caricato da marco.myamo

Che cosa si intende per empatia

Che cosa si intende per empatia
1.1 Origini, storia e definizioni
1.1.1 Etimologia
Il termine empatia deriva dalla parola greca empateia che significa sperimentare attivamente il
modo in cui un’altra persona vive un’esperienza.
Nel 1873 Visher parla di Einfuhlung che tradotto significa “sentirsi dentro l’altro”.
Esiste cioè un sentimento, un sentimento di, o un sentimento con nel caso dell’empatia c’è il
“sentire dentro”.
Lipps nel 1903 adotta la definizione di Visher e parla di una partecipazione profonda
all’esperienza di un altro essere, egli sostiene che questa esperienza è completa quando non c’è
distinzione tra la persona stessa e l’altro da sé, si crea cioè un unico Io, la prospettiva è identica.
Questa esperienza fu chiamata da Titchener (1910) empatia.
Nel 1934 Mead si riferisce alla “capacità di comprendere” e così introduce una componente
cognitiva ad un significato che era stato soprattutto attribuito agli aspetti emotivi.
Oggi in psicologia generale per empatia si intende la capacità di comprendere lo stato d’animo e
la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato prevalentemente senza ricorso alla
comunicazione verbale (Dal Vocabolario della lingua italiana Treccani).
E, in senso ancor più generale, l’empatia “... concerne una specifica modalità e qualità di
pensiero riflesso, calato nel nostro esperire vivente rivolto verso altri da noi, specie persone
umane, ma anche animali e piante, ma anche verso il nostro corpo. Sono atti che ciascuno di noi
esercita di continuo, con anche possibilità di illusioni, di correzioni, di consuetudini, mediante i
quali cerchiamo di comprendere – dalla percezione esterna corporea – l’interno degli altri, le loro
sensazioni, i loro sentimenti, le loro motivazioni... Gli atti di empatia... sono l’essenza della
capacità di istituire comunicazioni intersoggettive sino a mettersi nei panni dell’altro” (Ardigò,
A., 1992, pp. 11-12).
Dopo questa brevissima introduzione etimologica e dopo qualche accenno ad una prima
definizione del termine ci sembra importante approfondire la sua storia (Giusti, Proietti, 1995)
perché il linguaggio influenza i pensieri ed i pensieri influenzano le azioni e qualche volta questa
reciproca influenza scorre in direzioni diverse; quando una parola viene tradotta da una lingua
all’altra rischia di perdere il suo significato originario e di subire delle contaminazioni che la
possono rendere più astratta, questo è quanto è accaduto al termine empatia.
1
1.1.2 Origine e storia dell’uso del termine. Chi si è occupato dell’empatia?
Come già accennato il termine empatia è stato introdotto verso la fine dell’800 da Robert
Vischer che era uno studioso di arti figurative e di problematiche estetiche, la sua nascita si
inserisce quindi nel campo della riflessione estetica dove il termine è utilizzato per definire la
capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura.
Visher parlava di “sentir dentro” (Hineinfuhlen) di “con-sentire” (Zusam-menfuhlen), è il
cogliere la vita della natura che è esterna come fosse vita della natura interna cioè del proprio
corpo.
È il proiettare spontaneamente i sentimenti sugli altri e sulle cose che vengono percepite.
Il termine empatia era stato utilizzato occasionalmente nella letteratura romantica da Herder e
Novalis, ma mentre per i romantici l’empatia era l’immedesimazione totale nella vita della natura,
qui è la fantasia umana che “sente” nella natura, che le dà vita e sentimento.
Lipps all’inizio del secolo utilizzerà l’empatia come centro della sua concezione estetica e
filosofica, per lui l’empatia è il sentirsi in sintonia con l’oggetto, il cogliere che esso sente ciò che
noi sentiamo.
Nella sua concezione troverà spazio anche l’aspetto psicologico, l’empatia può definire infatti
anche la conoscenza degli altri soggetti e la comunicazione tra loro, è una “partecipazione
interiore” alle esperienze vissute dagli altri.
Egli sostiene che le persone conoscono e rispondono le une alle altre attraverso l’empatia che è
preceduta dalla proiezione e dall’imitazione e che l’aumentare dell’imitazione del sentimento fa
aumentare l’Einfuhlung.
Si dischiude dunque il tema dell’alterità, del rapporto con l’altro da sé che verrà ripreso dalla
scuola fenomenologia e da Husserl.
Come già accennato Titchener nel 1909 conia il termine empatia che definisce come un
“process of humanizing objects, of reading or feeling ourselves into them” (Titchener, 1924, p.
417).
Le teorie sull’empatia in psicologia furono influenzate largamente dal punto di vista di
Titchener fino a quando Mead (1934) riconobbe la differenziazione che nell’empatia esiste tra
“sé” e “l’altro da sé” ed aggiunse una componente cognitiva all’empatia cioè l’abilità di capire e
comprendere (Deutsch, Madle, 1975).
1.1.3 Definizioni del termine empatia
2
Che cosa si intende oggi per empatia?
Nell’uso odierno il termine empatia ha acquisito una serie di significati. L’aggettivo empatico
è usato frequentemente soprattutto nella cultura americana per descrivere “un individuo che è
sensibile ai sentimenti e ai bisogni degli altri”. Comportamenti altruistici simpatici o indulgenti
sono spesso definiti empatici.
Più precisamente per empatia si intende “la capacità di entrare all’interno dell’esperienza di un
altro o di comprendere oggetti o emozioni al di fuori di noi stessi” (Oxford English Dictionary) e
“la capacità di partecipare ai sentimenti o alle idee degli altri” (New Merriam-Webster
Dictionary).
L’empatia può essere definita come un’interazione tra due persone, con una che sperimenta e
condivide i sentimenti dell’altra.
Questa condivisione affettiva può avvenire in ogni interazione interpersonale: tra genitori e
figli, tra insegnante e studente, tra lo psicoterapeuta ed il cliente, tra amici ed anche tra estranei
(Feshbach, 1997, p. 34).
L’empatia si riferisce al mettere sé stessi nei panni dell’altro, dare un senso alla sua prospettiva
ed a ciò che sta sperimentando, sentendo, pensando; significa assumere il ruolo dell’altro e
vederlo dal suo quadro di riferimento interno (Eagle, Wolitzky, 1997, p. 217).
L’empatia è un’esperienza complessa di unione nella comprensione, “una risonanza di
sentimenti che produce una comprensione più precisa di sé, dell’altro e della relazione” (Jordan
J.V., 1989).
Implica la capacità di tollerare l’ansia, di aprirsi all’esperienza di un’altra persona, la capacità
di cogliere lo stato affettivo dell’altro, di risuonare con lui emotivamente e di ottenere una
maggiore comprensione del suo mondo interiore (Jordan, 1997, p. 344).
