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G. Ravegnani - Introduzione
alla storia bizantina
Storia
Università degli Studi di Catania
27 pag.
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LE PREMESSE
L’assetto politico-amministrativo dell’impero bizantino del primo periodo ebbe origine dalle riforme attuate
da DIOCLEZIANO. In particolare, egli introdusse attraverso la tetrarchia una nuova regola per la successione
al trono, secondo la quale la pars Orientis e la pars Occidentis dell’Impero sarebbero state governate da due
augusti, alla cui morte subentravano automaticamente due cesari da loro scelti, i quali divenivano a loro
volta augusti e così via. Diocleziano mise in pratica la riforma e nel 305 rinunciò solennemente al suo rango
di augusto costringendo il collega Massimiano a fare altrettanto per essere sostituiti dai due cesari
Costanzo Cloro e Galerio. Una volta venuta a mancare la forte personalità di Diocleziano, tuttavia, il
meccanismo di trasmissione del trono si rivelò un completo fallimento e venne ben presto abbandonato.
Infatti, già nel 306 COSTANTINO I (figlio di Costanzo Cloro) venne proclamato imperatore dai suoi soldati e
nel 324, dopo aver sconfitto tutti i suoi rivali, divenne unico imperatore.
Dopo la tetrarchia dioclezianea, inoltre, non fu più fatto un serio tentativo di stabilire una regola per la
successione al trono, che fu spesso conteso con la forza da diversi pretendenti. In condizioni di legalità, il
potere supremo era teoricamente elettivo, ma nella pratica, fin dall’inizio si fece strada la successione
diretta determinata dalla cooptazione (lo stesso sistema sul quale d’altronde si reggeva la tetrarchia), per
cui il sovrano in carica si associava uno o più colleghi, da cui si originarono numerose dinastie più o meno
durature. In particolare, fu Teodosio I a inaugurare l’usanza di associarsi al trono come augusti i figli, una
prassi che fece scuola e il cui fine rispondeva all’esigenza di rafforzare la successione ereditaria. Si veniva
così a costituire un collegio di imperatori teoricamente di pari grado, anche se nella pratica l’autorità
dell’augusto anziano era preminente, con il vantaggio di non creare vuoti di potere ma, nello stesso tempo,
con il rischio di dover lasciare il governo a sovrani in minore età suscitando inevitabili lotte per il suo
esercizio effettivo.
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PERIODO PROTOBIZANTINO / TARDOANTICO
(330 – PRIMI DECENNI VII SECOLO)
LA FONDAZIONE DI BISANZIO
La storia bizantina può essere considerata come la storia di una città, oltre che di un impero, poiché inizia
con la fondazione di Costantinopoli (330) e termina con la sua caduta nelle mani dei Turchi di Maometto II
(29 maggio del 1453).
In realtà Costantinopoli non fu fondata da Costantino I (esisteva già l’antica città di Bisanzio) ma da lui
venne ribattezzata, ampliata e adattata per servire allo scopo di nuova capitale dell’Impero. La scelta di
Bisanzio per la costruzione della “Nuova Roma” non fu casuale: non solo si trovava al centro di eccellenti vie
di comunicazione terrestri e marittime, ma anche facilmente difendibile perché circondata per tre lati dal
mare.
LIBERTÀ DI CULTO E PRIMO CONCILIO ECUMENICO
Nel 313 con l’editto di Milano Costantino aveva concesso per la prima volta nella storia la libertà di culto ai
cristiani negata dalle persecuzioni. I contraccolpi per la religione pagana non furono immediati,
l’imperatore si limitò ad eliminare alcuni aspetti cultuali che offendevano la morale cristiana; ma è chiara
fin da subito l’influenza assunta dalla nuova religione nello stato romano. Nel concilio di Nicea del 325,
convocato dall’imperatore stesso per risolvere alcune questioni in materia di fede (condanna
dell’arianesimo), Costantino partecipò attivamente dirigendone i lavori e influenzandone l’esito: così
facendo si poneva a capo della chiesa cristiana, sottolineando il ruolo centrale che questa aveva nella vita
del suo impero.
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Il concilio di Nicea è il primo dei sette concili che posero le basi dell’ortodossia religiosa; segna anche l’inizio
del legame fra stato e Chiesa, tipico del mondo bizantino.
I GOTI
Al tempo di Valente (364-378) la maggiore preoccupazione in politica estera fu l’insediamento del popolo
germanico dei Visigoti nella diocesi tracica, un fenomeno di portata epocale da cui ebbero inizio le grandi
invasioni barbariche destinate a travolgere l’Occidente un secolo più tardi. I rapporti tra Romani e Visigoti
ben presto si guastarono e questi ultimi, rafforzati da contingenti Ostrogoti che avevano a loro volta
oltrepassato il Danubio spinti dagli Unni, finirono per ribellarsi saccheggiando la regione. Valente,
sopravvalutando le proprie forze, commise l’errore di non attendere i rinforzi inviati dall’Occidente e
attaccò personalmente i barbari nel 378 subendo una disastrosa sconfitta in prossimità di Adrianopoli e
perdendo la vita in battaglia. L’esercito orientale fu annientato, causando un disastro tale che i vincitori si
spinsero verso Costantinopoli, dove però furono respinti e contro la quale poco in ogni caso avrebbero
potuto fare per la loro incapacità di assediare città fortificate.
TEODOSIO I, privo delle forze necessarie per sottomettere i Visigoti, non poté fare altro che concludere un
trattato in forza del quale essi si sarebbero stanziati nella parte settentrionale della diocesi tracica in qualità
di foederati (alleati) dell’impero dietro compenso, mantenendo piena una autonomia e l’esenzione dal
pagamento delle imposte.
LA DINASTIA TEODOSIANA E LA CADUTA DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE
Teodosio fu un cristiano convinto di fede nicena; a lui si deve l’editto di Tessalonica (380) – i cui decreti
furono attuati completamente solo nel 392 – con cui dichiarava il cristianesimo religione di stato e
imponeva il divieto di ogni forma di culto pagano in tutto l’impero. L’anno successivo (381) convocò inoltre
il secondo concilio ecumenico, questa volta a Costantinopoli, dove l’arianesimo venne condannato in via
definitiva e il credo venne ribadito e “accresciuto”.
Quando morì Teodosio, nelle cui mani l’impero si era unificato per l’ultima volta, il trono passò ai figli
ancora molto giovani, Arcadio in Oriente e Onorio in Occidente. Arcadio si alleò con il re dei Visigoti,
Alarico, dandogli il grado di magister militum per Illyricum, con il quale ebbe il comando di tutte le forze
imperiali della regione. Da qui, Alarico si mosse alla volta dell’Italia riuscendo a saccheggiare Roma nel 410;
poco dopo morì, e il suo successore – Ataulfo – abbandonò la penisola per trasferirsi in Gallia con la sua
gente, che da lì si sarebbe spostata in Spagna agli inizi del VI secolo. L’allontanamento dei visigoti
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dall’Oriente può essere considerato un successo diplomatico per Costantinopoli, che in questo modo si
liberò della prima ondata di barbari con cui aveva forzosamente convissuto dopo Adrianopoli. Nello stesso
tempo si poneva un freno alla germanizzazione dell’esercito, accentuata dalla massiccia immissione nei
ranghi di barbari operata da Teodosio I e le cui conseguenze sarebbero state disastrose per l’Occidente.
Anche se già negli anni trenta i generali di origine germanica riapparvero in buon numero nell’esercito
imperiale.
Arcadio morì all’età di trentuno anni lasciando sul trono di Costantinopoli il figlio, TEODOSIO II. Sotto il suo
regno venne ristrutturata e ampliata l’università di Costantinopoli, già fondata da Costantino I; venivano
così poste le fondamenta di fenomeni che avrebbero accompagnato Bisanzio per tutta la sua storia: la
compenetrazione fra cristianesimo e tradizione classica e l’affermazione di Costantinopoli come grande
centro di istruzione superiore. Altrettanto notevole per la vita pubblica fu la promulgazione di nel 438 del
Codex Theodosianus, contenente la raccolta delle leggi imperiali dai tempi di Costantino in avanti, concepita
allo scopo di mettere fine con un testo ufficiale al grande disordine legislativo del tempo.
A parte due brevi guerre con i persiani nel 421-422 e nel 441-442, il problema più pressante fu la disastrosa
invasione degli Unni di Attila, rovesciatisi dapprima sull’Oriente per poi prendere la via dell’Occidente.
Giunto in Italia, dopo aver devastato Aquileia e altre città, si ritirò all’improvviso nei suoi accampamenti
lungo il Danubio, verosimilmente a seguito degli accordi conclusi con il papa Leone I. Morì nel 453 e con lui
anche l’impero unno che si disgregò rapidamente.
