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AL PALO DELLA MORTE - Isabella Tokos 3A

SCRIVI UNA RELAZIONE DETTAGLIATA SUL LIBRO “AL PALO DELLA MORTE”
“Di Shahzad si é scritto molto poco, qualche notizia in cronaca di Roma e poi un paio di trafiletti via via
che la storia processuale andava consumandosi.” (pg. 169)
Shahzad nasce nel 1986 a Bagh nel Kashmir. Egli è il primogenito di una famiglia pakistana contadina e
molto povera.
Il suo nome, ‘Shahzad’, che “significa proprio ‘Principe’, letteralmente vuol dire, ‘figlio del sovrano’”
(pg. 45), nel suo mondo non viene accompagnato da alcun cognome: in Pakistan non si dà importanza a
questo aspetto laterale tanto quanto la data o il mese di nascita; basta solo il nome, il nome e l’anno.
A 21 anni Shahzad è giunto a Roma, in aereo. Ha evitato quel stancante viaggio via terra e mare per cui i
suoi connazionali “ci impiegano sei mesi. I più sfortunati fino a due anni. Dal Pakistan arrivano all’Iran in
pullman. Dall’Iran approdano alla Turchia dove capita che al confine ti sparino addosso. Dalla Turchia
alla Grecia e poi in Italia.” (pg. 61) Egli è stato in un certo modo costretto ad abbandonare la sua terra
nativa, “la campagna dell’Azad Kashmir, il ‘Kashmir libero’ che in realtà è terra contesa e a cavallo tra
l’India e il Pakistan. […] per (andare nella) città eterna per fuggire alla miseria economica, per mandare
alla fine del mese a casa una cifra che dalle sue parti vale circa dieci volte tanto.” (pg. 90)
Sulla sua carta d’identità, nello spazio della data di nascita è segnato il 28 aprile del 1986, mentre per il
suo cognome, lui ha scelto ‘Khan’: si tratta del nome della sua casta di appartenenza, un nome
particolarmente comune per i cittadini pakistani emigrati che ha inoltre un secondo significato: costituisce
anche una specie di titolo nobiliare, simile all’italiano ‘signore’; appellativo usato, d’altronde, pure
dall’illustre Gengis Khan.
Shahzad non è il primo della sua famiglia ad essersi avventurato tanto lontano da casa, in Italia. Lo
precede suo zio, che ha trovato l’impiego di cuoco a Roma. Grazie alla sua presenza, Shahzad riesce ad
ottenere presto il permesso di soggiornare in Italia. Ma da questo punto di vista è stato più fortunato di
altri: il testo sull’immigrazione firmato da Umberto Bossi e Gianfranco Fini, la cosiddetta ‘Bossi-Fini’
“vincola fortemente l’ingresso nel paese alla stipula di un contratto di lavoro e, di fatto, costringe i migranti
a entrare clandestinamente, accettare lavori a nero senza garanzie e sperare che prima o poi questi si
trasformino in impieghi regolari.” (pg. 61) Una legge che sembra drastica, che “pare fatta a posta per
reclutare mano d’opera ricattabile e clandestina. […] Il razzismo di questa legge lo sperimentano Shahzad e
quelli che come lui arrivano in Italia: una legge tanto restrittiva non serve ad impedire l’arrivo di migranti,
ma a facilitare lo sfruttamento.” (pg. 63)
Per Shahzad e per gli sciagurati come lui, dunque, i confini sono destinati ad aprirsi “a singhiozzo,
selezionando i migranti per renderli docili. Il razzismo non serve a eliminare ma a segregare, a rendere
ricattabile con la forza lavoro. Le frontiere operano come i riflettori dei media: illuminano soltanto quando
occorre creare un’emergenza.” (pg. 139)
Lo zio deve abbassare per sempre le serrande del suo ristorante. Da questo momento in poi, a Shahzad
risulterà sempre più difficile trovare i soldi necessari per tornare in patria, a casa sua, o per trovare un
nuovo lavoro. Le sue “condizioni di povertà sempre maggiori lo inducono a rivolgersi sempre di più alla
religione islamica” (pg. 67) nella quale si immergerà. Nella tasca tiene un volantino firmato ‘Musulmani per
la lealtà’.
Pian piano deve rinunciare anche alla sua stanza, al tetto sopra la testa. Ma troverà asilo al centro di
accoglienza Astalli, numero di matricola 26348, dove lascerà la sua valigia con qualche vestito e i suoi pochi
soldi accumulati, circa 250 euro.
Shahzad è sposato da circa un anno con Ulfat Jan. Egli è tornato nella sua patria provvisoriamente
proprio per le nozze.
Un anno dopo, nella fatidica sera del 18 settembre 2014, Shahzad si aggira “in quella città che ha
inseguito come una porta verso la libertà e che sta diventando una gabbia per troppa gente.” (pg. 100)
“Sono le 22:30 della sera in cui Shahzad incontra la morte. Dal ristorante (Taj Mahal, numero 500 di via
Casilina) esce Faheem, ventinovenne pakistano di Poonch, nel Kashmir.” (pg. 82). Sono tre mesi che
Faheem e Shahzad hanno stretto amicizia. Faheem conosce la sua situazione economica e quella sera nota la
sua particolare igiene, dovuta al suo profondo credo nell’Islam.
