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marginalità, etnicità e penalità

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Marginalità, etnicità
e penalità nella città
neo-liberale: una
cartografia analitica
Loïc Wacquant
University of California, Berkeley
Centre européen de sociologie et de science politique, Paris
([email protected])
L’articolo disegna una mappa
analitica del programma di ricerca
che ho perseguito nei miei tre libri:
Urban Outcasts (2008), Punishing
the Poor (2009), e Deadly Symbiosis:
Race and the Rise of the Penal State
(2013). Nella trilogia ho cercato di
chiarire le relazioni triangolari tra
frammentazione di classe, divisione
etnica e trasformazione dello stato
nella città polarizzata di fine secolo.
Vi ho sviluppato nozioni chiave per
chiarire categorie che rimanevano
confuse (come quella di ghetto) e per
forgiare concetti nuovi che ho inteso
quali strumenti per una sociologia
comparata della incompiuta genesi
del precariato post-industriale, della
regolazione penale della povertà, e
della costruzione del Leviatano neoliberale. Il ricondurre lo studio delle
permutazioni attuali di classe, razza
e immigrazione, e dello stato a un
medesimo contesto mostra come la
razzializzazione, la penalizzazione
e la depoliticizzazione delle
turbolenze urbane associate alla
marginalità avanzata, si rafforzino
vicendevolmente tanto in Europa che
negli Stati Uniti
Vorrei cominciare ringraziando di cuore tutti i partecipanti a
questa conferenza1, meglio farlo all’inizio, dato che potremmo
avere consistenti disaccordi alla sua conclusione. É paradossale,
ma uno dei principali ostacoli odierni all’avanzamento delle
scienze sociali risiede nell’organizzazione spaziale e temporale della ricerca, con una incontrollata invasione di formalità
burocratiche, il sovraccarico di lavoro e la moltiplicazione delle
missioni cui non corrisponde una equivalente espansione delle
risorse necessarie per portarle avanti. Questo vuol dire che non
sempre abbiamo gli incentivi concreti e a volte nemmeno il
tempo per sederci e leggere approfonditamente il lavoro di altri
studiosi, nemmeno di quelli di cui sarebbe necessario essere al
corrente per rimanere al passo nei nostri specifici settori disciplinari. E vi sono ancora meno occasioni per incontrare in gruppo
colleghi che provengono da una varietà di campi, e che si sono
assunti il compito di analizzare un corpus di scritti per potersi
impegnare in una discussione mirata, tale da rendere possibile
aiutarsi l’un l’altro a procedere lungo i propri percorsi di ricerca.
É dunque proprio una rara occasione di questo genere quella
che siamo felici di avviare oggi grazie all’energia e al talento
che Mathieu Hilgers ha saputo dispiegare nell’organizzazione di
questo meeting. Gli sono perciò molto grato, come lo sono a tutti
coloro, sociologi, criminologi, geografi e antropologi che sono
convenuti qui per un’ampia discussione e al pubblico numeroso
che è venuto ad assistere, e spero inoltre a contribuire ai nostri
dibattiti con domande e reazioni.
Quel che vorrei fare oggi è precisamente fungere da commutatore vivente per attivare la comunicazione tra ricercatori
che abitualmente non si incontrano gli uni con gli altri e non
hanno se non rare occasioni di parlarsi, a causa della distanza,
e di attivarla su tre temi che istruiscono le tre sessioni di studio odierne. Abbiamo nel primo angolo coloro che studiano la
frammentazione di classe nella città, il dissolversi della classe
operaia tradizionale scaturita dall’era Fordista-Keynesiana (che
corrisponde approssimativamente al secolo lungo che va dal
1880 al 1980) per effetto della deindustrializzazione, dell’ascesa
della disoccupazione di massa e della diffusione della precarietà
del lavoro, all’intersezione di quello che Robert Castel (1996)
colloca sotto la nozione di «erosione della società salariale» e
Manuel Castells (2006) chiama i «buchi neri» dello sviluppo
urbano dell’«età dell’informazione». Sono questi i ricercatori
che si occupano dei trends dell’occupazione e del mercato del
lavoro e dei loro impatti ramificanti e polarizzanti sulle strutture
sociali e spaziali – che conducono, in particolar modo al fondo
Parole chiave: marginalità; ghetto;
disonore
7
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a p e r t u r e
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mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.