Sotto Teodosio II fu proseguita la politica di liquidazione del paganesimo e si affacciarono nuove
problematiche cristologiche, che causarono aspre lotte per l’affermazione dell’una o dell’altra dottrina fra
le grandi sedi patriarcali da cui erano sostenute: il nestorianesimo da Antiochia, il monofisismo da
Alessandria. La prima venne sconfitta al terzo concilio ecumenico, tenutosi a Efeso nel 431, mentre la
seconda venne approvata nel cosiddetto “concilio dei briganti” dal 449. Fu Marciano a convocare un nuovo
concilio, questa volta ufficiale, in Calcedonia nel 451, con il quale si ottenne la condanna del monofisismo.
Questo quarto concilio fu un avvenimento centrale nella storia ecclesiastica della tarda antichità: condusse
alla definizione dell’ortodossia religiosa mettendo fine, almeno ufficialmente, alle controversie cristologiche
e, nello stesso tempo, sancì l’equiparazione fra le sedi vescovili di Roma e di Costantinopoli, pur
riconoscendo al papa il primato nella chiesa. Questo canone rappresenta il punto d’arrivo della crescita
della “nuova Roma”, che venne equiparata alla vecchia anche sotto il profilo dell’istituzione ecclesiastica,
anche se da questo momento sarebbe iniziata una forte rivalità tra le due sedi vescovili. Malgrado la vittoria
della dottrina calcedoniana, il monofisismo continuò per un paio di secoli a rappresentare un grande
problema sul piano religioso: pur essendo stato sconfitto, andò infatti radicandosi soprattutto nelle
province orientali, in Siria e in Egitto. La divisione religiosa portò a contrasti fra il centro ortodosso e la
periferia eretica che assunsero anche carattere politico, dato che i monofisiti facevano coincidere con il
nazionalismo l’opposizione dottrinale a Costantinopoli. I sovrani, di conseguenza, furono spesso costretti a
cambiare politica religiosa per favorire l’uno o l’altro partito.
Zenone esercitò fin dall’inizio un’autorità molto precaria e dovette fronteggiare una lunga serie di ribellioni,
la più grave delle quali fu la congiura di corte che per un breve periodo portò al potere Basilisco. Nella fase
acuta della crisi di potere a Costantinopoli si compì il destino dell’altra parte dell’impero allorché, nel
settembre del 476, il capo dei mercenari germanici in Italia, Odoacre, depose il giovane sovrano Romolo
Augusto. In realtà l’Occidente già da tempo aveva iniziato un’agonia irreversibile e l’avvenimento altro non
fece che sancire formalmente la fine di un’autorità soltanto apparente. Dato che Costantinopoli continuava
a essere considerata legalmente la sede del governo romano, Odoacre richiese la sua legittimazione al
sovrano orientale, ma andò incontro a un ostinato rifiuto. L’impotenza di fronte alla crisi del governo di
Ravenna fu comunque compensata a Bisanzio con la chiusura definitiva della questione germanica: era
infatti rimasto il problema dell’ingombrante presenza dei foederati Ostrogoti in Macedonia e in Tracia.
Zenone li inviò in Italia per cacciare Odoacre e ripristinare la sovranità dell’impero. Dal punto di vista
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formale, Teodorico l’Amalo combatteva per Zenone come magister militum, anche se l’imperatore non
doveva farsi molte illusioni sulla sua fedeltà e l’unico successo reale fu ottenuto eliminando dall’Oriente la
scomoda presenza dei barbari. Iniziava così il dominio ostrogoto sull’Italia, destinato a prolungarsi fino a
oltre la metà del secolo successivo, quando fu eliminato da Giustiniano.
I dissidi di natura religiosa suscitati dal concilio di Calcedonia continuavano intanto a restare in primo piano.
Zenone cercò di porre fine alle controversie pubblicando nel 482, d’intesa con il patriarca di Costantinopoli
Acacio, l’Henotikon, o “editto d’unione”, destinato a conciliare le due dottrine monofisita e ortodossa. La
formulazione ambigua dell’editto, che accettava le conclusioni dei primi tre concili senza entrare nel merito
di quanto stabilito al quarto, deluse tuttavia entrambe le parti e papa Felice III scomunicò il patriarca di
Costantinopoli. Acacio, a sua volta, si oppose al papa e si giunse così a uno scisma (detto “scisma di Acacio”)
che sarebbe durato per una trentina d’anni.
L’ETÀ DI GIUSTINIANO
GIUSTINIANO I rinnovò profondamente il vecchio impero, e la sua età può essere considerata il periodo più
splendido della prima fase di storia bizantina. Egli si impegnò in un ambizioso programma di riconquista dei
territori appartenuti all’Occidente, motivato da forti convinzioni ideologiche: si sentiva profondamente
romano e considerava un suo diritto far rientrare le regioni perdute sotto il dominio imperiale in quanto,
secondo le concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinto che tale compito gli
fosse stato affidato da Dio, dal quale aveva ricevuto il potere. Con lunghi anni di guerre, riuscì a recuperare
cica un terzo dei territori occidentali, portando così l’impero bizantino a un’estensione in seguito mai più
raggiunta.
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È probabile che inizialmente Giustiniano non pianificasse la riconquista globale dei territori della pars
Occidentalis, ma l’abbia progettata solo dopo aver visto con quanta facilità era riuscito a riappropriarsi
dell’Africa settentrionale. Infatti, la spedizione condotta dal generale Belisario, nell’arco di appena un anno,
(533) con due fortunate battaglie ebbe ragione dei Vandali.
Nel 552 invece iniziò la campagna spagnola, allorché i Bizantini intervennero nelle contese dinastiche del
regno visigoto. Quando queste terminarono, nel 555, le truppe inviate in appoggio a uno dei contendenti
non abbandonarono il paese e la dominazione imperiale venne così estesa a una porzione della Spagna.
La guerra greco-gotica con cui venne riconquistata l’Italia fu il più lungo e cruento episodio bellico del
periodo giustinianeo. Ebbe inizio nel 535 con lo sbarco in Sicilia di un’armata imperiale ancora al comando
di Belisario, che ottenne facilmente la capitolazione dell’isola. L’anno successivo le operazioni contro gli
Ostrogoti ripresero nella penisola e si protrassero per una ventina d’anni tra vittorie e sconfitte di entrambe
le parti. Si arrivò a una svolta soltanto nel 552, con l’invio di un’armata imperiale al comando dell’eunuco
Narsete.
Nel 554 Giustiniano emanò la Prammatica Sanzione, un testo legislativo con il quale ristabiliva legalmente il
dominio imperiale in Italia. Non furono introdotte novità particolari dal punto di vista dell’amministrazione
civile, ma il territorio italiano soggetto al nuovo prefetto del pretorio fu notevolmente ridotto, limitandosi
alla sola penisola con la sottrazione della Sicilia (retta da un pretore dipendente da Costantinopoli), della
Sardegna e della Corsica (passate sotto l’Africa). Alla prova dei fatti la restaurazione imperiale fu soltanto
apparente e segnò in realtà la fine dell’autonomia politica italiana, trasferendo il governo sia civile sia
militare e la burocrazia a elementi di provenienza orientale. L’autorità civile, inoltre, fu progressivamente
messa in ombra dai militari, anticipando fin dal tempo di Giustiniano un fenomeno in seguito caratteristico
dell’esarcato ravennate.
Il rovescio della medaglia delle grandi conquiste giustinianee fu rappresentato dalle guerre difensive contro
i Persiani in Oriente, che nel 540 avevano rotto la “pace perpetua”, e contro i vari invasori nella penisola
balcanica, il cui esito fu in generale sfavorevole all’impero. Dopo anni e anni di guerra, nel 561 la stanchezza
dei contendenti condusse a una pace di cinquant’anni fra Bizantini e Persiani; mentre nella penisola
balcanica, dove la difesa militare venne volutamente trascurata, il sovrano si limitò ad usare la diplomazia,
comprando la pace con i nemici (come aveva fatto con i Persiani), e ad avviare un programma sistematico di
fortificazioni al fine, soprattutto, di mettere al riparo le popolazioni civili dai danni delle incursioni.
Caratteristica costante di tali movimenti di popoli – Bulgari, Eruli, Gepidi, Longobardi, Slavi – fu la
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transitorietà, dato che, di norma, dopo aver saccheggiato il territorio imperiale, gli invasori si ritiravano
nelle loro terre.
Il punto più alto dell’attività riformatrice di Giustiniano si ebbe con il Corpus Iuris Civilis (529-534), una
raccolta di leggi destinata a porre fine alla confusione legislativa che impediva il corretto funzionamento
della giustizia. Esisteva già il Codex Theodosianus, tuttavia esso raccoglieva le leggi in maniera acritica,
comprendendo anche norme ormai obsolete e, nello stesso tempo, doveva fungere da lavoro preparatorio
a un’opera più ampia, comprensiva della letteratura giuridica, che in realtà non fu mai attuata.
La raccolta giustinianea si articola in quattro parti:




Codex Iustinianus: raccoglie le leggi imperiali dal II secolo fino al 534, con le modifiche necessarie
per adattarle al diritto vigente;
Institutiones: un manuale per lo studio del diritto, concepito come strumento didattico per gli
studenti delle università bizantine;
Digesto / Pandétte: una raccolta della giurisprudenza necessaria per la risoluzione delle cause nei
tribunali;
Novelle: una raccolta delle leggi emesse dopo la pubblicazione del Codice.