L’empatia è in primo luogo e prima di tutto l’essere concentrati e protesi verso l’altro nel
tentativo di capire le sue comunicazioni e le sue azioni nei termini del suo quadro di riferimento.
Tutto ciò è diverso dal conoscere da una prospettiva esterna dove il comportamento dell’altro è
letto nei termini di una presunta oggettività dell’osservatore.
L’empatia è un costituente fondamentale della comunicazione e della conversazione quotidiana
e può essere utilizzata sia per fini positivi che per fini negativi; in essa si verifica il processo di
tentare di capire che cosa le persone vogliono realmente dire con le loro affermazioni.
Tale processo determina lo stabilirsi di un terreno comune e l’impegno reciproco nel compiere
le opportune correzioni nella conversazione quando si verificano degli errori di comprensione
(Schegloff, 1991; Clark, Brennan, 1991).
1.1.4 L’empatia e la simpatia
Se nella letteratura si esaminano le definizioni che riguardano l’empatia si nota come spesso il
temine “simpatia” venga utilizzato per circoscriverne e differenziarne il significato.
L’empatia non è identica alla simpatia, si possono comprendere i sentimenti, i pensieri
dell’altra persona senza provare simpatia per lei come del resto possiamo provare simpatia per
una persona senza comprenderne la realtà soggettiva.
La simpatia è “sentire con l’altro” dunque stiamo parlando di due unità psichiche, l’empatia è
invece “sentire dentro l’altro” si crea una sola unità.
Rollo May nel 1939 descrisse l’empatia come uno stato di profonda identificazione nel
quale noi ci sentiamo dentro l’altro in un modo così completo da perdere temporaneamente la
nostra identità. Questo stato è diverso dalla simpatia nella quale pensiamo: “Come mi sentirei se
fossi te?” ricercando nella nostra memoria esperienze simili a quella dell’altro; empatia significa
essere aperti a quello che la persona sta sperimentando dall’interno del suo punto di vista.
Nel descrivere la simpatia molti, ma non tutti i teorici, hanno evidenziato come in essa siano
presenti “elementi di pietà e preoccupazione nei confronti delle altre persone” elementi che non
sono presenti nell’empatia (Eisenberg, Fabes et al., 1991; Feshbach, 1978; Hoffman, 1982; ZahnWaxler, Radke-Yarrow, 1990).
C’è chi tra gli autori che hanno utilizzato il confronto tra empatia e simpatia, ha fatto notare
come ad esempio l’empatia da sola senza la simpatia e senza la comprensione può essere
addirittura dannosa, la simpatia infatti proprio per i suoi elementi “morali” agisce sempre per il
bene dell’altro, l’empatia invece può essere utilizzata anche dalla persona sadica e specialmente
dal sadomasochista che la utilizza intensamente però senza la simpatia (Shlien, 1997, pp. 63, 67).
Wispè (1986) ha descritto l’empatia come un processo molto faticoso nel quale noi cerchiamo
di comprendere l’esperienza di un’altra persona, al contrario la simpatia è un’esperienza diretta di
consapevolezza percettiva dell’esperienza di un’altra persona simile al fenomeno della risonanza
che sperimentiamo quando ad esempio ascoltiamo la musica.
La simpatia sarebbe dunque più spontanea e più facile dell’empatia che richiederebbe secondo
questo autore uno sforzo consapevole.
1.2 Il costrutto dell’empatia. Tratto, stato, processo
Come fanno notare Duan e Hill (1996, p. 262) il termine empatia è stato utilizzato in
riferimento a tre diversi concetti che possono essere considerati sia sovrapponibili che non
sovrapponibili.
Alcuni autori si riferiscono all’empatia come ad un 3tratto di personalità o ad una capacità
generale (Book, 1988; Buie, 1981; Danish, Kagan, 1971; Easser, 1974; Feshbach, 1975;
Hoffman, 1982,
1984; Hogan, 1969; Kerr, 1947; Mead, 1934).
In questo filone di studi l’empatia è definita come “la capacità di conoscere l’esperienza
profonda di un’altra persona” (Buie, 1981, p. 282) o di “sentire (percepire) i sentimenti (le
emozioni) degli altri” (Sawyer, 1975, p. 37).
Questi autori hanno definito l’empatia utilizzando termini come “disposizione empatica”
(Hogan,1969, p. 309), “orientamento interpersonale” (Rogers, 1957), “sensibilità ai sentimenti
delle altre persone” (Ianotti, 1975, p. 22) e “empatia disposizionale” (Davis, 1983, p. 113).
Tra coloro che considerano l’empatia come un tratto o una capacità stabile ci sono studiosi in
ambito psicoanalitico (ad esempio Buie, 1981; Easser, 1974; Sawyer, 1975), studiosi che si
occupano di ricerca nell’ambito della psicoterapia integrata (A.P.A., 1997; Gold, 2000, Goldfried,
2000, Preston, 2000) (ad esempio Danish e Kagan, 1971; Dymond, 1950; Hogan, 1969; Rogers,
1957) e gli psicologi sociali e dello sviluppo (ad esempio Aronfreed, 1970; Davis, 1983;
Feshbach, 1975; Kestenbaum et al., 1989; Mead, 1934).
L’assunzione implicita che sta alla base di questa concezione dell’empatia è che ci sono delle
persone che sono più empatiche di altre o per natura o per capacità acquisite attraverso lo
4
sviluppo.
All’interno di questa concezione troviamo gli studi sulle differenze individuali e quelli che si
pongono l’obiettivo di comprendere come le capacità empatiche si formino all’interno dello
sviluppo del bambino.
Nell’ambito della psicoterapia le ricerche sono volte ad esempio a valutare come utilizzare le
qualità empatiche dello psicoterapeuta nel comprendere e nell’analizzare il Sé del cliente (Giusti,
1995; Kohut, 1959), a come identificare i counselor che possiedono in misura maggiore o minore
questa capacità (ad esempio Rogers, 1957) ad individuare quali individui sono più altruisti di altri
(ad esempio Eisenberg, Miller, 1987) e ad esplorare l’influenza dei processi di sviluppo o di altre
caratteristiche di personalità sull’empatia (ad esempio Feshbach, 1975).
Altri autori hanno considerato l’empatia come uno stato, l’empatia è cioè definita come una
risposta vicaria ad uno stimolo o ad una persona stimolo (Batson e Coke, 1981; Katz, 1963;
Stotland, 1969) come il sentire il mondo personale di un’altra persona come se fosse il proprio
(Rogers, 1959; Truax e Carhuff, 1967).