Alle 23:45 “c’è un cadavere riverso sull’asfalto all’altezza del numero civico 78 di via Ludovico
Pavoni, a pochi metri da un palo della luce. A Tor Pignattara, periferia sud est” (pg. 19-20) dove è appena
stato commesso un omicidio, l’omicidio di Shahzad, che non manca di testimoni: “Un uomo sulla
quarantina che chiameremo Ruggero […] ha già visto quell’uomo […] tre ore prima. Alle 20:30 […]
assieme alla sua compagna […] Fiorenza, e alla loro figlioletta di un anno. […] L’uomo ripete una
cantilena che a lui pare una preghiera.” (pg. 20) Il tempo passa e da via Perestrello, Shahzad va sulla
Casilina, incontra il suo amico e poi torna indietro, imboccando via Ludovico Pavoni.
“Il canto risuona in via Pavoni altre tre volte. […] La prima volta […] dalle finestre accanto (a quelle
dei due testimoni, Fiorenza e Ruggero) parte un insulto indirizzato allo straniero; […] al secondo […]
(Fiorenza) osserva che lo straniero non indossa le scarpe. Al terzo […] (una) bottiglietta […] dal quarto
piano di un edificio confinante […] rimbalza sul corpo dell’uomo, che smette la sua cantilena […] (mentre)
vede due ragazzi in bici avanzare verso di lui. […] Dalla stessa finestra […] una voce maschile (quella di
Enzo, padre del diciassettenne Sergio, l’assassino) intona: «Picchialo, ammazzalo!». […] (Sergio) sferra il
primo pugno. L’uomo della cantilena cade subito a terra. Ruggero protesta. Il ragazzo infierisce con dei
calci. […] Arrivano due carabinieri di pattuglia. […] il corpo (è) steso a terra (con la) faccia sull’asfalto.
Solo in un secondo momento viene disposto in posizione supina, dopo l’arrivo dell’ambulanza, dal personale
medico […] (che constata) il decesso di Shahzad.” (pg. 22-23)
A Ulfat Jan, in dolce attesa, è stata inizialmente riferita la morte del marito come incidente stradale.
Intanto si arresta Sergio, “il ragazzo che ha sferrato i colpi. […] La morte di Shahzad, sostengono i
carabinieri, è stata «cagionata a titolo di dolo alternativo» […] Incorre in ‘dolo alternativo’ chi si ‘raffigura
mentalmente’ le conseguenze di un gesto ‘ma non in forma univoca’.” (pg. 23)
Durante la scrittura del verbale e durante il processo, tutti alludono allo stato di ebbrezza di Shahzad
prima di morire, in particolare Sergio, che lo descrive come un “signore (che) barcollava in strada
visibilmente ubriaco e (che) ad un certo punti mi ha sferrato un calcio alla bicicletta” (pg. 68) E, secondo
Sergio, da qui proviene la sua violenta reazione. Ma “Shahzad non è ubriaco, quando cammina per Tor
Pignattara pregando ad alta voce. Shahzad non è neanche un senza fissa dimora. Shahzad vive per strada la
maggior parte della giornata, certamente. Non ha più una casa e dorme in un centro d’accoglienza, anche
questo è vero. Ma non è tecnicamente un ‘barbone’.” (pg. 119)
Sergio, in quanto minorenne, viene valutato “vittima inconsapevole di un sistema che tende comunque
ad approfittarsi dei più deboli.”(pg. 72) Ma la questione è: “Si era ‘raffigurato mentalmente’ la morte di
Shahzad, il giovane Sergio? E suo padre, urlando dalla finestra di casa «Picchialo, ammazzalo!» ha fatto
ricorso a un’iperbole da linguaggio della strada […] o ha davvero istigato suo figlio a commettere un
omicidio?” (pg. 23)
L’operatore telefonico chiamato da Fiorenza sente chiaramente gli insulti che Enzo, il padre, rivolge a
lei e al suo compagno, Ruggero: “«A Cretino! A comunista si merda! A comunista di merda»”, addirittura
‘zecche’, traditori che se ne devono tornare ai Parioli, in un ingiustificabile “ribaltamento […] del rapporto
tra centro e periferia” (pg. 47) all’interno di “un quartiere che ha preso parte attiva alla Resistenza, nel
quale le destre raccolgono tutt’ora percentuali di voto minori che nel resto di Roma, in cui è tutt’ora
presente un tessuto di attivismo politico e impegno sociale” (pg. 47)
Dopo la morte di Shahzad “circola una busta di plastica, si raccolgono soldi per mandare la salma di
Shahzad al suo paese. Alla fine della giornata si contano quasi duemila euro.” (pg. 97). Ed è assurdo quanto
poco valore si dà ai giorni nostri a un uomo in vita, alle sue necessità, ai suoi bisogni e ai suoi sogni e
speranze e quante forze si impiegano per un cadavere.