In materia religiosa Giustiniano operò con energia per raggiungere un’unità che potesse consolidare lo
stato. Inasprì la legislazione contro gli eretici, e in particolare la vittima più illustre delle sue persecuzioni fu
la scuola filosofica di Atene, chiusa nel 529. L’avvenimento è importante anche come elemento di
periodizzazione in quanto è un simbolo della fine del mondo antico, la cui religione tradizionale viene
definitivamente sconfitta dal cristianesimo. L’atteggiamento nei confronti dei monofisiti andò verso
un’intesa (grazie anche alle simpatie della moglie Teodora) attraverso la condanna dei Tre Capitoli, ovvero
degli scritti di tre teologi orientali accusati di nestorianesimo, formulata durante il quinto concilio
ecumenico svoltosi nel 553 a Costantinopoli. Egli in questo modo volle assicurarsi la fedeltà di Siria e Egitto
per recuperare l’Africa nord-occidentale soggetta ai Vandali; inoltre, la diffusione del nestorianesimo in
Persia e in India, oltre le frontiere dell’impero bizantino, rischiava di creare comunità religiose che
travalicavano i limiti territoriali e perciò indebolire l’autorità di Bisanzio su un confine tradizionalmente
pericoloso come quello con l’impero persiano. La condanna dei Tre Capitoli ebbe però un esito drammatico,
che condusse a una profonda spaccatura all’interno della chiesa cristiana. I vescovi occidentali, guidati da
Vigilio vescovo di Roma, si rifiutarono di accogliere il nuovo editto, anche per segnalare la loro distanza
dalle mire espansionistiche di Giustiniano verso l’Occidente. Vigilio – considerato da Giustiniano alla pari di
tutti gli altri sudditi – fu arrestato, trasferito a Costantinopoli e costretto a ratificare l’editto, ma gli altri
vescovi della penisola italiana si rifiutarono di aderire e da ciò nacque lo scisma detto per l’appunto dei Tre
Capitoli: esso durò fino alla fine del VII secolo e incarnò l’opposizione delle sedi metropolite italiane a ogni
volontà centralistica, ivi compresa quella del pontefice romano. Il tentativo di Giustiniano fu dunque quello
di dare autorevolezza alle sedi episcopali delle città di Costantinopoli e di Roma per ritrovare attraverso
dogmi di fede unitari una coesione anche sociali e politica. Col tempo, superato lo scisma dei Tre Capitoli, il
tentativo ebbe successo in Occidente, dove il prestigio della sede romana si affermò in modo sempre più
sensibile. Nella parte orientale dell’impero, invece, la chiesa di Costantinopoli, fortemente compromessa da
un potere imperiale duraturo e vitale, non riuscì ad ottenere un uguale primato di autorevolezza sulle sedi
patriarcali concorrenti.
DOPO GIUSTINIANO
Nel quarantennio che seguì la morte di Giustiniano l’impero bizantino attraversò una crisi profonda, i cui
primi sintomi si erano già fatti avvertire alla fine del regno di quest’ultimo con il sostanziale fallimento delle
riforme e la disgregazione del dispositivo militare. La stessa riconquista dell’Occidente si rivelò molto fragile
a causa, soprattutto, dell’eccessiva dilatazione dei confini che indebolì le possibilità di difesa.
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In Spagna nel 569 una controffensiva Visigota spinse gli imperiali alla costa, fino poi a espellerli del tutto
qualche anno più tardi; l’Africa fu agitata da rivolte indigene, mentre l’Italia nel 568 venne invasa dall’intero
popolo dei Longobardi. I bizantini non poterono far fronte a questa minaccia e si limitarono perlopiù a
resistere nelle zone costiere dove i rifornimenti via mare permettevano loro una facile supremazia.
La conquista longobarda si mosse in più direzioni, al nord e al centro, e arrivò in profondità con i ducati di
Spoleto e Benevento. In risposta l’imperatore bizantino – Maurizio – istituì l’esarcato, una nuova struttura
politico-militare (formata anche in Africa negli stessi anni, con sede a Cartagine) in cui, in forza dello stato di
guerra permanente, venne meno la tradizionale suddivisione fra autorità civile e militare e tutto il potere
passò nelle mani degli esarchi, che governavano le province tramite capi militari da loro dipendenti. In Italia
la sede dell’esarca era Ravenna, e la sua autorità si estendeva su quanto a Bisanzio restava dell’Italia, cioè
più o meno un terzo della penisola, con esclusione di Sicilia e della Sardegna rimaste sotto altre
giurisdizioni. I confini dell’esarcato d’Italia comunque non sono definibili nettamente, perché andarono
soggetti a continui aggiustamenti, a motivo della conflittualità pressoché incessante fra Longobardi e
Bizantini.
Un altro fronte di guerra di ampie dimensioni si aprì nei Balcani negli stessi anni in cui i Longobardi
dilagavano in Italia, dove gli Slavi si insediarono in buona parte. La conquista slava diede origine a un
fenomeno storico del tutto particolare, che presenta due aspetti caratteristici: l’insediamento stabile di
popolazioni nemiche in territorio imperiale e la slavizzazione della penisola balcanica, dove le popolazioni
autoctone scomparvero o si ritirarono nelle coste, nelle isole e fra le montagne più inaccessibili. Molti
territori vennero sottratti al dominio imperiale, formando le cosiddette “slavinie” (zone di dominazione
slava) che Bisanzio avrebbe faticosamente recuperato con un’azione secolare di riconquista. Le regioni
settentrionali e centrali dei Balcani furono occupate pressoché integralmente dagli Slavi, mentre restarono
sotto l’autorità bizantina le città costiere dell’Adriatico e del mar Nero nonché Tessalonica e la stessa
Costantinopoli, sebbene la prima fosse interamente circondata da territori slavi e la seconda esercitasse
soltanto un dominio precario sulle zone circostanti della Tracia. Nella parte meridionale della penisola
balcanica, la Tessaglia, l’Epiro e le regioni occidentali del Peloponneso furono profondamente slavizzate e
l’impero continuò a controllare soltanto le città che potevano essere raggiunte via mare.
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Un altro popolo barbaro, gli Avari, si stanziò invece nella pianura dell’attuale Ungheria.
Negli stessi anni in cui si disgregavano i confini occidentali si ebbe una ripresa in grande stile delle guerre
persiane, che portarono all’invasione dell’Armenia, della Mesopotamia e di parte dell’Asia Minore da parte
di Cosroe II. Nel 614 fu presa Gerusalemme (dove i conquistatori si impossessarono della reliquia della
Santa Croce) e nel 619 cadde anche l’Egitto.
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PERIODO MEDIOBIZANTINO
(METÀ VII SECOLO, PRIME INVASIONI ARABE – 1204, BISANZIO CADE NELLE MANI DEI CROCIATI)
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A partire dal regno di ERACLIO iniziò una nuova fase della storia bizantina, caratterizzata in primo luogo
dallo sforzo compiuto per sopravvivere agli attacchi dei nemici esterni (dapprima i Persiani e gli Avaro-Slavi,
poi prevalentemente gli Arabi e i Bulgari). Abbandonando ogni velleità di espansione, Bisanzio restò per lo
più sulla difensiva e, malgrado una consistente perdita di territorio, riuscì a contenere gli attacchi spesso
portati nello stesso tempo su più fronti.
In questa stessa epoca, in conseguenza dello stato di guerra perenne, della riduzione del territorio
imperiale – che rese pletoriche alcune funzioni, e dell’interferenza dell’autorità militare su quella civile,
vennero avviate importanti riforme dell’amministrazione centrale e periferica, destinate a cambiare
profondamente il sistema statale ereditato dall’impero romano. La vittima più illustre del cambiamento fu
la prefettura del pretorio, che si dissolse nel corso del VII secolo. Le sue attribuzioni finanziarie risultarono
variamente ripartite fra nuovi funzionari dal titolo di logoteti e i servizi che a questa facevano capo
confluirono in uffici centrali più piccoli, chiamati sekreta, rendendo di fatto più agile l’amministrazione. La
fine degli esarcati (nel 698 in Africa e nel 751 in Italia) poi fece venir meno la figura dell’esarca e a loro volta
i magistri militum regionali scomparvero per far posto agli strateghi dei temi. La più importante riforma
amministrativa, il cui inizio è incerto e variamente attribuito a Eraclio o ai suoi immediati successori, fu
realizzata con l’introduzione del regime dei temi (probabilmente dalla parola greca thema, corrispondente
a “corpo d’armata”), che costituirà l’asse portante dell’impero bizantino nell’età di mezzo. I temi erano
nuovi distretti amministrativi retti da uno stratego, che accentrava la suprema autorità civile e militare. Si
abbandonava così la separazione fra i due poteri, tipica del mondo romano, in nome di una militarizzazione
del territorio, resasi necessaria per affrontare la continua emergenza bellica. La prassi non era del tutto
nuova, essendo già stata sperimentata occasionalmente da Giustiniano in alcune regioni turbolente
trovando poi una prima applicazione su larga scala nel regime degli esarcati d’Africa e d’Italia, dove si era
rivelata particolarmente efficace. La stessa formula venne poi riproposta da Eraclio in Asia Minore e da lì si
diffuse gradualmente nel resto dell’Impero. Il regime dei temi semplificò l’amministrazione provinciale,
superando il macchinoso sistema tardo-romano di prefetture, diocesi e province, variamente suddivise nei
nuovi distretti direttamente dipendenti dal governo centrale; e inoltre consentì di far fronte in maniera più
efficace alla pressione nemica sulle frontiere, potenziando le capacità difensive dell’Impero.
