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Covid e vaccini così il virus tenta ogni istante di aggirarli- Corriere.it

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11/3/2021
Covid e vaccini: così il virus tenta ogni istante di aggirarli- Corriere.it
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Così il coronavirus tenta (ogni istante) di aggirare i vaccini
Le spike «abbassate» per entrare nel nucleo delle nostre cellule. I sofisticati sistemi per
«hackerare» i sistemi di allarme. Ecco quali strategie sta mettendo in campo «l’intelligenza
implicita» del coronavirus contro il nostro sistema immunitario: e perché, per batterlo, è in atto
una vertiginosa corsa contro il tempo
di Sandro Modeo
di SANDRO MODEO
Sono e saranno mesi decisivi nel «corpo a
corpo» tra la nostra specie e Sars-CoV-2,
dove «corpo a corpo» non sia solo una
metafora, ma un memento sul fatto che
ogni incontro/scontro tra noi e un patogeno
rappresenta — come ricordava il grande
genetista e microbiologo Joshua Lederberg
— una contesa tra la nostra intelligenzaastuzia e il suo genoma (leggi: la sua
variabilità).
Con un paio di postille. La prima: è vero che quella contesa andrebbe letta — come sostiene
Lederberg — in chiave evoluzionistica, cioè interna a un «superorganismo» in cui i genomi
(nostro e del patogeno) entrano in una biunivoca sollecitazione, approdando a una sorta di
condizione «chimerica»; ma la nostra coscienza individuale della morte ci impedisce un
punto di vista così freddo e oggettivo, e la metafora dello scontro, se non della guerra — che
Lederberg vorrebbe abolire — resta la più immediata.
Seconda postilla: anche se sprovvisti, in quanto microrganismi, di ogni forma di intenzionalità, i
patogeni seguono strategie così sofisticate per la loro «sopravvivenza» (trasmettersi e
replicarsi) da mostrare a loro volta una forma di intelligenza, definita efficacemente dal
neurobiologo Antonio Damasio, nel suo ultimo libro, come «implicita». Ed è proprio con
l’«intelligenza implicita» di Sars-CoV-2 che ci stiamo confrontando in modo sempre più serrato.
Questo articolo si compone di diverse parti.
Le prime tre dettagliano lo scenario in cui ci si muove.
Le strategie del Sars-CoV-2 sono descritte nelle sezioni 4, 5 e 6.
L’ultima sezione fa il punto sulle strade per battere il virus.
Eccole.
1. L’arte dell’inganno, o di come i patogeni (tutti) usino strategie per mimetizzarsi, ingannarci, e
«attaccarci»;
2. Le forze in campo, o di come si sviluppino le «varianti» che si scontrano con il nostro sistema
immunitario;
3. Il nostro sistema immunitario, un tuffo sul funzionamento delle nostre difese contro i
patogeni;
4. L’intelligenza implicita del Sars-CoV-2: come funzionano le mutazioni, e perché riescono a
colpirci così;
5. Così Sars-CoV-2 si «nasconde»: le spike abbassate, la «maschera» dell’Rna
6. L’arma segreta del Coronavirus, ORF8;
7. Genetica, vaccini, farmaci: le strade per sconfiggere il coronavirus.
1. L’ARTE DELL’INGANNO
Parte essenziale della trama biologico-ecologica per la
sopravvivenza e la riproduzione di individui e specie è fondata sul rapporto predazione-fuga (o
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nelle variazioni attacco/contrattacco e invasione/espulsione).
Certo, non mancano esempi di mutualismo o simbiosi, ovvero di approdo a una convivenza
felice: vedi, tra quelli più noti, il rapporto alghe-coralli (cibo e ossigeno in cambio di «scarti
azotati») o quello tra l’anemone di mare e il pesce-pagliaccio (protezione e nutrimento in cambio
di pulizia dai parassiti).
Ma più spesso nelle relazioni prevale proprio la contesa, che si caratterizza non solo per
rapporti di forza, ma anche — se non soprattutto — per un repertorio vastissimo di abilità
mimetiche, dissimulazioni, elusioni.
Il grado estremo di questo repertorio tattico-strategico è la vera e propria manipolazione del
comportamento, cui il parassitologo canadese Clèment Lagrue ha appena dedicato un libro
spettacolare e perturbante: si va dai vermi nematomorfi a ferro di cavallo (che avendo
bisogno dell’acqua per il loro ciclo riproduttivo «colonizzano» l’organismo di grilli e cavallette
inducendoli ad annegarsi) a certi funghi delle foreste tropicali, che invadono il cervello delle
formiche costringendole a suicidarsi al morso di una foglia velenosa, sempre posta poco
sopra vie di passaggio di altre formiche, su cui la formica-cadavere fa colare le spore
dell’invasore, così diffondendole.
A un grado meno pervasivo (ma con esiti a volte non meno fatali) troviamo invece l’arte
dell’elusione e dell’inganno, in cui il mimetismo è spesso centrale. A tacere di casi proverbiali
come la versatilità cromatica «fotonica» del camaleonte, che gli permette di conformarsi
all’ambiente sia per cacciare che per sfuggire a un predatore, impressiona quello di certe
lucciole femmine giganti, che rispondono al richiamo sessuale dei maschi di un’altra specie più
piccola — imitandone i codici «linguistici» della segnaletica luminosa — per attrarli e divorarli.
