APPUNTI STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA 02/10/2019 L’Encyclopédie a cura di Denis Diderot e Jean Baptist Le Rond d’Alembert è un caposaldo del pensiero occidentale e la summa del pensiero illuminista. Il progetto, nonostante venga fortemente osteggiato dalle forze più conservatrici e soprattutto dai Gesuiti, inizia nel 1751 con la pubblicazione del primo volume e termina nel 1772 con la pubblicazione dei rimanenti 16 volumi e delle 11 tavole grafiche (a questi verranno poi aggiunti altri 5 tomi nel 1780). È una raccolta delle nuove idee in campo conoscitivo (il sottotitolo dell’opera è Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers) che erano nate in Europa, soprattutto a Londra e Parigi, centri propulsori del nuovo pensiero fondato sul culto della ragione. Fu stampata a Parigi in una tiratura di oltre 4500 copie vendute in tutta Europa: è un successo editoriale. Nell’opera emerge soprattutto il rinnovato interesse verso i saperi tecnici, evidente soprattutto nelle tavole grafiche che presentano una netta dissonanza col frontespizio dell’opera stessa dal gusto rococò. Questa contraddizione dell’apparato figurativo sottolinea una progressiva trasformazione del gusto nelle arti visive (dall’estetica barocca e rococò dell’Ancien Régime a quella illuminista della seconda metà del XVIII secolo con l’avvento della Rivoluzione francese). A questo si aggiunge la riscoperta dell’antico anche dal punto di vista materiale. Importanti in tal senso sono gli scavi di Pompei ed Ercolano. L’interesse europeo verso il mondo classico si esprime anche attraverso delle teorizzazioni scientifiche. Johann Joachim Winckelmann lavora a Roma per il cardinale Albani, importante collezionista di opere classiche. Nel 1755 pubblica I pensieri sull’imitazione, un’importante opera in cui si rintracciano i primi germi del gusto neoclassico. Nel frattempo, molti giovani benestanti intraprendono il viaggio del Grand Tour e prediligono l’Italia proprio per la sua ricchezza di antichità (anche per l’instabile situazione greca a causa dell’impero ottomano). Nel 1764 Winckelmann dà poi alla stampa la sua opera magna Storia dell’arte nell’antichità in cui teorizza una divisione in quattro periodi dell’arte classica, ognuno dei quali è caratterizzato da uno stile. I quattro stili individuati da Winckelmann nell’arte antica sono: lo stile primitivo, lo stile grandioso (Fidia), lo stile bello (Lisippo e Prassitele) e lo stile di imitazione (arte romana). L’antico non è guardato solo come modello stilistico a cui rifarsi, bensì anche nei suoi valori etici e morali di compostezza, quieta grandezza e nobile semplicità. Un’altra opera teorica importante nella genesi dell’estetica neoclassica è scritta da Anton Raphael Mengs con la supervisione di Winckelmann stesso e viene pubblicata nel 1762 col titolo di Pensieri sulla bellezza nella pittura. In quest’opera egli insiste sull’importanza di imitare i maestri antichi, i quali hanno compiuto nelle loro opere la correzione e il perfezionamento di quelle forme che in natura mostrano sempre, a un attento esame, difetti o imperfezioni. Con la riscoperta dell’antico e il proliferare di viaggiatori in Europa, si sviluppa il mercato del “souvenir”, fatto per i turisti e pensato per l’esportazione. L’idea che molti aristocratici europei e soprattutto nordici si faranno dell’antichità passerà proprio per i souvenir. In tal senso assume sicuramente un ruolo fondamentale l’opera di Giambattista Piranesi, architetto e incisore italiano le cui serie di stampe raffiguranti vedute di siti archeologici avranno molta fortuna in giro per il continente. Le stampe di Piranesi sono delle vedute sull’antichità viste da prospettive mai neutre, inquadrature non scontate e soggettive, spesso ravvicinate all’oggetto in modo che lo spettatore ne colga l’aspetto di magnificenza. La passione per l’antico trova un grande esempio nella villa progettata da Carlo Marchionni, costruita tra il 1747 e il 1763 per il cardinale Albani, grande collezionista di antiquariato. Villa Albani diviene uno spazio espositivo di grandissimo pregio e un luogo di ritrovo per alcuni dei più grandi intellettuali e artisti dell’epoca. Uno dei frequentatori del cenacolo fu infatti Mengs, il quale realizza un affresco per la Galleria nobile raffigurante un Parnaso che richiama il linguaggio di Raffaello e della statuaria classica (un modello è sicuramente l'Apollo del Belvedere). Rientra anche questo nel più diffuso gusto di citazionismo all’antico. Mengs negli anni ’60 del XVIII entra in qualità di docente all’accademia di San Luca a Roma, una tra le più importanti in Italia; arriva a Madrid negli anni ’70 e si fa portatore del gusto