Lezione 1
Hans Belting, La fine della storia dell'arte o la libertà dell'arte.
Hans Belting è uno storico dell’arte tedesco nato nel 1935, tra i personaggi più interessanti del panorama
storico-artistico. L’edizione tedesca del saggio è del 1983 e si intitola La fine della storia dell’arte? (Das Ende
der Kunstgeschichte?). Il punto interrogativo cade con l’edizione del 1995 dal titolo assertorio. Quindi nel
primo volume Belting sta ancora valutando se la storia dell'arte sia davvero finita, quale storia dell'arte sia
finita e in che senso sia finita. Nel 2002 pubblica un volume intitolato Antropologia delle immagini in cui
muta radicalmente prospettiva. Se la storia dell’arte è finita, adesso si tratta di capire come si configura il
problema dell’immagine. L'opera d'arte dunque, in questo testo, viene assorbita all'interno di una
prospettiva antropologica dell'immagine. Le opere d’arte verranno ricomprese all’interno di un contesto
molto più ampio, quello dell’immagine, rispetto alla quale l’opera d’arte è solo un caso particolare, è una
delle possibilità dell’immagine accanto ad altre. Il centro di interesse fondamentale non riguarda più quindi
l’opera, ma l’immagine, la sua definizione e il suo funzionamento.
La locuzione “storia dell'arte” può essere ambigua perché può riferirsi sia alla storia che l'arte sta
compiendo, sia alla disciplina che studia questo percorso. La storia dell'arte come disciplina è la storiografia
artistica, che studia il percorso storico e lo sviluppo che l'arte compie.
Un'altra figura fondamentale è Arthur Danto, critico d’arte statunitense nato nel 1924 e deceduto nel 2013.
Danto si domanda se l'arte contemporanea si possa ancora affrontare mediante le categorie della
modernità o se, per essere compresa, necessiti di categorie che non sono più riconducibili alla modernità,
quindi pone il problema della continuità o discontinuità tra quella che chiamiamo arte moderna e arte
contemporanea. L’interrogativo di Danto non riguarda la fine della storia dell’arte come disciplina
storiografica. Egli si interroga sulle fine della storica dell’arte intesa come sviluppo che la produzione
artistica ha compiuto, per come è stata pensata a partire da Vasari. Ovviamente se finisce la storia dell'arte
come oggetto di studio, allora la storiografia artistica viene privata del suo oggetto, ma l’interrogativo di
Danto si rivolge in prima istanza percorso dell’arte. L'arte per come la pensiamo oggi, infatti, è un concetto
moderno, che nasce alla fine del '700 con l'estetica moderna e che noi tendiamo a proiettare
erroneamente, o almeno problematicamente, tanto sulla produzione antica, quanto sulla produzione
antropologica ed etnologica nella modernità, sebbene entrambe queste produzioni rispondano a criteri
completamente differenti.
Nel 1964 Danto vede le opere di Andy Warhol e viene folgorato. Inizia quindi a pensare che il percorso
dell'arte sia giunto a termine. Ciò non significa che negli anni ’60 ci sia la fine dell’arte, difatti si continuano
a produrre opere d’arte, ma queste opere non si anellano più in una storia. Si fa arte, senza storia.
Questo è un enorme stravolgimento per chi vuole continuare a raccontare la produzione artistica, ma anche
per chi vuole semplicemente fruirne, perché abbiamo sempre pensato l’arte insieme alla sua storia, come
spiega anche Belting nella Prefazione. L'arte era sempre anche la sua stessa storia. Allora adesso dobbiamo
domandarci se si può davvero pensare l'arte senza una storia.
L’interrogativo di Belting è innanzitutto storiografico. Egli analizza alcuni modelli storiografici artistici per
mostrare che non riescono più a cogliere la produzione che sta avvenendo e che quindi devono essere
ripensati. Quindi la fine della storia dell'arte è, per Belting, il superamento di una certa storiografia artistica
e, con essa, il superamento di un grande paradigma che sta sotto questa storiografia artistica, ovvero il
superamento della storia dell'arte pensata come storia dello stile, come sviluppo stilistico, sviluppo della
forma, dimenticando che l'opera in realtà è qualcosa di molto più complesso. La funzione dall'opera d'arte
non riguarda solo la sua dimensione formale, ma tante altre questioni.
Vedremo anche qual è la differenza con fine dell'arte in senso hegeliano, cioè la cosiddetta morte dell'arte.
Hegel, in realtà, non parla propriamente di fine dell'arte, ma dell'arte come di qualcosa di passato, qualcosa
che non riveste più un ruolo centrale per noi.
Quindi abbiamo tante possibilità: fine dell'arte, fine della storia dell'arte, fine di una storiografia artistica.
Belting crede davvero che sia finita solo la storiografia e non anche, in qualche modo, l'arte? In
Antropologia delle immagini vedremo che, in fondo, c'è un po’ l'idea hegeliana che l’arte abbia perduto la
sua centralità nella nostra cultura.
Per Adorno, invece, l'arte è centrale ed irrinunciabile, perché rivesta un ruolo che non può essere occupato
da nient’altro, né la scienza, né la filosofia. Se rinunciassimo all’arte, perderemmo la nostra capacità critica
difronte al reale, rimarremmo schiacciati nel reale stesso e non riusciremmo più a cambiarlo, perché non
riusciremmo a vederlo. Come possiamo cambiare la realtà se non riusciamo più a vederla criticamente, cioè
distanziandocene?
Iniziamo a vedere il testo di Belting dalla Prefazione, in cui vengono poste alcune questioni importanti.
Innanzitutto, Belting afferma che non sta impiegando il termine “fine” per suggerire un significato
apocalittico. In secondo luogo, segnala che la locuzione “storia dell'arte” indica i tentativi della disciplina
accademica di ricostruire a posteriori il corso della vicenda artistica compiutasi.
Quindi la posizione di Belting è che la storiografia artistica sia un’operazione a posteriori, che parte dalle
opere d’arte già date, ma non è affatto una posizione ovvia, perché potremmo anche pensare la storia
dell'arte come una norma, come un paradigma che stabilisce, a priori, cioè prima che l'opera d’arte venga
fatta, qual è il corso della storia dell'arte. Se le opere vogliono prender parte alla storia, devono aderire a
questo paradigma. La storia dell’arte sarebbe, allora, teleologicamente orientata, perché avrebbe un telos e
questo fine sarebbe già prestabilito, prima ancora che l'artista si metta all'opera. L'opera d'arte sarebbe, da
questo punto di vista, soltanto una manifestazione di un’idea, la storia dell'arte sarebbe la storia di un'idea
dell'arte e non la storia delle opere prodotte. Danto utilizzerà spesso il termine “confine” per indicare che la
storia dell'arte stabilisce nettamente ciò che è arte e ciò che non lo è. Belting, invece, sta sostenendo che la
storia dell'arte dovrebbe essere una storia a posteriori, che parte dalle opere. Da Vasari in poi, tuttavia, la
storia dell’arte è stata più storia di un’idea, che storia delle opere.
Un conto è la storia e un altro conto è la cronologia. La cronologia è sempre banalmente vera, la storia però
non è la cronologia, non è nelle cose stesse. Le opere non sono storiche per propria sostanza, siamo noi che
costruiamo una storia. La storia è dunque la storia di una evoluzione progressiva in cui ciò che viene dopo è
diverso o migliore rispetto a ciò che c'era prima, migliore rispetto al paradigma.
Ad esempio Gombrich propone un paradigma mimetico, secondo cui l'opera d'arte raffigura sempre meglio
la realtà. Dunque se un'opera è più simile alla realtà dell'opera precedente, allora si sta muovendo nella
giusta direzione, sta progredendo. Se non lo fa o addirittura se regredisce, allora non entra nella storia. La
storia di una mimesi è una storia progressiva, in cui la realtà viene raffigurata con sempre maggiori capacità.
Dopo la frattura tra l'arte egizia e l'arte greca, quindi nel momento in cui l'apparenza diventa essenziale, si
ha una storia dell'arte che si interrompe, secondo Gombrich, con l'astrattismo, che scardina tutto e che
segna una sorte di pausa in questo percorso mimetico, che riprenderà solo in seguito con la fotografia, il
bidimensionale, il tridimensionale e così via. Questo paradigma, dunque, esclude tutta una serie di cose che
sono solitamente considerate arte, come l'astrattismo, il futurismo, il dadaismo. Quindi il paradigma
costituisce un confine che taglia fuori.
Se la storia dell'arte non è più una storia lineare, l'arte è finalmente libera di fare ciò che vuole e non deve
più rispettare i dettami del paradigma della storia. La libertà dell’arte, quindi, è la libertà dalla storia, cioè da
quel percorso che la storia prescrive. Belting propone di abbandonare la storia dell'arte e di pensare, invece,
le storie dell'arte. Però, dirà Danto, un conto è pensare a possibili storie, al plurale, che consentano una
certa libertà, un altro è affermare che l'arte è fuori dalla storia e quindi è totalmente libera.
A pagina 8 troviamo un’importante indicazione sull’impiego della terminologia da parte di Belting, che
specifica che con il termine moderno, che solitamente indica il periodo che inizia con l’arte rinascimentale,
indicherà l'arte che parte dalla metà dell'800, quindi dall'Impressionismo in poi. Tutto quello che viene
prima lo chiamerà premoderno. Quindi, da Vasari fino agli impressionisti è premoderno, mentre il moderno
è dagli impressionisti fino agli anni '60 del '900. Poi c'è il contemporaneo, che coincide con quello che Danto
chiama post-storico, cioè quella fase successiva alla fine della storia dell'arte, evitando l’impiego del termine
contemporaneo perché contemporaneo è ciò che è attuale, ma gli anni ’60 non sono più tali. È un caso che
Belting e Danto coincidano in questa definizione, perché solitamente il contemporaneo si fa partire dall’89
con la caduta del muro di Berlino.
Vediamo la prefazione dell’originale tedesco. Si parla del problema dell'universalità della storia dell'arte. La
storia dell'arte è sicuramente unificata, è ciò che Danto chiamerà “la grande narrazione”, ma la questione si
complica se parliamo anche di una storia universale, cioè di tutti i popoli, non più solo quella occidentale
che nasce con Vasari in ambito rinascimentale. Quando noi parliamo de la storia dell'arte stiamo
intendendo che quella è l'unica storia possibile e che prima non c'è affatto storia dell'arte. È un dato
storiografico che la storia dell'arte nasca con la modernità. Belting, inoltre, sostiene che prima
dell’modernità avevamo non un’epoca dell’arte, ma un’epoca dell’immagine.
In un volume importante, Il culto delle immagini, Belting sostiene che la modernità è segnata da questa
frattura epocale, che segna la differenza con un’epoca, dall'antica Grecia fino a tutto il medioevo, in cui
abbiamo una produzione di immagini e non di arte, perché quelle immagini non sono a caratura estetica,
ovvero la funzione centrale per cui vengono prodotte non è una funzione estetica, ma per lo più religiosa o
mitico-religiosa. Dunque Belting distingue un'epoca dell'immagine prima dell'epoca dell'arte e un'epoca
dell'immagine dopo l'epoca dell'arte, che è la nostra epoca, in cui l'arte perde la centralità che ha avuto fino
alla metà del '900.
Siamo a pagina 12. Abbiamo due nuove nozioni, quella di storia dello stile e quella di sistema autonomo. Si
tratta di elementi nodali della costruzione teorica di Belting, che ritorneranno sempre. Berling sta dicendo
che per lo più le diverse storiografie artistiche sono varianti di una storia dello stile, cioè sono per lo più
storie formali, che guardano alla forma dell'opera. Belting sta dicendo che non dobbiamo guardare solo alla
forma, ma anche al contenuto di un'opera. La storia dell'arte è una storia dello stile perché l'arte è sempre
stata pensata come autonoma, sebbene non sia sempre stata tale. È nella modernità che l'arte diventa
autonoma, mentre prima la produzione delle immagini non lo era affatto. Le statue o le figure avevano una
funzione indicata da qualcuno, esterno all’arte, che poteva per esempio prescrivere che servisse a rendere
visibili le divinità della chiesa. È l’eteronomia dell'arte, la non indipendenza dell'arte. Questo vale per la
produzione di immagini tanto a scopo religioso quanto a scopo politico. Autonoma, invece, è l’arte che dà a
sé stessa le proprie leggi, prescrive i propri stessi compiti e le proprie funzioni. Tuttavia, un’assoluta e
radicale autonomia slegherebbe completamente l’arte dal resto del mondo, schiacciandola su una
dimensione puramente formale, perché se servisse a qualcosa non sarebbe più autonoma. Un'arte
fortemente impegnata, ad esempio, è un'arte fortemente non autonoma. Quindi per Belting l'arte deve
essere autonoma e non autonoma, cioè deve darsi le proprie leggi da sé, ma non deve perdere il suo
rapporto con la realtà. Il punto è che una storia dell'arte pensata come storia dello stile intende l’arte come
sistema autonomo, perché taglia fuori il contenuto, la funzione, che richiederebbe un altro tipo di storia
dell'arte.
Con l'avvento delle avanguardie si produce una ulteriore frattura. L'avanguardia determina il concetto del
nuovo, che è tale in quanto, nel momento stesso in cui si pone, rende vecchio quello che c'era prima, quindi
crea una frattura. Con l'avanguardia, quindi, si genera una frattura tra il moderno e il premoderno. Tuttavia
per Belting, l'avanguardia aderisce alla progressività del modello storiografico e quindi continua ad avere
fiducia nella storia dell’arte, nell’arte come qualcosa di centrale ed irrinunciabile per gli esseri umani.
Lezione 2
Siamo arrivati a pagina 12. Abbiamo detto che il problema dell'avanguardia è che spezza l’uniformità della
storia dell'arte, spezza in due il percorso storico e così facendo distingue tra una fase che Belting chiama
“premoderno” e la fase del moderno. Tuttavia l’avanguardia mantiene una visione lineare e progressiva
della storia, nonché la centralità dell’arte. Questo fa sì che con il superamento dell'avanguardia venga in
qualche modo ricostituito una sorta di unicum e che l'avanguardia venga inserita nel percorso storico.
Belting mette in gioco altre categorie, come quella del rapporto tra arte e vita e quella del rapporto tra arte
e produzione non propriamente artistica, cioè background culturale e sociale, solo in tempi recentissimi
integrato in ambito artistico.
Con l'avvento dell'avanguardia salta il confine tra arte e realtà, perché l'avanguardia ha dentro di sé il
problema dell’impegno, che poi diventerà impegno politico, minando l’autonomia dell’arte. Ciò che è arte e
ciò che l'arte fa non dipendono più dall'arte stessa. L’arte, che nel passaggio dal medioevo al rinascimento si
era svincolata dal condizionamento soprattutto religioso, la ritroviamo condizionata nella sua funzione
politica soprattutto con il realismo socialista imperante nell'Unione Sovietica. La politica prescrive all'arte
cosa deve fare, di cosa deve parlare e come. Non viene considerata arte qualcosa che non segue la
determinazione politica.
Per Belting l’arte ha una funzione e, se ha una funzione, allora non è completamente autonoma, perché se
fosse completamente autonoma parlerebbe solo di sé stessa e del proprio modo di essere arte. Già Adorno
aveva sostenuto che nell’arte deve esserci un rapporto tra autonomia e non autonomia, ma aveva anche
sostenuto che non doveva esserci una funzione dell’arte, per non cadere nella sola eteronimia.
L'altro concetto che viene messo in crisi dalle avanguardie è l'arte come arte bella bella, cioè così come
veniva pensata a partire dal '700, quando l’arte cessava di essere una tecnica, un “saper fare” e iniziava a
portarsi dietro un giudizio estetico che prima non le apparteneva. Infatti quando noi includiamo nel
concetto di arte per come la intendiamo oggi anche l'arte greca, tracciamo una continuazione categoriale,
che in realtà non sussiste, cioè guardiamo con occhi moderni una produzione che veniva fatta con parametri
e categorie completamente diversi. Se guardiamo alla storia dell'arte come storia dello stile, possiamo
tracciare una continuità ad esempio con tutta la produzione etnografica, che tuttavia è completamente
discontinua dal punto di vista della funzione. Nel fare questo, sostiene Belting, confondiamo e
dimentichiamo qualcosa di più importante, cioè la funzione. È nel '900 che avviene questo sconfinamento
nella categoria di “arte bella” di tutta una serie di produzioni che prima di quel momento noi non
chiamavamo propriamente “arte”.
Salta anche la forte distinzione tra arte e altri sistemi di comunicazione. Oggi il concetto di arte è diventato
talmente esteso che non sappiamo più cosa significhi. Se non sappiamo più cos'è arte, come facciamo a
fare una storia dell'arte?
Il capo d'accusa è che queste storie dell'arte, in realtà, più che storia delle opere d'arte sono storie dell'arte
come idea. La storia dell'arte come storia dello stile è, in realtà, la storia di come si sviluppa l'idea dell'arte
nel corso dei secoli. Belting sostiene invece che va fatta una storia delle opere, dei prodotti, una storia
dell'arte a posteriori, a partire da qualcosa che già abbiamo davanti. La storia dell'arte come storia di
un'idea, invece, sminuisce il concetto stesso di opera d'arte, che diviene semplicemente uno dei tanti
esempi del percorso storico di questa norma.
Quindi Belting sta dicendo che gli storici devono tornare all'opera e rendersi conto che il vero punto di
partenza è proprio l'opera d'arte. Allo stesso modo l'arte non deve essere ridotta a un semplice prodotto
culturale, perché l'arte è tale in quanto ha anche una sua autonomia, altrimenti non sarebbe più possibile la
distinzione tra arte alta e arte bassa.
Tutti i sistemi di storiografia artistica sono in qualche modo deludenti perché contaminano il concetto di
arte includendo produzioni che appartengono ad altre categorie e allo stesso tempo non riescono a
spiegare quello che sta accadendo nella contemporaneità. In questa fase, Belting ha ancora l'idea che si
debba tentare di ripensare una storia delle opere d'arte, cioè una storia in cui ci sia ancora l'opera d'arte al
centro dell'interesse. Nella parte finale del suo percorso l'opera d'arte non sarà più al centro dell'interesse.
Al suo posto, l'immagine, cioè l'opera d'arte depotenziata.
“Il ruolo dell'arte....è incerto”, incerto perché è l'autonomia a rendere l'arte stessa incerta. Finché l'arte non
era autonoma, cosa dovesse fare lo prescriveva qualcun altro. Ora o l'arte è in grado di dire da sola perché
esista, oppure non serve più a niente.
Già emerge quella che poi sarà la posizione di Belting, cioè guardare all'arte come problema dell'immagine.
Belting parla dell'epoca premoderna proprio come epoca dell'immagine, un'epoca dell'immagine che
precede la nostra, che è un'epoca dell'arte. L'attribuzione di arte all'epoca precedente alla nostra è una
contaminazione che non ha ragione di essere. Nel volume che noi non trattiamo, quello successivo di dieci
anni, Belting dirà che il concetto di arte non solo è un concetto moderno, ma è anche un concetto europeo,
che poi noi estendiamo all'arte universale. Questo è un grande errore perché guardiamo con il nostro
paradigma anche produzioni che con il nostro paradigma non hanno niente a che vedere e le confondiamo.
Belting non da una lettura postmoderna dell'arte contemporanea perché non accoglie la distinzione tra
moderno e post moderno, per Belting il contemporaneo è una diversa articolazione del moderno, ma non è
in antitesi rispetto al moderno.
Primo capitolo. Quando parliamo di storia dell’arte c’è sempre un’ambiguità terminologica, perché non è
chiaro se ci riferiamo al percorso che l’arte compie o alla disciplina che studia questo percorso. Belting sta
dicendo che non è finita né la storia dell'arte, come percorso, né l'arte in quanto tale. Danto invece parla di
una fase apostolica in cui ancora si fa arte, ma non c'è più la storia, quindi c’è una sorta di eterno presente.
Secondo Belting, invece, i modelli storiografici che abbiamo a disposizione non funzionano, sono superati e
finiti. Il problema della fine dell'arte è complicato in Belting, perché egli da una parte lascia intendere,
soprattutto nel volume Apologia delle immagini, che l'arte in qualche modo è superata, che si è chiusa
l'epoca della storia dell'arte e che siamo entrati in un'epoca dell'immagine, dall’altra però non afferma
direttamente che l'arte è finita, perché essa rimane una delle possibilità all'interno dell'immagine. In questa
fase Belting non sta parlando né della fine dell'arte né della fine della storia dell'arte. Le opere d'arte
consentono ancora una storia ma sono superati i modelli che abbiamo.
A pagina 4. La storia è tale perché è progressiva, ma non è una semplice cronologia. Quello che viene fatto
dopo è un progresso rispetto a quello che era stato fatto prima, ma il perché, il punto di vista, il paradigma
è stabilito dalla storia stessa. Può essere lineare, ma non è l’unica possibilità, infatti la storia dell'arte di
Vasari è ciclica. Abbiamo saldato arte e storia in modo tale che non riusciamo più a pensare l'una senza
l'altra, facciamo fatica a pensare l'arte senza la storia. Chi produce arte e chi studia arte hanno sempre
ritenuto di produrre o studiare anche storia dell'arte. Belting sta dicendo che non necessariamente l'arte è
storica, infatti la nozione di storia dell'arte nasce nel XVIII secolo.
Molto spesso nel caso dell'arte contemporanea l'oggetto artistico è un vero e proprio oggetto a cui viene
semplicemente messa una firma. A questo punto il lavoro e la cura che stanno dietro all'opera d'arte
vengono meno. Sono semplici oggetti e sono anche arte. È una forte differenze ontologica, è il suo essere
che cambia.
Nel mettere insieme due categorie diverse, la storia e l'arte, abbiamo fatto prevalere la storia e abbiamo
messo da parte l'opera. Quindi, dice, Vasari ha strutturato la storia di una norma, la storia di un'idea e le
opere sono semplicemente la manifestazione di questa idea.
Il modello di Vasari è ciclico e ripetibile. Vasari sta cercando di costruire una storia degli artisti rinascimentali
mettendoli a confronto con le opere greche, per dimostrare che c'è un ciclo che ha un ideale, che è quello
del classicismo, che è un ideale già dato, al quale noi ci approssimiamo. Anche in Winckelmann il modello
storico è un modello ciclico, ma mentre Vasari sta scrivendo la storia dei suoi contemporanei, egli scrive la
storia dell'arte greca, il cui ideale non è più riproducibile. Quindi il modello non è realmente ciclico, ma è
una sorta di spirale. Per Vasari è realmente ciclico, perché ricomincia da capo raggiungendo lo stesso livello.
Per Winckelmann è un ciclo, in cui non si arriverà mai al livello dell'arte greca.
Con l'estetica di Hegel, in cui l'arte è un momento dello Spirto, il concetto di arte viene esteso a tutti i
popoli. Nell'estetica hegeliana è una scienza, perché il percorso dell'arte è compiuto, concluso. Allora la
storia dell'arte non si fa per ricreare l'arte, ma per conoscerla scientificamente. Hegel non sta dicendo che la
produzione di arte è conclusa, ma che l'arte è qualche cosa di concluso perché la sua più alta destinazione è
arrivata a compimento. L'arte non viene più fatta dal punto di vista dello Spirito assoluto, ma dal punto di
vista dello Spirito soggettivo. L'arte è passata dal punto di vista del movimento autoconoscitivo dello Spirito
assoluto, perché ha passato la sua funzione prima alla religione e poi alla filosofia. Quindi quello che l'arte si
proponeva di fare, cioè l'autoconoscimento dello Spirito, adesso lo fa qualcos'altro, la filosofia. Se lo Spirito
si vuole conoscere, non deve fare arte, ma deve fare filosofia. L'arte non è più davvero in grado di fondare
una comunità, una polis, in questo senso è qualcosa di passato. L'arte non ha più quella centralità e quella
essenzialità che prima aveva, e proprio perché è qualcosa di compiuto noi possiamo davvero studiarla e
comprenderla.
Lezione 3
Belting fa partire la storia dell'arte da Vasari, che abbraccia un modello ciclico in senso rigoroso: è un vero e
proprio cerchio, quindi quando il percorso si conclude ricomincia proprio nello stesso modo del giro
precedente. Questo ovviamente consente quella sorta di esaltazione nella valutazione del rinascimento.