La stessa varietà di relazioni (e di strategie) caratterizza anche il rapporto tra Homo e gli
agenti patogeni, si tratti di batteri, funghi o — soprattutto — virus.
Anche qui, non mancano esempi-must di mutualismo, come quello del nostro microbiota (leggi:
flora intestinale), in cui noi offriamo un ambiente protetto e carico di nutrienti in cambio di un
prezioso servizio delle colonie microbiche (per lo più batteriche) a vari livelli, a cominciare dalle
funzioni metaboliche (la sintesi di vitamina k o la produzione di acidi grassi a catena corta). A
tacere dell’utilizzo sempre più massivo nel biotech, con batteri che possono degradare la
plastica o il mercurio e virus disarmati impiegati come vettori per introdurre pezzi di Dna curativo
in cellule malate o per istruire (nei vaccini) espressioni di proteine di altri virus riconosciute e
memorizzate dalle difese immunitarie (è il caso dei vaccini Sputnik V e AstraZeneca contro il
Covid-19).
Ma anche qui, la contesa prevale: la coevoluzione tra genotipi — insegnano i virologi
evoluzionisti — non conduce a una convivenza se non forzata, o più precisamente a un
armistizio, spesso siglato nel passaggio da una fase epidemico-pandemica a una endemica,
raggiunta a volte al prezzo di un alto numero di decessi. Del resto, non è un caso che il maggior
sacrificio di vite umane nella storia sia dovuto non a catastrofi naturali, carestie o guerre,
ma proprio gli impatti pandemici. E anche qui, le «strategie» con cui gli agenti patogeni
cerano di invaderci e utilizzarci per replicarsi — il virgolettato si riferisce di nuovo all’«intelligenza
implicita», al loro procedere per «meccanismi molecolari automatici», senza alcuna intenzionalità
— si dispiegano in un vasto corredo di sotterfugi e manovre.
Che forse non arrivano alla manipolazione del comportamento (anche se l’«induzione» dello
starnuto nell’ospite da parte di un patogeno per acuire la diffusione, ad esempio, procede
in quel senso), ma certamente a forme molto sottili di aggiramento e inganno.
Limitandoci ai virus, alla base di tutto agisce il mimetismo molecolare: per agganciare i
recettori cellulari dell’ospite e penetrarvi, le proteine di superficie assumono la forma delle
molecole cui di solito quei recettori si legano: è il caso di Ebola, la cui proteina GP1 si ricopre di
una «treccina» di glucosio per agganciarsi alle «lectine», recettori degli zuccheri; o quello
dell’HIV, una porzione della cui proteina di membrana gp120 mima le chemochine umane,
molecole che mandano e ricevono messaggi biochimici nel nostro sistema immunitario.
Ed è il caso, naturalmente — della proteina S (spike) di Sars-CoV-2, che utilizza il recettore di
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Ace-2 (deputato a ricevere l’enzima di conversione — cioè di modulazione — di un ormone ad
azione ipertensiva, l’angiotensina) per protrudere nelle nostre cellule.
Il mimetismo, in realtà, non è il solo escamotage dell’«intelligenza» virale: ci sono anche
adattamenti beffardi, come quello che permette a certe proteine (E1/E2 dell’epatite C) di
distruggere sia l’esterno del virus che l’endosoma delle nostre cellule, in teoria deputato a
barriera protettiva, trasformando così una «trappola» in un «cavallo di Troia».
Resta però, inevitabilmente (i virus sono zombie molecolari non autonomi), l’escamotageprincipe, insieme alla sua premessa evolutiva, le varianti genetiche e le loro specifiche
mutazioni.
2. LE FORZE IN CAMPO: GENOMA VIRALE CONTRO SISTEMA IMMUNITARIO
Letta più
basicamente (e drasticamente) la contrapposizione di Lederberg si scontorna alle due vere forze
in campo nell’incontro/scontro tra Homo e i patogeni, in questo caso i virus: da una parte il
genoma virale con la sua variabilità, dall’altra il nostro sistema immunitario.
E qui va chiarito uno snodo concettuale senza cui non è possibile capire davvero la contesa: il
carattere darwiniano e non lamarckiano (rapporto stimolo-risposta) del processo che muove le
due forze.
Le mutazioni nel genoma virale (come quelle di ogni organismo vivente) non sono
«risposte», ma un vastissimo repertorio di «proposte» in costante aggiornamento, tese ad
anticipare gli stimoli provenienti dalla pressione ambientale: nella fattispecie, l’attacco del
sistema immunitario, naturale o indotto dai vaccini (oltre che dei farmaci, antivirali in primis).
La maggioranza delle mutazioni è neutra, molte sono svantaggiose e alcune vantaggiose
(per noi, quindi, problematiche o letali), e solo queste ultime sono premiate dalla
selezione naturale («selezione positiva»), col metro di un’efficacia leggibile solo a posteriori. In
quest’ottica, ogni organismo, micro o macro che sia, è infatti a un tempo «strutturato» e
«aperto»: si fonda su un equilibrio dinamico tra robustezza e plasticità, tra parti stabili del
genoma e parti variabili quali le mutazioni stesse. Insistendo sulla loro «casualità», si rischia di
sottolinearne più il disordine rispetto alla portata adattativa, tanto più che negli zombie virali
quel brulichio incessante di cambiamenti e variazioni è molto consistente per
densità/velocità.
