva richiesta la costruzione della risposta e
non la scelta tra diverse risposte. Skinner sosteneva che sbagliando si impara a sbagliare. Un
aspetto cruciale era quindi quello di predisporre il materiale di apprendimento nella giusta
sequenza di passi semplici e graduali. Lo scopo era quello di consentire allo studente di
sperimentare il successo, passo dopo passo. Questo continuo successo favoriva il processo di
rinforzo continuo il cui risultato era quello di permettere allo studente di continuare nel processo
di apprendimento. L’apprendimento, che è modificazione del comportamento, avviene
osservando la conseguenza delle proprie azioni. I comportamenti che provocano rinforzi vengono
ripetuti. Più è rapida l’associazione comportamento-rinforzo più è probabile che questo si
ripresenti. La frequenza del rinforzo è direttamente proporzionale alla probabilità del
comportamento. La mancanza di rinforzo porta all’estinzione del comportamento. Il rinforzo
positivo è motivante e fa aumentare il desiderio di apprendere. Un apprendimento complesso può
essere suddiviso in una sequenza di apprendimenti più semplici. La programmazione lineare è
stata gradualmente sostituita con quella ramificata o plurisequenziale. In questo tipo di
programmazione era posto l’accento sulla flessibilità anziché sull’importanza del rinforzo.
L’assunto di partenza era che gli studenti apprendono in tanti modi diversi. Tra le variabili
considerate vi sono: le conoscenze e le abilità precedentemente acquisite, la personalità, la natura
degli argomenti, ecc..
Altro approccio di stampo comportamentista è quello del Mastery Learning (apprendimento per
padronanza). Questo approccio parte dal presupposto che è possibile porre tutti gli allievi (o quasi)
nella condizione di raggiungere pienamente, passo dopo passo, gli obiettivi stabiliti. Variabile
fondamentale è il tempo: gli alunni devono seguire i propri ritmi e avanzare secondo un processo
accuratamente progettato in tutti i suoi segmenti.
La ricerca sull’istruzione militare non è direttamente legata ai problemi dell’istruzione. Essa ha
comunque dato un contributo di rilievo alla psicologia dell’educazione per diversi motivi:
-
Analisi della prestazione richiesta all’essere umano quando si trova a controllare sistemi
uomo-macchina complessi.
Analisi dell’apprendimento di abilità percettivo-motorie che non possono essere spiegate
solo in termini di associazioni stimolo-risposta ma anche di relazioni e interpretazioni.
Introduzione del concetto di task analysis (analisi del compito) e individuazione dei requisiti
necessari allo svolgimento di un compito.
Altro concetto importante introdotto dalla ricerca sull’addestramento militare è quello di
feedback. Per feedback si intende un’informazione di ritorno, la conoscenza dei risultati. Il
concetto di feedback ha contribuito fortemente a far considerare in modo nuovo l’apprendimento.
Il concetto di feedback risulta importante per valutare l’accuratezza della prestazione in cui si è
coinvolti. Si notano perciò le differenze tra rinforzo (la cui metafora è quella della trasmissione
meccanica della conoscenza) e quello di feedback (in cui vi è uno scambio, una reciprocità tra
l’insegnante e l’allievo).
In sintesi il comportamentismo stretto sostiene che :
-
L’apprendimento è una trasmissione della conoscenza;
La conoscenza viene trasmessa in modo meccanico da un trasmettitore a un ricevente;
La conoscenza non subisce nessuna trasformazione in questo passaggio;
La conoscenza non è quindi elaborata da chi la riceve;
Chi apprende è chiamato a riprodurre la conoscenza nel modo più fedele possibile.
Terza fase: la teoria dell’apprendimento sociale
A partire dagli anni ’50 si cominciava a mettere in dubbio che il condizionamento classico e
operante fossero esplicativi della complessità del comportamento umano. L’interesse per gli
aspetti sociali e relazionali fece fiorire le ricerche sull’apprendimento sociale. La portata della
teoria comportamentista è stata applicata dai teorici dell’apprendimento sociale i quali cercavano
di spiegare anche i comportamenti sociali complessi. Lo studioso di spicco di questa teoria fu
Alfred Bandura. Bandura sosteneva che gli individui regolano i loro comportamenti anche sulla
base di osservazioni delle conseguenze delle azioni. Aspetto fondamentale è quindi l’importanza
del pensiero cosciente. Il rinforzo non è l’unico modo per poter modulare un comportamento
poiché gli individui sono in grado di mettere in atto anche comportamenti non rinforzati
precedentemente. Il concetto di apprendimento osservativo postula infatti che un individuo può
anche osservare altri individui e imitare (qualora questi siano stati rinforzati) il loro
comportamento. Un esempio è rappresentato dallo studio denominato “della bambola Bobo”
(1961), dedicato all’imitazione di comportamenti aggressivi di modelli adulti da parte dei bambini.
Lo studio era in qualche modo ispirato al rischio di imitazione, da parte di giovani telespettatori,
dei comportamenti aggressivi esibiti in TV (la comparsa della TV negli Stati Uniti, nel 1952,
spingeva gli psicologi ad occuparsi di questa problematica). Bandura e collaboratori realizzarono lo
studio con bambini di età media di circa 4 anni, prevedendo nel disegno sperimentale della ricerca
3 gruppi:
-
-
-
Nel primo gruppo sperimentale (condizione aggressiva) introdussero un loro collaboratore
che si mostrò aggressivo nei confronti di un pupazzo gonfiabili chiamato Bobo. L’adulto
picchiava il pupazzo con dei pugni sul naso e lo prendeva a calci gridando frasi del tipo
“Picchialo sul naso!” “Picchialo in basso!” “Pum!”.
Nel secondo gruppo sperimentale (condizione non aggressiva), un altro collaboratore
giocava con costruzioni di legno senza manifestare alcun tipo di aggressività nei confronti
di Bobo;
Infine, nel terzo gruppo, quello di controllo, i bambini non avevano a che fare con alcun
adulto che svolgesse la funzione di modello ma giocavano da soli liberamente.
In una fase successiva i bambini venivano condotti in una stanza nel quale vi erano giochi neutri
(peluche, modellini di camion) e giochi aggressivi (fucili, Bobo, una palla con una faccia dipinta
legata ad una corda). Bandura poté verificare che i bambini che avevano osservato l’adulto
picchiare Bobo manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi, sia rispetto a
quelli che avevano visto il modello non aggressivo, sia rispetto a quelli del gruppo di controllo.
Sviluppando ulteriormente tale prospettiva, gli autori mostrarono successivamente che un
comportamento relativamente nuovo può essere acquisito da un soggetto semplicemente
guardando un modello che riceve uno stimolo rinforzatore (rinforzo vicario), senza che
l’osservatore debba essere a sua volta rinforzato: la punizione o la ricompensa attribuita al
comportamento prodotto dalla persona che fa da modello produce un effetto anche
sull’osservatore. Pertanto, un bambino che vede l’insegnante gratificare un suo compagno per un
certo comportamento, cercherà di apprendere quel comportamento perché il suo “modello” di
comportamento è stato rinforzato. Gli ideatori della teoria dell’apprendimento sociale pur
utilizzando inizialmente l’apparato concettuale del comportamentismo (stimoli rinforza tori,
punizioni, ecc.), introducono l’idea che gli individui, tramite osservazione, realizzano un processo
di acquisizione di informazioni elaborate cognitivamente allo scopo di astrarne una regola
generale da applicare in altre situazioni simili. Gli individui, infatti, hanno consapevolezza degli
eventi passati e si formano delle opinioni su se stessi e sugli altri comportandosi di conseguenza. Il
campo di indagine non è, quindi, più ristretto allo studio dei comportamenti direttamente
osservabili. La teoria di Bandura si inserirà pienamente nell’approccio cognitivista, sviluppandosi
come “teoria socio cognitiva”, lo stesso Bandura,infatti, definirà l’apprendimento come
“acquisizione di conoscenza attraverso l’elaborazione cognitiva delle informazioni”.
Le critiche al comportamentismo
Una prima critica mossa all’approccio comportamentista ha una natura teorica ed è legata
all’emergere dell’approccio cognitivista che attacca l’assunto di fondo dello schema stimolorisposta: viene messo in discussione il fatto che lo stimolo si percepito in modo oggettivamente
univoco da qualunque soggetto che è chiamato ad associare ad esso delle risposte. Per i
cognitivisti, infatti, ogni stimolo che proviene dall’ambiente è soggetto a un processo di
elaborazione interpretativa dell’informazione in esso contenuta. Un secondo elemento di critica, a
livello di metodo, riguarda il rifiuto del comportamentismo di riconoscere scientificità allo studio di
ciò che accade nella mente dell’individuo. I cognitivisti proporranno di superare tale veto
utilizzando la metafora della mente come elaboratore di informazioni, conferendo così rigorosità
alla descrizione dei processi cognitivi. Un’ulteriore azione critica viene svolta dal socio
costruttivismo, che rimprovera al comportamentismo di aver trascurato il riferimento alla
dimensione culturale e sociale dell’individuo, ritenuta invece importante nel processo di
attribuzione di significati ai comportamenti messi in atto. In particolare, l’istruzione programmata
non pone la giusta enfasi sulle conoscenze disciplinari né sulle procedure o metodologie che esse
utilizzano per produrre conoscenza. Infatti questo approccio è esclusivamente fondato sui principiguida dell’apprendimento, che sono di tipo generale, e prescinde dai contenuti disciplinari. Resta
in secondo piano anche l’attenzione al linguaggio e alla comunicazione in classe, che viene
ricondotta alla classica sequenza lineare: stimolo dell’insegnante- risposta dell’alunno- valutazione
dell’insegnante.
Metodo di ricerca
Studio rigoroso di come l’apprendimento si manifesti in conseguenza a degli stimoli ambientali.
Studi prevalentemente sperimentali o correlazionali.
Il Cognitivismo
Con il cognitivismo si passa da un paradigma di tipo S-R ad un paradigma di tipo S-O-R. Il
cognitivismo comincia a diffondersi come nuovo approccio teorico allo studio della psicologia nelle
università nordamericane a partire dagli anni ’50, sotto la spinta di una serie di elementi di criticità
messi in rilievo da diversi ricercatori nei confronti del comportamentismo, paradigma allora
dominante. Un primo oggetto di critica riguarda, a livello teorico, l’assunto di fondo dello schema
stimolo-risposta: viene messo in discussione il presupposto che lo stimolo sia percepito in modo
oggettivamente univoco da qualunque soggetto chiamato ad associare ad esso delle risposte. Tale
assunto comincia a vacillare con la diffusione negli Stati Uniti, intorno agli anni ’30 della teoria
della Gestalt, favorita dall’arrivo negli Stati Uniti di due esponenti di punta di tale prospettiva
teorica, Koffka e Kohler, fuggiti dalla Germania a causa delle persecuzioni naziste. La Gestalt non
considerava affatto la mente umana come una tabula rasa, che riceve passivamente gli stimoli
sensoriali, ma proponeva un modello di interazione tra percezioni esterne e schemi mentali interni
che organizzano il materiale percepito in una determinata forma. Riprendendo gli studi dei
ricercatori della Gestalt, Jerome Bruner, nell’ambito degli studi sulla percezione promossi dal
movimento del New Look on Perception, aveva evidenziato che la percezione non è una
riproduzione fedele della realtà fisica. Una serie di fattori “mentali” (i bisogni del soggetto, la
motivazione, le aspettative) rendono, infatti, la percezione un atto selettivo e interpretativo nei
confronti dello stimolo proposto. Un secondo elemento di critica, a livello di metodo, riguarda
invece i limiti che proprio il comportamentismo aveva imposto alla psicologia non riconoscendo la
scientificità allo studio di ciò che accade nella mente dell’individuo. La scelta del
comportamentista era basata sull’impossibilità di rendere rigoroso il metodo dell’introspezione, in
quanto passibile di distorsioni personali da parte dell’individuo che effettua la ricognizione dei
propri stati mentali. Da qui la scelta di focalizzarsi sul comportamento come unico elemento
osservabile e, quindi, oggettivamente studiabile. Ma già un neocomportamentista come Tolman
negli anni ’50 aveva introdotto attraverso il costrutto delle mappe cognitive, l’idea che alcune
variabili interne all’individuo (le memorie organizzate) entrino in gioco elaborando gli stimoli
ricevuti e organizzando quindi, le risposte. Tuttavia, secondo le critiche rivolte a Tolman dai suoi
stessi allievi, egli non aveva sufficientemente dato spazio ai concetti relativi agli stati mentali
(conoscenze, intenzioni, pensieri) in modo da restituire alla mente un ruolo centrale durante lo
svolgimento di azioni reali. Il cognitivismo reintroduce, quindi, la mente come oggetto di studio
della psicologia, rispondendo però alle esigenze di rigorosità del metodo poste dai
comportamentisti. Ciò avviene utilizzando come metafora del modo di funzionare della mente uno
strumento che aveva fatto la sua comparsa in quegli anni, in modo rivoluzionario,nello scenario
scientifico e culturale: il computer. La mente viene considerata un elaboratore di informazioni e ai
cognitivisti interessa studiare proprio i processi mentali e le operazioni di trasformazione
dell’informazione, che possono avvenire in successione una dopo l’altra o in parallelo,
simultaneamente. Utilizzerà la metafora del computer anche Ulric Neisser che nel 1967 scriverà il
testo “Cognitive Psychology”, considerato punto di riferimento per la nascita dell’approccio
cognitivista. (Bisogna ricordare tuttavia che, anche se molti cognitivisti assunsero come punto di
riferimento questo testo, il cognitivismo non trovò mai una personalità di spicco o un caposcuola
che lo rappresentasse. Il cognitivismo si configurò da subito come un ampio arcipelago di indagini
condotte da una nutrita schiera di studiosi). Neisser sostenne che il cognitivismo riprese a studiare
la mente umana, ma non attraverso il metodo di introspezione proposto da Wundt, bensì
attraverso le inferenze tratte dai comportamenti osservabili. Lo studioso sosteneva che il termine
“cognitivo” doveva riferirsi a tutti i processi di manipolazione delle informazioni, ossia
trasformazione, elaborazione, riduzione, immagazzinamento, recupero e combinazione degli input
sensoriali. L’approccio cognitivista è infatti denominato approccio HIP dall’acronimo Human
Information Processing. Questa analogia nacque perché c’era la necessità da parte dei cognitivisti
di trovare una similitudine tra la mente umana e un qualche cosa che fosse già presente in natura
per capire come funzionassero le cognizioni. Nella mente umana le informazioni sono
rappresentate internamente per poter essere elaborate. L’elaborazione è un’attività mentale che
genera, manipola e trasforma le informazioni. Per i comportamentisti, invece, ad alcuni stimoli
dovevano per forza seguire le stesse risposte a prescindere dall’organismo. I comportamentisti
spiegano la diversità delle persone con il fatto che esse nella loro vita abbiano incontrato stimoli
diversi. Neisser intravedeva una forte analogia tra la comprensione dei processi cognitivi
dell’uomo da parte di uno psicologo e comprensione della programmazione fatta a un computer
da parte di un tecnico informatico che vuole scoprire procedure e routine mediante cui riuscire a
far fare una determinata cosa allo strumento. Un programma per computer è costituito, infatti, da
una serie di istruzioni per l’esecuzione di operazioni passo dopo passo, che possono essere
combinate e raggruppate in vario modo. Tali istruzioni, così come i dati su cui vanno applicate,
sono conservabili nel computer per un tempo necessario allo svolgimento delle operazioni in una
memoria temporanea, di servizio, oppure in una memoria permanente per essere disponibili ogni
qualvolta si rendano necessari. Sia gli esseri umani sia il computer presentano dei limiti rispetto
alla quantità di informazioni che possono essere manipolate contemporaneamente e alla velocità
di elaborazione delle stesse. Abbiamo una possibilità attentiva limitata per questo elaboriamo solo
una piccola serie di informazioni alla volta. Noi funzioniamo per il principio di economia cognitiva
ossia apprendiamo nel modo cognitivamente meno dispendioso possibile.
Il sistema di memoria per l’elaborazione delle informazioni
I cognitivisti a differenza dei comportamentisti (che studiavano le reazioni tra stimoli, risposte e
rinforzi) , elaborano modelli della mente che fanno riferimenti ai concetti di memoria e processi di
elaborazione. Atkinson e Shiffrin nel 1968 elaborarono il cosiddetto MODELLO MULTIMAGAZZINO, ipotizzando 3 componenti di memoria:
Le frecce rappresentano il flusso delle informazioni, inizialmente sono due perché rappresentano
i molteplici stimoli che riceviamo nel registro sensoriale, poi diventa una dal registro sensoriale alla
MBT, perché il nostro registro sensoriale filtra ed elabora le informazioni più importanti.


Registro sensoriale: è un dispositivo connesso all’organo di senso corrispondente, che
trattiene l’informazione per un breve intervallo di tempo (fino a 2 secondi), necessario per
effettuare un riconoscimento, mediante il confronto con le informazioni disponibili nella
memoria a lungo termine (ad es. un’immagine di un oggetto che viene riconosciuta come
una penna). Il risultato del riconoscimento viene trasferito in formato verbale e visuale
nella memoria a breve termine. Il materiale non riconosciuto è soggetto a decadimento,
viene cioè perso (ad es., lo stimolo che ha “colpito” il registro sensoriale viene riconosciuto
come “gelato”. Questa informazione verrà trasferita nel magazzino della memoria a breve
termine sotto forma della parola “gelato” o di un’immagine visiva schematica).
Memoria a breve termine: ha una capienza limitata, ossia la quantità di informazioni che
può esservi contenuta è in media di 7 +/- 2 unità nell’adulto tanto che non riusciamo, ad
esempio, a compiere un’operazione aritmetica come 235 X 478. Questa richiederebbe di
tenere allo stesso tempo presenti informazioni sui i numeri da moltiplicare, la procedura
per eseguire la moltiplicazione, i risultati intermedi del calcolo (i riporti) che vanno
conservati perché su questi devono essere eseguiti altri calcoli per giungere al risultato
finale. Un altro limite della MBT è temporale, ossia le informazioni vi possono permanere
solo per un brevissimo periodo, dell’ordine di una qualche decina di secondi. La MBT svolge
un duplice e fondamentale ruolo : serve da transito in quanto le informazioni provenienti
dall’ambiente, prima di approdare e rimanere nella MLT, vi sostano brevemente; serve da
memoria di servizio in quanto contiene le informazioni provenienti dalla MLT che devono
essere integrate con quelle provenienti dall’ambiente. Man mano che fanno ingresso nella
memoria a breve termine nuove informazioni, quelle entrate precedentemente, e che
eccedono le 7 unità, escono, quindi vengono dimenticate, a meno che il tempo in cui sono
rimaste non abbia consentito il formarsi di una loro copia che rimane nella MLT. A volte si
verifica il passaggio di informazioni dalla MBT a quella a lungo termine anche senza

impegno o sforzo deliberato, ossia automaticamente, come quando ricordiamo bene la
trama di un libro, pur non essendo stata nostra intenzione memorizzarla, come effetto dei
processi attivati durante la lettura-comprensione. A tutti è capitato di fare esperienza di
come si possa dimenticare un numero di telefono appena letto o sentito, prima di arrivare
a digitarlo sul telefono, segno che l’informazione era uscita dalla memoria a breve termine
senza lasciare una copia nella memoria a lungo termine, sostituita dalle informazioni
entrate i seguito. Per rimediare a ciò esistono strategie a cui fare consapevolmente ricorso
per aiutarci a ricordare ( nel caso dell’esempio ripetere a voce alta o silenziosamente il
numero fino a quando non lo abbiamo digitato). La capacità limitata della memoria a breve
termine ci porta a considerare anche la capacità limitata della nostra attenzione in quanto
esperienza consapevole. Le informazioni a cui possiamo prestare attenzione
consapevolmente e contemporaneamente sono quelle contenute nella memoria a breve
termine che sono in numero limitato.
Memoria a lungo termine: si tratta di un archivio dalla capacità potenzialmente illimitata
dove vengono depositate, per alcuni minuti o per tutta la vita, le conoscenze che
acquisiamo (nonché esperienze e fatti personali) da recuperare all’occorrenza. Le
informazioni sono immagazzinate in modo tanto più efficace quanto più sono state
elaborate, durante la fase di codifica effettuata dalla MBT. Nella MLT le informazioni
possono essere recuperate per il riconoscimento dell’informazione nel registro sensoriale o
per le elaborazioni che avvengono nella MBT.
Vari studi su pazienti con lesioni cerebrali supportano l distinzione tra MBT e MLT. Vari ricercatori
hanno infatti studiato casi di persone con lesioni cerebrali che possedevano una MBT intatta e una
MLT compromessa o viceversa.
Limiti del modello multi-magazzino
Warrington e Shalice dimostrarono che il magazzino MBT non è unitario (ad esempio il paziente
KF mostrava un oblio per lettere e numeri presentati nella modalità uditiva maggiore dell’oblio per
stimoli visivi). Per quel che concerne la MLT, noi ricordiamo un’infinità di aspetti della nostra vita
molto diversi tra loro, non pare ragionevole che tutte queste informazioni siano immagazzinate
allo stesso modo. Altro punto debole è dato dal concetto di reiterazione come unico processo per
il passaggio dalle informazioni dalla MBT alla MLT, infatti questo processo appare utile per il
ricordo di liste di parole, ma non per il ricordo di un romanzo letto o di un episodio importante
della nostra vita. Gli autori sono in genere concordi nel ritenere che la memoria a breve termine
sia molto più complessa di quanto proposto nel modello multimagazzino. Un importante tentativo
di formare una teoria più adeguata della memoria a breve termine fu realizzato da Baddeley e
Hitch (1974). Gli autori propongono di sostituire l’espressione “memoria a breve termine” con
“memoria di lavoro” (working memory) per superare l’idea che questa sia un magazzino passivo di
informazioni. La memoria di lavoro non è descritta come un sistema unitario, bensì
multicomponenziale. Essa include: un esecutivo centrale, e 3 sottosistemi, chiamati loop
fonologico (o articolatorio), taccuino visuospaziale e buffer episodico.
L’esecutivo centrale è responsabile del controllo dei processi esecutivi per la realizzazione delle
azioni, della direzione dell’attenzione verso informazioni rilevanti, così come della soppressione di
informazioni irrilevanti, della coordinazione di processi cognitivi che devono essere eseguiti in
parallelo e della coordinazione dei 3 sottosistemi della memoria di lavoro. Il loop fonologico è
costituito da un meccanismo di reiterazione dell’informazione uditivo-verbale e da un magazzino
fonologico dove tale informazione viene mantenuta per breve tempo grazie al suddetto
meccanismo. Ad esempio, quando si sta leggendo un libro la frase appena letta viene mantenuta
fono logicamente in questo tipo di memoria mentre si scorre la frase successiva, collegando le
informazioni in ingresso con quelle già possedute nella memoria a lungo termine. Il taccuino
visuospaziale permette, invece, di mantenere e manipolare l’informazione visiva e spaziale.
Anch’esso è composto da 2 sottosistemi: il primo specializzato nel riconoscimento di oggetti, il
secondo nell’individuazione della loro posizione spaziale. Quando si sta leggendo il taccuino
permette di riconoscere la forma delle lettere e la loro disposizione in righe diverse. Il buffer
episodico, infine, integra temporalmente l’informazione (ad es. di tipo semantico) in una
rappresentazione episodica. In questo modo esso fornisce un’interfaccia tra sottosistemi di
memoria a lungo termine, specializzata per la memoria episodica (ad es. il richiamo di specifici
eventi che integrano tempo, spazio ed emozioni), che costituisce una delle modalità con cui le
informazioni sono codificate nella memoria a lungo termine. Grazie al buffer episodico nel mentre
che si studia un libro ci si ricorda di altre situazioni in cui c’è capitato di studiare gli stessi concetti
Diversi tipi di conoscenza
Nella prospettiva cognitivista diventa importante, per studiare il modo di operare della mente e
capire come funziona l’apprendimento, l’individuazione di diversi tipi di conoscenza che vengono
utilizzati dai dispositivi di memoria per diversi scopi. Un’iniziale distinzione proposta con successo
da Anderson(1976) è quella tra conoscenza dichiarativa e conoscenza procedurale.
La conoscenza dichiarativa ha come oggetto fatti, oggetti e concetti (il sapere: nomi, significati,
date regole). Tale conoscenza è consapevolmente accessibile, esprimibile in un formato verbale e ,
quindi, facilmente trasmissibile ad altri mediante il linguaggio. La conoscenza dichiarativa è stata
ulteriormente suddivisa da Tulving in conoscenza semantica ed episodica. La memoria episodica
immagazzina informazioni su episodi ed eventi che hanno una collocazione temporale,
consentendo di ricordare che si ha un appuntamento tra qualche ora, che si è vista una certa
persona la settimana prima, ecc. La memoria semantica si riferisce a quella conoscenza acquisita in
forma astratta senza un riferimento di luogo o di tempo; essa comprende le conoscenze che un
individuo ha sulle parole e altri simboli verbali, sui significati, sui referenti e le loro relazioni; è
indispensabile all’uso del linguaggio. Tutto ciò che viene archiviato nella memoria semantica è
accompagnato dalla sua referenza cognitiva, ossia una quantità anche dettagliata di informazioni
viene organizzata in un’unica informazione riferita ad una classe precisa. La memoria episodica
risulta maggiormente soggetta all’oblio, in quanto i dati immagazzinati possono subire
interferenze ed essere più difficilmente recuperati, specialmente se non sono datati; al contrario,
nella memoria semantica le informazioni sono inserite in strutture complesse di concetti e
relazioni che le proteggono da interferenze con altri input. È l’organizzazione delle informazioni,
infatti, che distingue nettamente i due tipi di memoria: nella memoria episodica si rilevano
soprattutto forme di aggregazione basate sulla vicinanza temporale, mentre in quella semantica le
forme di aggregazione sono varie, tra cui l’appartenenza categoriale e la somiglianza sintattica.
La conoscenza procedurale ha come oggetto il saper fare, il saper come, ossia i modi e le
procedure attraverso cui eseguire i compiti, il modo in cui usare un oggetto, un concetto o una
strategia di soluzione di un problema (ad es. saper compiere le azioni necessarie a guidare un
auto). Tale conoscenza ha un formato basato su sequenze di azioni ed è in genere non
consapevole, automatizzata nel suo uso. Perciò non tutte le conoscenze procedurali
immagazzinate nella nostra memoria sono accessibili, ossia non sempre sappiamo spiegare il
procedimento seguito per svolgere un’operazione, ci rendiamo conto del risultato ma non
sappiamo parlare del modo in cui ci siamo giunti. Possiamo essere in grado di verbalizzare la
procedura che ci ha portato a risolvere un problema di geometria, ma non descrivere la posizione
delle lettere sulla tastiera anche se scriviamo usando il computer. Quando le informazioni sono
accessibili si parla di memoria esplicita, invece quando non lo sono si parla di memoria esplicita. La
conoscenza procedurale ha un formato basato su sequenze di azioni. Le sequenze di azioni sono
diverse, le più importanti sono 3 :
-
-
scripts (o copioni) : sono sequenze di azioni compiute per realizzare uno scopo, organizzate
nella memoria come singole entità. Sono utilizzati per affrontare i compiti della vita
quotidiana (ad es. acquistare un vestito, guidare l’auto, cenare al ristorante). Gli scripts
offrono importanti vantaggi: in primo luogo permettono di svolgere le routinarie azioni
della vita quotidiana in modo automatizzato, senza dover impiegare una gran quantità di
controllo consapevole su di esse. Un secondo vantaggio è che attività percepite come
complesse durante il loro apprendimento possono diventare più semplici da gestire proprio
perché il loro apprendimento ha consentito la creazione di nuovi scripts. Un terzo
vantaggio è che lo scripts permette di fare previsioni sulle azioni che stanno per avvenire in
una data situazione, consentendo di affrontarla efficacemente anche a livello di relazioni
interpersonali. Gli scripts possono presentare però anche degli inconvenienti: quando ci
lasciamo guidare dagli scripts rischiamo di agire in modo automatizzato senza tenere conto
di tutti i fattori contestuali e senza affrontare una valutazione critica della situazione.
Gli algoritmi: sono regole per la soluzione di problemi, che funzionano sempre; procedure
efficaci per risolvere problemi ben definiti, ovvero problemi con risultato ottenibile
attraverso una procedura si soluzione organizzata in una sequenza di azioni;
-
Le euristiche: sono procedure approssimative non sistematizzate per la soluzione di
problemi che spesso funzionano ma non sempre; si usano con problemi mal definiti,
ovvero che non hanno un risultato certo. L’euristica contiene dunque una sequenza di
azioni basata su una conoscenza approssimata, che può essere influenzata da un
cambiamento nelle condizioni su cui si basa.
La ricerca successiva ha aggiunto anche la conoscenza autoregolativa, ossia la conoscenza che si
ha di se stessi in quanto soggetti apprendenti e di come regoliamo il nostro apprendimento.
Spesso in proposito si usa anche il termine “metacognizione”. La conoscenza metacognitiva
consiste nella percezione che il soggetto ha rispetto alla difficoltà del compito e delle strategie
messe in atto per affrontarlo. L’esperienza metacognitiva deriva dal livello di conoscenza del
compito. Raggiungere un buon grado di riflessione metacognitiva significa essere consapevole di
tutto il proprio processo di apprendimento, anche di ciò che spesso rimane a livello inconsapevole,
allo scopo di migliorare le proprie strategie di apprendimento.
Cognitivismo e apprendimento
La teoria degli schemi
Gli schemi, in quanto unità organizzate della memoria che rappresentano le nostre conoscenze
relative ad oggetti, situazioni, eventi ed azioni, sono stati considerati come i “mattoni di
costruzione dell’attività conoscitiva”, elementi di base da cui dipende tutta l’elaborazione
dell’informazione. Lo schema è formato da un’insieme di informazioni che ci permette di
comprendere una parte della realtà. Esso è una struttura cognitiva di rappresentazione della realtà
che organizza in modo economico e funzionale gli elementi principali dell’evento o delle
informazioni in esso rappresentate. Si forma attraverso la presentazione ripetuta di esperienze
simili, dalla quale è possibile astrarre caratteristiche comuni. Gli schemi sono contenuti nella
memoria a lungo termine. Rumelhart e Norman (1978) nella loro teoria degli schemi, descrivono
l’apprendimento come un cambiamento dello stato della conoscenza del soggetto che può
avvenire secondo 3 modalità:


Per accrescimento: si verifica quando si inseriscono informazioni nuove nella struttura di
uno schema preesistente. Si tratta, dunque, di un apprendimento che aggiunge nuovi casi
agli schemi già appresi, senza che questi ultimi vengano sottoposti ad alcuna modifica. Ad
esempio posso avere lo schema di “mammiferi” basato su due variabili: la riproduzione
(che specifica che questi animali fanno nascere i loro piccoli vivi, senza deporre uova) e
l’habitat (vivono sulla terra ferma). Anche se non ho mai visto un orso dal vivo, posso
inserirlo, sulla base di questo schema, tra i mammiferi perché possiede tutte e due le
caratteristiche previste dalle categorie del mio schema;
Per sintonizzazione: avviene adattando e affinando lo schema già in possesso del soggetto.
Ciò accade grazie a ripetute applicazioni di tali schemi che si modificano lentamente e
progressivamente via via che i “casi” nuovi rendono le “variabili” sempre più potenti, ossia
capaci di adattarsi alle nuove situazioni a cui vengono applicate. Le nuove informazioni

sono solo parzialmente incongruenti con quelle che noi avevamo e di conseguenza gli
schemi vengono leggermente modificati. Nel nostro esempio, posso scoprire che la balena,
che vive in mare, non fa nascere i piccoli tramite uova e quindi devo prevedere che nella
categoria “habitat” dello schema dei mammiferi sia inclusa la possibilità che vivano non
solo in ambiente terrestre ma anche in quello acquatico (ovviamente è cognitivamente più
costoso apprendere per sintonizzazione, piuttosto che per accrescimento);
Per ristrutturazione: si realizza si realizza quando lo schema preesistente si rivela
inadeguato a integrare le informazioni nuovi in corso di elaborazione. Si differenzia
radicalmente dall’apprendimento per accrescimento in quanto, mentre quest’ultimo
aggiunge “casi” a una struttura di categorie già disponibile, il primo impone una
ristrutturazione delle categorie. Ad esempio, l’ornitorinco depone le uova, vive sia in acqua
che sulla terra ferma e allatta i suoi piccoli, quindi nel mio schema di “mammifero” devo
sintonizzare la categoria “riproduzione” includendo la possibilità che avvenga con o senza
la deposizione di uova. Successivamente sarà necessario ristrutturare lo schema inserendo
una nuova categoria “allattamento”, elemento cruciale che permette di distinguere i
mammiferi dai pesci.
Problem solving
Si tratta di un processo cognitivo messo in atto quando si ha a che fare con un problema per
cui non si ha a disposizione in modo evidente un metodo per risolverlo. I problemi possono
essere categorizzati come ben definiti in cui la procedura è chiaramente esplicitata, mal definiti
se invece la procedura è più difficile da individuare. Possono anche essere classificati come
routinari se il soggetto possiede già una procedura per affrontarli, non routinari quando invece
si deve inventare una nuova procedura risolutiva. Il problem solving può essere analizzato
nelle componenti dei processi cognitivi che includono:
-
-
rappresentazione: avviene quando il solutore del problema converte il problema dal suo
formato “superficiale” in una rappresentazione mentale interna nei termini di una situation
model;
pianificazione: implica un metodo per risolvere il problema come ad esempio suddividerlo
in parti;
esecuzione: quando il solutore applica la procedura scelta;
monitoraggio: consiste nel valutare l’appropriatezza e l’efficacia della soluzione applicata.
L’apprendimento significativo è quello che avviene attraverso la soluzione di problemi e che
consente di trasferire le strategie elaborate svolgendo una certa attività a nuovi problemi da
risolvere. La strategia consiste in una serie di operazioni cognitive tra loro interdipendenti che
vengono realizzate per affrontare un compito, che punta a raggiungere un obiettivo cognitivo (es.
comprendere, memorizzare,ecc.)
La teoria dell’istruzione
Mayer e Wittrock definiscono il concetto di apprendimento significativo rifacendosi al modello del
Select Organize Integrate (SOI) , che riprende le 3 componenti dell’architettura della mente di
matrice cognitivista: memoria sensoriale, di lavoro e a lungo termine. Secondo questo modello
l’apprendimento significativo richiede l’attivazione di 3 processi cognitivi principali:
1. selezionare le rilevanti provenienti dal materiale da apprendere;
2. organizzare mentalmente le informazioni in una struttura coerente;
3. integrare mentalmente la struttura organizzata con l’informazione già disponibile nella
memoria a lungo termine allo scopo di utilizzarla per agire immediatamente o per
immagazzinarla nella memoria a lungo termine.
Mayer e Wittrock individuano 7 metodi coerenti con gli assunti del modello SOI:
1. Metodi che riducono il carico cognitivo: i 3 processi cognitivi avvengono nella memoria di
lavoro che non ha tuttavia una capacità illimitata. Due metodi consentono di affrontare
questo problema: l’automatizzazione orientata a favorire la padronanza dei processi di
basso livello in modo da poter lavorare senza problemi ad alto livello (es. in un problema di
matematica l’insegnante è interessato che il soggetto impari a memoria la formula in modo
da applicarla in modo veloce ed automatizzato ) ; la rimozione dei vincoli in cui il compito è
presentato in modo da non richiedere l’uso delle componenti di basso livello, ma solo
quelle di alto livello, cioè di monitoraggio dei passaggi (uso della calcolatrice per i singoli
calcoli);
2. Metodi basati su strutture: si tratta di metodi che prevedono la manipolazione di oggetti
che possono innescare l’attivazione dei 3 processi cognitivi del modello SOI. L’obiettivo è
aiutare chi apprende a creare connessioni tra una situazione concreta e familiare e un
livello di conoscenza più astratto. Tali metodi sono spesso fondanti su ambienti di
apprendimento basati sul computer.
3. Metodi basati sull’attivazione di schemi: sono orientati a facilitare l’integrazione tra
conoscenze e nuove informazioni mediante l’attivazione di schemi già in possesso del
soggetto che apprende e sono particolarmente efficaci con soggetti non esperti. Abbiamo 3
tipologie: organizzatori anticipati (ovvero materiale informativo sul tema presentato prima
di una lezione), i pre-training (esperienze concrete presentate prima di una sessione di
studio), le segnalazioni (l’aggiunta di materiale illustrativo che metta in evidenza le
connessioni tra il contenuto del testo e le conoscenze già in possesso del lettore);
4. Metodi generativi: richiedono al soggetto che apprende di generare esplicitamente
relazioni tra la conoscenza che ha già a disposizione e l’informazione che deve essere
appresa. Tra questi troviamo: i metodi elaborativi (nei quali è esplicitamente chiesto allo
studente di spiegare come il nuovo materiale da apprendere si ponga con quanto egli già
sa), prendere appunti (per sintetizzare le informazioni nuove e creare nessi con quanto già
noto), porsi domande (per ogni paragrafo letto cercare risposte nel testo e in ciò che già si
sa);
5. Metodo della scoperta guidata: è finalizzato all’attivazione dei processi cognitivi di chi
apprende mediante la risposta ad un problema da risolvere. Tali metodi sono più in linea
con il modello SOI, rispetto a quello della scoperta pura (che tende a favorire processi di
integrazione, stimolando la ricerca di conoscenze nella memoria a lungo termine
integrandole con le nuove informazioni, ma non favorisce la selezione di info) e rispetto a
quello dell’esposizione alla lezione del docente (che tende a favorire la selezione di info ma
non la loro integrazione con quanto il soggetto già sa, in quanto non è particolarmente
stimolato a dare un senso al materiale da apprendere). Solo il metodo della scoperta
guidata, rispetto agli altri due, facilita i 3 processi del modello SOI.
6. Metodi basati sul modellamento: si fondano sull’azione di un esperto che mostra ad un
non esperto come risolvere il problema e in alcuni casi fornisce spiegazioni sui vari passaggi
(es. fornire esempi, apprendistato);
7. Metodi di insegnamento di abilità di pensiero: l’insegnamento diretto di abilità di problem
solving può essere articolato su 2 direttrici: a) l’insegnamento di abilità di problem solving
generale basato su corsi o programmi che tendono a promuovere abilità non legate a
contenuti specifici; b) l’insegnamento di abilità di dominio specifiche.
Cognitivismo e Costruttivismo
L’idea di fondo dei teorici degli schemi è che la nostra mente è un sistema complesso di
elaborazione delle informazioni, ciò che guida sono le strutture di rappresentazione della
conoscenza. Ogni nuovo dato viene integrato e incorporato nelle strutture preesistenti che sono
pertanto arricchite, modificate o ristrutturate anche radicalmente da nuove info. È da precisare
che alcuni studiosi preferiscono parlare di “costruzione della conoscenza” anziché di
apprendimento, proprio per differenziarsi dalla learning theory, tipica del comportamentismo, e
sottolineare il ruolo attivo del soggetto che non registra passivamente quanto gli viene trasmesso
dall’ambiente,ma elabora le info trasformandole. È a questo riguardo che si parla di
COSTRUTTIVISMO . Se il costruttivismo si è interessato quasi esclusivamente agli aspetti cognitivi
dell’apprendimento, il costruttivismo ha ampliato il campo di interesse, considerando anche le
dimensioni motivazionali, culturali e sociali. Il costruttivismo vede il soggetto come attivo
costruttore della sua realtà,mentre il cognitivismo cercava di modellizzare la mente, cioè cercava
un modello in cui poter incasellare il funzionamento cognitivo di tutti gli esseri umani,
prescindendo dai fattori contestuali. Un costruttivista cerca, invece, di capire il significato e la
costruzione che il singolo individuo può fare di quella informazione. Costruttivismo e cognitivismo
non sono in antitesi, uno si focalizza più verso una modellizzazione che sia valida per tutti, l’altro
su una costruzione attiva da parte dell’individuo.
Rapporto sviluppo-apprendiemnto
Anche il cognitivismo, come il comportamentismo, non si interessa agli stadi dello sviluppo, pur (a
differenza del comportamentismo) considerandoli compatibili, come nel caso delle teorie
neopiagetiane. L’oggetto di ricerca sono le modalità di rappresentazione ed elaborazione delle
info, nonché i processi mentali che migliorano le abilità cognitive. Emerge soprattutto l’importanza
della task analysis per la comprensione del pensiero dell’individuo. È dall’analisi dettagliata di
quanto il compito richiede cognitivamente che si possono ricavare elementi che aiutano a
comprendere le difficoltà di elaborazione manifestate da uno studente.
Metodo di ricerca
Il cognitivismo condivide con il comportamentismo l’esigenza di adottare metodi sperimentali
rigorosi e precisi . Vengono compiuti studi di laboratorio per esaminare aspetti diversi
dell’elaborazione delle info durante l’esecuzione dei compiti. Svolgendo le ricerche in situazioni
artificiali il cognitivismo più ortodosso mostra però poco interesse al contesto dell’apprendimento:
l’individuo viene concepito come una mente razionale, isolata e decontestualizzata.
Successivamente, però, gli studiosi hanno sentito l’esigenza di compiere studi “ecologicamente
validi” basati sull’uso di materiali e compiti più realistici di quelli impiegati in laboratorio, pur nel
rispetto della rigorosità metodologica.
Cognitivismo in sintesi







Focalizza e specifica le attività mentali che intervengono tra la presentazione di stimoli e la
produzione di risposte;
I processi di cognizione implicano più attività separate che operano in concreto; si possono
distinguere ma se prese isolatamente non rendono conto della dinamica della cognizione
umana;
Molti aspetti della cognizione umana sono attivi e costruttivi;
Il computer come metafora per la mente umana consente di generare ipotesi sulla
cognizione umana;
Le info sono rappresentate internamente per poter essere elaborate; la rappresentazione
varia in base alla natura e al livello di astrazione;
L’elaborazione è un’attività mentale che genera, manipola ,trasforma, conserva
rappresentazioni, in sequenza o simultaneamente;
Solo un insieme limitato di conoscenze è attivo in un determinato momento (memoria di
lavoro), in quanto le risorse che abbiamo a disposizione per prestare attenzione
consapevole sono limitate, ma fortunatamente molti processi avvengono
automaticamente .
Le critiche al cognitivismo

La messa a punto di teorie che sostengono l’esistenza di distinti schemi di memoria implica
necessariamente l’introduzione di dispositivi di controllo, che a loro vola devono essere
controllati con il rischio di regressione all’infinito. È il cosiddetto limite dell’homunculus dei
cognitivisti: ovvero la tentazione di ipotizzare l’esistenza di un’entità interiore che
dovrebbe supervisionare tutti i dispositivi di memoria o di controllo per prendere decisioni,
ma che a sua volta dovrebbe essere controllata da un’altra entità interiore e così via. Tale
obiezione proviene da un approccio chiamato “connessionismo” che postula, invece, che la
memoria sia una funzione distribuita a livello cerebrale e che i suoi processi avvengano in
parallelo, senza bisogno di sistemi di controllo gerarchicamente superiori.


La scarsa considerazione rivolta all’ambiente ecologico in cui il soggetto opera. Lo stesso
Neisser esprimeva tale consapevolezza negli anni ’70, in cui poneva il problema di come
rendere i modelli teorici elaborati compatibili con la vita reale e quotidiana delle persone,
tenendo conto del modo in cui esse ragionano non a livello astratto ma in situazioni
concrete.
Scarsa attenzione è attribuita al contesto sociale e culturale in cui i processi cognitivi
vengono messi in gioco ( critica rivolta dal socio-costruttivismo) , infatti, gli individui
descritti dal cognitivismo sembrano “funzionare cognitivamente” tutti allo stesso modo, a
prescindere dalla cultura di appartenenza e dalla situazione concreta in cui si trovano ad
operare.
Piaget e Vygotskij
Piaget e Vygotskij rappresentano due capisaldi imprescindibili per la psicologia dell’educazione. La
disamina di questi due autori aiuta a comprendere il rapporto tra sviluppo e apprendimento, il che
significa definire quando e come dispiegare l’azione educativa, come e quando l’insegnante può
intervenire garantendo il massimo dell’efficacia. Nel riflettere sul rapporto tra sviluppo e
apprendimento le domande che ci si pone sono: occorre aspettare un livello di sviluppo adeguato
e poi calibrare l’intervento educativo in base al livello accertato? Oppure l’interevento educativo
può (o deve) anticipare lo sviluppo, in modo da sostenerlo e promuoverlo? Piaget e Vygotskij sono
sicuramente gli autori che più di tutti consentono una riflessione articolata relativamente al
rapporto tra strategie di insegnamento, di apprendimento e processi di sviluppo.
Piaget: assimilazione, accomodamento, equilibrazione e teoria dello
sviluppo
Jean Piaget (Neuchatel, 1896- Ginevra, 1980) nasce da una famiglia borghese di intellettuali, con il
padre docente universitario di letteratura medioevale. Da giovanissimo si appassiona agli studi di
scienze naturali e degne di nota sono le sue osservazioni sul passero albino che rappresentano
l’oggetto della sua prima pubblicazione. Ancora liceale, collabora con il Museo di scienze naturali
della sua città natale curando in particolare la sezione dei molluschi da cui è affascinato a causa
della loro capacità di adattamento. Incomincia a interessarsi alla psicologia dell’infanzia grazie
all’influenza di Claparède, interesse che si consolida durante il suo soggiorno presso l’Università di
Ginevra e di Parigi, dove lavora per l’istituto creato da Alfred Binet, collaborando allo sviluppo del
famoso test per la misurazione del quoziente intellettivo (QI). Al suo rientro in Svizzera gli viene
offerta la direzione dell’Istituto Jean-Jacques Rousseau di Ginevra e simultaneamente insegna
Psicologia, Sociologia e Storia delle scienze sia a Ginevra che a Neuchatel. Sposa una sua
studentessa, Valentine Chatenay ,da cui ha 3 figli che divengono oggetto di osservazione e studi, la
vera fonte da cui Piaget ha tratto molte delle sue intuizioni e idee. Ci si può chiedere come mai
Piaget passi dall’osservazione di organismi semplici allo studio dei bambini. Il punto comune sta,
per Piaget, nel meccanismo che permette a questi organismi l’acquisizione della conoscenza, in
altre parole Piaget osserva molluschi, passeri e bambini sempre con la stessa domanda in mente:
come fanno a comprendere progressivamente la realtà entro cui vivono e agiscono, allo scopo di
adattarvisi sempre meglio? Così come aveva osservato gli organismi semplici mettere in atto
precisi meccanismi di adattamento al loro ambiente, ha successivamente osservato i bambini
constatando come si andassero a formare idee precise su come funziona il mondo. Ad esempio,
era colpito dalla convinzione espressa dai bambini che la luna segua le persone di notte durante le
loro passeggiate, oppure che i sogni entrino dalle finestre. Da dove traggono queste idee i
bambini? Non possono essere innate, perché altrimenti resterebbero immutate nel corso dello
sviluppo né tanto meno possono essere apprese dagli adulti, perché gli adulti interpretano questo
fenomeno in maniera diversa. Sono costruite dai bambini stessi, grazie all’incontro dinamico tra le
loro strutture mentali e le esperienze che realizzano nel mondo. Questa spiegazione contiene in sé
due aspetti importanti strettamente connessi tra loro:


La visione della struttura della mente come modificabile con il tempo e con l’esperienza.
Questo implica che la differenza tra le capacità mentali degli adulti e dei bambini non è
solo quantitativa ma piuttosto qualitativa, consistente in una diversa organizzazione della
struttura cognitiva determinata proprio dall’esperienza. La struttura cognitiva di base,
secondo Piaget, è lo schema, ovvero un insieme di comportamenti, azioni, informazioni,
interpretazioni capaci di guidare comportamenti intelligenti, ovviamente adeguati all’età
considerata. Ad esempio, in un bambino piccolo potremo rintracciare lo schema di che
cosa sia un cane e come ci si comporta di fronte ad esso; mentre in un adulto lo schema
comprende anche il prendersi cura del cane o, eventualmente, come difendersi da un cane
aggressivo.
La capacità dei bambini di modificare gli schemi in base alle loro esperienze, ovvero la
capacità di essere “costruttivi”. Il costruttivismo dei bambini si esplica attraverso 2 processi
di natura biologica: l’assimilazione e l’accomodamento. L’assimilazione lascia lo schema
inalterato preferendo, invece, elaborare le esperienze in modo da renderle spiegabili con lo
schema disponibile; ciò avviene quando le informazione nuove ricevute sono congruenti o
parzialmente congruenti con lo schema posseduto. Poniamo il caso di uno schema che
permetta al bambino di interpretare il meccanismo per cui certi oggetti galleggiano e quelli
pesanti affondano. Immaginiamo ora che un bambino che possieda tale schema si trovi di
fronte ad un oggetto leggero che affonda, ad esempio una barchetta di carta. Nel tentativo
di spiegare questo nuovo evento, imputerà l’assorbimento dell’acqua da parte della carta
l’aver reso la barchetta pesante e, di conseguenza, spiegherà l’affondamento senza
modificare lo schema iniziale ma assimilando la nuova informazione (la carta bagnata fa
aumentare il peso) entro lo schema posseduto in quel momento. L’accomodamento,
invece, induce un cambiamento dello schema: i dati osservati nel mondo non sono più
spiegabili in nessun modo con lo schema attuale che necessariamente viene modificato.
Per restare nell’esempio, immaginiamo che lo stesso bambino durante una passeggiata al
porto osservi una nave: un oggetto pesante che galleggia. Lo schema per cui il
galleggiamento/affondamento degli oggetti dipende dal loro peso viene definitivamente
compromesso e occorre elaborarne uno nuovo, “accomodando” quello in uso. Le funzioni
di assimilazione e accomodamento operano in modo sinergico l’una con l’altra, così da
creare sempre nuovi equilibri tra il rafforzamento degli schemi già posseduti e la loro
evoluzione verso nuovi schemi con sempre maggiore poter esplicativo della realtà. Questo
meccanismo è definito da Piaget “equilibrazione” ed è il principale fattore ch spiega come
mai alcuni bambini progrediscono più velocemente di altri.
Piaget traccia così una linea di sviluppo che vede le capacità cognitive dei bambini inizialmente
molto diverse da quelle degli adulti, anche se progressivamente le capacità cognitive dei bambini e
degli adulti sono destinate a divenire sempre più simili tra loro. Questa progressione è possibile
perché i bambini tendono a staccarsi sempre più dall’ancoraggio agli oggetti e dallo loro
manipolazione, per progredire verso forme di pensiero simboliche, in cui non è più necessario che
l’oggetto sia fisicamente presente ma può benissimo anche essere solo immaginato e pensato,
così come sanno fare bene gli adulti. Sono questi i fondamenti che hanno permesso a Piaget di
elaborare una teoria dello sviluppo, fondata su 4 stadi:


Senso motorio (0-2 anni) Come suggerisce il nome, il bambino utilizza i sensi e le abilità
motorie per esplorare e relazionarsi con ciò che lo circonda, evolvendo gradualmente dal
sottostadio dei meri riflessi e dell'egocentrismo radicale (l'ambiente esterno e il proprio
corpo non sono compresi come entità diverse) a quello dell'inizio della rappresentazione
dell'oggetto e della simbolizzazione, passando attraverso periodi intermedi di utilizzazione
di schemi di azione via via più complessi.;
Preoperatorio ( 2-7/8 anni) In questo stadio il bambino è in grado di usare i simboli. Un
simbolo è un'entità che ne rappresenta un'altra. Un esempio è il gioco creativo nel quale il
bimbo usa, per esempio, una scatola per rappresentare un tavolo, dei pezzetti di carta per
rappresentare i piatti ecc. Il gioco in questo stadio è appunto caratterizzato dalla
decontestualizzazione, dalla sostituzione di oggetti per rappresentarne altri e dalla
crescente integrazione simbolica. Anche l'imitazione differita rivela la capacità di usare i
simboli, come pure il linguaggio verbale usato per riferirsi a esperienze passate,
anticipazioni sul futuro o persone e oggetti non presenti sul momento. Superato
l'egocentrismo radicale del periodo senso-motorio, in questo stadio permane però
un egocentrismo intellettuale, ovvero il punto di vista delle altre persone non è
differenziato dal proprio, il bambino cioè si rappresenta le cose solo dal proprio punto di
vista. Per cui ad esempio spiegherà che "l'erba cresce così, quando io cado, non mi faccio
male". Crede che tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi pensieri; tipicamente se
racconta una storia lo farà in modo che un ascoltatore che non conosce la storia non capirà
nulla. Un famoso esperimento per verificare l'egocentrismo percettivo è l'«esperimento
delle tre montagne», in cui si presenta al bambino un modellino con tre montagne visibili
dal lago di Ginevra (quindi un paesaggio a loro ben noto) e gli si chiede come queste
montagne vengano viste dalla bambola posta in un punto di osservazione diverso dal suo;
tipicamente il bambino nella fase egocentrica (fino ai 6 anni) dirà che la scena vista dalla
bambola è uguale a come la vede lui. Il ragionamento in questo stadio non è né deduttivo
né induttivo, ma trasduttivo o precausale, dal particolare al particolare, cioè due eventi
sono considerati legati da un rapporto di causa-effetto se avvengono nello stesso tempo.