Il concetto di empatia come stato della mente è definito in un modo molto chiaro e profondo
da Hodges S.D e Wegner D.M (1997, pp. 312): “empatizzare con un’altra persona all’interno di
una situazione specifica implica molto di più che cambiare il proprio punto di vista (Piaget,
Inhelder, 1956); significa anche modificare il proprio giudizio rispetto alla situazione (Regan,
Totten, 1975), la propria memoria degli eventi (Wegner, Giuliano, 1983) e la propria risposta
emotiva ad essi (Stotland, 1969), l’idea che ci siamo fatti dei tratti e degli obiettivi di quella
persona (Hoffman et al., 1981) ed anche la concezione che abbiamo di noi stessi (Baldwin &
Holmes, 1987)... l’empatia coinvolge una trasformazione strutturale generalizzata nei pensieri e
nelle emozioni... l’empatia è uno stato della mente...”.
All’interno di questo costrutto i criteri per identificare e per misurare in qualche modo
l’empatia sono stati ad esempio il confrontare il sentimento o il pensiero dell’osservatore con
quello della persona stimolo (Feshbach, Roe, 1968; Stotland, 1969) o il valutare il grado in cui
uno psicoterapeuta riesce a comprendere e a sperimentare l’esperienza del cliente (ad esempio
Barrett-Lennard, 1962; Carkhuff, 1969; Truax e Carkhuff, 1967). Il considerare l’empatia come
una specifica situazione cognitiva o come uno stato affettivo implica che le esperienze empatiche
varino a seconda delle situazioni. Per questo motivo all’interno di quest’ottica sono state
effettuate ricerche per studiare gli effetti di fattori situazionali e delle differenze intraindividuali
sull’empatia, e sono stati anche progettati training per il suo apprendimento.
A questo tipo di ricerche ovviamente si sono interessati maggiormente i ricercatori in ambito
psicoterapeutico che hanno valutato gli effetti dell’empatia del terapeuta nel corso delle sedute.
Gli psicologi sociali hanno svolto ricerche per capire il ruolo dell’empatia in altri processi sociali
come ad esempio l’altruismo.
Gli studiosi che si interessano al modo in cui l’empatia è sperimentata dal terapeuta e dal
cliente in una data situazione hanno concettualizzato l’empatia come un processo esperienziale a
più fasi (ad esempio Barrett-Lennard, 1981; Basch, 1983; Emery, 1987; Katz, 1963; Reik, 1948,
Rogers, 1975). In questo modello viene presa in considerazione l’esperienza dell’empatia
momento per momento e viene studiato il processo che è coinvolto nella produzione e nella
comunicazione di uno stato di empatia.
Sono stati prodotti vari modelli a stadi che mostrano come nello sperimentare l’empatia
terapeutica il terapeuta attraversa un processo nel quale sono coinvolti molteplici elementi.
Come affermano Greenberg L.S e Elliott R. (1987, p. 168) “l’empatia è il processo dell’entrare
in contatto profondo con il mondo interiore di un’altra persona, riuscendo a sintonizzarsi sulle
diverse sfumature dei sentimenti e comprendendo l’essenza del esperienza dell’altro nel qui e
ora”.
Gli autori sottolineano come il comunicare la comprensione che si è avuta dell’altro,
costituisca una componente separata dell’empatia, che deriva dalla sintonizzazione empatica, ma
che può essere espressa in una varietà di modi diversi.
Il considerare l’empatia come un processo interpersonale a più stadi implica che l’empatia
racchiuda una serie di esperienze. Queste teorie sono rimaste ad un livello più fenomenologico
che analitico.
In sintesi il termine empatia è stato utilizzato per rappresentare concetti diversi che possono
essere giustificati all’interno dell’ambito nel quale sono stati studiati ed utilizzati. Ovviamente
tutto ciò ha prodotto una certa confusione nell’ambito della letteratura ed allora, ad esempio,
viene proposto di non utilizzare semplicemente il termine generale di empatia quanto di fare una
distinzione tra l’attitudine all’empatia, l’esperienza empatica ed il processo empatico.
1.3 La natura dell’empatia
Alcuni autori utilizzano il termine empatia per descrivere il processo di condivisione vicaria
delle emozioni che non richiede l’utilizzo di meccanismi mentali più elevati (Mehrabian, Epstein,
1972).
Altri definiscono l’empatia come sinonimo della capacità cognitiva di assumere la prospettiva
dell’altro che non richiede una risposta emotiva (Hogan,1969, Weinstein, 1969).
Dunque da alcuni autori l’empatia è stata definita principalmente come un fenomeno affettivo
che si riferisce all’esperienza immediata delle emozioni di un’altra persona (Langer, 1967;
Mehrabian, Epstein, 1972; Stotland, 1969) per altri invece l’empatia è stata descritta
principalmente come un costrutto cognitivo che si riferisce alla comprensione intellettuale
dell’esperienza dell’altro (BarrettLennard, 1962, 1981; Borke, 1971; Deutsch, Madle, 1975;
Kalliopuska, 1986; Katz, 1963; Kohut, 1971; Rogers, 1986; Woodall, Kogler-Hill, 1982).
La componente emotiva e la componente cognitiva possono essere processi sia automatici che
controllati, sebbene nel passato modello dicotomico si tendesse ad associare la componente
emotiva con i processi automatici e quella cognitiva con i processi che richiedono un controllo
consapevole (Davis, 1983).
Ad esempio, comportamenti che fanno parte della sfera del dare aiuto, richiedono sia una
componente emotiva che cognitiva; in uno studio di Coke, Batson e McDavis del 1978 i
partecipanti che percepivano sé stessi emotivamente coinvolti e capaci di adottare la prospettiva
dell’altro erano anche quelli più pronti ad aiutare gli altri.
Nel tempo le definizioni a impronta cognitiva descrissero l’empatia nei termini di “role taking”,
“perspective taking” o comprensione sociale.
Un terzo filone di pensiero definisce l’empatia come avente in sé sia componenti affettive che
cognitive (Brems, 1989; Hoffmann, 1977; Shantz, 1975; Strayer, 1987) o come sia cognitiva che
affettiva a seconda delle situazioni (Gladstein, 1983).
Nel tentativo di minimizzare la confusione terminologica Gladstein ad esempio utilizza il
termine empatia cognitiva per significare “l’assumere dal5 punto di vista intellettuale il ruolo o la
prospettiva di un’altra persona” (Gladstein, 1983, p. 468) ed il termine empatia affettiva per
descrivere “il rispondere con le stesse emozioni alle emozioni di un’altra persona” (ibidem). Egli
sostiene che questi due tipi diversi di empatia possono essere rintracciati nella letteratura della
psicologia sociale, dello sviluppo e del counseling (Giusti et al., 1993).