Con un dettaglio non da poco: rispetto ai virus a Dna (più estesi e stabili), quelli a Rna (come i
coronavirus) hanno una variabilità molto più elevata, perché la polimerasi (la «correzione»
biochimica degli errori di replicazione genetica alla base delle mutazioni) è molto più
approssimativa: in sintesi, l’inaccuratezza si traduce in estrema efficacia.
Un dato orientativo: il tasso di errore della polimerasi alla base di una mutazione nel genoma
umano è di uno su 10 milioni; nel retrovirus a Rna dell’HIV (un virus-monstre, come vedremo
presto) è di uno su 2000.
Il sistema immunitario, a sua volta — benché si parli a suo riguardo di «difese» — è un
sistema altamente proattivo, che costruisce «a monte» e «a prescindere» un repertorio
vastissimo di proposte biochimico-morfologiche (pensiamo alla varietà degli anticorpi), teso ad
anticipare l’eventuale ingresso di patogeni; ad anticipare, cioè, la lettura dei loro antigeni, i punti
da bersagliare. È un sistema — una vasta architettura disseminata — che armonizza dinamiche
cellulari e molecolari non meno complesse di quelle del cervello e del sistema nervoso, con cui
peraltro condivide omologie strutturali e analogie funzionali, a partire dallo stesso concetto di
identità, se l’«io» neuro-psicologico ha un antefatto evolutivo in quello immunologico, fondato
sulla discriminazione tra self (i costituenti molecolari propri di un organismo) e not-self (quelli
esterni/estranei, tra cui gli agenti patogeni).
3. INNATO, ADATTIVO, IL COMPLESSO MHC
Semplificando — la suddivisione sarebbe
molto più sfumata e sofisticata — il nostro sistema immunitario è ripartito in innato e adattativo:
il primo evolutivamente più antico (ne troviamo già espressione di certi tratti in spugne e coralli di
un miliardo di anni fa) e più «generico»; il secondo più recente e specializzato, oltre che più
legato alla genetica individuale. La loro azione, di fondo diversificata per timing e competenze, è
però fluidamente connessa.
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Il sistema immunitario innato è una stratificazione di protezioni dinamiche: prima ci sono i
filtri della pelle e delle mucose; subito al di sotto (in tutti i tessuti solidi) l’avamposto dei
macrofagi, esercito di cellule deputate a intercettare molecole estranee e microrganismi nocivi
(certi batteri) e ad assorbirli per fagocitosi; poi ci sono, in attesa attiva, cellule specializzate
(neutrofili e natural killer); e infine il cosiddetto «sistema del complemento», poche decine di
proteine che colpiscono come lanciafiamme il not-self molecolare (risparmiando le cellule
del self, contrassegnate da una protezione proteica).
Una stratificazione le cui componenti vengono orchestrate da un’incessante vigilanza lungo il
«torrente circolatorio», soprattutto grazie a mediatori chimici come le citochine con la loro
comunicazione binaria (allarmi/pericoli cessati, on/off della proliferazione cellulare antimicrobica)
o ai toll-like receptors (Tlr), recettori della famiglia dei Prr (Patterns Recognitions Receptors)
adibiti al riconoscimento dei profili molecolari estranei, soprattutto quelli evolutivamente più
arcaici.
Un rilievo particolare, nell’attività di mediazione biochimica, meritano gli interferoni,
glicoproteine che, nel caso dei virus, innescano una cascata antivirale tesa a contrastare la
replicazione nella cellula invasa e la diffusione ad altre cellule; e siccome in questo attivano
cellule sia del sistema immunitario innato che di quello adattativo (macrofagi e linfociti T)
fungono da ponte tra i due sistemi. Più a rafforzamento che in staffetta temporale con l’innato, il
sistema immunitario adattativo ha i suoi cardini noti proprio nei linfociti: B (da bone marrow,
midollo osseo, loro sito di produzione) e T (da timo, la piccola ghiandola substernale a lungo
ritenuta esornativa, idem).
I B sono «fabbriche di diversità molecolare» ovvero fabbriche di anticorpi (immunoglobuline),
ognuno specializzato nel riconoscimento di un antigene estraneo (o meglio di una sua parte,
l’epitopo), anche se in realtà, diversi anticorpi possono riconoscere uno stesso antigene, come
ben sanno gli immonofarmacologi che selezionano (anche ora per Sars-CoV-2) quello più
efficace, cioè la chiave più precisa rispetto alla serratura da aprire.
Ogni linfocita B (ogni anticorpo) passa la propria vita in latenza, in attesa attiva dell’antigene
(dell’epitopo) specifico, a volte vanamente; quando lo trova, però, innesca un’intensa divisione
cellulare, che porta i linfociti B a produrre (in una settimana) fino a 2000 anticorpi (cloni) al
secondo; e gli anticorpi, a loro volta, attaccandosi all’antigene (all’epitopo), richiamano in loco gli
«esecutori» del patogeno, macrofagi (ecco il legame con l’«innato») o altre cellule specializzate.