neoclassico in Europa. A Madrid diventa anche pittore di corte, il che dimostra la sua fama. Un saggio importante che si occupa di stile neoclassico è Trasformazioni nell’arte. Iconografia e stile tra neoclassicismo e romanticismo di Robert Rosenblum (1964). È probabilmente tra gli scritti che più hanno problematicizzato la definizione di Neoclassicismo. Rosenblum parte innanzitutto a dimostrare che le modalità di adesione degli artisti neoclassici ai modelli antichi ha sfumature diverse. Joseph-Marie Vien, per esempio, in un dipinto chiamato La marchande d’amours esposto al Salon del 1763 si rifà esplicitamente a un affresco del I d.C. riscoperto proprio nel XVIII a Stabia. Vien non era mai stato in Italia, ma conosce questo affresco grazie a un’incisione che viene dalla penisola. Il pittore francese era un artista dello stile rococò settecentesco e quindi risulta strano questo citazionismo a un modello antico. Rosenblum sottolinea infatti che Vien recepisce l’antico ancora attraverso un filtro rococò, rintracciabile nell’aggiunta di alcuni dettagli all’austera raffigurazione originale. Questa stessa austerità raffigurativa, con uno spazio ben definito da luce verticale e soggetti molto semplici, è la caratteristica principale in cui si rifugiano quegli artisti stufi dello sfarzo rococò. E così Rosenblum rintraccia altre riproduzioni dello stesso affresco a opera di Heinrich Füssli e di Jacques Louis David: il primo vira verso una caratterizzazione grottesca (la giovane venditrice diventa una vecchia megera, l’aria si fa tenebrosa etc.); il secondo opta per una semplificazione lineare degli elementi compositivi (carattere principale del Neoclassicismo). Così come dal modello antico nascono delle riletture neoclassiche diverse, dalla macro-etichetta del Neoclassicismo nascono delle micro-etichette neoclassiche. Due di queste sono: i. Neoclassicismo orrifico, come quello di John Hamilton Mortimer o Nicolaj Abildgaard (amico di Füssli a Roma). Intorno a Füssli rinasce un gusto michelangiolesco e tardomanierista degli elementi compositivi. È un Neoclassicismo che non mira solo a imitare l’antico nei suoi valori etici e morali e infatti sono prediletti le passioni violente. Esempi di questo Neoclassicismo possono essere il gruppo scultoreo di Ercole e Lica di Antonio Canova (1795-1815) o quello della Furia di Atamante realizzato da John Flaxman (1790-93). ii. Stoicismo neoclassico, il mondo antico viene impiegato per ricercare esempi di virtù morali e comportamenti nobili nei soggetti rappresentati. L’antichità è vista come pietra morale da imitare nella contemporaneità, come antidoto alla superficialità del gusto rococò. L’esempio di Jacques Louis David è il più emblematico. Flaxman si trovava a Roma tra gli anni ’80 e ’90 del XVIII secolo e fu uno dei creatori dello stile lineare neoclassico caratterizzato da pochissime ombreggiature e dalla purezza del disegno. Grande studioso dell’antichità, egli realizzò illustrazioni per la Commedia di Dante Alighieri, il che dimostra un grande interesse anche per il mondo medievale, un gusto storicistico che stava diffondendosi nell’élite culturale del tardo Settecento. Jacques Louis David è allievo di François Boucher prima e di Joseph-Marie Vien poi. Si forma quindi in ambito ancora pienamente rococò. Frequenta poi l’Académie royale dove viene sottoposto a un rigido tirocinio didattico dal quale riesce a liberarsi solo vincendo nel 1774 il Prix de Rome. Il soggiorno di un anno nella capitale gli permette di studiare dal vivo l’antichità classica e la pittura italiana e si interessa soprattutto a Caravaggio. Vive una forma di blocco rispetto a ciò che vede, ma verso la fine degli anni ’70 si sblocca durante un viaggio a Napoli e scrive che era come se l’avessero «operato di cataratta». Nello stesso periodo vediamo operare anche Canova e la genesi definitiva del gusto neoclassico. La prima opera che meglio esprime la riscoperta dell’antico di David è sicuramente il Belisario chiede l’elemosina del 1781. La chiave di volta di David in quest’opera, così come in molte altre, è la perfetta coincidenza e intenzionalità: a un valore etico-morale intransigente si accompagna una rappresentazione altrettanto intransigente. Lo schema compositivo segue una diagonale ascendente che parte dall’angolo in basso a destra e procede verso quello in alto a sinistra lungo la quale si innestano la scena e lo studio dell’architettura all’antica. La semplificazione delle linee compositive sarà un carattere fondamentale dello stile dell’artista. Uno dei capolavori di David, Il giuramento degli Orazi (1784-85), viene realizzato a Roma, città dove inizialmente è esposta la grande tela, in uno studio in Piazza