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Appunti storia dell'arte contemporanea - Neoclassicismo e Goya

APPUNTI STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA
02/10/2019
L’Encyclopédie a cura di Denis Diderot e Jean Baptist Le Rond d’Alembert è un caposaldo del
pensiero occidentale e la summa del pensiero illuminista. Il progetto, nonostante venga fortemente
osteggiato dalle forze più conservatrici e soprattutto dai Gesuiti, inizia nel 1751 con la pubblicazione
del primo volume e termina nel 1772 con la pubblicazione dei rimanenti 16 volumi e delle 11 tavole
grafiche (a questi verranno poi aggiunti altri 5 tomi nel 1780). È una raccolta delle nuove idee in
campo conoscitivo (il sottotitolo dell’opera è Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des
métiers) che erano nate in Europa, soprattutto a Londra e Parigi, centri propulsori del nuovo pensiero
fondato sul culto della ragione. Fu stampata a Parigi in una tiratura di oltre 4500 copie vendute in
tutta Europa: è un successo editoriale. Nell’opera emerge soprattutto il rinnovato interesse verso i
saperi tecnici, evidente soprattutto nelle tavole grafiche che presentano una netta dissonanza col
frontespizio dell’opera stessa dal gusto rococò. Questa contraddizione dell’apparato figurativo
sottolinea una progressiva trasformazione del gusto nelle arti visive (dall’estetica barocca e rococò
dell’Ancien Régime a quella illuminista della seconda metà del XVIII secolo con l’avvento della
Rivoluzione francese).
A questo si aggiunge la riscoperta dell’antico anche dal punto di vista materiale. Importanti in tal
senso sono gli scavi di Pompei ed Ercolano. L’interesse europeo verso il mondo classico si esprime
anche attraverso delle teorizzazioni scientifiche. Johann Joachim Winckelmann lavora a Roma per il
cardinale Albani, importante collezionista di opere classiche. Nel 1755 pubblica I pensieri
sull’imitazione, un’importante opera in cui si rintracciano i primi germi del gusto neoclassico. Nel
frattempo, molti giovani benestanti intraprendono il viaggio del Grand Tour e prediligono l’Italia
proprio per la sua ricchezza di antichità (anche per l’instabile situazione greca a causa dell’impero
ottomano). Nel 1764 Winckelmann dà poi alla stampa la sua opera magna Storia dell’arte
nell’antichità in cui teorizza una divisione in quattro periodi dell’arte classica, ognuno dei quali è
caratterizzato da uno stile. I quattro stili individuati da Winckelmann nell’arte antica sono: lo stile
primitivo, lo stile grandioso (Fidia), lo stile bello (Lisippo e Prassitele) e lo stile di imitazione (arte
romana). L’antico non è guardato solo come modello stilistico a cui rifarsi, bensì anche nei suoi valori
etici e morali di compostezza, quieta grandezza e nobile semplicità. Un’altra opera teorica importante
nella genesi dell’estetica neoclassica è scritta da Anton Raphael Mengs con la supervisione di
Winckelmann stesso e viene pubblicata nel 1762 col titolo di Pensieri sulla bellezza nella pittura. In
quest’opera egli insiste sull’importanza di imitare i maestri antichi, i quali hanno compiuto nelle loro
opere la correzione e il perfezionamento di quelle forme che in natura mostrano sempre, a un attento
esame, difetti o imperfezioni.
Con la riscoperta dell’antico e il proliferare di viaggiatori in Europa, si sviluppa il mercato del
“souvenir”, fatto per i turisti e pensato per l’esportazione. L’idea che molti aristocratici europei e
soprattutto nordici si faranno dell’antichità passerà proprio per i souvenir. In tal senso assume
sicuramente un ruolo fondamentale l’opera di Giambattista Piranesi, architetto e incisore italiano le
cui serie di stampe raffiguranti vedute di siti archeologici avranno molta fortuna in giro per il
continente. Le stampe di Piranesi sono delle vedute sull’antichità viste da prospettive mai neutre,
inquadrature non scontate e soggettive, spesso ravvicinate all’oggetto in modo che lo spettatore ne
colga l’aspetto di magnificenza.
La passione per l’antico trova un grande esempio nella villa progettata da Carlo Marchionni, costruita
tra il 1747 e il 1763 per il cardinale Albani, grande collezionista di antiquariato. Villa Albani diviene
uno spazio espositivo di grandissimo pregio e un luogo di ritrovo per alcuni dei più grandi intellettuali
e artisti dell’epoca. Uno dei frequentatori del cenacolo fu infatti Mengs, il quale realizza un affresco
per la Galleria nobile raffigurante un Parnaso che richiama il linguaggio di Raffaello e della statuaria
classica (un modello è sicuramente l'Apollo del Belvedere). Rientra anche questo nel più diffuso gusto
di citazionismo all’antico. Mengs negli anni ’60 del XVIII entra in qualità di docente all’accademia
di San Luca a Roma, una tra le più importanti in Italia; arriva a Madrid negli anni ’70 e si fa portatore
del gusto neoclassico in Europa. A Madrid diventa anche pittore di corte, il che dimostra la sua fama.