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Al sistema amministrativo dei temi si accompagnò la creazione di un nuovo tipo di esercito: i soldati-coloni
(gli stratioti), ai quali veniva assegnato dallo stato un fondo da coltivare in cambio della prestazione
ereditaria del servizio militare. Anche questa prassi era stata già anticipata dai limitanei, cioè i reparti di
confine del mondo tardo-antico, ma si era rivelata fallimentare, soprattutto perché aveva creato un esercito
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di seconda categoria rispetto a quello mobile, che andò progressivamente decadendo fino a essere, a
quanto pare, parzialmente smobilitato da Giustiniano. Ora venne al contrario applicata su larga scala e si
rivelò vantaggiosa per due motivi: liberò l’impero dal costoso mantenimento di un esercito di professionisti
e creò allo stesso tempo una solida armata di soldati-coloni più motivati alla difesa del territorio di quanto
non fosse stato l’esercito di mestiere.
Un altro cambiamento caratteristico del periodo medio-bizantino consiste nell’ampia diffusione di costumi
e mentalità orientali, che gradualmente soppiantarono il modello tardo-romano. Nel quadro di un naturale
processo di evoluzione storica, l’impero di Costantinopoli assunse così una propria fisionomia, ma non di
meno continuò a ritenersi unico erede e continuatore di Roma con le conseguenti pretese ecumeniche. Dal
punto di vista culturale questa evoluzione fu segnata dall’adozione del greco come lingua ufficiale (venne
sempre meno la conoscenza del latino); lo stesso sovrano abbandonò la titolatura latina di autokrator e
augustus per il ricorso a quella greca di basileus, che si mantenne con piccole varianti fino alla fine
dell’Impero: più tardi, a seguito dell’incoronazione di Carlo Magno, per sottolineare la diversità
dall’Occidente, il sovrano di Costantinopoli si chiamò “basileus Rhomaion”, cioè “imperatore dei Romani”, e
nel X secolo, quando gli zar dei Bulgari assunsero a loro volta il titolo di basileus, si aggiunse di nuovo la
definizione di autokrator.
/
Eraclio, rompendo una con una tradizione ormai consolidata, per cui i sovrani non si allontanavano da
Costantinopoli, condusse di persona i suoi eserciti contro i Persiani; abbandonò inoltre la consueta strategia
difensiva attaccando direttamente i nemici nel loro territorio: nel 622 assalì l’Armenia persiana riportando
un’enorme vittoria e, negli anni seguenti, proseguì la battaglia penetrando in Persia, dove, nel dicembre del
627, distrusse l’armata nemica. Nel 628 la Persia capitolò ed Eraclio rientrò in patria dopo aver concluso un
trattato di pace con il nuovo re Sheroe, che aveva da poco deposto e fatto uccidere il padre Cosroe II. La
Santa Croce venne trionfalmente riportata indietro e in questo modo, dopo secoli, si chiudeva lo scontro fra
Persiani e Romani, con la definitiva vittoria di questi ultimi. La vittoria bizantina venne resa vana
dall’espansione dell’Islam che iniziò pochi anni dopo. Gli Arabi, vissuti per secoli al margine dei grandi
avvenimenti storici, trovarono coesione nella nuova religione islamica predicata da Maometto e, dopo la
sua morte, sotto la guida dei califfi aggredirono sia la Persia che Bisanzio. Il regno persiano cessò di esistere
nell’arco di un ventennio, mentre l’impero bizantino subì notevoli mutilazioni territoriali: venne privato di
alcune città antiche ed importanti come Alessandria e Gerusalemme, per cui Costantinopoli rimase l’unica
città importante dell’impero. L’espansione araba fu facilitata dal fatto che nelle regioni in cui la fedeltà a
Bisanzio era messa in forse dai contrasti in materia di fede – come la Siria e l’Egitto, le popolazioni
guardavano con simpatia alla tolleranza dei nuovi arrivati. La ricerca di una soluzione alla questione
religiosa a questo punto si fece pressante e anche Eraclio come i suoi predecessori cercò di risolvere il
dissidio con i monofisisti. Al tal fine vennero elaborate due nuove dottrine destinate nell’intenzione dei
promotori a realizzare la conciliazione fra le tesi opposte: la prima di queste fu il monoenergismo, secondo
la quale le due nature di Cristo corrispondono a un’unica forza agente; la seconda fu il monotelismo: in
ragione della quale esisterebbero due nature in Cristo ma un’unica volontà. Quest’ultima, approvata dal
papa, fu poi resa ufficiale con l’Ekthesis, un editto in materia di fede emesso da Eraclio nel 638. Ancora una
volta, come era ormai consuetudine, le decisioni su questioni di fede non trovarono il consenso che ci si
attendeva: l’Ekthesis suscitò l’opposizione sia degli ortodossi sia dei monofisiti.
Durante il califfato di Othman (3° califfo) gli Arabi divennero inoltre una potenza navale e sconfissero
rovinosamente la flotta imperiale comandata da Costante II, mettendo fine in questo modo alla
talassocrazia bizantina, che fino a quel momento non aveva avuto rivali, e inaugurando un secolare capitolo
di guerre sul mare. Nel 674, sotto il regno di Costantino IV, gli Arabi per la prima volta portarono l’attacco al
cuore stesso dell’impero assediando Costantinopoli. L’assedio si protrasse per quattro anni per terminare
con la vittoria bizantina, dovuta in buona parte all’azione del “fuoco greco”, la cui invenzione data a quei
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tempi. Si trattava di un’arma segreta, di cui ignoriamo la composizione, formata da una miscela incendiaria
capace di bruciare anche sull’acqua e che veniva lanciata attraverso un condotto bronzeo sulle navi
nemiche facendo strage. Il califfo Muawiya (1° califfo Omayyade), a seguito della sconfitta, concluse un
trattato trentennale con l’impero e pagò un tributo.
La dinastia di Eraclio andò incontro a una fine drammatica con Giustiniano II, figlio di Costantino IV, salito al
trono dopo la morte del padre. All’inizio del suo regno Giustiniano rinnovò a condizioni vantaggiose la pace
con gli Arabi ed ebbe di conseguenza le mani libere per un attacco di forza nei Balcani, dove conseguì
notevoli successi contro gli Slavi – che si sommarono alle precedenti vittorie di Costante II – che in gran
numero furono deportati in Asia Minore e costretti a prestare servizio militare per l’impero. La ripresa della
guerra contro gli Arabi nel 691 ebbe tuttavia un andamento disastroso per l’imperatore, il quale venne
deposto a favore dello stratego del tema dell’Ellade, Leonzio, sotto il quale gli Arabi conquistarono
Cartagine; in conseguenza della sconfitta subita, la flotta bizantina si ammutinò proclamando imperatore un
ammiraglio che salì sul trono con il nome di Tiberio II. L’instabilità del potere centrale, caduto in notevole
confusione dopo l’eliminazione di Giustiniano II, offrì al sovrano deposto l’imprevedibile opportunità di
riconquistare il potere con l’aiuto dei Bulgari, il cui impero si era costituito intorno al 680 (durante il regno
di Costantino IV) nel territorio dell’antica Mesia e Scizia, alle foci del Danubio, con l’insediamento di tribù
provenienti dal nord e la sottomissione degli Slavi che qui abitavano. Giustiniano ricevette anche l’aiuto del
khen dei Cazari (popolo che in parte aveva sottomesso i Bulgari), presso il quale era fuggito e di cui aveva
sposato la sorella.
Dopo l’uccisione di Giustiniano II, che durante il suo secondo governo aveva instaurato un regime del
terrore, gli Arabi approfittarono della debolezza bizantina per attaccare nuovamente l’Asia Minore.
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L’ICONOCLASTIA
Il regno di LEONE III ISAURICO è dominato dallo sviluppo della controversia iconoclastica, ma presenta
come ulteriori fatti rilevanti le vittorie riportate sugli Arabi (in particolare nel 717, l’episodio dell’assedio
fallito di Costantinopoli) e la pubblicazione di un nuovo manuale di diritto nel 726 con il nome di Ekloghé
(“selezione delle leggi”). Si tratta di un testo di dimensioni ridotte che contiene una scelta delle più
importanti norme del diritto giustinianeo, redatte esclusivamente in lingua greca per servire a usi pratici – a
causa della perdita di conoscenza del latino, e aggiornata secondo i cambiamenti intervenuti nel corso del
tempo.