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della scala sociale, ad una incompiuta genesi del precariato
post-industriale nelle periferie urbane dell’alba del XXI secolo.
Ma essi raramente discutono con i loro colleghi che stanno nel
secondo angolo, e che studiano la fondazione, le forme e le
implicazioni delle separazioni etniche.
Basata su delle classificazioni etno-razziali negli Stati Uniti
(vale a dire sulla istituzionalizzazione della ‘razza’ come etnicità negata) sulla classificazione etno-nazionale nella Unione
Europea (cioè la separazione nazionale/straniero), su varie
mescolanze delle due in America Latina e buona parte dell’Africa, (ri)attivata dalla immigrazione e dalle differenze culturali
di cui l’immigrazione può esser portatrice, la divisione etnica
è nondimeno essenziale per comprendere la formazione e la
deformazione delle classi. E per converso: come non vedere
che coloro che sono designati – o diffamati – in tutta Europa
come ‘immigrati’ sono stranieri di origine postcoloniale e appartenenti ai ceti inferiori, mentre altri, appartenenti ai ceti
alti sono invece ‘expats’, espatriati di lusso, che tutti vogliono
attrarre, ben altro che respingere? E come ignorare che la percezione collettiva che si ha di loro, le modalità con cui essi si
integrano, la loro capacità di azione collettiva, in poche parole
il loro destino, dipendono in gran parte dalla loro collocazione e
traiettoria sociale, e dunque dagli spostamenti della struttura di
classe in cui essi sono iscritti? Questo ambito di ricerca, che sta
conoscendo uno sviluppo senza precedenti in tutta Europa, alimentato come è dalla paura dell’immigrazione e dall’insistenza
della politica e dei media sulla ‘differenza’, è cresciuto in gran
parte in maniera autonoma (sotto l’impulso dei programmi di
ricerca etnica all’americana) e separato, forse persino opposto
all’analisi di classe. Così si è costituita una alternativa tutta
artificiale che ci impone di fare una scelta disgiuntiva tra classe
ed etnicità, di accordare preferenza analitica e priorità politica
o alla ‘questione sociale’ o alla ‘questione razziale’, e penso
per il caso della Francia allo studio di Pap Ndiaye, La Condition
noire (2008) che ha avuto ampia risonanza e mira a fondare dei
«black studies alla francese», il che rappresenta ai miei occhi un
doppio errore, teorico e pratico, e al volume collettaneo curato
dai fratelli Fassin, De la question sociale à la question raciale?
(2006) che rappresenta bene l’orientamento del senso comune
progressista del momento. Ora, è più che evidente come sottolineò Max Weber un secolo fa (1963) che queste due modalità
di ‘chiusura sociale’ (Schließung), basate rispettivamente sulla
distribuzione di poteri materiali e simbolici sono profondamente
implicate e devono essere necessariamente pensate insieme2.
Abbiamo infine nel terzo angolo, isolato dagli altri due, un
gruppo di studiosi che è molto ben rappresentato tra noi oggi:
criminologi e specialisti assortiti in tematiche di giustizia criminale. Procedono con zelo a un lavoro di scavo in profondità
sul perimetro del binomio ‘delitto e castigo’, che è storicamente
costitutivo della loro disciplina ed è continuamente rafforzato
dalla domanda politica e amministrativa. Ma proprio per questo
motivo essi non prestano più di tanto attenzione (almeno non a
sufficienza per i miei gusti) agli spostamenti nella struttura di
classe e alla sua formazione, all’inasprirsi delle disuguaglianze
e al vasto rimodellamento in corso della povertà urbana da
un lato e all’impatto dinamico e storicamente variabile delle
divisioni etniche dall’altro (salvo considerarle sotto la rubrica
restrittiva e limitante della discriminazione e della disparità,
generalmente confuse). Così facendo si privano della possibi-
lità di comprendere l’evoluzione attuale delle politiche penali,
dato che, come ha mostrato Bronislaw Geremek (1987) nel
suo capolavoro La Potence ou la pitié, a partire dall’invenzione
della prigione e dell’emergere degli stati moderni in Occidente
alla fine del XVI secolo, queste politiche sono state più mirate a
contenere la marginalità urbana di quanto non fossero rivolte a
ridurre il crimine. Meglio ancora, la politica penale e la politica
sociale non sono altro che due aspetti della medesima politica
della povertà nella città- nel duplice senso di lotta per il potere
e di azione pubblica. Infine, sempre e ovunque il vettore della
penalità colpisce preferenzialmente le categorie situate al fondo
della gerarchia delle classi e della gradazione dell’onore. É tuttavia cruciale connettere la giustizia criminale alla marginalità
nella sua doppia dimensione, materiale e simbolica, così come
agli altri programmi di stato che si propongono di ‘regolare’
popolazioni e territori ‘problematici’.