Un saggio importante che si occupa di stile neoclassico è Trasformazioni nell’arte. Iconografia e stile
tra neoclassicismo e romanticismo di Robert Rosenblum (1964). È probabilmente tra gli scritti che
più hanno problematicizzato la definizione di Neoclassicismo. Rosenblum parte innanzitutto a
dimostrare che le modalità di adesione degli artisti neoclassici ai modelli antichi ha sfumature diverse.
Joseph-Marie Vien, per esempio, in un dipinto chiamato La marchande d’amours esposto al Salon
del 1763 si rifà esplicitamente a un affresco del I d.C. riscoperto proprio nel XVIII a Stabia. Vien non
era mai stato in Italia, ma conosce questo affresco grazie a un’incisione che viene dalla penisola. Il
pittore francese era un artista dello stile rococò settecentesco e quindi risulta strano questo
citazionismo a un modello antico. Rosenblum sottolinea infatti che Vien recepisce l’antico ancora
attraverso un filtro rococò, rintracciabile nell’aggiunta di alcuni dettagli all’austera raffigurazione
originale. Questa stessa austerità raffigurativa, con uno spazio ben definito da luce verticale e soggetti
molto semplici, è la caratteristica principale in cui si rifugiano quegli artisti stufi dello sfarzo rococò.
E così Rosenblum rintraccia altre riproduzioni dello stesso affresco a opera di Heinrich Füssli e di
Jacques Louis David: il primo vira verso una caratterizzazione grottesca (la giovane venditrice
diventa una vecchia megera, l’aria si fa tenebrosa etc.); il secondo opta per una semplificazione
lineare degli elementi compositivi (carattere principale del Neoclassicismo).
Così come dal modello antico nascono delle riletture neoclassiche diverse, dalla macro-etichetta del
Neoclassicismo nascono delle micro-etichette neoclassiche. Due di queste sono:
i.
Neoclassicismo orrifico, come quello di John Hamilton Mortimer o Nicolaj Abildgaard
(amico di Füssli a Roma). Intorno a Füssli rinasce un gusto michelangiolesco e
tardomanierista degli elementi compositivi. È un Neoclassicismo che non mira solo a imitare
l’antico nei suoi valori etici e morali e infatti sono prediletti le passioni violente. Esempi di
questo Neoclassicismo possono essere il gruppo scultoreo di Ercole e Lica di Antonio
Canova (1795-1815) o quello della Furia di Atamante realizzato da John Flaxman (1790-93).
ii.
Stoicismo neoclassico, il mondo antico viene impiegato per ricercare esempi di virtù morali
e comportamenti nobili nei soggetti rappresentati. L’antichità è vista come pietra morale da
imitare nella contemporaneità, come antidoto alla superficialità del gusto rococò. L’esempio
di Jacques Louis David è il più emblematico.
Flaxman si trovava a Roma tra gli anni ’80 e ’90 del XVIII secolo e fu uno dei creatori dello stile
lineare neoclassico caratterizzato da pochissime ombreggiature e dalla purezza del disegno. Grande
studioso dell’antichità, egli realizzò illustrazioni per la Commedia di Dante Alighieri, il che dimostra
un grande interesse anche per il mondo medievale, un gusto storicistico che stava diffondendosi
nell’élite culturale del tardo Settecento.