Le osservazioni di Smither (1977) riguardanti un’empatia “attraverso contagio” e di
un’empatia “attraverso il role-taking” e l’identificazione di Bachelor (1988) di stili affettivi e
cognitivi nell’empatia dello psicoterapeuta sono in linea con la classificazione di Gladstein.
Scorrendo la letteratura appare però come i termini empatia cognitiva ed empatia affettiva non
siano affatto precisi e manchino di efficacia descrittiva tanto da poter creare un ulteriore elemento
di confusione perché rischiano di rappresentare una falsa dicotomia. Le ricerche infatti
evidenziano come l’empatia cognitiva e l’empatia affettiva inevitabilmente si influenzino l’una
con l’altra (Bower, 1983; Isen, 1984).
I processi sia affettivi che cognitivi che fanno parte dell’empatia sono stati descritti
separatamente anche per ragioni di studio e di maggiore chiarezza, ma oramai è impossibile non
valutare quanto i processi cognitivi ed affettivi coesistano.
Gli sforzi della ricerca si stanno concentrando sul cercare di comprendere in maniera più
precisa quali siano le relazioni tra i processi cognitivi e quelli affettivi.
6
Duan e Hill (1996) ad esempio consigliano di non utilizzare i termini di empatia cognitiva ed
affettiva perché spesso nella letteratura sono utilizzati in modo sovrapponibile, ma suggeriscono a
chi fa ricerca di riferirsi all’empatia intellettuale, quando si parla di processi cognitivi e alle
emozioni empatiche quando si considerano gli aspetti affettivi dell’esperienza empatica
(Greenberg, Paivio, 2000).
I risultati di ricerca dimostrano che sia l’empatia intellettuale che le emozioni empatiche
possono influire indipendentemente sul comportamento interpersonale. Ad esempio uno stato
affettivo empatico è stato rilevato nel comportamento di aiuto mediato (Batson et al., 1987;
Eisenberg e Miller, 1987; Krebs, 1975; Toi, Batson, 1982), e si è potuto verificare che uno stato di
empatia cognitiva può alterare il modello di attribuzione del comportamento degli altri (Regan e
Totten, 1975), tuttavia la relazione tra questi due tipi di empatia non è ancora stata chiarita.
Alcuni risultati di ricerca sembrano dimostrare come l’empatia intellettuale e le emozioni
empatiche siano due fenomeni indipendenti. Ad esempio Mill (1984) ha trovato che gli individui
che si auto monitoravano erano più capaci di assumere la prospettiva degli altri, ma non
esprimevano una maggiore empatia affettiva. Quando l’empatia è stata definita come un tratto
cognitivo o affettivo Smither (1977) non è riuscito a trovare una correlazione significativa tra i
due tratti. Gladstein (1983) che ha riassunto i risultati delle ricerche ha concluso che la capacità di
assumere il ruolo degli altri (empatia intellettuale) non era correlata strettamente all’empatia
affettiva (emozioni empatiche).
Sembra che altri risultati possano permettere di formulare l’ipotesi di un’influenza reciproca
del processo empatico affettivo e cognitivo. Ad esempio Hoffman (1984) sostiene che la
percezione di chi empatizzava con l’innocenza della vittima potesse aumentare la sua risposta
emotiva.
Le ricerche di psicologia sociale testimoniano che la componente affettiva può influenzare le
attività cognitive (Bower, 1983; Forgas, Bower, 1987; Snyder e White, 1982) o viceversa (Davis
et al., 1987; Stotland, 1969).
Nella letteratura esistono delle posizioni discordanti sul considerare l’empatia un concetto
mono o multidimensionale, come una capacità globale o come un insieme di sottocapacità.
Rispetto all’ultima di queste ipotesi alcuni autori tendono a proporre un modello di empatia come
costituita da un insieme di sottocapacità individuali collegate in modo sequenziale piuttosto che
come un costrutto globale. Coloro che propongono questo approccio per componenti concordano
sul fatto che i ricercatori devono riconoscere in modo chiaro, saper distinguere tra ed ideare
tecniche adatte ad ognuna delle capacità individuali: comprensione empatica, espressione
dell’empatia e comunicazione (Barrett-Lennard, 1981; Elliot et al., 1982, Goldstein, Michaels,
1985; Kagan, 1972; 1977; Keefe,
1976; 1979).
Un altro elemento che vale la pena di sottolineare è il valutare se quando si parla di condivisione
delle emozioni si considera la condivisione della “valenza emotiva” o delle diverse emozioni che
sono sperimentate dall’altro, da questo punto di vista l’empatia come condivisione delle emozioni è
di una qualità più elevata della condivisione del significato o del valore. Se colui che prova delle
emozioni sta sperimentando un insieme di emozioni, una completa empatia richiede che chi
empatizza condivida tutte le emozioni che fanno parte dell’insieme. Condividere una o una parte di
queste emozioni rappresenta un livello più basso di empatia (Omdhal, 1995, p. 20).
COSA S’INTENDE PER EMPATIA
• Il termine empatia deriva dal greco empateia e significa “sentirsi dentro l’altro”
• In psicologia generale l’empatia è la capacità di comprendere la situazione emotiva di
un’altra persona in modo immediato.
• L’empatia si riferisce al mettere sé stessi nei panni dell’altro per vederlo dal suo quadro di
riferimento interno.
• L’empatia implica la capacità di tollerare l’ansia e di aprirsi all’esperienza di un’altra
persona.
• L’empatia nasce nell’ambito di un’interazione tra due persone.
• L’empatia è “sentire dentro l’altro” ed è diversa dalla simpatia che è “sentire con l’altro”.
• Nell’empatia i processi affettivi e cognitivi coesistono, influenzandosi reciprocamente.
1.4 L’esattezza empatica è la capacità di comprendere i sentimenti effettivi o i pensieri
dell’altro. Basi biologiche dell’empatia
Gli esseri umani riconoscono precocemente le proprie emozioni e quelle degli altri. Alcuni tipi
di conoscenza emotiva infatti appaiono presto, ad esempio i bambini molto piccoli sanno
riconoscere se la madre ha uno stato d’animo positivo o negativo. Il processo che ci consente di
ottenere una comprensione emotiva sempre più raffinata dura comunque per tutta la nostra vita.
Ad una prima considerazione i processi che costituiscono la conoscenza emotiva ed i rapporti
affettivi sembrano essere principalmente cognitivi e consistono in funzioni quali la percezione,
l’attenzione la categorizzazione e la comunicazione.