“Di Shahzad si é scritto molto poco, qualche notizia in cronaca di Roma e poi un paio di trafiletti via
via che la storia processuale andava consumandosi.” (pg. 169) Ed è all’interno di questi testi, tra queste
righe innocue che sono protetti e occultati demoni della stampa: “tra le pieghe delle parole si nascondono
trappole retoriche, automatismi linguistici e tic culturali che partecipano alla costruzione del nemico. Ci
sono quattro artifici retorici, sottili e ricorrenti, che vengono usati in questo genere di notizie. Prima regola:
usare più aggettivi che sostantivi. Seconda regola: prediligere il linguaggio astratto. Terza regola: meglio i
verbi passivi. Quarta regola: scegliere la metafora giusta.” (pg. 10)
Leggendo un qualsiasi articolo, a partire da quelli sulla morte di Shahzad, si possono spesso veder
applicate facilmente queste regole, che ispirano spesso messaggi subliminali:
• “Non bisogna andare a vivere in un quartiere che confina con una Torre […] nella ‘giungla delle torri’
può accadere che ci si debba far giustizia da sé. E che questo comporti dei rischi e degli eccessi.” (pg. 10)
• “Gli aggettivi indicano una singola proprietà di un soggetto. I nomi tendono a definire un insieme, a
generalizzare. Marcano una differenza tra ‘noi’ e ‘loro’. Un aggettivo aggiunge un dettaglio. Un
sostantivo traccia un confine. E la nostra storia è fatta di confini invisibili e arbitrari. Riverso sull’asfalto
a Tor Pignattara c’è un ‘pakistano’. L’aggressore è un ‘ragazzo’.” (pg. 11)
• “La posizione dell’extracomunitario già di per sé pare fornire un’attenuante all’aggressore italico. Viene
descritta con linguaggio astratto, cioè con due aggettivi. L’azione del giovane romano è narrata
concretamente, con verbi descrittivi. Il pakistano è provocatorio, il ragazzo lo colpisce. Nel primo caso,
ancora una volta, il racconto di una vicenda tende ad allontanarci dal contesto e a generalizzare (gli
stranieri tendono ad essere ‘provocatori’). Nel secondo caso, i verbi descrittivi si riferiscono all’azione
precisa, delimitano il campo. È stata un’azione circoscritta e non ha a che fare con la natura di chi l’ha
compiuta.” (pg. 11)
• “Il verbo è impiegato in forma passiva […] nel caso della forma passiva si sottintende […] che (la
vittima) condivida una qualche responsabilità della vittima. La forma passiva viene utilizzata più di
frequente quando l’autore del reato è italiano, dicono gli studi sul linguaggio dei media.” (pg. 11-12)
• “Per i migranti viene utilizzata più spesso (la metafora) della ‘bestia’ (per) alludere all’essere sub-umano
del diverso. […] Per gli italiani si parla più spesso di ‘esplosione’ di un litigio, di un raptus, della violenza
improvvisa e imprevedibile. Nel primo caso si tratta di una tendenza naturale, a maggior ragione
ripetibile in quanto attinente alla natura del carnefice. Il raptus invece è al di fuori del controllo di chi lo
compie, non interroga la responsabilità del carnefice ma allude a un episodio o a circostanze particolari
che hanno indotto l’aggressore a comportarsi in un certo modo.” (pg. 12)
Solitamente in questi ultimi casi, quando l’autore del crimine ha la cittadinanza italiana si tende a creare
un contesto favorevole, giustificante a certi tratti, magari lasciando spazio anche “per la mamma
dell’aggressore, che racconta fra le lacrime ai cronisti «è un ragazzo che ha sofferto», «non è cattivo»”
(pg.12-13) o, al contrario di come accade con gli stranieri, descritti come belve, si concede allo stesso
colpevole di scusarsi personalmente: “Non so cosa mi sia preso. ‘È stato un raptus’.” (pg.13)
È stato dimostrato tramite esperimento, il cosiddetto ‘weapon paradigm’, che una persona che legge un
qualsiasi articolo intriso di pregiudizi tende a porsi sulla difensiva davanti al ‘diverso’. Questo esperimento
consisteva nel far leggere a due campioni di persone scelte casualmente due articoli: uno oggettivo e l’altro
‘di parte’. Dopo la lettura, i lettori venivano sottoposti a una piccola prova: tra una serie di foto che
scorrevano, scattate a oggetti inoffensivi e ad armi, avrebbero dovuto individuare quelle che contenevano
armi; tra le fotografie vere e proprie venivano inserite foto di persone dalla pelle chiara e dalla pelle scura. Si
è notato che il cervello dei lettori dell’articolo ‘macchiato’ di pregiudizi verso lo straniero tendeva a
riconoscere più facilmente le foto con armi se precedute da un volto nero.
In queste circostanze, quindi, l’Italia diventerà devastata “da un’immigrazione insostenibile, […] è ormai
terra di conquista da (parte di) persone indesiderate che hanno soltanto pretese, […] che abusano della
nostra ospitalità per pugnalarci alle spalle.” (pg. 15) mentre gli italiani, invece, “popolo di migranti che
deve comprendere, capire, giustificare chiunque entri in Italia, sono delle amenità tirate in ballo dai radical
chic e dalla sinistra che non pagano mai il conto e da chi non vuole affrontare il problema.” (pg. 17) Non
poche saranno le lamentele: “Noi italiani siamo abbandonati, per quelli là invece è tutto garantito.” (pg.
111), le ritorsioni dell’accusa di razzismo: “(Questo è) razzismo nei confronti degli italiani che non hanno
gli alberghi pagati” (pg. 112), oltre all’ignoranza di sarcastici consigli: “Consigliamo ai cittadini italiani di
dichiararsi profughi. È l’unico modo per ottenere tutele, vitto e alloggio gratis.” (pg. 15) Secondo
l’etimologia, ‘profugo’ è colui che ‘cerca scampo’ per motivi politici, economici, etnici, sociali, geografici...