Jacques Louis David è allievo di François Boucher prima e di Joseph-Marie Vien poi. Si forma quindi
in ambito ancora pienamente rococò. Frequenta poi l’Académie royale dove viene sottoposto a un
rigido tirocinio didattico dal quale riesce a liberarsi solo vincendo nel 1774 il Prix de Rome. Il
soggiorno di un anno nella capitale gli permette di studiare dal vivo l’antichità classica e la pittura
italiana e si interessa soprattutto a Caravaggio. Vive una forma di blocco rispetto a ciò che vede, ma
verso la fine degli anni ’70 si sblocca durante un viaggio a Napoli e scrive che era come se l’avessero
«operato di cataratta». Nello stesso periodo vediamo operare anche Canova e la genesi definitiva del
gusto neoclassico. La prima opera che meglio esprime la riscoperta dell’antico di David è sicuramente
il Belisario chiede l’elemosina del 1781. La chiave di volta di David in quest’opera, così come in
molte altre, è la perfetta coincidenza e intenzionalità: a un valore etico-morale intransigente si
accompagna una rappresentazione altrettanto intransigente. Lo schema compositivo segue una
diagonale ascendente che parte dall’angolo in basso a destra e procede verso quello in alto a sinistra
lungo la quale si innestano la scena e lo studio dell’architettura all’antica. La semplificazione delle
linee compositive sarà un carattere fondamentale dello stile dell’artista. Uno dei capolavori di David,
Il giuramento degli Orazi (1784-85), viene realizzato a Roma, città dove inizialmente è esposta la
grande tela, in uno studio in Piazza del Popolo aperto al pubblico e che attira un gran numero di
visitatori. Il successo è sicuramente dovuto anche al linguaggio formale molto semplificato che
trasmette con chiarezza e immediatezza un contenuto fortemente esemplare: in David c’è la perfetta
sintesi tra forma ed ethos. La vicenda qui rappresentata è trattata da Tito Livio nei suoi Ab urbe
condita, anche se la scelta del contenuto probabilmente deriva non tanto dalla lettura dello storico
quanto da un dramma di Pierre Corneille del 1781 dal titolo Horace. In nessuna delle due fonti viene
però descritta allo stesso modo di David, perciò è verosimile pensare che la composizione sia frutto
dell’artista. Viene raffigurato il momento del giuramento degli Orazi prima dello scontro coi Curiazi
per il destino della guerra tra Roma e Alba Longa. La tripartizione della scena, suggerita anche dalla
scansione geometrica dell’architettura all’antica, mette in contrasto i valori civili, rappresentati dagli
uomini sulla sinistra e al centro intenti nel giuramento, e i valori familiari, rappresentati dalle donne
e dai bambini raccolti in un doloroso pianto. Questa contrapposizione è accentuata anche da un
diverso trattamento delle figure: se per gli uomini il disegno segue un andamento rettilineo duro nella
definizione delle anatomie (es. i muscoli tesi, l’abbraccio che li stringe), per le donne il tratto si fa
più malleabile. La perfetta coincidenza in David di stile e intenzionalità moralizzante è corroborata
anche da tutta l’ambientazione del quadro, caratterizzata dallo stesso vigore di volontà e intelletto che
domina l’immagine del giuramento. L’artista giunge a cristallizzare un’asserzione definitiva la cui
potenza pittorica e al tempo stesso morale segna una cesura incolmabile fra un mondo vecchio e uno
nuovo. La severità dello stile di David crea la tabula rasa di una nuova epoca. In quest’atmosfera
limpida e fredda, una luce teatrale di acutezza caravaggesca definisce con massima plasticità le figure,
i cui incisivi contorni sono riecheggiati nelle ombre nettamente delineate. Anche il colore condivide
quest’austerità: respingendo completamente la morbidezza pastello e il calore del Settecento, quei
colori primari, dalle tonalità freddamente metalliche hanno una qualità astringente che si accorda a
una espressione di vigilanza morale. La pittura di David si inseriva nel solco del genere storico, il
quale veniva considerato il più importante secondo una scala gerarchica dei generi pittorici. Diventò
anche il pittore della Rivoluzione francese, ma ciò non vuol dire che ogni sua opera sia da leggere
attraverso il filtro dii questo evento storico.
David non si dedica solo al genere storico in questi anni, ma anche al genere del ritratto in cui ancora
una volta possiamo intravedere la sua ammirazione per l’antichità: uomini contemporanei che
vengono dipinti come eroi. Un esempio è il Ritratto di Monsieur Lavoisier e sua moglie del 1788 in
cui viene raffigurato il chimico Antoine Lavoisier in abiti formali accompagnato dalla moglie,
sottolineando così i valori di fedeltà coniugale e di dedizione al lavoro. L’uomo è raffigurato con uno
stile idealizzato, caratteristica tipica del ritratto eroico.