Ciò si traduce in una modalità di comunicazione piena di "libere associazioni", senza alcuna
connessione logica, in cui il ragionamento si sposta da un'idea all'altra rendendo pressoché
impossibile una ricostruzione attendibile di eventi;
Operatorio concreto (dai 7/8 anni agli 11/12 anni) Il termine operazioni si riferisce a
operazioni logiche o principi utilizzati nella soluzione di problemi. Il bambino in questo
stadio non solo utilizza i simboli ma è in grado di manipolarli in modo logico. Un'importante
conquista di questo periodo è l'acquisizione del concetto di reversibilità, cioè che gli effetti
di un'operazione possono essere annullati da un'operazione inversa. Fra 2 e 5 anni il
bambino non classifica gli oggetti secondo una proprietà ma li distribuisce a seconda della
vicinanza spaziale. A 5-6 anni inizia a raggrupparli secondo una caratteristica. Prima del
salto operatorio il bambino non è in grado di distribuire in serie più di 2 oggetti, ma questa
non è un'incapacità come sostiene Piaget, quanto piuttosto un limite della memoria a
breve termine. Intorno ai 6/7 anni il bambino acquisisce la capacità di conservazione delle
quantità numeriche, delle lunghezze e dei volumi liquidi. Per conservazione si intende la
capacità di comprendere che la quantità rimane tale anche a fronte di variazioni di forma. Il
bambino nello stadio pre-operatorio, per esempio, è convinto che la quantità di liquido
contenuto in un contenitore alto e stretto è maggiore di quella contenuta in un contenitore
basso e largo (ma dotato dello stesso volume) e a nulla varranno dimostrazioni e travasi.
Un bambino nello stadio delle operazioni concrete è invece in grado di coordinare la
percezione del cambio di forma con il giudizio ragionato che la quantità di liquido spostato
è la stessa, di "conservare" quindi il volume liquido. Intorno ai 7/8 anni il bambino sviluppa
la capacità di conservare i materiali. Prendendo una palla di creta e manipolandola per
trasformarla in tante palline il bambino è conscio del fatto che riunendo le palline la
quantità sarà invariata. Questa capacità prende il nome di reversibilità. Intorno ai 9/10 anni
è raggiunto anche l'ultimo passo della conservazione, la conservazione della superficie.
Messo di fronte a dei quadrati di cartoncino si rende conto che occupano la stessa
superficie sia che siano messi tutti vicini sia che siano sparsi;
Operatorio formale (dopo gli 11-12 anni) Il bambino che si trova nello stadio delle
operazioni concrete ha delle difficoltà ad applicare le sue competenze a situazioni astratte,
cioè non presenti nella sua esperienza. Se un adulto gli dice: "Non prendere in giro Giulio
perché è grasso, cosa diresti se lo facessero a te?" la sua risposta sarebbe "Io non sono
grasso e perciò nessuno mi può prendere in giro". Calarsi in una realtà diversa dalla sua è
un'operazione troppo astratta. A partire dai 12 anni il bambino riesce a formulare pensieri
astratti: si tratta del cosiddetto pensiero 'ipotetico-deduttivo', grazie al quale il bambino
può riferirsi mentalmente ad oggetti non presenti nella sua esperienza, ma soltanto
ipotetici, e ricavare da essi tutte le possibili conseguenze logiche. Il soggetto è ora in
possesso degli stessi schemi di pensiero dell'adulto ed in particolare dello scienziato, che
per Piaget rappresenta il punto terminale dello sviluppo cognitivo umano.
Questi stadi disegnano una parabola di progressivo affrancamento, da parte del bambino, dal
bisogno di un contatto fisico con il mondo e di manipolare concretamente gli oggetti verso il
pensiero logico-formale, seguendo un percorso biologicamente definito, di cui l’attore principale è
il bambino stesso che riesce a far evolvere i meccanismi cognitivi sottostanti a ciascun periodo,
grazie anche alle stimolazioni ambientali e sociali a cui è esposto. Muoversi lungo questa linea
evolutiva significa, secondo Piaget, passare da un iniziale pensiero egocentrico, che non permette
di immaginare un mondo diverso da quello proprio, mancando quindi di distinguere il proprio
punto di vista da quello altrui, a un pensiero capace di ragionare per simboli e di rappresentarsi
l’altro. Durante le prime fasi dello sviluppo il mondo esterno, gli altri e gli oggetti che lo
compongono esistono in quanto prolungamenti del Sé; ad esempio un certo giocatolo esiste solo
quando il bambino lo vede e lo tocca e viene considerato come parte di Sé, senza riuscire a
distinguere i confini tra il Sé e l’altro da sé. Il passaggio da uno stadio all’altro implica il progressivo
riconoscimento dell’altro come diverso da sé, portatore di punti di vista differenti dal proprio.
Piaget dimostra queste ipotesi con alcuni test, ad esempio quello “delle tre montagne”.
Piaget può essere definito un cognitivista perché quando individua gli stadi si sta occupando di
funzioni mentali. Piaget, però, più che il funzionamento cognitivo aveva approfondito lo sviluppo
attraverso l’osservazione del bambino. Egli descriveva dal punto di vista pratico ciò che osservava
nel bambino e l’avanzare del suo sviluppo. Gli strumenti da lui usati erano principalmente:
-
osservazione ;
-
colloquio;
-
compiti (dove egli faceva delle domande ai bambini).
Il ruolo dell’apprendimento per Piaget
Secondo Piaget le idee nascono dall’incontro tra le strutture mentali e l’esperienza che i bambini
realizzano nel mondo. A suo parere l’apprendimento si adegua allo sviluppo: occorre accertarsi
prima in quale periodo si trovi il bambino, quale livello di sviluppo abbia raggiunto, quali sono le
sue capacità cognitive maturate e, conseguentemente, progettare e realizzare azioni di
interevento educativo adeguate. Seppure i bambini siano capaci sin dalla nascita di sviluppare
schemi sulla base di ciò che sanno fare spontaneamente e in modo innato, il contesto sociale, gli
adulti e la scuola contribuiscono enormemente a strutturare situazioni e stimoli in grado di
sollecitare e indirizzare in modo adeguato questa naturale capacità del bambino. Pertanto la
conoscenza non va semplicemente trasmessa ma occorre creare situazioni in cui possa essere
acquisita attivamente, costruita e ricostruita da chi apprende. Per Piaget il modo migliore per
ottenere questo effetto è permettere ai bambini di manipolare gli oggetti, in quanto è proprio
attraverso l’azione sugli oggetti che diventa possibile acquisire efficacemente nuove informazioni
e conoscenze. L’adulto deve comprendere quando un bambino è pronto a svolgere una certa
azione, a ricavarne dati utili e utilizzabili, quando i requisiti necessari sono maturi. In altre parole,
l’adulto deve saper riconoscere il livello cognitivo e intellettivo del bambino, gli schemi attivi in
quel momento, lo stadio in cui si trova e adeguare di conseguenza il suo intervento. I bambini
possono apprendere nozioni e concetti che richiedono quelle abilità cognitive che
contraddistinguono il periodo in cui sono, mentre è inutile proporre loro attività e concetti che
richiedono abilità più alte. L’educatore deve cercare di entrare il meno possibile nel processo di
apprendimento, ma non per questo il suo ruolo è meno importante. Il suo compito è quello di
predisporre un ambiente facilitante nel quale l’individuo può fare le sue esperienze, avendo
fiducia nella capacità di imparare da solo del bambino. La sua funzione è quella di un facilitatore
dell’apprendimento attivo, perché il bambino deve esplorare autonomamente l’ambiente per
accrescere il proprio sviluppo cognitivo. Di conseguenza, i curricoli ispirati alle teorie piagetiane
propongono una filosofia centrata sullo studente a cui è chiesto di essere attivo costruttore delle
proprie conoscenze. Questo implica allestire ambienti stimolanti che diano la possibilità di
assimilare e accomodare attraverso l’esplorazione, la manipolazione, la sperimentazione, il porre
domande e cercare da soli le risposte. Gli insegnanti dovrebbero occuparsi di preparare e
predisporre situazioni e occasioni stimolanti che permettano agli studenti di scoprire e imparare
autonomamente. Adulti, insegnanti e formatori devono avere fiducia che i bambini siano in grado
di imparare da soli e devono preoccuparsi di capire quali siano gli stimoli e le situazioni per loro
adeguati in modo da sostenere lo sviluppo ma anche garantire una formazione intellettuale e
morale. Infatti, le regole e i sentimenti morali non sono, secondo Piaget, caratteristiche innata, ma
piuttosto si formano gradualmente e hanno bisogno di un ambiente sociale adeguato, che
favorisca un’elaborazione attiva da parte del soggetto. Per ottenere questo risultato non ci si può
solo limitare a una semplice trasmissione o imposizione di regole e conoscenze precostituite. È in
tal senso che Piaget parla di “diritto all’educazione”, ovvero, il diritto di ciascun bambino alla
costruzione delle proprie strutture mentali e dei propri principi morali, in interazione con un
ambiente sociale e formativo (la scuola) che offra metodi e tecniche adeguate.
Vygotskij : il problema della conoscenza, il materialismo storico e le
zone di sviluppo prossimale
Lev Semënovič Vygotskij, nasce nello stesso anno di Piaget (1896) a Orsha , una cittadina della
Bielorussia e muore a Mosca a soli 38 anni (1934). La sua vita potrebbe essere divisa in 2 parti: la
prima parte dalla nascita fino al 1924, l’anno in cui comincia ad essere considerato uno dei
maggiori intellettuali russi, e dal 1924 fino alla sua precoce scomparsa dovuta alla tubercolosi. La
prima parte della sua biografia vede crescere un ragazzo felice, un fine e appassionato intellettuale
che fa parte di una famiglia numerosa e benestante di origine ebraica. Essere ebrei a quei tempi in
Russia significava essere discriminati e vivere in condizioni di restrizioni (ad es. era stabilita una
quota fissa di ebrei che poteva accedere agli studi universitari). Ma grazie alle condizioni agiate
della famiglia, Vygotskij riceve una buona istruzione, frequenta scuole private e studia con un
mentore che lo abitua a sofisticati ragionamenti socratici. Mostra ottime abilità di discussione e,
ancora adolescente, sembra possedere capacità di grande oratore, tanto da guadagnarsi il
nomignolo di “piccolo professore”. Più tardi dopo essersi iscritto alla facoltà di Medicina, decide di
conseguire la Laurea in Legge all’Università di Mosca nel 1917 e coltiva un grande interesse per la
letteratura, la linguistica, l’arte, il teatro, le scienze sociali, la filosofia e la psicologia.
Probabilmente, proprio l’interesse per il linguaggio e la letteratura costituisce la base del suo
lavoro relativo allo sviluppo cognitivo. Subito dopo essersi laureato, Vygotskij insegna letteratura
in una città di provincia della Russia occidentale, dove tiene anche lezioni e laboratori di Estetica,
Storia dell’arte e Scienze. Durante questi anni incontra bambini con deficit congeniti quali cecità,
sordità e ritardi mentali e si appassiona nel cercare un metodo per aiutare questi ragazzi a
realizzare il loro potenziale. Il punto di svolta nella vita di Vygotskij, da cui prende avvio la seconda
parte della sua storia, scaturisce dal suo intervento nel 1924 al Congresso nazionale di psiconeurologia, occasione in cui Alexander Lurjia resta colpito dalla genialità di quel giovane
sconosciuto che parla del difficile rapporto tra riflessi condizionati e comportamento cosciente.
Vygotskij diventa l’ispiratore di una nuova psicologia basata sul marxismo, che aspira a contribuire
alla costruzione di un nuovo Stato socialista. Dalla tradizione marxista Vygotskij prende l’idea del
materialismo storico e la applica alla struttura della psiche. Così come per Marx le condizioni
economiche e il tipo di produzione determinano l’insieme dei processi spirituali e culturali che
costituiscono la civiltà umana (quindi anche la politica, la morale, la religione, l’arte, ecc.)
similmente per Vygotskij il contesto storico-sociale ed economico determina la struttura
psicologica degli individui. In aperto contrasto con la psicologia del profondo di stampo freudiano,
Vygotskij rifiuta l’idea di una psiche determinata in età precoce, radicata nel passato, governata da
leggi inconsce e inconsapevoli. La struttura psicologica degli esseri umani si determina e si
modella, invece sulla base dell’agire nel mondo, manipolando oggetti e svolgendo azioni
intenzionalmente rivolte verso la produzione. Lo studioso ha individuato nella relazione tra
individuo e ambiente, mediata dalla cultura, il cardine dello sviluppo cognitivo, di cui ha distinto la
matrice biologica da quella culturale. La matrice biologica, che determina la maturazione organica
degli esseri viventi, riguarda processi psichici elementari (ad es. la percezione), contraddistinti da
una risposta immediata verso gli stimoli ambientali, ossia una risposta non soggetta a controllo. La
matrice culturale, al contrario, si riferisce alle funzioni mentali superiori, tipiche degli esseri viventi
umani, sviluppate attraverso l’interazione dell’individuo con gli strumenti della propria cultura. Tali
funzioni (ad es. il linguaggio) hanno infatti un’origine sociale e sono oggetto di controllo e
consapevolezza da parte dell’individuo. Lo studioso rimprovera alla psicologia a lui contemporanea
di studiare il comportamento individuale in laboratorio, separando la cognizione dall’interazione
sociale in cui si manifesta, come se quest’ultima derivasse dalla prima. Il processo sociale
evidenziato da Vygotskij riguarda il rapporto tra individui coinvolti nell’interazione in piccoli
gruppi, mediata dall’uso di strumenti prodotti dalla cultura e trasmessi di generazione in
generazione, di cui devono appropriarsi nel corso dell’ontogenesi. Lo psicologo russo ha distinto gli
strumenti tecnici da quelli psicologici. Gli strumenti tecnici sono rivolti al mondo esterno e
attraverso essi ci adattiamo all’ambiente (es. una penna); gli strumenti psicologici (scrittura,
calcolo,linguaggio, opere d’arte, mappe,ecc.) detti anche segni, sono più rivolti verso l’interno per
influenzare e controllare psicologicamente il comportamento e sono decontestualizzati dal
contesto che li ha inventati (ad es. i fenici inventarono la scrittura -strumento psicologicoesclusivamente per fini commerciali, ma noi oggi la usiamo per molto altro, quindi si è
decontestualizzata rispetto al contesto in cui è nata). I processi mentali hanno uno sviluppo
culturale in quanto vengono trasformati dagli strumenti psicologici: ad esempio, il linguaggio
scritto usato per ricordare meglio qualcosa, trasforma la memoria stessa oltre che per aiutarla,
mettendo l’individuo in grado di essere consapevole di tale funzione e di poterla controllare. Lo
sviluppo cognitivo, contrassegnato da una capacità sempre più forte di autoregolazione , è dato
dall’interiorizzazione di strumenti psicologici dalla duplice natura sociale: sono il prodotto di una
cultura che si manifesta nell’evoluzione delle attività sociali e sono mezzi utilizzati inizialmente sul
piano iterpsicologico in contesti di interazione sociale. Secondo Vygotskij, la psicologia deve
occuparsi del problema della formazione della coscienza (invece che dell’inconscio) se vuole
comprendere quei comportamenti complessi, tipici degli esseri umani, e non limitarsi a studiare
comportamenti vicini alla riflessologia come quelli studiati dai comportamentisti, oppure processi
inconsci come quelli indagati dalla psicoanalisi e dalla psicologia dinamica. È l’azione svolta con il
supporto di strumenti che crea il pensiero. Si tratta di azioni che entrano a far parte delle Funzioni
Psichiche Superiori (FPS), specifiche degli esseri umani, che si contrappongono alle Funzioni
Psichiche Inferiori (FPI), che invece accomunano tutti gli esseri viventi. La relazione tra questi due
tipi di funzioni non mai stata chiarita in modo definitivo da Vygotskij: per certi versi le FPI
sembrano prerequisiti per le FPS (ad esempio la capacità di memorizzare in modo involontario è il
presupposto per sviluppare capacità di ricordo volontario e controllato; a volte, invece, le FPS sono
descritte come indipendenti dalle FPI e sembrano svilupparsi attraverso attività formali e
socialmente strutturate, come quelle che avvengono in contesti formali. In ogni caso Vygotskij
ritiene che le capacità cognitive entrano a far parte delle FPS dopo aver attraversato 3 momenti:
prima come abilità di per sé, poi come abilità per gli altri e, infine, come abilità per se stessi. Per
chiarire, Vygotskij fa l’esempio dello sviluppo del gesto dell’indicare: inizialmente si tratta di
tentativi, spesso fallimentari, di afferrare l’oggetto desiderato, quindi in realtà non è propriamente
un gesto indicatore ma l’adulto lo interpreta come tale; questo tipo di uso del gesto è un’abilità di
per sé. In seguito, il bambino diventa consapevole della reazione provocata nell’adulto dal suo
gesto e comincia ad usarlo intenzionalmente per ottenere qualcosa, per far si che l’adulto gli presti
attenzione e faccia qualcosa per lui; ora questo gesto è un’abilità funzionale all’interazione con gli
altri. Infine, quando il bambino raggiunge la piena padronanza di questo gesto, indicare diventa
uno strumento per regolare la propria azione nel mondo, come quando, ad esempio, si porta il
segno con il dito mentre legge o si indica un punto preciso in una mappa mentre la si esplora;
finalmente il gesto dell’indicare è divenuto un’abilità per sé stessi. Questo esempio chiarisce anche
come, per Vygotskij, un processo interpersonale (che riguarda il bambino e l’adulto) si trasformi
successivamente in un processo intrapersonale, interiore. Se ne ricava una legge generale che
regola lo sviluppo per cui ogni funzione psicologica compare sempre 2 volte: dapprima a livello
sociale, fra gli individui (INTERPSICOLOGICA) e solo successivamente a livello individuale, come
forma interiorizzata (INTRAPSICOLOGICA). La dimensione sociale è, quindi, il vero promotore dello
sviluppo inteso come movimento verso forme nuove di pensiero intersoggettive costituite
dall’interiorizzazione dell’altro, di quanto appreso durante l’interazione e grazie al quale le
persone riescono a coordinarsi. Esemplificando, il linguaggio permette al bambino di comunicare
con gli altri, di regolare il loro comportamento chiedendo che facciano o che gli diano qualcosa
così come essere a sua volta regolato dagli altri, facendo quello che gli dicono. Le attività
interpsichiche vengono gradualmente interiorizzate, diventando individuali e intrapsichiche, per
cui il bambino è in grado di regolare il proprio comportamento e di progettare le proprie azioni. In
un primo tempo riesce a farlo solamente parlando da solo a voce alta, come quando commenta
cosa sta disegnando o a cosa sta giocando, oppure quando annuncia quello che farà.
Successivamente il linguaggio viene via via interiorizzato fino a quando non è più avvertita la
necessità di parlare a voce alta o bassa (circa 7-8 anni). In quel momento, il bambino dispone di un
linguaggio interiore tramite cui pensare a ciò che sta facendo o intende fare. Attraverso il
linguaggio interiore sono rese possibili anche altre attività psichiche, come il ragionamento. Il
bambino può ragionare dentro di sé guardando da più punti di vista un fenomeno come se
dovesse sostenerli a chi non li condivide o li critica. Ciò significa che svolge sul piano individuale e
interiore un’attività che prima sapeva eseguire solo sul piano sociale, esterno, ovvero
l’interiorizzazione delle modalità della discussione con altri interlocutori diventa ragionamento
come attività intrapsichica. Tutte queste intuizioni sono esposte nell’opera più conosciuta di
Vygotskij, “Pensiero e linguaggio”, conosciuta in occidente dopo la prima traduzione in inglese a
partire dagli anni ’60. Su ampia scala Vygotskij considera o sviluppo delle funzioni mentali come
una transizione dalla loro originale funzione inferiore verso funzioni sempre più complesse.
Pertanto, considera le FPI come geneticamente ereditate, la loro struttura non socialmente o
culturalmente mediata, involontarie e autonome rispetto ad altre funzioni psichiche. Di converso,
le FPS sono culturalmente determinate, svolgono funzioni volontarie e sono strettamente
correlate tra di loro. Tante funzioni superiori hanno origine sociale. Fondamentale è l’interazione
tra l’individuo e l’ambiente mediata dalla cultura. Per Vygotskij gli strumenti tecnici e psicologici
creati dalla cultura mediano il rapporto con l’ambiente: ad esempio attraverso lo smartphone
posso parlare con persone che sono a 800.000 km di distanza; la scrittura media il nostro rapporto
con l’ambiente, attraverso essa io posso tramandare delle cose, ricordarle, inviarle.
La psicologia proposta da Vygotskij ha, quindi, come oggetto di studio privilegiato il
comportamento umano complesso, che riguarda le attività quotidiane finalizzate alla realizzazione
di obiettivi concrete e che necessitano di coordinamento sociale. Di fatti la teoria vygotskijana è
spesso denominata “teoria delle attività” e si occupa anche dell’evoluzione storica delle attività e
della loro dipendenza dal contesto allo scopo di ricavarne informazioni sul funzionamento della
psiche, presupponendo un rapporto speculare tra attività e psiche: osservando come gli uomini
svolgono azioni complesse si possono dedurre funzione e struttura psicologica degli attori di tali
azioni. Le attività che gli uomini svolgono sono sempre più complesse sia considerando lo sviluppo
individuale che lo sviluppo della specie: e come se lo sviluppo individuale fosse in grado di
capitalizzare lo sviluppo della specie grazie ad un’eredità storico-culturale tra una generazione e
l’altra, tanto da ritrovarsi ad affrontare fasi e ritmi di sviluppo sempre più accelerati. Vygotskij,
infatti, concettualizza lo sviluppo verso nuove ZONE DI SVILUPPO PROSSIMALE (ZOPED) non
definite a priori, i cui punti di partenza e arrivo sono sempre più avanzati proprio grazie
all’accumulazione intergenerazionale. ZOPED è un acronimo, una sorta di artefatto multilingue in
quanto non è né in lingua italiana, né in lingua inglese (in cui viene detto Zone fo Proximal
Development ) ma è facilmente pronunciabile: ZO è la prima sillaba di “zona”, la sillaba PE si
riferisce alla prima e all’ultima lettera di “prossimale”, D è la prima lettera della parola
“development”. La ZOPED è definibile nei termini della distanza fra il livello di sviluppo attuale di
un individuo, ossia il livello di abilità manifestata quando svolge un compito individuale, e il livello
di sviluppo che lo stesso individuo può raggiungere quando svolge il medesimo tipo di compito con
l’aiuto o la collaborazione di un adulto o di un coetaneo più abile. Vygotskij ha formulato questo
concetto nell’ambito della valutazione delle abilità cognitive dei bambini con ritardo nello
sviluppo, convinto che si dovesse determinare non tanto il livello effettivo di abilità da loro
acquisite, bensì il potenziale, che non può emergere utilizzando solamente strumenti di misura
individuali: una concezione dinamica della rilevazione dell’età mentale veniva quindi proposta in
alternativa ai test mentali che offrivano misure statiche. Le funzioni mentali in corso di sviluppo
nel bambino venivano osservate, secondo Vygotskij, laddove si sviluppano, ossia nelle interazioni
con il proprio ambiente. Affinché si verifichi un salto nella prestazione vi deve essere un soggetto
più esperto (spesso un adulto ma anche un pari con un livello sviluppo più avanzato)che indirizzi
l’allievo verso l’acquisizione del nuovo apprendimento (il concetto di ZOPED sembra avvicinarsi
molto a quello di conflitto socio-cognitivo dei neopiagetiani). Lo sviluppo si configura, così, come
un passaggio da una zona di sviluppo attuale, ovvero la zona delle capacità raggiunte e
consolidate,a una zona di sviluppo prossimale vicina a quella attuale che già contiene i “semi”
delle capacità che sbocceranno nella nuova zona. La differenza con la teoria di Piaget è profonda:
lo sviluppo non è autodiretto dal bambino stesso, che è capace di passare da una struttura
all’altra; è invece etero diretto dal contesto che deve stimolare, attivare il meccanismo di
passaggio da una zona attuale a una prossimale. Con questa concettualizzazione Vygotskij tenta di
superare la visione genetica dello sviluppo proposta da Piaget e mette maggiormente in primo
piano gli aspetti sociali dello sviluppo. Uno degli aspetti della ZOPED su cui insiste Vygotskij è la
natura dell’unità dello sviluppo. Lo sviluppo verso nuove di sviluppo prossimale è un processo
caratterizzato da un progressivo ampliamento non solo quantitativo ma anche qualitativo delle
FPS che risultano sempre più interconnesse, composte da dimensioni materiali e mentali, sociali e
individuali. Pertanto accedere ad una nuova ZOPED implica uno sviluppo globale, come persona, e
nuove funzioni psichiche possono emergere mentre alcune vecchie funzioni psichiche possono
emergere mentre alcune vecchie funzioni possono scomparire. Questo significa che l’unità di
sviluppo non resta invariata ma, al contrario, varia inevitabilmente, diventando sempre più
complessa. Questa crescente complessità è dovuta anche al radicamento nel contesto storicoculturale dello sviluppo ed è per questo che Vygotskij finisce con il considerare la ZOPED non tanto
come una qualità dei singoli individui e nemmeno come una caratteristica del contesto ma
piuttosto come uno spazio simbolico che emerge dall’interazione tra individui e contesto. Il
concetto di ZOPED ha portato lo studioso russo a impiegare il metodo della “doppia stimolazione”
nello studio della formazione di strumenti cognitivi individui che svolgono attività concrete.
Veniva presentato un compito ritenuto al di sopra delle loro possibilità, in quanto non avrebbero
potuto risolverlo con gli strumenti a disposizione, il compito, quindi, doveva essere
moderatamente sfidante, cioè non troppo difficile rispetto alla sue capacità (altrimenti si
creerebbe un blocco motivazionale) ma abbastanza elevato da essere stimolante e motivare
all’apprendimento. Era allora fornito loro un insieme di altri strumenti (non solo oggetti fisici, ma
soprattutto suggerimenti, domande per aiutarli a focalizzare l’attenzione sugli aspetti centrali del
compito, esempi) al fine di osservare se e come potessero eseguire il compito utilizzandoli, il
bambino in tal modo riusciva ad eseguire il compito. L’effetto di questo metodo era che la volta
successiva che il bambino si ritrovava ad affrontare un compito simile da solo riusciva a risolverlo,
avveniva un incremento della prestazione e della capacità cognitiva del bambino. Si compiva la
zona di sviluppo prossimale. Al concetto di ZOPED è anche legata la distinzione tra concetti
spontanei e concetti scientifici, che sono ritenuti svilupparsi in direzione opposta: dal basso verso
l’alto i concetti spontanei, ossia dall’esperienza concreta all’uso astratto; dall’alto verso il basso i
concetti scientifici, in evoluzione dal piano astratto a quello più concreto. I concetti spontanei sono
appresi dai bambini usando il linguaggio quotidiano: il concetto di “nonna”, ad esempio, viene
usato concretamente, ma non definito, né utilizzato in contesti astratti. Di questi concetti, che
svolgono una funzione conoscitiva pratica, essi non hanno consapevolezza metalinguistica. I
concetti scientifici, ad esempio quelli di “borghese” e “capitalista”, sono invece appresi in modo
astratto, decontestualizzato, tramite il linguaggio sulla base di definizioni, tanto che inizialmente,
non sono rapportati a contesti concreti. Se i concetti spontanei si sviluppano dal basso verso l’alto,
in quanto procedono dall’esperienza concreta all’uso astratto, i concetti scientifici si sviluppano in
direzione opposta, dall’alto verso il basso, acquistando concretezza solo in un secondo momento.
È proprio l’interazione tra i due tipi di concetti e le loro diverse linee di sviluppo che ci riporta al
concetto di ZOPED. Come i concetti scientifici possono aiutare i bambini a utilizzare
consapevolmente i concetti spontanei che diventano più sistematici, così questi ultimi formano la
base per la comprensione effettiva di quelli scientifici. Tale interazione tra spontaneo e acquisito
riflette tutta l’importanza attribuita da Vygotskij all’istruzione per promuovere lo sviluppo.
Coniando il concetto di ZOPED, lo studioso dimostrava di nutrire una fiducia profonda
nell’istruzione e nella sua possibilità di mettere in moto lo sviluppo: l’apprendimento, infatti, non
deve limitarsi a seguire lo sviluppo, adeguandosi ad esso, bensì introdurre qualcosa di nuovo.
L’istruzione ha il compito di agire nella zona delle possibilità, ossia attivare processi evolutivi che
possono manifestarsi solo quando il bambino interagisce con i pari o altre persone del suo
ambiente, perché l’unico buon apprendimento è quello che anticipa lo sviluppo. L’apprendimento
è quindi necessario allo sviluppo delle funzioni psicologiche del bambino che viene distinto sul
piano ontogenico in sviluppo naturale, di matrice biologica (processi cognitivi elementari quali
percezione e memoria spontanea) e culturali (funzioni psicologiche superiori quali il linguaggio), ed
è concepito come un processo dialettico, contraddistinto sia da irregolarità sia da ricorrenze, da
trasformazioni qualitative, dall’intrecciarsi continuo di fattori interni ed esterni. Vygotskij
sottolineava come la pratica dell’adeguare l’istruzione ai livelli di sviluppo effettivo, rilevati
attraverso l’uso di test, non fosse produttiva, specialmente (ma non solo) per i bambini con ritardo
mentale, i quali, poiché presentavano carenze sul piano del pensiero astratto, venivano sottoposti
a metodi di insegnamento caratterizzati da concretezza (“guarda-e-fai”), impedendo quindi il
superamento delle carenze stesse. Proprio in considerazione del fatto che i bambini con ritardo
mentale, se sono lasciati a se stessi, non raggiungeranno mai forme elevate di pensiero astratto, la
scuola dovrebbe attuare tutto lo sforzo possibile per portarli in quella direzione, cercando di
sviluppare ciò che in loro manca. La concezione vygotskijana si discosta da quella
comportamentista che riduce lo sviluppo ad apprendimento, ossia all’acquisizione di una serie di
associazioni stimolo-risposta o di abilità che si accumulano gerarchicamente l’una sull’altra, ma
anche da quella piagetiana che considera lo sviluppo indipendente dall’apprendimento, in quanto
il primo è ritenuto una precondizione per il secondo, ma mai il suo risultato (ossia che lo sviluppo
si verifica in seguito all’apprendimento). Piaget sosteneva, infatti, che l’apprendimento segue lo
sviluppo in quanto dipendente dai suoi meccanismi: se determinate funzioni mentali (operazioni
intellettuali) non sono ancora maturate in un bambino, non si può fargli apprendere qualcosa che
le richiede; l’insegnamento prematuro di un concetto o argomento è un’operazione inutile,
nonché fallimentare. Il concetto di READINESS (essere pronti all’apprendimento) ben illustra la tesi
piagetiana sull’importanza dell’adeguamento dell’istruzione alle fasi dello sviluppo che non
possono essere accelerate, del rispetto della successione con cui i concetti si presentano nello
sviluppo cognitivo spontaneo (ad es. la conservazione), nonché della funzione diagnostica
dell’insegnante chiamato a determinare a quale stadio di sviluppo si trovi un allievo.
Il ruolo dell’apprendimento per Vygotskij
La concezione di sviluppo di Vygotskij conduce verso un rapporto con l’apprendimento di segno
opposto rispetto a quello ipotizzato da Piaget: l’apprendimento precede lo sviluppo e lo
determina. È proprio attraverso l’intervento dell’altro di un pari più capace che si possono
risolvere nuovi problemi, affinare le capacità cognitive e accedere a nuove ZOPED. Promuovere
l’apprendimento, quindi, significa promuovere nuove ZOPED. Le ZOPED sono spazi simbolici di
interazione e comunicazione dove l’apprendimento induce lo sviluppo. Per Vygotskij le ZOPED
hanno contemporaneamente una componente soggettiva e una componente sociale. La prima è
basata sull’imitazione: si impara ad essere attivi in certi contesti inizialmente imitando gli adulti e
poi diventando gradualmente sempre più autonomi e indipendenti. L’imitazione permette di
muoversi da ciò che già si sa fare verso quello che ancora non si sa fare con l’aiuto di qualcuno. È
anche evidente l’importanza della relazione con l’adulto o un pari più capace, ed è questo aspetto
che costituisce la componente sociale. La modalità con cui si struttura tale relazione è definita
SCAFFOLDING. Letteralmente “impalcatura” (nella quale io posso introdurre nuovi “scaffali”,
nuove strutture cognitive), lo scaffolding è un’azione complessa, composta da diverse fasi. La
prima è proprio quella dell’imitazione, considerata il punto di partenza con cui si pongono le basi
della relazione adulto-bambino o esperto-novizio. Durante questa fase l’insegnante fa vedere
come si fa, come si svolge l’azione e fornisce così un modellamento. Segue la fase
dell’appropriazione, durante la quale il novizio si appropria di parti sempre più rilevanti di azione,
effentuandole da solo ma sotto la sorveglianza dell’adulto. Si procede, così, gradualmente verso la
dissolvenza dell’intervento dell’adulto, che è sempre meno presente e che lascia sempre più spazi
di autonomia. Alla fine il novizio sarà in grado di svolgere l’azione da solo e potrà anche
aggiungere, allo stile dell’esperto che ha inizialmente imitato, qualche elemento di originalità
relativamente al modo con cui si svolge tutta o parte dell’azione. Obiettivo finale è rendere lo
studente capace a sua volta di offrire scaffolding a un pari meno esperto. L’adulto, l’esperto, resta
un punto di riferimento con cui confrontarsi simbolicamente, un modello interiorizzato
dell’expertise, una sorta coach, di allenatore che offre stimoli e supporto per migliorare
continuamente l’attività. Nel momento in cui il bambino ha difficoltà nel compito, Piaget non
avrebbe offerto il proprio aiuto, ma avrebbe lasciato che il bambino cercasse di raggiungere
l’obiettivo autonomamente; Vygotskij invece, nel momento il cui bambino si fosse trovato in
difficoltà, sarebbe intervenuto attraverso il processo di scaffolding per creare nuove zone di
sviluppo prossimale. Vygotskij stesso offre alcuni esempi illuminanti di come effettuare lo
scaffolding. Una modalità consiste nel mostrare al bambino come dovrebbe essere risolto un certo
problema e poi guardare se riesce a risolverlo da solo, imitando quanto appena osservato. Oppure,
l’adulto comincia a risolvere il problema e poi chiede al bambino di completarlo. Un’ulteriore
possibilità consiste nel chiedere al bambino di risolvere un problema suggerendogli di farsi aiutare
da altri bambini u po’ più esperti di lui. Oppure si spiegano al bambino i principi utili per poter
risolvere il problema, poi si fanno domande stimolanti e lo si invita ad analizzare insieme il
problema. In ogni caso vanno scelti compiti che siano un po’ più complessi di quelli che sa già
risolvere da solo. Nello specifico del contesto scolastico, lo scaffolding implica che: lo studente
prima osservi il docente svolgere una certa attività, successivamente lo imiti svolgendo in
autonomia pezzi sempre più ampi di attività fino a svolgere completamente da solo il compito,
magari personalizzandolo e migliorando quanto osservato. Quindi, seppure l’imitazione costituisce
il punto di partenza della relazione, l’obiettivo ultimo è promuovere l’autonomia degli studenti, il
senso di empowerment, dell’avere fiducia nel “potercela fare” e di poter contribuire
creativamente anche a migliorare l’attività stessa.
Sempre relativamente alla visione dell’apprendimento prefigurata da Vygotskij, occorre precisare
che l’insegnante svolge un ruolo fondamentale, non tanto in quanto detentore del sapere e non
solo in quanto promotore di ZOPED attraverso lo scaffolding, ma in quanto strumento di
mediazione tra lo studente e il mondo. Di fatti, il concetto di mediazione è uno dei più prolifici nel
quadro teorico vygotskijano. Vygotskij ritiene la mediazione dell’adulto imprescindibile quando vi
sono implicati scopi educativi: il bambino non può essere lasciato solo ad esplorare il mondo, il
docente deve accompagnarlo, stimolarlo e fornirgli “lenti” interpretative adeguate al mondo in cui
vive. È proprio questa la funzione ampia che Vygotskij assegna alla scuola: fornire strumenti di
mediazione adeguati per interpretare e partecipare attivamente al proprio mondo. Influenzato
ancora una volta da Marx, Vygotskij riflette sulla più generale missione che la scuola, in quanto
istituzione sociale e politica, dovrebbe svolgere. La scuola è il risultato della struttura di classe
esistente in una certe società; le classi privilegiate tendono a limitare l’accesso all’educazione in
modo da conservare per sé i privilegi e poteri dettando, quindi, le politiche scolastiche. Per
Vygotskij, la scuola deve assumersi il compito di offrire strumenti per l’evoluzione culturale, per
promuovere occasioni di sviluppo per gli svantaggiati, per cambiare il modo di pensare dei cittadini
favorendo la coesione sociale, la condivisione, la partecipazione e il supporto reciproco. Essere
uomini del proprio tempo, capaci di usare gli strumenti che la cultura e la storia rendono
disponibili, in grado di determinare le basi del proprio futuro della propria specie: è questa la
missione che deve perseguire la scuola secondo Vygotskij. Per qualche tempo questa visione di
Vygotskij fu accolta con entusiasmo dal regime sovietico perché ben si conciliava sia con l’idea per
cui ogni persona andava considerata responsabile del progresso dell’intera società, sia con
l’obiettivo dichiarato di eliminare l’analfabetismo di massa. Fu proprio la questione educativa,
però, che finì con il determinare il rovesciamento della reputazione di Vygotskij presso il regime
sovietico, in particolare i suoi rapporto con una disciplina chiamata Pedologia. Si tratta di una
disciplina che si occupa del fanciullo nella sua totalità: dagli aspetti biologici a quelle psicologici e
sociologici e ovviamente pedagogici. Gli antecedenti della pedologia sono rintracciabili nel XIX
secolo; negli anni ’20 tale disciplina divenne molto popolare in Russia e Vygotskij ne era
considerato un luminare. Il declino della pedologia concise con il periodo in cui Stalin divenni
progressivamente sempre più sospettoso verso qualunque influenza straniera e questa disciplina,
che in quel momento guardava con interesse ai test di intelligenza che si stavano costruendo in
Europa e negli Stati Uniti, finì con l’essere marchiata di pseudo scientificità e antimarxismo, e con
essa anche Vygotskij, che fu inserito nella lista nera durante le purghe staliniane dal 1936 al 1956,
con la conseguente censura delle sue opera. Insieme alle difficoltà di traduzione del russo, la
censura staliniana fu il motivo per cui le opere vygotskijane tardarono tanto a diffondersi in
occidente.
Piaget e Vygotskij: similitudini a dispetto delle differenze
Le differenze tra Piaget e Vygotskij hanno generato ampio dibattito e sono ancora oggi oggetto di
riflessione scientifica. Nei due autori il rapporto tra sviluppo e apprendimento è concettualizzato
in modo diametralmente opposto: per Piaget l’apprendimento segue lo sviluppo e si deve
adeguare ad esso; per Vygotskij, invece, l’apprendimento ha il potere di determinare il ritmo la
direzione e la velocità dello sviluppo. In questa diversità entrano in gioco il rapporto con l’adulto,
la rilevanza della dimensione sociale e lo sviluppo stesso. Per Piaget lo sviluppo si sussegue
attraverso periodi predefiniti e implica una progressiva appropriazione del pensiero simbolico,
accompagnata dalla capacità d slegarsi dal contatto con gli oggetti e da un altrettanto progressiva
capacità di riconoscere l’altro come diverso da sé. Per Vygotskij, invece, lo sviluppo ha un
fondamento inizialmente sociale, dove il Sé è perso nell’altro e va progressivamente
distinguendosi. Partendo dall’imitazione dell’altro, è possibile l’interiorizzazione del pensiero che
segue linee di sviluppo non definite a priori ma sempre espandibili e accelerabili grazie
all’accumulazione storica e alla trasmissione cross-generazionale. In Piaget il ruolo dell’adulto è
quello di un facilitatore che si intromette il meno possibile nel susseguirsi dello sviluppo del
bambino, ha il compito di osservare il bambino, capire in quale fase dello sviluppo si trovi e di
conseguenza predisporre un ambiente stimolante e adatto al suo livello di sviluppo, lasciando il
bambino libero di manipolare gli oggetti e di apprendere in autonomia. Per Vygotskij, invece,
l’adulto intervenie modellando il comportamento del bambino attraverso lo scaffolding,
indirizzandolo per, a poco a poco, dissolvere la sua presenza, promuovendo così nuovi
apprendimenti e nuove ZOPED. Alcuni autori, però, in particolare Cole e Werthsch, sostengono
che questo divario tra i due autori è più apparente che sostanziale. In realtà Piaget non avrebbe
mai negato l’importanza del mondo sociale nel processo costruttivo della conoscenza, evidente
nella sua definizione di società come composta da individui imprescindibilmente legati l’uno
all’altro e in quella di intelligenza collettiva intesa come equilibrio tra le varie operazioni messe in
atto durante i processi collaborativi. Di converso, Vygotskij riconosceva perfettamente le capacità
costruttive dei bambini, come risulta evidente dalla sua concezione del rapporto tra linguaggio e
pensiero: il linguaggio inteso non come strumento per esprimere il pensiero ma come processo
costruttivo del pensiero stesso. Quindi la vera differenza tra i due sarebbe, secondo Cole e
Werthsch, nel primato riconosciuto da Vygotskij alla mediazione culturale nel processo di sviluppo
degli individui, così come nello sviluppo della specie umana. Questo aspetto permette allo
psicologo russo di contestualizzare lo sviluppo entro una visione storico-culturale, mentre Piaget si
concentra sullo sviluppo individuale,a prescindere dall’influenza dello sviluppo storico e del
contesto sociale. Infatti, se Vygotskij insiste sulla variabilità dell’esperienza psicologica che riflette
la variabilità del contesto storico-culturale, Piaget è interessato a ricercare le invarianti universali
dello sviluppo, a prescindere dalle differenze storico-culturali; questo non significa che i due autori
neghino l’importanza di entrambe le variabili, semplicemente ciascuno dei due si è focalizzato più
specificatamente in un determinato aspetto. Piaget e Vygotskij giungono a conclusioni simili: la
conoscenza è costruita entro uno specifico contesto materiale e sociale. Entrambi cercano di
combattere un comune nemico, ovvero la dicotomia tra istinto e consapevolezza, tra centralità
data al comportamento osservabile misurabile, oggetto di studio del comportamentismo, e
capacità di auto dirigere e interpretare il proprio comportamento e il mondo circostante, messa in
discussione dalla psicologia del profondo. Entrambi, quindi, difendono il costruttivismo e
l’interazionismo, non solo come costrutti teorici fondanti del loro pensiero ma come capacità
riconosciute ai bambini stessi. Infatti, sia Piaget che Vygotskij ripongono grande fiducia nelle
capacità del bambino, nei suoi tentativi di esplorare il mondo e di costruirsi una propria personale
interpretazione di quanto accade; entrambi condividono una concezione di bambino come
individuo capace di determinare la propria crescita e di dare significato e senso agli eventi di cui è
protagonista. Di conseguenza, entrambi possono essere considerati costruttivisti, seppur in modo
diverso, in quanto li accomuna l’idea che la cognizione è il risultato di una costruzione mentale e
che l’apprendimento implica un lavoro cognitivo importante da parte dei bambini allo scopo di
integrare nuove informazioni con quelle che già sanno: Piaget definisce questo processo
accomodamento e assimilazione, Vygotskij internalizzazione. Infine, interesse comune era capire
come i bambini crescono mentalmente, quali processi determinano il loro sviluppo e come gli
adulti e il mondo esterno contribuiscono a tale crescita, attraverso processi determinano il loro
sviluppo e come gli adulti e il mondo esterno contribuiscono a tale crescita, attraverso processi di
insegnamento più o meno formalizzati. Sia l’uno che l’altro assegnano un ruolo fondamentale al
contesto e alla capacità dei bambini di entrare in relazione attiva con esso: per Piaget l’agire sugli
oggetti origina l’intelligenza e costituisce la fonte primaria di apprendimento e di sviluppo; per
Vygotskij l’attività dà forma alla struttura psicologica e determina lo sviluppo di sempre più
sofisticate FPS. Il primo riteneva che la conoscenza fosse contenuta negli oggetti e che lo sforzo
più importante dei bambini fosse di capirla e scoprirla durante l’interazione con essi; il secondo,
invece, riteneva che la conoscenza fosse costruita nell’incontro tra il bambino e il mondo
composto da oggetti, da pari e adulti.
Dopo Piaget
Sono riconoscibili almeno 3 filoni di studi che prendono le mosse dal pensiero di Piaget e lo
sviluppano in 3 diverse e specifiche direzioni.
1) Il primo filone è costituito dai neopiagetiani, caratterizzati dal tentativo di coniugare le
istanze piagetiane con il cognitivismo. Infatti, i neopiagetiani spiegano lo sviluppo
individuando nella capacità di processare informazioni (sia qualitativamente che
quantitativamente) la causa del passaggio da l’uno all’altro stadio, ma anche il fattore che
spiega le differenze individuali. Per questa ipotesi cruciali sono i contributi di Juan PascualLeone e, successivamente, di Robbie Case che individua i meccanismi cognitivi regolatori
tipici di ciascuno dei periodi di sviluppo definiti da Piaget.
2) Il secondo filone do studi fa capo a Doise e Mugny,membri di spicco del gruppo di ricerca
noto come Scuola di Ginevra di Psicologia sociale dello sviluppo, che vedono nella
prospettiva psicosociale uno dei maggiori fattori di sviluppo. In particolare, questi autori
partono dall’osservazione che i bambini giungono a costruire soluzioni e compiti che non
sanno ancora risolvere da soli coordinando le proprie azioni con quelle di altri bambini,
anch’essi incapaci di risolvere il compito. Pertanto, deducono gli autori, pensare che nella
situazione sociale si riproduca quello che si sa fare da soli è limitativo: l’interazione è di per
sé in grado di far generare nuove soluzioni e far avanzare il livello di sviluppo, anche in
situazioni di conflitto. L’intelligenza, quindi, ha un’origine non solo genetica, evolutiva e
costruttiva ma anche sociale. Già Piaget non aveva escluso l’importanza dell’interazione
sociale come motore di sviluppo, purché fosse tra pari. Infatti, Piaget si opponeva all’idea
che la trasmissione di conoscenza da un adulto a un bambino potesse rappresentare un
modello per spiegarsi lo sviluppo cognitivo: l’interazione con l’adulto era vista come
irrilevante o addirittura problematica, in quanto interferente con la libera esplorazione da
parte del bambino nel suo ambiente e, quindi, con la costruzione di una comprensione
efficace. Durante l’apprendimento emerge, secondo Piaget, l’importanza del conflitto
cognitivo nel favorire lo sviluppo intellettuale del soggetto. Tale conflitto si verifica quando
l’individuo non riesce ad applicare schemi cognitivi da lui posseduti agli oggetti
dell’ambiente con cui interagisce: gli oggetti “resistono” a tale applicazione e ciò provoca
un disequilibrio del sistema cognitivo, che richiede la modifica di tali sistemi in una
direzione di maggiore complessità. Piaget però aveva anche sottolineato l’importanza della
cooperazione tra pari, in quanto essa poteva essere considerata come un generatore
dell’attività di ragionamento, mettendo in evidenza il ruolo dell’altro nel prendere
coscienza del sistema di regole alla base della vita quotidiana. Egli sostiene che i bambini in
situazioni di gioco collettivo creino regole per stabilire un equilibrio sociale tra i
partecipanti e ridurre la tensione tra il modo tradizionale di svolgere un dato gioco e
l’esigenza di adattarlo a nuove situazioni. Piaget ipotizza 3 tipi di trasformazioni che la
cooperazione provocherebbe nelle attività di pensiero:
-
Consentire la riflessione e lo sviluppo della coscienza di sé;
-
Permettere di distinguere la dimensione soggettiva da quella oggettiva;
-
Condurre forme di regolazione tra i cooperanti che spingono ogni soggetto a fare le
proprie regole del pensiero logico.
I ricercatori della Scuola di Ginevra riprendono i concetti di Piaget ed elaborano la popolare
nozione di CONFLITTO SOCIOCOGNITIVO. Esso è un conflitto di comunicazione tra due
partner di pari livello cognitivo impegnati ad affrontare insieme un compito che richiede
una risposta unica e condivisa. Tale forma di conflitto diviene, per Doise e Mugny, una
sorgente di doppio disequilibrio che si realizza contemporaneamente sul piano cognitivo e
sociale. È un disequilibrio cognitivo in quanto il soggetto che affronta un compito con un
partner di pari livello cognitivo si trova a confrontarsi con il punto di vista del partner,
centrato su una diversa interpretazione del compito e, quindi, conflittuale rispetto a quello
da lui espresso: il soggetto non riesce ad integrare in un primo momento i due punti di
vista in un tutto coerente. Ma si tratta anche di un disequilibrio sociale, in quanto il
conflitto si pone entro la relazione sociale tra due individui e, quindi, il superamento del
conflitto richiede una gestione efficace dell’interazione con l’altro allo scopo di evitare che
il conflitto si sposti dal piano del contenuto al piano della relazione. Il processo che può
portare ad una elaborazione produttiva di un conflitto socio cognitivo viene chiamato
regolazione epistemica, e implica il cercare di rielaborare il compito, mettere in
discussione ciascun punto di vista, esaminare la validità di ciascuna proposta, fino a
giungere ad una risposta soddisfacente per entrambi i partner. Quando i due partner
ingaggiano una relazione di tipo epistemico mettono in gioco esclusivamente le cognizioni
e le idee, rimangono centrati sul compito, sull’obiettivo, riconoscendo la competenza
dell’altro, ammettendo l’esistenza di più punti di vista, cercando di integrare i punti di vista
per trovare un compromesso, tutto si svolge sul piano cognitivo, senza cadere sul piano
relazionale. Esiste però anche una modalità di conflitto meno produttiva e non funzionale:
la regolazione relazionale. In questo caso i soggetti cercano di dimostrare che il proprio
partner è in errore, mettendo in dubbio la sua competenza, focalizzandosi sulla valutazione
della competenza dell’altro e sul confronto sociale e mina la sfera personale. È molto
complesso riuscire ad rimanere nella sfera epistemica durante le situazioni di conflitto
cognitivo e non cadere in quella relazionale, ma è quello che bisognerebbe cercare di fare
nei contesti di apprendimento. Teoria della controversia costruttiva: spinge ad una
regolazione di tipo epistemico; l’argomento preso in considerazione è solo un pretesto per
osservare e far aumentare le abilità sociali nei partecipanti alla situazione di
apprendimento.
3) Il terzo filone dei postpiagetiani parte da una rivisitazione dei compiti da lui elaborati. Ad
esempio, si evidenzia come le domande che poneva Piaget ai bambini fossero del tutto
decontestualizzate e affatto utilizzate in contesti educativi. Inoltre il bambino pensa “se
l’adulto ripete due volte la stessa domanda vuol dire che la prima risposta che ho dato è
sbagliata”, per cui i bambini cercano risposte che non corrispondono a genuine
concettualizzazioni ma piuttosto al tentativo di soddisfare le richieste dei ricercatori. Si
avvia così un filone di studi in cui i test piagetiani vengono rivisitati e proposti con varianti
che riescono a mettere in luce le reali interpretazioni da parte dei bambini dei compiti che
si chiedeva loro di svolgere. Ad esempio, Grossen introduce la richiesta, ai bambini che
avevano già svolto un certo compito, di giocare loro “all’adulto” e far svolgere la prova ad
un altro bambino. In questi casi, dalle verbalizzazioni spontanee dei bambini emerge una
rappresentazione della situazione come se da qualche parte ci fosse un trucco a loro noto
perché avevano già svolto il compito e questo permette loro di sentirsi complici dell’adulto.
Recentemente alcuni autori stanno rivisitando in modo ampio il cosiddetto “metodo clinico
piagetiano”.Sviluppando l’idea che la capacità argomentativa del bambino rispecchi il suo
pensiero, questi autori espandono il potenziale dialogico già insito nelle prove piagetiane
sia rispettando lo scopo di scoprire quanto è nascosto dall’immediata apparenza di quello
che sembra che i bambini pensano, sia aggiungendovi la rilevazione di quanto i bambini
sono capaci di esprimere in situazioni per loro significative e in attività collaborative.
Il contesto
Il contesto non è una realtà oggettiva, ma la personale capacità di percepire esperienze del
mondo. Tutto ciò che noi vediamo è un’attribuzione di senso (si pensi alle figure della Gestalt). La
nostra mente non può evitare di interpretare e attribuire senso alla realtà che vede, non
registriamo le informazioni passivamente come una macchina fotografica. Processi cognitivi e
contesto si influenzano reciprocamente. L’istanza cognitivista vede persone, strumenti e contesti
come inscindibili,non si può analizzare il singolo elemento prescindendo dagli altri due (istanza
CONTESTUALISTA). L’intelligenza si costruisce in base al contesto in cui il soggetto vive. Il contesto
inizialmente era definito dal cognitivismo ortodosso come una variabile di sfondo, che viene
manipolata in laboratorio per escludere possibili interferenze. Per i comportamentisti il rinforzo
rappresentava l’elemento contestuale in grado di modificare il comportamento umano. Il contesto
(la natura) fornisce stimoli per l’apprendimento che, quando manipolati dall’uomo, diventano
rinforzi. C’era apprendimento laddove c’era rinforzo. Il contesto più efficace era un contesto
rinforzante. Mentre per i cognitivisti il contesto doveva essere stimolante. La visione piagetiana
adotta una visione di apprendimento dentro i contesti, cioè si appropria in maniera forte del
contesto come strumento per l’apprendimento. Per Vygotskij il contesto è l’ambiente
socioculturale in grado di fornire stimoli intesi a far progredire lo sviluppo. Il contesto attiva lo
sviluppo e spinge gli individui verso nuove ZOPED ed è, quindi, la chiave in grado di mettere in
motto lo sviluppo, rendendo significativi e necessari funzioni e processi che altrimenti
resterebbero dormienti.
Critiche al socio costruttivismo
Per il costruttivismo l’attività a scuola assume una connotazione marcatamente sociale, basata
sulla pluralità delle forme di intelligenza. La critica rivolta a tale prospettiva, soprattutto da parte
dell’approccio cognitivista, riguarda il rischio che nell’analizzare le attività nel contesto, il socio
costruttivismo radicalizzato possa “dissolvere” il soggetto e i suoi processi cognitivi: lo studio delle
interazioni e dei processi di costruzione di conoscenza, nelle loro eccessive parcellizzazioni situate,
potrebbe far perdere di vista l’unitarietà dell’individuo impegnato nell’apprendimento.
Intelligenza e differenze individuali
L’uscita della prima scala di intelligenza nel 1905 ad opera di Binet e Simon, finalizzata ad
identificare nelle scuole francesi allievi che non avrebbero tratto profitto dall’istruzione (e ritenuta
da più studiosi un evento fondamentale per lo sviluppo di psicologia e pedagogia) ,si basava su una
concezione dell’intelligenza come abilità di apprendere. Nessun’altra innovazione psicologica, è
stato detto, ha avuto un impatto così forte sulle società occidentali come la prima scala di
intelligenza. È stata un’esigenza dei sistemi di istruzione (come individuare gli studenti più lenti
nell’apprendimento) a far sentire la necessità di abbandonare metodi riduttivi e lontani dall’esame
dei fenomeni reali che si intendeva invece conoscere sempre meglio. Binet e colleghi, dal canto
loro, diedero vita a una psicologia sperimentale delle differenze individuali che ha ispirato un
secolo di ricerca psicologica sul testing. I precedenti tentativi di Galton di misurare l’intelligenza
esaminando i processi cognitivi elementari erano infatti falliti e a essi si opponeva Binet quando
sosteneva che le differenze individuali andavano studiate a livello di funzioni complesse.
Presentiamo ora i modelli più recenti di intelligenza, che risultano assai diversi tra loro.
Il modello dell’efficienza neurale
Molti teorici contemporanei sostengono che il cuore dell’intelligenza sia il cervello, pertanto, sono
le basi neurofisiologiche dell’abilità mentale che vanno individuate per comprendere e misurare in
maniera appropriata il comportamento intelligente. La premessa alla base del modello
dell’efficienza neurale è che gli individui molto intelligenti possiedono cervelli che operano molto
più velocemente e accuratamente di quelli di individui meno intelligenti. Grazie al progresso
tecnologico, si dispone oggi di metodiche in grado di misurare l’efficienza cerebrale,in base ai tassi
di metabolismo del glucosio e la velocità di conduzione nervosa. Hendrickson ed Hendrickson
ipotizzarono che gli individui con basso quoziente intellettivo avrebbero manifestato una
variabilità considerevole dell’attività elettrica cerebrale a causa di errori nella trasmissione delle
informazioni attraverso la corteccia del loro cervello; al contrario, in assenza di errori di questo
tipo, gli individui con alto quoziente di intelligenza avrebbero manifestato scarsa variabilità nella
loro attività elettrica corticale. È stato anche evidenziato che cervelli intelligenti ed efficienti sono
flessibili nelle risposte agli stimoli: attivano più neuroni per elaborare stimoli familiari o attesi.
Ulteriore sostegno al modello dell’efficienza neurale proviene dagli studi che misurano il tasso di
metabolismo del glucosio cerebrale, tramite la PET (tomografia ad emissione di positroni), mentre
soggetti svolgono una serie di compiti. La metabolizzazione del glucosio compensa il consumo di
energia e, di conseguenza, consumano meno glucosio, rispetto ai cervelli di coloro che hanno un
basso QI. È stato dimostrato, ad esempio, che gli individui con prestazione migliore in un
videogioco complesso, hanno livelli più alti di metabolismo del glucosio nelle aree cerebrali
coinvolte dal gioco.
Modelli gerarchici
L’assunzione di base sottostante ai modelli psicometrici attuali, inclusi quelli gerarchici, è che la
struttura dell’intelligenza possa essere scoperta analizzando le intercorrelazioni dei punteggi in
vari test mentali. Nello specifico, i modelli gerarchici possono essere compresi alla luce delle teorie
di Sperman e Thurstone. Sperman aveva individuato un unico fattore (g) legato alla prestazione in
tutti i campi di test mentali, mentre Thurstone aveva identificato 7 fattori indipendenti, o abilità
mentali primarie. Considerando che né quanto sosteneva Sperman né quanto sosteneva
Thurstone rendeva conto di una serie di dati, i modelli psicometrici attuali propongono una
struttura gerarchica dell’intelligenza : uno o due fattori generali rappresentano la sommità della
gerarchia, mentre altri fattori più specifici si trovano a livelli inferiori. Più precisamente, quando
due fattori di prim’ordine sono correlati tra loro, un fattore di second’ordine viene costruito per
spiegare le loro intercorrelazioni ; similarmente fattori di terz’ordine vengono evidenziati quando
si deve rendere conto delle intercorrelazioni tra fattori di second’ordine e così via. Il modello
gerarchico a due strati dell’intelligenza fluida (gf) e cristallizzata (gc) di Horn appare
particolarmente utile a spiegare lo sviluppo dall’infanzia all’età adulta. I fattori gf e gc
rappresentano il livello di sviluppo più alto del funzionamento cognitivo. Il primo riguarda le abilità
di percepire relazioni tra pattern di stimoli, comprenderne le implicazioni, trarre inferenze dalle
relazioni e dipende dal funzionamento efficiente del sistema nervoso centrale, più che
dall’esperienza precedente e dal contesto culturale. I test standardizzati misurano questo tipo di
intelligenza mediante analogie, il completamento di serie e di altri compiti che implicano il
ragionamento. Il fattore gc, invece, dipende soprattutto dall’esperienza e dall’istruzione avuta in
un determinato contesto culturale e riguarda l’insieme di abilità e conoscenze che gli individui
acquisiscono nel corso di tutta la loro vita. Comprende le abilità di comprensione verbale,
cognizione e valutazione di relazioni semantiche. I test standardizzati misurano il fattore gc
attraverso il vocabolario,la conoscenza generale e le domande di comprensione verbale. Il livello
successivo di elaborazione delle informazioni, quello dell’organizzazione percettiva, comprende la
velocità di elaborazione, di visualizzazione delle informazioni e di elaborazione delle informazioni
uditive. Il terzo livello, quello dell’elaborazione di associazioni, riguarda l’abilità di acquisire
informazioni e recuperarle fluidamente nella memoria a lungo termine. Il livello più basso nel
modello gerarchico di Horn è occupato dalla ricezione sensoriale che implica 2 abilità: l’abilità di
registrare l’informazione uditiva e conservarla nella memoria ecoica. I bambini si collocano ai livelli
più bassi diventano via via capaci di svolgere compiti che richiedono il coinvolgimento dei livelli
superiori. Alcune abilità, sono soggette ai danni del sistema nervoso centrale e se gli effetti di tali
danni si accumulano nell’età adulta, alcune abilità diminuiscono; quelle più suscettibili al declino
sono legate all’intelligenza fluida, alla memoria a breve termine e alla velocità di elaborazione.
Altre abilità invece relative all’intelligenza cristallizzata e al recupero della memoria a lungo
termine, che sono meno influenzate dal sistema nervoso centrale, possono migliorare o rimanere
stabili nel corso di tutta l’età adulta.
Modelli contestuali
Quasi tutti i modelli di intelligenza sono basati sull’assunzione che teorie e tecniche di misurazione
delle culture occidentali siano applicabili a qualsiasi individuo di qualsiasi cultura. Al contrario, i
modelli contestuali contemporanei si fondano sull’assunto che il concetto di intelligenza assume
significati differenti in relazione ai contesti, in particolare culturali, come dimostra il fatto che un
comportamento ritenuto intelligente in una cultura può essere invece considerato di natura
opposta in un’altra. Una ricerca ormai classica è quella di Cole (1971) con i kpelle della Liberia , ai
quali era stato chiesto di raggruppare 20 oggetti riguardanti 4 categorie linguistiche (cibo,
contenitori di cibo, vestiario e attrezzi). I soggetti costituivano coppie di oggetti, ad esempio
coltello e patata, in base a un criterio funzionale, e quando è stato chiesto loro di indicare il modo
in cui una persona non intelligente avrebbe raggruppato gli oggetti, li hanno messi insieme proprio
in base alla categoria linguistica, considerata la modalità intelligente di raggruppamento in molte
culture (compresa la nostra). La ricerca sulla matematica di strada in Brasile, contrapposta alla
matematica a scuola, induce a riflettere su come il contesto in cui l’intelligenza viene accertata
porti a trarre conclusioni che possono risultare anche opposte a quelle derivabili considerando un
contesto differente. I ragazzi brasiliani di strada non sapevano risolvere i problemi presentati dai
ricercatori, ma negli atti di compravendita di strada mettevano in atto proprio quei concetti
richiesti dai ricercatori ma dal punto di vista pratico, questo non significa che siano meno
intelligenti ma semplicemente hanno un modo di ragionare diverso, più pratico. Anche
Bronfenbrenner ha sottolineato l’importanza del contesto (setting di laboratorio o ambiente
domestico) nella valutazione dell’abilità dei bambini di far fronte alla pressione del tempo durante
la soluzione di problemi. Li e Fisher hanno sottolineato come le concezioni africane siano
focalizzate sulla saggezza, la capacità di suscitare fiducia e l’attenzione sociale. Le concezioni
giapponesi valorizzano l’abilità di entrare in sintonia con gli altri, così come quelle cinesi
enfatizzano, oltre a una capacità cognitiva generale, l’impegno, il senso di umiltà e la dirittura
morale. All’interno degli Stati Uniti stessi, i diversi gruppi etnici manifestano visioni differenti
dell’intelligenza: i Latinos nel loro concetto includono la competenza sociale molto più degli Anglo.
I teorici dei modelli contestuali hanno individuato 4 livelli gerarchici di contesto per rendere conto
delle molteplici influenze a cui è sottoposto ciò che viene definito comportamento intelligente:
1. Contesto ecologico: è il contesto in cui le persone vivono interagendo con l’ambiente fisico;
le risposte di adattamento a tale contesto portano ad acquisire determinati costumi;
2. Contesto esperienziale: conduce all’apprendimento e allo sviluppo del contesto ecologico.
In termini psicologici, il risultato di questo livello è costituito da un repertorio di abilità,
tratti e atteggiamenti a lungo termine, acquisiti attraverso la socializzazione e
l’inculturazione;
3. Contesto situazionale: riferito alle circostanze ed esperienze ambientali, quali le attività
quotidiane che portano ad acquisizioni di breve termine;
4. Contesto di accertamento: si manifesta quando gli psicologi, o altri studiosi, manipolano le
caratteristiche dell’ambiente di un individuo per ottenere determinate risposte
comportamentali o punteggi ai test. Se la valutazione non si annida negli altri 3 contesti
(ecologico, esperienziale e situazionale), allora i suoi risultati non sono né rappresentativi
né equi.
Modelli di sistemi complessi
La maggior parte dei modelli di intelligenza si focalizza sulle varie componenti fisiologiche o
cognitive e usa il QI come sua unica misura. Altri modelli, tuttavia, appaino essere più comprensivi
nel tentativo di integrare aspetti biologici, gerarchici e contestuali in un’unica concettualizzazione
dell’intelligenza come sistema dinamico e complesso. Ecco i più conosciuti.
La teoria triarchica dell’intelligenza
Secondo la teoria triarchica di Stenberg, 3 aspetti interagenti costituiscono l’intelligenza:
1. Il primo aspetto riguarda le abilità di elaborazione dell’informazione che guidano il
comportamento intelligente. Si tratta di vari metacomponeneti, componenti di prestazione
e componenti di acquisizione di conoscenza. I metacomponenti sono processi mentali di
ordine superiore comuni ai vari compiti che gli individui intelligenti sanno attivare per
dirigere i loro sforzi verso la soluzione di un problema. I componenti di prestazione,
specifici per ogni tipo di problema da risolvere, riguardano, invece, processi mentali di
ordine subordinato che gli individui attivano per dare corso alle istruzioni impartite dai
metacomponenti. Anche i componenti di acquisizione della conoscenza sono di ordine
subordinato, utili ad acquisire le informazioni rilevanti, integrando le nuove informazioni
con quelle presenti in memoria, formando un tutt’uno integrato. È stato dimostrato che
sono le persone maggiormente intelligenti a spendere più tempo in operazioni di codifica,
pianificazione strategica e controllo. Stenberg ha precisato, però, che tutti e 3 i tipi di
componenti si manifestano e sono valorizzati in tutte le culture, ma ciò che viene
considerata un’attivazione intelligente dei componenti può variare da cultura a cultura in
base ai diversi problemi affrontati,nonché ai diversi valori in esse presenti.
2. Il secondo aspetto riguarda l’applicazione nei contesti reali dei 3 tipi di componenti: gli
individui intelligenti sono in grado di adattarsi a un particolare ambiente e in caso di
difficoltà sanno quando e come modificare l’ambiente per farlo corrispondere ai propri
bisogni e alle proprie abilità. Se non è possibile cambiare un certo ambiente, sanno come
scegliere quello più adatto a loro. È questo aspetto pratico dell’intelligenza che consente di
acquisire conoscenza tacita in quegli ambienti in cui le strategie di successo non vengono
esplicitamente insegnate o sempre verbalizzate.
3. Il terzo aspetto della teoria triarchica dell’intelligenza è quello esperienziale, ossia l’abilità
di riferirsi alle proprie esperienze per risolvere nuovi problemi e rendere automatiche
certe procedure in tempi brevi. Individui intelligenti sanno usare i componenti di codifica,
combinazione e confronto selettivi per estrarre e applicare informazioni nuove. Inoltre, per
fronteggiare con efficienza le novità, molti individui intelligenti sono in grado di passare
velocemente dall’elaborazione consapevole e deliberata di informazioni all’elaborazione
automatica, eseguendo procedure senza sforzo attentivo e più di un compito alla volta.
Gardner e le intelligenze multiple
Nel 1983 lo psicologo statunitense Howard Gardner pubblicava il libro “Frames of Mind”
(tradotto in italiano come “Formae Mentis”) che lo avrebbe portato alla ribalta della ricerca
internazionale e consacrato come l’ideatore della teoria delle intelligenze multiple. Secondo
Gardner gli esseri umani possono essere meglio compresi nel loro funzionamento cognitivo se
si ipotizza che essi siano possessori di un numero relativamente indipendente di facoltà
intellettive, piuttosto che di un’intelligenza rappresenta come facoltà unitaria. La sua presa di
distanza è sia dalla tradizione di ricerca psicometrica del test sul quoziente intellettivo (QI),
usato per misurare il livello intellettivo degli individui, sia dalla tradizione teorica di matrice
piagetiana, che considerava l’intelligenza come universale nel modo di svilupparsi (ipotizzando
gli stessi periodi di sviluppo per tutte le culture) e unitaria nei vari ambiti di conoscenza.
Gardner individua alcuni criteri che gli permetteranno di individuare le diverse intelligenze:




Isolamento potenziale dovuto a danno cerebrale: ad esempio, alcune abilità, come
quelle linguistiche possono essere specificamente compromesse da un ictus;
Esistenza di soggetti eccezionalmente prodigiosi o savants: in tali individui è possibile
osservare una specifica intelligenza, particolarmente sviluppata;
Esistenza di operazioni interconnesse: ad esempio, l’intelligenza musicale consiste nella
sensibilità di una persona per la melodia, l’armonia, il ritmo, il timbro e la struttura
musicale;
Supporto dai test di psicologia sperimentale: i ricercatori hanno predisposto prove che
indicano specificamente quali abilità sono correlate tra loro e quali sono indipendenti.
Utilizzando tali criteri, Gardner arriva, inizialmente, a individuare 7 diverse forme di intelligenza:
1) Linguistica: padronanza e passione per il linguaggio e le parole con la manifestazione del
desiderio di una loro esplorazione;
2) Logico-matematica: capacità di confrontare e valutare oggetti e astrazioni e discernere le
loro relazioni e i sottostanti principi;
3) Musicale: competenza non solo nel comporre e realizzare brani con tono, ritmo e timbro
ma anche nell’ascoltare e nel distinguere;
4) Spaziale: abilità a percepire il mondo visuale accuratamente, a trasformare e modificare la
percezione e ricreare esperienze visuali anche in assenza di stimoli;
5) Corporeo-cinestesica: controllare e orchestrare abilmente i movimenti del corpo e la
manipolazione degli oggetti;
6) Intrapersonale: capacità di individuare i propri umori, sentimenti e stati mentali e di usare
queste informazioni per guidare il proprio comportamento;
7) Interpersonale: capacità di individuare umori, sentimenti e stati mentali altrui e di usare
queste informazioni per guidare il proprio comportamento.
Verso la metà degli anni ’90, Gardner accumula ampie evidenze per l’aggiunta di altri 2 tipi di
intelligenza:
8) Naturalistica: relativa al riconoscimento e alla classificazione di oggetti naturali;
9) Esistenziale : che riguarda la capacità di riflettere sulle grandi questioni esistenziali e più in
generale l’attitudine al ragionamento astratto per categorie concettuali universali (mezza
intelligenza).
A differenziare gli individui sono la “forza” di queste intelligenze e i modi in cui esse vengono
chiamate in causa e combinate tra loro per portare a termine i vari compiti, risolvere problemi di
diversa natura e progredire nei diversi campi del sapere. Com’è intuibile ciascun individuo realizza
le proprie prestazioni migliori, in termini di apprendimento, quando utilizza il sistema di simboli e
procedure congeniali alle proprie forme di intelligenza di cui è particolarmente dotato. Alcune
intelligenze possono avere tra loro dei confini sfumati e intrattenere reciproche relazioni, come
sembra il caso dell’intelligenza spaziale, linguistica e corporeo-cinestesica. Le intelligenze appaiono
in età precoce. Sulla base della sua teoria Gardner svolge una riflessione critica sull’istituzione
scolastica che privilegia generalmente modalità di insegnamento e di valutazione di tipo linguistico
e logico matematico. Ciò porta a considerare come fallimentari le prestazioni di molti studenti solo
perché non posseggono il tipo di intelligenza che l’istituzione scolastica privilegia. La questione
cruciale che si impone è dunque: in che modo è possibile far si che la scuola promuova i diversi tipi
di intelligenza? Gardner individua una risposta attraverso 3 concetti:



L’apprendistato: diffuso al di fuori del contesto scolastico, utilizza come modalità formative
l’osservazione e l’imitazione, valorizza modalità di apprendimento legate a più tipi di
intelligenze, infatti nell’apprendistato si impara non solo attraverso il linguaggio (come
avviene a scuola).
Il museo del bambino: luogo di attività in cui i bambini possono sperimentare dal vivo varie
situazioni di apprendimento, assumendo il ruolo, ad esempio, del biologo, del fisico o
dell’artista. Dovrebbero crearsi a scuola ambienti con materiali realmente usati da chi
svolge un’attività professionale nella nostra società, materiali che implichino l’utilizzo dei
diversi tipi di intelligenze.
Il bridging : poiché le intelligenze hanno contorni sfumati e relazioni reciproche, possiamo
ipotizzare che se un soggetto non è particolarmente predisposto nell’intelligenza che
dovrebbe favorirlo in un particolare ambito disciplinare, l’insegnante possa, cambiando
strategia di insegnamento, fare affidamento su un’altra forma di intelligenza di cui egli è
dotato, che faccia da ponte (bridging appunto) per l’accesso a quei contenuti disciplinari.
Il successo della teoria delle intelligenze multiple sembra legato a una dimensione di maggiore
“democratizzazione” del processo educativo. Come lo stesso Gardner argomenta, la popolarità
della sua proposta presso gli educatori è dovuta non solo al fatto che essa conforta la loro
intuizione che gli studenti possono essere considerati intelligenti da diversi punti di vista,ma anche
alla possibilità di promuovere il successo scolastico di un maggior numero di studenti a patto che il
loro modo di conoscere preferito sia preso in considerazione nel curricolo, nelle modalità di
insegnamento e nella valutazione.
Stili di pensiero come differenze individuali
Con il termine stile di pensiero ci si riferisce a una valutazione prevalente di funzionamento
cognitivo che indica regolarità nell’elaborazione delle informazioni, ed è legata anche a tratti della
personalità. Pur utilizzano il termine “cognitivo” per qualificare lo stile, la nozione si riferisce,
infatti, a un intreccio di aspetti cognitivi e di personalità, avendo a che fare non solo con
caratteristiche del modo di trattare cognitivamente le informazioni, ma anche con atteggiamenti
nei confronti delle attività, con modalità di relazione nei confronti degli altri e di reazione
emozionale alle situazioni. Ecco alcuni stili di pensiero tra quelli che hanno trovato maggior
accordo tra gli studiosi:

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
Stile dipendente/indipendente dal campo: questo stile riguarda la tendenza a riconoscere
e isolare elementi nascosti in contesti complessi. La percezione dei campodipendenti è
dominata dal’organizzazione del campo, per cui incontrano difficoltà a riconoscere o
individuare un dato elemento, soprattutto in contesto ambiguo, così come la tendenza ad
essere legati alle informazioni presentate, che codificano senza sottoporle a
trasformazioni. I campoindipendenti, invece, non sono fortemente condizionati dal campo
e tendono a riorganizzare e ristrutturare i dati forniti, ad avere maggiormente un proprio
punto di vista, e a mostrarsi più flessibili nell’affrontare compiti e situazioni.
Stile verbalizzatore/visualizzatore: riguarda la distinzione tra individui che preferiscono
l’uso del codice linguistico, ossia pensare in parole, e individui che preferiscono l’uso del
codice visuo-spaziale, ossia pensare per immagini. Tale distinzione sembra particolarmente
evidente nei compiti di memoria in cui le informazioni vengono codificate, organizzate e
recuperate in base allo stile prediletto. Se uno studente ha uno stile verbalizzatore, ad
esempio, tende ad utilizzare strategie di studio che fanno ricorso a riassunti e associazioni
verbali, mentre uno studente dallo stile visualizzatore ricorre soprattutto a strategie quali
immagini mentali, mappe e rappresentazioni grafiche diverse.
Stile globale/analitico: riguarda la distinzione, ben evidente sul piano percettivo, tra
individui con tendenza a formarsi rappresentazioni complessive, prestando attenzione
contemporaneamente a più aspetti, e individui con tendenza a considerare i dettagli,
focalizzando l’attenzione su singoli aspetti. Di fronte alla rappresentazione di un bosco, c’è
chi lo percepisce subito come tale e chi, invece, vede una serie di alberi. Uno studente dallo
stile globale, di fronte a un testo o a un’immagine, tende a formarsi un’idea generale,
mentre lo studente dallo stile analitico a considerare i particolari.
Stile sistematico /intuitivo: distingue tra individui che tendono a procedere passo dopo
passo nei processi di ragionamento, prendendo in considerazione le variabili
singolarmente, e individui che tendono a procedere per ipotesi da confermare o smentire.
Il percorso di uno studente dallo stile sistematico appare più lento, ma anche consapevole
e impegnativo,mentre quello di uno studente dallo stile intuitivo sembra più veloce, facile
e meno verbalizzatore. È stato puntualizzato che questo stile non corrisponde interamente
al precedente in quanto si riferisce a processi psicologici diversi: se uno stile intuitivo non è
sicuramente analitico, non appare nemmeno necessariamente globale, così come uno stile
sistematico non si presenta solo analitico, ma tiene anche conto dell’insieme.