Quindi il modello ciclico è funzionale per Vasari ad elevare il rinascimento a punto più maturo
dell’espressione artistica, che segue ad un periodo di decadenza. Il classicismo greco, quindi, non è affatto
irraggiungibile.
In Winckelmann, invece, c'è un'idealizzazione forte dell'arte greca. Il modello è ancora circolare, però il
livello del classicismo greco non è raggiungibile. Ciò significa che, in termini geometrici, più che di un vero e
proprio cerchio dovremmo parlare di una sorta di spirale. L'arte greca è un punto asintotico al quale
cerchiamo di avvicinarci il più possibile, senza poterlo mai raggiungere.
Con Hegel il modello di storia dell'arte da modello ciclico diventa un modello lineare. Il cerchio si apre e
diventa una vera e propria linea. La storia dell’arte viene inserita all’interno di una storia più ampia, quella
dello Spirito. L'arte è il momento in cui sensibile e non sensibile sono perfettamente adeguati, in cui c'è una
perfetta corrispondenza tra sensibile e non sensibile. Con Hegel la storia dell'arte diventa storia dell'arte di
tutti i tempi e di tutti i popoli, quindi una storia universale in senso forte. Che la storia dell'arte sia europea
è una pura contingenza, perché per Hegel gli altri popoli non producono una vera e propria storia. La storia
dell'arte è finita perché è finita l'arte: l'arte è consegnata al passato, è un fase dello Spirito assoluto che è
stata superata da altre fasi. Quando si parla di “fine dell'arte” in Hegel bisogna quindi tenere presente che
non si parla di una morte dell'arte, ma della fine della sua alta destinazione, del suo supremo compito.
Hegel non sostiene che la produzione artistica sia finita, ma che l'arte ora riguarderà lo Spirito soggettivo e
non più quello assoluto.
Pagina 11, secondo capoverso. In questo passaggio emerge una questione di fondo per Belting, cioè che
l'arte diventa autonoma. L'opera d'arte diventa qualcosa di assoluto, di chiuso in sé, che non rimanda più ad
altro e che trova la sua ragion d’essere tutta all’interno dell'arte stessa. Dal punto di vista di Belting,
funzione estetica e autonomia dell'arte sono due facce della stessa medaglia: l'arte diventa autonoma
perché a un certo punto nella modernità viene privilegiata la dimensione estetica.
Questo avviene nel momento in cui noi valutiamo un certo oggetto solo dal punto di vista estetico,
dimenticando la questione del contenuto e soprattutto la questione della sua funzione. L'arte intesa in
questa accezione non deve avere nessuna funzione. Si è costruita una storia dell'arte soltanto riducendo
l’opera alla sua dimensione estetica e formale, quindi di fatto si è costruita una storia dello stile.
Pag. 11. “Il cammino in avanti” è l'avanguardia, l'arte che deve sempre andare avanti. Il termine stesso
avanguardia indica questo moto in avanti, che precede, che quindi in questo senso apre la storia dell'arte e
la realtà stessa. L'avanguardia dischiude delle possibilità, convinta che poi la storia la seguirà. Le
avanguardie in qualche modo sembrano, all'atto della loro costituzione, tenere insieme il momento estetico
dell'arte e il momento politico, l'autonomia e la non autonomia. Questo presenta non pochi problemi
perché una delle operazioni che l'avanguardia fa è quello di sconfinare il mondo dell'arte per prendere
posizione nei confronti della realtà. Il punto è se riesca a farlo restando arte, cioè senza trasformarsi in una
vera e propria azione. Se vuole essere arte deve mantenere la sua dimensione estetica, perché nel
momento in cui l'impegno politico diventa concreto essa non è più arte. Per questo a un certo punto entra
in conflitto la dicotomia tra arte e impegno.
L'avanguardia si contrappone alla concezione storica tradizionale, ma mantiene i suoi due capisaldi, vale a
dire la fede nell'arte, cioè l'idea che l'arte sia essenziale, e il progresso, cioè la possibilità di costruire una
storia dell'arte. Belting sta dicendo che dobbiamo cambiare il modo di guardare l'arte e la storia dell'arte.
L'avanguardia ha prodotto una frattura e con essa una discontinuità dei modelli in gioco. Non è affatto lo
stesso modello quello messo in gioco nelle avanguardie rispetto a quello dell'arte moderna o premoderna.
Nel paragrafo successivo Belting analizza altri modelli storico artistici, principalmente modelli a lui
contemporanei. I modelli che propone sono sostanzialmente tre: quelli ciclici con le proprie varianti, aperti
o chiusi, ripetibili e non ripetibili; quelli lineari; quelli oscillatori. In questi modelli c’è una concentrazione
esclusiva sulla forma artistica, che implica una trascuratezza di altri elementi fondamentali quali il
contenuto, la funzione e la ricezione. Il compito interpretativo, quindi, viene inteso come ordinamento delle
opere nel “museo immaginario”. Il museo immaginario era l'idea di un archivio fotografico universale di
tutte le opere d'arte. Questa idea ribadisce il principio secondo cui l'opera d'arte è la sua forma, portandolo
alle estreme conseguenze: il museo non contiene più l'oggetto opera d'arte, ma contiene solo la sua
documentazione fotografica e quindi la sua forma.
Tra gli esempi di storie dello stile abbiamo il modello di Riegl, il Kunstwollen, cioè “volontà d'arte”. Si
radicalizza l’elemento di autonomia dell’arte, identificando addirittura un impulso autonomo interno all’arte
stessa. Come se l’arte fosse mossa da un istinto interno a sé stessa, una sua volontà di essere arte.
L’accentuazione della dimensione autonoma è, per Belting, l’accentuazione di una storia dello stile, delle
trasformazioni delle forme stilistiche.
Con Hegel la storia dell'arte non studia più solo quelle che tradizionalmente erano considerate opere d'arte,
ma studia anche tutta un'altra serie di produzioni culturali perché ritiene che ad ogni volontà d'arte
corrisponda una rispettiva visione del mondo o idea del mondo. Questo vuol dire che all'interno di ogni
opera d'arte noi possiamo leggere qual è la concezione del mondo secondo quell'artista o quel produttore.
Questo produce una curiosa conseguenza e cioè che, se l'opera d'arte si occupa di tutti gli oggetti e se in
tutti questi oggetti noi possiamo leggere una concezione del mondo, allora la storia dell'arte diventa
semplicemente la storia. Questo perché in ogni prodotto culturale noi leggiamo la storia. Quindi c’è una
radicalizzazione dell’autonomia dell’arte, ma anche una radicalizzazione dell’autonomia della storia
dell’arte, che non deve più riferirsi alla narrazione storica, perché la contiene.
Altri modelli che Belting prende in considerazione sono quelli di Focillon e Kubler, ai quali per certi versi si
sente più vicino. Il modello di Focillon e di Kubler è un modello ciclico, ma non ripetibile come il modello di
Vasari e di Winckelmann.
Ogni ciclo è un ciclo a sé, che nasce e si chiude. Questo perché ogni ciclo è retto da ciò che viene chiamato
“l'unità di un problema”, cioè ogni ciclo ha un suo problema artistico peculiare. Quindi la storia è frantumata
in una serie di sequenze ciascuna retta da una sua unità interna, che non rispetta la cronologia perché il
grado di posizionamento di un'opera d'arte all'interno del ciclo dipende da quanto risponde all'esigenza di
quel ciclo, che venga fatta prima o dopo non ha importanza. Belting sta contestando a Kubler, in particolare,
che questo ciclo è ancora troppo morfologico, quindi ancora troppo concentrato sulla forma.
In seguito Belting parla degli “iconologi”, riferendosi in realtà a Panofsky, pur senza nominarlo. Cita
Warburg, come esempio positivo dell'iconologia. L'iconologia separa forme e contenuto, guarda all'opera
d'arte come a qualcosa che l'iconologo deve decodificare. L'artista codifica un contenuto, che l'iconologo
deve decodificare. Anche in questo caso l'attenzione è riservata alla forma, ma il contenuto dell'opera è un
tutt'uno con la forma, ciò significa che non lo possiamo tirare fuori dalla forma dell'opera per renderlo
indipendente, come per Belting vuole fare l'iconologo.
Warburg si discosta dalla schematizzazione che Belting ha offerto dell'iconologica, innanzitutto perché
annovera l'arte come una delle modalità delle produzioni culturali, non come la produzione per eccellenza.
Walburg mostra una concezione più vicina a quella di Belting, che diventerà essenziale ne L'antropologia
delle immagini in cui Belting farà la stessa operazione, non farà cioè un'antropologia delle opere d'arte, ma
delle immagini, rispetto alle quali l'arte è solo una delle modalità di produzione.
Lezione 4
Siamo arrivati a pagina 20. Belting scrive che non ci sono “mai forme pure”. Siamo dentro la questione della
psicologia: possiamo affidare alla psicologia l'arte e l'opera d'arte? La psicologia non è in grado di fare presa,
perché vuole spiegare il modo in cui noi vediamo certe cose, ma quando abbiamo a che fare con un’opera
d’arte, il come e il cosa si danno insieme. Come fa la psicologia a spiegare come viene strutturato
visivamente qualcosa, se non sa che cosa si sta strutturando visivamente? Questo qualcosa, il contenuto,
non può essere ricondotto alle strutture della visione. La psicologia può spiegare come noi vediamo l'opera
d'arte, ma non riesce a definire la realtà che vuole studiare, cioè l’opera d’arte stessa. Quindi ha bisogno
che qualcuno gli dica che un determinato oggetto è un'opera d'arte.
Gombrich, in un volume intitolato Arte e illusione, dove illusione non ha un significato negativo, ma
percettivo, spiega che l'arte è una forma di imitazione, di mimesi. Fare arte significa configurare un'opera in
modo tale che le persone, di fronte ad essa, abbiano la stessa reazione percettiva che hanno davanti alla
realtà. La storia dell'arte, quindi, diventa questo sviluppo dei modelli raffigurativi della realtà. Si tratta di un
paradigma potentissimo, perché estende notevolmente il campo di azione della storia dell'arte.
La prima obiezione è che questo modello funziona finché si intende l’arte come raffigurazione della realtà
visiva e fisica, ma smette di funzionare se si indica ad esempio la realtà sociale come termine di paragone. Il
termine di paragone è necessario per capire se quello che fa un artista è più verosimile a quello che ha fatto
l'artista precedente. Per Gombrich la storia è fatta di invenzioni, che egli chiama convenzioni figurative, che
restituiscono in modo sempre più verosimile la realtà, quindi per capire se stiamo progredendo è necessario
che ci sia un termine di paragone stabile, il quale è invece assente se pensiamo la realtà visiva non come
bloccata sui fatti, ma come realtà sociale.
Il problema del rapporto arte-realtà è un altro aspetto della questione dell'autonomia dell'arte. La
distinzione tra arte e realtà, che la cornice doveva rigidamente delimitare, salta dal momento in cui l’opera
d’arte cerca di sconfinare e di entrare in contato con la realtà. L'opera non rispetta più precisi criteri di
riconoscibilità. Talvolta il fruitore non sa più neanche dove guardare e il cartellino serve ad indicare che
quella è un'opera, dal momento in cui salta la distinzione tra l'arte e la realtà.
Per Paul Klee “l'arte non riproduce il visibile, ma rende visibile”. L'arte deve rendere visibile l'invisibile, cioè
deve mostrare qualcosa, altrimenti non sarebbe arte, però al tempo stesso deve lasciare qualcosa invisibile.
Questo invisibile, dice Belting, è la realtà. La realtà è l'altro rispetto all'immagine, ciò a cui l'immagine
rimanda. Il ciò di cui un'immagine è immagine è la realtà.
A pagina 23 Belting scrive che l’arte non esiste solo all’interno di una storia della forma. La storia della
forma è la storia dello stile. Se noi pensiamo alla storia dell'arte solo in questo modo, trascuriamo una parte
fondamentale. Quindi non si vuole negare alla forma la sua centralità, ma deve essere affiancata da altre
considerazioni. La forma è ciò che consente all'opera di sopravvivere. La nozione di sopravvivenza, che
troviamo in Antropologia delle immagini, fa emergere la questione di un rapporto tra temporalità ed
extratemporalità. Per Belting le immagini sono allo stesso tempo temporali, cioè connotate storicamente, e
extratemporali, cioè fuori dal tempo. Guardando un'opera, riconosciamo al tempo stesso la modalità storica
e qualcosa che non si consegna al tempo, che non è riducibile alla dimensione temporale.
A pagina 24 c’è un passaggio fondamentale, perché viene segnalata quella che sarà la posizione di Belting
nella revisione dell’opera, cioè ne La fine della storia dell'arte successiva di dieci anni. “Solo l'opera in sé –
non una definizione dell’arte qualunque essa sia – è risultata in grado di resistere”: l'opera, non l’arte in
quanto tale, deve essere il vero oggetto di una storiografia artistica. Non più una storia dell'idea di arte, ma
una storia delle opere d'arte, perché solo le opere hanno una consistenza storico-materiale tale da resistere.
La resistenza è fondamentale perché permette la costruzione di storie, al plurale, dell'arte. Che vuol dire
resistenza? Una storia dell’arte come idea fa sì che le opere siano selezionate dal paradigma che abbiamo
scelto. Nel momento in cui cambiamo il paradigma, costruiamo un’altra storia dell’arte con altri oggetti. La
resistenza è proprio la capacità delle opere di permanere nonostante il cambio di paradigma. La questione
della resistenza diventerà centrale nel volume successivo e ancora in Antropologia delle immagini. Ciò che
resiste alla teoria passa dalla dimensione dell'opera alla dimensione del corpo dei fruitori, perché il progetto
è un progetto antropologico.
“La forma artistica è una forma storica”. Abbiamo sempre pensato l'arte insieme alla sua storia, quindi nel
momento in cui la storia dell'arte viene meno fatichiamo anche a capire cosa ne è dell'arte stessa. C'è
ancora arte una volta che togliamo la storia?
Questo problema emerge in modo forte in Danto, che si domanda se nel momento in cui finisce la storia
dell'arte rimanga ancora l'arte. Togliere all'arte la storia significa privarla del proprio compito, perché la
storia istituisce il telos, il punto di arrivo. Danto afferma che l'arte è finalmente libera, non è più sotto giogo
alla filosofia, ma il risvolto di questa grande libertà è il compito di individuare una funzione, di un obiettivo,
altrimenti diverrebbe un puro gioco di forme totalmente inutile. Dopo l’arte delle avanguardie utopiche,
che doveva dischiudere una nuova società, abbiamo un’arte completamente inutile. L’appello alla storia
diventa il tentativo di capire come dobbiamo guardare l’arte.
Paragrafo ottavo. Belting sta facendo un’affermazione piuttosto forte. Sta dicendo che incentrare la storia
dell'arte sulla forma artistica non funziona più, ma che, al tempo stesso, non abbiamo nessun altro modello
abbastanza forte. Non è cosa facile ristrutturare una struttura che si era saldata nei secoli, saldando insieme
prima arte e bellezza e poi arte e storia. Ci accorgiamo dei limiti del modello, ma non sappiamo con cosa
sostituirlo. Belting sta confessando che non è in grado di offrire paradigmi sostitutivi, ma fornisce alcune
indicazioni su come tentare di configurare un nuovo modello:
La storia dell'arte deve interfacciarsi il più possibile con altre discipline, quindi deve essere interdisciplinare.
Se il punto di partenza è l'oggetto opera d'arte, allora dobbiamo osservarlo da molte prospettive differenti.
Mostrare i limiti della storia dello stile non vuol dire che dobbiamo scrivere una storia sociale dell'arte, che
invece di guardare allo sviluppo della forma radica l'opera talmente tanto all'interno del contesto che la
spiega solo su questa base. Si passerebbe da un riduzionismo ad un altro riduzionismo. L’opera non è solo
forma, ma essa è comunque una delle sue componenti principali.
Oltre alla forma e alla funzione, c'è anche la recezione, cioè come viene recepita l'opera dal fruitore, che in
Belting assume una certa importanza perché è ciò che lega l’opera agli esseri umani. Una concezione
romantica, che privilegia l'autonomia dell'arte, istituisce un rapporto tra opera e assoluto: l'opera è il modo
in cui l'assoluto si rivela. Belting vuole invece ricondurla all’essere umano.
L'arte contemporanea riprende il conflitto tra vita e arte, cercando contatti con l’ambiente sociale e
culturale. Quindi è necessario per gli storici dell’arte porre attenzione alla “linea di giunzione” tra arte e vita.
Fino ad ora Belting ha parlato di una storia dell'arte abbastanza compatta, adesso inizierà a tracciare una
distinzione tra la dimensione del moderno e quella di ciò che egli chiama premoderno. Nella scansione che
Belting propone, abbiamo il premoderno che è costituito dall'arte medievale e poi abbiamo il moderno, ma
nel moderno si ha una seconda scansione tra moderno e contemporaneo. Quindi la storia si frantuma e si
crea una profonda discontinuità.
Una grande trasformazione che avviene già all'interno della modernità e che esplode con la
contemporaneità è la trasformazione dei media. Per secoli il quadro aveva una sua riconoscibilità, ora nel
manuale di storia contemporanea troviamo le performance, le installazioni audiovisive e così via. Non
possiamo più affidarci al supporto mediale per identificare un genere artistico, il sistema delle arti è
completamente saltato, c'è un'ibridazione.
Lezione 5
Belting stava suggerendo dei punti che una nuova prospettiva storiografica dovrebbe tenere in
considerazione. Siamo arrivati al punto 6, pagina 29. Secondo Belting una storia dell'arte universale non si
può più dare, ciò che si può dare è invece una storia dell'arte per sequenze, in cui ogni sequenza è retta da
un problema che la tiene insieme. La storia dell'arte non costituisce più qualcosa di unitario, non a caso si
genera il problema della continuità e della discontinuità tra i vari momenti della storia dell'arte. Una prima
discontinuità si dà tra il medioevo e quello che egli chiama premoderno, poi tra premoderno e moderno,
poi tra moderno e contemporaneo. Queste fratture delimitano quelle che egli chiama “sequenze”.
La mancanza di un ruolo sociale, che distingue l'arte contemporanea da quella moderna, è il problema
dell'autonomia ed è lo stesso problema da cui Adorno inizia a formulare la propria teoria estetica, cioè la
questione della non ovvietà dell'arte, ovvero che non è più ovvio il diritto all'esistenza dell'arte. Il problema
non è se fare o non arte, ma se sia o meno ancora necessaria l'arte. Se è necessaria, vuol dire che sta
svolgendo un compito e, se ha un compito, ha un telos, quindi una storia.
Pag.30. “L’arte (…) ha una facoltà che, a quanto pare, nessun altro mezzo di comunicazione è in grado di
sostituire”. C'è un'inevitabile oscillazione all'interno del pensiero di Belting. Da una parte, Belting fa
presente che con l'arte contemporanea si è esaurita la spinta che l’arte aveva prima ed è stata superata da
tutti gli altri sistemi mediali, d'altra parte, però, nessun mezzo riesce a fare quello che fa l'arte.
Paragrafo 9, Storia dell'arte e arte moderna. Belting sta affrontando una delle due fratture, cioè quella tra
premoderno e moderno. C'è una coincidenza tra quello che succede nella pratica artistica e quello che
avviene nella storiografia. C'è una rottura nel campo artistico a cui corrisponde una rottura nella
storiografia. Le avanguardie spezzano il dettato storico, introducendo un nuovo modo di fare arte che rende
il modo precedente qualcosa di superato. Nel momento in cui la spinta dell’avanguardia si esaurisce, non
possiamo più condividere né i sacri ideali della prima storia dell'arte, né una fede modernista in un
progresso ininterrotto. Ci troviamo a dover ripensare la storia senza avere più punti di riferimento.
Belting segnala alcune fratture nella storia dell'arte, legate a fratture della storia umana. La prima è lo
spostamento dell’egemonia culturale dall'Europa agli Stati uniti avvenuta nella metà del '900. Fino agli anni
'50, la storia dell'arte era sempre stata europea. Ora è diventato difficile parlare di una sola storia dell'arte,
innanzitutto perché quella orientale e quella occidentale seguono due percorsi diversi, in secondo luogo
perché si aggiunge una divaricazione all'interno della stessa Europa tra quella dell'ovest e quella dell'est.
Pag. 35. Con Hofmann, inizialmente, l'arte si divide in due grandi tradizioni, da una parte “il grande
realismo”, dall’altra “la grande astrazione”, cioè un'arte che guarda alla realtà, quindi in questo senso non è
pura e per questo si avvicina di più all’arte medievale, e un'arte pura che guarda alle forme.
Belting polemizza con la visione postmoderna perché a suo parere commette due errori. Innanzitutto è
fortemente antimoderno, vuole contrapporsi al moderno. In secondo luogo, si apre indistintamente a tutte
le forme possibili, dando luogo ad una forma di livellamento. Il postmoderno, quindi, nega quella
dimensione funzionale a cui Belting tiene molto perché la considera una delle caratteristiche fondamentali
dell'opera d'arte. Una volta che riusciamo ad avere una certa distanza storica, riusciamo a comprendere
meglio le linee di discontinuità, ma questo non deve farci dimenticare le differenze, come suggerisce invece
il postmoderno.
Nel momento in cui l'arte perde la sua funzione pubblica, quindi la sua funzione eteronoma, viene
accentuata e privilegiata la sua funzione autonoma, che sembra quasi diventare assoluta. Il modernismo,
quindi, fa diventare l'arte sempre più autoriflessiva. Questa non è altro che la tesi forte di Greenberg,
filosofo d'arte che Belting tratterà con attenzione. Greenberg è uno degli ultimi che riesce ancora a
strutturare una storia dell'arte ad ampio raggio, una teoria cioè che non spiega solo questo o quel
movimento, ma che riesce a dispiegarli tutti in una sola storia, tramite questo paradigma di autoriflessione
dell'arte. Per Greenberg la storia dell'arte finisce con la pop art, perché il suo paradigma funziona fin lì. C'è
poi una sospensione del paradigma, ma a un certo punto gli artisti ricominceranno a fare arte.
Pag. 42. L'arte che si libera dalle sue funzioni è allo stesso tempo un'arte che acquista tutte le sue
potenzialità e un'arte che non ha più nessun compito. Il massimo della libertà si porta dietro il problema
della totale assenza di una funzione e quindi fa emergere anche il problema della necessità o meno della
sua esistenza.
Pag. 43. Se con il modernismo avviene con una sorta di autoformazione, che interviene sui mezzi dell'opera,
allora questo ciclo si conclude con la smaterializzazione dell'opera perché i mezzi non ci sono più. Questo
significherebbe che allora esso è concluso.
Sta sollevando il problema di un'arte che non avanza e neanche arretra, un'arte ferma in una sorta di eterno
presente, perché non c'è più la possibilità di una storia. Anche le avanguardie, che un tempo volevano
dischiudere le possibilità utopiche del futuro, vengono meno. Allora l'unica dimensione possibile diventa
quella della nostalgia di qualcosa che non c'è più. Un conto è un'avanguardia che progetta il futuro,
un'utopia che l'arte vuole realizzare, un altro è un'avanguardia che perde la sua spinta progressista e rivolge
la propria utopia ad un passato irrecuperabile.
Pag. 45. La coscienza storica che l'arte assume con la modernità è qualcosa che non riguarda solo la storia
dell'arte, ma riguarda ogni singola opera d'arte, quindi ogni opera si pone da questo punto di vista in un
rapporto con tutto ciò che l'ha preceduta, perché la così detta autofondazione avviene nell'opera
dall'interno dell'opera.
Si solleva un problema che ritroveremo anche in Danto. Il dissolversi dei confini sia dal punto di vista della
produzione artistica, sia dal punto di vista teorico, mette a disposizione dell'arte tutte le forme, che
diventano tutte utilizzabili, ma a questo punto salta il rapporto tra una forma originale e la copia. Non si
tratta semplicemente di una replica, ma di una citazione, che mostra lo scarto rispetto a quello che
precedeva. Le ragioni di questo scarto a costituiscono l'arte contemporanea. La citazione diventa
importante perché stabilisce un rapporto che è allo stesso tempo di imitazione, ma anche di differenza. La
differenza è il momento in cui l'opera che sta citando riflette sulla sua differenza rispetto all'opera che cita.
Questo fa emergere il carattere fortemente teorico e riflessivo dell'arte contemporanea: questa
dimensione, che prima era puramente interna alla produzione e quindi alla sua forma, adesso emerge e
quasi deborda rispetto alla forma.