07/10/2019
David, in una lettera a Wicar – collega e amico, importante personaggio nella diffusione del
Neoclassicismo davidiano in Italia perché sarà presidente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli –
del 14 giugno 1789 scrive «Sto facendo un quadro di mia pura invenzione. Si tratta di Bruto, uomo e
padre, che si è privato dei figli e si è ritirato nell’intimità domestica, allorché gli si riportano le spoglie
dei suoi due figli perché venga data loro la sepoltura. Egli, ai piedi della statua di Roma, viene
bruscamente distolto dalla sua disperazione dalle grida di sua moglie e dalla paura e dallo svenimento
della figlia maggiore.» I littori che riportano a Bruto il corpo dei suoi figli è un dipinto di genere
storico che viene realizzato nel 1789, esattamente un mese prima della presa della Bastiglia e verrà
esposto al Salon di quello stesso anno. La lezione del sacrificio personale è la più intransigente di
tutte. È la storia di Lucio Giunio Bruto, fondatore della Repubblica di Roma, che ordinò la morte dei
propri figli, Tito e Tiberio, per il loro colpevole tentativo di restaurare i Tarquini. Come per il
giuramento, l’interpretazione del tema da parte di David è un’invenzione inconsueta per le fonti sia
letterarie che pittoriche. Sceglie di rappresentare il momento che segue quello della decisione e
rappresenta Bruto in uno stato di quiete contemplazione, che lo eleva su un piano più nobile e isolato
di quanto avrebbe fatto una scena di mero orrore o conflitto drammatico. La frattura familiare già
presente nel giuramento raggiunte qui la sua estrema definizione: le donne sono trasformate dal dolore
in isteriche baccanti; Bruto si apparta dalla convulsa presenza di sua moglie e delle figlie e da quella
funerea dei figli. C’è un vuoto impressionante che separa Bruto dalle donne ed enfatizza l’abisso tra
lo stoicisimo maschile e il femminile abbandono alle passioni. Anche l’illuminazione teatrale
sottolinea questo contrasto. La presenza di Bruto in qualità sia di padre che di tribuno della plebe è
una novità e richiama l’Ugolino con i suoi figli di Joshua Reynolds, elemento che ci rivela che le
innovazioni della pittura neoclassica davidiana riposano non solo sull’antico, ma anche su riferimenti
appena precedenti come la pittura di Caravaggio e la pittura storicistica del Settecento inglese,
conosciuta in Francia attraverso delle incisioni. Per questo alcuni studiosi hanno parlato addirittura
di “anglofilia”. Nel modello di Reynolds il personaggio principale è costruit sulla base della lezione
michelangiolesca dei profeti e degli antenati nella Cappella Sistina, e di rimbalzo lo stesso vale per il
Bruto (come si può vedere, ad esempio, nella torsione del busto). Sebbene questo dipinto giochi
moltissimo sui valori civili e morali, così come sulla dimensione politica di questa vicenda e si rifaccia
al periodo virtuoso della Repubblica romana, non è ancora un prodotto della fase rivoluzionaria che
arriverà, però, di lì a molto poco.
David ha parte attiva nella Rivoluzione: è uno dei deputati della Convenzione (assemblea
rivoluzionaria) e membro del Comitato di salute pubblica. Non è coinvolto però solo in quanto
cittadino, bensì anche in quanto artista, diventando uno dei registi degli apparati effimeri delle feste
rivoluzionari con vari disegni – come quello del carro trionfale – e varie caricature fondamentalmente
antinglesi. Un esempio di queste caricature è un’incisione colorata a mano, nella cui explication
David scrive «Questo governo inglese è rappresentato nella figura di un diavolo tutto vivo e cattivo».
È quindi un’invettiva al regno inglese in cui la figura demoniaca ha tutti i simboli della decorazione
imperiale e si accaparra tutte le mercanzie, configurandosi dunque anche come un attacco alla politica
economica inglese. Sul posteriore della figura, poi, David disegna una seconda bocca attraverso la
quale il diavolo vomita una serie di imposte sui cittadini inglesi. È interessante sottolineare questa
produzione davidiana perché, ancora sul finire del Settecento, le gerarchie artistiche accademiche
erano molto rigide ed è perciò singolare che il principale pittore storico diventi anche il principale
caricaturista della Rivoluzione. Tutto ciò anticipa anche quella che sarà la lotta alle gerarchie dei
generi artistici che dominerà l’intero secolo successivo.
Della fase rivoluzionaria fa parte anche la trilogia dei martiri della Rivoluzione, composta dal dipinto
– l’unico completo – Marat, il dipinto incompleto La Mort du jeune Bara e il disegno preparatorio
del dipinto (andato distrutto) esposto alla Convenzione raffigurante il convenzionista Michel le
Peletier che conosciamo attraverso un disegno di un allievo dell’artista. Il primo dipinto raffigura
l’uccisione del rivoluzionario tribuno della plebe e direttore de L’ami du peuple (giornale della
Rivoluzione francese) Jean-Paul Marat, accoltellato dalla girondina Charlotte Corday. L’opera gioca
su una spazialità molto austera e scarna, dove la parte superiore è quasi monocroma se non per un
fascio di luce che illumina il corpo morto di Marat. Si possono notare i dettagli del coltello
insanguinato nell’angolo in basso a destra e, soprattutto, il braccio del tribuno che pende dalla tinozza
in cui era solito lavorare a causa di una condizione della pelle di cui soffriva. Questo dettaglio è stato
paragonato più e più volte all’iconografia della Pietà di Michelangelo e a quella della Deposizione di
Cristo di Caravaggio, interpretando quindi Marat come una figura cristologica (da qui la definizione
di martire della Rivoluzione). Allo stesso tempo, però, in questa tela così come in quella del giovane
Bara, domina una dimensione più realistica della rappresentazione del corpo nudo cadavere. È come
un germe di realismo all’interno della pittura neoclassica che ci porterà direttamente a Gericault. Un
altro dipinto della fase rivoluzionaria è Le Sabine del 1799 che David inizia a dipingere in carcere
dopo la caduta di Robespierre. Il messaggio politico è tradito dalla scelta di una scena che deriva
direttamente dalla storia della Roma repubblicana in cui le Sabine si interpongono tra Romani e
Sabini per impedire la lotta, esortando quindi la riconciliazione in Francia e promuovendo
l’arginamento del fratricidio che si stava manifestando in quel periodo. Lo schema compositivo
richiama un disegno all’acquaforte di James Gillray – uno dei maggiori caricaturisti inglesi dell’epoca
– Sin, Death and the Devil del 1792, ottimo esempio dell’inizio di frizioni che si vengono a creare tra
generi bassi e alti (aspetto presente anche all’interno dell’incisione stessa di Gillray).