Stile convergente/divergente: definito nell’ambito degli studi sulla creatività, questo stile,
che si riferisce ai processi sia di ragionamento sia di memoria, distingue tra individui con
tendenza a produrre risposte tipiche e prevedibili seguendo un percorso logico e
convenzionale, e individui con tendenza a produrre risposte nuove originali, creative, ossia
divergenti.
Stile impulsivo/riflessivo: questo stile riguarda tempi decisionali nei processi di valutazione
e soluzione di problemi. Se si passa immediatamente dall’adozione senza analisi e
ponderazione delle possibilità a disposizione, la qualità di una decisione sarà diversa da
quella a cui si arriva a seguito di riflessione. A differenza di tutti gli altri stili, in questo caso
la popolarità riflessiva appare certamente più adattiva di quella impulsiva, i cui valori
estremi possono sconfinare nella patologia, ma in alcune situazioni, scolastiche e non,
possono essere apprezzate risposte rapide.
Con queste teorie non si vuole certo sostenere che a scuola le proposte didattiche degli insegnanti
si debbano adeguare alle preferenze stilistiche degli studenti, per cui i verbalizza tori non
dovrebbero avere a che fare con rappresentazioni grafiche o che ai visualizzatori non si dovrebbe
chiedere di scrivere riassunti. A ogni studente vanno invece presentate opportunità di sviluppare
flessibilità e versatilità necessarie a imparare a servirsi del proprio stile preferenziale nei contesti
appropriati, ma anche di uno stile opposto laddove la situazione o il compito lo richiedano. Ciò
risulta possibile nella misura in cui gli insegnanti adottano più metodi di istruzione, presentando i
contenuti attraverso vari percorsi, in modo che siano acquisiti facilmente dal più ampio numero di
studenti. A questo proposito, Gardner utilizza la metafora della stanza in cui entrare, che dispone
di almeno 5 porte d’accesso, per esprimere l’idea che si può “entrare” in un argomento, oggetto di
istruzione in modi diversi, ogni studente ha un punto di accesso più congeniale. L’esplorazione di
altri punti di accesso permetterà di sviluppare una varietà di stili di apprendimento, valido
antidoto al pensiero stereotipato. I punti di accesso sono:


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
Approccio narrativo: il concetto da esaminare è presentato sotto forma di forma di storia o
racconto; ad esempio, nel caso del concetto di democrazia, se ne ricostruisce la storia delle
origini nell’antica Grecia;
Approccio logico-quantitativo: il concetto da esaminare viene affrontato tramite
considerazioni numeriche e ragionamenti di natura deduttiva; nel caso della democrazia, si
può partire dallo studio delle varie modalità di voto adottate nel temo da un determinato
paese, analizzandone pro e contro;
Approccio filosofico-concettuale: la questione da esaminare viene trattata dal punto di
vista dei suoi aspetti filosofici e terminologici, congeniali a chi tende a porsi questioni e
interrogativi, a fare riflessioni sul mondo; nel caso del concetto di democrazia, si tratta, ad
esempio, di analizzare il significato etimologico della parola, le caratteristiche che
distinguono un governo democratico da un governo oligarchico, le ragioni che spingono ad
adottare il primo invece di quest’ultimo.
Approccio estetico: il concetto esaminato viene visto attraverso quegli aspetti sensoriali ed
esteriori che affascinano chi tende a guardare le cose con l’occhio dell’artista; nel caso del

concetto di democrazia, ad esempio, si possono far ascoltare alcuni complessi musicali che
suonano in gruppo senza guida o con la guida di un solo individuo;
Approccio esistenziale: il concetto esaminato viene affrontato praticamente; nel caso del
concetto di democrazia, ad esempio, si possono coinvolgere direttamente gli studenti a
lavorare in gruppi che devono prendere decisioni gestendo loro stessi.
Gli approcci post-vygotskijani
La psicologia culturale
Uno degli approcci che ha meglio capitalizzato l’eredità post-vygotskijana è quello della psicologia
culturale, che si assegna l’ambizioso tentativo di definire le linee guida per le scienze umane,
senza però voler essere una “nuova” psicologia ma piuttosto una scienza multidisciplinare, in
grado di integrare e far convergere i diversi punti di vista delle varie discipline che studiano
l’uomo. Uno degli obiettivi della psicologia culturale è quello di comprendere il processo di
accumulazione delle informazioni e competenze di cui l’uomo è capace. Due autori hanno dato un
contributo fondamentale: Bruner e Cole.
Il contributo di Bruner
Jerome Bruner sostiene che la relazione tra cultura collettiva e mente individuale è un tema che
ha da sempre interessato la psicologia, fin dai tempi della filosofia dei presocratici. Ma la
questione è complessa: infatti, se è vero che esiste una cultura che accomuna tutti gli esseri
umani, allo stesso tempo, esistono anche differenze culturali che contraddistinguono le varie
società e comunità. Bruner descrive i fondamenti del suo modo di intendere la psicologia culturale
nel testo “Acts of Meaning” (“La ricerca di significato”) in cui è possibile riconoscere l’idea di una
scienza intenta a superare la frammentarietà della psicologia moderna, accomunata dall’obiettivo
di occuparsi dei processi di attribuzione di significato. Infatti, secondo Bruner, oggetto della
psicologia culturale è proprio indagare come gli individui attribuiscono senso al mondo, come si
relazionano al sistema di senso già stabilito dalla cultura di cui fanno parte, come si appropriano
dei significati condivisi socialmente, delle credenze, dei valori e dei simboli culturali trasformandoli
attraverso il loro uso. La principale preoccupazione della psicologia culturale diventa, sostiene
Bruner, capire come gli individui costruiscono la loro realtà sulla base di una cultura comune,
definita attraverso narrazioni e simboli. Pertanto si tratta di reintrodurre la psiche nella cultura e la
cultura nella psiche, slogan coniato da Bruner nel tentativo di riparare al grave errore di aver
separato gli studi di stampo umanista da quelli centrati sulle scienze naturalistiche. Occorre
studiare la dimensione INTERSOGGETTIVA della realtà, costruita attraverso le interazioni sociali,
piuttosto che ambire alla definizione di una realtà esterna e oggettiva. Pertanto Bruner contesta in
modo deciso la concezione della mente come un meccanismo di processa mento delle
informazioni, così come aveva sostenuto quella parte di cognitivismo da cui in seguito si è
originata l’intelligenza artificiale. La mente è, invece, un insieme di processi tutti rivolti verso
l’attribuzione di significato, processi complessi, confusi, ambigui, sensibili al contesto, pertanto
impossibili da descrivere con leggi rigide e meccanicistiche. Cerchiamo ora di evidenziare il
contributo di Bruner ai temi della psicologia dell’educazione, facendo riferimento a “The Culture of
Education”, opera dedicata proprio ad esporre il contributo della psicologia culturale
all’educazione, partendo dall’articolazione di 9 principi guida :
1) Il primo principio guida è quello della prospettiva e si riferisce all’idea per cui il significato
attribuito a fatti, episodi, concetti dipenda sempre dalla prospettiva assunta da chi elabora
tale significato. Quindi, per comprendere davvero il senso di qualcosa occorre essere
consapevoli che sono possibili significati alternativi. Questo implica una relativizzazione
dell’attribuzione di significato, per cui ogni significato dipende dalla prospettiva adottata.
2) Il secondo principio è denominato delle limitazioni. Bruner ne individua due: la prima
limitazione riguarda la stessa natura del funzionamento della mente umana e del suo
sviluppo, per cui oggi pensiamo e agiamo in certi modi che sono determinati, limitati, dalla
storia della nostra specie (la mente umana, infatti, non funziona in maniera lineare
secondo leggi di causa-effetto); la seconda limitazione è imposta dai sistemi simbolici
accessibili alla mente umana, ovvero dai limiti imposti dalla natura stessa del linguaggio e
dai diversi sistemi di dotazione prodotti dalla cultura. A tale proposito Bruner si chiede se la
capacità di concepire certe idee sia inerente alla natura della mente o se sia invece legata
ai sistemi simbolici su cui la mente fa affidamento per svolgere le sue operazioni. In caso,
Bruner suggerisce di coltivare una maggiore consapevolezza linguistica per poter
accrescere la capacità di interpretare significati, costruire conoscenza e riflettere sul
pensiero.
3) Il terzo principio è quello del costruttivismo: la realtà non è data ma è creata attraverso
l’attività di significazione e l’educazione ha come obiettivo proprio quello di fornire gli
strumenti dell’attribuire significato al mondo e per costruire nuove realtà, modificando il
mondo.
4) Il quarto principio è denominato dell’interazione e implica l’esistenza di un’alterità, reale o
simbolica, e di una comunità. È attraverso l’interazione che si scopre che cos’è la cultura.
Specifico della nostra specie è l’insegnamento deliberato di nozioni i contesti diversi (cioè
quelli scolastici) da quelli in cui tali nozioni saranno utilizzate. Si tratta di una capacità che
origina dal linguaggio ma che coinvolge la nostra straordinaria predisposizione verso
l’intersoggettività: infatti, Bruner afferma che siamo la specie intersoggettiva per
eccellenza. La tradizione pedagogica occidentale ha reso poco giustizia all’importanza
dell’intersoggettività nella trasmissione culturale e solo recentemente si assiste a una
crescente attenzione per questo aspetto e alle connessioni con i processi di
apprendimento. Per Bruner, l’intersoggettività permette di sostituire il concetto di classe
con quello di comunità, in cui tutti si aiutano reciprocamente e i processi di costruzione
collaborativa sostituiscono quelli di apprendimento individuale, infatti non si impara in
modo solipsistico ma cooperativo.
5) Il principio dell’esternalizzazione si fonda sull’idea che la funzione principale di ogni attività
culturale collettiva sia quella di produrre opere che riescano ad avere in seguito vita
propria. In tal senso possono essere considerate opere sia quelle artistiche sia strutture
istituzionali, come ad esempio le leggi, le scoperte, le tecnologie di quella determinata
cultura. L’opera è un prodotto culturale che produce orgoglio e senso di identità. Le opere
collettive costituiscono “esternalizzazioni”, ovvero incarnazioni della cultura che li ha
prodotti. L’opera a scuola per essere tale deve essere esposta. Infatti, esternalizzando il
pensiero lo condividiamo e lo negoziamo, le opere servono proprio per negoziare
significati. Con l’opera si concretizza un pensiero comune (es. di opera a scuola: il trofeo
vinto dalla squadra di calcio della scuola , esposto nella bacheca in corridoio). Le opere
sono la testimonianza degli sforzi mentali posti “fuori di noi” e pertanto suscettibili di
riflessione, di trasmissione e di ulteriori modifiche. In sintesi l’esternalizzazione libera
l’attività cognitiva dal suo carattere implicito, rendendola pubblica, negoziabile e sociale.
6) Il principio dello strumentalismo fa riferimento alle conseguenze che l’educazione
comporta nella vita degli individui. L’educazione fornisce modi di pensare, sentire e parlare
che vengono certificati dalla scuola, dal titolo conseguito, dal “distintivo” rilasciato. Questo
principio svela il carattere politico che Bruner assegna all’educazione: la qualità
dell’educazione dipende dalla capacità (o meglio dalla volontà) delle istituzioni scolastiche
di combinare il talento con le opportunità, le occasioni che la scuola dovrebbe offrire. Un
individuo può anche essere dotato, ma se il contesto in cui vive non gli fornisce occasioni,
non potrà emergere. Spesso la scuola si concentra sul coltivare talenti, rintracciabili in vario
modo, ad esempio mediante i test o altri strumenti di valutazione. Il nodo fondamentale a
tal proposito sta nel saper apprezzare la varietà dei talenti senza privilegiare un modello
unico di pensiero. La scuola dovrebbe offrire a tutti occasioni per sviluppare i più diversi
talenti, accettando e valorizzando anche modi di pensare non egemonici, tenendo conto
del contesto in cui i bambini vivono.
7) Il principio istituzionale rafforza il principio precedente, considerando la scuola un
istituzione che si assume il compito di preparare i giovani a partecipare ad altre istituzioni
culturali. La scuola, come qualsiasi altra istituzione, fornisce “merci” (ovvero gli studenti)
che vengono scambiati nel mercato del lavoro e il valore dipende dal “distintivo”, dal loro
“capitale simboli”, quindi dalle competenze e di titoli ottenuti. Le stesse denominazioni di
istruzione “primaria” e “secondaria” sono delle metafore che alludono a questo
meccanismo, così come tacitamente si accetta che un laureato di una certa università valga
di più o di meno di uno proveniente da un’altra. Il valore di ciascuna istituzione educativa è
determinato da prassi e procedure secolarizzate che, però, spesso, impediscono di stare al
passo con i problemi contemporanei della società di cui fanno parte. Bruner finisce con il
chiedersi se non sia il caso di pensare a nuove istituzioni educative, data l’evidente
incapacità della scuola attuale di tener conto dei reali problemi sociali e, in alternativa,
propone che si creino nuove istituzioni capaci di funzionare da cinghia di trasmissione tra
scuola e società, che sappiano assumersi il compito di effettuare scelte politiche
opportune.
8) L’ottavo principio proposto da Bruner è quello dell’identità e dell’autostima. Bruner
considera il fenomeno del Sé a fondamento dell’esperienza umana, a cui l’educazione
contribuisce enormemente. In particolare Bruner si focalizza su 2 aspetti che considera
universali, trasversali a tutte le culture: la capacità d’azione (agency) e la valutazione.
L’agency deriva dal senso di poter iniziare e portare a avanti delle attività per proprio
conto, andando però oltre la semplice attività senso-motoria. Il riferimento è alla
costruzione di un sistema concettuale che organizza e documenta contemporaneamente la
memoria autobiografica, estrapolando significati da applicare al futuro, e le trame di un sé
possibile, dotato di storia e di possibilità future. L’agency si evince dal modo in cui si
narrano i fatti e si parla di sé, dal modo con cui si individuano relazioni causa-effetto,
dall’attribuzione di responsabilità che va oltre gli aspetti morali e include il saper
riconoscere che siamo gli ultimi arbitri del successo o del fallimento delle nostre azioni,
spesso definite dall’esterno secondo criteri specificamente culturali, che la scuola dovrebbe
chiarire. Questo aspetto costituisce il punto di incontro con la dimensione della
valutazione, per cui oltre a considerarsi agenti, ci si deve considerare capaci di adottare
criteri di valutazione culturalmente definiti allo scopo di stabilire l’efficacia delle nostre
azioni. È questo misto di efficacia come agenti e di auto-valutazione che Bruner definisce
“autostima”. Il modo con cui viene vissuta ed espressa l’autostima varia a seconda delle
culture ma, in ogni caso, la sua gestione risente sicuramente della disponibilità di supporti
esterni. Quindi, di fronte a un insuccesso, offrire una seconda opportunità, incoraggiare a
riprovarci anche senza risultati eccezionali, offrire opportunità di dialogo e riflessione, sono
tutte strategie utili per migliorare l’autostima degli studenti.
9) L’ultimo principio bruneriano è quello narrativo e riguarda le modalità di pensiero che
possono aiutare gli studenti a creare una visione del mondo in cui immaginare un posto per
sé. Bruner distingue due modi con cui gli esseri umani organizzano e strutturano la loro
conoscenza: il pensiero logico-scientifico e quello narrativo. I contesti educativi,
tradizionalmente danno maggiore rilevanza alla prima tipologia di pensiero e trattano,
invece,il pensiero narrativo come decorativo, secondario, legato in particolare alle arti,
dimenticando che spesso comprendiamo le nostre origini e credenze culturali proprio in
forma di storie e curiamo non solo il contenuto di tali storie ma anche la loro forma e
l’abilità con cui narrarle. Viviamo in un mare di storie, ci allerta Bruner, e così come i pesci
sono gli ultimi a rendersi conto dell’importanza dell’acqua, noi non ci rendiamo conto di
quanto siano preziose le storie di cui viviamo. Per Bruner è evidente che la competenza di
elaborare e comprendere storie è essenziale per costruire il senso della propria vita e del
mondo di cui facciamo parte. La scuola, quindi, dovrebbe aver cura di integrare il
ragionamento e il pensiero scientifico con la sensibilità narrativa, utile a rintracciare il
senso profondo delle cose, a stimolare la creatività e l’immaginazione ma anche a costruire
e ricostruire il senso del Sé.
Dopo aver delineato i 9 principi costituitivi di una psicologia dell’educazione fondata sulla
psicologia culturale, Bruner ridefinisce gli obiettivi della psicologia dell’educazione in termini di
sfida alla comprensione dell’intersoggettività. L’intersoggettività è per Bruner “il processo per cui
si giunge a sapere che cosa hanno in mente gli altri e ci si adatta di conseguenza”, è proprio questo
il processo che fa di noi la specie culturale per eccellenza.
Il contributo di Cole
Micheal Cole è lo psicologo che più di tutti ha sottolineato come l’assunzione della prospettiva
culturale non sia solo necessaria ma già implicita nella psicologia stessa. Cole nel suo testo
fondamentale “Cultural Psychology: Once and Future Discipline” (1996), ripercorre infatti la storia
della psicologia allo scopo di dimostrare come l’istanza culturalista fosse in germe già da tempo
nella psicologia ma, per varie ragioni, tale germe sia stato incapace a lungo di produrre i risultati
attesi. Cole si rammarica di quanto poco la psicologia abbia seguito le sollecitazioni provenienti
dalla cosiddetta “seconda psicologia”, ovvero la psicologia che si contrappone, integrandola, al
paradigma sperimentalista fondato sulla scomposizione dei fenomeni da studiare in variabili da
controllare e misurare. L’oggetto di studio della psicologia culturale deve essere l’analisi degli
eventi quotidiani, delle azioni svolte in contesti reali. Nel 1963 Cole riceve l’incarico dal governo
americano di migliorare i risultati scolastici dei bambini kpelle (popolazione della Liberia dedita alla
coltivazione del riso), in particolare nel curricolo di matematica. Cole resta molto impressionato
dalla differenza di comportamento di questi bambini quando osservati a scuola e quando, invece,
esaminati in contesti informali. A scuola sembrano incapaci di effettuare operazioni matematiche
semplici, mentre durante i giochi al mercato e in altre attività quotidiane mostravano capacità
raffinate. Non era solo un problema di memorizzazione, ciò che mancava era proprio la
contestualizzazione dei compiti, presentati con un linguaggio formale, noto e ovvio per gli
occidentali, astruso e incomprensibile per gli indigeni abituati a sistemi di misurazione ancorati agli
utensili (coppe, mestoli) utilizzati per misurare e vendere il riso. Cole mostrò come la capacità di
memorizzare degli indigeni aumentasse enormemente quando invece di una lista di parole si
proponeva una narrazione che utilizzava gli stessi termini per elencare i doni offerti da un
pretendente per poter sposare la figlia del capo tribù. Il focus di interesse di Cole si sposta, quindi,
sul ruolo che l’educazione gioca nello sviluppo culturale ed egemonico di un paese. In tal senso
Cole si ricollega agli studi di Lurjia sui contadini non alfabetizzati dell’Asia centrale per sostenere
che la scolarizzazione produce un cambiamento profondo nel modo di ragionare e pensare delle
persone. I test con cui si valutano gli effetti della scolarizzazione sono basati sui compiti utilizzati a
scuola, che vengono scelti come test proprio perché discriminano meglio i livelli accademici. È
questa la ragione per cui gli studenti occidentali ottengono risultati migliori ai test standardizzati
dei loro coetanei di altre parti del mondo dove la scolarizzazione è meno pervasiva. Pertanto, i
processi culturali sono i grado di influenzare fortemente i processi cognitivi, tanto da considerare
anche i processi primari (come la percezione) influenzati dalla cultura. L’attività mentale emerge
dall’azione mediata degli artefatti ed è svolta da più persone collaborativamente, la mente è
quindi co-costruita e distribuita. Gli artefatti sono strumenti culturali, materiali o immateriali, che
mediano il rapporto tra uomo e ambiente. Essi si possono dividere in 3 grandi categorie:
-
Artefatti primari: strumenti e dispositivi impiegati direttamente nell’attività umana e per
interagire fra loro e con l’ambiente (dalla sedia ai mezzi di comunicazione);
Artefatti secondari: le rappresentazioni mentali di quelli primari, in forma di modelli
mentali, schemi cognitivi e norme (ad esempio la macchina e la strada sono degli artefatti
primari, mentre il codice della strada è un artefatto secondario che organizza
concettualmente quelli primari;
-
Artefatti terziari: sono delle sovrastrutture che organizzano gli artefatti primari e secondari
( una filosofia, ideologia, religione) .
Possiamo sostenere che Cole individuando la categoria degli artefatti abbia riorganizzato quelli che
Vygotskij chiamava strumenti tecnici e psicologici. Gli strumenti tecnici corrispondono agli artefatti
primari, mentre quelli psicologici agli artefatti secondari e terziari. La differenza principale tra
Vygotskij e Cole è che il primo si è occupato di più dei processi cognitivi, mentre il secondo si è
focalizzato sugli aspetti psicologici della vita pratica.
Cole propone di utilizzare anche a scuola una metodologia multilivello: tenere conto
contemporaneamente dell’individuo, del contesto situato e locale e del contesto storico-culturale
più ampio. Lavorando in una classe per comprendere i processi cognitivi si dovrebbe cercare di
mettere in relazione quello che accade in classe qui e ora con l’evoluzione della classe, con la
storia della scuola in cui la classe si trova e dell’istituzione formativa a cui la scuola appartiene. La
scuola però poco si presta a questo tipo di sperimentazione, per cui Cole individua altri contesti
che possano rappresentare aree contigue alla scuola: biblioteche, doposcuola e ludoteche. La sua
proposta di intervento prende il nome di Quinta dimensione e fa fortemente leva sugli aspetti
ludici per motivare allo studio. Essa è un insieme di giochi telematici e da tavola, dove vi è un
personaggio immaginario, il Wizard (mago) che coordina le attività. Esso è assistito da ragazzi un
po’ più grandi (generalmente universitari coordinati da un docente ma anche boy-scout) che
rappresentano figure di mediazione perché sono più adulti dei bambini, quindi possono aiutarli a
comprendere le regole del gioco e a migliorare le loro prestazioni, ma come loro sono ancora
studenti, seppure a livello più avanzato, quindi devono loro stessi rispettare le regole del gioco.
L’obiettivo generale del gioco è accumulare punteggi per far avanzare la propria posizione nella
gerarchia del sistema, fino a diventare assistenti del Wizard; si ottengono anche punteggi aiutando
gli altri studenti in difficoltà. In sintesi, ciascuna Quinta dimensione propone su piccola scala un
sistema sociale che aiuta i ragazzi a passare da attività di gioco ad attività formali di
apprendimento.
Approccio storico-culturale: dalla teoria dell’attività alla teoria delle reti
di attività
Vygotskij propose una psicologia fondata sull’agire umano mediato da oggetti e rivolto verso un
obiettivo produttivo. Per sottolineare l’importanza del radicamento nella dimensione storicoculturale, gli psicologi russi propongono di denominare il loro approccio CHAT (Cultural Historical
Activity Theory), ovvero teoria dell’attività storico-culturale. La teoria dell’attività storicoculturale, si occupa del ruolo svolto dagli oggetti di mediazione considerati come artefatti, la
ragione di questa attenzione è da rintracciare nella capacità, tipica ed esclusiva degli uomini di
creare strumenti in grado di potenziare la propria azione, di far evolvere tali strumenti e di
trasmetterli di generazione in generazione. Per capire come si avviano i processi di sviluppo di un
bambino occorre conoscere il contesto-storico culturale in cui tale bambino nasce e cresce. Cole e
Engestrom affermano che tale analisi deve partire dalle azioni possibili in un determinato
contesto. Questo enunciato sancisce l’indissolubilità tra uomo e contesto e diventa fondamento
della teoria dell’attività. Kaptelinin e Nardi individuano 5 principi basilari:

La mediazione: qualsiasi azione l’uomo compia è sempre inevitabilmente mediata da
strumenti. Dato che gli uomini non hanno accesso diretto alla realtà, utilizzano strumenti
che mediano la sua interazione con il mondo e lo aiutano a dare senso e significato a quello
che fa. Per descrivere questo concetto si ricorre ad una rappresentazione con un triangolo
formato da frecce, in cui i vertici sono strumento, soggetto e oggetto. Gli strumenti si
interpongono tra soggetto e oggetto. Gli strumenti sono creati e continuamente
trasformati durante lo svolgimento delle attività e portano più o meno visibilmente i segni
del loro sviluppo storico-culturale. L’uso degli strumenti va quindi inteso come
un’accumulazione e una trasmissione sociale del sapere, come una sorta di testimone che
ci passiamo di generazione in generazione apportandovi continuamente modifiche e
mutamenti.
Strumento
Soggetto


Oggetto
La strutturazione gerarchica dell’attività: sebbene le attività orientate verso un oggetto
rappresentino l’unità d’analisi fondamentale, queste possono essere scomposte in 2 livelli
più analitici: le azioni e le operazioni. Le azioni vengono svolte per raggiungere l’obiettivo e
sono intraprese consapevolmente; esse però vengono implementate attraverso operazioni
automatiche, svolte spesso quasi inconsapevolmente, che non hanno scopi a sé stanti ma
sono funzionali alle azioni. Ad esempio, frequentare l’università per trovare un lavoro è
un’attività con uno scopo chiaro e preciso, in grado di motivare un insieme organizzato di
azioni (come partecipare alle lezioni e sostenere esami). Tali azioni sono svolte anche
grazie ad una seri di operazioni routinarie, quasi automatiche (come selezionare un certo
posto in aula durante le lezioni, oppure prendere appunti, svolgere personali ritualità
prima di sostenere un esame). Gli elementi che compongono un’attività non sono stabili e
rigidi, ma possono cambiare dinamicamente, a seconda delle condizioni in cui svolge
l’attività. Leont’ev fa l’esempio dell’imparare a guidare una macchina : cambiare la marcia
richiede inizialmente un’attenzione e un’intenzionalità precisa, di fatti poche sono le
“operazioni” che si riescono a svolgere automaticamente, senza doverci pensare troppo. In
seguito dopo aver familiarizzato con l’attività del guidare, l’attività del cambiare la marcia
diventa un’operazione automatizzata. Molte azioni, infatti, sono destinate a scendere al
rango di operazioni che pian piano diventano sempre più meccaniche.
Orientamento sull’oggetto: questo principio sancisce che ogni attività è rivolta verso un
oggetto che è sempre provvisto di due diverse definizioni: una oggettiva, data dalle scienze
naturali e un’altra, invece, socialmente e culturalmente definita. Quindi gli oggetti
usufruiscono sia di una definizione scientifica e tecnica sia di una definizione determinata
dal loro uso quotidiano e contestualizzato.