del Popolo aperto al pubblico e che attira un gran numero di visitatori. Il successo è sicuramente dovuto anche al linguaggio formale molto semplificato che trasmette con chiarezza e immediatezza un contenuto fortemente esemplare: in David c’è la perfetta sintesi tra forma ed ethos. La vicenda qui rappresentata è trattata da Tito Livio nei suoi Ab urbe condita, anche se la scelta del contenuto probabilmente deriva non tanto dalla lettura dello storico quanto da un dramma di Pierre Corneille del 1781 dal titolo Horace. In nessuna delle due fonti viene però descritta allo stesso modo di David, perciò è verosimile pensare che la composizione sia frutto dell’artista. Viene raffigurato il momento del giuramento degli Orazi prima dello scontro coi Curiazi per il destino della guerra tra Roma e Alba Longa. La tripartizione della scena, suggerita anche dalla scansione geometrica dell’architettura all’antica, mette in contrasto i valori civili, rappresentati dagli uomini sulla sinistra e al centro intenti nel giuramento, e i valori familiari, rappresentati dalle donne e dai bambini raccolti in un doloroso pianto. Questa contrapposizione è accentuata anche da un diverso trattamento delle figure: se per gli uomini il disegno segue un andamento rettilineo duro nella definizione delle anatomie (es. i muscoli tesi, l’abbraccio che li stringe), per le donne il tratto si fa più malleabile. La perfetta coincidenza in David di stile e intenzionalità moralizzante è corroborata anche da tutta l’ambientazione del quadro, caratterizzata dallo stesso vigore di volontà e intelletto che domina l’immagine del giuramento. L’artista giunge a cristallizzare un’asserzione definitiva la cui potenza pittorica e al tempo stesso morale segna una cesura incolmabile fra un mondo vecchio e uno nuovo. La severità dello stile di David crea la tabula rasa di una nuova epoca. In quest’atmosfera limpida e fredda, una luce teatrale di acutezza caravaggesca definisce con massima plasticità le figure, i cui incisivi contorni sono riecheggiati nelle ombre nettamente delineate. Anche il colore condivide quest’austerità: respingendo completamente la morbidezza pastello e il calore del Settecento, quei colori primari, dalle tonalità freddamente metalliche hanno una qualità astringente che si accorda a una espressione di vigilanza morale. La pittura di David si inseriva nel solco del genere storico, il quale veniva considerato il più importante secondo una scala gerarchica dei generi pittorici. Diventò anche il pittore della Rivoluzione francese, ma ciò non vuol dire che ogni sua opera sia da leggere attraverso il filtro dii questo evento storico. David non si dedica solo al genere storico in questi anni, ma anche al genere del ritratto in cui ancora una volta possiamo intravedere la sua ammirazione per l’antichità: uomini contemporanei che vengono dipinti come eroi. Un esempio è il Ritratto di Monsieur Lavoisier e sua moglie del 1788 in cui viene raffigurato il chimico Antoine Lavoisier in abiti formali accompagnato dalla moglie, sottolineando così i valori di fedeltà coniugale e di dedizione al lavoro. L’uomo è raffigurato con uno stile idealizzato, caratteristica tipica del ritratto eroico. 07/10/2019 David, in una lettera a Wicar – collega e amico, importante personaggio nella diffusione del Neoclassicismo davidiano in Italia perché sarà presidente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli – del 14 giugno 1789 scrive «Sto facendo un quadro di mia pura invenzione. Si tratta di Bruto, uomo e padre, che si è privato dei figli e si è ritirato nell’intimità domestica, allorché gli si riportano le spoglie dei suoi due figli perché venga data loro la sepoltura. Egli, ai piedi della statua di Roma, viene bruscamente distolto dalla sua disperazione dalle grida di sua moglie e dalla paura e dallo svenimento della figlia maggiore.» I littori che riportano a Bruto il corpo dei suoi figli è un dipinto di genere storico che viene realizzato nel 1789, esattamente un mese prima della presa della Bastiglia e verrà esposto al Salon di quello stesso anno. La lezione del sacrificio personale è la più intransigente di tutte. È la storia di Lucio Giunio Bruto, fondatore della Repubblica di Roma, che ordinò la morte dei propri figli, Tito e Tiberio, per il loro colpevole tentativo di restaurare i Tarquini. Come per il giuramento, l’interpretazione del tema da parte di David è un’invenzione inconsueta per le fonti sia letterarie che pittoriche. Sceglie di rappresentare il momento che segue quello della decisione e rappresenta Bruto in uno stato di quiete contemplazione, che lo eleva su un piano più nobile e isolato di quanto avrebbe fatto una scena di mero orrore o conflitto