Come abbiamo visto agli inizi del VIII secolo l’impero bizantino aveva ormai definito un’identità territoriale,
amministrativa e culturale che lo rendeva estremamente diverso da quello che era stato l’impero romano
d’Oriente. Soltanto la religione, il cristianesimo, restava a baluardo di un’identità collettiva che aveva subito
pesanti scossoni: ciò aiuta a spiegare la profonda connessione fra vita civile e vita religiosa, che caratterizzò
l’impero bizantino in tutta la sua millenaria esistenza. Aiuta anche a spiegare perché una controversia di
mero carattere religioso come quella dell’iconoclastia riuscì a travagliare la vita politica dell’impero per
ottant’anni, dagli inizi dell’VIII sino alla metà del IX secolo. I sostenitori dell’iconoclastia (letteralmente
“distruzione delle immagini”) negavano che il divino fosse rappresentabile, anche per influenza delle altre
religioni monoteiste, l’islam e l’ebraismo, apertamente ostili al culto delle immagini visto come retaggio
dell’idolatria pagana. Gli iconoduli (= adoratori di immagini) ritenevano invece che proprio l’incarnazione di
Cristo rendesse legittima la sua rappresentazione pittorica e il culto della sua immagine materiale. Il
dibattito sulle icone non era una novità per il pensiero religioso dei Bizantini, ma una vera e propria contesa
ebbe inizio soltanto nel 726, allorché Leone III si pronunciò contro la venerazione delle immagini e, forse,
emise un editto per vietarla. Alcuni storici hanno pensato che la motivazione di fondo di questo
provvedimento fosse un deliberato attacco contro gli ordini monastici, estremamente ricchi e di fatto
autonomi dal potere imperiale, che anche grazie al culto delle immagini avevano grande influenza sulla
popolazione; altri che l’imperatore volesse in tal modo accogliere le istanze spirituali delle aree più
strettamente a contatto con i musulmani e gli ebrei. Attualmente si tende a considerare valide entrambe le
argomentazioni e in più a considerare come la lotta all’iconoclastia si inserisse in un preciso programma,
politico e ideologico insieme, volto a creare un fronte interno compatto contro il pericolo di un’ulteriore
espansione islamica. Quando infatti il pericolo arabo alle frontiere venne meno, si esaurì anche la lotta
iconoclasta: nel 843 il culto delle icone venne riabilitato con sinodo voluto dalla vedova imperiale Teodora.
La caduta dell’iconoclastia determinò il tramonto delle grandi controversie religiose e, nei rapporti fra stato
e chiesa, segnò la fine del tentativo di assoggettare quest’ultima al volere dei sovrani, anche se la chiesa
ortodossa non si affrancò mai della subordinazione al potere politico tipica del mondo bizantino.
L’APOGEO DELL’IMPERO (843 – 1025)
L’età di maggiore fioritura dell’impero, per lo più segnata dalla presenza sul trono della dinastia macedone,
iniziò con Michele III Amoriano, di cui la storiografia ci ha tramandato un’immagine assolutamente
negativa per via dei suoi costumi dissoluti (veniva detto “l’ubriacone”). In realtà durante il suo regno si
verificarono fatti di grande rilevanza per la storia bizantina: vennero sconfitti gli Arabi in Asia Minore, si
ebbe la fondazione di un’università che divenne il centro della cultura profana del tempo, notevole fu
anche l’intensa attività missionaria destinata alla conversione degli Slavi e dei Bulgari. La cristianizzazione di
queste genti aveva un significato politico, oltre che religioso, perché l’organizzazione di una nuova chiesa
locale estendeva di fatto l’influenza di Bisanzio oltre i confini dell’impero. Per l’impresa Michele III si affidò a
due fratelli di Tessalonica, Costantino e Metodio. Il primo (che prese poi il nome di Cirillo quando si ritirò a
vita monastica) inventò anche un alfabeto slavo, il cirillico.
Michele venne assassinato da Basilio il Macedone, da cui prende avvio l’omonima dinastia, il quale avviò
una politica di potenza con la quale riuscì a consolidare le posizioni di Bisanzio in Italia, in Oriente (contro gli
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Arabi) e in Dalmazia, dove venne riaffermata l’autorità bizantina nei confronti delle città costiere e delle
tribù slave, che si erano pressoché rese indipendenti in età iconoclastica, attraverso la costituzione di un
thema.
Alla morte gli successe il figlio Leone VI, la cui politica estera – a differenza di quella del padre – non seguì
un andamento coerente, facendo registrare successi in Oriente e in Italia e, nello stesso tempo, pesanti
rovesci su altri fronti: nel 904 gli Arabi inflissero una sconfitta di ampia portata all’impero impadronendosi
di Tessalonica (recuperata nel 909), mentre nei Balcani si aprì una nuova guerra contro i Bulgari, conclusasi
con una pace onerosa per il governo di Costantinopoli, che dovette piegarsi a versare un pesante tributo ai
nemici.
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La politica interna portò al contrario a realizzazioni di un certo rilievo, di cui la più notevole fu la chiusura
della riforma del diritto iniziata da Basilio I. Leone VI fece redigere i Basilikà, una raccolta di leggi (in 60 libri)
redatta completamente in greco, frutto in gran parte della rielaborazione del diritto giustinianeo, cui poi si
aggiunsero numerose Novelle emesse dallo stesso sovrano.
Alessandro, fratello di Leone VI, era formalmente co-imperatore e come tale gli subentrò quando questi
morì insieme al piccolo Costantino. Alessandro riaprì il conflitto con i Bulgari, poiché si rifiutò di pagare il
tributo a Simeone, scatenando un suo attacco che arrivò fino alle mura di Costantinopoli. Nonostante la
città fosse praticamente imprendibile, il governo bizantino capitolò comunque e lo zar ottenne il
pagamento degli arretrati del tributo, la promessa di far sposare una delle sue figlie a Costantino VII e la
corona di basileus dei Bulgari. La situazione sfavorevole dell’impero cambiò quando nel 919 si impose fra i
vari pretendenti al trono il comandante della flotta Romano Lecapeno, che riuscì a diventare reggente e
subito invertì la linea arrendevole della precedente politica estera, ottenendo la pace con i Bulgari, il
contenimento sull’espansionismo Russo e importanti vittorie sugli Arabi. Egli è il primo dei tre usurpatori di
età macedone. Caratteristica di tali usurpazioni è l’aver mantenuto sul trono i sovrani legittimi, anche se
privati di ogni potere, in omaggio al lealismo dinastico che si era particolarmente rafforzato nella
popolazione. Romano I si occupò anche di porre freno allo sviluppo del latifondo attraverso una legislazione
a favore della piccola proprietà terriera. Dal tempo dell’istituzione dei temi essa infatti formava la struttura
portante dell’impero: le comunità di villaggio, composte da liberi coltivatori, erano unità fiscali responsabili
verso lo stato e non soggette al patrocinio dei latifondisti. La cessione delle terre, al contrario, implicava la
sottrazione di rendite e di persone: i contadini passavano al servizio dei latifondisti, che in cambio li
proteggevano dai funzionari imperiali; lo stato perdeva i soldati, le prestazioni che sotto forma di corvées
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erano richieste ai contadini e i tributi di conseguenza finivano nelle mani dell’aristocrazia terriera. Con una
legge del 922 Romano I ristabilì il diritto di preacquisto dei fondi da parte dei vicini in caso di alienazione
(protìmesis); in questo modo la proprietà sarebbe rimasta nell’ambito della comunità di villaggio,
evitandone il passaggio ai grandi proprietari. La legge però si rivelò inefficace, così come anche quella
successiva – con la quale Romano I prescrisse l’invalidità di regalie, eredità e contratti analoghi e la
restituzione senza indennizzo dei beni pagati a meno della metà del valore – perché i funzionari imperiali
che avrebbero dovuto far rispettare le norme in merito all’inglobamento dei fondi minori da parte dei
potenti, erano di regola essi stessi dei latifondisti. Dunque, chi aveva il potere di far rispettare le norme in
materia, era chi ne traeva vantaggio infrangendole. Questo fu il principale motivo per cui fallì la politica
agraria dei macedoni, che venne sabotata da chi avrebbe dovuto far rispettare le leggi.
Niceforo II Foca assunse il potere come già Romano I in qualità di tutore degli imperatori legittimi, il cui
diritto a regnare non venne formalmente messo in discussione. Il nuovo imperatore era un esponente
dell’aristocrazia militare che si andava affermando in quegli anni e, come tale, cambiò rotta seguendo una
politica agraria favorevole ai “potenti” attraverso l’abolizione parziale del diritto di preacquisto. Si
preoccupò comunque di rafforzare l’organizzazione militare e di limitare lo sviluppo delle grandi proprietà
ecclesiastiche e monastiche. Proseguì poi la politica militare aggressiva dei predecessori, conquistando ai
danni degli Arabi la Cilicia, Cipro e gran parte della Siria (anche la capitale Antiochia tornò all’impero).