Lezione 6
Nel momento in cui l'arte acquisisce libertà in questa dimensione del post-moderno, bisogna riflettere se
questa libertà sia in realtà un livellamento. Una certa forma può essere una risposta o un tentativo di
rispondere a un problema proprio di un contesto storico. La forma non è mai una forma pura, ogni forma ha
la sua funzione e il suo valore in un certo contesto. Prendendola e utilizzandola come forma, stiamo
sorvolando su tutta questa dimensione, non la stiamo facendo valere per quello che è il suo reale valore,
cioè la risposta specifica a un determinato contesto. Il punto è sempre che continuiamo a guardare l'arte dal
punto di vista della sua forma, lasciando fuori il contenuto e la funzione.
Ci sono teorie secondo cui l'arte non deve avere assolutamente nessuna funzione. Belting sta dicendo che,
nel momento in cui leviamo la dimensione della funzione, perdiamo l'opera, cioè continuiamo a guardare
l'arte in quanto idea di arte. L'opera, l'oggetto, il prodotto con la sua consistenza, lo perdiamo. Ma il punto è
che le opere non sono manifestazioni di un'idea. Da questo punto di vista Belting dice che il post-moderno
rientra in quella categoria in cui le opere vengono guardate nella loro forma, con la differenza che tutti gli
stili e tutte le forme sono utilizzabili.
Pag. 50. In questo paragrafo Belting parla della contemporaneità, cioè del tempo in cui vive. Belting
confessa che non ha a disposizione un nuovo modello di storia dell'arte e per questo bisogna convivere con
il fatto che c'è un pluralismo, cioè che ci sono più modi di descrivere e più sequenze storiche che possiamo
descrivere. Poco prima afferma che il livellamento fa sparire la capacità di giudizio. Il giudizio si rifà ad una
norma, quindi c'è una dimensione normativa. Questo significa che non è vero che qualsiasi forma va bene.
In Belting c'è una continua oscillazione: da una parte solo l'arte può fare quello che l'arte riesce a fare,
d'altra parte questa dimensione artistica verrà assorbita all'interno di una dimensione antropologica
dell'immagine nella quale l'opera d'arte è decentralizzata.
La storia dell'arte non nasce effettivamente nel rinascimento. Vasari è in qualche modo un precursore, ma il
concetto di arte è un concetto ottocentesco, perché è un modo di tenere insieme un certo concetto di storia
e un certo concetto di arte. L'arte, in realtà, si è stata per molto tempo priva di una disciplina storico
artistica che la convogliasse in un certa direzione.
I tre cardini dell'Antropologia dell'immagine sono: i mezzi artistici; il corpo del fruitore; l'immagine. Qui li
troviamo in qualche modo preannunciati: il mezzo artistico, l'uomo storico e le immagini del mondo.
Belting affronta il problema del rapporto tra arte e critica d'arte, mettendo di nuovo in gioco il rapporto tra
gli artisti e gli interpreti, cioè i critici d'arte. Nella contemporaneità, arte e critica non sono più separate.
L'interpretazione dell'opera entra nella sua stessa costituzione. Non c'è più questa profonda separazione
che ancora vigeva nell'arte moderna. L'opera, in epoca premoderna, ha una completezza ancor prima della
dimensione critica. Un esempio è dato dall'iconologo, che tratta l'opera d'arte come una sorta di codifica
che poi l'interprete deve decodificare, qui le due dimensioni sono separate. Nel momento in cui questi due
momenti non sono più separabili, tutta la dimensione della produzione cambia.
L'arte è un'attività che ha una sua dimensione autonoma accanto ad altre attività. È un'altra declinazione
dell'autonomia dell'arte. Questo vuol dire che se la storia cambia, se le altre attività cambiano, non è detto
che l'arte debba risentirne, perché non è determinata da ciò che avviene fuori dall'arte. Le teorie che
ritengono che l'arte non sia autonoma, sostengono che se la società cambia l'arte debba cambiare con essa.
Ci sono ovviamente diverse letture, ad esempio una lettura marxista secondo la quale se la struttura
economica cambia, necessariamente deve cambiare anche l'arte e che questo è un rapporto univoco,
perché il cambiamento della struttura cambia la sovrastruttura ma non viceversa. Quindi se cambia la
struttura economica cambia l'arte, ma l'arte non può cambiare la società. Ci sono modelli in cui questo
rapporto diventa reciproco e anche la cultura può cambiare la struttura economica.
Se l'arte è totalmente autonoma, essa continua il suo percorso prescindendo da ciò che avviene nella
società, perché è mossa solo dalle sue leggi interne. Ciò significa anche, però, che l'arte non parla mai della
realtà. La versione radicalizzata di questo è “l'art pour l'art”, quindi un'arte che segue solo le sue leggi e il
suo modo di fare arte.
L'arte non è qualche cosa di altro rispetto al nostro fare esperienza, rispetto alla percezione di tutti i giorni,
anzi l'arte è precisamente il potenziamento dell’esperienza. È come se l'arte ci facesse vedere come noi di
solito esperiamo il nostro mondo, come un'esperienza riesce a darsi. Allora l'arte diventa un modo
particolare rispetto al nostro modo solito di fare esperienza.
Rapporto tra arte e critica. L'arte premoderna viene vista o come una rappresentazione della realtà o come
la rappresentazione di una verità. In entrambi i casi l'opera è una rappresentazione. Il critico, allo stesso
modo, è colui che rappresenta l'opera. Sono però due modalità separate. In questo senso, dice Belting, il
critico duplica o inverte l'atto della rappresentazione. C'è un trasferimento dalla dimensione
rappresentativo-visivo a una dimensione rappresentativo-testuale.
Nell'arte premoderna e ancora in parte dell'arte moderna, questa separazione tra arte e critica non sussiste
più perché è l'opera d'arte stessa a farsi un discorso sull'arte. L'opera d'arte diventa autoriflessiva. Secondo
il pensiero modernista l'opera d'arte deve mostrare le sue condizione dell'essere arte, ogni opera d'arte
deve farci capire perché essa è arte. È come se ogni opera d'arte dicesse al fruitore che è un'opera d'arte e
la spiegazione si trova semplicemente guardandola, perché il suo contenuto è mostrare il suo essere arte.
In questo modo Greenberg può pensare a una storia dell'arte come una forma sempre più progredita di
autoriflessione e autoconoscenza. Le opere riescono a mostrarci questo momento riflessivo sempre meglio.
L'idea di Greenberg è che lo facciano purificando i propri mezzi formali. Un'opera d'arte deve rendere i suoi
mezzi formali sempre più puri, perché così facendo permette di vedere le condizioni di possibilità dell'opera,
vale a dire il fatto di riconoscere che davanti agli occhi abbiamo un'opera d'arte. Rendere puri significa che,
ad esempio, nel caso della pittura che è bidimensionale si deve accettare questo suo limite. Se la pittura
finge la terza dimensione è impura perché sta facendo qualcosa che fa la scultura. I mezzi dell'arte figurativa
sono due, perché la tela ha due dimensioni, orizzontale e verticale. Le tre dimensioni le hanno solo gli
oggetti materiali, quindi non dobbiamo mettere in gioco e fingere una terza dimensione, che è ovviamente
la prospettiva albertiana (Gian Battista Alberti). Storicamente la terza dimensione, infatti, da Manet in poi si
schiaccia sempre più fino a non entrare più in gioco con l'astrattismo. Questa linea arriva fino a Pollock,
mentre il surrealismo e il dadaismo non vi rientrano. Danto parlerà di una vera e propria violenza che taglia
fuori ciò che non è arte da ciò che non lo è.
Superato il modernismo si ribalteranno i compiti, sarà la critica a costituire l'opera. Belting afferma che,
mentre nell'arte premoderna la rappresentazione richiede che ci sia qualcosa d'altro rispetto ad essa, che è
proprio ciò che viene rappresentato, l'arte moderna e contemporanea non rappresentano più, piuttosto
presentano sé stesse. Non rimandano più a qualcosa che è fuori dall'opera d'arte, ma presentano qualcosa
che è interno all'opera stessa perché è una forma di autoriflessione, di autofondazione.
Quindi secondo Belting nell'arte premoderna vige ancora il modello rappresentativo, mentre nell'arte
moderna vige in maniera più forte il modello presentativo. Nel contemporaneo la forma entra in crisi tanto
che da non essere più riconoscibile, perché per lo più vediamo veri e propri oggetti.
Si perdono tre elementi: la distanza fissa, mediante la quale l'artista poteva calcolare la distanza con le
opere del passato perché era una distanza storico teorica; l'opposizione rispetto all'arte del passato, cioè la
dimensione del nuovo, del non rifare opere già prodotte tali e quali; infine il rapporto tra originale e copia,
perché dal momento in cui tutte le forme sono disponibili e legittime, in linea di principio, viene a cadere la
distinzione tra originale e copia.
Questo implica che la differenza tra il nuovo e il passato non la troviamo più nella forma, ma nella teoria,
cioè in ciò che fa sì che quella stessa forma non sia, per qualche motivo, esattamente la stessa. È il concetto
della citazione. Il punto è se il contesto storico è così importante da rendere diversa la stessa forma. Ci deve
essere il momento della differenza, della distanza. Tutta questa dimensione non è più individuabile
nell'opera stessa, ma in ciò che la circonda, nella “mente dell'artista”, cioè nella dimensione teoricointerpretativa che circonda l'opera e non più nell'oggetto opera. Quindi bisogna pensare al momento della
differenza rispetto alle opere del passato. Questo momento della differenza non è nella forma, ma nella
teoria che sta nella mente dell'artista e del critico, cioè che dipende da come essi la interpretano e
presentano.
Infine c’è un terzo risvolto che abbiamo anticipato, vale a dire il caso in cui il discorso critico produce
l'opera. Tanto più le opere d'arte si schiacciano sulla dimensione oggettuale, quanto più emerge la
dimensione teorica per cercare di costituire l'oggetto come opera, per farlo valere come opera, perché nella
forma vediamo solo l'oggetto. Questa è la teoria dell'indiscernibile di Danto.
Dobbiamo porre l’attenzione su due perdite. La perdita della linearità della storia dell'arte e l'idea che
l'opera d'arte abbia una propria consistenza, che viene in qualche modo smaterializzata. Diventa difficile
capire qual è l'oggetto dello storico, perché più è la teoria che rende un’opera d’arte tale, più l'oggetto dello
storico perde consistenza, diventa un oggetto teorico.
Paragrafo su Vasari. Tramite Vasari inizia, secondo Belting, l'ipotesi di costituzione del modello storico
artistico. I tre punti cardine di Belting sono Vasari, Winckelmann e Passavant, perché rappresentano tre
esempi di quel modello ciclico, che non verrà più utilizzato da Hegel in poi.
Nozione di compiutezza e incompiutezza. Nell'estetica di Croce ogni opera è qualcosa di compiuto, in
quanto qualcosa di compiuto non si inserisce in un percorso storico ma in un arcipelago, per questo parla di
insularità. Letta in questi termini, ogni opera ha una sua compiutezza e una sua completezza. Ma nel
momento in cui la inseriamo in una storia progressiva diventa necessariamente incompiuta oppure è la fine
di quel ciclo. Quindi l'opera è qualcosa di contemporaneamente compiuto e incompiuto.
Se la storia dell'arte è la storia di una norma, allora ogni opera è necessariamente una tappa di quella
norma e quindi è incompiuta perché se fosse compiuta il ciclo sarebbe terminato.
Lezione 7
Oggi vediamo il saggio che conclude La fine della storia dell’arte, intitolato Vasari e la sua eredità. Vasari
scrive per i propri contemporanei, per delineare le modalità di fare arte, tracciando una storia dell’arte
ciclica. Vasari, Winckelmann e Passavant sono importanti proprio perché utilizzano ancora questo modello
circolare, che tornerà con Kubler e Focillon, ma più come un vero proprio circolo, bensì come una sequenza.
Pagina 83. Con Winckelmann nasce una vera e propria storia dell’arte. La differenza rispetto a Vasari è che
l’antichità costituisce un ideale irraggiungibile, quindi in quanto irraggiungibile è qualcosa che rimane
intatto, che è concluso. Questo fa sì che il ciclo che ripropone Winckelmann non è un ciclo perfetto, perché
non c’è una rinascenza tale e quale in cui gli artisti sono in grado di raggiungere lo stesso ideale di partenza.
È piuttosto una forma asintotica, inserita però in una forma circolare. Quindi forse se dovessimo indicare
una figura geometrica adatta dovremmo optare per la spirale. Il punto è che Winckelmann vuole
magnificare la grandezza dell’arte greca, come qualcosa di assolutamente irraggiungibile, e quindi tracciare
la storia di un lungo declino, mentre Vasari vuole magnificare gli artisti contemporanei, in particolare
Michelangelo, presentando un ciclo che si ripresenta.
Pagina 88. Passavant è un artista tedesco, che vuole rivalutare il gotico, che Vasari aveva lasciato fuori dal
suo ciclico. Quindi Passavant, anziché indicare una grande separazione tra il ciclo classico e il ciclo
rinascimentale, suggerisce che ci siano un insieme di svasature, tanto che il modello ciclico sembra già
dispiegarsi verso quello lineare in Passavant.
Immettere il gotico all’interno di questo percorso implica che non ci sia più solo la classicità greca, alla quale
il gotico non rimanda. Quindi significa che la classicità stessa deve essere guardata in modo diverso, non più
come un ideale formale, ma come un ideale spirituale, di valori, che può quindi essere riproposto a pari
altezza dal gotico, che è certamente spirituale.
Paragrafo 9, pagina 91. L’opera in qualche modo è sia storicamente condizionata, che storicamente
condizionante. È condizionata perché è un prodotto storico, questo è un punto su cui Belting insisterà
sempre, cioè che la funzione dell’opera, non solo la forma, lega fortemente l’opera alla propria storia,
perché risponde a delle esigenze storicamente connotate ed è frutto di un certo contesto. È anche
storicamente condizionante, altrimenti potremmo semplicemente schiacciarla sulla sua dimensione storica,
ma l’opera d’arte riesce a trascendere la storicità e a non rimanere chiusa nella sua dimensione storica,
perché condiziona le opere a venire, apre nuove possibilità all’arte stessa, e parla anche a fruitori che non
sono più quelli per cui era stata pensata.
Pagina 92. Non c’è più la storia dell’arte, ma abbiamo una pluralità di narrazioni, una pluralità di storie
dell’arte. Questo problema non risolve affatto la questione, è un punto di partenza che solleva altri
problemi: queste sequenze hanno dei rapporti tra loro? Ci sono successioni contigue? Questa successioni
hanno una qualche unità tra loro, una consistenza logica? O ciascuna narra qualcosa, senza avere alcun
rapporto con le altre? Questo è un problema lasciato irrisolto da Belting. La sequenze storico artistiche sono
chiamate da Belting narrazioni, tenute insieme da un qualche problema, più o meno individuabile e
articolato. Nel momento in cui questo problema viene meno, si inaugura un’altra sequenza.
Il modello unidirezionale era una finzione narrativa, una costruzione a posteriori, un modo di raccontare la
storia, che riusciva ad esse lineare selezionando solo l’aspetto morfologico, ma dimenticando vari aspetti
che per Belting sono essenziali.
Le opere d’arte formano vari arcipelaghi, perché ciascuna è conclusa, ma possiamo tracciare una mappa,
oppure queste varie sequenze hanno una logica che siamo in grado di riconoscere? Belting è molto cauto
nel rispondere a questa domanda. Non c’è una storia unidirezionale, non c’è un’unità, ma questo non
significa che non ci sia alcuna consequenzialità nei molteplici punti che abbiamo. Tuttavia, questa
consequenzialità non può essere fissata a priori come era nella storia precedente, che escludeva dal novero
delle opere d’arte quegli oggetti che non si adattavano al percorso prestabilito. La consequenzialità non può
più essere fissata programmaticamente, perché così facendo le opere vengono sminuite, ridotte ad
esemplificazioni concrete di un paradigma storico ideale.
La conclusione del saggio introduce lo spostamento antropologico, che è ancora al di là da venire. “La
produzione artistica è un paradigma dell’attività umana”, cioè è un modo dell’operare umano. Per un verso,
è qualcosa di connaturato antropologicamente agli esseri umani, per altro verso l’opera d’arte è una delle
tante possibilità dei modi di essere. Quindi questo può essere letto sia come un rafforzamento, che come un
depotenziamento dell’opera d’arte, se guardiamo a questa affermazione con uno sguardo romantico.
Passiamo all’altro testo di Belting, cioè Antropologia delle immagini. Pagina 10: la domanda “che cos’è
un’immagine?” richiede un approccio antropologico. In poche righe, Belting sta affermando che la storia
dell’arte non è in grado di esaurire lo studio dell’immagine. Per riuscire a capire cos’è un’immagine finora
abbiamo interrogato la storia dell’arte, perché abbiamo visto nelle opere d’arte il momento di massima
esemplificazione dell’immagine, ma né l’una né l’altra esauriscono l’intero campo. Quindi il problema non è
più definire che cos’è un’opera d’arte, ma che cos’è un’immagine, perché l’opera d’arte è un’immagine, ma
l’immagine non è necessariamente un’opera d’arte.
Che sia un oggetto o che sia un evento, l’opera d’arte ha una dimensione fenomenica, cioè spaziotemporale. Croce non sarebbe d’accordo, perché per Croce la vera opera sta nella testa dell’artista e
l’aspetto fenomenico è solo il tentativo di comunicazione da parte dell’artista verso il fruitore.
L’immagine sfida i tentativi di spiegazione, sfugge. Ad esempio le immagini mentali sono immagini, ma non
hanno una dimensione spazio-temporale in senso proprio. Quindi quando parliamo di immagine, parliamo
di qualcosa che ha sia una dimensione fenomenica, cioè si dà attraverso un medium, sia una dimensione
non fisica, cioè non sensibile. Nel momento in cui noi diciamo che l’immagine non va identificata con il suo
mezzo, stiamo introducendo la questione della non riduzione dell’immagine all’opera d’arte.
“Antropologia” non è utilizzato nel senso di una scienza precisa, che avrebbe una dimensione prestabilita,
ma nel senso di “antropologia culturale”, cioè di un’antropologia delle facoltà nel senso più ampio del
termine.
C’è un riferimento alla questione della “ipermodernità”, che Belting tratta nella revisione de La fine della
storia dell’arte. La contemporaneità forse andrebbe chiama ipermodernità, perché non abbiamo ancora
nuove categorie per pensarla e ci serviamo di quelle della modernità. Quindi abbiamo un contesto che è
cambiato, ma non abbiamo nuove categorie.
Pagina 12. Belting vuole mostrare che le normali coppie dialettiche con cui abbiamo pensato l’immagine
sono insufficienti. Si tratta delle coppie immagine-mezzo o immagine-corpo. La prima è quella normalmente
privilegiata dagli studi storico-artistici e tecnologici. Abbiamo un medium o artefatto e un’immagine. La
seconda è privilegiata invece dai filosofi e dagli psicologi.
Il corpo può essere inteso come un corpo artificiale, cioè il medium, come il quadro, la fotografia eccetera,
cioè il supporto tecnologico; come corpo virtuale, cioè l’immagine; poi c’è il corpo naturale, che è il nostro
corpo umano.
Il riferimento alle maschere funerarie è perché in esse è inscritto il significato dell’immagine nel suo doppio
livello di presenza-assenza, di cui parleremo. L’immagine funeraria restituisce un corpo assente, quello del
defunto. Quindi l’immagine diviene un corpo artificiale, che consente a quel corpo naturale assente di stare
ancora tra di noi. Le immagini necessitano l’incarnazione per acquisire visibilità, perché si danno per forza in
un mezzo o non si danno affatto. Quindi c’è un doppio livello di presenza-assenza. L’immagine è
doppiamente assente, quindi prevede una doppia presenza e una doppia assenza.
Incontriamo qui il nucleo di quella fitta contraddizione che apparterrà per sempre all’immagine, che rende
visibile qualcosa di invisibile, cioè parla di qualcosa di reale ma non duplica il reale. L’immagine non è la
realtà, ma ci restituisce la realtà. Le immagini digitali sarebbero, secondo alcuni, l’esempio cogente del fatto
che un’immagine non deve rimandare più ad altro. Sarebbero quindi simulacri, non più immagini. Per
Belting, invece, anche le immagini digitali rimandano ad altro.
La medialità dell’immagine consiste nel fatto che le immagini si danno attraverso mezzi, quindi sono sempre
mediali e trasmediali, perché possono passare da un mezzo all’altro. Nella storia, le stesse immagini
possono migrare da un mezzo all’altro. Questo è ciò che Belting chiama “nomadismo” delle immagini. È
un’indicazione molto importante, ma anche problematica, perché allenta il rapporto immagine-mezzo. La
nozione di determinatezza dell’opera d’arte, la singolarità dell’opera d’arte erano caratteristiche
fondamentali.
I nostri corpi funzionano anch’essi come mezzi, perché le immagini sono tali soltanto se c’è un corpo nel
quale esse possono vivere.
Lezione 8
Pag. 14. Antropologia delle immagini. Bisogna tenere presente che la strategia di Belting è quella di
sostituire la coppia teorica immagine-mezzo o immagine-corpo, con la triade immagine-mezzo-corpo, dove
per “mezzo” si intendono i supporti mediatici, non necessariamente artistici. La coppia immagine-mezzo è
normalmente l'approccio privilegiato dalla storia dell'arte, tanto privilegiato che l'immagine viene quasi
identificata con il mezzo attraverso cui l'immagine si dà.
L'altra coppia, immagine-corpo, dove il corpo è il corpo naturale, il corpo percettivo, è quella privilegiata
dalla filosofia e dalla psicologia. Anche in questo caso l'immagine viene considerata un'immagine astratta,
vale a dire disancorata dai supporti mediali attraverso i quali si dà. Per Belting questi tre momenti non
possono essere separati perché sono tutti elementi fondanti dell'immagine, tutti costitutivi dell'immagine.
Questo vuol dire che aspetto interno ed esterno non possono essere separati.
Quindi Belting imputa alla storia dell’arte di aver compiuto una sorta di identificazione tra l'immagine e il
mezzo stesso. Secondo Belting, le immagini hanno una dimensione nomade, attraversano cioè nel tempo
supporti e mezzi diversi. Nel transitare da un mezzo all'altro, in qualche modo l'immagine stessa cambia,
perché risente del medium attraverso cui si dà, pur rimanendo allo stesso tempo sé stessa.
Quindi il rapporto immagine-mezzo deve essere allentato. La storia dell'arte ha guardato il rapporto
immagine-mezzo come se l'immagine coincidesse con il mezzo e non si potesse dare al di fuori di quel
mezzo. Invece, dal punto di vista di Belting, le immagini transitano per mezzi diversi. Si tratta dell'idea di
Warburg della sopravvivenza delle immagini, che di volta in volta trovano vita nuova in mezzi e supporti
diversi. L'immagine deve certamente darsi attraverso il mezzo, ma essa non è identificabile con il mezzo
stesso. È un modo diverso di leggere il rapporto tra identità-differenza, tra immagine e mezzo.
Problema di presenza-assenza. L'immagine è immagine di qualche cosa che in essa è assente, quindi
l'immagine rende presente qualcosa di realmente assente. L'immagine non è la realtà, ma è immagine della
realtà. Nella fotografia, ad esempio, noi vediamo la nostra immagine, ma noi siamo altro rispetto alla
fotografia, perché nell’immagine entra in gioco l’artificiale. L'immagine non ha una realtà sostanziale forte
come ce l'hanno i mezzi, ma è qualcosa che può vivere soltanto incarnandosi nei mezzi artificiali e naturali,
cioè noi in quanto fruitori.
Il nucleo di tutto questo discorso è che un'immagine, finché non viene compresa, non può sussistere.
L'immagine, essendo qualcosa che transita da un mezzo artificiale a un mezzo naturale, non può essere
identificata con il mezzo artificiale. Quindi l'immagine non è né la realtà stessa di cui l'immagine parla, ma
nemmeno il mezzo attraverso cui l'immagine si dà, infine non è neppure il nostro corpo, ma è qualcosa che
può vivere nel nostro corpo nel momento in cui la comprendiamo.