I linfociti T, molto più numerosi dei B (un triliardo contro tre miliardi) e molto meno innocui (un
loro tipo, i citotossici, induce le cellule infettate al suicidio), ne condividono poi molti aspetti
struttural-funzionali: i loro recettori (Tcr= T cell receptor) stanno selettivamente agli antigeni dei
patogeni un po’ come gli anticorpi tra i B, con la stessa latenza attiva; e simile è il processo di
proliferazione clonale una volta che il TCR ha riconosciuto il proprio antigene.
Ma il vero discrimine tra anticorpi e TCR si nota dopo il fallimento preventivo del sistema
immunitario, cioè dopo che il virus è penetrato nella cellula umana, sequestrandone le
strutture per cominciare a replicarsi.
E qui entra in scena una delle macchine biologiche più misconosciute e prodigiose della
microbiologia umana, l’Mhc o Complesso Maggiore di Istocompatiblità, un pool di poche
decine di geni scoperto tra anni ’30 e ’60 del secolo scorso grazie alle ricerche di geniali
immunologi (diversi dei quali Nobel) sul rigetto dei trapianti nel topo (cromosoma 17) e nell’uomo
(cromosoma 6).
Altamente variabile da individuo a individuo, l’MHC (nell’uomo chiamato HLA= Human
Leukocyte Antigen) presiede alle nostre resistenze e vulnerabilità alle patologie, ma
anche— in modi ancora da approfondire — alle nostre scelte sentimentali e sessuali.
Tra gli altri ruoli, centrale è quello immunitario (tanto che i suoi geni non si trovano nei globuli
rossi), decisivo proprio nel momento in cui un virus è penetrato nelle nostre cellule.
Reperendo nella cellula i frammenti proteici (peptidi) di scarto nella replicazione virale, le
proteine Mhc, espresse dai geni anche su sollecitazione degli interferoni, li trascinano alla
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superficie, esponendoli come antigeni: e lì i due sistemi (innato e adattativo) armonizzano la
loro azione, coi macrofagi e linfociti B come cellule specializzate nella «presentazione
dell’antigene», e i ricettori dei T nel riconoscimento, con immediata comunicazione ai Tcitotossici.
Anche se il ruolo primario, nella presentazione dell’antigene, spetta a un altro tipo di cellule, le
dendritiche (DC), in realtà per molti aspetti le più importanti cellule dell’intero sistema
immunitario: le cosiddette DC «immature» (nella pelle e nelle vie respiratorie e gastrointestinali)
pattugliano soprattutto l’«ambiente esterno», i patogeni all’ingresso; quelle mature (nella milza e
nei linfonodi) sono appunto decisive nell’esporre l’antigene ai linfociti T.
L’approdo finale dell’attività dei due sistemi nella lotta con un virus è l’acquisizione della
«memoria immunitaria»: conservando dopo ogni attacco esemplari di B e T, il sistema
immunitario nel suo insieme è pronto — in caso di reingresso di quel patogeno — a rispondere
in modo più e veloce e più efficace: non servono più una o due settimane ma un tempo minore,
anche perché nel frattempo il nostro Dna ha a sua volta provveduto a mutazioni nel tentativo di
focalizzare il rapporto tra anticorpi e Tcr da una parte, antigene dall’altra: una «selezione
positiva» a nostro vantaggio. Proprio questo è, del resto, il meccanismo su cui si fondano i
vaccini; e proprio questo il virus cerca, sopra ogni cosa, di interdire.
4. L’«INTELLIGENZA IMPLICITA» DI SARS-COV-2: LE MUTAZIONI, LA SPIKE
Quali sono i
passaggi dell’«intelligenza implicita» di Sars-CoV-2, dallo spillover (salto di specie) alla sua
evoluzione (in corso)?
Partiamo proprio dall’ultimo passaggio, cioè dall’effetto primario delle mutazioni:
l’aggiramento della memoria immunitaria.
Cambiando gli antigeni (gli epitopi) delle proprie proteine, i virus riescono a vanificare i
bersagli sia della memoria «naturale», sia (soprattutto alla lunga) di quella indotta dai
vaccini, senza dimenticare la precoce obsolescenza dei farmaci.
L’esempio-clou resta, quello dell’HIV, la cui densità/velocità mutazionale ha disarmato sul
nascere tante terapie (a partire dall’Azt, un antitumorale convertito in antiretrovirale) e impedito,
almeno finora, la messa a punto di un vaccino.
Ora, in quanto virus a Rna, Sars-CoV-2 muta (relativamente) poco, anche per il genoma
piuttosto largo e quindi meno instabile: meno dell’influenza e molto meno dell’Hiv.
Ma a sufficienza proprio per aggirare l’immunità ai ceppi precedenti (con relativi casi di
reinfezione) e per mettere in dubbio la tenuta dei vaccini.
Questo si teme, in prospettiva, dalle tre varianti più recenti sequenziate e soprattutto da certe
loro specifiche mutazioni.
La variante «inglese» (202012/01 o B.1.1.7) viene isolata a settembre 2020, contiene da 17 a
23 mutazioni (le analisi discordano) rispetto al ceppo di provenienza, è sicuramente (e
marcatamente) più contagiosa (fino al 50-70% di trasmissibilità in più) e forse — ma con molti
forse — più letale.
Quella «sudafricana» (20H/501Y.V2 o B.1351) si rivela a inizio ottobre ma forse circola già a
fine agosto, consta di 21 mutazioni, colpisce un target più giovane e sembra (anche qui: con
molti «sembra») più patogenica.