Vennero ugualmente rafforzate le posizioni in Italia meridionale. Giovanni I Zimisce, come il predecessore,
fu un valente capo militare ed estese notevolmente i confini dell’impero. Sconfisse i Russi, che avevano
invaso la Bulgaria, consolidò le recenti conquiste di Bisanzio in Siria estendendole in Palestina, dove giunse
a poca distanza da Gerusalemme, e risolse la complicata situazione creatasi in Italia meridionale con
l’aggressione ottoniana per via diplomatica. Ma le più grandi vittorie le si ebbero sotto il regno di BASILIO II,
il quale oltre a riprendere la lotta contro la grande proprietà terriera – promulgando una legge con cui
dispose che tutte le terre acquistate dai potenti a partire dal 922 dovessero essere restituite ai poveri senza
alcun indennizzo – combatté i nemici esterni e sostenne contemporaneamente quattro fronti: i Balcani, la
Siria, il Caucaso e l’Italia. Fra questi tuttavia fu di gran lunga il più importante quello balcanico, dove
l’imperatore si impegnò a combattere la potenza bulgara per parecchi anni, con ferocia e determinazione,
tanto da guadagnarsi il soprannome di bulgaroctono (“uccisore di Bulgari”), fino ad annientarli
definitivamente nel 1018. La Bulgaria venne così annessa all’impero, che recuperava il dominio sull’intera
penisola balcanica dopo averlo perduto al tempo delle invasioni di Avari e Slavi.
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LA CRISI DEL XI SECOLO
Nel cinquantennio che seguì la morte di Basilio II l’impero bizantino andò incontro a una rapida decadenza,
dovuta all’azione coincidente di cause interne ed esterne.
Sul piano interno ebbe particolare rilievo l’indebolimento dell’autorità centrale con il conseguente
affermarsi del dominio incontrastato dei latifondisti. Gli stessi sovrani che si susseguirono nel corso dell’XI
secolo furono per lo più esponenti dell’aristocrazia civile di Costantinopoli, formata da grandi proprietari
terrieri e assai lontana per ideali e metodi di governo dagli imperatori macedoni, e soprattutto da Basilio II.
Come tali, non si opposero più ai potenti, assumendo un atteggiamento all’apparenza neutrale, ma che di
fatto assicurò la vittoria dei latifondisti. Questi aumentarono sempre di più le loro proprietà a svantaggio di
quelle più piccole, che scomparirono, facendo così passare i coltivatori civili o militari a loro servizio. Il
sistema della pronoia non fece altro che accentuare questo fenomeno: si trattava di una ricompensa in
terre per i servizi prestati che il sovrano concedeva ai “potenti” affinché le amministrassero trattenendone
le rendite. L’assegnazione della pronoia era temporanea e in genere durava quanto la vita del beneficiato.
Si andava così configurando un feudalesimo bizantino, un fenomeno che fino a quel momento non aveva
trovato posto in uno stato fortemente centralizzato e che finì per trasformare rapidamente il volto
dell’impero, trasferendo il potere – e le lotte per conquistarlo – alle famiglie rivali provenienti dal nuovo
ceto di magnati che soppiantò l’aristocrazia militare.
Il partito civile al potere, inoltre, trascurò – e in alcuni casi volutamente danneggiò (per contenere la rivale
aristocrazia militare) – l’esercito nazionale causandone una rapida disgregazione e la progressiva
sostituzione del sistema dei temi con il reclutamento di mercenari. La crisi del tradizionale apparato militare
incise notevolmente sulle possibilità di contenere i nuovi e più agguerriti nemici che premevano sulle
frontiere conducendo a catastrofiche disfatte, a seguito delle quali l’estensione territoriale dell’impero si
ridusse notevolmente: i Normanni di Roberto il Guiscardo conquistarono l’Italia meridionale, nella penisola
Balcanica irruppero gli Ungari e in Oriente iniziarono a muoversi i pericolosi Turchi Selgiuchidi (così detti dal
nome di un loro capo), i quali assestarono il colpo definitivo al decadente impero arabo e ne ripresero la
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politica espansiva. Nel 1068 l’imperatore Romano IV Diogene condusse un esercito di mercenari paceneghi,
uzi, normanni e franchi contro di loro e, dopo qualche successo, subì una rovinosa sconfitta il 9 agosto del
1071 nei pressi della città armena di Mantzikert. Questa battaglia ha un rilievo epocale perché segna il
tracollo della potenza militare dell’impero e, in un certo senso, l’inizio della fine di Bisanzio, che anche in
seguito non riuscì ad opporsi all’espansionismo turco, venendone infine travolta. Alcuni anni dopo la
battaglia i Turchi si erano già impossessati di gran parte dell’Asia Minore, dove nel 1078 il principe Sulaiman
costituì sulle rovine del dominio imperiale il sultanato di Iconio, o di Rum, cioè il “sultanato romano”, con
capitale dapprima a Nicea, poi a Iconio (Conia). Bisanzio controllava ancora la parte occidentale dell’Asia
Minore, le coste del Mediterraneo e il Mar Nero, ma aveva perduto gran parte della regione più prosperosa
del suo dominio.
La frattura religiosa fra Costantinopoli e Roma, infine, divenne irreversibile a seguito dello scisma del 1054.
Lo scontro fra il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario e papa Leone IX, iniziato per il controllo delle
chiese locali nell’Italia meridionale, si spostò ben presto sul piano dogmatico-dottrinale e investì i
tradizionali punti di dissidio:





La questione del flioque;
La dottrina della duplice processione dello Spirito Santo;
Il digiuno del sabato;
Il matrimonio dei preti;
L’uso di diversi tipi di pane nella comunione.
DAI COMNENI AGLI ANGELI
Il periodo che va dal 1081 al 1204 vede la stabile permanenza sul trono di esponenti dell’aristocrazia
militare che con Alessio I Comneno riuscì a imporsi su quella civile. I Comneni diedero vita a una rinascita
della potenza imperiale, ma questa fu resa possibile da uno sfruttamento talvolta spietato di tutte le risorse
disponibili e da un continuo aumento della tassazione, che colpì in maniera sempre più pesante le
popolazioni delle province creando una diffusa miseria e una forte frattura sociale. In particolare, il sistema
della pronoia assunse un carattere essenzialmente militare – mantenuto fino alla fine dell’impero – che
consentì di ricostruire un esercito indigeno, assai lontano come organizzazione da quello antico dei soldaticoloni, che tuttavia si affiancò al reclutamento dei mercenari e contribuì a risollevare le forze militari
dell’impero. Il concessionario della pronoia è ora chiamato “soldato” ed è un militare a cavallo che
partecipa alle guerre con un seguito di armati; la pronoia resta un semplice possesso – inalienabile e non
ereditario, ma finché il pronoiario possiede i beni assegnati e i contadini ne fanno parte ne è signore
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assoluto ed esercita i diritti e le competenze spettanti all’autorità pubblica (tra cui la riscossione delle
tasse). I risultati così ottenuti furono brillanti, soprattutto perché consentirono la parziale riconquista del
territorio perduto, in particolare sotto il regno di Manuele I, che riuscì a sottomettere Ungheria, Dalmazia,
Croazia, Bosnia, Sirmio e Serbia; parte dell’Italia meridionale (che dovette però abbandonare) e dell’Asia
Minore.
I successi di Manuele I Comneno furono però dovuti soltanto alla sua energia personale e non poggiavano
su basi solide; quando l’armata imperiale venne annientata dai turchi a Miriocefalon in Asia Minore. La
sconfitta, paragonabile per importanza a Mantzikert, segnò infatti la fine della restaurazione comnena e la
mancanza di residue energie per ricostituirla diede l’avvio a un rapido processo di disgregazione
dell’apparato statale le cui conseguenze disastrose si sarebbero avvertite nell’arco di pochi anni.
La maggiore novità di questo periodo consiste comunque nei diversi rapporti instaurati con l’Occidente,
dovuti soprattutto al movimento di persone e idee legato alle crociate. Venne così meno la tradizionale
chiusura di Bisanzio al mondo esterno, ma nello stesso tempo si presentarono problemi nuovi, il primo dei
quali riguardò la penetrazione commerciale delle repubbliche marinare, e in particolare Venezia, che
indebolì notevolmente l’economia bizantina e finì per trasformarsi in predominio politico. La svolta nei
confronti di Venezia la si ebbe al tempo del primo imperatore della dinastia, Alessio Comneno, quando la
repubblica si ritrovò a svolgere un ruolo centrale nella difesa dell’impero; Bisanzio infatti necessitava di
aiuto navale contro i Normanni, e si rivolse a Venezia in qualità della sua flotta. In cambio la città ricevette
importanti concessioni, espresse all’interno della crisobolla (editto munito di sigillo aureo) emessa dal
sovrano nel 1082: i dogi ottennero il titolo perpetuo di protosévastos, che li metteva sullo stesso piano della
famiglia imperiale, e il relativo stipendio; mentre ai patriarchi veniva concesso alle stesse condizioni il rango
di ypértimos, di norma dato agli ecclesiastici che il sovrano intendeva onorare in modo speciale. Furono poi
elargiti beni immobili e vantaggi nell’esercizio del commercio, che riguardavano la facoltà di vendere o
acquistare “ogni genere di merce” senza pagare alcuna tassa, essere sottoposti a requisizioni e alla
giurisdizione dei funzionari marittimi. I privilegi commerciali furono senza dubbio i più importanti per la
città lagunare, perché le esenzioni concesse fecero ottenere ai Veneziani una posizione di preminenza nel
commercio orientale. I rapporti tra Bisanzio e Venezia furono tuttavia altalenanti.