Pag. 15. Sta introducendo la dimensione anacronica che abbiamo chiamato extratemporale. Le immagini
hanno una doppia natura: una dimensione temporale, perché si danno sempre in un mezzo e di
conseguenza sono storicamente connotate dal mezzo stesso, e una dimensione anacronica, extratemporale,
cioè una dimensione che non ha tempo. È questa dimensione extratemporale che è a fondamento del
nomadismo di cui abbiamo parlato, cioè del fatto che le immagini continuano a sopravvivere e a darsi
tramite metodi diversi. Ciò significa che ogni volta che si danno risentono della natura storica dei mezzi.
Quindi anche i mezzi condizionano l'immagine e al tempo stesso sono essi stessi condizionati dall'immagine.
L'immagine subisce il mezzo, ma fa anche pressione sul mezzo, perché desidera offrirsi in un certo modo.
Allora questo rapporto tra temporale ed extratemporale fa sì che una dimensione semplicemente evolutiva,
progressiva e lineare, non funzioni. Da un punto di vista teorico, senza riferimento all'arte, non c'è quella
evoluzione progressiva che invece può esserci per l'evoluzione tecnica.
Con un'argomentazione diversa rispetto al testo sulla fine della storia dell'arte, emerge di nuovo l'intenzione
di Belting di scardinare l'idea progressiva della produzione delle immagini, che non funzionava per l'arte, ma
non funziona neppure per le immagini, perché non si dà una storia progressiva e lineare delle immagini.
Le forme di iconoclastia, anche le più recenti, distruggono il supporto e non l'immagine, perché l’immagine
non ha una natura reale, sostanziale. Possiamo distruggere i mezzi e così facendo impediamo all'immagine
di offrirsi, ma non distruggiamo l’immagine in quanto tale, quindi lasciamo aperta la possibilità che essa
trovi un altro mezzo per ridarsi vita e rendersi nuovamente visibile. Distruggendo il mezzo, noi non
rendiamo più visibile l'immagine nella sfera pubblica.
Il rapporto tra presenza-assenza è a fondamento di ciò che Belting chiama l'enigma dell'immagine. Più
avanti parlerà di un doppio significato di presenza-assenza. Il problema presenza-assenza è, innanzitutto,
che l'immagine è immagine di qualcosa che è assente, ma questo è solo il primo livello del problema,
dell’altro Belting parlerà più avanti.
Dal momento che l'immagine non ha una natura sostanziale, per diventare percepibile e comprensibile ha
bisogno di incorporarsi in un mezzo. Ha bisogno della presenza, come mezzo per simboleggiare l'assenza di
quello che essi rappresentano. L'immagine, in quanto tale, è immagine di qualche cosa che è assente e
tuttavia per poter essere visibile ha bisogno di qualche cosa di presente, cioè un mezzo, perché in quanto
immagine non hanno alcuna presenza, non hanno alcuna realtà. Solo i mezzi sono spaziotemporalmente
connotati. Le immagini si danno attraverso le cose del mondo senza però identificarsi con le cose stesse.
Viene riportato l'esempio di un video artista coreano, Nam June Paik. Nel suo lavoro tv-Buddha è presente
questo doppio livello di presenza-assenza. Questo lavoro consiste in una statua di un Buddha posta davanti
ad un televisore e ripresa da una telecamera a circuito chiuso. La telecamera sta riprendendo l'immagine di
questo Buddha e la sta proiettando sul televisore. Quindi abbiamo un'immagine che si dà attraverso il
mezzo più tradizionale che abbiamo, cioè la statua, e poi abbiamo un'immagine che si dà tramite il mezzo
più avanzato, cioè la tv (siamo negli anni '70). Sia la statua, sia la tv stanno rendendo visibile l'immagine del
Buddha e questo fa emergere che abbiamo due mezzi diversi che mostrano la stessa immagine. Belting fa
questo esempio proprio per mostrare che l'immagine non è il mezzo. In questo progetto abbiamo
un’immagine, quella del Buddha, presentata dalla statua e dalla telecamera, che inoltre sta mostrando e
mettendo in scena l'altro mezzo, cioè la statua.
Belting vuole far emergere che non si deve confondere l'immagine con il mezzo, perché perderemmo di
vista la natura stessa dell'immagine. Si tratta di una critica alla storia dell'arte che ha guardato all'immagine
sempre come opera d'arte e considerato l'opera d'arte come il singolo mezzo tramite cui l’immagine si dà.
Cap. 2. Mezzo-immagine-corpo sono i tre elementi che nell'immagine non sono separabili. A pagina 19
Belting sta dicendo che, se consideriamo il problema dell'immagine guardandolo sempre a partire dalle
opere d'arte, abbiamo intanto come prima difficoltà l’esclusione di immagini che non sono opere d’arte o
che sono opere d’arte “profane” perché non si trovano in un museo.
Il museo ha per Belting un significato molto forte, perché è il luogo in cui viene esposta la storia dell'arte
stessa e non soltanto il luogo in cui incontriamo le opere. Il museo è il luogo che dà visibilità spaziale alla
storia dell'arte stessa. Se la storia dell'arte ha una caratura inevitabilmente temporale, allora il museo è il
luogo che di fatto da visibilità spaziale alla storia dell'arte stessa, ciò significa che è l'altra faccia della storia
dell'arte stessa. Il museo nasce per accogliere soltanto le opere d'arte e cioè quelle che la comunità
considera opere d'arte. Di fatto quindi il museo ha una funzione normativa fortissima, ciò che è dentro al
museo è opera d'arte e ciò che il museo, in linea di principio, non accoglie non può essere considerata opera
d'arte. Ciò che non entra nella storia dell'arte, non entra neanche nel museo, quindi non è arte. Da questo
punto di vista i musei sono nuovi templi perché danno lo statuto di arte a ciò che accolgono.
Tradizionalmente abbiamo sempre guardato le opere d'arte, pensando che in esse venisse rappresentato
nel modo più forte che cosa è un'immagine, quindi la storia dell'arte è divenuta sempre più importante
perché era il luogo privilegiato in cui trovare questa informazione. Belting sta sostenendo, invece, che le
immagini non si danno solo nelle opere d'arte. Se vogliamo capire come funziona un'immagine, non
possiamo capirlo attraverso la storia dell'arte, ma possiamo capirlo attraverso l'antropologia delle immagini.
Nel rapporto duale tra immagine-mezzo manca la dimensione del corpo. Il corpo è parte integrante
dell'immagine stessa. L'immagine esiste soltanto perché c'è la mediazione del corpo, attraverso cui
comprendiamo e percepiamo le immagini. Il nostro corpo non è il signore delle immagini, non padroneggia
le immagini, cioè le immagini non sono interamente un nostro prodotto.
Il nostro corpo è invece il luogo delle immagini, è cioè il luogo attraverso il quale vivono le immagini, il luogo
nel quale si danno le immagini ed il luogo senza il quale le immagini non potrebbero vivere.
Quindi è un rapporto a tre, nel quale ogni elemento interagisce con l’altro, ma gode di una sua autonomia.
L'immagine ha una sua autonomia che dobbiamo interrogare e che si pone come un terzo soggetto: c'è il
soggetto-mezzo, il soggetto-immagine e il soggetto-corpo, sempre correlati ma in qualche modo autonomi.
Noi siamo il luogo delle immagini, che vivono in noi senza poter essere ridotte alle funzioni del soggetto.
Belting sta dicendo che se l'immagine ha questa dimensione nomade, allora non può essere ridotta alla
dimensione mezzo-forma, non solo perché essa trasmigra tra mezzi diversi, quindi dà forma e prende forma
allo stesso tempo e non può essere ridotta ad una forma particolare, ma anche perché l'immagine è la
trasmigrazione che avviene dal mezzo artificiale al mezzo naturale e quindi non può essere ridotta alla
forma di quel mezzo. L'immagine non è quindi la forma stessa.
La trasmissione dell'immagine non va intesa nel senso di una teoria della comunicazione. L'immagine ha
una sua natura extratemporale e trasmigra tra mezzi diversi, ma non nel senso che il contenuto viene
veicolato in modo completamente indipendente dal mezzo. Per Belting non è così, infatti l'immagine è sia
storica che extrastorica. Le immagini, nel momento in cui si danno in un mezzo, ovviamente risentono di
quel mezzo, non sono mai totalmente disincarnate. Allo stesso tempo però, dobbiamo pensare che c’è
qualcosa che permane identico nel loro darsi di volta in volta.
Non vediamo mai le immagini nella loro purezza, ma solo come esse di volta in volta si danno. Al tempo
stesso, però, in qualche modo riconosciamo che nel darsi di volta in volta in modi diversi c'è qualcosa che
permane, la stessa dimensione tematica dell'immagine, tale per cui parliamo di una sorta di
extratemporalità o di anacronismo o di sopravvivenza.
L'anello mancante è il corpo. Il corpo è l'elemento che sembrava a Belting mancare negli studi artistici e
visuali ed è questo che giustifica il titolo del libro, cioè Antropologia delle immagini, perché le immagini
necessitano del corpo come elemento centrale. Senza di esso, tutto questo discorso viene a cadere perché
manca un anello fondamentale perché si dia e perché ci sia immagine.
C'è una doppia dimensione del corpo, che è al contempo interpretante l’immagine, ma anche trasformato
dall'immagine. La nostra percezione corporea, cioè, viene trasformata attraverso l'incontro con il supporto e
l'immagine. Per questo noi non siamo signori delle immagini, cioè non facciamo di esse qualcosa
interamente in nostro dominio, ma siamo noi stessi trasformati dalle immagini, che esse sono un punto di
incontro tra noi, il mezzo e ciò che attraverso il mezzo si offre. La questione dell'antropologia è quella di
restituire all'essere umano quella centralità che altre prospettive sembrano sottrargli.
Lezione 9
Pagina 27. Le immagini devono incarnarsi in un mezzo, non possono darsi senza di esso. Quindi le immagini
non hanno un'esistenza autonoma rispetto ai mezzi attraverso cui si danno. Le immagini hanno una loro
autonomia che è la dimensione extratemporale, ma non hanno una vera e propria indipendenza nel senso
di sussistenza. Questo vuol dire che ci sono immagini solo nella misura in cui si incarnano nel mezzo
materiale e nel mezzo naturale. Da questo punto di vista il mezzo è come la materia. Belting, però, ci tiene a
segnalare che non vanno confusi i mezzi con la materia vera e propria, perché il mezzo va inteso nel senso
mediale, cioè come supporto tecnico.
Belting sostiene che bisogna evitare di semplificare il rapporto immagine-mezzo al rapporto forma-materia,
pensando quindi l'immagine come qualcosa che configura un materiale. Il mezzo è già qualcosa di
tecnicamente strutturato, quindi l’incontro immagine-mezzo è un incontro tra due elementi che hanno già
una qualche autonomia. Immagine, mezzo e corpo sono elementi tra loro correlati, perché senza l'uno non
si dà l'altro, tuttavia non dobbiamo pensare questi termini schiacciandoli l'uno sull'altro perché ognuno ha
una propria autonomia.
L’immagine, per essere tale, deve rimandare a qualcosa di altro rispetto all'immagine stessa. Il problema
sorge nel momento in cui certe cose sembrano immagini, ma non rimandano più a qualcos'altro, e quindi
sono simulacri. Il simulacro si presenta come un'immagine, ma a differenza dell’immagine non rimanda ad
altro, di conseguenza il reale scompare. Per questo Belting parla di “assassinio del reale”. Questo è anche il
quadro della crisi della rappresentazione di cui parla da Foucault. La crisi della rappresentazione consiste nel
dubitare della referenza delle immagini, nel domandarsi se le immagini riescano ancora a riferirsi al mondo
e quindi ad essere immagini del mondo. Belting riprende il concetto di crisi della rappresentazione,
spiegandolo come l’impossibilità di vedere un’analogia tra l'immagine e ciò di cui l'immagine è immagine,
vale a dire il reale.
Questa crisi della referenza emerge in particolar modo con le immagini digitali e le immagini sintetiche. Per
immagini digitali Belting intende un sistema composto da un apparato tecnologico che riprende la realtà e
da un sensore digitale. Per immagine sintetica, invece, intende un'immagine che viene interamente
prodotta a livello digitale. Quindi nel primo caso c’è ancora un contatto con la realtà, perché l’apparato
tecnologico (es. fotocamera) viene posto davanti al reale, mentre nel secondo non c’è più alcuna presa
diretta con essa. Si introduce dunque il problema dell'analogia. Su quale analogia si costituiscono le
immagini? Prima avevamo immagini mimetiche, che si costituivano in analogia con la realtà, mentre adesso
in un caso con il negativo fotografico, nell’altro addirittura con dati numerici.
Tuttavia, Belting sostiene che immagini digitali e sintetiche sono ancora immagini, non simulacri. Queste
immagini producono una realtà virtuale che sembra imitare la nostra realtà, ma che non lo è. Allora la realtà
virtuale è qualcosa di completamente diverso dalla nostra realtà o mantiene ancora qualche rapporto con
essa? Se queste immagini ancora ci parlano di qualcosa, significa che in qualche modo mantengano un
rapporto con la nostra realtà, altrimenti non saremmo in grado di comprenderle. È il nostro corpo che funge
da anello di congiunzione tra le due realtà. Dunque l'immagine virtuale è tale da mantenere un rapporto
con la realtà, pur allentandolo. L'utopia non è una finzione, ma consiste nel presentare possibilità della
nostra realtà. In quanto sono possibilità, non sono reali, ma hanno comunque un rapporto con la realtà
quindi non sono delle finzioni.
L'immagine è tale solo se sussiste il rapporto immagine-mezzo-corpo. Il modo in cui l'immagine si offre
attraverso il mezzo indirizza la percezione. L'errore che Belting imputa alla filosofia e alla psicologia è quello
di trattare le immagini come incorporee, come puri concetti mentali. L’errore della storia dell’arte, invece, è
di aver schiacciato le immagini sulla pura dimensione del mezzo attraverso cui queste si danno. Quindi nella
storia dell'arte abbiamo il dualismo immagine-mezzo, mentre in filosofia abbiamo il dualismo immaginecorpo. Belting contrappone a questi dualismi la triade immagine-mezzo-corpo, indicando ciascuno dei tre
come un elemento costitutivo perché l’immagine si dia. Il punto è che non sono le immagini digitali a
mettere in crisi la rappresentazione. È il modo sbagliato di guardare queste immagini che dà luogo alla crisi.
Se cambiassimo prospettiva, ovvero alla luce di questa triade, ci renderemmo conto che siamo ancora
dentro l'immagine. Abbiamo già accennato alla questione del doppio livello di presenza-assenza. Le
immagini si incorporano nei mezzi artificiali e in seguito vengono incorporate in quel mezzo naturale che è il
nostro stesso corpo. L'immagine transita dal mezzo artificiale al mezzo naturale.
Belting parla dell'iconoclastia e dell'errore categoriale commesso dagli iconoclasti. Iconoclasta è chi,
volendo privare la dimensione pubblica dell’immagine, distrugge i mezzi attraverso cui l’immagine si dà.
Così facendo non distrugge le immagini stesse, ma solo il modo in cui le immagini si stavano manifestando
in quel determinato contesto storico.
Belting critica l'idea di progresso intesa come passaggio da una condizione mistica ad una condizione
dominata dalla razionalità. Per Belting, negando la dimensione mistica perdiamo la possibilità di
comprendere le immagini, soprattutto le immagini analogiche e le immagini sintetiche.
Lezione 10
A pagina 36 Belting parla della fanciulla di Corinto, protagonista di un aneddoto della Naturalis Historia di
Plinio il Vecchio, per introdurre il concetto di immagine deittica e deissi. Per immagine deittica, si intende
un'immagine che rimanda a qualcosa che è al di fuori del segno, che attesta qualcosa aldilà del segno, dove
questo qualcosa è la realtà. Per Belting si tratta di una caratteristica costitutiva della nozione stessa di
immagine. La nozione di deissi è particolarmente manifesta nella fotografia, in particolare analogica, perché
sembra che ci sia una reazione non mediata tra il mezzo e la realtà, quindi un rapporto esente dalla
mediazione del soggetto.
Nella storia dell’arte l’unico mezzo contemplato era l’opera d’arte. Per Belting, invece, occorre parlare di
mezzi figurativi in generale, cioè di tutti i mezzi capaci di trasmettere ed ospitare immagini. L'immagine
viene veicolata attraverso questi mezzi per poi trasmigrare, nello scambio simbolico, nel mezzo naturale,
quindi nel nostro corpo.
I mezzi sono temporalmente connotati, cioè sono ancorati al proprio tempo. Questo significa che, nel
momento in cui il contesto cambia, le immagini potrebbero diventare illeggibili. Per questo il rapporto tra la
dimensione temporale e quella extratemporale è così importante nella concezione dell'immagine di Belting,
perché se l'immagine fosse pienamente identificata con il mezzo e se il mezzo è del tutto storicizzato, cnel
corso del tempo l'immagine diventerebbe illeggibile, mentre per Belting le immagini trasmigrano, cambiano
e in parte si conservano.
I mezzi figurativi, intesi in questo caso come mezzi visuali, presentano una differenza rispetto al linguaggio,
perché esso ha una doppia dimensione, parlata a scritta. Il linguaggio parlato è intimamente legato al nostro
corpo, mentre la lingua scritta si stacca dal corpo e mette in gioco la triade immagine-corpo-mezzo. Nel caso
della scrittura abbiamo un mezzo tramite cui veicoliamo l'immagine, che si presenta come un segno scritto.
Questo segno scritto si stacca dal nostro corpo per entrare in un altro corpo, che è il corpo della parola
scritta. La parola parlata, invece, è sempre legata ad una fonesi, quindi a un corpo che la veicola.
Le immagini visive si comportano come la scrittura perché c'è un mezzo artificiale che le veicola. Belting sta
sottolineando la medialità delle immagini, cioè il fatto che le immagini sono veicolate e rese visibili
attraverso i mezzi. Quindi il nostro rapporto con la realtà è sempre mediato dagli apparati tecnici. Questo è
importante perché rimette in gioco la questione della deissi, della testimonianza della realtà, testimonianza
di cui il nostro corpo si fa garante. Il rapporto diretto, immediato con la realtà, che noi tocchiamo e
vediamo, diviene mediato con l’introduzione dei mezzi tecnici, che ci allontanano dalla realtà al punto che si
arriva a parlare di una crisi della rappresentazione. Questi mezzi diventano delle vere e proprie protesi che
allungano il nostro corpo sensoriale, lasciando a un apparecchio la guida della nostra percezione. Possono
fungere da veicoli, da ponti, tra noi e la realtà, e in questo caso possiamo garantirne l’affidabilità, ma
possono anche diventare mezzi di autoespressione, perdendo il riferimento al reale e quindi l’affidabilità.
L’accusa è per un verso alla storia dell'arte, che dimentica il corpo e fa propria la diade immagine-mezzo,
quindi finisce per identificare l’immagine con il mezzo, per un altro verso è alla filosofia, che privilegia il
rapporto immagine-corpo e non pone attenzione agli artefatti, ai mezzi.
Belting riporta l’esempio delle immagini funerarie come fonte di chiarimento sulla questione. L'immagine,
in questo caso, tiene in vita per noi la persona defunta, cioè ha il potere di rendere presente qualcosa di
assente. Il rapporto dell'immagine con la persona defunta si spiega, secondo Belting, come uno scambio
simbolico. Il momento fondamentale, quindi, non sta tanto nella mimesi tra immagine e realtà, ma nello
scambio simbolico che avviene tra la persona e l'immagine. Questo scambio immagine-corpo, che dal punto
di vista del rapporto immagine-realtà reintroduce la questione del doppio livello di presenza-assenza, fonda
la nozione stessa di immagine. Quindi di fondamentale importanza non è la verosimiglianza, ma lo scambio
simbolico, la presenza-assenza. Emergono così due aspetti dell'immagine: l'immagine come
rappresentazione e l'immagine come ripresentazione.
Si parla di un doppio livello di presenza-assenza. Il primo livello consiste nel fatto che l'immagine rende
presente qualcosa di assente, il secondo nel fatto che noi (il corpo) rendiamo presente l’immagine. Che
significa che noi rendiamo presente l’immagine? Che è il corpo, attraverso la percezione sensoriale e la
comprensione, che dà vita all’immagine. Questo è ciò che Belting chiama “atto di animazione”. Il mezzo ha
una realtà fenomenica, è spazialmente e temporalmente determinato, mentre l’immagine presente nel
mezzo necessita di qualcuno che la percepisca per essere immagine. Tuttavia, il mezzo stesso diventa tale,
cioè diventa mezzo attraverso cui l’immagine si dà, solo nel momento in cui facciamo emergere l'immagine
che sta veicolando, prima c’è, ma non è mezzo di qualcosa, è solo un oggetto, una normale cosa del mondo.
Allora l'immagine non ha lo stesso livello di presenza del mezzo, il quale gode di una presenza fenomenica.
Nel momento in cui l'immagine traspare nel mezzo è come se sciogliesse il legame con esso per proiettarsi
sull'osservatore che l'ha scoperta, colta nel mezzo. È come se ci fosse un trasferimento dal mezzo artificiale
al mezzo naturale, cioè il nostro corpo come luogo naturale delle immagini.
Le nuove immagini, cioè quelle analogiche/digitali e quelle sintetiche/virtuali, mettono in crisi il concetto di
analogia con il reale. Viene messo in dubbio che si possa ancora parlare di immagini, cioè di qualcosa che
rimanda a qualcos'altro che è al di fuori dell'immagine. Per Belting, invece, anche queste continuano ad
essere immagini.
Benting sta cercando di far emergere con sempre maggior forza il momento della differenza tra immagine e
mezzo, troppo lungamente trascurato. Per farlo, innanzitutto egli sottolinea il nomadismo delle immagini,
che trasmigrano, sopravvivono al mezzo e si adattano di volta in volta ai mezzi che trovano. In secondo
luogo, sottolinea come il corpo offra una resistenza alla fuga delle immagini dai mezzi e nei mezzi.
Questo è interessante perché si tratta di una prospettiva in parte differente rispetto a quella del primo
volume. Ne La fine della storia dell’arte, aveva sostenuto che era necessario rivolgere lo sguardo alle opere
d’arte e non più all’idea di arte. Le opere d’arte apparivano dotate di una consistenza tale da resistere alle
trasformazioni teoriche e dovevano quindi essere il punto di partenza e d’arrivo di una nuova teoria.
Adesso, questa resistenza è assegnala al corpo, che si fa garante delle immagini proprio in quella condizione
più critica per le immagini che sono le immagini sintetiche. È grazie al corpo che ancora l'immagine vige e
non si è trasformata in simulacro.
Secondo Belting, Greenberg ha fondato una forma di iconoclastia. Greenberg sostiene che il compito
dell'arte è quello di interrogarsi sui propri mezzi artistici. Ogni opera è una domanda, e al tempo stesso una
risposta, su quali siano i mezzi propri dell'arte e quindi perché essa sia un'opera d'arte. È una forma di auto
interrogazione e auto conoscenza, secondo il modello hegeliano. Questo vuol dire che il vero oggetto e il
vero soggetto di ogni opera d'arte sono i suoi stessi mezzi, in quel processo che per Greenberg è una
purificazione dei propri mezzi artistici. Purificando i suoi mezzi, l'arte conosce sé stessa. Belting ribatte che,
se così fosse, l'arte parlerebbe solo dei suoi mezzi, e che quindi quella di Greenberg è una forma di
iconoclastia, in quanto fa scomparire la nozione di immagine.
Quindi Belting parte dall’attestazione del fatto che abbiamo sempre guardato alla storia dell'arte per
comprendere le immagini, ma la storia dell'arte sta rivelando troppi limiti. Allora si rivolge alle opere d’arte,
ma si trova in difficoltà con questi stessi prodotti dell’arte, quindi si rivolge alle immagini.
Lezione 11
Abbiamo visto la questione della duplice presenza-assenza dell’immagine, che è molto importante. Il primo
livello consiste nel fatto che l’immagine rende presente qualcosa di assente, ovvero nel fatto che ciò che
nell’immagine è rappresentato è assente, ma si dà nell’immagine. Il secondo livello consiste nel fatto che
l’immagine si dà nel mezzo, ma non è effettivamente presente finché noi non la percepiamo, cioè finché noi
non animiamo quell’oggetto tramutandolo in mezzo.