Quella brasiliana-giapponese (B. 1.1.248, lignaggio P1,) viene sequenziata per la prima volta il
6 gennaio di quest’anno dal NIID di Tokyo su 4 viaggiatori in rientro dal Brasile (anche se
l’esordio risale forse a luglio), presenta 17 mutazioni e assurge a evidenza mediatica quando a
Manaus, capitale dello stato di Amazonas, l’illusione di una raggiunta immunità di gregge (76%
di contagiati dell’area nella «prima ondata»: percentuale enorme dovuta a indigenza e deficit
sanitari) viene tragicamente smentita con un ricontagio di massa.
In effetti, quell’illusione aveva più di un fondamento epidemiologico: come riassume la metafora
della «ghirlanda luminosa di Natale» evocata da David Quammen, ogni epidemia-pandemia
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segue un turn-over in cui l’eventuale ritorno del patogeno in un’area colpisce meno le aree già
colpite e viceversa: prova ne siano, nella campionatura lombarda, le aree di Bergamo-Brescia in
un senso e di Monza-Brianza nell’altro.
Ulteriori ondate intense come la precedente possono darsi solo in casi di alta densità
abitativa e forte connettività socioeconomica (per stare alla Lombardia: l’hinterland milanese); o,
appunto, nel caso una nuova variante prenda il sopravvento, azzerando l’immunità di
gruppo raggiunta. È anche un drammatico memento proiettivo su quanto costi raggiungere, in
una pandemia, l’«armistizio» endemico.
Raffrontate, le tre varianti mostrano qualche significativa coincidenza di mutazioni, tutte legate
alla proteina spike. Delle 17 della «brasiliana» ben 10 sono su questa proteina strutturale (4 più
dell’inglese e 3 più della sudafricana); tra queste, N501Y, che già accomunava «inglese» e
«sudafricana», mentre altre due mutazioni (E484K e K417N) sono presenti solo nella
sudafricana. Non sono sigle inerti, purtroppo.
Premesso che la maggior parte dei contributi sull’argomento non è ancora «peer-reviewed»,
emerge come le tre mutazioni citate siano situate sulla regione S1 della proteina spike,
l’RBD («Receptor-binding domain», «dominio di legame al recettore») e tutte contribuiscano a
una resa più performante del legame stesso.
Meno noto — e studiato — è che K417 N, specie se associata a N501Y (di cui già studi sui topi
avevano mostrato l’incidenza su trasmissibilità e virulenza), riesce nello stesso tempo a
bypassare l’intervento sulla spike di uno specifico anticorpo, Ste90-111, la cui azione è
ridotta da 100 a 160 volte, silenziando anche il gene che lo esprime (VH3-53).
Tra le mutazioni specifiche dell’«inglese», la delezione delta 69-70 (già vista nei visoni danesi)
inciderebbe a sua volta nell’evasione immunitaria, mentre P618H favorirebbe il legame tra le due
regioni della spike, la citata S1 e S2 (l’NTD, «N-terminal domain»), deputata alla fusione con le
nostre cellule e al loro condominio (esproprio) metabolico.
Diverse varianti, infine, sono sotto studio per verificare se questo aumento di efficienza del
legame struttural-funzionale spike-ACE2 possa incidere su un maggior contagio di bambini
e adolescenti, che di ACE2 dispongono in quantità molto inferiore rispetto a adulti e anziani.
5. LE SPIKE «ABBASSATE», LA «MASCHERA» DELL’MRNA
L’evasione-aggiramento di ogni
livello del nostro sistema immunitario da parte di Sars-CoV-2 avviene — sempre in ottica
antropomorfica — con un set di mimetismi, inganni e hackeraggi molecolari estesi a tutta la
struttura del virus, simili e diversi rispetto a quelli impiegati ad altri virus, e soprattutto simili e
diversi rispetto a Sars-CoV, responsabile della micro-pandemia («la Sars») del 2002-2004.
Betacoronavirus di dimensioni standard (100-150 nanometri di diametro, cioè 600 volte più
piccolo del diametro di un capello), Sars-CoV-2 è composto di 15 regioni virali (o meglio tratti
codificanti dei geni dette «open reading frames», ORFs, «cornici o finestre di lettura aperta» con
riferimento alla lettura della sequenza senza codoni di stop prematuri) che possono esprimere
29 proteine.
Di queste, 4 sono strutturali:
S (spike), deputata all’ingresso nella cellula ospite;
E (envelope=involucro), deputata alla stabilità-integrità virale;
M (membrana), deputata all’elusione della risposta immunitaria;
N (nulceocapside), deputata all’«impacchettamento» genico.
Altre 16 sono «non-strutturali» (Nsp): codificate da ORF1a e ORF1ab sono coinvolte nella
replicazione-trascrizione del genoma virale, di nuovo nell’evasione immunitaria e nella sintesi di
proteine virali e acidi nucleici.
Le ultime 9, infine (ORF 3a, 3b, 6, 7a, 7b, 8, 9a, 9b e 10) sono «accessorie»: codificate dalle
regioni ORFs corrispondenti (ne prendono la sigla) e «benché non essenziali nella replicazione
virale», ricoprono importanti funzioni nella modulazione del metabolismo della cellula infetta
dell’ospite e della sua immunità antivirale.