Con la caduta di Andronico I terminò la dinastia comnena. La nobiltà feudale, uscita vittoriosa dal conflitto
con il governo centrale, pose sul trono Isacco Angelo, da cui prese avvio l’omonima dinastia, terminata
bruscamente nel 1204 con la presa di Costantinopoli in occasione della quarta crociata.
LA QUARTA CROCIATA
La quarta crociata, o “crociata dei Veneziani”, venne bandita nel 1198 da papa Innocenzio III; il suo invito fu
accolto dalla feudalità francese e fiamminga, alla quale si unirono i signori tedeschi e dell’Italia
settentrionale. I partecipanti si accordarono per raggiungere l’Egitto via mare e, per procurarsi una flotta
adeguata, si rivolsero a Venezia, che accettò in cambio della metà dei territori conquistati e di una forte
somma in denaro. Al momento della partenza però non fu possibile raccogliere la somma dovuta e allora il
doge propose di conquistare per conto del comune la città di Zara; la richiesta fu accolta e la città venne
conquistata senza fatica, così le truppe si fermarono a svernare. Durante il periodo di ferma, Alessio IV
Angelo, figlio dell’ex imperatore Isacco II Angelo che era stato posto in carcere, propose ai crociati di
aiutarlo a recuperare il trono, offrendo in cambio condizioni vantaggiosissime. Prometteva un’enorme
somma di denaro, di rifornire la spedizione e di aiutare militarmente la conquista dell’Egitto, di provvedere
al mantenimento di un corpo di cinquecento cavalieri in Terrasanta e, infine, la sottomissione della chiesa
bizantina a quella romana. La sua proposta venne accolta e le navi crociate arrivarono così a Costantinopoli.
Alessio Angelo però non fu accolto con favore dai suoi compatrioti e, anzi, suscitò sospetto e paura nei
Bizantini, in quanto alleato dei crociati. Le mura cittadine restarono chiuse, e i crociati dopo alcuni giorni
d’attesa si lanciarono all’attacco, infine sventato dai cortigiani che misero sul trono il vecchio Isacco II. I
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crociati riconobbero il fatto compiuto e, sotto la loro protezione, Isacco II e Alessio IV occuparono il trono.
Quest’ultimo si trovò subito in difficoltà nel far fronte al suo debito e fu in grado di pagare soltanto metà
della cifra promessa; chiese e ottenne pertanto una dilazione, che prolungò la permanenza degli occidentali
a Costantinopoli fino a marzo dell’anno successivo. Ben presto i rapporti tra Bizantini e occidentali si fecero
sempre più tesi e lo stesso Alessio IV si trovò in una situazione assai difficile: da un lato era pressato dai
crociati, di cui non sapeva come liberarsi, dall’altro si appuntavano su di lui gli odi dei nazionalisti, dai quali
era visto come un traditore. Il contrasto infine esplose e Alessio IV fu deposto da un colpo di stato, che
portò al potere Alessio V Ducas Murzuflo. Il nuovo imperatore cercò di far ripartire i crociati ma, visto il
fallimento delle trattative, si preparò alla guerra rafforzando gli apprestamenti difensivi. I crociati si
risolsero a tentare l’attacco a Costantinopoli e riuscirono a conquistarla. Terminava così l’età aurea delle
crociate, dando vita a un impero latino di Oriente che sarebbe sopravvissuto fino al 1261, quando la città
venne ripresa dai Bizantini. La conquista dell’impero, frutto di una casuale concatenazione di eventi, si
presenta sotto il profilo politico come la conseguenza della frattura fra Venezia e Bisanzio.
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PERIODO TARDOBIZANTINO
(1204 – 1453)
L’IMPERO LATINO
Gli occidentali costituirono uno stato di feudale, eleggendo in primo luogo un imperatore latino (Baldovino
di Fiandra), quindi un patriarca latino di Costantinopoli. Infine, si pensò alla spartizione dell’impero: il
sovrano latino ne ottenne un quarto (costituito dalla sua porzione di Costantinopoli, dalla Tracia, da parte
dell’Asia Minore e di alcune isole egee) e il resto andò diviso in parti uguali fra veneziani e cavalieri crociati.
La spartizione aveva tuttavia un valore in gran parte teorico dato che, quando fu completata (nel settembre
dello stesso 1204), la provincia bizantina doveva ancora essere sottomessa, a eccezione dei territori di
Macedonia e di Tracia, conquistati da Baldovino di Fiandra con una breve campagna estiva. Anche quando,
in seguito, la sottomissione ebbe luogo, non sempre le assegnazioni su carta coincisero con le acquisizioni
effettive sia per gli accordi occasionalmente intervenuti tra i vincitori, sia anche in motivo della resistenza
dell’elemento greco che spesso impedì ai Latini di sottomettere alcune regioni. La conquista della provincia
bizantina si svolse per lo più tra la fine del 1204 e il 1205, portando alla costituzione di alcuni stati feudali
semi-indipendenti nel corpo dell’impero latino:



Il regno di Tessalonica, con giurisdizione su Macedonia e Tessaglia;
Il ducato di Atene, comprendente Attica e Beozia;
Il principato di Acaia nel Peloponneso.
I Veneziani trassero i maggiori vantaggi dalla conquista, rinunciando ai domini continentali e assicurandosi
una serie di scali commerciali per garantire le rotte del Levante: le isole di Durazzo, Corfù, Corone e
Modene nel Peloponneso, Creta e parte dell’Eubea. A queste acquisizioni, passate sotto il diretto controllo
della repubblica, si aggiunsero le isole dell’arcipelago conquistate in maniera autonoma da alcuni nobili che
vi costituirono le proprie signorie: Nasso, Paro, Milo, Santorino, Andro, Tino, Micono, Sciro, Scopelo, Sciato
e Lemmo. Facevano inoltre parte della quota assegnata a Venezia i principali porti dell’Ellesponto e del mar
di Marmara e altri possedimenti in Tracia, tra cui Adrianopoli. A Costantinopoli infine i Veneziani ebbero
parte della città e vennero reintegrati nel quartiere posseduto ai tempi di Manuele I Comneno. La posizione
dei Veneziani nell’impero fu di gran lunga più solida rispetto a quella dei crociati: mentre infatti questi
ultimi erano costretti a giurare fedeltà all’imperatore, il doge in forza del trattato del 1204 venne esentato
dall’obbligo. La politica veneziana, inoltre, si dimostrò più coerente di quella dei crociati e anche in seguito
Venezia si contrappose come potenza unitaria alla frammentazione dell’impero latino, che fin dall’inizio
mostrò i difetti tipici dei regimi feudali con un debole potere centrale e l’affermazione nella periferia di
forze più o meno autonome o addirittura antagoniste a questo.
Quanto restava delle classi dominanti bizantine si organizzò in tre diverse formazioni politiche, ognuna delle
quali reclamò la continuità con il precedente impero:


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L’impero di Nicea, in Asia Minore, fondato nel 1204 da Teodoro Lascaris, genero di Alessio III;
Il despotato di Epiro, nella Grecia nord-occidentale, che venne costituito nel 1205 da Michele
Angelo, cugino di Isacco II e Alessio III;
L’impero di Trebisonda, sule coste del mar Nero, già formatosi nell’aprile del 1204 sotto i due
fratelli Comneni Alessio e Davide, nipoti di Andronico I.
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NICEA E LA RESTAURAZIONE BIZANTINA
Fu a Nicea che si ricreò, grazia alla dinastia dei Lascaridi, un ambiente favorevole all’elaborazione di un
progetto di riconquista del frantumato territorio imperiale. La difesa dell’ortodossia, nel momento in cui a
Costantinopoli si era insediato il clero latino, costituì il collante ideologico e programmatico del progetto.