Belting quindi sta sostenendo che l'immagine non gode di una natura sostanziale tale per cui esiste o
sussiste indipendentemente da noi. Senza un “noi” che la comprende, non c'è immagine.
Pagina 47. Belting introduce le maschere e in particolare le maschere disegnate sul corpo stesso. Il primo
elemento interessante è che le maschere disegnate sul volto rendono il volto stesso un'immagine, che non
è l'immagine di quel volto. La maschera trasforma quel volto in un'immagine, che rivela una dimensione
sociale, dà luogo ad un volto sociale. Il nostro corpo, finora visto come luogo delle immagini, diventa anche
mezzo. La maschera non altro è che il progenitore del ritratto. Con il ritratto ciò che prima era tracciato sul
corpo naturale viene trasmesso ad un medium artificiale. In questo modo il corpo fenomenico e il corpo
trasmissivo formano un'unità mediale.
2.8. Tutto il saggio di Belting insiste in particolar modo sul corpo in tutte le modalità, perché è il corpo ad
essere assente nello studio delle immagini e nella storia dell’arte, che si sono occupati di immagine e mezzo,
ma mai di corpo. L'antropologia dell'immagine, secondo Belting, deve proprio mettere in risalto quella parte
mancante, quella dimensione trascurata dagli studi dell'immagine, vale a dire il corpo. Solo se il corpo,
l'immagine e il mezzo sono tenuti insieme possiamo ottenere chiarezza nel discorso sull'immagine.
Abbiamo già visto la questione della crisi della referenza o della rappresentazione che le immagini
soprattutto digitali mettono in gioco. Con l'immagine analogica, infatti, avevamo nel negativo un'immagine
analoga a quella che avevamo davanti agli occhi prima di scattare la fotografia, avevamo un'ombra della
realtà che si imprimeva nell'immagine fotografica. È il mito di Corinto, di questa donna che vuole conservare
l'immagine della madre e traccia il contorno che la luce delinea sulla parete. L'immagine digitale, invece, è
conservata in dati numerici, che non hanno nulla di analogo rispetto a ciò che è rappresentato.
Poi c’è un’altra importante questione, che è quella della manipolabilità e che fa sorgere a sua volta la
questione della crisi della referenza. L'immagine può essere manipolata a tal punto da poter essere ricreata
da zero, come nel caso delle immagini sintetiche. Ma queste immagini sono immagini di cosa? A cosa
rimandano?
Se l'immagine è tale solo se rimanda a qualcosa, allora l'immagine digitale va ripensata. Il problema della
referenza sorge nella possibilità di intervento che noi abbiamo sull'immagine. La fotografia analogica si
comporta ancora come il calco, come l'impronta. Nell'impronta l'esistenza di quella realtà è testimoniata
dalla traccia che essa lascia. Ben diverso è il caso dell'immagine digitale, che perde la sua affinità con la
realtà e diventa una sequela di dati numerici manipolabili e modificabili. La manipolabilità apre il problema
della sua affidabilità, cioè fa sorgere il dubbio che l’immagine non parli più della realtà, quindi che non sia
un’immagine, ma un simulacro.
Anche l'immagine sintetica, invece, deve essere ancora considerata un'immagine. Bisogna tener conto
dell’osservatore e del comportamento recettivo. Il momento che legittima la categoria di immagine è da
rintracciare nel corpo ricettivo. Le immagini non sono mai degli assoluti, rimandano sempre ad immagini
antecedenti, assomigliando o differenziandosi da esse. Quindi ogni immagine è leggibile perché rimanda al
nostro archivio di immagini. Nell'opera d'arte si costruisce un mondo, che non è mai propriamente la realtà
ma sempre finzione, la cui leggibilità è data dai segni che compongono il mondo stesso. Questa leggibilità è
tale solo nella misura in cui riesce ad agganciarsi al nostro archivio figurativo visivo, mnemonico.
Allora se il corpo è il momento costitutivo e fondante dell'immagine stessa, anche le immagini digitali sono
immagini nella misura in cui ancora riescono a legarsi a quelle che abbiamo già incorporato, cioè quelle che
qui sta chiamando “le immagini mentali a loro antecedenti”. Proprio perché il corpo è un archivio
mnemonico, tanto individuale quanto collettivo, allora anche le immagini sintetiche sono immagini perché
riusciamo a leggerle. Dunque le immagini non si danno mai isolate, ma sono sempre in relazione con tutte
le altre immagini che noi soggetti preserviamo.
Il momento dell'analisi, cioè della scomposizione degli elementi, è legato alla tecnica, al medium che
scompone l'immagine. Il momento della sintesi, invece, è il momento della percezione. La percezione ha
sempre una natura sintetica, cioè è la composizione di momenti sensoriali. Allora Belting sta dicendo che,
mentre il mezzo mediale scompone questo dato reale, noi lo facciamo diventare immagine nel momento in
cui ricomponiamo gli elementi.
Più avanti, Belting riprende il problema della fotografia analogica confrontata con il dipinto e mette in gioco
le categorie di “mezzi del corpo” e “mezzi dello sguardo”. Egli distingue le tecniche della modernità, in
particolare la fotografia, da quelli che chiama “manufatti” originali. Con il passaggio alle tecniche della
modernità, il problema della fedeltà della mimesi si sposta dall’ambito della mediazione umana all’ambito
della mediazione tecnologica. Il mezzo tecnico elimina la mediazione umana che ad esempio era presente
nel disegno, che in virtù di ciò Belting chiama “mezzo dello sguardo”, perché passa attraverso la mediazione
dello sguardo dell’osservatore, che restituisce l’immagine attraverso la mano. Quando non c’è mediazione
da parte del soggetto, Belting parla di “mezzo del corpo”. La fotografia è un esempio di mezzo del corpo,
cioè di riproduzione non mediata, ma quest’ultima ha una tradizione antichissima riconducibile al calco.
Pag. 59. Il dipinto è un mezzo tipicamente occidentale, in cui la mediazione dello sguardo non ha solo un
significato individuale, ma anche culturale. Quindi la componente di mediazione dello sguardo è molto
forte, perché il dipinto è una testimonianza di un certo modo di strutturare e vedere il mondo, che non può
essere mai oggettivo. L’idea della finestra albertiana, l’idea della prospettiva albertiana sono modalità della
soggettività occidentale, non universale. In Oriente ad esempio si usano le icone, che non hanno
prospettiva.
Sul versante opposto si muovono quelli che Belting chiama “mezzi del corpo”, per esempio la fotografia, che
è come un’ombra che si stacca dal mondo fenomenico e che si imprime sulla lastra fotografica.
Nell'immagine fotografica, è come se l'ombra si staccasse dal corpo e venisse congelata, quindi come se
perdesse vita che era proprietà del corpo finché essa era ombra di un corpo. Per questo Belting parla di
“immagine silenziosa” per la fotografia, che si contrappone ad altre modalità di conservazione
dell'immagine di altre culture, in cui l’immagine viene separata da un corpo vivente, animato e animante,
legato al rituale e quindi a qualcosa che non si blocca.
Lezione 12
Attraverso il riferimento al montaggio, Belting vuole far emergere questo rapporto non scindibile tra
immagini interiori, che noi produciamo in quanto corpi dotati della facoltà dell’immaginazione, e immagini
esteriori, veicolati dai media, in questo caso dall’immagine cinematografica.
Il problema della fotografia è che in qualche modo fissa in istantanea la realtà e, così facendo, le toglie la
sua dimensione vitale, divenendo un’ombra staccata dal corpo. Il cinema cerca di restituire questa
dimensione viva ad un’immagine che sembra essere bloccata. Per certi versi questa analisi condotta da
Belting sulle differenze tra immagini fotografiche e immagini cinematografiche è semplicistica, se non
scorretta, ma quello che interessa a Belting è far emergere il rapporto tra immagine interiore ed esteriore.
L’immagine che noi percepiamo quando guardiamo un film interagisce con il nostro archivio di immagini.
L’interazione tra la dimensione mediale artificiale e la dimensione mediale naturale genera una certa
immagine, che è impossibile discernere da un’ipotetica immagine neutra. Il nostro corpo entra nella
costruzione dell’immagine.
Questo permette anche alle immagini sintetiche di mantenere il carattere di immagini e di non diventare
meri simulacri. Nella misura in cui sono ancora in grado di relazionarsi con il nostro collettivo archivio di
immagini, noi riconosciamo anche le immagini sintetiche come tali. Il nostro corpo è costitutivo di
qualunque immagine, dalla più tradizionale alla più problematica.
Abbiamo visto che il nostro corpo entra nella costruzione dell’immagine, ma Belting aggiunge che anche la
stessa percezione è in qualche modo una costruzione, non è mai pura passione. I dati percettivi, secondo
Belting, non sono mai dati neutri, ma sono sempre costruiti. Non possiamo certamente trattare l’immagine
esclusivamente nel rapporto con il nostro corpo, perché c’è una dimensione mediale dell’immagine, ma non
possiamo fare neanche il contrario. Non possiamo scogliere il rapporto tra mezzo artificiale e mezzo
naturale, quindi dobbiamo sempre guardare all’immagine ponendola all’interno della triade immaginemezzo-corpo.
Nel paragrafo successivo, Belting accenna alla questione dell’immagine intermediale. Un’immagine può
offrirsi tra medium diversi. L’intermedialità è particolarmente diffusa, o meglio accentuata, nella pratica
artistica contemporanea. Intermediale non significa multimediale, cioè non è l’aggiungersi di diversi mezzi,
come quando ad un’immagine visiva si aggiunge il sonoro, ma è il conflitto tra mezzi diversi, soprattutto
dello stesso genere, dal cui scontro e incontro emerge l’immagine. L’intermedialità non è tuttavia una
peculiarità della contemporaneità, sebbene se ne faccia un uso sempre più accentuato.
Pag. 63. Nella produzione di nuove immagini ci sono due possibilità: o che la generazione di un nuovo
mezzo produca una nuova immagine, o meglio un modo nuovo di articolare l’immagine; oppure che un
nuovo modo di sentire l’immagine cerchi un nuovo mezzo per potersi manifestare, cioè esiga un nuovo
mezzo e sproni a trovarlo.
L’intermedialità, cioè il rapporto tra l’immagine e i mezzi, reintroduce la questione del rapporto tra essere e
apparire, o tra presenza e assenza. Le immagini sono tali in quanto appaiono e nel momento in cui
appaiono, in questo senso esse sono subordinate alle leggi dell’apparenza. Pensiamo ai sogni o ai ricordi,
che esistono solo dal momento in cui si manifestano. L’immagine può apparire soltanto attraverso dei
mezzi, i quali invece hanno presenza, e soltanto se trovano un luogo al quale apparire, cioè un corpo.
Dunque le immagini non hanno una natura tale da sussistere al di là dei corpi e dei mezzi. Senza il processo
di animazione che noi compiamo in quanto corpi, le immagini non si danno e quindi non sono. Ritorna
quindi la questione del doppio livello di presenza-assenza.
Nel paragrafo successivo si parla della questione dell’interculturalità. In quanto antropologicamente
fondata, cioè fondata sulla natura dell’essere umano, l’immagine ha una dimensione interculturale e una
dimensione culturalmente determinata. Questo è foriero di grandi incomprensioni nei rapporti
interculturali, che ad esempio stanno alla base di quel concetto univoco di progresso. Ciò che è altro
rispetto alla cultura occidentale non è semplicemente diverso, ma è inferiore, nel senso che è una tappa
precedente di questo percorso progressivo. Le immagini “diverse” vengono tagliate fuori da questo
percorso e relegate tutt’al più ad uno stadio iniziale, o quanto meno precedente al nostro stadio.
Un esempio sono le maschere africane, che venivano guardate soltanto da un punto di vista formale,
cogliendo analogie tra i prodotti degli artisti occidentali, come ad esempio Picasso, e quindi dimenticando
completamente tutta la questione della funzione che quelle maschere avevano, che non è affatto la
funzione che l’arte ha in Europa, neanche nel caso di quell’arte morfologicamente simile.
Paragrafo successivo. Abbiamo detto che una stessa immagine può essere percepita in modo diverso e che
questo modo diverso produce una “nuova” immagine, perché ancora una volta l’immagine è sempre il
prodotto del rapporto immagine-mezzo-corpo. L’immagine di nostra signora di Guadalupe è riportato come
esempio, perché prima era il simbolo di uno stato coloniale e poi diventa il simbolo nazionale. Una nuova
percezione, quindi, può generare una nuova immagine a partire da qualcosa che di per sé non cambia.
Primo paragrafo capitolo successivo. “Il luogo delle immagini è l’uomo”, abbiamo parlato di “corpo”, ma
possiamo parlare dell’essere umano anche come di “luogo” delle immagini. Belting riprende la questione
dell’immagine globale e locale, che è tratta in questi termini in realtà in un’altra opera e cioè nella seconda
edizione de La fine della storia dell’arte. Le immagini sono antropologicamente strutturate, quindi sono
culturalmente connotate, ma al contempo sono universali.
L’opera d’arte ha questa doppia faccia: per un verso è merce, quindi si inserisce in un mercato globalizzato,
per altro verso ha una dimensione valoriale e culturale, che non è affatto globale, ma è sempre più
fortemente connotato localmente.
L’arte così come la pensiamo nasce nell’Europa moderna, ma si estende innanzitutto verso tutto ciò che ha
preceduto questo concetto, poi si estende anche nello spazio e finisce per dissolvere il concetto stesso di
arte, secondo Belting, perché non sappiamo più distinguere cosa è arte e cosa non lo è.
“L’uomo nei confronti di quell’immagine a cui conferisce significato è un’entità che non può essere ridotta
al concetto biologico di uomo”. Quando Belting parla di “uomo” sta pensando ad una categoria filosofica,
come un insieme di facoltà percettive, sensitive, eccetera.
Pagina 75. Ritorna quella questione della sintesi e dell’analisi che abbiamo già visto. L’analisi è un modo in
cui raccogliamo e scomponiamo i dati, mentre la sintesi è il modo in cui li configuriamo. Questa
configurazione, a livello percettivo, dà luogo agli oggetti. Noi non abbiamo un accesso diretto alle cose, ma
il nostro accesso alla realtà è sempre mediato. Quindi Belting è in questo pienamente kantiano, in quanto
sostiene che le cose si danno sempre e necessariamente attraverso il modo in cui noi le configuriamo.
Le immagini possono essere trasmesse, ma possono anche sopravvivere. La differenza è che la trasmissione
è consapevole e intenzionale, mentre la sopravvivenza dell’immagine è indipendente dalla volontà umana.
C’è una dimensione extratemporale delle immagini, che fa sì che queste ultime siano non del tutto
consegnate a noi, dipendenti da noi. Questa natura indipendente da noi è la extratemporalità dell’arte.
Pagina 78. Nel museo vengono accolte le immagini che hanno perduto il proprio luogo. Le immagini antiche
che troviamo nei musei, un tempo istituivano il luogo in cui si trovavano. Quasi nessuna immagine è
pensata per i musei, quindi ciascuna deve re-istituire un rapporto con questo nuovo luogo. “Le immagini
hanno perso il proprio luogo, scambiandolo con il luogo dell’arte”.
Belting divide tra luoghi della memoria e luoghi nella memoria. Ci sono luoghi che vengono prodotti nella
nostra memoria, senza che noi li abbiamo mai realmente vissuti, perché sono luoghi immaginari che
vengono memorizzati come se fossero luoghi reali, come i set cinematografici.
Le immagini sintetiche riescono ancora ad essere immagini perché noi abbiamo sufficiente esperienza da
considerare quelle immagini come tali. Allo stesso modo, noi abbiamo ancora abbastanza esperienza di
luoghi da poter leggere quei luoghi “finzionali” come luoghi. Il nostro corpo è sempre mediatore, altrimenti
saremmo abbandonati al simulacro.
Pagina 82. Belting introduce il concetto di luogo utopico e eterotopico. Utopia è un non luogo, mentre
eterotopia è un luogo altro, cioè un luogo che noi non viviamo. Anche il museo è un luogo eterotopo da
questo punto di vista, perché altro rispetto al luogo in cui viviamo. Il museo è un luogo molto particolare,
perché rende visibile la storia dell’arte, cioè il concetto di arte che si spazializza, però è anche un luogo
eterotopo perché non è propriamente interna né esterna alla vita, è alle soglie.
Lezione 13
Dobbiamo parlare di un’epoca delle immagini prima dell’epoca dell’arte. Il concetto di arte, infatti, nasce
nella modernità, cioè a cavallo tra Umanesimo e Rinascimento. Con l’epoca dell’arte, secondo Belting, c’è
una sorta di contrazione: le immagini diventano oggetto di interesse se sono artisticamente rilevanti, cioè
vengono studiate quasi solamente se sono opera d’arte. L’opera d’arte, quindi, diventa qualcosa di talmente
centrale da essere irrinunciabile. Nella contemporaneità, invece, nasce una produzione mediale talmente
complessa che l’opera d’arte diventa solo una possibilità, si depotenzia e diventa uno dei tanti modi
dell’immagine. Ritorna dunque un’epoca dell’immagine dopo l’epoca dell’arte. Siamo tornati a dare
centralità all’immagine, che è il vero oggetto di interesse, rispetto al quale l’opera d’arte è solo una
modalità, che non esaurisce la totalità delle immagini.
Per capire cos’è un’opera d’arte, secondo Belting, dobbiamo quindi prima comprendere l’immagine, che
cos’è e come funziona. C’è stato dunque un ribaltamento: nell’epoca dell’arte, per capire l’immagine
guardavamo all’opera d’arte, che era il luogo privilegiato.
Non possiamo pensare che l’immagine si costituisca nel suo rapporto semplice tra l’immagine e il medium,
dobbiamo sempre tener presente lo spettatore che non è puramente passivo, ma è creativo. Non possiamo
neanche sottrarre la dimensione mediale, come fa la psicologia, pensando l’immagine solo nel rapporto con
il corpo. Quindi se vogliamo comprendere l’opera d’arte, dobbiamo guardarla come luogo dell’immagine,
che a sua volta deve essere guardato come uno dei tre termini delle famosa triade immagine-corpo-mezzo.
Abbiamo una sorta di continuità e discontinuità, perché le categorie del moderno non sono più in grado di
affrontare la contemporaneità e non abbiamo tuttavia nuove categorie, quindi dobbiamo ancora riferirci
alle categorie della modernità, che non riescono ad agganciare interamente la realtà che abbiamo difronte.
L’arte è ancora in grado di istituire una comunità? Secondo Hegel no, questa funzione è passata ad altro e
l’arte è diventata qualcosa di puramente soggettivo. Dal punto di vista hegeliano, quindi, l’arte ha perduto la
sua suprema destinazione. C’è qualcosa di analogo nella posizione di Belting. Alcuni lettori di Belting, infatti,
lo inseriscono all’interno della prospettiva hegeliana della morte dell’arte. L’immagine è ancora
testimonianza di ciò che è? Oppure è soltanto un gioco delle forme che non parla di niente? Belting insiste
sul fatto che bisogna credere ancora nella capacità delle immagini di far emergere qualcosa d’altro rispetto
all’immagine, che può essere colto solo attraverso l’immagine.
Lezione 14
Riprendiamo da pagina 85. Le immagini memorizzate attraverso gli apparati tecnologici, come i moderni
database, sono spostate in un luogo altro rispetto alla memoria naturale. Tuttavia, questo materiale tecnico
è inutile se non viene tenuto in vita dalla memoria collettiva. Il materiale archiviato può diventare qualcosa
di morto se noi, soggettivamente o come collettività, non continuiamo in qualche modo ad animarlo.
Il punto centrale di questo paragrafo è a pagina 88, dove viene introdotto il problema della
finzionalizzazione della realtà. Il problema della finzionalizzazione è il problema di una tecnologia che fa
dell’immagine qualcosa di illusorio. La potenza dei mezzi tecnologici è quella di proporci una finzione come
realtà, ma questa finzione diventa tanto potente da instaurarsi nella nostra memoria. Questa
finzionalizzazione crea un problema se va a minacciare le nostre immagini realmente memorizzate, se crea
un archivio mnemonico che intacca l’archivio di immagini che abbiamo realmente esperito.
I luoghi eterotopi sono luoghi altri, ma sono luoghi reali, come il museo, gli ospedali, le carceri. A proposito
del museo, a pagina 86, si dice che esso è un luogo fuori dal tempo nel quale le cose si trovano ancora in un
processo vitale. Il museo è un’eterotopia perché non è il luogo originario dell’opera d’arte, ma ha il pregio di
fornire un nuovo spazio fruitivo nel quale noi possiamo instaurare un rapporto con l’opera d’arte.
Un altro discorso è quello sui luoghi utopici. La nozione di utopia qui è utilizzata come controimmagine, cioè
come immagine contraria al mondo reale, non come una possibilità del reale, ma come un non luogo. Il
mondo reale funziona in un certo modo, l’utopia è immagine come funziona la sua controimmagine,
consapevoli del fatto che questa controimmagine non è possibile.
Con la finzionalizzazione accade che il reale, nel suo venir meno, viene immaginato come un’utopia. Invece
di sognare luoghi immaginari, sogniamo la realtà che sta sfuggendo ai nostri occhi. Il reale e l’immaginario
scambiano il posto.
Le immagini del sogno emergono indipendentemente dalla nostra volontà, sono immagini inconsce, che
hanno la possibilità di disporre di ricordi ai quali spesso non siamo più in grado di accedere. Il corpo è
sempre il luogo delle immagini, anche delle immagini di cui non siamo consapevoli, cioè i sogni.
Nel paragrafo successivo si parla dell’esperienza nella sala cinematografica, domandandosi se si tratta di
un’esperienza collettiva o personale. Secondo Belting si tratta di un’esperienza personale che, da questo
punto di vista, è simile al sogno. L’immedesimazione è tale che il film diviene come un sogno, come
un’allucinazione che è realmente davanti ai nostri occhi ed è quindi estremamente personale e individuale.
Con il film cade la distanza tra lo spettatore e ciò che è davanti ai suoi occhi, l’immagine viene introiettata e
perde la sua controllabilità. L’esperienza del corpo diviene particolarmente forte, perché l’immagine viene
completamente affidata al corpo dello spettatore. Dunque tutti guardiamo la stessa proiezione, ma
ciascuno la vive e la sente in modo proprio.
Lezione 15
Pagina 102. Il problema della finzionalizzazione è il problema di una tecnologia intesa come produzione di
illusioni, finzioni, di apparenze, cioè di un'altra realtà e quindi di una duplicazione della realtà. Si
contrappongono due modi di intendere l'immagine: le immagini come apparenza e le immagini come
apparizione. L'immagine come apparenza è finzione, è una duplicazione della che tenta di somigliare il più
possibile alla realtà. L'immagine come apparizione, invece, è un'immagine che mostra, esibisce e lascia
apparire la realtà stessa, pur non essendo la realtà. Abbiamo quindi in un caso un rapporto riflessivo,
nell’altro un rapporto autoriflessivo.
Il problema della finzionalizzazione introdotto da Belting si collega proprio alla questione di come dobbiamo
intendere la tecnologia. La tecnologia produce apparenze e illusioni, duplica la realtà. Ha quindi una
dimensione di finzionalizzazione, cioè di produzione di finzione. Laddove la produzione di finzioni diventa
imponente, queste finzioni tendono a scalzare le immagini autentiche che noi serbiamo nella memoria.
Sovrapponiamo le immagini finzionali alle immagini autentiche che conserviamo nel nostro archivio
mnemonico e le prime possono infine sovrastare le secondo. Pensiamo all’immagine che abbiamo
dall’America fornita dal cinema.
C'è però anche una dimensione positiva della tecnologie. Per Belting, infatti, il medium è sempre
espressione di una qualche tecnologia, cioè di una techne che è in grado di articolare quel determinato
medium più o meno avanzato a seconda del periodo storico. In assenza della dimensione mediale,
l’immagine non si può dare. Allora il punto diventa come la tecnologia si rapporta al corpo.
Queste immagini virtuali, in realtà, mantengono una dimensione referenziale. Sembrano restituire una
realtà altra, cioè aldilà del mondo reale e quindi appunto virtuale, ma in realtà non aprono nessun varco
verso un mondo altro, semplicemente ampliano l'universo delle immagini, rendendolo più popoloso e più
complesso. Per quanto si possa dilatare questo rapporto tra ciò che erroneamente chiamiamo realtà
virtuale e la realtà vera e propria, tuttavia la referenzialità non svanisce mai. Garante della referenzialità è il
nostro corpo. Questo perché le immagini non sono mai comprensibili in termini assoluti, cioè isolate l'una
dall'altra, ma sono sempre in relazione tra loro. Dunque le immagini virtuali sono ancora immagini nella
misura in cui siamo in grado di comprenderle e metterle in relazione con altre immagini che il nostro corpo
ha immagazzinato. In questo senso il corpo si fa garante dell'essere immagine delle immagini virtuali.