Ed è stato proprio un profugo, un migrante residente a Tor Pignattara a spiegare: “Se la gente sapesse come
viviamo qua, in che case siamo, in quante persone, quanto lavoriamo... Non ci crederebbero, non ci
verrebbero.” (pg. 129)
Le preoccupazioni continuano nel tempo: “L’immigrazione sta distruggendo la nostra coesione e la
nostra identità. Non sappiamo chi ha architettato questa ‘invasione’, sicuramente c’è dietro una mano che
ha la volontà precisa di voler distruggere la nostra società.” (pg. 108) e qualche volta vengono affiancate
dalla paura: “Siamo molto preoccupati per l’eventualità della propagazione di malattie che […] in Italia
ormai erano praticamente inesistenti.” (pg. 14) E proprio a questo proposito, “Foad Aodi, presidente
dell’Associazione Medici di origine Straniera in Italia e Comunità del Mondo Arabo in Italia, invita i politici
«a non creare allarmismi non giustificati creando fobie nei confronti degli immigrati». Gli esperti parlano di
‘effetto migrante sano’ […] per cui decide di emigrare solo chi è in buone condizioni di salute. Una volta in
Italia gli immigrati […] vedono progressivamente depauperare il loro patrimonio di salute, a causa della
continua esposizione ai fattori di rischio della povertà.” (pg. 17)
È chiaro dunque che il fattore principale che scaturisce la diffidenza verso il ‘diverso’ è la “manipolazione
del contesto” (pg. 13), creando vere e proprie leggende metropolitane in grado di mettere in evidenza la
“paura di un’invasione silenziosa e inesorabile, ad opera di truppe all’apparenza innocue ma capaci di
insediarsi sopra le nostre teste.” (pg. 129)
Con lo speaker di Rtr9, Luca Casciani, abbiamo un buon esempio di quel che pian piano nel tempo ha
preso una sfumatura sempre più vicina all’odio: “Quello che servirebbe è il matto, uno che in macchina ha
una mitragliatrice e ne fa secchi trentaquattro. Se ne sono salvati sei, ecco il problema è quello, che se ne
sono salvati sei... Quando i selvaggi si appropriano di una cosa tua, tu sei costretto a non chiamarli
selvaggi, se no vieni denunciato, se no vieni chiamato razzista. Tu mantieni i selvaggi che distruggono la tua
città e la tua civiltà e se provi a ribellarti ti chiamano razzista, se provi ad organizzare delle ronde ti
chiamano fascista. Qualcuno mi ha detto: “Secondo te che cosa bisogna fare per vedere gli italiani che si
ribellano, che scendono in piazza?” […] Ecco bisogna attendere che qualcuno muoia […] Se ti permetti di
distruggere un mezzo che fa parte della collettività, la stessa collettività che ti mantiene, brutta sanguisuga
schifosa, e qualcuno ti ammazza, io dico che ha fatto bene…” (pg. 113-114);
E questo odio verrà trasmesso, verrà tramandato di generazione in generazione, in un ciclo senza fine se
si continua a non aprire gli occhi, a non riconoscere nell’altro un nostro fratello o una nostra sorella, che va
aiutato/a e che ci dovrà aiutare a propria volta. Non è una guerra tra chi è il più forte, la terra non è di
nessuno. Siamo tutti di passaggio, e la vita di tutti noi è un insieme di montagne russe. Questa civiltà
dell’odio ormai non è più soltanto agli inizi, ma ha già intrapreso con fermezza il suo cammino e le
conseguenze potrebbero essere terribili se non fermata in tempo. “Questi ragazzi hanno già qualcosa di
tremendo nelle loro mani: i semi dell’odio e della violenza. E il prete, il prete che è lì a loro servizio, dice
loro che devono acquistare una coscienza di classe nella lotta contro i padroni, e che l’arma di questa lotta
è la rivoluzione interna” (pg.106)
È colui di cui ci si fida il miglior insegnante di noi tutti, e se egli abusa del suo ‘potere’, se incita e fa il
giocoliere rovesciando i valori, solo la testa di ciascuno di noi, il nostro buon senso, se ce l’abbiamo ancora,
può salvare una società verso la rovina.“Se è l’odio che l’ha portata a prendere la parola, non diamole
l’antidoto dell’amore, perché quello che voi chiamate odio, in realtà è amore e quello che voi chiamate
amore è il più subdolo degli odi” (pg. 104)
È la politica, in fin dei conti, il burattinaio di tutti i tempi, nostri e quelli dei nostri antenati: è capace di
smuovere masse intere a proprio piacimento, di governarle, di sottometterle.
“La capacità leghista di recitare la parte dell’uomo comune per abbassare il livello della discussione, e
di simulare rozzezza al fine di usare i media, affonda le radici nella storia stessa del partito.” (pg. 118)
Con l’avvento della tecnologia e dell’informatica, poi, niente è stato più facile che diffondere
informazioni e messaggi, di qualsiasi tipologia: “L’esperto e il suo team si avvalgono del contributo di ‘app’
che diffondono viralmente il Salvini-pensiero moltiplicandone la condivisione automaticamente.” (pg. 159).
Approfittando del momento, il New York Times ha onorato il capo-leghista Matteo Salvini del secondo
posto dopo il grillino Di Battista nella sua classifica di maggiori “spacciatori di notizie ‘fake’” (pg. 160)
Chiusa parentesi.
Chiaramente i “mass media e politici raramente analizzano i grandi numeri, che dimostrerebbero che i
migranti delinquono meno degli italiani o che non vi è nessuna ‘invasione’ in corso. Vengono mostrati casi
singoli, strumentalizzati eventi isolati.” (pg. 140) Un esempio ‘frappante’ è il primo censimento del 569
a.C.: vennero censiti tutti tranne gli schiavi; se fosse stato altrimenti, gli schiavi si sarebbero resi conto della
loro forza numerica (il triplo dei liberi) e avrebbero avuto più possibilità di ribellarsi.
Ritornando al mondo moderno, purtroppo “gli italiani si rapportano a questi fenomeni, pronti ad
abboccare a qualsiasi bufala, a trasformare la frustrazione in aggressione e la diversità in allarme.” (pg.