Sotto Giovanni III Ducas Vatatze venne sottomessa l’Asia Minore, Adrianopoli e Tessalonica. Nel 1261,
durante il regno di Michele VIII Paleologo, venne riconquistata anche Costantinopoli, ma né la città né
l’impero conservavano alcunché dell’antica grandezza: la capitale era stata gravemente danneggiata dalle
vicende militari e dall’incuria del governo occidentale; oltretutto il territorio nuovamente soggetto
all’autorità imperiale era estremamente limitato, ridotto alle sole regioni che si affacciavano sullo stretto
del Bosforo e a poche isole del mar Egeo. Restavano ancora in mano veneziana Corone, Modone, Creta e
alcune isole dell’arcipelago greco; l’Eubea era divisa fra veneziani e signori occidentali, la Grecia sotto il
dominio franco con l’Epiro e la Tessaglia retti da un governo greco non sottomesso a Bisanzio. La parte
settentrionale della penisola balcanica era dominata da Serbia e Bulgaria il cui territorio si era ampliato a
spese di Costantinopoli; l’Asia minore, infine, ricadeva in parte sotto il dominio turco.
L’ETÀ DEI PALEOLOGI
L’epoca dei Paleologi rappresenta l’ultima fase della storia di Bisanzio.
La presenza di nemici aggressivi e la sostanziale debolezza del secondo impero, tuttavia, non impedirono a
Michele VIII Paleologo di seguire una politica di potenza volta essenzialmente all’obiettivo ambizioso di
restaurare il suo dominio nei territori già appartenuti a Bisanzio utilizzando sia la forza delle armi che la
diplomazia; i suoi sforzi però andarono incontro a un sostanziale fallimento, con successi di portata tutto
sommato modesta e in ogni caso sproporzionati ai costi. La sua politica ambiziosa fu abbandonata dal figlio
e successore Andronico II che, al fine di ridurre le enormi spese pubbliche, divenute ormai insostenibili per
le casse dello stato, avviò un programma di risanamento economico volto essenzialmente alla contrazione
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delle spese militari, attuato attraverso la riduzione dell’esercito e lo smantellamento della marina, in
sostituzione della quale il nuovo sovrano ritenne di poter fare affidamento sull’alleanza con Genova. La
politica di Andronico II ebbe un pesante contraccolpo sull’impero: la potenza ancora esistente sotto il
predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo stato incapace
di esprimere una propria politica estera e preda di una sempre più accentuata disgregazione interna. La
moneta andò soggetta a una forte svalutazione e nello stesso tempo si diffuse in modo sempre più
massiccio la grande proprietà terriera, inutilmente contrastata dal potere centrale. Sui mercati prevalsero le
monete d’oro delle repubbliche italiane, portando come conseguenza un forte rincaro dei prezzi e un
generale impoverimento, e la loro alleanza o neutralità gravò ulteriormente sull’erario imperiale con una
serie di concessioni o privilegi per mantenere l’amicizia divenuta ormai essenziale per l’impero, di fatto
ostaggio dei propri alleati.
Disastrosa fu la campagna condotta in Asia Minore per contenere l’ulteriore espansionismo dei Turchi, che
aveva ridotto la presenza bizantina nei primi anni del Trecento a poche città isolate.
L’Asia Minore turca aveva subito un processo di ridefinizione territoriale fra il XIII e il XIV secolo. Il sultanato
selgiuchide di Rum, giunto all’apogeo nei primi anni del Duecento, era stato travolto dall’invasione mongola
a seguito della quale si era frazionato in una serie di piccoli emirati più o meno indipendenti e soggetti al
controllo dei Mongoli. Con il declino della potenza mongola, verso l’inizio del XIV secolo, acquistò
un’importanza sempre crescente l’emirato costituito dagli Ottomani, una stirpe guerriera che mise in atto
un’inarrestabile espansione territoriale destinata a riunificare le genti turche e a assestare un colpo mortale
all’impero bizantino. La seconda metà del Trecento fu segnata dalla travolgente conquista della penisola
balcanica, della Tracia e della Bulgaria. Poco più tardi, nel 1365, il sultano Murad I fissò la propria capitale
ad Adrianopoli di Tracia, con la chiara intenzione di radicare il nuovo stato nella penisola balcanica. Il
pericolo rappresentato dall’espansione ottomana cominciò a essere seriamente avvertito anche in
Occidente, ma le continue rivalità fra le potenze rendevano assai problematica un’azione comune. Il
tradizionale conflitto fra Venezia e Genova, in particolare, rendeva improponibile un progetto politico
indipendente dagli interessi particolari delle due repubbliche, sebbene la conservazione dei privilegi in
Levante fosse preminente per entrambe. L’atteggiamento occidentale nei confronti di Bisanzio, a ogni
modo, cominciò a modificarsi al tempo di Giovanni V e, dalla consueta ostilità, si passò a una sempre
maggiore consapevolezza del ruolo di frontiera cristiana svolto dall’impero, valutando le ricadute negative
che la sua scomparsa avrebbe prodotto. Giovanni V rinunciò realisticamente a ogni tentativo velleitario di
ricostruire una potenza bizantina e puntò tutte le sue carte sull’aiuto dell’Occidente, riprendendo il
progetto di riunificazione religiosa con la chiesa romana, già seguito dai suoi predecessori senza risultati
concreti, come condizione necessaria per promuovere una crociata contro i Turchi. Non ottenendo i
risultati sperati, nel 1369 il sovrano lasciò Costantinopoli per partire alla volta dell’Italia. A Roma, qualche
mese più tardi, abiurò solennemente la religione ortodossa, ma anche questa sua conversione non portò ad
alcun vantaggio politico. La conversione, fra l’altro, fu fatta a titolo puramente individuale dal sovrano e in
questa occasione, come sarebbe avvenuto anche in seguito, il clero bizantino si mostrò per lo più ostile
all’accordo con Roma. L’imperatore raggiunse quindi Venezia dove propose la cessione dell’isola di Tenedo,
alla quale la repubblica aspirava da anni, in cambio di aiuto; anche questo tentativo, però, non ottenne i
risultati sperati e nel 1371 il sovrano tornò in patria senza aver conseguito di fatto alcun risultato. Nel corso
dello stesso anno i Turchi sconfissero rovinosamente i Serbi e si resero vassalla la Macedonia serba; poco
più tardi sia la Bulgaria sia l’impero di Bisanzio furono ridotti in stato formale di dipendenza, con l’obbligo di
pagare un tributo e di fornire un contingente militare in caso di guerra. Verso la fine del Trecento il
territorio di Bisanzio in terraferma si era ridotto alla sola capitale e alla Morea, retta da un despota vassallo
dei Turchi. Nel 1394 inoltre gli Ottomani misero il blocco attorno a Costantinopoli e la capitale isolata poté
ricevere soltanto sporadici rifornimenti da Venezia. Dinanzi al progredire delle loro conquiste, si ebbe in
Occidente un primo tentativo di organizzare una crociata di ampie proporzioni, ma le forze cristiane
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vennero sanguinosamente sconfitte nel 1396 in Bulgaria, e l’anno successivo i Turchi irruppero di nuovo in
Grecia devastandola fino alla Morea.
Un altro sovrano, Giovanni VIII, fu il terzo a recarsi in cerca d’aiuto in Occidente, e decise di giocare la carta
estrema della riunificazione religiosa. Unica conseguenza fu la cosiddetta crociata di Varna, promossa da
papa Eugenio IV che si risolse con un clamoroso fallimento. La sorte di ciò che restava dell’impero era ormai
segnata, ma l’epilogo si sarebbe avuto soltanto con l’avvento al potere nel 1451 del giovane ed energico
sultano Maometto II, che diede un forte impulso all’espansionismo turco portando il suo stato a una
potenza non ancora raggiunta dai predecessori. Maometto II il Conquistatore (come fu chiamato dai
contemporanei) decise in primo luogo di farla finita con quanto restava dell’impero. Le residue
sopravvivenze bizantine rappresentavano un ostacolo per i suoi piani di dominio e Costantinopoli, in
particolare, era un assurdo ricordo di una potenza ormai scomparsa, pericolosamente incuneata però
nell’impero ottomano. Maometto II preparò con cura l’accerchiamento della città imperiale, che con le sue
forti mura rappresentava ancora un ostacolo formidabile. Ancora una volta le potenze occidentali non
accorsero in difesa di Costantinopoli, malgrado gli appelli disperati di Costantino XI e i pericoli connessi alla
perdita della città, che avrebbe offerto ai Turchi una posizione strategica di prim’ordine per proseguire il
loro attacco al mondo cristiano. La flotta veneziana inviata in soccorso degli assediati partì con incredibile
ritardo e non arrivò mai sul teatro operativo, perché fu preceduta dalla notizia della caduta della città in
mano turca. Nell’inutile tentativo di ottenere l’aiuto dell’Occidente, l’imperatore bizantino aveva fatto
proclamare di nuovo l’unione religiosa in Santa Sofia (12 dicembre 1452), suscitando l’indignata reazione
dei sudditi, in grande maggioranza determinati a sopportare il dominio turco piuttosto che la soggezione a
Roma. Poco più tardi caddero in mano ottomana anche i residui frammenti dell’impero: la Morea nel 1460
e Trebisonda nell’anno successivo. Molti bizantini fuggirono riparando soprattutto in Italia e, fra questi, un
buon numero di eruditi che contribuirono alla diffusione in Occidente della cultura greca.
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