Abbiamo già accennato alla questione del rapporto tra tradizioni locali e media globali. La diffusione su
scala planetaria dei sistemi mediali dovrebbe portare ad un livellamento delle immagini e quindi anche alla
formazione di un immaginario collettivo. Tuttavia, alla globalizzazione dei sistemi mediali non corrisponde
una diffusione a livello universale dei valori, ma al contrario una radicalizzazione delle varie culture locali.
Belting introduce il problema dell'interattività. L'interattività non va intesa come interazione tra il corpo
umano e il mezzo tecnico, ma come interazione tra fruitori attraverso il mezzo tecnico. L'interattività tra
fruitori, cioè tra vari utenti attraverso la dimensione mediale, crea l'illusione dell'esistenza sociale, di una
seconda realtà, una seconda vita. Questa illusoria esistenza sociale non è però legata a nessun luogo fisico,
non è una vera interazione ed ha il proprio modo d'essere solo nell'immagine.
I nuovi mezzi tecnologici mettono al centro il modo in cui noi interagiamo con essi, perché sono configurati
in modo tale da coinvolgerci sempre di più sia dal punto di vista percettivo, che esperienziale. Questa
esperienza cessa progressivamente di essere puramente contemplativa, com’era con le opere d'arte, ed è
sempre più direttamente interattiva. L'interattività è anche produzione di un luogo virtuale nel quale due o
più fruitori interagiscono.
Passiamo a Danto e in particolare a La destituzione filosofica dell'arte, del 1986. Danto è un filosofo analitico
che, dagli anni '60 in poi, si è occupato sempre più di questioni di filosofia dell'arte. Egli ribadisce spesso di
essere un filosofo analitico nel senso di essenzialista, cioè di andare alla ricerca delle essenze, in questo caso
dell'essenza dell'arte. Lo scopo della filosofia dell'arte è quindi definire l'essenza dell'arte. Nonostante sia un
filosofo analitico, Danto ha una particolare attenzione per la filosofia continentale, che lo ha portato spesso
ad essere letto come se non fosse un filosofo analitico.
Uno dei problemi che affrontiamo con Danto è la contrapposizione tra la filosofia dell'arte e l’estetica, dove
la prima cerca di approdare ad una definizione di arte, cioè cerca di individuare quelle condizioni necessarie
e sufficienti perché si dia l’arte, mentre la seconda mantiene un concetto aperto di arte.
Il primo saggio in cui Danto affronta questioni di filosofia dell'arte è un saggio del '64, intitolato Il mondo
dell’arte. Nel 1981 scrive La trasfigurazione del banale. Nel 1986 pubblica La destituzione filosofica dell'arte
e nel 1997 pubblica Dopo la fine dell'arte, che leggeremo. In quest'ultimo volume Danto riconosce che le
condizioni che egli ha indicato perché l’arte si dia sono necessarie ma non sufficienti.
Il mondo dell'arte, invece, nasce dalla visita di Danto alla Statuar Gallery di New York e in particolare dalla
visione delle Brillo Boxes di Andy Wharol. Queste scatole di detersivo elevate al rango di opera d’arte
suscitano in Danto la riflessione sul problema dell'indiscernibile. Noi non siamo in grado di distinguere
percettivamente queste opere d’arte dai comuni oggetti corrispondenti. Questo fa nascere in Danto l’ipotesi
che debba esserci una differenza ontologica tra la realtà e l’arte, quindi tra i corrispettivi oggetti, che non è
più riconducibile ad una differenza estetica. Ciò non significa che la dimensione percettiva sia del tutto
irrilevante, ma semplicemente che essa subentra solo in seguito. Possiamo apprezzare esteticamente
un'opera d'arte solo dopo averla riconosciuta come tale, ma il riconoscimento non può avvenire da un
punto di vista estetico-percettivo, perché essa è ormai potenzialmente del tutto indistinguibile dall’oggetto
reale, quindi il punto di vista dev’essere filosofico.
Con la Pop Art la produzione artistica cambia radicalmente. Mentre prima, come nel caso del dadaismo, ci
sono pezzi di realtà che entrano nell'opera, con la Pop Art è la realtà stessa che diventa opera. Prima la
cornice era il punto limite, che serviva a stabilire il confine tra arte e realtà. Poi si inizia a dipingere sulla
cornice ed il senso è che l'arte sta cercando di entrare nella realtà. Poi salta la cornice e infine anche la tela.
Il movimento dell'arte segue due direzioni: per un verso le opere d'arte diventano veri e propri oggetti, per
un altro verso, che è quello dell’arte concettuale, si smaterializzano. Da qui nasce la domanda sullo statuto
ontologico dell’opera, che cos’è l’opera d’arte?
La questione viene affrontata da Danto su tre piani: 1) quello della definizione dell'arte; 2) quello
dell’individuazione dello statuto ontologico dell'arte; 3) quello dell’interpretazione.
Vediamo innanzitutto la questione della definizione dell'arte. Alla contrapposizione tra filosofia dell'arte e
estetica, dove da un lato abbiamo la possibilità di definire cosa è arte e dall'altro in linea di principio una
indefinibilità, Danto aggiunge la questione dell'essenzialismo. L'arte ha un'essenza, universale e astorica,
cioè identica a sé stessa in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Ma c’è anche una dimensione storica dell’arte, che
va coniugata con la dimensione universale della sua essenza.
Per Danto, l’essenza dell'arte è universale e astorica, mentre le opere d’arte sono storicamente connotate.
Le opere sono manifestazioni della stessa essenza, l’essenza dell'arte. Il fatto che le opere siano
storicamente connotate implica che, se cambiamo il contesto dell’opera, otteniamo una nuova opera.
Pensiamo al racconto Pierre Menard di Borges, in cui l’autore immagina uno scrittore francese che,
appassionato di cultura spagnola, scrive di sua penna un romanzo che è tale e quale al Don Chisciotte di
Cervantes. Questa finzione letteraria serve suscitare la domanda se sia o non lo stesso romanzo. Per Danto,
abbiamo due opere completamente diverse, perché il contesto storico e culturale in cui sono state scritte è
completamente diverso.
Per quanto riguarda la definizione dell’arte, Danto propone una via induttiva e una deduttiva. Una
definizione induttiva, o estensionale, parte dagli elementi che devono essere definiti, cioè dalle opere, e
determina le proprietà per induzione. Il problema è che una definizione di tipo induttivo rischia di essere
falsificata ogniqualvolta si diano nuove opere. Questo è, secondo Danto, ciò che è accaduto alle teorie di
Gombrich e Greenberg, proprio perché nessuna definizione induttiva può tenere conto delle opere future.
Gombrich aveva stabilito che le opere devono essere illusorie, nel senso che devono mettere in gioco una
forma di mimetismo. Davanti all'opera d'arte, dovremmo avere le stesse reazioni percettive che abbiamo
davanti alla realtà, senza la realtà. Se questo è l’obiettivo della rappresentazione artistica, allora essa mira a
raffigurare sempre più fedelmente la realtà. Con l'astrattismo, la teoria di Gombrich non regge più.
Il procedimento corretto per Danto è il procedimento deduttivo, o intensionale, che muove da
un’indicazione di carattere generale degli elementi costitutivi dell’opera d’arte e, solo dopo, verifica se
funzionano o meno. Le condizioni che Danto individua come condizioni necessarie e sufficienti sono
l’aboutness e l’embody. Aboutness è la sostantivazione del termine about, che significa “in riferimento a”,
quindi possiamo indicarla come “referenzialità”, mentre l’embody è tradotto come “incarnazione” o
“corporazione”.
La questione della definibilità o indefinibilità dell’arte è stata storicamente articolata in diversi modi. Si
sviluppa a partire dalla seconda filosofia di Wittgenstein, che sostiene l’indefinibilità della maggior parte dei
nostri concetti e dell'arte stessa. Questa linea dell’indefinibilità dell’arte, quindi dell’arte come concetto
aperto, sarà ripresa in America, dove si svilupperanno anche linee contrapposte, stimolate soprattutto dal
pensiero neopositivista. Danto riprende questa linea e afferma che è possibile definire l'essenza dell'arte,
non a partire dalle proprietà interne all’opera come alcuni hanno creduto, bensì a partire dalle sue
proprietà relazionali. Questo modo di procedere viene chiamato, anche da Danto stesso, “esternalista”
perché va a definire l'arte non in virtù di proprietà interne alle opere, ma in virtù di relazioni che sono
esterne alle opere. Quindi un'opera d'arte è tale se ha certe relazioni con il mondo dell'arte.
Nel passaggio dalla realtà all’arte, l’oggetto compie un vero e proprio salto ontologico. L’oggetto della
realtà, infatti, è. L’oggetto d’arte, invece, significa. In questo senso l’aboutness è condizione perché vi sia
arte. Quanto invece all’embody, esso riguarda il contenuto dell’opera, che è incarnato o incorporato
nell’opera stessa. Questo apre potenzialmente una contraddizione nella concezione di Danto perché, se è
vero che il contenuto si fa corpo, allora noi dovremmo poterlo cogliere percettivamente. Ma se noi
potessimo cogliere percettivamente il contenuto dell’opera, allora l’opera stessa si distinguerebbe
percettivamente dall’oggetto comune per questo contenuto. Questo problema è collegato anche a quello
dell’interpretazione, cioè se la dimensione teorica riesca ad incorporarsi. Per evitare questa contraddizione,
Danto afferma che la dimensione teorica non trasforma, ma trasfigura. Quindi l’incarnazione va intesa come
una forma di transustanziazione.
Lezione 16
Iniziamo con il secondo capitolo de La destituzione filosofica dell'arte. Danto introduce subito quelle che
chiama la teoria della trasparenza e la teoria della realtà. La posta in gioco in queste due teorie è il
problema del medium dell'opera d'arte. A differenza di quanto abbiamo visto con Belting in Antropologia
delle immagini, in cui il medium è esteso a tutte le modalità dell'immagine e quindi anche a quelle modalità
dell'immagine che non sono opere d'arte, la riflessione di Danto è rivolta esclusivamente alle opere d'arte.
Quindi quando parla di medium, si sta riferendo ai mezzi formali e materiali delle opere d'arte.
La teoria della trasparenza è rivolta a quella concezione dell'arte come mimetica, come una riproduzione il
più verosimile possibile della realtà. Se lo scopo dell'opera d'arte è darci una rappresentazione il più simile
possibile alla realtà, allora il vero fine dei mezzi dell'opera d'arte è necessariamente quello di diventare il più
trasparenti possibile. Quanto più i mezzi dell'opera d'arte diventano trasparenti, tanto più lasciano
trasparire il proprio contenuto. L’espressione “finestra metafisica”, che Danto utilizza, serve ad indicare che
è come se noi guardassimo attraverso una finestra di cui non vediamo la consistenza materiale. L'ideale di
un'opera d'arte è quindi quello di diventare sempre più diafana e trasparente, fino quasi a scomparire, per
lasciare emergere la realtà che dovrebbe veicolare. Lo scopo dell'opera è quello di scomparire, di cancellarsi
lasciando spazio a qualcosa d'altro, cioè al proprio contenuto. Se seguiamo questa posizione, la nostra
reazione estetica in realtà non è nei confronti dell'opera, ma nei confronti del contenuto dell'opera. Non più
la bella rappresentazione di una cosa, ma la rappresentazione di una cosa bella.
L'arte del '900 cerca di riaffermare quell'identità che la teoria della trasparenza sembra sottrarle, cerca di
tornare visibile, rendendo fortemente visibile il mezzo. Contro la teoria della trasparenza si ha la teoria della
realtà. Si arriva al totale ribaltamento della questione quando si prende un vero e proprio pezzo di realtà e
lo si fa diventare opera d'arte, questo intente per “perfetta incarnazione”. La perfetta incarnazione, in cui il
medium diventa la realtà stessa, e la perfetta trasparenza, in cui il medium diventa appunto trasparente,
hanno entrambe come conseguenza che il mezzo materiale e formale dell’opera scompaia. Da una parte
abbiamo la realtà in quanto tale, dall'altra abbiamo un contenuto che rimanda alla realtà. Da una parte la
pura realtà, dall’altra il puro contenuto, ma allora l'arte dove sta?
Danto afferma che la risposta estetica ha luogo sempre e soltanto nei confronti di ciò che colpisce l'occhio e
l'orecchio, quindi riduce la dimensione estetica alla dimensione percettiva stricto sensu. Questo è uno dei
punti critici della filosofia dell'arte di Danto intesa come qualcosa che si contrappone all'estetica, perché è
un modo fuorviante di intendere l’estetica. Danto afferma che, se siamo in grado di distinguere due oggetti
che sono percettivamente indistinguibili, allora la differenza deve rimandare a qualcosa che non è estetico,
e cioè a quell'atmosfera di teorie e di storia dell'arte che circonda l'opera. È la dimensione teorico-riflessiva
che fa sì che un oggetto non sia più soltanto un oggetto, pur rimanendo identico a sé stesso.
L’espressione “mondo dell'arte” viene utilizzata dai vari filosofi in maniera diversa. Ad esempio George
Dickie, autore di una teoria istituzionale dell'arte, utilizza questa locuzione per indicare le istituzioni
dell'arte. Danto critica questa posizione, sostenendo che essa compie un atto battesimale sulle opere d'arte
in modo puramente arbitrario.
Per Danto, invece, ciò che rende arte un qualunque oggetto è questa atmosfera di teoria e di storia dell'arte
che circonda l'oggetto. La teoria di Danto è una teoria esternalista proprio perché ciò che rende un oggetto
un'opera d'arte, cioè la costruzione teorica che la circonda, non sta dentro l’oggetto stesso, che altrimenti
sarebbe trasformato, con tutto i conseguenti problemi che abbiamo visto, invece è trasfigurato.
Torniamo alla questione della trasparenza. Rendendo trasparente il mezzo, rendiamo visibile l'oggetto,
quindi il massimo del realismo è ritrovare l'oggetto stesso. Gombrich sosteneva che davanti ad un'opera
d'arte dovremmo avere le stesse reazioni percettive che abbiamo di fronte all'oggetto reale. Quanto più la
rappresentazione è riuscita, tanto più queste due reazioni percettive si somigliano. Gombrich aggiunge
anche che non si identificano mai, perché nel momento esatto in cui noi raggiungiamo l'identità non stiamo
più reagendo a una rappresentazione, ma alla realtà stessa.
Per Danto, l'opera d'arte è sempre una rappresentazione, cioè ha sempre una qualche differenza rispetto a
ciò che sta rappresentando. Questo è vero anche quando l'opera è esattamente identica all'oggetto stesso,
infatti è un'opera proprio perché non si identifica con l'oggetto stesso, mantiene sempre uno scarto rispetto
all'oggetto. Se un'opera d'arte fosse in tutto e per tutto uguale all'oggetto, perderebbe la sua dimensione
referenziale, cioè rappresentativa, il suo essere about, quindi il suo rimandare a qualcosa.
Pagina 65. Per modalità interpretativa si intende una modalità riflessiva, teorica, che prende il posto di una
modalità percettiva, estetica. Questi tre momenti che Danto mette insieme, sensoriale, percettivo ed
estetico, sono in realtà molto diversi l’uno dall’altro. Danto schiaccia strategicamente la reazione estetica sul
percettivo che poi diventa, a seconda dei casi, anche semplicemente sensoriale.
Il problema di fondo è che l’arte del '900 l'arte fa emergere sempre di più la propria dimensione teorica e
contemporaneamente si avvicina sempre di più alla realtà, fino a diventare l’oggetto stesso. Quanto più si
avvicina alla realtà, tanto più la sua dimensione artistica consta della riflessione teorica che accompagna
l’oggetto. L'altro processo che l'arte compie è di smaterializzarsi e perdere la propria consistenza formale,
come nel caso delle performance. L’intenzione di questo tipo di pratiche artistiche è far perdere alle opere
la propria consistenza e far trasparire che l'opera è ormai l'idea stessa e l'idea è vera e propria teoria.
La reazione estetica non può costituire l’opera d’arte, tuttavia ciò non esclude le nostre reazioni estetiche,
che sopraggiungono dopo che quel qualcosa è stato costituito come un'opera d'arte. Secondo Danto,
l'opera è costituita dalla filosofia dell'arte, dopo di che si può parlare anche di percezioni estetiche. Quindi
la conclusione è che l'estetica non appartiene all'essenza dell'arte. Le reazioni estetiche non costituiscono
l'essenza dell'arte. A costituire l'opera d'arte è qualcosa che non riposa sull'estetica, non rimanda a qualcosa
di estetico.
L'essenza dell'arte è l'essere about e l'incorporazione, condizioni necessarie e auspicabilmente sufficienti
dell'essenza dell'arte. In seguito, Danto sosterrà che si tratta di due condizioni necessarie, ma non
completamente sufficienti.
C'è un riferimento a Dickie e alla teoria istituzionale dell'arte. Spesso la teoria istituzionale è stata legata
anche al nome di Danto, ma in realtà c'è una differenza profonda. Per Dickie, le istituzioni sono i musei, le
gallerie, i curatori, gli storici, i critici, cioè vere e proprie figure istituzionali del mondo dell’arte, le quali si
trovano davanti a quelli che egli chiama i “candidati all'apprezzamento”, vale a dire le opere d'arte. Una
produzione artistica entra nel novero delle opere d'arte se passa il vaglio delle figure istituzionali, che in
questo senso è un atto battesimale perché da quel momento noi iniziamo a trattarle come opere d'arte. Per
Danto, invece, il mondo dell'arte è l'atmosfera della teoria, che innanzitutto non è qualcosa di definito, ma è
impalpabile. Danto quindi parla di proprietà relazionali, non di proprietà intrinseche o interne. La rete di
relazioni che quell’oggetto istituisce o non istituisce con il mondo dell'arte può rendere l'oggetto un'opera
d'arte.
Nella prospettiva di Danto, la storia dell'arte conduce finalmente la filosofia a porsi la domanda corretta,
che è quella sull'essenza dell'arte. L'arte, ponendo la questione dell'indiscernibile, mostra alla filosofia la
domanda giusta. La risposta, però, compete alla filosofia perché l'essenza è una definizione.
Il fatto che Danto faccia gravare tutto lo statuto artistico sulla dimensione teorica non cancella l'oggetto,
altrimenti l'opera potrebbe diventare l'idea stessa. Danto sostiene che la teoria costituisce l’oggetto, che
tuttavia è dato, quindi necessariamente l'oggetto deve esserci. Quindi c'è la dimensione teorica, poi ci sono
i mezzi, che in questo caso sono l’oggetto stesso, infine c’è il rapporto che si crea tra questi due,
l'appropriatezza di entrambi. Un'opera crea un nuovo pensiero, un nuovo modo di guardare, una nuova
considerazione e una nuova prospettiva solo in relazione a un oggetto, attraverso un determinato oggetto.
Quindi l'opera deve essere pensata come oggetto, anche quando è un oggetto esteticamente indifferente.
Nel volume La trasfigurazione del banale Danto utilizza una vera e propria formula: i(o)=opera.
L'interpretazione è una funzione di una variabile, che è la o, cioè l'oggetto, e che dà come risultato l'opera
d'arte. L'interpretazione, quindi, è una funzione trasformativa. L'oggetto, tramite l'interpretazione, viene
preso e portato dal mondo della realtà al mondo dei significati. L'interpretazione, quindi, fa fare all'oggetto
un salto ontologico perché fa sì che quella cosa, restando sé stessa, diventi una cosa significante, cioè con
un significato.
Lezione 17
Pagina 129. Danto non ha in mente il vero e proprio modello della filosofia hegeliana, ma più che altro una
storia immanente che Danto riconosce all'interno del paradigma di Greenberg. L'esaurirsi di questo
paradigma porterà all'epoca post-storica di cui Danto sta parlando.
Il problema hegeliano era un problema di auto-conoscimento dello Spirito: lo Spirito conosce sé stesso
attraverso l'arte. In Hegel, però, l'arte è solo uno dei momenti dello sviluppo della vita dello Spirito,
superato il quale l'arte diventa, per l'appunto, qualcosa di passato dal punto di vista di questo percorso di
autoconoscenza dello spirito.
Il modello di Danto non si inserisce in questo quadro, quindi possiamo dire che è hegeliano in senso lato.
Secondo il modello presentato da Danto, la fine della storia dell'arte porta l'arte ad essere pienamente
libera, ma non porta l'arte a diventare la sua filosofia, perché l'arte non è uno dei momenti dello Spirito. Al
contrario solo con la fine della storia dell'arte, l'arte può liberarsi dalla filosofia. Il titolo La destituzione
filosofica dell'arte indica proprio che la filosofia, da Platone in poi, non ha fatto altro che destituire, cioè
depotenziare l'arte. Solo quando l'arte si libera finalmente dalla teoria filosofica essa può essere veramente
e pienamente sé stessa. Questo avviene quando finisce la storia e la storia finisce dalla Pop Art perché è il
momento degli indiscernibili. Il momento degli indiscernibili è il momento in cui l'arte pone la corretta
domanda, quella sull'essenza dell'arte, poiché conduce ad interrogarsi su che cosa ci permette di
distinguere due oggetti che percettivamente sono indiscernibili.
Si avverte un cambio di tono tra questo testo e la rivisitazione successiva di dieci anni. Qui c'è un tono
malinconico. La storia dell'arte è finita e, poiché abbiamo sempre concepito l’arte nella sua dimensione
storica, ora sembra che l'arte abbia perduto una delle sue dimensioni essenziali. Nell'altro saggio il tono è
più positivo, della fine della storia Danto esalterà maggiormente la dimensione della libertà dell'arte.
“L'arte rende possibile la filosofia dell'arte”. Solo quando l'arte ha posto la giusta domanda, ha permesso
alla filosofia di conoscere scientificamente l'arte. Si tratta di una filosofia dell'arte perché per Danto
dobbiamo arrivare a una vera e propria definizione dell'arte. Questa esigenza lo rende un filosofo
essenzialista, analitico e definitorio. L'arte sempre più si sbilancia (e in questo c'è molto di hegeliano), nel
senso che sempre più emerge la dimensione teorico-riflessiva e si contrae la dimensione sensibilepercettiva, anche se quest’ultima non può mai venir del tutto meno. Abbiamo visto che questi erano i due
poli estremi della teoria della trasparenza e della teoria della realtà. Per un verso, l'opera d'arte diventa
l'oggetto vero e proprio. Per altro verso, l'arte si smaterializza, perde di consistenza. Quindi è come se il
peso si sbilanciasse al punto da far sparire l'oggetto, ma l'oggetto non può mai sparire, la dimensione
sensibile non può mai venir meno.
Il secondo testo di Danto inizia con un riferimento a Belting, in particolare al testo Il culto delle immagini, il
cui sottotitolo è La storia delle immagini prima dell'era dell'arte, che costituisce un grande stimolo per
Danto. Danto e Belting scrivono, più o meno negli stessi anni, saggi sulla fine della storia dell'arte, ma
indipendentemente l’uno dall’altro. Per Belting ciò che finisce sono i modelli storiografici e l’obiettivo è
trovare un modello più appropriato, che non ricalchi i paradigmi dei modelli precedenti. Per Danto ciò che
finisce, invece, è proprio la storia immanente all'arte stessa, non la disciplina, ma l’oggetto stesso cui la
disciplina si rivolgeva.
Nel momento in cui Belting parla di un'era delle immagini precedente all'era dell'arte, ci fa capire che l'arte,
così come noi la intendiamo, inizia in un certo momento della storia. Questo momento spacca in due la
storia. Se il nostro concetto di arte inizia ad un certo punto, allora possiamo anche pensare che ad un certo
punto finisca. Quindi, mentre per Danto tra il momento storico e il momento post-storico c'è una
discontinuità netta, per Belting c’è una discontinuità che contiene in sé anche una certa continuità perché,
sebbene le categorie che abbiamo non siano adatto all'arte contemporanea, non abbiamo tuttavia altre
categorie, quindi continuiamo a mettere in gioco quelle dell'arte moderna.