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L’elemento-chiave è che proprio le «accessorie» marcano il maggior break rispetto a due
coronavirus «cugini» come Sars-CoV- e Mers-CoV; ma salterà all’occhio come tutte e tre le
tipologie siano coinvolte nell’azione di aggiramento-hackeraggio dei radar e dell’azione
immunitaria.
Tra le strutturali, resta da segnalare un tratto morfologico della spike poco noto, che va ad
assommarsi alla «mimesi» dell’angiotestina per entrare nell’Ace-2.
Rispetto a Sars-CoV, la spike è infatti in Sars-CoV-2 molto più adattata all’uomo; eppure,
questa conquista selettiva è in parte vanificata, dato che le spike — a differenza che in SARS
CoV — non sono alzate ma abbassate.
Il punto è che l’abbassamento — relativamente meno funzionale nel permettere l’accesso
al recettore — rende il virus meno «visibile» ai radar immunitari. Un baratto in cui sembra
trionfare l’«intelligenza implicita».
Una proteina «non strutturale» (Nsp16, in associazione con Nsp10) riesc ad alterare il
«cappuccio» dell’mRna di Sars-CoV-2 rendendolo identico a quello del nostro mRna e
usandolo così per portare ai ribosomi del nucleo il materiale genetico virale e convertirlo in
proteine. Simile a quello utilizzato dai rotavirus o dai virus influenzali (questi ultimi tagliano
addirittura il cap dell’mRNA dell’ospite giuntandolo al proprio), è un caso da manuale di
«mimetismo molecolare».
Un mix di proteine non-strutturali (Nsp1, Nsp6, Nsp13) e accessorie (ORF6 e altre) interviene poi
in una delle funzioni primarie dell’aggiramento immunitario, quella dell’inibizione degli
interferoni. Moltissimi virus hanno evoluto meccanismi al riguardo: i poxvirus (famiglia del
vaiolo) con proteine «guastatrici» che legano gli interferoni e non li fanno interagire coi recettori
naturali; altri (epatite B) inibendo l’espressione dei geni attivati dagli interferoni stessi; altri
ancora (influenza) disturbano i segnali tra i Tlr (i recettori adibiti al riconoscimento dei profili
molecolari estranei) e interferoni, bloccando la produzione di questi.
Sars-CoV-2 — che affina, di nuovo, meccanismi di Sars-CoV — sembra incidere in primo luogo
sul riconoscimento da parte proprio dei Tlr, così bloccando gli interferoni nella mediazione della
prima risposta innata nella mucosa aerea e nel riconoscimento della spike.
Gli interferoni sembrerebbero ricoprire in Covid-19 un ruolo ambivalente: da un lato, certi studi
mostrerebbero l’abilità del virus nell’utilizzarne alcuni per propagarsi, ma dall’altro, non solo un
interferone (lambda) sembrerebbe efficace nella terapia anti-Covid, ma è indubbio che
l’inibizione della prima risposta e della relativa immuno-modulazione scatena in molti
pazienti una «tempesta citochinica»— in particolare una sovra-risposta di interleuchina 6 (Il6)
— contribuendo allo sviluppo della forma severa della malattia.
6. LA «CAMERA DEI SEGRETI»: ORF8
Ma il primato tra gli schemi evoluti dai virus
nell’aggiramento del sistema immunitario umano spetta a quelli impiegati per
interdire/oscurare/hackerare il riconoscimento delle cellule infette, cioè la «presentazione
dell’antigene» da parte dell’MHI-HLA e il conseguente «richiamo» di linfociti T citotossici.
E il primato nel primato, tra tanti virus, spetta forse al cytomegalovirus, che ha evoluto
(selezionato) due geni specializzati nel rendere «la bomba» «invisibile al radar nemico».
Anche in questa funzione, Sars-CoV-2 impiega diverse proteine; ma il ruolo centrale è svolto da
ORF8, che ha attratto da subito l’attenzione dei virologi più avvertiti.
ORF8 esercita un break marcato rispetto ai suoi antenati: sul piano biologico-biofisico, gli studi
dettagliati di cristallografia a raggi X svolti dal gruppo di James Hurley al Lawrence Berkeley
(istituto in cui hanno operato ben 14 Nobel) mostrano nella versione 3D della proteina,
sottoposta a migliaia di immagini di diffrazione, una morfologia inedita (quindi con funzioni
inedite, se, come sempre in biologia, e non solo, la forma è la funzione) e due regioni uniche:
una presente solo in Sars-CoV-2 e in HKU3 del pipistrello, un’altra del tutto nuova, che insieme
«stabilizzano la proteina e creano nuove interfacce molecolari, probabilmente coinvolte
nella maggiore patogenicità rispetto ai ceppi da cui è evoluto».
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La prova diretta di questo break è proprio la capacità inedita di eludere il nostro sistema
immunitario, sia incidendo sull’immuno-modulazione degli interferoni nella prima risposta (che
abbiamo esaminato sopra), sia sottoregolamentando, appunto, MHC-HLA nella presentazione
dell’antigene virale sulla cellula infetta, cioè- nel dettaglio- impedendo il trasporto dei peptidi virali
dal reticolo endoplasmatico (l’insieme di membrane che sintetizzano le proteine nel nucleo) alla
superficie cellulare. La prova a contrario è duplice. Per un verso, si è notato come gli antigeni di
ORF 8 siano bersaglio prediletto di anticorpi nei pazienti di Covid-19, almeno quanto le
proteine di superficie (le spike).