drammatico. La frattura familiare già presente nel giuramento raggiunte qui la sua estrema definizione: le donne sono trasformate dal dolore in isteriche baccanti; Bruto si apparta dalla convulsa presenza di sua moglie e delle figlie e da quella funerea dei figli. C’è un vuoto impressionante che separa Bruto dalle donne ed enfatizza l’abisso tra lo stoicisimo maschile e il femminile abbandono alle passioni. Anche l’illuminazione teatrale sottolinea questo contrasto. La presenza di Bruto in qualità sia di padre che di tribuno della plebe è una novità e richiama l’Ugolino con i suoi figli di Joshua Reynolds, elemento che ci rivela che le innovazioni della pittura neoclassica davidiana riposano non solo sull’antico, ma anche su riferimenti appena precedenti come la pittura di Caravaggio e la pittura storicistica del Settecento inglese, conosciuta in Francia attraverso delle incisioni. Per questo alcuni studiosi hanno parlato addirittura di “anglofilia”. Nel modello di Reynolds il personaggio principale è costruit sulla base della lezione michelangiolesca dei profeti e degli antenati nella Cappella Sistina, e di rimbalzo lo stesso vale per il Bruto (come si può vedere, ad esempio, nella torsione del busto). Sebbene questo dipinto giochi moltissimo sui valori civili e morali, così come sulla dimensione politica di questa vicenda e si rifaccia al periodo virtuoso della Repubblica romana, non è ancora un prodotto della fase rivoluzionaria che arriverà, però, di lì a molto poco. David ha parte attiva nella Rivoluzione: è uno dei deputati della Convenzione (assemblea rivoluzionaria) e membro del Comitato di salute pubblica. Non è coinvolto però solo in quanto cittadino, bensì anche in quanto artista, diventando uno dei registi degli apparati effimeri delle feste rivoluzionari con vari disegni – come quello del carro trionfale – e varie caricature fondamentalmente antinglesi. Un esempio di queste caricature è un’incisione colorata a mano, nella cui explication David scrive «Questo governo inglese è rappresentato nella figura di un diavolo tutto vivo e cattivo». È quindi un’invettiva al regno inglese in cui la figura demoniaca ha tutti i simboli della decorazione imperiale e si accaparra tutte le mercanzie, configurandosi dunque anche come un attacco alla politica economica inglese. Sul posteriore della figura, poi, David disegna una seconda bocca attraverso la quale il diavolo vomita una serie di imposte sui cittadini inglesi. È interessante sottolineare questa produzione davidiana perché, ancora sul finire del Settecento, le gerarchie artistiche accademiche erano molto rigide ed è perciò singolare che il principale pittore storico diventi anche il principale caricaturista della Rivoluzione. Tutto ciò anticipa anche quella che sarà la lotta alle gerarchie dei generi artistici che dominerà l’intero secolo successivo. Della fase rivoluzionaria fa parte anche la trilogia dei martiri della Rivoluzione, composta dal dipinto – l’unico completo – Marat, il dipinto incompleto La Mort du jeune Bara e il disegno preparatorio del dipinto (andato distrutto) esposto alla Convenzione raffigurante il convenzionista Michel le Peletier che conosciamo attraverso un disegno di un allievo dell’artista. Il primo dipinto raffigura l’uccisione del rivoluzionario tribuno della plebe e direttore de L’ami du peuple (giornale della Rivoluzione francese) Jean-Paul Marat, accoltellato dalla girondina Charlotte Corday. L’opera gioca su una spazialità molto austera e scarna, dove la parte superiore è quasi monocroma se non per un fascio di luce che illumina il corpo morto di Marat. Si possono notare i dettagli del coltello insanguinato nell’angolo in basso a destra e, soprattutto, il braccio del tribuno che pende dalla tinozza in cui era solito lavorare a causa di una condizione della pelle di cui soffriva. Questo dettaglio è stato paragonato più e più volte all’iconografia della Pietà di Michelangelo e a quella della Deposizione di Cristo di Caravaggio, interpretando quindi Marat come una figura cristologica (da qui la definizione di martire della Rivoluzione). Allo stesso tempo, però, in questa tela così come in quella del giovane Bara, domina una dimensione più realistica della rappresentazione del corpo nudo cadavere. È come un germe di realismo all’interno della pittura neoclassica che ci porterà direttamente a Gericault. Un altro dipinto della fase rivoluzionaria è Le Sabine del 1799 che David inizia a dipingere in carcere dopo la caduta di Robespierre. Il messaggio politico è tradito dalla scelta di una scena che deriva direttamente dalla storia della Roma repubblicana in cui le Sabine si interpongono tra Romani e Sabini per impedire la lotta, esortando