39) Al riguardo, l’autore Giuliano Santoro fa riferimento all’esperienza vissuta da un giornalista che durante
la notte si ritrova nel mezzo di un’operazione di controllo. Un ragazzo pakistano emette all’improvviso un
grido. Si trova insieme a un uomo in divisa che viene accusato dal ragazzo di avergli tubato durante la
perquisizione dei quattrini, abusando del suo potere. Il superiore fa finta di non sentire.
“Al palo della morte si dipana il contesto attorno a quell’assassinio che pare casuale […] con le storie
che l’omicidio di Shahzad evoca” (pg. 28)
Prima di tutto però, ritengo opportuno specificare l’origine dell’espressione ‘al palo della morte’ che
d’altronde funge anche da titolo al libro: ‘Palo della morte’ è il nome dato dal personaggio interpretato da
Carlo Verdone in ‘Un sacco bello’ alla periferia romana. E, in un certo senso, Il quartiere dove Shahzad ha
trovato la morte si trova al palo della morte.
Tor Pignattara è un “quartiere multietnico che ospita cittadini provenienti da oltre sessanta nazionalità”
(pg. 26) in una “città schizofrenica, che oscilla tra aggressività e calore umano” (pg. 30) Secondo una
visione più interna, “in quel quartiere, pur senza la retorica utopia di un popolare pacificato, ‘pulito’, che si
vorrebbe al Pigneto, si incontra e si scontra ogni giorno un popolo ben più ruvido ma reale, fatto di giovani
precari, vecchi abitanti, nuovi migranti.” (pg. 96) Sulle strade si possono salutare “volti di cinesi,
subsahariani, nordafricani, bengalesi. Parlano tutti romanesco.” (pg. 27)
I muri di questo quartiere, nei giorni precedenti alla morte di Shahzad, sono ‘infestati’ dal “testo di una
‘lettera alla dottoressa Rossella Matarazzo’ […] (che) porta la firma ‘Cittadini di Tor Pignattara e ha
(come) titolo […]: ‘I cittadini si ribellano’ […] al ‘finto buonismo’ e alla ‘finta integrazione’, ‘che di fatto
non è che un’occupazione abusiva del quartiere’, visto che ‘i cittadini non hanno più una dignitosa
vivibilità’. […] Chi legge riconosce il riferimento all’esperimento multietnico della scuola elementare Carlo
Pisacane.” (pg. 21-22)
La scuola elementare Carlo Pisacane, in particolare, è una scuola storica del quartiere in cui si cercano
di far convivere e fraternizzare i bimbi delle tante nazionalità presenti a Tor Pignattara. Purtroppo però la
scuola “è disertata dagli italiani, che preferiscono di allontanarsi pur di non mescolarsi ai migranti” e che
quindi puntano il dito “contro i luoghi dell’istruzione meticcia” (pg.107)
Questi stessi bambini della Pisacane spesso hanno testimoniato di aver visto quelli che una volta erano
loro compagni ora cresciuti e diventati picchiatori. I piccoli conoscono già alla loro giovane età la dinamica,
che “è sempre la stessa: si chiede una sigaretta o del fuoco e poi giù botte.”
Comunque sia, le tensioni del quartiere non sono giovani come i bambini della Pisacane, ma hanno anni
e anni di ‘vecchiaia’, bensì dopo la morte di Shahzad le posizioni xenofobe si siano intensificate. Ma già
quando “(nella) sala dell’ex consiglio municipale […] gli amministratori del Municipio hanno consentito si
tengano gli incontri di preghiera dei musulmani di zona, scatenando la campagna islamofoba di ‘Libero’:
nel quartiere che è già un ‘suk’ di concedono spazi ai reclutatori dell’Isis!” (pg. 25) la diffidenza era
radicata negli animi, diffidenza che, come si deduce dalla citazione di sopra, porta a generalizzare. Tuttavia,
già da qualche anno prima di questo evento, Tor Pignattara si riempì di manifesti in lingua urdu che
“testimoniano una comunità musulmana attraversata da conflitti e inquietudini, […] (quindi) generalizzare,
raffigurare una moltitudine che si muove come un sol uomo, associare all’aggettivo relativo al paese di
provenienza o alla fede di appartenenza descrizioni totalizzanti e semplificatorie, è l’anticamera della
paranoia identitaria del razzismo e della guerra al diverso.” (pg. 97)
Nell’inverno del 2012, a gennaio, “c’è stato il duplice omicidio di Zhou Zheng e della piccola Joy ad
opera di alcuni balordi alla caccia dell’incasso del bar che Zheng gestiva.” (pg. 26) Un ragazzo bengalese,
Rinku, che gestisce un negozio di generi alimentari riguardo a questo fatto specifica che i rapinatori
“vengono sempre a quest’ora, quando stiamo per chiudere e abbiamo l’incasso della giornata […] La
polizia viene sempre quando si tratta di farmi rispettare i regolamenti. Ma in queste situazioni non si vede
mai.” (pg. 33). In onore di Zheng e di sua figlia, gli abitanti di Tor Pignattara hanno fatto una
manifestazione, durante la quale “tutti […] avevano interpretato il silenzio composto che aveva
accompagnato le candele di quella manifestazione come annuncio appena velato di una minaccia di
vendetta spietata, più che come espressione di un dolore estremo e riservato.” (pg. 44). E infatti, dopo
qualche giorno, “il corpo di Mohammed Nasiri, cittadino marocchino trentenne, penzolava da tre metri di
altezza. Nasiri era ricercato […] dopo il delitto, (e dopo essersi liberato) frettolosamente di una busta con
16 mila euro sottratti al cinese con la figliuola in braccio dopo averli uccisi.”