In realtà le emozioni umane sono un fenomeno sia corporee che psicologiche e possono essere
concepite come aventi una struttura sia biologica che psicologica. Esistono molti meccanismi
altamente adattivi che noi condividiamo con numerose specie animali precedenti la nostra; le
azioni e le reazioni corporee che rappresentano una soluzione sperimentata nel tempo per alcuni
dei problemi base per la nostra sopravvivenza come il difenderci dagli altri, il mantenere una
gerarchia sociale, l’evitare gli stimoli pericolosi, il riprodurci e l’accudire gli individui più
giovani.
Nelle esperienze emotive esiste sempre una componente fisiologica e si manifesta una
evidente sincronia tra i sistemi fisiologici degli individui, senza che ci sia nessun tentativo
cosciente di raggiungere questo stato (Pravettoni, Giusti, 2000).
La sincronia che si stabilisce tra i sistemi neuroendocrini, autonomi e somatici avviene in
diverse condizioni come ad esempio lo stare a stretto contatto sociale, nella relazione
psicoterapeutica (Clarkson, 1997), nelle discussioni di gruppo, nel gioco madre bambino, se si
osserva la videoregistrazione di un’altra persona, nelle relazioni
coniugali, tra l’insegnante ed i suoi
7
allievi in classe e quando si osservano e si valutano le emozioni degli altri (Giusti, 1999).
In molte se non in tutte di queste situazioni emerge come la sincronia fisiologica sia il prodotto
della sincronia emotiva, e che questa sincronia emotiva prenda la forma di un rapporto emotivo o
di una conoscenza emotiva dell’altro, le persone cioè cominciano a conoscere i sentimenti degli
altri. Sebbene la relazione tra la sincronia emotiva e quella fisiologica avvenga rapidamente
quando le persone si conoscono intimamente o sono coinvolte in un’interazione faccia a faccia,
essa non è limitata solo a questo tipo di relazioni, ma avviene ad esempio anche se si osserva la
videoregistrazione di un’altra persona o tra persone che tra loro non si conoscono.
Viene da chiedere perché esiste la sincronia fisiologica e a che cosa può essere utile. La
risposta più semplice è che in certe condizioni per una specie sociale può essere utile possedere
un meccanismo che rende in modo veloce ed efficace tutti i membri di un gruppo con lo stesso
stato fisiologico. La sincronia fisiologica è un epifenomeno della sincronia emotiva, attraverso
un processo di contagio emotivo, l’emozione che è la più adatta in una certa situazione si
trasmette in ogni membro del gruppo attivando in ognuno gli schemi di attivazione fisiologica che
sono i più adatti in quella specifica situazione fino al formarsi della sincronia fisiologica.
Sembra che il rapporto tra la sincronia fisiologica e la sincronia emotiva possa essere di tipo
bidirezionale, la sincronia emotiva produce una sincronia fisiologica e la sincronia fisiologica
8
produce una sincronia emotiva.
L’empatia ha una base biologica, il processo di comunicazione spontanea che è fondamentale
per tutti gli organismi viventi e che include meccanismi innati di ricezione e di trasmissione di
messaggi sensoriali, visivi, uditivi, chimici.
La comunicazione spontanea è diretta, spontanea, vera per definizione e negli organismi
sociali più evoluti sia il trasmittente che il ricevente devono apprendere come utilizzare questa
capacità comunicativa innata all’interno del contesto sociale.
I concetti di empatia, intuizione, altruismo, sensibilità sociale, esattezza nel percepire i segnali
degli altri, contagio emotivo e capacità di leggere il linguaggio non verbale, sebbene varino nel
significato sono tutti simili in quanto coinvolgono un livello intuitivo di conoscenza dei
sentimenti più profondi di un’altra persona. A questi concetti si sono interessati gli scienziati
sociali dall’inizio delle ricerche empiriche degli anni ’20, ma è notoriamente difficile definirli in
maniera teoricamente coerente ed è ancora più complesso descriverli attraverso definizioni
operative.
I filosofi hanno inserito queste indagini all’interno del “problema della mente dell’altro” (Austin,
1959). William James nei suoi “Principi di Psicologia” scrisse che “i nostri sensi ci forniscono
una conoscenza che riguarda il corpo, e che noi abbiamo solo una conoscenza concettuale della
mente dell’altro” (James, 1884, pp. 222223).
I problemi che riguardano la definizione operativa di termini quali empatia, rapporto,
intuizione, altruismo, sensibilità sociale, capacità di percepire con esattezza lo stato d’animo degli
altri, contagio emotivo e la capacità di ricezione non verbale risalgono al fatto che essi hanno tutti
a che fare con un tipo di comunicazione che utilizza un processo cognitivo diretto, immediato,
olistico-sintetico o sincretico piuttosto che una modalità sequenziale ed analitica.
Si può dunque distinguere tra un sapere attraverso la conoscenza che è diretto, immediato, auto
evidente non proposizionale ed un sapere attraverso la descrizione che implica un processamento
delle informazioni ed è proposizionale (Buck, 1984, pp. 11-15).
Anche Lazarus (1991) suggerisce che vi siano due tipi di valutazione: uno “automatico,
involontario ed inconscio” e l’altro “che richiede tempo, deliberato, volontario e conscio”
(ibidem, p. 188).
La distinzione tra una conoscenza verbale ed una non verbale è importante perché quando si
parla di capacità di comprendere empaticamente in modo esatto se ne devono riconoscere due
forme
Nel caso dell’empatia, dell’intuizione e di altri fenomeni simili noi possiamo sentire che
un’altra persona è arrabbiata, o felice, ma questo sapere non assume una forma proposizionale
“quella persona è arrabbiata”; piuttosto quello che diciamo è che abbiamo un sentimento che
riguarda lo stato di quella persona.
La comunicazione spontanea è perciò fondata biologicamente, è un flusso di comunicazione
diretta una “conversazione tra sistemi limbici” che avviene simultaneamente ed in modo
interattivo con il flusso di comunicazione simbolico appreso e modellato culturalmente ed è utile
alle funzioni di coordinamento sociale (Buck, 1984; 1988; 1994). La comunicazione spontanea
può essere definita attraverso le seguenti caratteristiche:
1. È basata su una struttura biologica di meccanismi di ricezione e di trasmissione. I suoi
elementi sono segni, che sono aspetti esternamente accessibili del referente. Ad esempio le
espressioni facciali dell’altro o i suoi gesti. Più precisamente gli elementi della comunicazione
spontanea sono indici che funzionano come segni.
2. La comunicazione spontanea non è intenzionale. Il segno costituisce un messaggio, e
l’origine del segno è da ricercarsi in un trasmittente anche se ci può non essere nessuna
intenzione di comunicare.
3. Il contenuto della comunicazione spontanea non è verbale, perché non può essere falso. Il
contenuto della comunicazione spontanea consiste in stati motivazionali ed emotivi.