Lezione 18
Per Danto l'essenza dell'arte è qualcosa che non può e non deve essere ristretto a qualche stile. L'essenza
dell'arte deve valere per ogni produzione artistica e quindi per ogni stile. In questo senso tutta l'arte è
ugualmente e indifferentemente arte. Teniamo conto che queste sono affermazioni che, oltre ad essere
molto forti, sono anche molto problematiche. Più avanti emergerà che per Danto non dobbiamo costituire
una storia dell'arte in funzione di uno stile o di un paradigma, perché altrimenti avremmo una storia
dell'arte epistemicamente scorretta e falsificabile. Qualsiasi paradigma che privilegi una dimensione
storicamente contingente dell'arte è necessariamente soggetto a una falsificazione da parte della storia,
perché in futuro si potranno dare delle condizioni dell'arte che confuteranno questo modello. Per questo
l'indicazione di Danto è che noi dobbiamo trovare una definizione dell'arte che sia talmente ampia da
abbracciare non solo tutte le opere d'arte che abbiamo sotto gli occhi, ma anche tutte quelle che si
potrebbero dare in futuro, se non addirittura quelle che si sarebbero potute dare ma non si sono mai date.
L'arte contemporanea si muove sempre di più nella direzione della realtà, cioè mette sempre più in gioco
parti della realtà stessa. Il problema, quindi, diventa come spiegare la differenza tra arte e realtà, se da un
punto di vista percettivo e fenomenico i due oggetti sono uguali, perché se non c'è differenza non c'è arte.
La questione dell'indiscernibile è, per Danto, alla base di qualsiasi riflessione filosofica e porta l'esempio di
Cartesio che dice di non saper distinguere il sonno dalla veglia. Le opere d’arte, anche se cariche di qualcosa
che i normali oggetti non hanno, restano comunque oggetti percepibili. Le Brillo Boxes di Wharol
rappresentano un esempio emblematico della direzione che, da un certo momento in poi, l’arte prende. Se
ancora Duchamp, nella sua epoca, era un caso isolato, dalla Pop Art in poi è l'arte intera ad andare in quella
direzione ed è in questo momento che l'arte permette alla filosofia di porsi le domande giuste.
L’arte pone finalmente la giusta domanda, ma la risposta a questa domanda la dà la filosofia. Questo è uno
dei punti su cui Danto è stato più criticato: perché l'arte è in grado di porre la domanda ma non di dare la
risposta? Secondo Danto questa domanda, resa esplicita dall'arte, necessita di una risposta linguisticodefinitoria, quindi di un sistema teorico.
Nel momento in cui capiamo che l'essenza dell'arte è un concetto che deve essere talmente ampio da
abbracciare ogni modalità dell'arte, l'arte come produzione perde un qualsivoglia indirizzo, cioè perde una
direzione. L'arte può fare ciò che vuole, di conseguenza non c'è più storia perché ogni opera può essere
erede della precedente, ma può anche essere tutt'altro. La storia dell'arte è finita e questo significa che
tutte le modalità sono ora possibili, cioè tutte sono legittime. Finché c'era storia, c'era un avanzamento e
c'era un regresso. Se invece il concetto di arte prevede tutte le possibilità, allora l'arte è finalmente libera.
Questo è ciò che Danto chiama la libertà o la pluralità dell'arte.
Bisogna specificare che, ovviamente, dire che tutti gli stili siano leciti non significa dire che tutto è buono.
Rimane la distinzione tra ciò che è valido e ciò che non è valido, rimane cioè un giudizio di valore. È la
modalità delle forme, degli stili, dei mezzi e dei metodi che è totalmente libera, ma rimane un giudizio
critico e quindi rimane anche la funzione della critica d'arte.
Il tono della fine di questo capitolo è positivo, infatti la libertà dell'arte dalla storia è intesa positivamente, a
differenza della fine del capitolo precedente in cui Danto rimpiange il periodo in cui l'arte riusciva ancora a
far parte della storia.
Nei capitoli successivi, Danto analizza il passaggio dalla storia dell'arte tradizionale alla storia dell'arte
moderna, cioè la crisi del modello Vasari-Gombrich, il modello mimetico dell'arte come rappresentazione
della realtà, e il passaggio ad un'arte come rappresentazione della natura dell'arte stessa. Il venir meno del
paradigma moderno crea un enorme problema, in quanto pone la questione di come configurare un
paradigma talmente grande da accogliere tutta l'arte del passato, quella che si sta producendo adesso e
quella che si produrrà in futuro.
Lezione 19
Danto fa questa tripartizione dell’arte tra tradizionale, moderna e post-storica. L’arte tradizionale è retta dal
paradigma mimetico, l’arte moderna è retta dal paradigma autoconoscitivo o autoriflessivo, il periodo poststorico è il periodo in cui finisce la storia in seguito alla questione degli indiscernibili.
Danto individua il paradigma autoconoscitivo dell’arte moderna come un elemento hegeliano, anche se
Danto stravolge il pensiero di Hegel e ne prende ciò che vuole. Greenberg è centrale per Danto, perché il
suo modello di un’arte autoconoscitiva riesce ad abbracciare tutta la produzione del primo Novecento,
quindi ha un’enorme potenza esplicativa, anche se surrealismo e dada costituiscono un’eccezione, perché
non si inseriscono in questo modello. Inoltre il modello di Greenberg è importante perché ancora riesce a
tracciare una storia lineare e progressiva, che non crea neanche una frattura violenta con il paradigma
precedente. Con l’avvento degli indiscernibili, cioè della Pop Art, questo paradigma mostra i suoi limiti e la
storia dell’arte finisce. La grande differenza rispetto tra Belting e Danto è per Belting non solo i nostri
modelli descrittivi non funzionano più, ma non hanno mai funzionato, sono sempre stati una finzione
storica. Per Danto, invece, termina la storia immanente all’arte stessa e si entra in una fase post-storica.
A pagina 60 troviamo dei riferimenti a Belting, in particolare alle opere La fine della storia dell’arte e Il culto
delle immagini, che secondo Danto sono le sue opere principali. Il culto delle immagini interessa a Danto
perché in esso Belting distingue un’epoca delle immagini prima dell’epoca dell’arte e un’epoca delle
immagini dopo l’epoca dell’arte. Questo significa che le immagini prodotte prima dell’arte non erano
immagini artistiche, ma prodotti pensati per rispondere a tutt’altre categorie. Il valore delle immagini sacre,
ad esempio, non era la bellezza, sebbene noi proiettiamo questo paradigma su di esse.
Pagina 62. Il passaggio dalla fase mimetica a quella moderna non è come per esempio il passaggio dal
Rinascimento al Barocco, perché nel primo caso cambia il paradigma stesso con cui guardiamo alle opere
d’arte. Si tratta di un cambiamento diverso, nuovo, di cui alcuni studiosi si iniziano a rendere conto.
Pagina 65. Il passaggio dalla fase mimetica a quella moderna coincide con lo spostamento dell’oggetto
dell’arte, che non è più la realtà, ma è l’arte stessa. Questo processo autoconoscitivo dell’arte è associato
da Danto alla riflessione hegeliana. L’arte mette in scena sé stessa ed ogni opera d’arte è una risposta alla
domanda “che cosa è arte?”.
Ogni genere artistico, per capire qual è la sua essenza, deve capire quali sono i suoi propri mezzi e, per farlo,
deve purificare i propri mezzi artistici. La pittura viene fatta su una tela, quindi la pittura è bidimensionale e
la prospettiva è una tecnica attraverso cui fingere che ci sia una terza dimensione dove non c’è, sconfinando
in ciò che fa la scultura, che invece produce oggetti tridimensionali. La pittura, quindi, deve purificare i suoi
mezzi cercando sempre più di eliminare innanzitutto questa tecnica illusoria che è la profondità. Greenberg
desume questo da ciò che sta effettivamente avvenendo: i dipinti si schiacciano sempre di più, lo spazio è
sempre più bidimensionale già a partire dagli sfondi di Manet, poi l’astrattismo, poi Picasso. L’illusione
tridimensionale della prospettiva albertiana viene programmaticamente e progressivamente eliminata.
Greenberg non può, quindi, includere surrealismo e dada perché in questo caso non avviene la purificazione
dei mezzi. Duchamp prende dei veri e propri oggetti, quindi è quanto di più lontano possa esistere da una
purificazione.
Greenberg individua l’essenza della pittura con la piattezza, ma questo è un errore enorme, perché significa
confondere il piano fenomenico dal piano pittorico. Greenberg, a posteriori, cerca di spiegare la produzione
artistica del Novecento come un tentativo da parte dell’arte di conoscere sé stessa. Per farlo, l’arte cerca di
conoscere i suoi mezzi, purificandoli. Greenberg riesce a spiegare addirittura un intero arco di tempo, che è
l’epoca dei manifesti, un’epoca in cui inoltre c’è un’enorme eterogeneità. La storia dell’arte progressiva,
tuttavia, presente un problema intrinseco, perché esclude. Così anche il concetto di purificazione di
Greenberg ha una componente violenta.
L’epoca post-storica, facendo saltare la storia, fa saltare anche i confini che la storia impone e, così facendo,
libera l’arte e gli artisti. Anche il modello di Greenberg è un modello lineare, non più costruito sul paradigma
mimetico, ma conoscitivo, secondo cui l’arte non rappresenta più la natura, ma rappresenta la natura
dell’arte.
Pagina 71. Greenberg sostiene che l’arte non deve significare, ma essere. Per Danto è esattamente il
contrario: l’arte non può essere, ma deve significare, mentre la realtà è, cioè è ente. Le opere d’arte sono
oggetti, sono fenomeni del mondo, ma sono oggetti che esprimono qualcosa, che significano. Gli oggetti
che sono, invece, non significano qualcosa: un tavolo è e basta, non ha un significato. L’arte, dunque, per
Danto, differisce sempre dalla realtà e non può collassare sulla realtà, neanche quando viene proposta
sottoforma di realtà stessa, altrimenti non è arte. Quindi, nei termini di Danto, la differenza tra la realtà e
l’arte è la differenza tra essere e essere about, cioè rappresentare.
L’arte degli anni Sessanta, in particolare di Duchamp e Wharol, mette in scena ciò che Danto chiama il
problema dell’indiscernibile. Guardando l’orinatoio di Duchamp noi non cogliamo nessuna differenza tra la
realtà e l’opera. Serve dunque una filosofia dell’arte, che si muova nella dimensione costitutiva dell’opera,
non nella dimensione estetica.
Pagina 72. Secondo Danto quella di Greenberg non è un’estetica formalista, come spesso è stata letta, ma
un’estetica materialista, perché tutta l’attenzione è rivolta ai mezzi dell’opera. Se seguiamo i presupposti di
Greenberg arriviamo ad una fine della storia dell’arte modernista, anche se Greenberg non affronta questa
possibilità. Difronte alla Pop Art, Greenberg sostiene che quella non è arte. Quindi tutto ciò che non segue il
paradigma, come era per il surrealismo e il dadaismo, per Greenberg cade al di fuori dell’arte.
Pagina 76. Nel momento in cui l’attenzione alla pennellata diventa uno dei tratti essenziali, il vero soggetto
è l’arte stessa, che mette in scena il suo modo di dipingere, più del suo contenuto. La pittura diviene un fine,
anziché un mezzo e la pennellata indica che lo strato di pittura deve essere guardato, non scavalcato per
vedere ciò che è al di là dell’immagine. Non c’è più la finestra albertiana.
Il capitolo successivo può risultare un po’ difficoltoso se non si conosce la terza Critica kantiana. Il problema
di Danto è se la critica d’arte possa basarsi su un estetica (in senso kantiano). Da un punto di vista estetico
percettivo, con gli indiscernibili noi non possiamo più distinguere il bello d’arte dal bello della natura. Una
delle conseguenze di questo assunto è che la bellezza non può più entrare nella definizione di arte. Se la
bellezza non ci permette di definire l’essenza dell’arte, la critica d’arte certamente non può più essere di
impianto formalista, ma deve essere di tipo contenutistico. Proprio perché non possiamo più basarci su
questo impianto di tipo estetico-percettivo-formale e proprio perché il contenuto diviene l’elemento
centrale, non possiamo più emarginare la dimensione pratica e ad esempio politica dell’art
C’è un’incomprensione di fondo nella lettura kantiana di Danto, che riguarda la questione del giudizio
disinteressato. Quando noi giudichiamo una rappresentazione, non ci interessa affatto se l’oggetto
rappresentato esista o non esista. Danto forza questo disinteresse, incarnandolo al singolo giudizio. Il
disinteresse che Kant ha di mira non è quello in gioco nel singolo giudizio, che può essere invece carico di
molti interessi differenti, ma il principio di determinazione del giudizio. Kant sta cercando di capire se è
possibile fondare una terza critica, cioè la critica della facoltà di giudizio. Il principio che sta a fondamento
della facoltà deve essere disinteressato perché, se non fosse autonomo, cioè puro, sarebbe ricondotto alle
altre facoltà e quindi sarebbe un modo di conoscere.
Pagina 81. “Quello che in particolare mi interessa è vedere le conseguenze del pensiero comune a Kant e
Schopenhauer che non si possa tirare una specifica linea di demarcazione tra il bello dell’arte e il bello della
natura”. Con gli indiscernibili questo problema diventa dirompente, perché l’opera d’arte non può più
essere definita mediante un sentire estetico, ma deve essere spiegata attraverso una dimensione teorica.
“Al di là di sapere di aver difronte un’opera d’arte non c’è niente che faccia distinguere quella che
Greenberg definì qualità nell’arte dal bello nella natura”. Se la bellezza dell’opera d’arte è uguale a
qualunque altra bellezza, allora quest’ultima non può più rientrare nella definizione di opera d’arte. Da un
punto di vista fenomenico oggetto e opera sono potenzialmente indiscernibili, ciò che consente di
distinguerli è la teoria che fa valere quella come un’opera. La nostra reazione estetica sarà conseguente alla
consapevolezza che davanti ai nostri occhi abbiamo un’opera, non il contrario.
Uno degli imperativi di Duchamp era trovare oggetti “esteticamente indifferenti”, cioè né belli, né brutti, né
repellenti. Duchamp voleva dimostrare che se un oggetto esteticamente indifferente poteva essere
considerato arte, allora la bellezza non poteva rientrare nella definizione di opera d’arte. È qui che si traccia
una demarcazione tra l’estetica e la filosofia dell’arte. Danto propone una filosofia dell’arte, non
un’estetica, perché i giudizi estetici giungono dopo le interpretazioni costitutive dell’opera d’arte.
Pagina 84. C’è un cambio paradigma tra l’arte tradizionale e l’arte moderna, però le categorie si pongono in
continuità, ad esempio possiamo ancora domandarci “in che senso quell’opera è bella?”. Con l’arte poststorica, invece, non ci poniamo più in continuità perché dobbiamo innanzitutto domandarci “in che senso
quella è un’opera?”. Non è più possibile fare appello alle categorie dell’estetica classica. La dimensione
teorica adesso trasfigura ciò che, altrimenti, è solo una cosa, come “la fontana” di Duchamp.
Se non riusciamo ad individuare qualcosa come un’opera d’arte in funzione di una dimensione estetica e
quindi se ormai l’artistico e l’estetico si muovono su due piani differenti e i loro rapporti sono invertiti,
allora la critica deve essere impostata in modo differente.
Greenberg è molto importante perché è stato il primo che ha capito il valore di Pollock e ha promosso
questo artista, che poi si è rivelato uno dei più importanti artisti del Novecento. È uno dei più noti critici
d’arte mondiali, che scriveva sulla rivista The Nation. A Greenberg succede Danto, che scriverà sulla stessa
rivista innumerevoli critiche. Greenberg si appoggiava su un modello estetico reattivo di ordine kantiano,
mentre la dimensione storica rimandava a quel modello autoconoscitivo che Danto chiama hegeliano.
Greenberg, secondo Danto, sta sostenendo che i concetti non devono entrare in un giudizio di gusto, perché
ciò che conta è solo la reazione del fruitore e quindi il giudizio di gusto non è un giudizio oggettivo, non è
una proprietà dell’oggetto, ma un sentire del soggetto. Tuttavia, il giudizio di gusto non è neanche
puramente soggettivo, perché è un giudizio universale, che esige la intersoggettività, ovvero chi lo formula
esige il consenso dell’altro. Il bello, dunque, riguarda un consentire, nel senso di “sentire con”.
Danto legge come inaccettabile conseguenza di questa esigenza di universalità del giudizio estetico il fatto
che l’arte sia sempre la stessa ovunque venga prodotta e quindi che sia astorica. Pagina 86. Dalla “tacita
universalità”, cioè dalla pretesa di intersoggettività del giudizio estetico, deriva la tesi che l’arte sia tutta
dello stesso tipo. Il modo in cui Greenberg fa critica d’arte, cioè il modo in cui affronta ogni nuova
produzione, è mosso da un ideale non indirizzato da una teoria, ma al totale affidamento all’ambito
percettivo. Questa reazione istintiva, percettiva, estetica, non orientata da alcuna teoria, era seguita da una
motivazione che spiegasse questa reazione estetica. La filosofia dell’arte proposta da Danto intende
ribaltare questo rapporto: tutta la reazione estetica può avvenire soltanto se noi sappiamo che quella è
un’opera d’arte e lo possiamo sapere solo in seguito al giudizio formulato dalla critica. Tutto il nodo della
questione, quindi, riguarda questa priorità del teorico sull’estetico.
Pagina 96. Danto è allo stesso tempo essenzialista e storicista. L’arte ha un’essenza universale, necessaria e
astorica, ma allo stesso tempo le opere d’arte sono storiche, accadono e si sviluppano nel tempo. Le opere
d’arte sono modi in cui l’essenza dell’arte si manifesta. Per Danto, questa dimensione storica è talmente
costitutiva che, se cambiamo il contesto che attornia l’opera, cambia anche l’opera. L’interpretazione,
quindi, è costitutiva dell’opera stessa e, cambiando, trasfigura l’opera.
Lezione 20
Il primo saggio in cui Danto inizia a confrontarsi con la filosofia dell'arte è un saggio del 1964 intitolato Il
mondo dell'arte, espressione che poi diventerà molto frequente. Il testo che leggiamo noi è un testo del
1997, in cui Danto raccoglie delle lezione svolte nel 1995.
Cap. 11, pagina 202. Danto sta dicendo che la sua filosofia dell'arte è una filosofia essenzialista. Questo è
importante perché spesso si pensa che la visione storicista dell'arte che egli ha, non lo faccia essere un
essenzialista, ma Danto rivendica sempre questa impostazione. Danto è essenzialista in quanto sostiene che
il compito della filosofia dell’arte è ricercare l’essenza dell’arte, che è immutabile e universale. Danto cerca
di tenere insieme essenzialismo e storicismo, in quanto c’è anche una storicità dell’arte.
C'è un riferimento alla filosofia di Winckelmann, secondo cui l'arte non può costituire una classe, ma può
costituire soltanto una famiglia, cioè qualcosa di riconoscibile, ma non definibile.
Danto sta dicendo che per definire l'essenza dell'arte abbiamo solo due modi di procedere:
–
Possiamo andare a vedere tutte le opere d'arte, trovare il minimo comun denominatore, cioè tutte le
proprietà che esse hanno in comune. È un metodo che potremmo definire induttivo, perché procede a
partire da casi particolari, cioè le opere d'arte, estrapolandone le proprietà comuni e, sulla base di
queste, definendo cos'è l'arte. Il primo problema di una definizione induttiva è che la produzione
successiva può invalidare la definizione. Danto riprende Popper nel sostenere che questa definizione è
fallibile, falsificabile e di fatto è stata falsificata dalla Pop Art.
–
La seconda modalità per procedere è quella di indicare quello che secondo noi è arte e dare una
definizione così generale da poter abbracciare non solo tutte le opere presenti e passate, ma anche
tutte quelle che saranno possibili in futuro. Una delle strategie per perseguire questa strada è quella di
ritenere il percorso storico come chiuso. Questa è la tipica mossa hegeliana: solo quando una qualche
attività ha effettivamente finito il suo ciclo noi la possiamo conoscere scientificamente, perché ormai
non potrà più mutare.
Il problema della fine della storia dell'arte e il problema della conoscibilità dell'essenza dell'arte creano un
nesso che per Danto è strategicamente forte. Con l'avvento dell'indiscernibile, la storia dell'arte termina e la
filosofia dell'arte si trova finalmente a capire qual è la corretta domanda a cui deve rispondere: qual è la
differenza tra due cose se sono percettivamente indiscernibili? Allo stesso tempo, nell'indicare alla filosofia
quale sia la corretta domanda, la storia dell'arte finisce.
A partire dal secondo Wittgenstein, una parte della filosofia americana assume l'idea che l'arte non sia
qualcosa di definibile, ma che sia un concetto aperto e quindi in quanto tale non definibile. La risposta di
Danto è che, invece di andare a cercare le proprietà intrinseche dell'arte, dobbiamo cercare le proprietà
relazionali, cioè le relazioni che un determinato oggetto intrattiene con il mondo dell'arte e che fanno sì che
quell'oggetto sia un'opera d'arte. Allora se sono proprietà relazionali, e non proprietà intrinseche, forse si
può tentare una definizione. Con questa mossa storicamente si riapre tutto il campo di indagine definitorio
dell'arte e negli anni '70 e '80 inizia un fiorire di definizioni dell'arte. Dare una definizione essenzialista vuol
dire individuare condizioni che siano necessarie e sufficienti. Questo è importante perché poche pagine
dopo Danto dirà che le condizioni che egli ha individuato sono soltanto necessarie, ma non sufficienti
perché non esaustive.
Dickie, storico dell'arte americano che propone una teoria istituzionale dell'arte, sostiene che sono le
istituzioni, il cosiddetto mondo dell'arte, stabiliscono cosa è arte e cosa non lo è. Le istituzioni sono le
gallerie, i musei, i critici, gli storici dell'arte, cioè tutti gli esperti d'arte. Quello che Danto chiama “il mondo
dell'arte”, invece, non sono le istituzioni.
Danto dice di riprendere Hegel nel sostenere che l'opera d'arte deve avere un contenuto e un significato
incarnato. L'opera non è semplicemente, ma è qualcosa che si riferisce a qualcos’altro e, allo stesso tempo,
questo suo contenuto si deve incarnare nell'opera stessa, nei materiali utilizzati. Stiamo sempre parlando
del rapporto forma-contenuto. Nella citazione di Hegel si parla di una “appropriatezza di entrambi”, cioè i
mezzi devono essere appropriati al contenuto. Questo è importante perché la critica si inserisce nel
tentativo di capire se c’è questa appropriatezza, quindi di che cosa l'opera d'arte stia parlando. Nel farlo, la
critica istituisce l'opera stessa perché marca la sua differenza tra la sua dimensione di realtà e il suo essere
opera, cioè istituisce una differenza ontologica tra l'oggetto e l'opera d'arte. Quindi Danto insiste sul tema
dell'indiscernibilità, però al tempo stesso fa ricomparire la dimensione dei mezzi dell'opera e questo genera
tensioni fortissime all'interno della sua teoria, in quanto accorda lo statuto di arte a un oggetto cambia
storicamente. Eppure l'essenza dell'arte è senza tempo, è astorica. Come si risolve questa apparente
contraddizione? Chiarendo che ciò che è storicamente determinato sono le opere d'arte, mentre l'essenza è
eterna e astorica.
Questo è il modo in cui Danto vuole accordare essenzialismo e storicismo: dell'essenza dell'arte, che non ha
tempo, è necessaria e universale, se ne occupa la filosofia dell'arte; delle opere d'arte, invece, che sono
storiche, se ne occupa la critica d'arte. La critica d'arte, quindi, è un'attività che sta tra la realtà e la filosofia,
è una dimensione che non è assunta dalla filosofia, la quale guarda all'universale, alle essenze, non alle
opere.