Finita la fase rivoluzionaria, inizia quella della pittura celebrativa napoleonica. È del 1800 il dipinto
che inaugura questa fase: Bonaparte valica il Gran San Bernardo. La svola non è solo di carattere
contenutistico, ma riguarda anche lo stile formale di David che dalla sobrietà delle fasi precedenti
passa a uno stile più retoricamene enfatico come possiamo notare dal punto di vista ravvicinato e
dall’ambientazione cupa dominata da un cielo nuvoloso. Questo cambiamento è ravvisabile anche
nella produzione di alcuni suoi allievi, come testimonia un dipinto di Anne-Louis Girodet de RoussyTrioson dal titolo Ossian riceve i fantasmi degli eroi francesi caduti del 1801. Un altro dipinto di
questo genere è Bonaparte visitant les pestiférés de Jaffa del 1804 di Antoine-Jean Gros che raffigura
Napoleone durante le campagne d’Egitto che visita i malati. In questa tela il tono celebrativo assume
un tono quasi grottesco riprendendo l’ideale del re taumaturgo nel gesto dell’imperatore che tocca il
costato di uno dei malati con grande stupore del luogotenente che lo accompagna. L’architettura in
questo caso non è all’antica bensì esotica. Un’allusione michelangiolesca è ravvisabile nella figura
inginocchiata. In Italia uno dei maggiori pittori napoleonici è Andrea Appiani, il quale lavora in area
lombarda ed è autore di vari ritratti napoleonici e di vari cicli celebrativi nella Cisalpina. Uno dei più
importanti cicli che realizza è un fregio nel Salone delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano in cui si
alternano fasti napoleonici ed elementi di miti antichi. Questa decorazione è andata perduta, ma la
conosciamo grazie a delle copie realizzate nel XIX secolo.
Quando nel 1822 muore Canova, la sua scomparsa ha impatto europeo e uno dei suoi fratellastri fa
portare tutti i gessi dello scultore da Roma a Venezia prima, a Possagno poi, fondando la prima
gipsoteca dedicata a un singolo artista, il che ci fa capire l’enorme fama che ebbe in vita Antonio
Canova a livello europeo. Egli era riconosciuto in maniera unanime, se non per una frangia nordica
che preferiva Bertel Thorvaldsen, come il più grande scultore vivente. Eppure, durante la sua vita
assistiamo al progredire dell’estetica neoclassica verso quella romantica, che Canova non rispetta in
quanto nella sua produzione non si rintraccia l’ispirazione lirica dell’artista, diventando per questo
vittima di dure stroncature come quella di Roberto Longhi e Cesare Brandi nel XX secolo. Il primo
sottolinea la repressione dello slancio lirico all’interno della produzione di Canova, mentre il secondo
la ritrova solo nei bozzetti e disegni preparatori, per questo preferibili ai marmi finali; si critica
principalmente l’eccessiva lavorazione della materia. Varie sono infatti le fasi compositive delle
sculture di Canova: dopo un primo disegno preparatorio, questo veniva tradotto in un bozzetto in
terracotta in cui si studiavano i rapportai spaziali tra le figure, per poi passare a un bozzetto in gesso
di piccole dimensioni che servirà da modello per un modello a dimensioni reali prima in terracotta e
poi in gesso. Da quest’ultimo, infine, deriva la traduzione in marmo che avveniva attraverso varie
pratiche tecniche che facevano uso di chiodi, telai e altri strumenti. L’ultima fase non veniva neanche
realizzata da Canova stesso, bensì dagli artisti del suo atelier, mentre lo scultore realizzava
esclusivamente il toco finale levigando il marmo per dargli la sua forma finale. La riscoperta dell’arte
neoclassica in Italia avverrà negli anni ’60-’70 del Novecento grazie ai contributi storiografici di
Giulio Carlo Argan e Mario Praz.
Il confronto con l’antico di Canova inizia già a Venezia e tra le opere della prima produzione di
Canova è importante citare Dedalo e Icaro del 1778-79, in cui inizia ad affacciarsi un certo realismo
nelle figure seppur siano ancora ravvisabili ascendenze tardo-barocche nell’abbraccio tra padre e
figlio. Trasferitosi a Roma, inizia a essere protetto da ambasciatori veneziani. La prima vera opera di
estetica neoclassica è Teseo sul Minotauro del 1781-83. In questo marmo l’artista si confronta con la
statuaria classica che poteva studiare in una Roma dove avevano attecchito le idee di Winckelmann.