Spero che la mia presenza qui possa aiutarci a superare – anche
solo per la durata di questo meeting – l’isolamento e la reciproca
ignoranza in cui gli esploratori di queste tre regioni tematiche
si trovano gli uni rispetto agli altri, così da mettere in moto un
dialogo tra ricercatori della relegazione urbana come prodotto
della ristrutturazione di classe, del riverberarsi della etnicità, e
delle trasformazioni dello stato nelle sue diverse componenti
che hanno come obiettivo le popolazioni diseredate e disonorate – primo tra tutti il suo braccio penale (la polizia, le corti,
le celle, le prigioni e le loro estensioni). Se c’è un argomento
chiave che vorrei mettere sul tavolo oggi, attraverso le mie
risposte su ognuno dei libri che sono il focus delle nostre tre
sezioni, così come nel mio discorso conclusivo della giornata,
è che abbiamo un bisogno urgente di legare queste tre aree di
ricerca e di fare in modo che le corrispondenti discipline lavorino
insieme; sociologia urbana e analisi economica, antropologia e
scienza politica della etnicità, e criminologia e lavoro sociale,
con un input diagonale dalla geografia che ci possa aiutare a
catturare la dimensione spaziale delle loro molteplici reciproche
implicazioni, con alla fine della nostra visione la figura di uno
‘stato Centauro’ liberale ai livelli alti e punitivo ai livelli bassi,
che si fa beffe dell’ideale democratico nella sua anatomia e nel
suo modus operandi.
1. Propongo sia come preambolo sia come cornice per i nostri
dibattiti di abbozzare una sommaria cartografia analitica del
programma di ricerca che ho perseguito negli ultimi due decenni,
all’incrocio di queste tre tematiche, un programma di cui i miei
libri Urban Outcasts, Punishing the Poor e Deadly Symbiosis sono
al contempo i prodotti e il risultato. Questi libri formano una
trilogia che prova come il triangolo delle trasformazioni urbane,
con classe etnicità e stato ai suoi vertici, schiuda la strada ad
una (ri)concettualizzazione del neoliberalismo in grado di essere
realmente sociologica. Come dire che giova leggerli insieme, di
seguito o contemporaneamente, dato che essi si completano e
si rafforzano vicendevolmente per disegnare in fine un modello
della riconfigurazione del nesso tra stato, mercato e cittadinanza
all’inizio del secolo, un modello sperabilmente generalizzabile
mediante una ragionevole trasposizione tra frontiere. Questa rivisitazione è un’opportunità di tratteggiare un bilancio provvisorio
e compatto di queste ricerche, specificandone le poste in gioco,
ma anche per segnalare come io abbia adattato nozioni chiave
derivate da Pierre Bourdieu (spazio sociale, campo burocratico,
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potere simbolico) per chiarire categorie rimaste nebulose (come
quella di ghetto) e per forgiare concetti nuovi con cui analizzare
l’emergere del precariato urbano e la sua gestione punitiva da
parte del Leviatano neo-liberale.
Ogni volume della trilogia getta luce su di un lato del triangolo
«classe-razza-stato»3 e saggia l’impatto di ognuno dei tre vertici
sulle relazioni tra gli altri due. E ogni libro costruisce a partire
dagli altri due, sia per quanto riguarda il retroterra empirico sia
come trampolino teorico.
Urban Outcasts diagnostica la crescita di una marginalità
avanzata nella città, che deriva dal collasso del ghetto nero
nelle città americane e dalla dissoluzione dei territori operai in
Europa occidentale, lungo l’asse ‘classe-razza’, nel modo in cui
lo orientano le politiche e le strutture dello stato.