L’internalizzazione/esternalizzazione: dell’attività che permette di differenziare tra
attività interne ed esterne. Le une non possono essere comprese senza le altre dato che
sono legate in un continum dinamico per cui vengono reciprocamente trasformate. Le
attività sono prima immaginate, rappresentate mentalmente e poi realizzate nel mondo
reale. Nel passaggio dalla rappresentazione interna alla realizzazione esterna le attività
subiscono inevitabilmente delle modifiche tali da indurre a riorganizzare la realizzazione
esterna e di conseguenza anche la rappresentazione interna risulta ristrutturata.
Lo sviluppo delle attività: per comprendere le attività occorre analizzarne lo sviluppo nel
tempo, considerare come si modificano e si storicizzano.
La teoria con il tempo ha subito diverse modifiche ed è stata rimodellata tenendo in maggior
conto del ruolo delle interazioni, della comunità e della divisione del lavoro. Si profila così la teoria
dei sistemi di attività, nella quale il soggetto viene riconsiderato come parte di un gruppo o di una
comunità composta da persone che condividono obiettivi e regole, funzionali alla realizzazione
delle azioni. Il semplice triangolo proposto per esplicitare il ruolo della mediazione diventa ora un
triangolo complesso.
Senso
Significato
Scopo
Questa nuova rappresentazione sancisce il passaggio dalla prima generazione della teoria
dell’attività alla seconda generazione della teoria dei sistemi di attività, dove viene rappresentata
la relazione tra individuo e azione collettiva. L’oggetto è raffigurato circondato da un ovale per
indicare che le azioni sono sempre orientate verso un oggetto, esplicitamente o implicitamente
caratterizzate da interpretazione e sense-making. La terza generazione è quella della teoria delle
reti di attività. Essa focalizza l’attenzione sulla comprensione del dialogo, della molteplicità delle
prospettive e di voci che si realizzano entro e tra sistemi oltre che le dinamiche delle reti che si
creano tra i vari sistemi di attività che interagiscono tra di loro.
L’obiettivo ultimo è comprendere l’influenza reciproca che gli individui subiscono ed esercitano
all’interno dei contesti culturalmente complessi. Quando due contesti culturalmente diversi
entrano in contatto costruiscono un terzo oggetto che include e al tempo stesso va oltre la somma
dei due oggetti prodotti dai sistemi.
Dall’approccio situato alla cognizione distribuita
L’approccio del contesto situato nasce per contrastare l’idea di programmabilità delle azioni.
Sostenere la situatività delle azioni significa considerare la dimensione più dinamica e meno
predefinita: le azioni vanno considerate come capaci di adattamenti plastici alle particolarità delle
situazioni. L’analisi delle azioni deve rendere conto del complesso sistema di interdipendenze
cognitive e contestuali su cui poggia il sistema di significati e di conoscenze. L’approccio situato
consente di predisporre in modo innovativo le situazioni di apprendimento considerando in
particolare quelle pratiche educative in cui i materiali e gli strumenti utilizzati assumono un ruolo
così rilevante da riuscire a condizionare in modo sostanziale i processi in atto. In questi casi
adottare una prospettiva situata significa indagare il modo unico e specifico con cui un certo
strumento è utilizzato in quel determinato contesto rintracciandone le connessioni con il contesto
culturale più ampio. In campo educativo si parla specificamente di apprendimento situato per
evidenziare che non ci si occupa più di generiche abilità di studio ma della costruzione di
conoscenza in contesti diversi, quindi non dell’acquisizione di sapere, ma dello studio delle
dinamiche attraverso cui determinate persone costruiscono un significato condiviso del contesto,
attraverso le azioni svolte in esso. Secondo l’approccio situato, la mente funziona, entrando in
connessione con il sistema di strumenti, attività, individui in cui l’azione è situata. Questo
presupposto aggiunge all’idea che la cognizione non sia un processo individuale che si svolge nella
testa degli individui, ma un processo che prende forma nell’interazione sociale e contestuale.
COGNIZIONE DISTRIBUITA significa che i processi cognitivi necessari per affrontare una certa
situazione, pur venendo percepiti come se si realizzassero nella mente individuale, in realtà
vengono attivati grazie a dinamiche di interazione con altri individui e con gli strumenti presenti
nel contesto. Ad esempio, se nel fare la spesa ci facciamo aiutare da un amico, magari
chiedendogli di ricordare i prodotti da acquistare (facendo leva sul processo interno di memoria
del nostro amico) o potremmo passargli una lista per farci dire ciò che manca. Si tratta di un
processo di cognizione distribuita tra persone e artefatti.
La prospettiva dialogica di Bachtin
Nella prospettiva dialogica fondamentali sono i concetti di voce e di polifonia. Si tratta di concetti
interconnessi, che partono dal presupposto che ciascuno di noi è dotato di molte “voci” ovvero
punti di vista a volte anche contrastanti e contraddittori, che sono solo parzialmente “nostri”.
Molto di quello che diciamo, lo prendiamo in prestito da altri, che hanno espresso punti di vista,
concetti, emozioni, prima di noi e che noi usiamo come punto di partenza, integrandole,
elaborandole ulteriormente, a volte per dissentire a volte per divergere. L’insieme delle voci
compone una polifonia multivocale, non necessariamente armonica. Vivere, dichiara Bachtin,
significa partecipare a dialoghi: fare domande, richiedere attenzione, dare risposte, essere in
accordo o in disaccordo. È solo nel dialogo che le persone partecipano alla vita, anzi prendono vita.
Tuttavia per avere un dialogo occorrono almeno due voci dotate di intenzione di ascolto reciproco,
ma anche di punti di vista diversi, di posizioni diverse che possono appartenere pure alla
medesima persona; per cui, sebbene per avere un dialogo occorrano almeno 2 voci, non sono
necessarie due persone diverse, grazie ala capacità di ciascuno di noi di esprimersi attraverso più
voci.
La motivazione ad apprendere
Nel linguaggio comune l’espressione “allievo motivato” richiama alla mente un insieme di
atteggiamenti e comportamenti riconducibili alla “voglia di imparare”, quali l’interesse per le
proposte didattiche dell’insegnate e per le materie scolastiche, una buona tenuta nello studio, il
senso di responsabilità nei confronti dei doveri scolastici, un certo grado di sicurezza di sé. Per
converso, “allievo demotivato” richiama un allievo svogliato, poco sicuro di sé, in genere
scarsamente in grado di affrontare le difficoltà nello studio. Nel linguaggio psicologico, a differenza
di quello comune, i termini possiedono significati assai meno densi e molto più precisi, elaborati
nell’ambito di quadri teorici diversi. Per esempio, le caratteristiche dell’allievo motivato appena
citate sono state studiate da teorie diverse: la voglia di imparare rimanda alla teoria della
motivazione intrinseca, la sicurezza di sé alle ricerche sul concetto di sé e sul senso di
autoefficacia, la tenuta nello studio al concetto di autoregolazione. Non c’è un’unica teoria che
renda conto della motivazione scolastica e, del resto, lo stesso concetto di motivazione ha un
significato talmente ampio, comprensivo di tanti aspetti e processi, che per usarlo in modo
significativo è necessario far riferimento a singole teorie, nell’ambito delle quali le varie
manifestazioni del comportamento motivato o demotivato sono analizzate e interpretate.
L’approccio comportamentista alla motivazione
I comportamentisti non hanno affrontato il concetto di motivazione vero e proprio, perché esso
sta all’interno della black box, più che altro per loro il concetto di motivazione si lega a quello di
rinforzo. Hull e Skinner sono i due comportamentisti che più si sono avvicinati al concetto di
motivazione. Per Hull la motivazione (ad es. il bisogno di cibo) spinge l’organismo alla ricerca della
sua soddisfazione, cioè a raggiungere l’equilibrio omeostatico che la privazione del cibo ha
causato. Questa soddisfazione costituisce il rinforzo, che consolida e rafforza la risposta
dall’organismo, cioè il comportamento che ha immediatamente preceduto l’evento rinforzante, il
rinforzo “fissa” la risposta dell’organismo che ha portato alla soddisfazione del bisogno. In questo
modo la risposta viene appresa. Per Hull un organismo agisce per ridurre dei bisogni. Egli distingue
tra bisogni primari (fame, sete, sesso, evitare il dolore) e bisogni secondari, cioè bisogni appresi
per condizionamento (per es. il bisogno di guadagnare di più per comprarsi il cellulare di ultima
generazione). I bisogni determinano delle pulsioni, cioè stimoli che sorgono da uno stato di
bisogno e hanno la funzione di attivare il comportamento. Quando lo stimolo della pulsione è
ridotto (ad es. quando l’aver ingerito cibo riduce lo stimolo della fame) si verifica la condizione di
rinforzo. Per Hull affinché ci sia apprendimento è necessario che ci sia un bisogno(disequilibrio
omeostatico) che porta ad una pulsione che porta al suo soddisfacimento e quindi al rinforzo
(riequilibrio omeostatico). La soddisfazione del bisogno genera una maggior adattabilità
all’ambiente, perché per soddisfarlo sono pronto a mettere in atto anche risposte
comportamentali nuove. (es. il gatto sa che per soddisfare il suo bisogno di cibo deve andare in
cucina dove c’è la ciotola piena, ma se troverà la porta della cucina chiusa dovrà mettere in atto un
nuovo comportamento per soddisfare il suo bisogno; magari troverà la porta del cortile interno
aperta e riceverà da mangiare dalla vicina e in questo modo verrà rinforzato per il suo nuovo
comportamento; ha imparato una nuova risposta comportamentale, per soddisfare il suo bisogno
di cibo può anche andare dalla vicina dove esso verrà soddisfatto). Per Skinner, invece, perché vi
sia apprendimento non è necessario che vi sia un bisogno, l’unica variabile importante è il rinforzo
( il gatto può anche non essere affamato e non aver bisogno di mangiare , però se mangia ci sarà
comunque una conseguenza piacevole (un rinforzo) che consoliderà il comportamento). Per
Skinner l’allievo motivato è quello a cui un sapiente dosaggio del rinforzo consente di mantenersi
sempre pronto ad imparare. Il ruolo dell’insegnante è quello di predisporre un ambiente
rinforzante. I comportamentisti più che parlare di motivazione si riferiscono all’uso del rinforzo ,
per controllare il comportamento attraverso lo stimolo. Se l’individuo non è in grado
immediatamente di raggiungere il livello di prestazione atteso, il suo comportamento viene
modellato attraverso un percorso graduale (istruzione programmata). Una volta che il livello
atteso di prestazione è stato raggiunto, viene rinforzato abbastanza spesso per mantenere la
continuità, mentre ogni comportamento incompatibile con quello atteso viene estinto mediante
l’assenza di rinforzo. Buona parte delle pratiche scolastiche degli insegnanti è ancora oggi
impregnata di comportamentismo (vedi gli stessi voti visti come premi, tabelloni con simboli di
merito e cerimonie di conferimento dei premi). Se molti studiosi sostengono l’efficacia immediata
di tale approccio, altri ne evidenziano il limite nell’ancorare in modo eccessivo l’attività scolastica
al rinforzo. Resta aperta la questione del come far cogliere agli studenti l’importanza e l’utilità in
sé dello studio qualora sia stato percepito per lungo tempo come un’attività strumentalmente
rivolta al conseguimento di un vantaggio, che per di più non ha nessi diretti con il contenuto
studiato. L’introduzione di ricompense da parte dell’insegnante dovrebbe essere una scelta
ampiamente mediata nei modi e nei tempi, pena la perdita del “gusto” dell’imparare che
dovrebbe mantenersi ben oltre la scuola.
Le 3 dimensioni della motivazione
Lo studio della motivazione ad apprendere degli ultimi trent’anni è stato caratterizzato dai
seguenti aspetti:
-
-
Il ruolo attivo dell’individuo. La motivazione non va ricondotta alla sola soddisfazione
passiva dei bisogni primari ma sorge quando l’individuo si pone degli obiettivi.
La modalità con cui l’individuo si percepisce in relazione ad un compito che dovrà svolgere
e al risultato positivo o negativo del compito stesso (rapporto prestazione – senso di
competenza).
La terza dimensione riguarda gli strumenti che l’individuo mette in atto per raggiungere i
suoi obiettivi (con riferimento anche alle strategie messe in atto).
La teoria degli obiettivi di riuscita
Il termine obiettivo nel linguaggio comune indica un target, un vero e proprio traguardo. Nel caso
della teoria degli obiettivi di riuscita il significato del termine è diverso. Non si tratta di un risultato
da raggiungere ma del perché, della ragione per cui un individuo si impegna in un compito o
attività di apprendimento. Gli obiettivi di riuscita sono quindi superordinati rispetto ai risultati
particolari che lo studente si propone di ottenere. Per esempio l’obiettivo target per due studenti
può essere lo stesso, quello di sostenere un esame, ma magari per uno studente l’obiettivo di
riuscita può essere quello di approfondire una materia che ritiene utile per la futura professione,
mentre per un altro può essere quello di prendere il voto massimo per farsi apprezzare dal
professore e sentirsi migliore dei colleghi. L’obiettivo di riuscita non è un traguardo ma una
tendenza, un orientamento dell’individuo verso la realizzazione del sé. Questo orientamento si
riflette in un complesso coerente di comportamenti e atteggiamenti nelle situazioni in cui un
individuo vuole riuscire. Un obiettivo di riuscita comporta :
-
una credenza dell’individuo circa la propria abilità ,
la tendenza ad attribuire il successo o l’insuccesso a determinate cause piuttosto che ad
altre ;
un certo grado di perseveranza ed espressione di affettività positiva o negativa in risposta
ad un successo o ad un insuccesso
Il costrutto degli obiettivi di riuscita è emerso dalla ricerca condotta negli anni ottanta da alcuni
studiosi americani, tra cui soprattutto la Dweck. La Dweck nella costruzione della sua teoria si
pone la seguente domanda: perché si studia? O meglio, per chi si studia? Si può studiare per se
stessi, per migliorare la propria padronanza e competenza, ma anche per l’approvazione degli altri.
La Dweck inizia la sua ricerca analizzando la situazione dell’insuccesso. Il momento in cui uno
studente sperimenta l’insuccesso è fondamentale, perché egli in quel momento si pone delle
domande circa il proprio impegno, le strategie utilizzate, le proprie capacità, se è in grado di
raggiungere l’obiettivo che si è prefissato e cosa pensano gli altri del proprio insuccesso (ciò può
provocare senso di vergogna e di inadeguatezza). La capacità di gestione dell’insuccesso è
fondamentale. La studiosa ha iniziato la sua ricerca proprio ponendo gli studenti di fronte ad un
insuccesso. Gli studenti reagivano in due modi diversi:
-
-
alcuni tendevano a non scoraggiarsi, mostravano persistenza, cercavano strategie più
efficaci, attribuivano l’insuccesso a scarso impegno e o a strategie inefficaci (pattern di
risposte adattive di “padronanza”) ;
alcuni tendevano a scoraggiarsi, mostravano minor persistenza, manifestavano
frustrazione e aggressività, le loro strategie diventavano rigide e ripetitive (pattern
chiamato di “sconforto”).
Per spiegare questi diversi pattern Dweck usò il costrutto degli obiettivi di riuscita .Come
affermato precedentemente il termine obiettivi di riuscita indica lo scopo (il perché, la ragione)
per cui uno studente affronta una situazione di apprendimento. Dweck ha individuato due
obiettivi :


Obiettivi di padronanza ;
Obiettivi di prestazione.
Gli studenti orientati alla padronanza (o centrati sul compito) perseguono obiettivi relativi al
compito:
-
sono soprattutto motivati a capire ciò che fanno e a farlo bene;
hanno generalmente fiducia in se stessi (alto senso di efficacia);
persistono nel compito se incontrano difficoltà ;
esprimono minor affettività negativa quando non riescono;
mostrano strategie cognitive più flessibili;
si sanno autoregolare meglio;
trovano l’attività intrinsecamente motivante.
Gli studenti orientati alla prestazione (o centrati sul dimostrare la propria abilità) perseguono
risultati che derivano dalle aspettative sociali associate al compito:
-
la valutazione e l’idea che si fanno gli altri è fondamentale per questi studenti;
lo studente mostra maggiore vulnerabilità verso lo sconforto soprattutto nei casi di una
bassa percezione della propria abilità;
mostra minore persistenza nel compito;
mostra comportamenti aggressivi di fronte all’insuccesso;
utilizza strategie rigide e ripetitive.
Il primo orientamento sarebbe funzionale e adattivo rispetto all’insuccesso, il secondo
maladattivo.
L’obiettivo di prestazione nutre l’autostima attraverso il risultato, quello di padronanza attraverso
l’impegno, la costanza e le nuove competenze acquisite.
In una delle diverse ricerche svolte, la Dweck propose a dei bambini una serie di esercizi
matematici in ordine crescente di difficoltà. Quando si sbagliava un compito bisognava tornare a
quello di difficoltà precedente ririsolverlo e poi andare a quello successivo. Durante le diverse fasi
gli studenti dovevano dire a voce alt tutto ciò che pensavano. (Precedentemente venne fatto
svolgere agli studenti un test per assicurarsi che non vi fossero tra loro differenze nelle abilità
matematiche). La studiosa notò che i bambini orientati alla padronanza se sbagliavano non si
scoraggiavano, si auto-motivavano con frasi del tipo “Adoro le sfide!”, tornavano a quello
precedente lo svolgevano con successo poi andavano a quello successivo e riuscivano a svolgerlo.
Gli studenti orientati alla prestazione, invece si scoraggiavano con frasi del tipo “Non ci riuscirò
mai” “La colpa è mia” “Evidentemente non sono così bravo come pensavo”. La cosa interessante è
che , avendo sbagliato l’esercizio dovevano rifare quello precedente che un attimo prima avevano
svolto con successo, ma non riuscivano a svolgere più neanche quello! Le loro capacità cognitive,
in seguito all’insuccesso avevano subito un decremento. I bambini con obiettivi di padronanza
spostavano l’insuccesso da ragioni interne (capacità, bravura) a ragioni più facilmente giustificabili
e controllabili (l’impegno), ciò permetteva loro di essere cognitivamente più flessibili e quindi di
ottenere prestazioni migliori. La teoria degli obiettivi di riuscita si riferisce ad un particolare
compito o area disciplinare, infatti in uno stesso bambino vi possono essere sia obiettivi di
prestazione che di padronanza quando si approccia a diverse materie. Il bilanciamento di entrambi
gli orientamenti ci permette di avere una strategia di gestione dell’insuccesso più funzionale. Ciò
che ci spinge ad adottare uno dei due orientamenti è soprattutto la percezione che abbiamo della
nostra intelligenza. La Dweck ha postulato inoltre l’esistenza del costrutto della “teoria
dell’abilità” (o dell’intelligenza) come predittore dell’adozione degli obiettivi di riuscita .Per chi ha
un obiettivo di padronanza riuscire significa migliorare le proprie conoscenze e abilità in un settore
o sviluppare la propria competenza:
-
Ciò che conta è l’impegno, persistere nelle difficoltà;
I criteri di valutazione sono in relazione all’individuo e non sono correlati a fare meglio o
peggio degli altri;
Gli errori sono visti come tappe fondamentali dell’apprendimento;
Le abilità sono viste come qualcosa da sviluppare e apprendere.
Questa visione della propria intelligenza viene definita come incrementale, in quanto l’individuo
crede che la propria competenza e conoscenza possa migliorare attraverso le sfide, vede
l’intelligenza come un qualcosa di dinamico che può migliorare nel tempo.
Per chi ha un obiettivo di prestazione, riuscire significa ottenere bei voti, superiorità sui pari,
riconoscimento da parte degli adulti:
-
-
I criteri di valutazione sono correlati a fare meglio o peggio degli altri ;
Gli errori rappresentano l’insuccesso e la dimostrazione di scarsa capacità;
Le abilità sono viste come “entità fisse” ;
L’insuccesso o il successo sono visti come un’esplicitazione della propria intelligenza (per
cui se sbaglio non sono intelligente, se sono l’unico ad averlo fatto giusto significa che sono
più intelligente degli altri);
L’individuo non pensa di poter superare i propri limiti che riaffiorano invece ad ogni
insuccesso;
Questa visione della propria intelligenza viene chiamata entitaria, in quanto viene vista come un
qualcosa di già dato dalla nascita e immodificabile, o modificabile solo in minima parte. Essi
vedono l’insuccesso come manifestazione della loro poca intelligenza quindi prediligono compiti
semplici (in cui sanno che andranno bene) a compiti sfidanti. L’insuccesso li porta ad un blocco,
abbassa il loro interesse e li fa trovare scuse esterne, giustificazioni per proteggersi dal fallimento.
Mentre un bambino con percezione incrementale vedrà i bambini che sono più avanti di lui non
come una minaccia, ma gli si avvicina perché vede in loro un modo per aumentare le proprie
capacità, una risorsa. Il bambino con una visione dell’intelligenza incrementale vede le sfide come
motivanti e stimolanti perché sono un’occasione per migliorare le proprie capacità, non qualcosa
che lo minaccia. Gli insuccesso è una dimostrazione che le strategie che ha utilizzato non erano
quelle giuste, quindi può cercare di usarne altre per migliorare la propria competenza. Anche la
teoria delle abilità non riguarda la percezione della propria intelligenza in generale ma le
convinzioni che un bambino ha rispetto a una data materia o settore. Ad esempio, posso avere
una teoria incrementale della mia intelligenza nelle abilità umanistiche e una teoria entitaria in
quelle matematiche. Gli obiettivi di padronanza e quelli di prestazione possono essere indotti,
attraverso l’induzione ad assumere una teoria entitaria o incrementale dell’intelligenza. In una
ricerca la Dweck ha proposto a due gruppi di studenti un’unità di apprendimento su Einstein:
-
-
al primo gruppo Einstein è stato presentato in maniera incrementale (dicendo ad es. che
Einstein era dislessico, era stato bocciato a scuola, ma impegnandosi in ciò che amava è
risuscito ad diventare uno degli scienziati più importanti al mondo);
al secondo gruppo Einstein è stato presentato in maniera entitaria (dicendo che Einstein
era sempre stato un genio fin da piccolo).
Dopo di che sono stati proposti ai due gruppi 2 compiti (per entrambi gruppi uguali) uno più facile
(veniva detto che non avrebbero imparato niente ma probabilmente avrebbero preso un buon
voto) uno più difficile(veniva detto che era difficile ma gli avrebbe aiutati a migliorarsi). Il gruppo a
cui era stata indotta una teoria incrementale dell’intelligenza scelse il compito più difficile, quello a
cui era stata indotta una teoria entitaria quello più facile.
Interessante è la questione del rinforzo, infatti, la studiosa ha constatato che la percezione della
propria intelligenza dipende dai i feedback che vengono dati. La Dweck si è chiesta : ci sono delle
lodi che fanno bene e delle lodi che fanno male? La studiosa ha individuato 3 tipologie di lodi:
-
La lode alla persona;
La lode al compito;
La lode alla strategia.
La Dweck ha notato che i feedback alla persona, al compito e alle strategie hanno un effetto
diverso nel condizionare il suo atteggiamento nei confronti dell’insuccesso. Per spiegare queste
diverse tipologie di lodi si può ricorrere all’esempio dell’insegnante che valuta un compito di
matematica:
-
Ad un ragazzo dice “Sei proprio bravo. Sei proprio un piccolo genio!” (lode alla persona);
Ad un altro dice “Il risultato del tuo compito è ottimo!” (lode al compito);
Ad un altro dice “Il teorema che hai utilizzato è proprio quello che ti chiedevo di usare nel
compito”(lode alla strategia).
La lode alla persona lascia sempre un’ansia da prestazione, è vissuta come controllante. Per il
ragazzo diventerà inconsapevolmente importante dare sempre l’immagine di se stesso agli altri
come molto intelligente. La lode alla persona si collega ad una visione entitaria dell’intelligenza e
situazioni future di insuccesso possono portare ad un senso di grave perdita, perché il bambino
vede il successo come una dimostrazione di intelligenza e l’insuccesso come dimostrazione di poca
intelligenza. I bambini lodati alla persona, in seguito ad un insuccesso, avranno un comportamento
orientato alla passività.
La lode alle strategie porta, invece, ad un comportamento orientato alla padronanza. Di fronte
all’insuccesso il bambino non si scoraggia, ma pensa “se prima ho fatto bene il compito e ora l’ho
fatto male è perché non ho usato la tecnica giusta, non è colpa mia ma della strategia che ho
utilizzato, se cambio strategia potrò riuscire”. Questi bambini probabilmente saranno in grado di
mettere in atto un comportamento funzionale di fronte all’insuccesso.
La lode al compito porta ad un comportamento intermedio. Dei bambini possono essere portati
più sul versante della padronanza, altri più sul versante della prestazione. Probabilmente questa
differenza dipende dalla base di partenza del bambino: se era già orientato alla padronanza,
metterà in atto un comportamento funzionale di fronte all’insuccesso, se era già orientato alla
prestazione un comportamento disfunzionale.
Questo risultato è stato riscontrato dalla Dweck sia per le lodi che per le critiche. Infatti, se una
lode o una critica (“sei sempre il solito inopportuno!”) è rivolta alla persona il bambino comunque
ne risentirà e svilupperà strategie mal adattive di fronte all’insuccesso. Se la lode o la critica (“La
prossima volta prova ad applicare questa tecnica”) è rivolta alle strategie è sempre utile e buona
per il bambino e lo porterà ad applicare strategie funzionali. Se la lode o la critica è rivolta al
compito ciò può portare ad un risultato intermedio perché per alcuni bambini può essere
funzionale per altri no. La Dweck ha perciò capito che si può modulare l’orientamento degli
studenti anche grazie ad un uso corretto di lodi e critiche.
Un’altra studiosa collaboratrice della Dweck, la Elliot, analizzando i risultati delle ricerche della
Dweck, rilevò che l’orientamento di prestazione non porta sempre a pattern maladativi in caso di
insuccesso ma può avere anche effetti positivi .La teoria di Dweck manca della distinzione tra una
componente di avvicinamento e una componente di evitamento. La Elliot propose quindi,
inizialmente, di sostituire la dicotomia proposta da Dweck in una tricotomia che comprendeva
obiettivo di padronanza, obiettivo di approccio di prestazione, obiettivo di evitamento di
prestazione. Successivamente la Elliot e McGregor ne aggiunsero un quarto, l’obiettivo evitamento
di padronanza, che fa sì che si crei una tabella 2X2:
 Obiettivi approccio di padronanza: focalizzati sullo sviluppo della competenza;l’individuo
si confronta con se stesso ed è motivato ad agire con lo scopo di sviluppare una maggiore
padronanza ;
 Obiettivi di evitamento di padronanza: l'individuo agisce per evitare situazioni che lo
facciano sentire poco competente nei confronti di se stesso, evita le situazioni che lo fanno
sentire poco compente nei confronti dell’idea che ha di sé e delle prestazioni precedenti;
 Obiettivi di approccio di prestazione: focalizzati sul raggiungimento di un livello di
competenza in relazione agli altri, è motivato ad agire con lo scopo di riuscire bene o
meglio degli altri ; lo studente vuole dimostrare agli altri che è bravo (ad es., studia per
ottenere la laurea e avere un titolo che gli consente di essere apprezzato dagli altri);
 Obiettivi di evitamento di prestazione: focalizzati sull’evitare uno standard di
incompetenza in relazione agli altri; lo studente vuole evitare di fallire perché se fallisce
mostra agli altri la mia incompetenza, è motivato ad agire per evitare situazioni in cui
crede di non riuscire bene.
La distinzione tra approccio di avvicinamento e di allontanamento permette di chiarire meglio i
pattern adattivo e maladattivo. Il pattern di approccio sarebbe adattivo sia per la padronanza che
per la prestazione (il miglioramento della competenza rispettivamente a se stessi e agli altri).Il
pattern di evitamento sarebbe maladattivo sia per la padronanza che per la prestazione poiché si
focalizzano sulla perdita della competenza. La percezione che uno studente ha della propria
competenza è vista da Elliot come un predittore dell’adozione di un obiettivo o di un
orientamento. Il percepirsi competente o meno porta ad adottare obiettivi di approccio
(padronanza o prestazione) o di evitamento (padronanza o prestazione).
Obiettivi di riuscita e struttura dell’obiettivo
Il ruolo del contesto classe nel promuovere l’adozione da parte degli studenti di obbiettivi di
riuscita è stato messo in rilievo da vari autori, soprattutto Ames, i quali hanno introdotto
l’importante distinzione fra obbiettivi personali (gli obbiettivi e gli orientamenti di riuscita di un
individuo) e la struttura di obbiettivo. La struttura di obbiettivo è data dai messaggi circa gli
obbiettivi dominanti in una classe o scuola, che possono influenzare gli obbiettivi personali degli
individui. Per struttura della classe si intende il modo in cui un insegnante pone regole, assegna
compiti e valuta gli studenti. Il tipo di compiti che l’insegnante assegna convoglia messaggi
importanti circa quello che ha valore nella classe. Gli studenti possono percepire che nella classe o
scuola si da particolare importanza all’apprendere e al migliorare (obiettivi di padronanza); oppure
possono percepire messaggi che suggeriscono che è importante ottenere bei voti e fare meglio dei
compagni (obiettivi di prestazione). Per quanto riguarda l’autorità, le classi in cui agli studenti è
dato un certo grado di autonomia tendono a promuovere obbiettivi di padronanza. Assegnare
attività che gli alunni vedono legate a problemi o questioni per loro importanti e significativi
favorisce la percezione che imparare sia importante quindi l’adozione di obiettivi di padronanza.
Se l’insegnante assegna di solito compiti e attività difficili è probabile che gli alunni adottino
obiettivi di evitamento.Infine, per quanto riguarda la valutazione, l’adozione di obbiettivi di
prestazione e di evitamento è certamente legata al modo in cui l’insegnante, nel valutare,
sottolinea il confronto tra prestazioni degli allievi. Un aspetto importante riguarda il peso che
l’insegnante da nel valutare gli errori. Se dell’errore l’insegnante sottolinea l’aspetto negativo nella
prova di un allievo, questo probabilmente incentiva l’adozione di obbiettivi di prestazione o
evitamento; se invece l’errore è commentato dall’insegnante come un passaggio nel processo
dell’imparare, è più probabile che l’allievo impari a considerare l’errore come un’occasione di
chiarificazione e apprendimento, e dunque secondo un orientamento di padronanza.
Obiettivi di riuscita ed emozioni
Il contesto interpersonale in cui si esplicano i tentativi di riuscire (compagni di classe, insegnanti,
genitori) può dare origine a svariate emozioni. Soddisfazione, orgoglio, invidia, in caso di riuscita.
Vergogna, collera, senso di impotenza in caso di insuccesso. In generale il ruolo dell’affettività
nell’istruzione è stato a lungo trascurato con alcune eccezioni:
-
L’ansia da prestazione ;
La teoria dell’attribuzione.
Nell’affettività si distinguono tratti e stati .I tratti si riferiscono a modalità stabili o predisposizioni
a risposte emotive. Gli stati affettivi si dividono in umori ed emozioni, diversi per intensità e
durata:gli umori tendono ad essere più lunghi delle emozioni che sono invece maggiormente
intense e caratterizzate da brevi episodi ;l’umore non ha un particolare referente, una particolare
causa, mentre le emozioni insorgono in risposta ad un preciso evento .Gli stati affettivi hanno in
generale una valenza che può essere positiva o negativa, o più semplicemente l’affettività può
essere gradevole o sgradevole. Pekrun e colleghi hanno categorizzato le emozioni accademiche,
cioè quelle legate all’apprendimento scolastico in base a due dimensioni:
-
La valenza (riguarda il carattere positivo o negativo dell’umore) ;
L’attivazione (riguarda l’effetto che l’emozione ha sull’apprendimento) .
Combinando le due dimensioni si ottengono quattro tipi di emozioni:
1.
2.
3.
4.
Attivazione positiva (Speranza, orgoglio, gusto nell’imparare);
De-attivazione positiva (Rilassamento dopo un successo ottenuto, sollievo) ;
Attivazione negativa (Collera, ansia, vergogna);
De-attivazione negativa (Noia, sconforto).
Secondo Pekrun e colleghi gli effetti di queste emozioni sull’apprendimento e sul rendimento
scolastico sono mediati da meccanismi cognitivi e motivazionali. Le emozioni di attivazione
positiva come la piacevolezza nell’apprendere possono aumentare la motivazione , quelle negative
possono diminuirla. Le emozioni positive di de-attivazione (quali il sollievo) possono facilitare il
disimpegno. Le emozioni negative possono avere effetti ambivalenti: l’ansia e la vergogna possono
ridurre la motivazione intrinseca ma rafforzare quella estrinseca. Linnenbrink e Pintrich hanno
proposto un modello bidirezionale che considera sia la relazione dell’umore con gli obiettivi, sia la
relazione degli obiettivi con le emozioni .L’umore positivo può influenzare la percezione che uno
studente ha degli obiettivi della sua classe: vedere la classe come un ambiente amico può favorire
obiettivi di padronanza e di approccio di prestazione. L’umore negativo può favorire un
orientamento di evitamento .L’adozione di obiettivi influenza non l’umore ma le emozioni:
obiettivi di padronanza aumenterebbero le emozioni positive. Studenti orientati alla prestazione
tendono ad essere tristi se si vedono superati dai compagni.
La motivazione intrinseca ed estrinseca
La scelta di imparare, che caratterizza l’orientamento di padronanza, è una componente
fondamentale del costrutto della motivazione intrinseca . White (1959) in un importante articolo
argomentò che gli esseri umani e gli animali superiori hanno un bisogno intrinseco di sentirsi
competenti. Questo bisogno spiega secondo l’autore comportamenti come l’esplorazione e il
gioco. Questi comportamenti non rispondono a carenze dell’organismo ma si manifestano invece
quando i bisogni fisiologici primari sono soddisfatti White chiamò questo bisogno di agire in
maniera efficace nell’ambiente effectance. Altri studiosi, tra cui Deci e Ryan,negli anni ‘70 hanno
rilevato che gli esseri umani traggono soddisfazione da attività ed eventi che forniscono un certo
livello di sorpresa, novità o comunque discrepanza rispetto alla loro esperienza. Questi studi e
quelli di White sulla motivazione di adulti e bambini a sviluppare abilità hanno rappresentato una
svolta nella ricerca motivazionale rispetto agli studi che si focalizzano sui bisogni primari e sui
rinforzi (che si sono rivelati riduttivi ed inadeguati).Ha avuto origine da questi studi il concetto di
motivazione intrinseca. Risulta intrinsecamente motivato un comportamento attivato e sostenuto
dallo spontaneo senso di soddisfazione che si prova quando l’individuo si impegna in un’attività
che piace e nella quale si sente competente. È estrinsecamente motivato un comportamento
intrapreso per ottenere qualche premio o per evitare una conseguenza negativa. Secondo alcuni
studiosi gli individui sono naturalmente inclini a sviluppare abilità e ad impegnarsi in attività di
apprendimento senza bisogno di rinforzo. L’apprendimento almeno in determinate condizioni
sarebbe in se stesso gratificante. Deci e Ryan hanno sviluppato la teoria dell’autodeterminazione,
che rappresenta la più coerente e organica trattazione della motivazione estrinseca. Secondo
questa teoria l’essere umano è visto come un organismo attivo tendenzialmente alla ricerca di
realizzare le proprie capacità. L’individuo avrebbe cioè una tendenza innata a sviluppare un senso
del Sé unitario e integrato, cioè a sviluppare armonicamente i vari aspetti della propria personalità
e stabilire relazioni positive con gli altri. Tuttavia questa motivazione deve fare i conti con
l’ambiente in cui l’individuo vive .L’ambiente può ostacolare o favorire questo processo. La teoria
postula l’esistenza di tre bisogni psicologici fondamentali la cui soddisfazione, essenziale al pieno
benessere dell’individuo, può essere ostacolata dall’ambiente sociale:



Bisogno di competenza;
Bisogno di autonomia ;
Bisogno di relazione con gli altri.
Si tratta di esigenze innate, comuni a tutte le culture e non motivazioni apprese. Il bisogno di
competenza si riferisce al bisogno di sentirsi efficace nelle interazioni con l’ambiente sociale ed
esprimere le proprie capacità .Questo bisogno porta gli individui ad essere motivati a conservare
ed accrescere le proprie abilità cercando anche stimoli per svilupparle. Si pensi ad esempio alla
situazione in cui un individuo si impegna in attività che gli piacciono: da un lato l’individuo si sente
in grado di eseguirla, dall’altro se l’attività riserva qualche difficoltà l’individuo si sente stimolato
alla sfida. Il bisogno di autonomia si riferisce al bisogno di sentirsi autonomi e non “pedine” e di
mettere quindi in atto azioni che nascono dalla volontà dell’individuo e non sono imposte dalla
volontà degli altri .Essere autonomi non significa essere indipendenti dagli altri. Si possono infatti
autonomamente compiere azioni che rispondono alle convinzioni o richieste degli altri. Non si può
parlare di autonomia quando i bisogni vengono eseguiti per conformismo. Il bisogno di
autodeterminazione si riferisce al bisogno di sentirsi in qualche modo integrati con gli altri .Si
riferisce anche al bisogno di sentirsi parte di un gruppo. Questo bisogno può essere mosso:
-
Da un senso di appartenenza;
Per desiderio di occuparsi di altre persone;
Perché si sta bene con gli altri.
Motivazione e interiorizzazione
Aspetto fondamentale della teoria dell’autodeterminazione è il rapporto tra motivazione
intrinseca e motivazione estrinseca .La motivazione intrinseca rappresenta un esempio di attività
autodeterminata perché l’individuo si impegna in attività liberamente scelte che esegue con
soddisfazione e piacere. La motivazione estrinseca dipende dai risultati contingenti al
comportamento. Questi risultati sono separabili dal comportamento stesso .Il concetto di rinforzo
come evento esterno rinvia quindi al concetto di motivazione estrinseca. Ci si può chieder: se il
comportamento è intrinsecamente motivato, cioè trova in se stesso una gratificazione, che effetto
hanno premi e riconoscimenti su di esso? Se un individuo svolge un’attività che gli piace, che cosa
accade alla sua motivazione se viene premiato per tale attività? Deci e colleghi distinguono tra
l’effetto delle ricompense tangibili (ad es. denaro) da quello delle lodi e degli apprezzamenti
verbali. Le ricompense tangibili porterebbero ad una diminuzione della motivazione intrinseca.
Ryan e Deci (2002) hanno spiegato l’effetto negativo delle ricompense tangibili e quello positivo
delle lodi con il concetto di percezione del locus causale e di percezione di competenza. Gli eventi
ambientali possono incidere sulla motivazione intrinseca attraverso due processi:
1. Il locus causale: una ricompensa tangibile influenza la percezione che un individuo
intrinsecamente motivato ha della propria autonomia spostando il locus causale
dall’interno (svolgo l’attività perché l’ho scelta e mi piace) all’esterno (il premio rende
l’attività meno interna perché esercita una forma di controllo);
2. Il bisogno di competenza : una lode o un feedback verbale positivo aumenta la
motivazione intrinseca quando viene percepito come essenzialmente informativo. Quando
l’apprezzamento verbale viene percepito come un controllo, esso tende ad avere un
effetto negativo sulla motivazione intrinseca.
Le ricerche hanno comunque dato risultati contraddittori. Un’attività può non essere gratificante
in se stessa eppure l’individuo la può eseguire autonomamente .Ciò avviene perché l’individuo
tende ad interiorizzare quello che inizialmente era solo una forma di regolazione dall’esterno. Lo
sviluppo dell’individuo può essere visto in termini di progressiva interiorizzazione in rapporto alla
realizzazione del Sé. L’interiorizzazione può avere diversi gradi di integrazione quanto più una
regolazione esterna viene interiorizzata cioè fatta propria dall’individuo .Più un comportamento
diventa parte del Sé integrato più è autodeterminato. Questa interiorizzazione può avere gradi
diversi di integrazione: quanto più una regolazione esterna (ad es. un comportamento imposto)
viene interiorizzata, cioè accettata e fatta propria dall’individuo, tanto più essa diventa parte del
sé integrato e quindi un comportamento autodeterminato. I comportamenti si diversificano
dunque nel grado di autonomia, come appare nella classificazione dei tipi di regolazione.
Tipo di
motivazione
Mancanza di
motivazione
Motivazione estrinseca
Tipo di regolazione
Non regolazione
Regolazione
esterna
Regolazione
introiettata
Motivazione
intrinseca
Regolazione
identificata
Regolazione
integrata
Regolazione
intrinseca
A sinistra c’è lo stato di mancanza di motivazione, o mancanza dell’intenzione ad agire. Gli altri
cinque punti descrivono ciascuno un differente tipo di regolazione. I comportamenti
estrinsecamente motivati stanno tra la mancanza di motivazione e la motivazione intrinseca. La
regolazione esterna è la forma meno autonoma di motivazione estrinseca, il comportamento è
attuato per ottenere rinforzi / evitare punizioni o castighi (esempio: faccio i compiti per evitare
problemi) . La regolazione introiettata implica una regolazione interiorizzata ma non accettato
come proprio, è attuato per evitare senso di colpa e vergogna o per aumentare la propria
autostima (esempio: faccio i compiti perché voglio che il mio insegnante pensi che sono bravo ). La
regolazione per identificazione implica accettare un comportamento perché lo si considera
importante, ed è quindi un passo importante verso l’autodeterminazione; si attribuisce valore ad
un comportamento e ci si percepisce autonomi quando lo si attua (esempio: faccio i compiti
perché per me è importante). La regolazione integrata avviene quando l’individuo integra nel sé
valori e obbiettivi: si tratta di comportamenti eseguiti non solo perchè ritenuti importanti, ma
coerenti con i valori dell’individuo, il comportamento ha un alto valore ed è congruente con valori
ed obiettivi personali ma è ancora funzionale a raggiungere un obiettivo importante (esempio:
faccio i compiti perché voglio capire l’argomento). Essa è tuttavia diversa dalla motivazione
intrinseca, che implica il fare qualcosa per il piacere di farlo (esempio: faccio i compiti perché mi
piace). I comportamenti si diversificano dunque per il grado di autonomia, come appare dalla
classificazione dei tipi di regolazione. Gli autori parlano di una teoria dell’integrazione
organismica: questa teoria è riferita alla tendenza degli organismi ad interiorizzare le esperienze,
cioè a trasformare la regolazione esterna dei comportamenti in regolazione interna .La regolazione
interna permette l’attuazione di comportamenti autodeterminati e la motivazione intrinseca. Il
passaggio da una regolazione esterna a una interna è graduale, dipende dalla soddisfazione del
bisogno di relazioni, spiega il modo in cui interessi, valori e obiettivi diventano parte del Sé. Come
avviene il processo di interiorizzazione? I comportamenti estrinsecamente motivati sono
generalmente stimolati da persone significative nella vita dell’individuo e vengono eseguiti non
solo per ragioni estrinseche, ma anche per ottenere l’approvazione: il bisogno di relazionarsi con
gli altri ha un ruolo centrale nell’interiorizzazione. D’altra parte anche il bisogno di competenza è
importante: se non ci si sente in grado di svolgere una certa attività è molto difficile che venga
interiorizzata. Il bisogno di autonomia, a sua volta, gioca un ruolo centrale nell’integrazione: per
integrare la regolazione di un comportamento bisogna coglierne il significato personale e integrare
tale significato con altri aspetti del proprio sé. Ciò possibile se l’individuo si sente libero di scegliere
al di fuori dei condizionamenti esterni.
L’interesse
Il termine interesse designa un particolare tipo di relazione che intercorre fra un individuo e un
oggetto all’interno di un contesto. Consideriamo gli aspetti che caratterizzano il concetto di
interesse: un primo aspetto è che, a differenza di altri costrutti motivazionali, l’interesse ha una
preminente componente energetica che si manifesta in settori o campi specifici. In questo senso il
concetto di interesse si avvicina alla motivazione intrinseca, da cui si differenzia per due motivi:
perchè gli studiosi dell’interesse non assumono alcun bisogno psicologico di base, e perchè
l’interesse è relativo a un settore, oggetto o attività specifica. Il secondo aspetto dell’ interesse è
la duplicità: esso può essere uno stato o un tratto. Come stato, è generato da particolari aspetti
dell’ambiente o situazione in cui l’individuo si trova e che attirano e focalizzano l’attenzione per la
loro novità o perchè in qualche modo attraenti. Tale stato rappresenta una reazione affettiva
generalmente di breve durata: è l’interesse situazionale. Come tratto, l’interesse rappresenta una
predisposizione relativamente durevole dell’individuo nei confronti di una categoria di oggetti o
eventi. Tale predisposizione, chiamata interesse personale o individuale, si manifesta attraverso la
risposta affettiva dell’individuo e la tendenza a cercare gli oggetti interessanti e/o a svolgere
attività che li riguardano (ad es. ascoltare musica). Infine l’interesse, pur essendo annoverato fra le
variabili motivazionali e, da alcuni studiosi, tra le emozioni, ha un’importante componente
cognitiva: intuitivamente, la conoscenza anche parziale di un argomento sembra essere condizione
necessaria per la stimolazione e lo sviluppo dell’interesse per tale argomento, nel senso che non si
prova interesse per un oggetto/attività/situazione di cui non si sa niente e, d’altra parte, lo
sviluppo di un interesse individuale implica un consolidamento della conoscenza relativa al suo
oggetto. Hidi e Renninger hanno proposto un modello dell’interesse in cui si distinguono quattro
fasi. Nella prima viene attivato un interesse situazionale per un particolare argomento. Se questo
interesse viene sostenuto, esso si evolve in interesse mantenuto. L’interesse già costruito si
sviluppa in individuale emergente quando l’individuo comincia a cercare e a identificarsi con il
contenuto: si rende cioè conto della sua importanza e gli attribuisce un valore. Questo interesse è
caratterizzato da affettività positiva e buon livello di conoscenza: l’individuo comincia a porsi delle
domande per riorganizzare le conoscenze. Infine la quarta fase è quella dell’interesse bene
sviluppato. La ricerca recente si è focalizzata soprattutto sull’interesse situazionale che, a
differenza di quello individuale, è manipolabile e quindi più rilevante per l’istruzione.
Interesse situazionale
Bergin ha analizzato le varie fonti dell’interesse situazionale rilevanti per le attività scolastiche.
L’incongruenza è una di queste, per esempio quando l’insegnante presenta due dati
evidentemente in contraddizione precisando che sono entrambi veri e invitando gli studenti a
elaborare la spiegazione. Anche la novità di un argomento, o del modo di presentarlo, può essere
una fonte di interesse, e così pure l’interazione sociale. Una fonte è la stimolazione cognitiva, per
esempio attraverso giochi e problemi sfidanti, purché questi non comportino il rischio di
valutazione negativa in caso di insuccesso. Un’altra fonte è l’effetto novità, che può essere
stimolato da contesti immaginari e con un uso frequente di storie e narrative. Infine anche
l’interazione con adulti e coetanei può essere una fonte di interesse: interagire liberamente con gli
altri soddisfa il bisogno di relazione e questo può rendere un’esperienza interessante. Gli studiosi
rilevarono che il desiderio di sapere e capire veniva ampliato dalla discussione. Di fatto ci sono due
aspetti della discussione in classe che sembrano che sembrano stimolare l’interesse: in primo
luogo nella discussione i ragazzi possono esprimere le loro idee e riflessioni liberamente, e questa
è in genere una situazione nuova per loro. In secondo luogo lavorare con altri ragazzi li porta a
sentire che hanno qualcosa in comune, e dunque a soddisfare il bisogno di relazione. Va precisato
che le varie fonti che possono attivare l’interesse situazionale spesso non agiscono singolarmente,
ma interagiscono in uno stesso compito per attivarlo.
Senso di efficacia e autoregolazione
Il comportamento motivato non si esaurisce nella sua attivazione, ma è un processo a lungo
termine in cui l’individuo si crea anche delle aspettative sulla propria possibilità di riuscire e mette
in atto strategie per evitare insuccessi. Il successo in qualsiasi campo non è dovuto
esclusivamente all’abilità e al forte desiderio di riuscire, ma anche in misura notevole a capacità,
tenacia, volontà, capacità di far fronte agli insuccessi e organizzazione. Verranno considerati ora
alcuni costrutti motivazionali relativi alla valutazione che l’individuo fa di se stesso in situazione di
riuscita. Bandura definisce l’autoefficacia come l’insieme di credenze che l’individuo possiede nei
confronti delle proprie capacità di:
-
aumentare i livelli di motivazione;
attivare risorse cognitive;
eseguire le azioni necessarie per esercitare controllo sulle richieste di un compito
L’autoefficacia si configura come un sistema di credenze che fa da sostegno e da moderatore alle
azioni che la persona svolge nella realtà, influenzandone significativamente i processi
motivazionali e di pensiero. Il modo in cui valutiamo la nostra capacità di far fronte ad una
situazione influenza l’apprendimento di nuove soluzioni e le future possibilità di prestazione. Dal
senso della propria efficacia derivano le mete che le persone si prefiggono, gli sforzi che esse sono
disposte a fare per raggiungerle, gli standard di confronto. Di fronte alle difficoltà, le persone che
presentano dubbi riguardo alle proprie capacità diminuiscono i loro sforzi o abbandonano
l’attività. Coloro che dispongono di un maggior senso di efficacia personale esercitano uno sforzo
maggiore al fine di riuscire nell’impresa prefissata. Le aspettative di autoefficacia possono
comunque modificarsi a seconda della situazione. Il senso di efficacia ha effetti positivi
sull’apprendimento: in confronto agli studenti che dubitano delle loro capacità, gli studenti con
maggiore senso di efficacia lavorano di più, persistono più a lungo e raggiungono risultati migliori.
Le fonti che fanno acquisire senso di efficacia sono quattro:



Messa in atto di esperienze di padronanza: precedenti successi in compiti simili;

Reazioni fisiologiche percepite durante lo svolgimento di un compito.
Esperienza vicaria: azioni e risultati degli altri in compiti simili ;
Persuasione verbale: valutazione realistica delle prestazioni fornita da persone competenti e
credibili ;
La teoria delle attribuzioni
La teoria dell’attribuzione di Weiner riguarda le cause a cui lo studente attribuisce un successo o un
insuccesso scolastico .Queste cause riguardano tre dimensioni:


Il locus causa interna o esterna all’individuo (per es. l’abilità o l’impegno / fortuna) ;

La controllabilità se si tratta di cause che possono essere modificate dalla volontà dell’individuo
oppure sono incontrollabili(come ad esempio l’impegno / l’umore dell’insegnante) .
La stabilità se si tratta di cause che possono essere modificate nel tempo o meno (per esempio
l’abilità) ;
Il locus causale si riferisce al carattere interno o esterno delle cause:
-
interno: abilità, sforzo, umore ;
esterno: fortuna, difficoltà del compito, atteggiamento dell'insegnante.
Il locus influenza le reazioni affettive al successo o all’insuccesso:
-
l'attribuzione del successo a cause interne (abilità, sforzo) determina emozioni legate alla stima di
sé: senso di competenza, sicurezza, orgoglio ;
l'attribuzione dell’insuccesso a cause esterne (scarsa abilità, poco impegno) determina scarsa stima
si sé, vergogna.
La stabilità riguarda il fatto che la causa di successo/insuccesso può essere:
-
stabile: abilità, sforzo (tratto di personalità = impegno costante);
instabile: sforzo (atteggiamento momentaneo), umore .
La stabilità influenza i cambiamenti nell'aspettativa dell'individuo dopo un successo o un insuccesso: se le
cause del risultato (successo o fallimento) vengono percepite come stabili, in una nuova situazione di
apprendimento il successo o il fallimento verranno anticipati dall'individuo con un maggior grado di
certezza.
La controllabilità delle cause è correlata con la percezione dell’individuo di poter modificare con la volontà
individuale le cause di un successo o di un insuccesso. Per cui la causa di successo/insuccesso può essere:
-
controllabile: come ad esempio l’impegno nello studio ;
non controllabile: come ad esempio l’abilità, l’intelligenza o la fortuna.
Sul piano motivazionale queste dimensioni soggiacenti alle cause sono di grande importanza:
-
-
Se uno studente attribuisce un insuccesso allo scarso impegno (causa interna, instabile e
controllabile) l’aspettativa futura sarà probabilmente di successo (purché la prossima volta ci sia
impegno);
Se uno studente attribuisce un insuccesso alla scarsa abilità (causa interna, stabile e non
controllabile) la sua aspettativa per un prossimo esame sarà ancora di insuccesso.
L'apprendimento autoregolato: Per autoregolazione si intende l'insieme dei processi attraverso
cui lo studente affronta il lavoro scolastico e accademico per raggiungere obiettivi educativi.
L'elemento che caratterizza l'apprendimento come autoregolato è se lo studente affronta
l'impegno in maniera adattiva, autoregolazione pone in risalto non l'intelligenza ma le iniziative
che lo studente assume per migliorarsi. Secondo la teoria sociocognitiva, l'autoregolazione non è
un tratto di sviluppo ma è specifica di un contesto, lo studente deve imparare a regolarsi in
relazione ad attività e discipline diverse. Tre elementi interagiscono nel funzionamento umano: il
comportamento, l'ambiente e i fattori personali (cognizione e senso di efficacia). La scelta di un
compito, l'impiego di uno sforzo e la persistenza dipendono dal grado in cui l'individuo si sente in
grado di ottenere un risultato. Pintrich e Zusho hanno caratterizzato l'autoregolazione come
composta da vari sottoprocessi che possono essere rappresentati in una tabella a doppia entrata:
da un lato le fasi dell'autoregolazione, dall'altro le aree su cui essa viene esercitata; le fasi che
riguardano il piano cognitivo sono: – pianificazione: lo studente si pone un obiettivo e attiva la
conoscenza pregressa – monitoraggio: lo studente verifica come procede: mette in atto le proprie
conoscenze metacognitive e soprattutto esercita un controllo su quanto sta apprendendo –
controllo: è la fase di intervento conseguente al monitoraggio, se lo studente si sente
particolarmente ansioso o scoraggiato cerca di rincuorarsi, si sforza maggiormente o chiede aiuto
– reazione e riflessione: si riflette sui risultati e si danno giudizi più o meno critici, si fanno
attribuzioni che implicano componenti cognitive e affettive. La valutazione del risultato influenza
la scelta dei comportamenti successivi. E' opportuno sottolineare che l'autoregolazione aumenta e
migliora con lo sviluppo nel senso di progressiva maggior flessibilità nella scelta e uso di strategie e
che esiste un rapporto tra autoregolazione e metacognizione, la prima include la seconda: le
abilità di studio riguardano la metacognizione e decidere di interrompere uno studio o fare uno
sforzo di volontà riguardano l'autoregolazione.
Strategie adattative e maladattative: L'autoregolazione implica l'adattare le strategie di
apprendimento alle esigenze del compito, le emozioni positive sembrano facilitare l'uso di
strategie flessibili, l'apprendimento autoregolato è spesso individuale ma vi è una interattività
nella richiesta di aiuto, tale strategia può essere attuata in modo adattivo e non a seconda che si
chieda soltanto un aiuto o ci si aspetti che l'altro faccia il lavoro per noi. Non di rado
l'autoregolazione non è svolta a migliorare l'apprendimento ma ad evitare brutte figure, per
questo nell'orientamento alla padronanza la richiesta d'aiuto è favorevole cosa che invece non è
quando non ci si sente sicuri. Esiste anche la strategia di auto ostacolo che si attua quando ogni
decisione aumenta l'opportunità di manifestare il fallimento, consentendo così all'individuo di
evitare o diminuire le implicazioni negative della prestazione; è usata dagli studenti per mantenere
il valore del sé e si distingue per la presenza di tre elementi: comportamento, ragione del
comportamento, collocazione temporale.
Apprendere a studiare
Saper studiare implica il processo di apprendimento intenzionale da testi che vengono letti per
ricavarne conoscenze. Il possesso di un “buon metodo di studio” documenta la capacità di
imparare da testi di vario genere, contenuto e complessità. L’attività di studio secondo Winne si
distingue da altre attività di apprendimento a scuola in quanto:
- Non prevede interventi diretti da parte dell’insegnante;
- È spesso un’attività solitaria;
- In genere ha origine da un obiettivo stabilito dall’insegnante;
- Può richiedere ricerca e sintesi di informazioni da più fonti;
- Di solito si svolge in un setting che lo studente può organizzare a suo piacimento;
- Quasi sempre lascia tracce osservabili dell’elaborazione cognitiva (annotazioni, schemi,
mappe, riassunti, sottolineature ed evidenziazioni).
Come altre attività scolastiche è diretta ad un obiettivo, uno standard da raggiungere. Winne ha
proposto un modello dello studio che include 4 fasi:
- Definizione del compito: lo studente deve costruirsi uno “spazio dello studio”,
rappresentarsi cioè l’obiettivo dell’attività in termini di standard di riferimento;
- Determinazione dell’obiettivo e pianificazione: lo studente riformula l’obiettivo
individuato precedentemente a seconda del suo orientamento motivazionale;
- Mettere in atto strategie: lo studente applica tattiche di studio per svolgere meglio il
compito;
- Adattamento metacognitivo: è in questa fase di riflessione che può mutare
l’orientamento motivazionale passando ad esempio da obiettivo di prestazione ad
obiettivo di padronanza.
Tempi di studio e distribuzione delle risorse cognitive
Ci si può chiedere se esiste una relazione causale tra stima di difficoltà e distribuzione delle risorse
cognitive e tra stima di conoscenza e distribuzione delle risorse cognitive. Secondo Nelson e
Narens (1990) la considerazione del tempo da dedicare allo studio è un aspetto del controllo
attivo e la sua distribuzione avviene sulla base dei giudizi di facilità del materiale di apprendimento
(Ease Of Learning), più un contenuto è percepito come difficile, maggiore sarà il tempo dedicato
ad apprenderlo. Secondo Mazzoni, Cornoldi e Macchitelli (1990) bisogna prendere in
considerazione non solo la facilità percepita ma anche quella oggettiva che emerge mentre si sta
apprendendo il materiale (Judjment Of Learning).I soggetti studiavano maggiormente gli item
giudicati più difficili da ricordare (EOL) a cui assegnavano un JOL più basso. In alcuni casi venivano
studiati più a lungo item con JOL intermedi. Inoltre è emerso che il materiale studiato più a lungo
veniva ricordato meno del materiale studiato per un tempo inferiore. Si sono fatte diverse ipotesi
sul perché dell’inutilità dello sforzo:
1. il materiale ritenuto più difficile è quello nel quale lo studente presenta una conoscenza di
base bassa, per cui anche la probabilità che lo stesso materiale sia ricordato è ugualmente
bassa;
2. probabilmente i JOL erano stati assegnati dagli studenti in maniera non accurata e a ciò ne
conseguiva un’inefficace distribuzione del tempo di studio (analizzando in modo accurato
la propria effettiva conoscenza lo studente avrebbe dovuto ricordare il materiale studiato
più a lungo almeno quanto quello studiato per meno tempo);
3. Nonostante il JOL sia più alto, se uno studente incontra delle difficoltà decide di non
proseguire nello studio,infatti, se si rende conto che non sta migliorando la sua prestazione
e crede che non lo ricorderà, decide di non sprecare tempo,anche se il livello di ricordo
raggiunto non è quello di padronanza. Quest’ultima ipotesi sarebbe sostenuta da
esperimenti hanno provato che anche se si è riservato loro un tempo di studio più lungo,
molti degli item stimati non ricordabili alla prima prestazione vengono nuovamente ritenuti
tali dopo lo studio.
Strategie di studio
L’attività di studio è solitamente un’attività intenzionale e autodiretta. Lo studente infatti
stabilisce obiettivi, sceglie strategie, fissa i tempi. Si tratta di selezionare informazioni che vengono
trasferite nella memoria di lavoro dove vengono elaborate, manipolate, riorganizzate ed integrate
. Dalla memoria di lavoro vengono poi archiviate nella memoria a lungo termine .Le strategie di
studio possono essere suddivise in due tipi principali:
 Strategie di ripetizione ;
 Strategie di elaborazione-organizzazione;
Strategie di ripetizione
Le strategie di ripetizione servono a selezionare le parti più importanti del testo, trasferendole
nella memoria di lavoro per la loro acquisizione. Il livello di elaborazione rimane piuttosto
superficiale poiché le informazioni non vengono trasformate o riorganizzate . Esse sono:
 Leggere -rileggere : sembra facilitare soprattutto il ricordo di informazioni fattuali,
piuttosto che la costruzione di connessioni. La rilettura porta anche ad un cambiamento
qualitativo in quanto vengono saltate alcune parti ritenute irrilevanti ;



-
-
-
Copiare: consiste nel fare annotazioni ai margini del testo o in un foglio separato, ma anche
fissare dei commenti che servono a connettere le informazioni tra loro. La strategia è poco
efficace se solo il materiale annotato viene fatto oggetto di studio;
Sottolineare: consiste nella selezione di parti ritenute più importanti a cui fare riferimento
soprattutto quando si rilegge .Ricerche evidenziano come il testo sottolineato in generale
viene ricordato di più, probabilmente per la tendenza a rileggere le parti sottolineate.
Punto debole è il fatto che ad una prima lettura si possono formulare ipotesi non corrette
sull’importanza del testo, sottolineando quindi parti meno importanti compromettendo
quindi l’apprendimento del contenuto. La sottolineatura sembra funzionare in alcuni casi,
soprattutto quando viene usata per studiare testi difficili;
Memorizzare: la memorizzazione può avvenire automaticamente; in altri casi bisogna
invece sforzarsi di stabilire nuovi collegamenti tra le informazioni già possedute e le
informazioni nuove, cercando intenzionalmente delle strategie di memorizzazione,
soprattutto quando le informazioni non presentano nessi evidenti. Quando il materiale da
ricordare non può accompagnarsi ad una rappresentazione iconica si può ricorrere alle
mnemotecniche , le più famose sono:
Metodo dei loci : la prima fase di codifica consiste nel selezionare luoghi familiari lungo un
determinato percorso (ad esempio una strada) costruendo una specie di schedario base. Ad ogni
luogo viene poi associata una parola da ricordare tramite un immagine. In fase di recupero
basterebbe ripercorrere con la mente i luoghi per ritrovare le immagini e le parole corrispondenti;
Metodo del concatenamento: prevede la creazione di un’immagine della parola (parola chiave),
un’immagine della seconda da concatenare in modo interattivo, un’immagine della terza da
concatenare alla seconda in modo interattivo,e così via;
Metodo fonetico: prevede di individuare una serie di elementi costruiti sulla base di regole
fonetiche da rappresentare in fine con una sola parola che li possa raggruppare tutti.
Tali tecniche sono utilizzabili con un minimo di dispendio cognitivo anche per materiali
complessi.
Strategie di elaborazione-organizzazione
Le strategie di elaborazione-organizzazione servono non solo alla selezione di informazioni
importanti, ma anche alla loro trasformazione e integrazione .Il livello di elaborazione a cui
queste strategie portano può essere profondo in quanto si organizza il materiale di studio per
renderlo più facilmente ricordabile. Esse sono:
 Prendere appunti o note: strategia usata molto di frequente. Numerose sono le
variabili implicate nell’efficacia della strategia. Prendere appunti durante una lezione è
un processo più complesso che prendere appunti durante la lettura. Questa strategia è
diventata oggetto di ricerca di vari studiosi con risultati anche discordanti. L’efficacia è
spiegabile in riferimento alle funzioni di codifica e di immagazzinamento. L’efficacia del
prendere appunti dipende dal tipo di prova che si dovrà affrontare per verificare la
preparazione, dalla tecnica utilizzata per prendere appunti (le varie tecniche si
differenziano per il grado con cui riescono a integrare info nuove con quelle
precedenti), e dal contenuto delle note. Grande importanza riveste anche la lettura
delle note. In uno studio sperimentale Kiewra e collaboratori hanno confrontato tre
condizioni sperimentali:
1. Scrittura e lettura di note proprie;
2. Scrittura di note ;
3. Lettura di note prese da altri.
La prima condizione è risultata la più efficace, in quanto si attivano i processi codifica e di
immagazzinamento,la terza è risultata più efficace della seconda soprattutto quando si trattava di
dover scrivere una sintesi di ciò che si aveva già studiato, risultava efficace confrontarsi con gli
appunti di altri. Notevole importanza riveste quindi anche la procedura di rilettura degli appunti .
Alcuni studi mettono a confronto diverse strategie di annotazione:
- Convenzionale (quella normalmente utilizzata dagli studenti) ;
- Lineare (veniva fornito uno schema con argomenti e sotto-argomenti nel quale inserire gli
appunti);
- A matrice (con argomenti e sotto-argomenti identificati da una tabella a doppia entrata) .
I tre diversi tipi di annotazioni non hanno prodotto differenze significative nella produzione di
idee. Le annotazioni sulle matrici risultavano agevolare la rievocazione del materiale di
apprendimento .Da una ricerca recente di Lonka su un campione di candidati durante una
prova di ammissione ad una scuola di medicina emerge che:
- Le idee centrali venivano comprese indipendentemente dal tipo di annotazione utilizzata;
- I dettagli erano acquisiti solo se facevano parte delle note ;
- da un’analisi qualitativa risultava che la maggior parte degli studenti copiava parti del testo
senza una rielaborazione ;
- le note con funzione di sintesi apparivano più efficaci delle note con funzione di
trascrizione.




