ROSSO MALPELO E LA QUESTIONE DEI CARUSI SICILIANI Rosso Malpelo è una novella di Giovanni Verga che comparve la prima volta su Il Fanfulla nel 1878. In seguito fu raccolta e pubblicata insieme ad altre novelle uscite tra il 1878 ed il 1880 in Vita dei campi. Rosso Malpelo descrive la realtà di povertà e sfruttamento delle classi disagiate in Sicilia alla fine del XIX secolo, realtà che Verga conosceva in prima persona. Il disagio delle classi subalterne emergeva chiaramente dalle inchieste del Regno d'Italia da poco formatosi. Principalmente l'opera è il ritratto di un adolescente condannato dai pregiudizi popolari all'emarginazione a causa del colore rosso dei capelli, spesso attribuito al male, ed al lavoro svolto nelle cave di rena siciliane. La rena rossa è una materia dall'aspetto sabbioso caratterizzato da colori che vanno dal rosa chiaro al rosso cupo. Veniva estratta scavando delle vaste cavità a ridosso degli abitati etnei e di Catania. Se Rosso Malpelo era un lavorante delle miniere di rena rossa, altri ragazzi erano schiavizzati nelle solfare siciliane. La solfara, o pirrera in siciliano, è una miniera di zolfo che può essere intesa sia come una vera e propria miniera sia come un semplice scavo superficiale. L'area interessata dai grandi giacimenti è quella centrale dell'isola, ed è compresa tra le provincie di Caltanisetta, Enna ed Agrigento. Quest'area si estendeva sino alla provincia di Palermo con il bacino di Lercara Friddi ed alla provincia di Catania di cui faceva parte fino al 1928 una parte dell'attuale provincia di Enna. Questa vasta area geografica ha rappresentato per un lungo periodo di tempo la massima zona di produzione a livello mondiale. All'interno di queste miniere lavoravano i carusi, termine siciliano che identifica i ragazzi compresi tra i 6 ed i 14 anni. I giovani che avevano superato i 14 anni, ma non raggiunto i 22, erano chiamati picciotti. I bambini dovevano lavorare all'interno delle miniere, e non solo, a causa delle disagiate condizioni economiche delle famiglie. I carusi impiegati nelle solfare siciliane erano arruolati con una tipologia di contratto chiamato soccorso morto dalle famiglie di origine. I ragazzi erano affidati dalle famiglie di origine al picconiere per essere adibiti al trasporto del minerale dal sotterraneo alla superficie con una remunerazione a cottimo. La famiglia si faceva anticipare soldi dal picconiere, somme che variavano dalle 100 alle 150 lire. Tali anticipi non erano quasi mai restituiti, anzi crescevano di mese in mese. Il ragazzo, o bambino, restava vincolato al proprio picconiere sino a quando non aveva scontato completamente il debito. Non furono rari i casi di operai di 30 o 40 anni rimasti carusi perché non aveva restituito il soccorso morto. Tale tipologia di accordo tra famiglie e picconieri era denominato morto poiché non generava interessi. I carusi lavoravano nelle gallerie buie delle solfare dall'alba al tramonto, in piccoli gruppi alle dipendenze del picconiere che li aveva arruolati. Tale impiego non prevedeva il rispetto dell'integrità fisica del caruso. Il fenomeno del lavoro minorile non fu una problematica solo siciliana. Lo sfruttamento dei minori era diffuso in tutta Italia. Secondo la legislazione vigente tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, era illegale far lavorare un minore di 12 anni. Purtroppo la legge era violata ovunque. Le condizioni di lavoro erano estremamente dure. Il rispetto dei diritti umani, dei diritti dell'infanzia e diritti dei lavoratori non esisteva. Sia i picconieri che i carusi lavoravano praticamente nudi. L'orario di lavoro poteva arrivare alle sedici ore giornaliere ed i ragazzi-schiavi subivano costantemente maltrattamenti e punizioni corporali qualora fossero accusati di furto o di scarso rendimento sul posto di lavoro. Una delle principali testimonianze dello sfruttamento dei ragazzi-schiavi fu lasciato da uno scrittore ed educatore americano, Booker Taliaferro Washington, che rappresentava il principale punto di riferimento per la comunità afroamericana dell'epoca. Lo scrittore americano scrisse un resoconto incredibile delle condizioni di lavoro dei carusi nel libro The man farthest down: a record of observation and study in Europe, pubblicato nel 1912. Le parole con le quali Washington rappresentò l'impiego minorile siciliano dell'epoca sono le seguenti: «Da questa schiavitù non vi è alcuna speranza di libertà, perché né i genitori, né il figlio potrà mai avere denaro sufficiente per rimborsare il prestito originario. […] Le crudeltà a cui i bambini schiavi sono stati sottoposti, come riferito da coloro che li hanno visti da vicino, nessuna crudeltà simile è mai stata segnalata nella schiavitù dei negri. Questi ragazzi schiavi erano spesso picchiati e malmenati, al fine di estorcere dai loro corpi sovraccarichi l'ultima goccia di forza che avevano in loro. Quando i pestaggi non erano sufficienti, vi era l'usanza di bruciare i polpacci delle gambe con le lanterne per rimetterli di nuovo in piedi. Se avessero cercato scampo da questa schiavitù, erano catturati e percossi, a volte anche uccisi».