Andando a ritroso, a maggio del 1990, “in piazza Santi Apostoli compare uno striscione che ricorda i
diciotto operai morti in quattro mesi. […] Tra le vittime di Italia ‘90 ci sono anche i migranti. […] Si
rinnova il rito dei poveri scacciati dal centro, degli impresentabili spediti ‘ai pali della morte’ verso la
periferia estrema.” (pg. 36)
In questi anni gli italiani sembrano essere “oggetto di uno stress test. In concomitanza con le prime
campagne xenofobe l’immaginario collettivo e l’emozione pubblica sono messi sotto torchio.” (pg. 36)
Nel 1991, “al Pilastro, quartiere di Bologna […] la Banda della Uno Bianca […] semina il terrore tra
gli immigrati. […] In effetti è impressionante l’escalation di attentati, colpi di pistola nel buio, bottiglie
incendiarie contro le baracche, pestaggi e aggressioni, attacchi a rom e migranti. […] Roberto Sapio
ipotizza apertamente che dietro le azioni criminali della banda ci siano membri delle forze dell’ordine:
«Potrebbero essere persone che indossano una divisa o che, all’occorrenza, possono mostrare un
tesserino». Tre anni dopo verranno arrestati i poliziotti membri della banda, alcuni dei quali con un passato
di estrema destra.” (pg. 37)
Nello stesso anno, “in molti paesi, sindaci e abitanti insorgono: «Non vogliamo stranieri.» […] A Roma,
il cui Comune ha attribuito la cittadinanza onoraria a Nelson Mandela, esistono ormai i ghetti, e
l’‘apartheid’ è un dato di fatto, senza bisogno di leggi” (pg. 41)
“Il 19 aprile del 1979 un altro abitante del quartiere viene ucciso all’interno della sezione del Partito
comunista proprio su via di Tor Pignattara, proprio sull’uscio di quella sezione che oggi è passata al Partito
democratico.” (pg. 48) Il suo nome è Ciro Principessa, un ventitreenne assassinato da Claudio Minetti,
abitante del quartiere vicino, Appio Tuscolano. Quest’ultimo, il giorno dell’assassinio, si presenta alla
sezione Pci di Tor Pignattara. Passa per gli scaffali della biblioteca e prende il libro ‘I Vivi e i Morti’ di
Konstantin. Ma per prendere un qualsiasi libro servono le generalità che lui non vuole dare; dunque scappa
con in mano il libro. Viene inseguito da Ciro e da un compagno. Minetti si volta verso Ciro e lo accoltella.
La madre dell’assassino Minetti si chiamava Leda Pagliucca ed era convivente del leader di Avanguardia
Nazionale Stefano Delle Chiaie. Il fratello suicida di Claudio, Riccardo, si era tolto la vita nella prigione
Regina Coeli.
Al processo Minetti viene dichiarato ‘incapace di intendere e di volere’ e viene ricoverato nel
manicomio giudiziario ‘per un periodo non inferiore ai dieci anni’. Intanto “gli autori della controinchiesta
[…] si accorgono che Mario Merlino (anarchico del gruppo 22 marzo) è un provocatore fascista, infiltrato
tra gli anarchici.” (pg. 51) Quest’ultimo ha per amici Pio D’Auria, sosia del ballerino anarchico su cui la
polizia indagava di nome Pietro Valpeda, Stefano Delle Chiaie, boss del neofascismo della capitale e, infine,
la madre di Minetti, Leda Pagliucca. Nel libro l’argomento si approfondisce alle pagine 48-51.
Ancora più indietro nel tempo, dopo la caduta del fascismo, i fascisti continuano a sopravvivere, pur
mantenendo la loro “caratteristica costante nel tempo: si presentano come una rivoluzione ma operano una
restaurazione. I fascisti hanno nel loro Dna l’attitudine, sospesa tra gangsterismo e opportunismo, di
inseguire il denaro, di infilarsi nei posti di comando e cercarne la benevolenza. Trovare gli appoggi di
qualche potente promettendogli conservazione, sicurezza, stabilità.” (pg. 50) Successivamente, negli anni
Settanta a Roma, furono “ghettizzati, incapaci di agire al di fuori della dimensione di sparuta, e spesso
violentissima minoranza. Vivevano braccati, in sezioni blindate, frequentavano scuole private,
organizzavano eventi semi-clandestini.” (pg. 55)
Già a partire dal suo periodo più ‘splendente’ “il fascismo, con la sua ossessione per il decoro, l’ordine e
la pulizia, manifesta tutto il suo odio verso la gente delle borgate e le periferie in generale.” (pg.143) per il
suddetto motivo, quindi, si occuperà di far allontanare e nascondere i poveri.
In questo periodo i ricchi cominciano a non voler più abitare accanto ai lavoratori della capitale d’Italia,
e perciò cominciano a nascere i quartieri dei ferrovieri, dei tranvieri, degli addetti ai servizi, dei lavoratori,
nella trasformazione alimentare e dell’edilizia che costituiscono classi sociali a parte. Si tratta di quartieri
come San Lorenzo, Testaccio, Porta Maggiore, Santa Croce in Gerusalemme (pg.141,142). È in questa
atmosfera che nascono le prime borgate “pezzi di città che non hanno neppure la completezza e
l’organizzazione per chiamarsi ‘quartiere’.”(pg.142)
Più volte nella storia verranno menzionate proposte incentrate su “posti riservati agli extracomunitari”
(pg.118) a partire dal nazista Hermann Göring (la cui proposta venne rifiutata perché non conveniente per i
nazisti) per arrivare allo stesso leghista Matteo Salvini.