Punishing the Poors mappa l’invenzione e il dispiegamento
del contenimento punitivo come tecnica di governo di aree e
popolazioni problematiche lungo l’asse ‘classe-stato’ segnato
da divisioni etnorazziali o etnonazionali.
Deadly Symbiosis dipana le relazioni di implicazione reciproca
tra penalizzazione e razzizalizzazione come forme strettamente
imparentate di disonore e rivela come la disuguaglianza di classe
intersechi e moduli l’asse ‘stato-etnicità’.
Ognuno dei libri elabora la sua propria problematica e può quindi
essere letto separatamente, ma gli argomenti che li legano insieme vanno ben oltre il contenuto di ognuno, disegnando un più
ampio contributo, innanzitutto una sociologia comparativa della
regolazione dei poveri e della (de) formazione del proletariato
post-industriale, in secondo luogo una antropologia storica del
Leviatano neo-liberale (Wacquant, 2012). Essi offrono una maniera di ripensare il neo liberalismo come un progetto politico
transnazionale, una vera e propria ‘rivoluzione dall’alto’ che non
può essere ridotta al nudo imperio sui mercati (come vorrebbero
tanto i suoi oppositori che i suoi avvocati) ma necessariamente
abbraccia i mezzi istituzionali richiesti per fare esistere questo
potere imperiale: prima di tutto una politica sociale disciplinare
(condensata nel termine workfare), e la diligente espansione del
sistema penale (che ho battezzato prisonfare), senza dimenticare il tropo della responsabilità individuale, che agisce come
collante culturale unificante le tre componenti summenzionate
(Wacquant, 2010a).
Riassumo qui gli argomenti essenziali di ogni libro prima di
evidenziarne i fondamenti teorici comuni e le interconnessioni
che implicano.
La produzione politica della marginalità avanzata: il primo libro
Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality, illumina il nesso di classe e razza nei distretti deprivati o
nei bassifondi della metropoli postindustriale nella sua fase di
polarizzazione socio-spaziale (Wacquant, 2008a). Vi descrivo
la rapida implosione del ghetto nero americano dopo l’acme
del movimento per i diritti civili e ne attribuisco le cause alla
brusca virata delle politiche locali e federali dopo la metà degli
anni ’70, un mutamento a più sfaccettature che David Harvey
(1989) fotografa come lo spostamento dalla «città manageriale
alla città imprenditrice», che assume una forma particolarmente
virulenta negli Stati Uniti perché su di esso si innesta una revanche razziale. La virata politica accelera la transizione storica
dal ghetto comunitario, che confinava tutti i neri in uno spazio
riservato che al tempo stesso li intrappolava e li proteggeva, allo
hyperghetto, un territorio di desolazione che ora contiene solo
le frazioni instabili della working-class Afro-Americana, esposte
ad ogni genere di insicurezza (economica, sociale, criminale,
abitativa, sanitaria, ecc.) per il disfacimento della rete di istituzioni parallele che caratterizzava il ghetto nella sua forma
pienamente realizzata (Wacquant, 2005a).
Successivamente sottolineo il contrasto tra questo rapido crollo
e la lenta decomposizione dei territori operai nella Unione Europea durante l’epoca della deindustrializzazione. Mostro come
il processo di relegazione obbedisca a logiche diverse nei due
continenti. Negli Stati Uniti è determinata dalla etnicità, modulata dalla posizione di classe dopo gli anni ’60, ed aggravata
dallo stato. In Francia e nei paesi vicini è radicata nella disuguaglianza di classe, coniugata con l’etnicità (leggi immigrazione
post-coloniale) e parzialmente mitigata dalla azione pubblica. Ne
consegue che, ben lungi dal dirigersi verso il tipo socio-spaziale
del ghetto come strumento di chiusura etnica (Wacquant, 2011a)
i quartieri diseredati delle città europee si stanno spostando in
una direzione opposta, così tanto che si possono caratterizzare
come anti-ghetti4 (fig. 1).