Per un altro, varianti virali in cui ORF8 ha mostrato delezioni (perdite di tratti genici) Covid19 veniva contratto in forme lievi e meno letali, come nel caso celebre della variante di
Singapore; al punto che le delezioni notate di recente nella variante inglese farebbero presagire,
secondo alcuni, a una ripetizione di quell’evento. Ma un autorevole virologo evoluzionista come
Andrew Rambaut (Edimburgo) ha subito precisato come l’effetto diminutivo di quelle delezioni
sulla trasmissione di Sars-CoV-2 nelle prime vie aree sia molto modesto; e in generale Luca
Zinzula del Max Planck di Monaco (uno dei massimi conoscitori della proteina) scrive come
ORF8 manifesti «una tendenza a ricombinarsi e a sottoporsi a delezioni tese a facilitare
l’adattamento del virus all’ospite umano». E del resto, anche la famosa delezione 69-70 sulla
spike (isolata in Thailandia e nei visoni danesi) è sospettata di contribuire all’aggiramento del
nostro sistema immunitario. Specialmente nella fase intermedia, «informe», del ciclo riproduttivo
di Sars-CoV-2 (ovvero dopo che il virus ha destrutturato la sua sfericità coronata di tante
spike per entrare nel nostro nucleo cellulare, e prima di averla riacquisita grazie alle
nostre proteine, che permetteranno a migliaia di particelle virali di uscire dalla cellula
invasa, lasciandola danneggiata o morta) ORF8 continua ricoprire un ruolo non ben decifrato,
ma rilevante; a costituirne “la camera dei segreti”.
7. AURORE INTERMITTENTI: GENETICA, VACCINI, FARMACI
Ci si potrebbe figurare, da
questo lungo percorso, il nostro sistema immunitario come un gruviera permeabile da ogni
agente patogeno. In realtà, è un sistema altamente efficiente, che «vince» spesso senza che
nemmeno ce ne accorgiamo, specie quando l’«innato» svolge i suoi compiti in modo silente. Se
così non fosse, semplicemente, ci saremmo estinti. Ed è un sistema, per inciso, che riassume
con efficacia il mix di «barocco» e «Bauhaus» che opera nell’evoluzione, tra la ridondanza
dell’insieme (diverse strutture con medesime funzioni) e l’economia di certi processi,
come le porzioni ristrette di geni che presiedono all’MHC (HLA) o, con combinazioni da Lego,
alla costruzione di decine di milioni di anticorpi.
E a proposito di geni, non si può non ricordare di nuovo quanto un andamento epidemico non
dipenda solo dal genoma virale, ma anche dal nostro (con cui il sistema immunitario, come si
visto, è in incessante interazione).
Il che vale sia per la genetica popolazionale, la cui incidenza sulla risposta a Sars-CoV-2 è
ancora alle prime indagini (vedi la maggiore suscettibilità dell’aplogruppo R1b e del
subclave SS116 sul cromosoma Y, che aiuterebbero a spiegare anche la malattia più
diffusa e severa nei maschi); sia per la genetica individuale, dove sono emerse e continuano
a emergere indicazioni di peso. Qualche esempio: certi segnali sul cromosoma 9 (un locus di
geni che controlla il gruppo sanguigno) vedrebbe nell’appartenenza al gruppo A un possibile
fattore di rischio, al gruppo 0 (viceversa) di protezione, in quanto diverso parrebbe — per la
diversa coagulazione — l’esposizione a complicanze trombo-embolitiche; una mutazione sul
cromosoma 3 (pool di geni- in primis SLC6A20- che legano col recettore ACE2) sembra favorire
l’attracco virale; mentre è certo che alleli diversi dell’MHC-HLA (ricordiamo, il profondo self
immunogenetico di ognuno di noi) si riflettono in una diversa capacità sia nella risposta degli
interferoni che nella «presentazione dell’antigene» della cellula infetta al sistema immunitario. È
una variabilità, va da sé, che si completa e si prolunga nell’ epigenetica dell’individuo, la
«dialettica» tra geni e ambiente (comunque dettata dai geni) e nei suoi tratti biologici (età, sesso,
storia clinica).
E in ogni caso fino a quando — un futuro remoto — non diventeranno routine pratiche come
l’editing genomico, simili acquisizioni sono di rilievo più diagnostico che terapeutico.
Non resta che concentrarsi, per i tempi brevi e medi di patogeni come Sars-CoV-2, su farmaci
(antivirali e anticorpi mono o policlonali) e vaccini.
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Per gli antivirali, finora poco incisivi (in un quadro che vede le sole certezze nel cortisone —
desametasone — e nell’eparina), si apre qualche tenue indicazione.
Per esempio, la possibilità di bersagliare proprio ORF8: non direttamente, data la sua
variabilità, ma nelle sue interazioni con proteine del nostro self (esistono già una quindicina di
farmaci conosciuti in grado di farlo).
Per quanto riguarda vaccini e anticorpi mono o policlonali (MAb o PAb), patiscono un rischio
comune, che ci riporta circolarmente da dove siamo partiti: l’incidenza delle mutazioni e delle
varianti.