La comunicazione spontanea è strutturata biologicamente sia negli aspetti di ricezione che in
quelli di trasmissione è diretta cioè non richiede alcuna intenzionalità da parte di chi la trasmette o
alcuna inferenza da pare di chi la riceve. Il ricevente ha un accesso diretto al significato più
profondo della comunicazione di chi trasmette.
Noi possiamo dunque conoscere aspetti profondi degli altri perché gli altri sono “costruiti”
per esprimere direttamente questi aspetti e noi siamo costruiti in modo tale da potervi accedere,
noi captiamo queste espressioni e ne riconosciamo direttamente il significato. Questa conoscenza
si basa su un adattamento filogenetico ed è stabilita attraverso meccanismi ereditari (Ginsburg,
1976).
Per questo motivo gli individui che sono coinvolti in una comunicazione spontanea
costituiscono una unità biologica (Buck, Ginsburg, 1991).
La comunicazione simbolica al contrario è appresa e modellata culturalmente, è costituita da
simboli che hanno una relazione arbitraria con quello cui si riferiscono, è intenzionale e verbale.
9
1.4.1 Meccanismi cerebrali coinvolti nell’empatia
1.4.1.1 Lateralizzazione cerebrale e processi cognitivi
Sebbene le differenze tra emisfero destro ed emisfero sinistro non siano state ancora del tutto
esplorate e comprese (Feyereisen, 1989) è generalmente condiviso che la zona posteriore
dell’emisfero destro giochi un ruolo particolare nella percezione delle emozioni di base.
L’espressione facciale delle emozioni è riconosciuta meglio dall’emisfero destro sia negli studi
che utilizzano il metodo dei campi visivi divisi con adulti normali (Landis et al., 1979; Strauss e
Moscovich, 1983) sia nei pazienti con danneggiamenti cerebrali (Benowitz et al., 1983; Etkoff,
1989).
L’ipotesi dell’emisfero destro afferma che questo emisfero agisce nello stile cognitivo olistico
e sincretico particolarmente associato alla regolazione delle emozioni, mentre l’emisfero sinistro
agisce nello stile cognitivo sequenziale ed analitico necessario per il linguaggio (Epstein et al.,
1992).
In un’altra ipotesi, quella della valenza si sostiene che l’emisfero sinistro è associato alle
mozioni positive mentre quello destro a quelle negative (Davidson, 1984; Sackheim et al., 1982);
un’altra possibilità è che l’emisfero destro sia associato alle emozioni primarie e quello sinistro
alle emozioni sociali più evolute.
Buck e Duffy (1980) suggeriscono che l’emisfero destro abbia a che fare con l’espressione
spontanea mentre quello sinistro con la gestione delle emozioni all’interno dei diversi ruoli
sociali.
Per quanto riguarda i circuiti cerebrali che entrano in gioco nell’empatia è ormai accertato da
una serie di studi che ne è interessata l’amigdala e le sue aree associative della corteccia visiva.
(Brothers, 1989).
1.4.1.2 Modi nei quali può sorgere l’empatia
10
Presentiamo qui una serie di ipotesi che tentano di spiegare come potrebbe nascere l’empatia.
L’empatia può essere elicitata da un meccanismo di “associazione diretta”. Quando le persone
osservano l’espressione facciale, la voce, la postura di un altro o qualche altro indice situazionale
che li ricorda di una situazione nella quale hanno sperimentato l’emozione che è espressa, viene
evocata in loro un’emozione simile.
Questo meccanismo potrebbe essere spiegato dalla “teoria della rete” che postula che ogni
emozione ha uno specifico nodo in memoria. Ciò significa che nella mente di ognuno sono
presenti dei nodi: uno per la felicità, uno per la tristezza, uno per la rabbia, uno per la paura e così
via. Questi nodi specificano lo stato cognitivo, l’espressione del volto, i cambiamenti corporei, gli
stati soggettivi e le azioni che sono caratteristiche di ogni stato emotivo (Giusti, Ticcorini, 1998).
I nodi emotivi sono connessi a indicatori associati ad altri eventi della vita della persona che
vengono risvegliati quando quella particolare emozione supera una certa soglia. Ciò significa che
quando una persona prova della tristezza nel presente, si attiva il ricordo delle prime esperienze di
tristezza; quando viene attivata l’unità emotiva elicita questi nodi a produrre le sensazioni
corporee ed i comportamenti espressivi legati a quell’emozione.
Questo provoca un’attivazione delle strutture della memoria connesse e, di conseguenza,
un’eccitazione dei nodi emotivi che mantiene l’attivazione di quella emozione ed in parte
determina il ricordo che è stato rintracciato.
La teoria della rete propone questa sequenza di elicitazione simbolica dell’empatia:
1. Viene trasmessa una traccia che comunica un significato emotivo (ad esempio tua madre
ride)
2. La traccia è trasmessa e decodificata dall’osservatore (ad esempio tu noti il sorriso)
3. La traccia è paragonata ad un nodo che è presente nella memoria dell’osservatore (il sorriso
è accoppiato alla felicità).
4. Se questo nodo è connesso ad un nodo emotivo, il nodo emotivo si attiva (la felicità è
attivata nella tua mente).
5. L’attivazione del nodo emotivo elicita le componenti autonome ed espressive delle
emozioni (dal momento che il tuo nodo della felicità è stato attivato, tu cominci a sorridere
e a sentirti felice)
6. Questo costituisce l’empatia nella misura in cui l’emozione che viene elicitata viene
confrontata con lo stato emotivo dell’altra persona.
L’empatia può nascere anche per imitazione; nel meccanismo dell’imitazione chi osserva imita le
espressioni non verbali dello stato affettivo dell’altro e di conseguenza sperimenta il suo stato
emotivo.
Ad esempio se vediamo qualcun altro che piange il nostro volto può riprodurre l’espressione
dell’altro e questo provocherebbe un sentimento di tristezza.
Hoffman (1977) si riferisce alle teorie di Lipps (1903), James (1984) e Tomkins (1962)
utilizzandole come sostegno all’ipotesi che l’empatia possa nascere dall’imitazione infatti fa
notare come tutti questi teorici sostengano che ci siano modalità uniche di espressione ed unici
stati soggettivi per ogni emozione primaria.
Le spiegazioni che possono essere proposte a sostegno della teoria dell’imitazione sono le
seguenti:
1)
2)
3)
4)
l’ipotesi del feedback facciale
la teoria vascolare
l’imitazione vocale
l’imitazione dei movimenti del corpo.
Sia l’ipotesi del feedback facciale sia quella della teoria dell’efferenza vascolare facciale si
focalizzano sull’imitazione dei movimenti facciali.
Una condizione di base di queste spiegazioni sulla nascita dell’empatia si basa sulla
considerazione che le persone hanno un’unica espressione facciale per ogni emozione di base e
questo è facilmente verificabile negli adulti (Ekman,1984).