La committenza di quest’opera è dell’ambasciatore della Repubblica di Venezia Zulian ed è un primo
successo che gli aprirà le porte a committenze sempre più prestigiose. Il momento scelto nella
raffigurazione è quello appena successivo alla fine della lotta, quello in cui Teseo vincitore siede sul
corpo del Minotauro, il quale non viene scolpito secondo linee che ne esaltino la mostruosità. Questa
rappresentazione è chiaramente influenzata dalle teorie winckelmanniane di quieta grandezza e nobile
semplicità. Successivamente ottiene due delle più importanti committenze della sua carriera, quelle
dei monumenti funerari di Papa Clemente XIV e Papa Clemente XIII realizzate tra il 1783 e il 1792.
In entrambi gli esempi possiamo notare un’impostazione stilistica simile che consiste nella
semplificazione degli elementi formali che seguono una scansione tripartita, la quale interrompe
l’idea di continuità compositiva tipica di Bernini. Domina, qui, la ricerca di composizioni basilari,
scandite e prive di decorazioni. Si fa anche un importante utilizzo delle figure allegoriche, una delle
quali fa la sua comparsa anche nel monumento funerario di Vittorio Alfieri del 1806-10. Questo
esempio è degno di nota perché ci porta a una lettura più impegnata dal punto di vista civile e politico
dello scultore che, sebbene sia meno sensibile del contemporaneo David a tali tematiche, prende
posizioni anche abbastanza forti come quella di inserire l’allegoria della Patria italiana nel suddetto
monumento funebre. La stessa iconografia della nazione italiana piangente verrà poi recuperata
filologicamente dal pittore Francesco Hayez nel Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri del 1820, il
punto di inizio del Romanticismo storico italiano. Un’altra committenza di grande prestigio, poi, è
quella per il monumento funerario di Maria Cristina d’Austria del 1798-1805. Peculiare per la sua
forma piramidale, anche in questo monumento possiamo individuare due figure allegoriche: l’una,
della Felicità Celeste, che regge il medaglione recante il volto della defunta in alto al centro; l’altra,
della Beneficenza, che porta all’interno della stanza piramidale l’urna funeraria.
08/10/2019
La visione dell’antico di Piranesi è diversa da quella di Winckelmann o di Mengs, e permea anche le
sue architetture, rimaste quasi tutte sulla carta. Ne realizza solo una sull’Aventino a Roma, la Chiesa
di Santa Maria del Priorato del 1764 la cui facciata è ricca di elementi classici affastellati: non
domina né la sobrietà né la ricerca di principi unitari, bensì una gran bizzarria nelle associazioni.
Anche in alcune incisioni – come quella all’acquaforte della Decorazione del Caffè degli Inglesi del
1769 – in cui si sperimentano decorazioni architettoniche si vede il modo in cui egli gioca sulla
fantasia inventiva e l’assenza di una ripresa filologica dell’architettura classica. Il suo utilizzo
dell’architettura classica sarà influente anche sugli architetti della generazione successiva.
In Francia, luogo di sperimentazione artistica, operano Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas
Ledoux, che diventeranno i due architetti emblematici del Neoclassicismo. Boullée, più un progettista
che un vero e proprio architetto, insegna alla scuola di ingegneria. Il suo interesse principale riguarda
l’architettura pubblica che egli paragona alla letteratura, nella convinzione che essa debba trasmettere
dei sentimenti, una “architettura parlante” in cui l’elemento emozionale è insito nella fase progettuale.
Lo scarto più grande dall’architettura di Piranesi è il nuovo rapporto tra forma e funzione dell’edificio:
se per l’italiano la funzione è subordinata alla forma, per il francese avviene l’opposto (e anticipa così
l’architettura razionale del Novecento). Questa nuova idea ha influenza su tutte le arti visive, anche
sulla tipografia dove si ricerca la purezza della pagina ed è proprio in questo senso che il
Neoclassicismo si configura come movimento di reazione alla tradizione rococò. Uno dei progetti più
importanti di Boullée è il Cenotafio per Newton di cui abbiamo un’incisione raffigurante la sezione
del 1784. Già la scelta di progettare un edificio per celebrare uno scienziato come Newton tradisce
l’idea di architettura che portava avanti Boullée, oltre che l’ennesimo richiamo al trionfo della
ragione. Il progetto sarà commentato da Madame Brogniart in una lettera indirizzata al marito
Théodore del 1794 in cui la donna scrive «Avevate ragione voi: (...) Boullée è per l’architettura quello
che David è per la pittura. (...) Io ve ne avevo sentito parlare qualche volta, ma non potevo figurarmi
che cosa volesse dire produrre degli effetti morali in architettura come in pittura. È questo che io ho
provato ieri, giovedì, presso il vostro maestro. (...) Andate a vedere che cosa è questa immaginazione
piena di genio e di filosofia: dà a Newton per tomba l’immensità, e come dipingerla ai nostri occhi?