quindi la riconciliazione in Francia e promuovendo l’arginamento del fratricidio che si stava manifestando in quel periodo. Lo schema compositivo richiama un disegno all’acquaforte di James Gillray – uno dei maggiori caricaturisti inglesi dell’epoca – Sin, Death and the Devil del 1792, ottimo esempio dell’inizio di frizioni che si vengono a creare tra generi bassi e alti (aspetto presente anche all’interno dell’incisione stessa di Gillray). Finita la fase rivoluzionaria, inizia quella della pittura celebrativa napoleonica. È del 1800 il dipinto che inaugura questa fase: Bonaparte valica il Gran San Bernardo. La svola non è solo di carattere contenutistico, ma riguarda anche lo stile formale di David che dalla sobrietà delle fasi precedenti passa a uno stile più retoricamene enfatico come possiamo notare dal punto di vista ravvicinato e dall’ambientazione cupa dominata da un cielo nuvoloso. Questo cambiamento è ravvisabile anche nella produzione di alcuni suoi allievi, come testimonia un dipinto di Anne-Louis Girodet de RoussyTrioson dal titolo Ossian riceve i fantasmi degli eroi francesi caduti del 1801. Un altro dipinto di questo genere è Bonaparte visitant les pestiférés de Jaffa del 1804 di Antoine-Jean Gros che raffigura Napoleone durante le campagne d’Egitto che visita i malati. In questa tela il tono celebrativo assume un tono quasi grottesco riprendendo l’ideale del re taumaturgo nel gesto dell’imperatore che tocca il costato di uno dei malati con grande stupore del luogotenente che lo accompagna. L’architettura in questo caso non è all’antica bensì esotica. Un’allusione michelangiolesca è ravvisabile nella figura inginocchiata. In Italia uno dei maggiori pittori napoleonici è Andrea Appiani, il quale lavora in area lombarda ed è autore di vari ritratti napoleonici e di vari cicli celebrativi nella Cisalpina. Uno dei più importanti cicli che realizza è un fregio nel Salone delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano in cui si alternano fasti napoleonici ed elementi di miti antichi. Questa decorazione è andata perduta, ma la conosciamo grazie a delle copie realizzate nel XIX secolo. Quando nel 1822 muore Canova, la sua scomparsa ha impatto europeo e uno dei suoi fratellastri fa portare tutti i gessi dello scultore da Roma a Venezia prima, a Possagno poi, fondando la prima gipsoteca dedicata a un singolo artista, il che ci fa capire l’enorme fama che ebbe in vita Antonio Canova a livello europeo. Egli era riconosciuto in maniera unanime, se non per una frangia nordica che preferiva Bertel Thorvaldsen, come il più grande scultore vivente. Eppure, durante la sua vita assistiamo al progredire dell’estetica neoclassica verso quella romantica, che Canova non rispetta in quanto nella sua produzione non si rintraccia l’ispirazione lirica dell’artista, diventando per questo vittima di dure stroncature come quella di Roberto Longhi e Cesare Brandi nel XX secolo. Il primo sottolinea la repressione dello slancio lirico all’interno della produzione di Canova, mentre il secondo la ritrova solo nei bozzetti e disegni preparatori, per questo preferibili ai marmi finali; si critica principalmente l’eccessiva lavorazione della materia. Varie sono infatti le fasi compositive delle sculture di Canova: dopo un primo disegno preparatorio, questo veniva tradotto in un bozzetto in terracotta in cui si studiavano i rapportai spaziali tra le figure, per poi passare a un bozzetto in gesso di piccole dimensioni che servirà da modello per un modello a dimensioni reali prima in terracotta e poi in gesso. Da quest’ultimo, infine, deriva la traduzione in marmo che avveniva attraverso varie pratiche tecniche che facevano uso di chiodi, telai e altri strumenti. L’ultima fase non veniva neanche realizzata da Canova stesso, bensì dagli artisti del suo atelier, mentre lo scultore realizzava esclusivamente il toco finale levigando il marmo per dargli la sua forma finale. La riscoperta dell’arte neoclassica in Italia avverrà negli anni ’60-’70 del Novecento grazie ai contributi storiografici di Giulio Carlo Argan e Mario Praz. Il confronto con l’antico di Canova inizia già a Venezia e tra le opere della prima produzione di Canova è importante citare Dedalo e Icaro del 1778-79, in cui inizia ad affacciarsi un certo realismo nelle figure seppur siano ancora ravvisabili ascendenze tardo-barocche nell’abbraccio tra padre e figlio. Trasferitosi a Roma, inizia a essere protetto da ambasciatori veneziani. La prima vera opera di estetica neoclassica è Teseo sul Minotauro del 1781-83. In questo marmo l’artista si confronta con la statuaria classica che poteva studiare in una Roma dove avevano attecchito le idee di Winckelmann. La committenza di