L’ipotesi del feedback facciale è stata oggetto di discussione sin dagli anni ’60.
È stata formulata da Tomkins (1962) e più tardi da Izard (1977), e stabilisce che all’aumentare
dell’intensità dell’espressione facciale di un’emozione aumenti l’intensità della percezione
emotiva di tale emozione (Buck, 1980; Izard, 1977; Laird, 1984).
Izard spiega gli effetti dell’espressione del volto sull’esperienza soggettiva nel modo seguente:
la corteccia motoria manda gli impulsi al nervo facciale per produrre l’espressione del volto; il
nervo trigemino invia alla corteccia sensoriale il messaggio che il volto ha assunto quella
determinata espressione ed il feedback nella corteccia sensoriale
provoca l’esperienza soggettiva
11
dell’emozione. Nel caso dell’empatia emotiva, quando una persona imita la configurazione
muscolare del volto dell’altro, i messaggi sono inviati alla corteccia sensoriale ed il feedback
produce l’emozione associata a quella particolare espressione del volto. È in questo modo che
l’espressione facciale provoca una risposta soggettiva della stessa emozione che è stata
sperimentata dall’altra persona; questa ipotesi non ha ricevuto un consistente sostegno dalla
ricerca.
Un’altra spiegazione potenziale degli effetti dell’imitazione è la teoria vascolare
dell’espressione delle emozioni. Questa teoria è stata recentemente rivalutata da Zajonc (1985).
Ecco come secondo questo autore tale teoria potrebbe spiegare il sorgere dell’empatia: quando
una persona imita l’espressione del volto di un’altra, i movimenti muscolari di chi empatizza
producono gli stessi cambiamenti nel flusso sanguigno ed il rilascio di trasmettitori come accade
nell’altro, il sentimento non è sperimentato allo stesso modo, la potenziale differenza è dovuta
agli errori di chi empatizza nel riprodurre esattamente gli stessi movimenti muscolari dell’altro.
Anche per questa teoria sono stati condotti molti studi sul collegamento tra espressioni del
volto e esperienze soggettive che non sono stati soddisfacenti dal punto di vista scientifico.
Il terzo modo in cui potrebbe essere spiegata l’imitazione che dà luogo all’empatia affettiva è
il rispecchiamento prosodico (Omhdall, 1991).
Per prosodia si intendono il ritmo, il tono e la sonorità delle vocalizzazioni non verbali
connesse al discorso (Giusti, Ticconi, 1998).
Scherer (1986) ha formulato una teoria secondo la quale vi è una relazione tra i cambiamenti
nei segnali prosodici che sono associati alle emozioni basata sui cambiamenti muscolari mediati
fisiologicamente; ci sarebbe secondo questo autore una relazione diretta tra i muscoli utilizzati per
produrre una variazione dei segnali prosodici e le emozioni. Seguendo la logica della sua teoria
l’imitazione dei segnali prosodici di un’altra persona può provocare non solo l’eccitazione dei
sistemi nervosi simpatico e parasimpatico ma anche specifiche emozioni. Tra queste teorie basate
sull’imitazione c’è anche quella che si riferisce all’imitazione della postura e dei movimenti.
Adottare una postura tesa o rigida o i movimenti rapidi di un’altra persona modificherebbe
l’attivazione del sistema autonomo di chi empatizza.
Le teorie che abbiamo esaminato finora descrivono dei meccanismo primitivi e radicati
biologicamente che sicuramente hanno a che fare con l’empatia affettiva anche se ciò che manca
è una convincente spiegazione scientifica su come avvenga il passaggio dall’imitazione dell’altro
al provare la sua stessa emozione ed è proprio sul fenomeno di provare proprio la stessa emozione
che l’altro sta provando che si apre l’interessante tema della differenza che esiste tra la deduzione
empatica e la precisione della comprensione empatica.
I MECCANISMI CEREBRALI COINVOLTI NELL’EMPATIA
• Nel processo dell’empatia sono coinvolte l’amigdala e le sue aree associative nella corteccia
visiva.
• L’empatia affettiva potrebbe nascere, da un meccanismo di “associazione diretta” per cui
la visione di un’emozione espressa evoca nell’altro una emozione simile.
• L’empatia affettiva potrebbe nascere dal “meccanismo dell’imitazione” per cui chi osserva
imita le espressioni non verbali dello stato affettivo dell’altro sperimentando il suo stato
emotivo.
• Ipotesi del feedback facciale: all’aumentare dell’intensità dell’espressione facciale di
un’emozione, aumenta anche l’intensità della percezione emotiva di tale emozione.
• Teoria vascolare: quando una persona imita l’espressione del volto di un’altra, i movimenti
muscolari di chi empatizza producono gli stessi cambiamenti nel flusso sanguigno ed il
rilascio di neuro trasmettitori, come accade nell’altro.
• Rispecchiamento prosodico: si riferisce alla prosodia (ritmo,
tono, sonorità del linguaggio).
12
1.5
Differenza tra la deduzione empatica e l’esattezza della comprensione empatica
La deduzione empatica rappresenta la lettura che facciamo quotidianamente di quello che è
contenuto nella mente delle altre persone, ovviamente non deve essere confusa con la telepatia o
con altri fenomeni paranormali, è infatti una forma di deduzione psicologica complessa nella
quale l’osservazione, la memoria, la conoscenza ed il ragionamento si combinano assieme per
ottenere la consapevolezza di quello che le altre persone pensano e sentono.
La deduzione empatica fa così parte della nostra quotidianità che tendiamo a darla per scontata
tranne quelle volte in cui ci accade di commettere degli errori, ed allora ci domandiamo come
abbiamo fatto a sbagliarci così tanto sui sentimenti o sui pensieri provati dall’altro.
La capacità di comprendere i sentimenti effettivi o i pensieri dell’altro prende il nome di
“esattezza o precisione” empatica, tale abilità rappresenta una dimensione fondamentale
dell’intelligenza sociale (Cantor e Kihlstrom, 1987; Goleman, 1995; Goody, 1995).
Chi riesce ad avere una percezione empaticamente esatta è colui che generalmente è
considerato un bravo interprete e lettore dei sentimenti e dei pensieri degli altri, si tratta
probabilmente dei più abili politici, diplomatici, degli insegnanti di successo e degli
psicoterapeuti più capaci di brillanti intuizioni.
Al contrario le persone che percepiscono empaticamente in modo poco esatto sono coloro che
commettono molti errori nel comprendere i sentimenti ed i pensieri degli altri.