Porsi domande: rivolgersi domande prima, durante e dopo la lettura risulta una
strategia efficace. Prima di leggere, le domande possono servire ad anticipare i
contenuti (come nel reciprocal teaching) preparandosi ad attivare schemi
corrispondenti . Durante la lettura possono servire al recupero delle informazioni, al
consolidamento e a stabilire relazioni . Non tutte le domande sono della stessa natura
Appare utile formulare domande di diversa natura (fattuali , utili a stabilire relazioni,
etc…) .Domande di tipo “Chi?” “Che cosa?” non presuppongono ad esempio uno sforzo
cognitivo o una rielaborazione del materiale.
Riassumere: si tratta di una strategia in cui vengono integrati processi di lettura e
scrittura al fine di una trasformazione selettiva del contenuto di apprendimento. Le
abilità riassuntive si acquisiscono relativamente tardi. Secondo Brown, Campione e Day
gli alunni di scuola elementare tendevano soprattutto a cancellare delle parti piuttosto
che ad elaborare. Kirby e Pedwell hanno evidenziato la differente utilità della presenza
della fonte per studenti caratterizzati da un approccio più o meno profondo al testo. Gli
studenti caratterizzati da un approccio superficiale scrivevano riassunti molto più estesi
e non potevano fare a meno della fonte, quelli che invece elaboravano di più il testo
beneficiavano dell’assenza della fonte.
Sintesi da diversi testi: si tratta di una strategia in cui vengono integrate informazioni
provenienti da diverse fonti .In uno studio di Boscolo è stata proposta a studenti di
psicologia la lettura di tre brani :ad un gruppo è stato chiesto di scrivere una sintesi dei
brani ; all’altro gruppo non è stata chiesta la sintesi. Il primo gruppo ha ottenuto
risultati significativamente migliori. Sintetizzare testi presuppone la capacità di
selezionare, integrare e riorganizzare informazioni. Tale attività cognitiva porta ad un
maggiore livello di comprensione del materiale da imparare.
Scrivere testi: si tratta di una strategia in cui la comprensione è frutto dell’elaborazione
anziché della riproduzione delle conoscenze . Nella scrittura di un testo uno studente è
maggiormente impegnato in quello che Bereiter e Scardamalia chiamano “knowledge
transforming” .Diversi studi hanno mostrato la superiorità di questa modalità di
scrittura rispetto alle altre . In uno studio di Newell è stato chiesto ad alcuni studenti di
scuole superiori di leggere dei brani tratti da testi e rispettivamente di:
- prendere appunti (primo gruppo);
- rispondere a domande (secondo gruppo);
- scrivere un testo (terzo gruppo).
I risultati mostrano come l’aver effettuato più operazioni di ragionamento ha portato il terzo
gruppo ad una conoscenza maggiore .Newell e Winograd sono arrivati alla conclusione che
diversi compiti di scrittura inducono gli studenti a diversi tipi di elaborazione delle
informazioni:
- quando rispondono alle domande gli studenti tendono a prendere in considerazione le
informazioni singolarmente senza integrarle ;
- quando prendono appunti tendono a tradurre direttamente le proprie idee in parole, senza
una riorganizzazione appropriata;
- quando scrivono un testo invece integrano le informazioni e sono in grado di
rappresentarsi le relazioni tra le varie parti del testo.
 Schematizzare: le informazioni contenute in un testo possono anche essere
trasformate in rappresentazioni grafiche e schematiche .Tali rappresentazioni rendono
più visibili le relazioni non altrettanto evidenti nel testo lineare. La mappa concettuale
è un validissimo esempio di schematizzazione . La mappa concettuale è caratterizzata
da una struttura gerarchica in cui dal concetto principale si diramano le relazioni e i
concetti più specifici . Costruire una mappa concettuale implica isolare i concetti e le
parole-legame adatte a formare le proposizioni . Lavorare con le mappe aiuta a
riconoscere i concetti più importanti e riferirli in modo sintetico. In una ricerca di Slotte
e Lonka viene documentata la maggior efficacia delle mappe concettuali prodotte da
studenti universitari rispetto agli appunti e alla sottolineatura . L’analisi qualitativa
portava ad evidenziare come fossero le mappe più complesse e comprensive a portare
ai risultati di apprendimento migliori. L’efficacia delle mappe è connesso con il fatto
che esse implicano processi di elaborazione delle informazioni e generazione di
connessioni . Trasformare un testo lineare in una forma grafica implica sforzo cognitivo
di selezione, organizzazione e integrazione delle idee principali.
Rilevare le abilità di studio
Inizialmente l’intervista era lo strumento più utilizzato per rilevare le abilità di studio. I risultati
indicavano una chiara correlazione tra rendimento scolastico e competenza metacognitiva, pur
non potendo suggerire una precisa relazione causale tra le variabili . Negli ultimi anni i questionari
sui metodi di studio sono diventati lo strumento di ricerca principale . Nella somministrazione del
questionario vanno comunque tenuti in considerazione due aspetti che possono inficiare l’efficacia
del questionario stesso:
- La desiderabilità sociale;
- Il fatto che l’alunno sia erroneamente realmente convinto di eseguire una certa
operazione metacognitiva.
Il “Survey of Study Habits and Attitudes” di Brown e Holtzman (1967) è ritenuto il più classico
questionario sui metodi di studio. È stato tradotto e validato in italiano da Polacek (1971) come
“Questionario di efficienza nello studio”. Il questionario valuta quattro aspetti:
- La prontezza negli impegni ;
- Il metodo di lavoro ;
- L’atteggiamento nei confronti degli insegnanti ;
- L’accettazione degli scopi.
Negli Stati Uniti è stato messo a punto il questionari LASSI, Learning and study strategies
inventory. Utilizzato inizialmente per studenti universitari e successivamente anche per studenti di
scuola superiore . È formato da 77 item che riguardano 10 scale:
- Atteggiamento e interesse verso lo studio;
- Motivazione, autodisciplina e volontà di impegnarsi a fondo;
- Gestione del tempo;
- Ansia e preoccupazione per la prestazione scolastica;
- Concentrazione e attenzione;
- Elaborazione e acquisizione di conoscenze ;
- Selezione delle idee più importanti ;
- Uso di tecniche e materiali di supporto;
- Autovalutazione ;
- Uso di strategie di preparazione alle prove.
Il QMS (questionario sul metodo di studio) è composto da 163 items ed è utilizzabile dalla scuola
media all’università. Considera una vasta gamma di aree (21) raggruppabili in quattro parti:
- Strategie di apprendimento (motivazione e successo scolastico; organizzazione del lavoro
personale; uso di sussidi;
- elaborazione attiva del materiale; flessibilità e stile attivo di studio);
- Stili cognitivi di elaborazione (sistemativo/intuitivo; globale/analitico; impulsivo/riflessivo;
verbale/visuale) ;
- Metacognizione e studio (concentrazione; selezione degli aspetti principali;
autovalutazione; strategie di preparazione ad una prova; sensibilità metacognitiva;
- Atteggiamento verso la scuola e lo studio (rapporto con i compagni; rapporto con gli
insegnanti; ansia scolastica; atteggiamento verso la scuola; attribuzione e impegno) QMS
(questionario sul metodo di studio).
Il QSA (questionario sulle strategie di apprendimento) è composto da 100 items e da 14
dimensioni :
Metà delle dimensioni è di natura cognitiva
- Strategie elaborative ;
- Autoregolazione ;
- Disorientamento;
- Disponibilità alla collaborazione ;
- Difficoltà di concentrazione, ecc…
Metà delle dimensioni è di natura affettivo motivazionali
- Ansietà di base;
- Attribuzione a cause controllabili ;
- Attribuzione a cause incontrollabili ;
- Mancanza di perseveranza;
- Percezione di competenza ;
- Interferenze emotive ;
L’AMOS (abilità e motivazione allo studio) è una raccolta di 5 strumenti che intende offrire
un’immagine abbastanza completa di uno studente della scuola superiore o universitario. Le
variabili indagate sono: abilità, strategie, stili e credenze motivazionali .L’AMOS è rivolto agli
insegnanti e ogni strumento è autonomo. I 5 strumenti sono:
1. QSS, questionario sulle strategie di studio. Valutazione dell’importanza data allo studio e
l’uso di strategie ;
2.
3.
4.
5.
QAS, questionario sull’approccio allo studio ;
QSC, questionario sugli stili cognitivi ;
PA, prova di apprendimento ;
QC, questionario sulle convinzioni
Strategie didattiche
La didattica frontale
La didattica frontale presuppone l’esistenza di un esperto (il docente) e di un novizio (lo studente):
il primo possiede tutte le informazioni rilevanti sia sui concetti che sulla struttura della
conoscenza, mentre il secondo, ne è sprovvisto. Pertanto, si allestisce una situazione in cui l’uno, il
docente, stando di fronte all’altro (il discente) cerca di trasferire informazioni e conoscenze. Si
tratta di un metodo didattico “centrato sul docente” in quanto quest’ultimo è estremamente
attivo già in fase di preparazione della lezione, poi in fase di erogazione e anche in fase di
valutazione, a fronte di una relativa, a volte apparente, passività degli studenti. Inoltre la lezione è
caratterizzata da una comunicazione unidirezionale, prevalentemente dal docente verso il
discente, in qualche occasione dal discente verso il docente, mentre resta del tutto occasionale la
comunicazione tra gli studenti. Pur essendo una pratica didattica che nel tempo ha subito molte
critiche, la lezione resta senza dubbio quella più utilizzata nei contesti formali e scolastici. La critica
più sostanziale che ha ricevuto questa strategia è quella di creare una situazione di partecipazione
passiva da parte degli studenti e di essere basata sul presupposto, erroneo, che tutti gli studenti
percepiscano allo stesso modo i concetti espressi durante la lezione. Per ovviare a tali limiti sono
state elaborate alcune varianti, prendendo spunto da ciò che sosteneva Ausubel, ossia che per
strutturare efficacemente un intervento il docente dovesse considerare quanto già uno studente
sapesse. Questo concetto è essenziale proprio per ridefinire il modo di fare lezione rendendo gli
studenti più attivi; il suggerimento è quindi quello di accertare prima le preconoscenze degli
studenti, innescare un’intenzionalità e una motivazione all’apprendimento ed evidenziare la
significatività, ovvero la rilevanza per gli studenti del contenuto da apprendere. In altre parole
mostrare la rilevanza agli studenti dei concetti loro spiegati ancorandoli a quello che già sanno, in
modo da creare connessioni tra il nuovo materiale e ciò che già sanno. Ecco alcuni modi alternativi
di fare lezione che partono da questi presupposti.
La lezione basata sui casi
Questo modello si basa proprio sulla necessità di associare ogni nuova info con qualcosa di già noto,
cercando similitudini e differenze. Lo scopo è ottenere un repertorio di storie raccontate da esperti e far sì
che gli studenti possano rintracciare i collegamenti sia tra i vari casi si tra i casi raccontati e le proprie
personali storie. Si presta a essere tradotto in una architettura multimediale. i suoi costi non lo rendono di
facile adozione per le scuole.
Benchmark lesson
Significa “lezione militare”, è sviluppato sa diSessa e Minstrell di compone di 4 momenti i cui l'insegnante:
1. fa emergere domande e dubbi sull'argomento;
2. incoraggia attività di sperimentazione, laboratorio e ricerche sull'argomento allo scopo di risolvere i
dubbi ;
3. avvia una lezione per spiegare il concetto miliare, capace di evidenziare il nesso tra le varie informazioni
raccolte e di rispondere agli interrogativi rimasti insoluti;
4. incoraggia gli studenti a elaborare nuove concettualizzazioni per integrare nuove info appena apprese
con le loro preconoscenze.
Usando questa sequenza, i nuovi concetti sono presentati come “ancorati” con quanto gli studenti già
sanno e funzionali al modellamento del pensiero e della riflessione. La lezione è percepita dagli alunni come
effettuata in risposta alle loro esigenze e non come meramente stabilita dal programma, questo aspetto la
rende più efficace e motivante.
Dal discorso del docente al discorso della classe
L'apprendimento degli studenti dipende in larga misura da come l'insegnante spiega e fornisce istruzioni . Il
filone di studi denominato "processo-prodotto" presupponeva una relazione tra la qualità del discorso del
docente e i risultati di apprendimento degli studenti. Un contributo importante è stato quello di Flanders
che produsse un sistema di analisi costituito da due sistemi di categorie distinti: uno per analizzare il
discorso dell'insegnante e uno per quello dell'allievo. Il discorso del docente poteva essere classificato con
le seguenti categorie:
- accetta i sentimenti : qui il riferimento è chiaramente alla dimensione emotiva di cui il docente si fa spesso
carico;
- loda o incoraggia azioni discorsi o comportamenti degli allievi;
- accetta o utilizza le idee degli allievi ;
- formula domande sia di contenuto che di procedura per sondare lo stato cognitivo dello studente;
- fa lezione, quindi espone dati, fatti, concetti, ma anche esprime opinioni o riferisce di altre opinioni
autorevoli;
-si appella all'autorità oppure dichiara la sua disapprovazione per comportamenti ritenuti inaccettabili con
l’intento di modificarli.
Per gli studenti le categorie invece erano:
- risposta a una domanda o ad una sollecitazione del docente;
- discorso avviato dallo studente con cui pone domande o esprime idee ;
- silenzio o confusione in generale una comunicazione di ci non si coglie il contenuto.
Lo SCIV (sistema di categorie di interazione verbale) è un sistema di 12 categorie finalizzate a offrire un
feedback agli insegnanti circa il loro modo di intervenire in aula elaborato da Amidon e Hunter. I due autori
sottolineano l’importanza della qualità delle domande poste dal docente agli studenti: sono quelle aperte,
di cui non si dispone di una risposta predefinita che sollecitano risposte argomentate e non di tipo “si”
“no”, che producono gli interventi migliori da parte degli studenti.
Apprendere dalla lezione
L'appropriazione è un processo attivo perché si riferisce all'inserimento e all'integrazione delle
conoscenze offerte da chi spiega entro il quadro delle informazioni e credenze di chi ascolta. Gli
studenti oltre che ascoltare,possono prendere appunti durante la lezione,fissando sulla carta
concetti ritenuti fondamentali, ma gli appunti sono utili soprattutto quando vengono riletti e
rielaborati. Attualmente è frequente anche che gli studenti registrino le lezioni (soprattutto
all’università), il che può essere utile, ma anche dannoso in quanto si potrebbe delegare
l’attenzione allo strumento tecnologico e stare poco attenti durante la lezione. La valutazione
dell’apprendimento tipica della lezione consiste nell'interrogazione. Gli studenti, spesso
individualmente sono invitati a ripetere all’insegnante i concetti presentati durante la lezione: più
il resoconto degli studenti sarà simile a quanto riferito dall’insegnante, più la valutazione sarà
positiva. In conclusione la lezione frontale risponde in prima istanza a una visione trasmissiva della
conoscenza e sembra rispondere ai principi del comportamentismo per cui a fronte di uno stimolo
ci si attende una reazione che può essere variamente rinforzata. L'introduzione di varianti atte a
rendere più partecipativi gli studenti permette di raccogliere le istanze cognitive che cercano di
superare la visione della lezione come a totale carico del docente e spostano l'attenzione sulle
conoscenze pregresse degli studenti sulle loro capacità di ascolto attivo e di riorganizzazione delle
informazioni ottenute.
L’apprendimento collaborativo
L’apprendimento collaborativo postula che l'interazione tra pari sia un momento capace di
generare apprendimento. Richiede un'organizzazione dell'intero contesto educativo in modo da
ottenere un coinvolgimento attivo di tutti gli studenti un cambiamento del ruolo dell'insegnante
non più come solo esperto ma anche come supporto e monitoraggio al lavoro dei gruppi. L'essere
collaborativi è in stretta relazione con la strutturazione del contesto e dei compiti. Una reale
strategia di apprendimento collaborativo si pone l'obiettivo di affiancare all'apprendimento dei
concetti curricolari lo sviluppo di pensiero critico divergente e creativo grazie al confronto con gli
altri. Il vero motore dell'apprendimento collaborativo è il gruppo (preferibilmente di minimo 3
massimo 6 soggetti), eterogenei sia per genere che per livello scolastico.L' Individuo deve quindi
lavorare in funzione del gruppo ma il gruppo a sua volta deve sostenere l'individuo rispettandone
interessi motivazioni offrendo spazi adeguati per la crescita personale. Uno dei limiti è il verificarsi
di partecipazioni disomogenee al gruppo, dove alcuni membri tendono a essere passivi e a
approfittarsi del lavoro svolto dai più volenterosi. L’apprendimento cooperativo si basa su cinque
principi:
1. Interdipendenza positiva, ovvero l'impossibilità per un partecipante di completare il
proprio compito senza il contributo degli altri occorrono una attenta progettazione dei
compiti e una suddivisione del lavoro in modo da prevedere esplicitamente,questo
meccanismo;
2. Affidabilità individuale, occorre poter fare affidamento sull'impegno di ciascuno. In alcuni
casi l'impegno individuale a fare del proprio meglio e a contribuire in modo costruttivo può
essere formalizzato;
3. Promozione dell'interazione, qualsiasi lavoro prodotto attività va discusso all'interno del
gruppo per ottenere feedback e commenti. Occorre promuovere una mentalità della
condivisione dei prodotti intermedi;
4. Formazione alle competenze collaborative, gli studenti vanno incoraggiati a mettere in
pratica strategie quali la fiducia reciproca da presa di decisione collettiva la gestione del
conflitto una comunicazione efficace;
5. Processi di gruppo, sono i gruppi che devono definire gli obiettivi comuni promuovere a
valutazioni periodiche del lavoro svolto indicare cambiamenti necessari per il
raggiungimento dei migliori risultati possibili.
Molte sono le modalità attraverso cui si può attivare l'apprendimento collaborativo, eccone
alcune.
Imparare insieme e i circoli di apprendimento
Entrambi questi due modelli sono stati elaborati da Johnson e Johnson e hanno in comune l’idea di piccoli
gruppi che lavorano intorno a un tema comune allo scopo di elaborare un prodotto finale di gruppo.
All’interno dei gruppi è utile definire di ruoli specifici: chi scrive, chi ricerca informazioni e chi sintetizza. I
gruppi dispongono dello stesso materiale di studio e questo fa sì che la collaborazione all'interno di ciascun
gruppo sia alta mentre tra i gruppi sono alquanto competitivi proprio per superare tale limite nei circoli di
apprendimento invece il materiale è distribuito tra i gruppi in modo differenziato così che i gruppi siano
costretti a doversi confrontare sulle informazioni disponibili e organizzare degli scambi in questo modo si
aumenta l'interdipendenza e la collaborazione anche tra i gruppi.
Insegnamento reciproco
Tecnica elaborata da Palinesar e Brown, inizialmente per sviluppare abilità di comprensione dei testi scritti,
esigenza particolarmente forte nei paesi anglofoni, dove si scrive in modo diverso da come si legge. La
tecnica dell’insegnamento fa leva sull’interazione tra pari per superare la preoccupazione dello spelling e
modellare abilità di comprensione di testo. La chiave di volta di questo modello è che gli studenti imparino
gradualmente a comportarsi da insegnanti con i propri pari. Ci sono 4 momenti:
1. modellamento, l’insegnante lavora con un piccolo gruppo di studenti da tre massimo sei, legge un testo
e guida alla comprensione della lettura;
2. i chiarimenti, finita la lettura del brano selezionato, l’insegnante invita gli studenti a raccontare quanto
compreso dalla lettura, rivolgendo loro domande precise del tipo “avete capito?”;
3. la previsione, dopo aver chiarito i dubbi e quesiti l’insegnante invita gli studenti a immaginare come
proseguirà il testo;
4. la sintesi, si conclude il ciclo sintetizzando tutto il testo, cercando di sottolineare gli aspetti cruciali, gli
elementi chiave e quelli invece ancora poco chiari.
I cicli successivi saranno condotti a turno da uno degli studenti del gruppo, cominciando da quelli con meno
problemi di lettura. In questo modo gli studenti meno competenti saranno esposti a diversi modellamenti
dell’attività di lettura e avranno più tempo per poter trarre vantaggio dai vari cicli.
Jisaw
Questo termine deriva da uno strumento di taglio utilizzato per ottenere oggetti con curve irregolari come
quelli dei pezzi che compongono i puzzle. Il punto forte di questo metodo è quello di lavorare con gruppi
che si incastrano tra di loro dopo aver approfondito aspetti particolari di un compito per poterne ricostruire
l’unità. A tale scopo sono necessari gruppi stabili ma che si compongono per svolgere una parte del
compito successivamente si sciolgono per essere ricomposti e lavorare sul compito globale. Questo
modello è stato ideato da Aronson negli anni ’70 e ripreso negli anni 2000, quando l’ha concettualizzato in
10 passi:
1. formare i gruppi jigsaw (gruppi di 5-6 di individui eterogenei tra loro), si tratta di gruppi
temporanei che vengono formati senza che però iniziano a lavorare subito, saranno infatti resi
operativi solo successivamente;
2. individuare i leader, ossia uno studente che si possa assumere la possibilità di monitorare il lavoro
da svolgere (solitamente il più maturo e competente), se si utilizza più volte questa tecnica è
opportuna una turnazione;
3. frammentare il compito, in tanti parti quanto sono i gruppi;
4. distribuire il compito, a ogni studente del gruppo gli si affida una parte del compito;
5. studiare la propria parte;
6. formare gruppi di esperti, agli studenti dei vari gruppi a cui è stato affidato lo stesso segmento di
lezione è proposto di lavorare insieme come fossero esperti di quel segmento;
7. ricomporre i gruppi jigsaw;
8. presentare il proprio lavoro, ciascun studente presenta il lavoro svolto in seno al gruppo di
esperti;
9. osservare il processo, il leader deve verificare che ciascun studente ripeta quello che ha imparato;
10. valutazione, far creare agli esperti delle prove di valutazione da sottoporre i propri compagni
relativamente alla parte di compito studiata.
Valutare l’apprendimento collaborativo
L’apprendimento collaborativo deve descrivere quali potenzialità ha sviluppato lo studente ovvero
quali zone di sviluppo prossimale sono divenute attuali. La valutazione quantitativa ha in realtà
molte lacune quindi viene proposta una valutazione autentica capace di tenere conto non solo
degli aspetti contenutistici ma anche degli aspetti relazionali e delle abilità comunicative,
analizzando e confrontando i vari momenti del percorso formativo. Nei modelli di apprendimento
collaborativo gli studenti non sono solo destinatari di attività e compiti, ma vengono attivamente
coinvolti nella fase di progettazione e valutazione. Questo non significa che gli studenti si
attribuiscono un voto o un giudizio, ma che anche le abilità di valutazione del proprio e dell’altrui
percorso formativo entrano nel ventaglio di competenze che possono essere acquisite. Si parla
quindi di autovalutazione e valutazione reciproca sia come capacità di valutare e monitorare il
proprio e l’altrui percorso formativo. Le abilità di autoregolazione facilitano il monitoraggio del
compito e permettono di valutare le circostanze per decidere se occorre introdurre modifiche e
cambiamenti. Si ottiene così la visione di uno studente autonomo e attivo.
I pro e i contro dell’apprendimento collaborativo
Pro:
-
induce a percepire la relatività del proprio punto di vista e delle proprie interpretazioni
stimolando la capacità di assumere prospettive diverse dalla propria, ampliando così il
campo di esperienza;
- può essere adottati con studenti di qualsiasi età e per qualunque tipo di disciplina, si è
mostrato efficace anche nel recupero di allievi problematici con svantaggi cognitivi o
culturali e con quelli poco motivati allo studio;
- Lavorare in modo collaborativo aumenta negli studenti la stima di sé, la sicurezza,
l’equilibrio psicologico e il rendimento scolastico;
- Si acquisiscono capacità di leadership, di comunicazione, di presa di decisione, di gestione
dei conflitti sia interni al gruppo che tra gruppi;
Contro: la vera difficoltà sta nel fatto che il classico modello trasmissivo è sicuramente meno
oneroso e permette più facilmente all’insegnante di mantenere la sua autorità, resta ancora forte
la visione dell’apprendimento come fatto individuale.
Il problem solving e l’indagine progressiva
Risolvere problemi è un’attività complessa, capace di sviluppare strategie di pensiero e di
argomentazione sofisticate. Vygotskij considerò la capacità di risolvere problemi come il test
diagnostico che consentiva di distinguere le zone di sviluppo attuali, in cui i problemi si risolvono in
modo indipendente da quelle prossimali in cui i problemi vengono risolti con la guida di un adulto.
Non ci si riferisce al problem solving strettamente inerente al ragionamento matematico, ma ad
un modo di pensare trasversale che riguarda qualsiasi contenuto disciplinare. Spesso i problemi
proposti a scuola non sembrano essere immediatamente significativi per gli studenti non è loro
chiaro a che cosa servano e quale rilevanza abbiano per la vita di tutti i giorni. Invece quando si
propongono problemi interessanti complessi più simili ai problemi della vita quotidiana, vicini ai
reali interessi e alle motivazioni degli studenti, questi partecipano di più e le strategie di
risoluzione vengono meglio apprese. Il compito del docente è offrire un modellamento relativo
all’uso delle strategie di soluzione dei problemi. Tale modellamento può avvenire in modo diretto
oppure indiretto: nel primo caso l’insegnante fa vedere come si risolve il problema, nel secondo
chiede ai ragazzi di discutere come organizzare e realizzare l’esperimento senza dare indicazioni
precise. In entrambi i casi si mira a ottenere un uso autonomo delle strategie di risoluzione dei
problemi da parte degli studenti.
Il modello Newell e Simon
In una cornice strettamente cognitivista Newell e Simon definirono il problem solving come costituito da
uno stato finale a cui si tende,uno stato iniziale e dall’insieme di tutti i possibili percorsi di soluzione che
permettono di raggiungere lo stato finale. Le tappe del percorso di soluzione del problema che possono
essere così sintetizzate: definizione di uno spazio del problema, raccolta di informazioni, messa a punto di
una ipotesi e sua verifica. Il passaggio da una tappa all’altra può avvenire attraverso strategie generali
applicabili a una varietà di problemi quali:
a) cercare di restringere il campo;
b) viceversa allargare la ricerca delle info;
c) individuare dei sottoproblemi e procedere con il risolvere un sottoproblema alla volta.
Si individuano due fondamentali strategie di ragionamento: quello induttivo (dal particolare al generale) e
quello deduttivo (dal generale al particolare). Gli autori ritengono che gli uomini trattino le informazioni in
modo sistematico e razionale, prendendo decisioni in modo consequenziale. Si tratta di una visione delle
capacità umane molto utile alla messa a punto di programmi di simulazione computerizzati che negli anni
’70 prolificavano, grazie agli studi sull’intelligenza artificiale, per cui si assimilava il ragionamento per
soluzione di problemi al ragionamento tipico delle scienze esatte. Ma gli esseri umani non sempre risolvono
i loro problemi seguendo ragionamenti sistematici, così come non sempre seguono una razionalità
scientifica nel prendere le loro decisioni.
Il modello Kahneman e Tversky
Kahneman e Tversky mostrarono che i meccanismi cognitivi attraverso cui le persone prendono decisioni e
risolvono problemi sono condizionati da esperienza pregresse e da aspettative e ragionamenti spesso
inconsapevoli. Attraverso una serie di esperimenti individuarono alcuni meccanismi attraverso i quali le
persone risolvono i problemi quotidiani:
Disponibilità: nel cercare di predire un evento le persone preferiscono esperienze realizzate in
circostanze simili, avvenute in passato, selezionando quelle più vivide e maggiormente connotate
emotivamente a quelle con maggiore potere informativo;
Rappresentatività: si attribuiscono caratteristiche simili a oggetti simili e pertanto un evento è
spesso associato a un altro o si individua una relazione causale sulla base di una semplice
somiglianza;
- Ancoraggio: ci si focalizza si una specifica informazione così tanto che questa finisce con il guidare
l’intero processo di soluzione del problema di presa di decisione (es. dei km quando si acquista
un’auto di seconda mano).
In sintesi Kahneman mette in discussione l’assunzione di una razionalità del ragionamento umano
che,invece, appare spesso dominato da valutazioni apparentemente anomale e ricco di contraddizioni.
Problem-Based Learning (PBL)
L’obbiettivo fondamenta è stimolare gli studenti a individuare la rilevanza di quello che imparano per il
loro futuro, mantenere un livello di motivazione elevato e sottolineare l’importanza di un
atteggiamento professionale. Questa strategia può essere considerata come centrata sullo studente, in
quanto parte da problemi complessi e reali che consentono strategie di soluzione e lascia che gli
studenti sviluppino e lavorino su ipotesi multiple.
L’indagine progressiva
L’indagine progressiva è un modello che tiene pienamente conto delle istanze socio costruttiviste di
Kahneman. Questa strategia a spirale è stata messa a punto da un gruppo di ricercatori coordinato da
Hakkarainen. In essa risultano evidenti sia il ruolo della dimensione sociale sia il presupposto della
cognizione distribuita. Vediamo che il processo è strutturato in fasi.
1. allestire il contesto,ha lo scopo di coinvolgere gli studenti chiarendo loro perché il problema è
importante;
2. presentare problemi di ricerca, si consiglia di attivare delle discussioni di gruppo per definire il
dominio di conoscenza verso cui l’indagine è diretta;
3. creare teorie di lavoro, si incoraggia la creazione di teorie individuali, ipotesi e congetture
riguardanti il dominio indagato. La costruzione di teorie di lavoro spinge all’uso sistematico
delle conoscenze pregresse, a sviluppare inferenze per spiegare fenomeni nuovi e ampliarne la
loro comprensione;
4. valutazione critica, il gruppo di lavoro cerca di individuare i punti di forza e le debolezze delle
diverse spiegazioni ;
5. ricercare e approfondire conoscenze, questa fase è guidata dalle teorie di lavoro emerse nelle
fasi precedenti. Di solito in questa fase emergono nuove informazioni. Esaminando le proprie
teorie con le nuove informazioni emerse ci si può rendere conto di un’eventuale inadeguatezza
delle assunzioni di partenza;
6. sviluppare e approfondire problemi;
7. nuova teoria,durante la quale si formulano nuove teorie molto generali, poco specifiche, ma
che, nonostante il loro carattere incompleto, funzionano come strumenti di indagine e come
base per l’indagine sucessiva.
Tutto il processo di ricerca è finalizzato all’indurre gli studenti a migliorare le teorie attraverso la
trasformazione piuttosto che a trovare soluzioni o risposte alle domande.
La discussione tra pari
Mercer identificò tre diversi modi di parlare corrispondenti ad altrettanti modi di ragionare in gruppo:
Disputa: caratterizzata da disaccordo e prese di decisioni individuali;
- Discorso cumulativo: gli studenti si ribattono l’un l’altro in modo positivo e accondiscendente. Il
discorso è finalizzato a mettere insieme le nozioni per accumulare le conoscenze, utilizzando
fondamentalmente ripetizioni e conferme;
- Discorso esplorativo: qui gli studenti si criticano l’un l’altro in modo costruttivo, le idee sono
proposte per essere verificate conseguentemente gli studenti sfidano le idee con controargomentazioni richieste di giustificazioni e offerte di ipotesi alternative.
Secondo gli studi di Pontecorvo, gli studenti durante le discussioni tendono ad assumere alcuni ruoli
specifici:
- Lo scettico, cioè colui che non si accontenta delle spiegazioni ottenute e richiede maggiori garanzie
a fondamento delle opinioni espresse ;
- L’assertore, che interviene in maniera perentoria, come se il proprio punto di vista possa essere
quello oggettivo;
- Il compiacente, che esprime accordo incondizionato senza apportare punti di vista originali.
Ciascuno di questi ruoli possiede un repertorio di modalità di intervento:
- Le asserzioni : hanno funzione di apertura alla discussione e determinano l’oggetto della
discussione;
- Le esplicitazioni, che consistono nel chiedere ulteriori chiarimenti.
Dal punto di vista della costruzione del discorso, Pontecorvo individua le seguenti tipologie di
intervento:
Accordo;
Disaccordo;
- Neutro (interventi che semplicemente prendono atto di quanto espresso da altri senza esprimere
né accordo né disaccordo);
- Richiesta o offerta di chiarimenti;
- Richiesta o offerta di aiuto;
- Interventi off-topic, che non sono centrati sull’argomento.
Effetto palla di neve: una volta individuata una strategia discorsiva vincente gli studenti tendono a
utilizzarla in modo sempre più condiviso, interiorizzando e appropriandosi delle voci altrui in senso
batchniano. Emerge un linguaggio metaforico, la qualità delle metafore diventa un indicatore
dell’apprendimento che gli studenti stessi monitorano permettendo così non solo un apprendimento
collaborativo e costruttivo ma anche una valutazione reciproca e positiva estremamente efficace. In
ogni caso la discussione tra pari è capace di produrre un apprendimento attraverso le modalità
dell’argomentare e del ragionare. Questa prospettiva riprende il filo del discorso vygotskijano in cui la
discussione è considerata un’attività propedeutica e complementare all’autoriflessione: è dalla
discussione che nasce il ragionamento perché si ha bisogno di parlare per pensare.
Apprendere nelle comunità
La Communities of Learners è un modello elaborato da Brown e Campione, che racchiude una visione
sociocostruttivista della conoscenza, a cui si aggiunge l’enfasi sul convogliare il processo educativo
verso la realizzazione di prodotti significativi che esternalizzano la cultura della classe. Per definire una
CDA partono dall’individuare modelli di comunità extrascolastiche in cui avviene un apprendimento
costruttivo e culturalmente significativo, tentando di trasportarne in classe i principi. Fonte di
ispirazione sono sia la bottega dell’artigiano: in cui il mastro forgia e supporta i progressi
dell’apprendista sia il gruppo di scienziati: le cui competenze specialistiche sono distribuite tra i vari
membri e integrate tra loro. Gli obbiettivi dell’apprendistato sono:
a) far sì che l’allievo sia in grado di svolgere le funzioni del mastro
b) riuscire a realizzare prodotti sempre più complessi e di buona qualità.
Delle comunità scientifiche si apprezza la capacità di gruppi specializzati di lavorare in modo coordinato
su parti diverse del compito e di tendere verso la produzione di conoscenza innovativa. L’aspetto più
interessante riguarda la gestione dei ruoli in classe, in una CDA sono attivi:
- Il ricercatore;
- Gli esperti;
- Genitori;
- Osservatori.
Ciò che veramente distingue un insegnante che pratica una CDA è il modo di intendere la conoscenza:
non come qualcosa di statico ma come un patrimonio collettivo da far avanzare.