Io refuto così la tesi oggi di moda della convergenza transatlantica dei quartieri diseredati e metto l’accento, in sua vece,
sull’emergenza nelle due sponde dell’Atlantico di un nuovo
regime di povertà nella città, alimentato dalla frammentazione
del lavoro salariato, dall’arretramento della protezione sociale e
dalla stigmatizzazione territoriale. Concludo affermando che lo
stato gioca un ruolo chiave nella produzione e nella distribuzione
sia sociale che spaziale della marginalità urbana: il destino del
precariato postindustriale si rivela essere economicamente sotto
determinato e politicamente sovradeterminato, e questo tanto in
Europa che negli Stati Uniti, ancora una intaccatura in quello
che lo storico Michael Novak (2008) ha ben definito come «il
mito dello ‘stato debole’ americano». Il che equivale a dire che
è necessario ricollocare le strutture e le politiche di governo al
centro della sociologia della città (lì dove Max Weber, 2003 le
aveva giustamente collocate), a strapiombo sui rapporti tra classe
ed etnicità annodati tra loro al fondo della struttura spaziale,
come indicato dalla fig. 1.
La gestione punitiva della miseria come componente del neoliberalismo: come reagisce lo stato e come tratta questa marginalità avanzata di cui paradossalmente ha esso stesso favorito
l’esplosione e il radicamento al punto di confluenza tra le politiche di deregulation economica e di taglio della protezione
sociale? E in che modo per converso la normalizzazione e l’intensificazione dell’insicurezza sociale nelle zone di relegazione
urbana contribuiscono al ridisegno del perimetro, dei programmi
e delle politiche della autorità pubblica (uso questo termine di
proposito)? Le relazioni biunivoche tra trasformazioni di classe
e rimodellamento dello stato nella sua missione sociale e penale sono l’oggetto del secondo libro, intitolato Punishing the
Poor: The Neoliberal Government of Social Insecurity (Wacquant
2009a), che copre il versante sinistro del ‘triangolo fatale’ che
determina il destino del precariato urbano.
I manager di stato avrebbero potuto ‘socializzare’ queste forme
di povertà emergenti, indagando i meccanismi collettivi che
le alimentano, o avrebbero potuto ‘medicalizzarne’ i sintomi
individuali, ma invece hanno scelto un’altra via, quella della
penalizzazione. Così è stata inventata negli Stati Uniti una nuova
policy della gestione della marginalità urbana coniugando una
politica sociale restrittiva – mediante la sostituzione del welfare
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protettivo con il workfare obbligatorio, in cui l’assistenza viene
condizionata alla disponibilità a lavori degradanti – e l’espansione delle politiche penali – intensificata da una filosofia della
pena che è slittata dalla riabilitazione alla neutralizzazione, e che
è mirata alle aree urbane declinanti o diseredate (Lo hyperghetto
americano, banlieues popolari diseredate in Francia, sink estates
nel Regno unito, krottenwijk in Olanda, ecc.), abbandonate al
discredito pubblico dal discorso della stigmatizzazione territoriale nella metropoli dualizzata. Questa contrazione della policy si
amplierà dunque e muterà attraverso un processo di ‘traduzionetradimento’ attraversando le frontiere nazionali, in accordo con
la trasformazione dello spazio sociale e la configurazione dello
specifico campo politico-amministrativo di ogni paese che la fa
propria5. Punishing the Poor realizza tre rotture che pongono
sul piatto tre grandi questioni. La prima rottura consiste nel
disaccoppiare il crimine dalla pena al fine di stabilire invece che
l’irruzione dello stato penale e il grande ritorno della prigione
(che era stata dichiarata moribonda e destinata a scomparire già
più o meno verso il 1975)6, non hanno tanto l’obiettivo di dare
una risposta all’insicurezza criminale, ma all’insicurezza sociale
generata dalla precarizzazione del lavoro salariato e all’ansia
etnica generata dalla destabilizzazione delle gerarchie d’onore
consolidate (corrispondenti al collasso del ghetto nero negli Stati
Uniti e all’insediamento delle popolazioni migranti e al progresso
dell’integrazione sovranazionale nell’Unione Europea).
La seconda rottura è quella che permette di abbracciare in un solo
modello la conversione delle politiche penali e le permutazioni
della social policy, in genere tenute separate tanto nella visione
governativa che in quella accademica. Ma queste due policy
sono strettamente implicate reciprocamente: esse sono infatti
mirate alla medesima popolazione catturata nelle faglie e nei
fossi di una struttura socio-spaziale polarizzata; esse dispiegano
le medesime tecniche (schedature, sorveglianza, denigrazione
e sanzioni graduate) e obbediscono alla stessa filosofia morale
del comportamentismo individualistico; gli obiettivi panottici e
disciplinari della prima tendono a contaminare la seconda. Per
realizzare questa integrazione io ricorro al concetto di «campo
burocratico» (Bourdieu, 1993), che mi conduce a rivedere la
classica tesi di Fox e Piven (1993) sulla «regolazione dei poveri»
mediante il welfare: ormai la mano sinistra e la mano destra dello
stato si uniscono per rendere effettiva la «doppia regolazione
punitiva» delle frazioni instabili del proletariato post-industriale.