Prendendo spunto da quanto affermato da Goleman (1995) si potrebbe dire che si tratta di
persone che mancano di intelligenza sociale e, se a ciò non è stato dato rimedio, questa carenza
provoca un ritardo nel loro sviluppo, interferisce con le loro prestazioni scolastiche, restringe e
compromette la sfera della loro amicizie, può danneggiare la riuscita del loro matrimonio, limitare
i loro successi lavorativi, le loro abilità genitoriali e può anche farli rimanere ai margini della vita
sociale.
Gli studi sull’esattezza della comprensione empatica sono appena agli inizi anche se si
possono collegare ad una tradizione di ricerca sulla percezione interpersonale che si è sviluppata
sin dagli anni ’40, ispirata da un lato dai filosofi fenomenologhi europei (Giusti, Iannazzo, 1998)
come Husserl (1931/1977) e Sartre (1943/1956) dall’altro da psicologi come Brunswick (1934).
Le loro intuizioni trovarono una forma più strutturata negli anni ’50 attraverso gli studi ad
esempio di Allport (1955), Bruner, Tagiuri, (1954), Gibson (1950) ed altri tanto per citare i più
importanti.
Due i temi che sono emersi all’interno degli studi sulla percezione interpersonale: uno è quello
della precisione, l’altro quello dell’errore o dello scarto. Gli studiosi che si sono interessati al
primo tema hanno esplorato il grado e le condizioni in cui chi percepisce compie delle deduzioni
esatte sugli altri, al contrario gli studiosi interessati al secondo tema si sono dedicati allo studio
dei diversi tipi di errori alle condizioni nelle quali questi errori si rendono più evidenti.
L’area di ricerca sull’esattezza della comprensione empatica nasce da questa tradizione di ricerca
e può essere caratterizzata nel modo seguente (Ickes, 1993, pp. 588-590 cit. in Ickes W., 1997, pp. 34):
1. La prima area di ricerca, quella con una storia più lunga di studi empirici, si focalizza sulla
capacità di essere precisi nel valutare i tratti di personalità degli altri. Nelle ricerche in
questo campo viene preteso il consenso tra osservatori come elemento necessario ma non
sufficiente per determinare questa capacità (ad esempio Asch, 1946; Bronfenbrenner et al.,
1958; Norman e Goldberg, 1966).
2. La seconda area di ricerca che ha una storia di studi più breve e più recente si focalizza
sulla capacità dei membri di una coppia di percepire con esattezza o di comprendere quelle
che sono le capacità, i valori e l’idea di sé che ha l’altro membro della coppia. Nelle
ricerche condotte in questo ambito viene confrontata la percezione diretta dei membri della
coppia con quella che è la metapercezione di ognuno relativa a queste caratteristiche stabili
(Knudson et al., 1980; Sillars e Scott, 1983).
3. La terza area che ha una storia di studi ancora più recente si concentra sull’abilità di chi
percepisce o la sua sensibilità affettiva nel comprendere quelli che sono gli stati emotivi di
una o più persone bersaglio (Costanzo, Archer, 1989; Ekman,
Friesen, 1975).
13
4. La quarta area che sta appena emergendo come ambito di ricerca si focalizza sull’esattezza
della comprensione empatica cioè la capacità di dedurre con precisione il contenuto
specifico dei sentimenti e dei pensieri di un’altra persona (Ickes et al., 1990; Levenson e
Rief, 1992; Marangoni et al., 1995).
Negli studi si è inizialmente privilegiata la capacità di percepire e descrivere in maniera
precisa i tratti dell’altra persona per poi passare all’abilità di comprenderne con esattezza lo stato
emotivo in un momento preciso e questo sia per motivi pratici che teorici che metodologici; gli
studi che investigano sulla capacità di percepire accuratamente lo “stato” di un’altra persona sono
molto più difficili da realizzare ed è per questo che sono nati solo quando sono state realizzate
delle innovazioni metodologiche.
Una nuova metodologia è stata realizzata da Ickes et al. (1990; 1988) e può essere utilizzata
per stabilire con quale precisione chi percepisce è capace di dedurre “on line” il contenuto
specifico dei pensieri e dei sentimenti degli altri.
Un’altra metodologia realizzata da Levenson e Rief (1992), permette di stabilire con quale
grado di precisione chi percepisce può dedurre on line il valore e l’intensità dei cambiamenti
emotivi delle altre persone. Le caratteristiche che questi approcci hanno in comune sono le
seguenti.
1. La precisione della comprensione empatica è stabilita on line, attraverso
videoregistrazioni dei comportamenti delle persone target così come si svolgono nel
tempo in modo tale da avere anche un indice di come la conoscenza dell’altro può far
aumentare la capacità di percepirlo in maniera più corretta.
2. L’esattezza della comprensione empatica è stabilita in un contesto interpersonale
3. Il comportamento delle persone bersaglio è naturale piuttosto che recitato in modo da
verificare come questa capacità agisce nella vita di ogni giorno.
4. Per definire la precisione nella comprensione empatica è utilizzato un criterio di
comparazione, sono considerate deduzioni precise quelle che corrispondono o che sono
strettamente corrispondenti a quanto riportato dalle persone bersaglio.
5. Poiché la precisione nella comprensione empatica è stabilita in relazione ad uno standard
oggettivo di correttezza, la validità di queste misure migliora le misure più soggettive per le
quali nessuno standard comparabile di misurazione è disponibile ed utilizzabile
(Carkhuff, Burnstein, 1970; Kurtz, Grummon, 1972; Truax e Carkhuff, 1967; Wilson e
Griswold, 1985).
6. Misure globali di questa capacità possono derivare e riflettere l’insieme delle deduzioni
separate nel tempo del singolo partecipante. L’ insieme delle sue deduzioni dovrebbe
aumentare la validità e la rappresentatività di queste misure globali.
Un esempio di “errori” o di carente capacità di comprendere esattamente le emozioni o i
comportamenti di un altro è presente ad esempio nel mondo animale in quei soggetti che hanno
subito un precoce isolamento sociale. Essi appaiono poco capaci di leggere i segnali inviati dagli
altri, i deficit che questi individui manifestano non sono però deficit nella capacità empatica di
leggere le emozioni degli altri, ma di deficit nel mostrare attenzione per i segnali inviati dagli
altri. Gibson (1966) parla di “educazione all’attenzione” in cui le differenze individuali nella
percezione non sono dovute a processi percettivi, ma all’apprendimento di quali sono i segnali
dell’assetto percettivo ai quali bisogna prestare attenzione.
Qui entra in gioco l’elemento dell’apprendimento sociale e del suo sviluppo che esamineremo,
per quanto riguarda il bambino, nel capitolo seguente.
14
Estratto da: “L' empatia integrata. Analisi umanistica del comportamento motivazionale nella
clinica e nella formazione” di Edoardo Giusti (Autore) e Maura Locatelli (Autore)