Si è letto in questi giorni di come i vaccini stiano perdendo efficacia, specie in rapporto alla
variante «sudafricana»: Moderna ha dichiarato al Corriere (per bocca di Andrea Carfi,
responsabile della ricerca sui vaccini e le malattie infettive) che il suo mantiene la stessa
efficacia per i casi gravi, perdendo il 10-20 % (sul 94) in quelli medio-lievi; mentre più marcate
sono le défaillances di Novavax (che passa dall’89,3% in UK al 50 in Sudafrica) e di Johnson &
Johnson (dal 72 al 57).
È evidente che al mutare dei bersagli antigenici sulla proteina spike (su cui i vaccini sono per lo
più modulati) cala l’incidenza degli anticorpi, tarata su antigeni(epitopi) obsoleti. La conferma
arriva da uno studio in vitro su anticorpi policlonali in cui tre mutazioni della spike (la delezione
F140 sull’NTD; la solita sostituzione E484K sull’RBD; l’inserzione N5 di nuovo sull’ NTD)
vanificano il bersaglio. Soluzioni su tempi brevi-medi non mancano: Moderna ha già detto che
l’adeguamento della sequenza nucleotidica (l’estensione del vaccino ai nuovi antigeni) può
esser svolto in «pochi mesi».
Su tempi (un po’) più lunghi e in generale, però, è inutile farsi ossessionare da mutazioni e
varianti.
È giusto potenziare il sequenziamento, specie in Paesi (come l’Italia) finora deficitari, per
adeguare i provvedimenti epidemiologici; così come è giusto studiare dettagli sorprendenti nella
loro genesi, quale il possibile ruolo di singoli pazienti immunodepressi che le «covano»
nella loro interminabile convivenza col patogeno.
Ma che mutazioni e varianti aggirino il nostro sistema immunitario e la «protesi»
vaccinale riguarda il «quando» non il «se», com’è ovvio per ogni virus sottoposto alla multipla
pressione selettiva (esercitata dal nostro sistema immunitario, dai vaccini stessi, dal decrescente
numero di suscettibili e dalla coevoluzione col nostro genoma) e come dimostra il vaccino
annuale dell’influenza.
In quest’ottica, mutazioni e varianti di un patogeno in una pandemia sono come i funghi in
una boscaglia dopo il temporale; e visto che spuntano autonomamente, ha un senso relativo
conferirle connotati nazionali.
Una possibile via a lungo termine è stata indicata, ancora una volta, dalle terapie anti-HIV,
quando, nel 1996, il ricercatore americano-taiwanese David Ho mostra i risultati risolutivi di un
cocktail di antiretrovirali. Schema simile, non a caso, adottato dalla Prometheus di Kartik
Chandran, che insegue il «Sacro Graal» di un cocktail di anticorpi monoclonali efficaci
contro tutti i coronavirus.
O dalla «piccola» azienda Gritstone («Arenaria»), la cui storia andrà presto raccontata nei
dettagli. Quartier generale a Emeryville, California, vicino agli Studi-Pixar (ma con sostegni della
Gates Foundation), la Gritstone sta mettendo a punto un vaccino «incrociato» (prima dose
con vettore ad adenovirus, come quello di AstraZeneca; seconda a mRNA, come quelli di
Pfizer/BioNTech e Moderna) che arrivi a bersagliare epitopi non solo della spike, ma di diverse
altre proteine non strutturali e accessorie di Sars-CoV-2, in questo modo prevenendo l’effetto di
mutazioni e varianti.
L’obiettivo è arrivarci entro il 2021: data in cui la contesa con l’«intelligenza implicita» di SarsCoV-2 sarà lontano dall’essere archiviata. Le aurore sono ancora intermittenti.
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Bibliografia
Libri
Per un’eccellente trattazione divulgativa delle strategie adattative dei virus e del sistema
immunitario:
Giovanni Maga, Occhio ai virus, Zanichelli, 2012;
Rino Rappuoli, Lisa Vozza, I vaccini nell’era globale, Zanichelli, 2009;
per un approfondimento degli stessi temi: Michael Cordingley, Viruses. Agents of Evolutionary
Invention, Harvard U.P., 2017;
per la manipolazione esercitata dai parassiti: Clément Lagrue, Les Parasites manipulateurs;
HumenSciences, 2020;
per la storia della scoperta dell’MHC-HLA: Daniel M. Davis, Il gene della compatibilità, Bollati
Boringhieri, 2016.
Articoli e studi
Per un inquadramento d’insieme sulla biologia, la genetica-genomica e la patogenicità di SARSCoV-2: tutti i contributi di Barbara Illi, sito Zanichelli SIBBM, in particolare 23 agosto 2020; per
l’elusione del sistema immunitario innato degli interferoni da parte di SARS-CoV-2: S. Amor et
al., Innate immunity during SARS-CoV-2: evasion strategies and activation trigger hypoxia and
vascular damage, Wiley Online Library, 26 settembre 2020; per la struttura di SARS-CoV-2 e la
proteina ORF8: Luca Zinzula, Lost in deletion: The enigmatic ORF8 protein of SARS-CoV-2,
PMC, 21 ottobre 2020.
3 febbraio 2021 (modifica il 3 febbraio 2021 | 15:19)
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