quest’opera è dell’ambasciatore della Repubblica di Venezia Zulian ed è un primo successo che gli aprirà le porte a committenze sempre più prestigiose. Il momento scelto nella raffigurazione è quello appena successivo alla fine della lotta, quello in cui Teseo vincitore siede sul corpo del Minotauro, il quale non viene scolpito secondo linee che ne esaltino la mostruosità. Questa rappresentazione è chiaramente influenzata dalle teorie winckelmanniane di quieta grandezza e nobile semplicità. Successivamente ottiene due delle più importanti committenze della sua carriera, quelle dei monumenti funerari di Papa Clemente XIV e Papa Clemente XIII realizzate tra il 1783 e il 1792. In entrambi gli esempi possiamo notare un’impostazione stilistica simile che consiste nella semplificazione degli elementi formali che seguono una scansione tripartita, la quale interrompe l’idea di continuità compositiva tipica di Bernini. Domina, qui, la ricerca di composizioni basilari, scandite e prive di decorazioni. Si fa anche un importante utilizzo delle figure allegoriche, una delle quali fa la sua comparsa anche nel monumento funerario di Vittorio Alfieri del 1806-10. Questo esempio è degno di nota perché ci porta a una lettura più impegnata dal punto di vista civile e politico dello scultore che, sebbene sia meno sensibile del contemporaneo David a tali tematiche, prende posizioni anche abbastanza forti come quella di inserire l’allegoria della Patria italiana nel suddetto monumento funebre. La stessa iconografia della nazione italiana piangente verrà poi recuperata filologicamente dal pittore Francesco Hayez nel Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri del 1820, il punto di inizio del Romanticismo storico italiano. Un’altra committenza di grande prestigio, poi, è quella per il monumento funerario di Maria Cristina d’Austria del 1798-1805. Peculiare per la sua forma piramidale, anche in questo monumento possiamo individuare due figure allegoriche: l’una, della Felicità Celeste, che regge il medaglione recante il volto della defunta in alto al centro; l’altra, della Beneficenza, che porta all’interno della stanza piramidale l’urna funeraria. 08/10/2019 La visione dell’antico di Piranesi è diversa da quella di Winckelmann o di Mengs, e permea anche le sue architetture, rimaste quasi tutte sulla carta. Ne realizza solo una sull’Aventino a Roma, la Chiesa di Santa Maria del Priorato del 1764 la cui facciata è ricca di elementi classici affastellati: non domina né la sobrietà né la ricerca di principi unitari, bensì una gran bizzarria nelle associazioni. Anche in alcune incisioni – come quella all’acquaforte della Decorazione del Caffè degli Inglesi del 1769 – in cui si sperimentano decorazioni architettoniche si vede il modo in cui egli gioca sulla fantasia inventiva e l’assenza di una ripresa filologica dell’architettura classica. Il suo utilizzo dell’architettura classica sarà influente anche sugli architetti della generazione successiva. In Francia, luogo di sperimentazione artistica, operano Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux, che diventeranno i due architetti emblematici del Neoclassicismo. Boullée, più un progettista che un vero e proprio architetto, insegna alla scuola di ingegneria. Il suo interesse principale riguarda l’architettura pubblica che egli paragona alla letteratura, nella convinzione che essa debba trasmettere dei sentimenti, una “architettura parlante” in cui l’elemento emozionale è insito nella fase progettuale. Lo scarto più grande dall’architettura di Piranesi è il nuovo rapporto tra forma e funzione dell’edificio: se per l’italiano la funzione è subordinata alla forma, per il francese avviene l’opposto (e anticipa così l’architettura razionale del Novecento). Questa nuova idea ha influenza su tutte le arti visive, anche sulla tipografia dove si ricerca la purezza della pagina ed è proprio in questo senso che il Neoclassicismo si configura come movimento di reazione alla tradizione rococò. Uno dei progetti più importanti di Boullée è il Cenotafio per Newton di cui abbiamo un’incisione raffigurante la sezione del 1784. Già la scelta di progettare un edificio per celebrare uno scienziato come Newton tradisce l’idea di architettura che portava avanti Boullée, oltre che l’ennesimo richiamo al trionfo della ragione. Il progetto sarà commentato da Madame Brogniart in una lettera indirizzata al marito Théodore del 1794 in cui la donna scrive «Avevate ragione voi: (...) Boullée è per l’architettura quello che David è per la pittura. (...) Io ve ne avevo sentito parlare qualche volta, ma non potevo figurarmi che cosa volesse dire produrre degli effetti morali in architettura come in pittura. È