(...) innanzi tutto c’è il globo del mondo, dal momento che è stato proprio Newton che ne ha scoperto
per primo il movimento, e, sempre attraverso quelle luci di cui si sa servire così bene, ci sono attorno
al globo dei canali che raccolgono la luce in modo di rifletterla nella volta dove forma le stelle. E la
tomba è al centro come la stella polare, in maniera che questa tomba è posata come quando si è in
una grande pianura o in mezzo al mare e non si vede altro che la volta celeste e si ha l’impressione di
abitare realmente nell’immensità.»
Claude-Nicolas Ledoux è, invece, un architetto molto attivo sia nella seconda metà del Settecento sia
nel periodo dell’Ancien Régime. Uno dei suoi principali lavori riguarda delle case daziare che
circondavano gli ingressi di Parigi realizzate tra il 1784 e il 1789. In questi progetti si nota il recupero
di modelli architettonici classici, in alcuni casi tipici e in altri combinazione di elementi essenziali e
mai decorativi. Come anche in Boullée, poi, si ricerca una geometrizzazione elementare
dell’architettura (è il caso della forma sferica del monumento funebre a Isaac Newton). La
realizzazione di maggiore importanza della carriera di Ledoux è, però, senza ombra di dubbio quella
delle Saline di Arc et Senans del 1775-79, un esempio primordiale di architettura industriale che nelle
intenzioni dell’architetto doveva essere il cuore di una città ideale, raffigurata in un’incisione del
1804. Dalla stessa incisione possiamo notare che secondo il progetto originario dell’architetto le
Saline avrebbero dovuto essere di forma circolare, ma è stata realizzata solo una parte di forma
semicircolare della manifattura modello. È concepito come un vasto anfiteatro separato dall’ambiente
circostante da un muro di cinta che ne segna il perimetro esterno. Lungo l’emiciclo sono disposti
cinque tipi di edifici: il gigantesco ingresso, collocato in posizione centrale, è affiancato su ciascun
lato da due fabbricati per le abitazioni degli operai e le funzioni collettive. Alle estremità est e ovest
sono collocati due padiglioni che ospitano il personale amministrativo preposto al controllo della
produzione, mentre al centro sorgono la maestosa Casa del direttore e gli edifici per la lavorazione
del sale. Per il tempo libero l’architetto aveva previsto la messa a dimora di orti dietro ai padiglioni
abitativi, utili anche allo scopo di integrare la dieta alimentare oltre che al divertimento e allo svago
degli operai. Una caratteristica che ci fa capire che è comunque una produzione del suo tempo è la
netta differenza di dimensioni tra le case degli operai e quella del direttore dalle forme palladiane
posta lungo il diametro dell’emiciclo. In Italia attecchiscono anche le forme neoclassiche proposte da
questi architetti, di cui un esempio è il progetto del Foro Bonaparte del 1801 a opera di Giovanni
Antonio Antolini. Questo si sarebbe configurata come una vera e propria città ideale che avrebbe
abbracciato il Castello Sforzesco a Milano, ma per la forte instabilità politica non fu mai realizzato.
Heinrich Füssli si forma a Zurigo dove è seguace di Johann Jakob Bodmer – figura cruciale dello
Sturm und Drang – di cui segue le lezioni di filosofia negli anni ’60 del Settecento. Bodmer è uno dei
primi a tradurre Dante e Shakespeare ed è un punto nodale del passaggio di gusto dal razionale
all’irrazionale. Füssli arriva poi in Italia negli anni ’70 dove si confronta con l’antico di cui amira e
analizza la grandezza e grandiosità. Importante è anche il fatto che Füssli guardi l’antico anche
attraverso l’estetica del Sublime teorizzata da Edmund Burke in A Philosophical Enquiry into the
Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful del 1757. In questo trattato il filosofo sottolinea
come il piacere estetico si diffonda anche attraverso le tenebre e il terrore. La grandezza classica ha
un effetto conturbante, come raffigura l’artista svizzero nell’incisione L’artista commosso dalla
grandezza delle rovine antiche del 1778 circa. Questo approccio si traduce anche sul piano pittorico
nel Giuramento dei confederati sul Rüttli del 1780. In questa tela, Füssli raffigura un evento della
storia nazionale svizzera tratta dal Medioevo che si inserisce nell’idea di riscoperta dell’identità
nazionale. Alla composizione sobria e pensata di David, Füssli sostituisce uno stile che potremmo
definire michelangiolesco o tardomanierista. Un’altra tela come L’incubo del 1781 tradisce la sua
passione per il mistero. Quest’opera dalla posa figurativa drammaticamente esasperata con la donna
che pende dal letto in cui sta sognando verrà molto ripresa dalle pubblicità ottocentesche e
novecentesche, nonché dal cinema di David Lynch. Verso la fine del secolo, Füssli diventerà
professore alla Royal Academy, senza mai però diventare un pittore accademico.