E il razzismo e la discriminazione del periodo fascista non si riversano soltanto sugli stranieri, ma anche
sui poveri, per cui nasce “la clandestinità forzata per rendere i poveri più ricattabili. Nel 1939 si approvano
le leggi contro l’urbanesimo che privano i poveri che si accalcano alle mura della città di ogni diritto.” (pg.
148) In pratica, queste leggi sanciscono che “se sei povero non puoi venire a Roma, pena la clandestinità.”
(pg.149). L’unico modo per ottenere la residenza dal Comune era farti approvare un contratto di lavoro
stabile nella città da parte dell’Ufficio del lavoro. Nel 1949 però, “la cosa diventa un circolo vizioso quando
si decide che l’Ufficio del lavoro possa concedere documentazione solo a chi sia già provvisto di residenza.”
(pg.149)
Spesso capitava che appresso alle mura di una città risiedessero clandestinamente un numero eccessivo
di persone, per cui si venne nel tempo ad associare a questo problema uno ancora maggiore, quello dei centri
di accoglienza, dei ‘barboni domestici’ e delle “grandi battaglie per il diritto all’abitare” (pg.121) e,
soprattutto, sugli “abusi dei proprietari di casa che estorcono denaro con la classica truffa condominiale
attuata da decine di migliaia di proprietari a Roma. Io ti affido un appartamento, poi ti riverso anche le
spese straordinarie di condominio, poi mi metto pure d’accordo con l’amministratore per gonfiare ancora le
rate (tanto con l’amministratore ci parlo io, non tu) , poi, se non paghi ti minaccio di sfratto e infine ti
caccio di casa. E così o stai alla truffa o te ne vai.” (pg.124)
Questo libro fa parte di una collana, iniziativa della Wu Ming 1 (incorporata in Wu Ming Foundation).
È un progetto il cui nome è una metafora: ‘Quinto tipo’, che in ufologia significa ‘incontri ravvicinati’. Nel
suo libro ‘Al Palo della morte’, quindi, Giuliano Santoro cerca di spiegare tramite un’indagine sociale e
politica che arriva fino al periodo fascista quei motivi che hanno spinto il diciassettenne Sergio a far partire i
tre colpi verso il suo ‘fratello’ Shahzad. L’autore stesso scrive riguardo al suo libro: “Questo racconto può
giovarsi della libertà propria di strumenti come la digressione perché ha un altro scopo: mette in relazione
cose differenti perché cerca di evocare ciò che ci è familiare allo scopo di turbare le aspettative, stimolare
l’attenzione su quello che la realtà nasconde, individuare discordanze più che affinità. Non abbiamo bisogno
di addomesticare la realtà, come hanno il compito di fare gli uomini con la legge. Si tratta di raccontare
quello che è accaduto per scovarvi le possibilità.” (pg.109)
Ogni umano è perfetto nel suo essere umano, perciò imperfetto. Lo stesso vale per ciò che un umano fa.
Anche questo libro, quindi, ha i suoi ‘talloni di Achille’:
• Parto da una frase in cui c’è un errore lessicale: “Alcuni migranti hanno edificato un altare alla dea Kalì.
La statua attira il sarcasmo benevolo dei romani («la dea Kalì, che magna riso e caca supplì»)” (pg. 35)
sarcasmo s. m. [dal lat. tardo sarcasmus, gr. σαρκασμός, der. di σαρκάζω «lacerare le carni» (da σάρξ
σαρκός «carne»)]. – 1. Ironia amara e pungente, ispirata da animosità e quindi intesa a offendere e
umiliare, che a volte può anche essere espressione di profonda amarezza rivolta, più che contro gli altri,
contro sé stessi: parole, frasi, osservazioni piene di s.; parlare, rispondere con s.; fare del sarcasmo; sento del
s. nelle tue parole; sentì la rabbia dentro di sé, qualcosa di molto vicino all’odio che avrebbe voluto esplodere
contro quel s. assurdo e cattivo (Ugo Riccarelli). 2. Frase, espressione sarcastica: non risparmia a nessuno i
suoi s.; i tuoi s. mi lasciano indifferente; il disgraziato imperatore tedesco, che Bonaparte ha tramutato da un
giorno all’altro in imperatore d’Austria, è oggetto qui a Berlino di feroci s. (Alessandro Barbero).
benèvolo (ant. benìvolo) agg. [dal lat. benevŏlus, comp. di bene «bene1» e tema di velle «volere»]. – Che
sente o dimostra benevolenza, cioè buona disposizione e affettuosa simpatia, o più semplicem.
disponibilità: padrone b. verso i suoi dipendenti; critico b.; considerare, giudicare con animo b.; prendere in
b. considerazione (una richiesta, una proposta, un’offerta); giudizio, consiglio b.; sorriso benevolo. ◆ Manca
il superl. regolare, cui si supplisce talvolta con benevolentìssimo (v. benevolente). ◆ Avv. benevolménte, con
benevolenza, con simpatia, con favorevole disposizione: guardare, trattare benevolmente; accogliere
benevolmente una richiesta.
Quindi, dire ‘sarcasmo benevolo’ va al di là di ogni ossimoro, è contraddittorio. Non va bene nemmeno
come ossimoro. ‘Amore odiato’ può esistere, ‘Odio amato’ ci può stare (al di là del significato bruttino), ma
‘Sarcasmo benevolo’ no.
• Per un ultimo punto, che a dire il vero è quello che più mi sta a cuore vista la mia cittadinanza, è un
tantino più delicato. Io sono romena, anche se nata in Italia e di varie origini.