questo che io ho provato ieri, giovedì, presso il vostro maestro. (...) Andate a vedere che cosa è questa immaginazione piena di genio e di filosofia: dà a Newton per tomba l’immensità, e come dipingerla ai nostri occhi? (...) innanzi tutto c’è il globo del mondo, dal momento che è stato proprio Newton che ne ha scoperto per primo il movimento, e, sempre attraverso quelle luci di cui si sa servire così bene, ci sono attorno al globo dei canali che raccolgono la luce in modo di rifletterla nella volta dove forma le stelle. E la tomba è al centro come la stella polare, in maniera che questa tomba è posata come quando si è in una grande pianura o in mezzo al mare e non si vede altro che la volta celeste e si ha l’impressione di abitare realmente nell’immensità.» Claude-Nicolas Ledoux è, invece, un architetto molto attivo sia nella seconda metà del Settecento sia nel periodo dell’Ancien Régime. Uno dei suoi principali lavori riguarda delle case daziare che circondavano gli ingressi di Parigi realizzate tra il 1784 e il 1789. In questi progetti si nota il recupero di modelli architettonici classici, in alcuni casi tipici e in altri combinazione di elementi essenziali e mai decorativi. Come anche in Boullée, poi, si ricerca una geometrizzazione elementare dell’architettura (è il caso della forma sferica del monumento funebre a Isaac Newton). La realizzazione di maggiore importanza della carriera di Ledoux è, però, senza ombra di dubbio quella delle Saline di Arc et Senans del 1775-79, un esempio primordiale di architettura industriale che nelle intenzioni dell’architetto doveva essere il cuore di una città ideale, raffigurata in un’incisione del 1804. Dalla stessa incisione possiamo notare che secondo il progetto originario dell’architetto le Saline avrebbero dovuto essere di forma circolare, ma è stata realizzata solo una parte di forma semicircolare della manifattura modello. È concepito come un vasto anfiteatro separato dall’ambiente circostante da un muro di cinta che ne segna il perimetro esterno. Lungo l’emiciclo sono disposti cinque tipi di edifici: il gigantesco ingresso, collocato in posizione centrale, è affiancato su ciascun lato da due fabbricati per le abitazioni degli operai e le funzioni collettive. Alle estremità est e ovest sono collocati due padiglioni che ospitano il personale amministrativo preposto al controllo della produzione, mentre al centro sorgono la maestosa Casa del direttore e gli edifici per la lavorazione del sale. Per il tempo libero l’architetto aveva previsto la messa a dimora di orti dietro ai padiglioni abitativi, utili anche allo scopo di integrare la dieta alimentare oltre che al divertimento e allo svago degli operai. Una caratteristica che ci fa capire che è comunque una produzione del suo tempo è la netta differenza di dimensioni tra le case degli operai e quella del direttore dalle forme palladiane posta lungo il diametro dell’emiciclo. In Italia attecchiscono anche le forme neoclassiche proposte da questi architetti, di cui un esempio è il progetto del Foro Bonaparte del 1801 a opera di Giovanni Antonio Antolini. Questo si sarebbe configurata come una vera e propria città ideale che avrebbe abbracciato il Castello Sforzesco a Milano, ma per la forte instabilità politica non fu mai realizzato. Heinrich Füssli si forma a Zurigo dove è seguace di Johann Jakob Bodmer – figura cruciale dello Sturm und Drang – di cui segue le lezioni di filosofia negli anni ’60 del Settecento. Bodmer è uno dei primi a tradurre Dante e Shakespeare ed è un punto nodale del passaggio di gusto dal razionale all’irrazionale. Füssli arriva poi in Italia negli anni ’70 dove si confronta con l’antico di cui amira e analizza la grandezza e grandiosità. Importante è anche il fatto che Füssli guardi l’antico anche attraverso l’estetica del Sublime teorizzata da Edmund Burke in A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful del 1757. In questo trattato il filosofo sottolinea come il piacere estetico si diffonda anche attraverso le tenebre e il terrore. La grandezza classica ha un effetto conturbante, come raffigura l’artista svizzero nell’incisione L’artista commosso dalla grandezza delle rovine antiche del 1778 circa. Questo approccio si traduce anche sul piano pittorico nel Giuramento dei confederati sul Rüttli del 1780. In questa tela, Füssli raffigura un evento della storia nazionale svizzera tratta dal Medioevo che si inserisce nell’idea di riscoperta dell’identità nazionale. Alla composizione sobria e pensata di David, Füssli sostituisce uno stile che potremmo definire michelangiolesco o tardomanierista. Un’altra tela come L’incubo del 1781 tradisce la sua passione per il mistero. Quest’opera dalla posa