Un altro personaggio fondamentale per l’evoluzione del gusto estetico tra Settecento e Ottocento è
Francisco Goya. Il suo percorso sarà singolare, per certi versi periferico in quanto opererà
principalmente a Madrid, nonostante un soggiorno a Roma negli anni ’70 del XVIII secolo. Ha una
formazione illuminista e intrattiene contatti con i centri più progressisti della Spagna. Il parasole del
1777 è una tela di quella che potremmo definire la sua prima fase pittorica, in cui risente fortemente
dell’influenza di Giambattista Tiepolo, pittore di corte a Madrid fino all’arrivo di Mengs, il quale
invece non avrà alcuna influenza sullo stile di Goya. La sua evoluzione pittorica passa però anche per
il viaggio in Italia e per lo studio della pittura spagnola del Seicento, in particolar modo quella di
Diego Velázquez che diventerà il suo principale termine di paragone. Inizia dagli anni ’80 il suo
progressivo ingresso nell’orbita della Corte spagnola, diventando il principale ritrattista
dell’aristocrazia. Realizza nel 1797 il Ritratto della duchessa de Alba in nero in cui possiamo notare
come l’artista si approcci al genere del ritratto con un piglio realistico. Nella tela, la duchessa col dito
indica la firma dell’artista. Contemporaneamente sviluppa anche un interesse per il paranormale e la
magia, come testimoniano tele quali Sabba delle Streghe e Vuelo de brujas del 1797-98 dove però
l’artista tiene comunque conto delle credenze razionali che dominano nel Settecento. Nella prima tela
c’è una commistione tra mondo cristiano e mondo classico; nella seconda un tentativo da parte di
Goya di studio degli elementi soprannaturali che vengono tradotti in termini terreni e dove i cappelli
a punta delle streghe richiamano la tradizione dei flagellanti.
Goya realizza anche una serie di tavole chiamate Caprichos intorno al 1799 e che vengono pubblicate
sul Diario de Madrid. In questo ciclo, Goya attua un’operazione di censura dei vizi e dei pregiudizi
della società spagnola in un clima politico in cui sopravviveva l’assolutismo monarchico e
l’Inquisizione cattolica. Una tavola in particolare ha avuto particolare fortuna ed è Il sogno della
ragione genera mostri in cui raffigura un incubo che emerge al sopire della ragione. Altre tavole
raffigurano il carnevale, festa in cui si ribaltano i costumi: il servo diventa padrone, l’animale cavalca
l’uomo. L’immaginario a cui attinge Goya non è colto e la satira attacca anche il mondo del clero,
aspetto che condanna il ciclo al sequestro. L’archetipo di un ciclo dal contenuto morale ha un
precedente in William Hogart, un pittore inglese tra i primi a vendere una serie di stampe che
narravano la storia di una prostituta. Goya vende questa serie di stampe in una bottega di profumi e
liquori, interviene privatamente nella formazione morale del popolo.
Negli stessi anni Goya continua a lavorare anche come pittore di Corte. Nel 1783-84 realizza La
famiglia dell’Infante Don Luis di Borbone, il primo ritratto di gruppo realizzato da Goya. Questo
genere tornerà nella Famiglia di Carlo IV del 1800-01, opera di cui conosciamo la genesi grazie alla
corrispondenza della regnante col suo amante. L’artista realizza dieci ritratti singoli di tutti i
componenti della famiglia reale che poi unisce in questa grande tela. Sulla sinistra, poi, c’è un
autoritratto dell’artista, un erudito riferimento alla pittura di Velázquez. La regina apprezzerà molto
questo dipinto nonostante le fattezze poco generose restituite da Goya di tutti i personaggi. Spesso si
analizza questo dipinto come una spietata critica alla dissolutezza morale della famiglia, ma dalla
reazione della regnante è probabile che sia una proiezione successiva, una lettura che non apparteneva
all’epoca. Sicuramente una lettura del genere è stata fatta dal critico francese Théophile Gautier negli
anni ’40 dell’Ottocento.
Al ritorno del re dopo la Restaurazione, nel 1814, realizza due dipinti di grande importanza storica:
2 maggio 1808: la carica dei Mammelucchi e 3 maggio 1808. In queste tele rappresenta la resistenza
spagnola contro gli invasori francesi, rivelando lo spirito antinapoleonico dell’artista. Pochi anni dopo
inizierà la fase finale della produzione artistica di Goya corrispondente a un periodo di forte
isolamento che lo porterà a soluzioni figurative più cupe e cruente come quella del Saturno che divora
i suoi figli del 1821-23.