Ci sono diverse affinità tra il pensiero di Danto e il pensiero di Hegel. La prima è sicuramente che per Hegel
l'arte è una delle modalità di manifestazione dello Spirito, in particolare è lo Spirito che conosce sé stesso
attraverso l'arte. Dal punto di vista hegeliano il movimento storico dell'arte consente all'arte di conoscere sé
stessa, è tutto un movimento interno all'arte. Hegel poi non parla di una fine né della storia dell'arte né
dell'arte in sé, ma afferma che l'arte è qualcosa di passato, cioè l'arte non è più il luogo in cui lo Spirito si
conosce. Hegel non parla mai di una fine, ma al massimo di un consumarsi, di un dissolversi dell'arte,
mentre in Danto c'è una vera e propria fine, una cesura, una spaccatura. La storia dell'arte, la grande
narrazione, è finita. C'è una frattura tra l'arte nella storia e l'arte dopo la fine della storia dell'arte. A
complicare il quadro c'è il fatto che dopo la fine della storia dell'arte possiamo avere ancora un'altra storia
dell'arte. Danto cerca di rendere conto della possibilità che ci siano ancora storie dell'arte.
Pag. 208. “I confini della storia” è una terminologia hegeliana. La storia traccia il limite di ciò che è dentro e
ciò che è fuori. La storia stessa prima ancora che l'artista faccia qualcosa, decide cosa sarà o non sarà arte.
Dunque il momento in cui la storia finisce è il momento in cui “tutto è possibile”, è quindi il momento del
pluralismo, della totale libertà dell'arte. L'artista non ha più nessun limite prescrittivo.
Contemporaneamente, però, Danto vuole tenere fede ad un'altra citazione, che è quella di Wolfrin secondo
cui, invece, “non tutto è possibile”. Se non tutto è possibile, allora c'è ancora una storia. Sicuramente, e
questo è un dato, non è più la grande narrazione lineare e progressiva, ma questo non impedisce che si
possano costruire storie a posteriori.
Lo stesso aveva sostenuto anche Belting, compiendo però un'operazione diversa, cioè dicendo che la storia
dell'arte lineare e progressiva è, ed è sempre stata, una finzione narrativa, era un modo in cui noi
raccoglievamo le opere. Questa però era una finzione narrativa opprimente, che schiacciava e riduceva il
modo di guardare le opere d'arte, era una storia dell'arte come storia dello stile, in cui tutte le altre
dimensioni dell'arte andavano perse. La tesi di Belting è che questa costruzione, che è il modello lineare e
progressivo della storia dell'arte, è fallace. Quindi Belting demolisce completamente il modello. Danto,
invece, fa un'altra operazione. Egli vede la storia dell'arte come qualcosa di immanente all'arte, che però fa
finire e deve far finire. Il momento finale della storia non è qualcosa di semplicemente contingente o
casuale, la storia deve finire perché altrimenti il filosofo non potrà mai dare la vera definizione, perché l'arte
resterebbe un campo aperto.
Pagina 208. “Entrando nel limite post-storico non si sfuggono i limiti della storia”. Danto sta prendendo una
posizione molto precisa. Avrebbe potuto prospettarci un'altra situazione, in cui l'arte finiva, ma non è così:
l'arte non muore, di conseguenza una storia è finita ma c'è ancora la possibilità di istituire un'altra storia.
“Tutto è possibile” perché non c'è più un paradigma che pre-stabilisce cosa l'arte deve fare e come deve
essere. Se non c'è un paradigma che stabilisce cosa è l'arte e cosa essa debba fare, allora l’arte può fare
qualsiasi cosa e ogni forma diventa legittima.
In termini kantiani potremmo dire che Danto ci sta dicendo che immaginare un'opera d'arte significa
immaginare un mondo dell'arte, che la rende possibile e comprensibile. Per Danto la teoria fa due
operazioni contemporaneamente, cioè istituisce l'opera come tale, facendola passare dall’essere oggetto
all'essere opera, e la determina come quella particolare opera d'arte, non un'altra. Nel momento in cui la
teoria rende un oggetto opera d'arte lo circoscrive. Questo è un doppio momento della teoria che si dà
perché le opere d'arte sono sempre qualcosa di particolare. Noi non entriamo mai in relazione con
l'universale arte, ma sempre con le singole opere d'arte.
Pagina 214. Sta introducendo un elemento che spiegherà successivamente. Dobbiamo pensare che ogni
opera è inserita in una “forma di vita” che la rende quell'opera. La forma di vita, però, storicamente cambia
e noi, che viviamo in una forma di vita, possiamo vivere quelle opere, ne possiamo usufruire in un certo
modo. Nel momento in cui cambia la nostra forma di vita, noi possiamo certamente conoscere le opere del
passato, però non ne fruiamo più come se facessimo parte di quella forma di vita. La forma di vita cambia il
modo in cui noi interagiamo con una determinata opera. Quindi il cambiamento di forma di vitacomporta il
cambiamento del nostro rapporto con l'opera.
La menzione è una citazione. L'uso di una forma è determinata dal fatto che ci troviamo all'interno di una
certa forma di vita nella quale l'artista fa un'opera per fruitori che vivono nella stessa forma di vita. Quando,
facendo parte di una forma di vita, ci rapportiamo a forme diverse, non la stiamo usando ma la stiamo
menzionando.
Pagina 220. Belting sta dicendo che, nel rapporto tra contenuto e mezzi, certi contenuti possono anche
trascendere il proprio contesto o non essere del tutto chiusi nel proprio contesto. I mezzi, però, secondo
Danto, restano sempre chiusi nel loro contesto. Con mezzi, Danto intende il medium nella sua interezza,
quindi anche le forme. Le forme sono chiuse in un contesto per cui se le rimettiamo in circolo non le
possiamo più usare come veniva fatto nelle precedenti forme di vita. Possiamo riutilizzarle ad esempio in
senso ironico nei confronti di quella forma di vita o della nostra forma di vita. Dobbiamo, insomma, tenere
sempre dentro l'elemento differenziale rispetto alla forma precedente. Danto sta in questo modo
differenziando forma e contenuto.
Vedremo con Margolis che uno dei problemi è quello dell'incarnazione. Danto, quando parla di
incarnazione, parla di interpretazioni costitutive, quando parla della teoria del mondo dell'arte, utilizza il
termine “trasfigurazione” non come trasformazione. Trasfigurare non significa che percettivamente
vediamo una cosa in modo differente, al contrario, continuiamo a vedere la stessa cosa percettivamente,
ma ciò che vediamo dice qualcosa di diverso.
Lezione 21
Margolis. Questo capitolo è diviso a metà, nella prima parte Margolis prende di petto l'idea di una storia
dell'arte e in particolare l'idea di una fine della storia dell'arte con riferimento a Greenberg e a Danto.
L'obiettivo polemico forte è Danto, ma nell’analisi viene coinvolto anche Greenberg. Danto vede in
Greenberg quel movimento che chiama hegeliano sulla storia che poi, secondo Danto, viene a termine.
L'altra metà del capitolo vede sempre Danto e Greenberg protagonisti, ma qui Margolis analizza la loro
concezione di opera d'arte, quella che tipicamente si chiama ontologia dell'opera d'arte, vale a dire la
natura ontologica che essi implicitamente attribuiscono alle opere d'arte.
Margolis prende subito una netta posizione, affermando che l'arte non è definibile, contrariamente a
quanto aveva detto Danto. La concezione di storicità che ha Margolis non rende possibile una definizione
d'arte perché è qualcosa che, in linea di principio, può sempre cambiare. Da questo punto di vista, Margolis
ritiene che neanche l'opera d'arte sia definibile.
Pagina 38. Il fatto che l'opera non sia definibile non significa che qualsiasi cosa possa essere un'opera d'arte.
Non è un relativismo estremo senza condizioni. Questa questione è importante per la filosofia
angloamericana perché in quegli anni una figura molto nota è Richard Rorty, che si fa promotore di un
relativismo radicale, con tutte le difficoltà interne al pensiero che questo comporta. Un conto è dire che
qualsiasi cosa è arte, un altro è dire che qualsiasi cosa può essere arte. Nel primo caso attuiamo
semplicemente una sospensione di giudizio.
Margolis sta dicendo che non possiamo indicare in anticipo per quali ragioni noi consideriamo qualcosa
un'opera d'arte. Nel momento in cui consideriamo qualcosa come un'opera d'arte, lo facciamo alla luce di
motivazioni che non possono essere prestabilite. Di volta in volta, però, possiamo e dobbiamo dare
motivazioni sull'identificazione di una particolare produzione in opera d'arte.
Margolis, quindi, sta segnalando che non c'è la discontinuità che Danto ha identificato tra l'arte moderna e
l'arte contemporanea. Il fatto che la storia sia periodizzata fa sì che, nel momento in cui un certo periodo
cade fuori dalla storia, esso diventi semplicemente un altro periodo della storia stessa. Quello che non torna
a Margolis è, insomma, che l'epoca post-storica è fuori dalla storia e dentro alla storia.
Una storia sostanzializzata, essenzializzata, è una storia che non accade perché, se davvero accadesse, il
futuro sarebbe qualcosa di non contenuto. L'essenza, nel momento in cui contiene tutto lo sviluppo storico
perché è diretta dal suo telos, non è propriamente una storia. Per questo Margolis distingue tra storia e
storicità. La storicità è qualcosa che accade, di cui non sappiamo nulla e la cui ricostruzione si può fare solo
a posteriori, quindi è sempre una ricostruzione di ciò che è accaduto.
Il futuro, però, non è prevedibile: non possiamo sapere cosa accadrà e non possiamo sapere quali opere
d'arte verranno fatte. La storia entra non solo nella produzione artistica, ma anche nelle categorie con cui
guardiamo le opere d'arte. La storia permea anche il nostro pensiero, i concetti e le categorie con cui
guardiamo certe cose. Pensare che il nostro modo di guardare le cose sarà lo stesso anche tra anni è un
modo di sostanzializzare la storia, cioè di fissarla e prefissarla, come una linea che si dispiega nel tempo.
Accade, cioè, ciò che è già inscritto nella sua essenza. In fondo questo lo ricaviamo anche dal rapporto che
Danto instaura tra storicismo e essenzialismo. L'essenzialismo è l'essenza dell'arte, che è immutabile,
mentre le opere d'arte sono manifestazione di quell'essenza, quindi rispecchiano sempre quella stessa
essenza. Ciò significa che in fondo le opere non portano mai qualcosa di realmente nuovo dal punto di vista
del senso dell'arte, perché quello è sempre lo stesso, è immutabile ed eterno.
In qualche modo, quindi, le opere d'arte sono degli epifenomeni, delle mere manifestazioni di qualcosa di
già dato. L'unica differenza tra la fase post-storica e la fase precedente alla fine della storia dell'arte sta nel
fatto che prima noi non sapevamo quale fosse la sua essenza. Nonostante questo, però, per Danto è un
dato che l'essenza dell'arte fosse la stessa anche prima. Questo per Margolis è inaccettabile perché la vera
storicità è costituita anche dalle nostre categorie, dai nostri concetti che cambiano e che non possiamo
sapere come cambiano. Istituire un paradigma significa fissare la storia. Solo se riteniamo che la storia non
possa essere essenzializzata, allora il futuro è veramente qualcosa di non prevedibile.
L'intenzione di Margolis è quello di mostrare che gli esistenzialismi, quelli che sta chiamando essenzialismi
modali, vanno respinti. Il postmodernismo, lungi dal prendere le distanze dal modernismo, ritiene anch’esso
che debba esserci una forma di sostanzializzazione. Il postmodernismo è la negazione logica del
modernismo, ma la negazione logica dell'essenza è essa stessa un'essenza. Quindi Margolis non è
postmoderno.
Greenberg e Danto sostanzializzano la storia. In Danto il problema era che l'essenza è astorica, mentre le
opere accadono storicamente. Ora il punto è che, se esse accadono storicamente, allora la storia fa parte
delle opere d'arte. Quindi c'è un'essenza dell'arte e un'essenza delle opere d'arte?
La visione di Greenberg è che l'arte sia una forma di autoconoscenza, che non impone che la storia debba
finire, perché può essere anche un percorso asintotico in cui ci avviciniamo sempre più alla conoscenza
dell'essenza, ma non arriviamo mai al punto finale.
Secondo paragrafo. Greenberg e Danto fanno lo stesso tipo di errore, che non è più dal lato della storia, ma
è dal lato dell'ontologia dell'opera, cioè di cosa è un'opera d'arte. Entrambi confondono l'essere dell'opera
con l'oggetto stesso, quindi attuano o una forma di riduzionismo, secondo cui l’opera è semplicemente
l'oggetto fisico materiale, oppure una forma di platonismo, cioè un vero e proprio dualismo ontologico. Il
riduzionismo è indicato con il termine “intenzionalità” è scritto con la maiuscola perché non è
l'intenzionalità del soggetto, qualsiasi esso sia, ma è l'intenzionalità dell'opera, cioè la sua capacità di
trasmettere.
Quello che suggerisce Margolis è innanzitutto che c'è un solo piano di realtà, dunque un monismo, non però
riduzionista, cioè in cui non c'è solo la realtà fisico-materiale. C'è una dimensione non riducibile a quella
fisico-materiale, che è ciò che egli chiama una forma di emergenza o di eccedenza. La dimensione
dell'intenzionalità è l'eccedenza del culturale rispetto al fisico materiale.
L'errore di Greenberg e di Danto è stato, quindi, quello di fornirci teorie che sono in ultima istanza o
riduzioniste o platoniche. Si ha o un monismo forte e fisicalista secondo cui l'opera non è altro che l'oggetto
e tutto il resto è solo un movimento retorico che circola intorno all'oggetto. Oppure questa dimensione ha
bisogno di una dimensione di realtà c che ci porterebbe al dualismo, cioè al platonismo.
Greenberg aveva parlato di “bidimensionalità della pittura”, intendendo che ogni genere artistico deve
purificare i suoi elementi. Purificarsi significa eliminare dai suoi tratti e dalle sue caratteristiche tutto ciò che
non è proprio di quel genere artistico. Questo è il movimento di autocoscienza che nello stesso tempo è un
movimento di auto-fondazione. Questo purificare, cioè togliere dal proprio modo di fare arte quello che non
è pertinente con quel genere artistico, consente all'arte di conoscere i suoi riferimenti e quindi di trovare
quali sono le sue vere fondamenta, in questo senso è una auto-fondazione. Se la pittura su tela ha due
dimensioni, orizzontale e verticale, allora non deve fingere la terza dimensione perché, nel momento in cui
mette in gioco la prospettiva o qualunque forma di illusione di una terza dimensione, fa qualcosa di impuro.
Questo perché è come se essa attuasse una menzogna, come se facesse finta di essere una scultura
tridimensionale, passando appunto da una finzione a menzogna.
Margolis sta dicendo che Greenberg confonde la bidimensionalità dell'oggetto fisico con la bidimensionalità
dello spazio pittorico. Allora o diciamo che la bidimensionalità dello spazio pittorico è la stessa cosa della
bidimensionalità dello spazio fisico, mettendo così in gioco il riduzionismo di cui abbiamo parlato, cioè
riducendo l’opera all'oggetto stesso e l'unica cosa che l'opera deve fare è diventare l'oggetto fisico, in
questo caso la tela, quindi il massimo per un'opera d'arte sarebbe annullarsi per lasciarci l'oggetto fisico.
Oppure la bidimensionalità dello spazio pittorico è rigidamente e essenzialmente governata, cioè retta da
regole direttamente collegate alla dimensione del medium e quindi è il medium che impone la dimensione
stessa dello spazio pittorico. Ma questo, dice Margolis, è assolutamente arbitrario.
Pagina 52. Sta dicendo che il voler caratterizzare questa proprietà come una proprietà dell'arte moderna è
curioso perché essa è una proprietà di tutti i dipinti. Tutte le opere d'arte dovrebbero essere bidimensionali
se vogliamo trovare un rapporto necessitante tra bidimensionalità dello spazio pittorico e bidimensionalità
dello spazio fisico. Il fatto che Grimberg lo associ solo all'arte moderna è un errore anche storico.
Che gran parte dell'arte moderna sia andata in questa direzione è un dato di fatto, dice Margolis, ma ciò non
significa che la storia doveva andare così perché l'essenza dell'arte è questa, poteva andare anche in modo
diverso.
Danto e Greenberg commettono lo stesso errore, ma Greenberg è impegnato nel trovare l'essenza dell'arte,
mentre Danto ha bisogno di trovare il punto di rottura. Essenziale nella teoria di Danto è trovare il punto di
rottura storica, cioè il passaggio dalla storia alla post-storia che non è un fatto tra gli altri, ma è un fatto
necessario all'interno della teoria di Danto e che Danto rende necessario all'interno della storia dell'arte.
Per Danto bisogna liberare l'arte dalla sua storia. Il volume che racchiude alcuni saggi che abbiamo letto si
chiama La destituzione filosofia dell'arte perché secondo Danto la filosofia dell'arte da Platone fino a Danto
ha sempre cercato di destituire l'arte. Ha sempre cercato di rendere l'arte meno di quello che è stata e lo ha
fatto in due modi: in primo luogo, tramite il movimento di effimerizzazione e, in secondo luogo, ritenendola
come una forma di conoscenza, inferiore rispetto ad altre forme di conoscenza, quella filosofica e quella
scientifica. È come se la filosofia avesse sempre tolto all'arte la possibilità di un rapporto forte con la realtà.
Allora liberare l'arte significa liberarla da questa morsa che nei millenni ha sempre tenuto l'arte sotto il
giogo della filosofia. Per questo Danto dice che in un primo momento dopo la fine della storia dell'arte,
l'arte sembra trasformarsi in filosofia. Nel testo Dopo la fine dell'arte, invece, Danto sostiene che da quel
momento l'arte e la filosofia si separano definitivamente. Ormai la filosofia si occupa solo dell'essenza
dell'arte e l'arte è finalmente libera di fare quello che vuole senza dover più rispondere a nessuno. Qui si
genera una cesura fortissima che è anche una liberazione dell'arte.
Se la teoria di Danto fosse vera, semplicemente non esisterebbe l'arte. Il problema su cui si scarica tutta la
tensione della teoria di Danto è il tema della percezione, dell'indiscernibile, della trasfigurazione, che è il
problema dell'incarnazione. Il problema dell'indiscernibile nasce dal fatto che Danto dice che
percettivamente noi non siamo in grado di distinguere l'opera d'arte da un oggetto; la percezione non è in
grado di cogliere la differenza, quindi c'è bisogno della teoria.
Margolis sta sottolineando che questo modo di pensare la percezione riduce il senso, cioè la dimensione
semantica e quindi lo spazio vero e proprio della percezione, a quello che noi chiamiamo la sensazione vera
e propria, cioè ai cinque sensi. Il punto è che percepire è più che vedere. Il difetto di Danto è che egli
intende la percezione come un semplice vedere, cioè che la percezione diventa la sola sensazione.
La teoria di Danto condivide molto con la teoria della modularità di Fodor, secondo cui a un livello minimale
la nostra percezione è incapsulata, cioè non è permeata dalla cognizione, ma funziona autonomamente dal
sistema cognitivo, per cui se cancellassimo tutta la nostra cultura continueremmo, seppur ad un livello
minimale, a vedere le cose come le vediamo. Danto continuamente oscilla tra questa percezione non
permeata dalla teoria, cioè quella che stiamo chiamando la sensazione, e la percezione come cognizione.
Per Danto, ciò che ha natura reale sono soltanto gli oggetti, mentre le opere sono trasfigurazioni, anche
retoriche. Margolis, invece, sta dicendo che abbiamo una realtà sostanziale, che è il mondo fisico naturale,
ma abbiamo anche una realtà culturale, che è appunto tutta la dimensione della cultura, che ha una vera
natura che può essere percepita. Quest’ultima, nella concezione di Danto, non può essere percepita,
altrimenti cadrebbe il meccanismo dell'indiscernibile. Quando Margolis dice che le opere d'arte hanno una
realtà culturale, sta dicendo che la vera natura delle opere d'arte è avere una storia, cioè la loro natura è il
suo essere storico, non ha un'esistenza sostanziale. Le opere d'arte sono tali perché posseggono proprietà
intenzionali, cioè tutte quelle proprietà comunemente definite come semiotiche, descrittive, artistiche,
storiche ecc.
Le opere sono un ente diverso dalla cosa oppure non lo sono? Sono un altro ente, nel senso che hanno
un'altra sostanza che le fa essere diverse dalla cosa materiale. Tutto questo è più chiaro con il seguente
esempio: ascoltare qualcuno che parla significa ascoltare direttamente significati. La nostra apprensione di
tipo percettivo è già dei significati, non soltanto del veicolo fisico che li trasporta.
Allora l'idea di percezione che ha Margolis è wittgensteiniana. Wittgenstein, in un celebre passo, scrive “io
vedo significati”. I significati non sono inferenze associative a partire da un materiale fisico, il linguaggio
parlato non può essere solo aria che si muove e che fa muovere il nostro timpano, cioè il dato meramente
sensoriale. Quando noi ascoltiamo percepiamo i significati e le parole. L'opera fa la stessa cosa, come per il
linguaggio anche per l'immagine noi vediamo quadri e non scarabocchi che poi trasformiamo
retoricamente, cioè attraverso la teoria. C'è una teoria che non trasforma l'oggetto materiale ma lo
trasfigura, di conseguenza rimane sempre intorno all'oggetto materiale, lo circonda e noi possiamo ancora
percepirlo con i nostri occhi perché non lo permea.
In Danto c'è questa compressione: sentire estetico – percezione – sensazione. Margolis fa notare
innanzitutto è problematico ridurre l'estetico al percettivo, ma soprattutto ridurre il percettivo al sensoriale.
Davanti all'immagine è già in gioco la percezione ed essa è già in grado di cogliere significati, cioè quella
dimensione culturale non riducibile al fisico. Allora le opere sono tali perché c'è qualcosa di non riducibile al
fisico, che è la dimensione culturale o intenzionale e questa dimensione viene da noi percepita, non con gli
occhi ma con il nostro sentire. Non c'è la percezione neutra che noi carichiamo, rivestiamo e trasfiguriamo
teoricamente o retoricamente, la percezione è già carica di significato. Questa percezione di cui godiamo
permea l'oggetto.
Pagina 60. Quello che noi percepiamo dei dipinti passati è la funzione, che è in mutamento perché è
vincolata alla nostra storia presente. Quindi nel guardarli noi stiamo attuando una ricostruzione storica, di
una storia che era anch'essa in mutamento. C'è un continuo mutamento del nostro sguardo ed è la
dimensione del flusso storico di cui ci aveva parlato in precedenza.
Per Danto esistono solo oggetti, mentre le opere d'arte non esistono e non possono esistere. Margolis vuole
assegnare alle opere una qualche realtà, ma non una realtà sostanziale, bensì una realtà culturale. Per
Danto, l'opera d'arte è qualcosa di fisicamente incarnato e culturalmente emergente: è qualcosa che si
incarna in una dimensione mediale, cioè in un medium; ma è anche culturalmente emergente, perché è
qualcosa che non è riducibile alla dimensione fisico-materiale. L'opera non è il medium, ma essa non si può
dare se non nel medium. È il doppio livello di presenza-assenza.
Pagina 61. Modernismo, arte post storica, arte tradizionale ecc. non sono categorie descrittive, ma sono
costruzioni, cioè sono nostri prodotti per descrivere la storia. La storia è una narrazione di come secondo
noi essa sia andata. Questo è ciò che Belting chiamava “storia dell'arte a posteriori”. Le opere d'arte sono
ricostruzioni narrative, quindi narrazioni dopo che quel qualcosa è avvenuto. Talvolta c’è una certa stabilità,
che noi confondiamo con oggettività, cioè ci sono certe caratteristiche che influenzano le produzioni
artistiche, ma questo non configura una oggettività in senso scientifico o essenziale.
Questa oggettività è una forma di consensualità, cioè è la stessa oggettività che noi riconosciamo alla
consensualità del funzionamento di una lingua, che non ha niente a che vedere con l'oggettività che
mettiamo in campo come categoria scientifica. Quindi non è propriamente un'oggettività, ma è una
stabilità. Quindi non è un'essenza, ma un dato culturalmente stabile.
Per delineare un'opera d'arte non possiamo mettere in campo le strumentazioni che mettiamo in campo
per conoscere e per determinare gli oggetti fisici perché la dimensione intenzionale non è qualcosa di
riducibile al fisico. Il pensiero non è riducibile al fisico materiale. Se per Danto la dimensione intenzionale
non è percepibile, allora noi possiamo percepire solo oggetti, quindi di fatto le opere d'arte non esistono. Se
la dimensione teorica non riesce davvero a incarnarsi, allora abbiamo solo oggetti su cui poi riversiamo
quello che desideriamo.