figurativa drammaticamente esasperata con la donna che pende dal letto in cui sta sognando verrà molto ripresa dalle pubblicità ottocentesche e novecentesche, nonché dal cinema di David Lynch. Verso la fine del secolo, Füssli diventerà professore alla Royal Academy, senza mai però diventare un pittore accademico. Un altro personaggio fondamentale per l’evoluzione del gusto estetico tra Settecento e Ottocento è Francisco Goya. Il suo percorso sarà singolare, per certi versi periferico in quanto opererà principalmente a Madrid, nonostante un soggiorno a Roma negli anni ’70 del XVIII secolo. Ha una formazione illuminista e intrattiene contatti con i centri più progressisti della Spagna. Il parasole del 1777 è una tela di quella che potremmo definire la sua prima fase pittorica, in cui risente fortemente dell’influenza di Giambattista Tiepolo, pittore di corte a Madrid fino all’arrivo di Mengs, il quale invece non avrà alcuna influenza sullo stile di Goya. La sua evoluzione pittorica passa però anche per il viaggio in Italia e per lo studio della pittura spagnola del Seicento, in particolar modo quella di Diego Velázquez che diventerà il suo principale termine di paragone. Inizia dagli anni ’80 il suo progressivo ingresso nell’orbita della Corte spagnola, diventando il principale ritrattista dell’aristocrazia. Realizza nel 1797 il Ritratto della duchessa de Alba in nero in cui possiamo notare come l’artista si approcci al genere del ritratto con un piglio realistico. Nella tela, la duchessa col dito indica la firma dell’artista. Contemporaneamente sviluppa anche un interesse per il paranormale e la magia, come testimoniano tele quali Sabba delle Streghe e Vuelo de brujas del 1797-98 dove però l’artista tiene comunque conto delle credenze razionali che dominano nel Settecento. Nella prima tela c’è una commistione tra mondo cristiano e mondo classico; nella seconda un tentativo da parte di Goya di studio degli elementi soprannaturali che vengono tradotti in termini terreni e dove i cappelli a punta delle streghe richiamano la tradizione dei flagellanti. Goya realizza anche una serie di tavole chiamate Caprichos intorno al 1799 e che vengono pubblicate sul Diario de Madrid. In questo ciclo, Goya attua un’operazione di censura dei vizi e dei pregiudizi della società spagnola in un clima politico in cui sopravviveva l’assolutismo monarchico e l’Inquisizione cattolica. Una tavola in particolare ha avuto particolare fortuna ed è Il sogno della ragione genera mostri in cui raffigura un incubo che emerge al sopire della ragione. Altre tavole raffigurano il carnevale, festa in cui si ribaltano i costumi: il servo diventa padrone, l’animale cavalca l’uomo. L’immaginario a cui attinge Goya non è colto e la satira attacca anche il mondo del clero, aspetto che condanna il ciclo al sequestro. L’archetipo di un ciclo dal contenuto morale ha un precedente in William Hogart, un pittore inglese tra i primi a vendere una serie di stampe che narravano la storia di una prostituta. Goya vende questa serie di stampe in una bottega di profumi e liquori, interviene privatamente nella formazione morale del popolo. Negli stessi anni Goya continua a lavorare anche come pittore di Corte. Nel 1783-84 realizza La famiglia dell’Infante Don Luis di Borbone, il primo ritratto di gruppo realizzato da Goya. Questo genere tornerà nella Famiglia di Carlo IV del 1800-01, opera di cui conosciamo la genesi grazie alla corrispondenza della regnante col suo amante. L’artista realizza dieci ritratti singoli di tutti i componenti della famiglia reale che poi unisce in questa grande tela. Sulla sinistra, poi, c’è un autoritratto dell’artista, un erudito riferimento alla pittura di Velázquez. La regina apprezzerà molto questo dipinto nonostante le fattezze poco generose restituite da Goya di tutti i personaggi. Spesso si analizza questo dipinto come una spietata critica alla dissolutezza morale della famiglia, ma dalla reazione della regnante è probabile che sia una proiezione successiva, una lettura che non apparteneva all’epoca. Sicuramente una lettura del genere è stata fatta dal critico francese Théophile Gautier negli anni ’40 dell’Ottocento. Al ritorno del re dopo la Restaurazione, nel 1814, realizza due dipinti di grande importanza storica: 2 maggio 1808: la carica dei Mammelucchi e 3 maggio 1808. In queste tele rappresenta la resistenza spagnola contro gli invasori francesi, rivelando lo spirito antinapoleonico dell’artista. Pochi anni dopo inizierà la fase finale della produzione artistica di Goya corrispondente a un periodo di forte isolamento che lo porterà a soluzioni figurative più cupe e cruente come quella del Saturno che divora i suoi figli del 1821-23.