È strano come in un libro che chiaramente prova a trovare un’origine alla xenofobia di Tor Pignattara e
che quindi cerca di analizzare il tutto oggettivamente (dando sempre almeno un esempio positivo, o
comunque, non sfavorevole ai popoli citati) e in cui all’inizio si sono dimostrate un’evidente conoscenza e
un’altrettanto evidente padronanza di quelle tecniche usate dai mass media per insinuare al cervello umano
sfumature minime che però cambiano tanto, dicevo quindi, è strano come in un tale libro l’autore si sia
lasciato andare a una certa negligenza nei confronti del popolo romeno. È... particolare, la tecnica delle
mezze verità che utilizza, mezze verità qualche volta imbrattate di imprecisioni o ricerche superficiali che
tuttavia macchiano un popolo intero. E queste imprecisioni, purtroppo, rendono il valore storico che avrebbe
potuto avere questo libro così interessante un po’ dubbioso. Il perché è presto detto. Un libro storico è valido
dal punto di vista storico se ogni dettaglio ha una corrispondenza precisa ben approfondita. Ma se l’autore
non distingue tra un’etnia e una cittadinanza, la cosa si aggrava: c’è un’enorme differenza tra questa frase
presente all’interno del libro: “Il 30 ottobre di quel 2007. Una donna di 47 anni, Giovanna Reggiani, viene
brutalmente violentata e assassinata da un cittadino romeno: Romulus Nicolae Mailat, 24 anni.” (pg. 64) e
la frase corretta: ‘il 30 ottobre di quel 2007. Una donna di 47 anni, Giovanna Reggiani, viene brutalmente
violentata e assassinata da un cittadino romeno di etnia rom: Romulus Nicolae Mailat, 24 anni’
Una ricerca qualsiasi avrebbe ovviamente aiutato l’autore del libro a fare la differenza tra l’etnia rom
(migrata anni e anni fa dal nord India e sparsasi e stanziatasi nel mondo intero, attualmente presente nella
gran parte degli Stati UE, inclusa l’Italia, e oltre l’oceano; un popolo che pur essendo tanto sparso e
sbriciolato e pur avendo una cultura orale è riuscito comunque a mantenere le proprie tradizioni e i propri
costumi e la propria lingua inalterati e che continuano a ereditare e a tramandare; fa eccezione una
piccolissima minoranza che li ha gradualmente abbandonati per farsi accogliere più facilmente) e il popolo
romeno (presente nella terra dacica, della Dacia, accanto alla Pannonia e al Mar Nero e sopra ai Balcani
verso gli Urali, ancor molto prima di Cristo, già a partire dal Neolitico; un popolo che, secondo i reperti
storici datati a più di 6500 anni fa, custodisce una cultura - Cucuteni - che si estendeva su più di 350.000 km2
iniziali, e un’altra ancor più antica, datata a oltre 7500 anni fa secondo altri reperti archeologici - le tavolette
di Tărtăria -, presumibilmente imparentata alla cultura di Vinca e dei Sumeri; quindi una cultura così antica
che lascia ancora spazio ai dibattiti tra i ricercatori perché fino ad oggi nessuno è stato in grado di esprimersi
con certezze scientifiche al riguardo); una differenza, quindi, che fa la differenza. Due popoli con due storie
completamente diverse che però spesso e volentieri vengono interscambiati.
Gli unici riferimenti al popolo romeno (di etnia romena) sono tutti negativi:
• “C’erano i rumeni che acquistano la birra a buon mercato alle botteghe asiatiche.” (pg. 26) —> uso del
solo sostantivo che porta a una generalizzazione stereotipata + il confronto tra: i cinesi impegnati
(participio passato, quindi allora, in quella circostanza) a comunicare al telefono e con le forze dell’ordine
riguardo all’assassinio di Shahzad; i pakistani, i bengalesi e gli indiani lavoratori perché gestori e
imprenditori, gli italiani che vivono da sempre o che hanno scelto di vivere; e poi ci sono i romeni, che
acquistano (indicativo presente, quindi un’altra generalizzazione ancora che significa ‘lo facevano allora,
come lo fanno pure adesso, indifferenti a quel che succede loro intorno’).
• “Voci roche di birra dei rumeni” (pg. 76) —> altro riferimento all’alcool, come se i romeni non avessero
altro da fare nella vita, come se non fossero lavoratori pure loro, e anche di valore!
• “Un gruppo di rumeni consuma delle birre in un locale gestito da bengalesi e si rifiuta di pagare” (pg.
79) —> riferimento all’alcol seguito da atto incivile; ci sarà pur stato il non avvenuto pagamento, ma
l’insistere soltanto sui presunti aspetti negativi o su aspetti presumibilmente negativi, non è oggettivo.
Guardando esclusivamente i ramoscelli secchi si perde di vista la foresta.
• “Il giorno prima degli scontri di Tor Sapienza, una giovane donna ha denunciato il tentativo di stupro ad
opera di due uomini riconosciuti come ‘romeni’.” (pg. 111) —> l’ennesimo esempio negativo, questa volta
ancor più grave.
• Due cittadini rumeni si salvano dalle fiamme gettandosi dal terzo piano.” (pg. 122) —> neutro
• “A Tor Pignattara fanno scalpore e danno fastidio i capannelli di rumeni che bevono birra.” (pg.153) —>
l’autore stesso riconosce la negatività nell’atto, e nonostante ciò continua a insisterci sopra.
Secondo me, lettore, il pregio più importante di questo libro, voluto o soltanto conseguenza fortuita, è
l’insegnamento notevole delle dinamiche di certe mentalità e gruppi sociali intorno alle varie dottrine
politiche, potrei dire nemmeno di momento perché alla fine si ritrovano in quasi tutti i periodi storici più
rilevanti.
Roma, 03/01/2020
Isabella Tokos, 3A