La terza rottura consiste nel porre fine alla sterile discussione
tra i sostenitori dell’approccio economico ispirato da Marx e
Engels, che costruisce la giustizia criminale come uno strumento
di controllo di classe dispiegato in stretta relazione ai movimenti
del mercato del lavoro e l’approccio culturalista derivato da
Emile Durkheim, secondo cui la pena è una lingua che serve a
tracciare confini, a rivitalizzare la solidarietà sociale ed esprime
i sentimenti condivisi che fondano la comunità civica. Grazie
al concetto di campo burocratico è sufficiente tenere insieme
il momento materiale e il momento simbolico di qualunque
politica pubblica per realizzare che il penale può perfettamente
assolvere ad ambo le funzioni di controllo e di comunicazione,
sia simultaneamente, sia successivamente, e così operare di
concerto nei registri strumentali ed espressivi. Effettivamente
uno dei tratti contraddistintivi della penalità neo liberale è la
sua teratologica accentuazione della sua missione di estirpazione
figurata della corruzione e del pericolo dal corpo sociale, anche
al costo di ridurre il controllo razionale del crimine, come mostra il rimodellamento isterico delle sentenze e delle modalità
di supervisione dei delinquenti sessuali nelle società avanzate.
Concludo Punishing the Poor mettendo in rilievo le differenze
tra il mio modello di penalizzazione come tecnica politica per
la gestione della marginalità urbana con la descrizione della
‘società disciplinare’ fatta da Michel Foucault (1975), con la
tesi di David Garland (2001) sull’emergenza di una ‘cultura del
controllo’ e con la visione delle politiche neo-liberali proposta
da David Harvey (2005).
Nel farlo dimostro che la espansione e la glorificazione del
braccio penale dello stato (centrato sulla prigione negli Stati
Uniti e condotto dalla polizia nella Unione Europea) non è una
deviazione anomala del neo-liberalismo o una sua corruzione,
ma piuttosto una delle sue componenti centrali costitutive. Analogamente alla fine del XVI secolo lo stato moderno nascente
innova introducendo congiuntamente l’assistenza ai poveri e
l’internamento carcerario per arginare il flusso di miserabili
e di mendicanti che invadono le città commerciali del Nord
Europa (Lis and Soly, 1979; Rusche and Kirchheimer, 2003),
e così egualmente alla fine del XX secolo lo stato neoliberale
rafforza e ridispiega il proprio apparato poliziesco, carcerario
e penale per soffocare i disordini causati dalla diffusione della
insicurezza sociale al fondo della scala sociale delle classi e dei
luoghi, e mette in scena lo spettacolo della pornografia lawand-order per riaffermare l’autorità di un governo che è alla
ricerca di rilegittimazione, avendo rinunciato ai suoi compiti di
protezione economica e sociale.
La sinergia trasformatrice tra razzializzazione e penalizzazione:
il crescendo della marginalità avanzata e la virata verso il suo
contenimento punitivo sono entrambi potentemente stimolati e
rimodulati dalla divisione etnica, radicata negli Stati Uniti nella
opposizione nero/bianco e centrata sullo scisma ‘nazionale/
straniero post-coloniale’ in Europa occidentale (con alcune categorie come i Rom, trattate come quasi-stranieri perfino nei loro
paesi di origine). Questa rimodulazione opera indirettamente
attraverso la bisettrice dell’angolo ‘classe razza stato’ come
mostrato nella fig. 2 (e come trattato nel cap. 7 di Punishing
the Poor, «The Prison as a Surrogate Ghetto»), ma anche direttamente attraverso la relazione bidirezionale tra razza e stato.
Questa relazione è raffigurata dalla parte destra ed è affrontata
nel terzo libro Deadly Symbiosis: Race and the Rise of the Penal
State (Wacquant, forthcoming).
La connessione sinergica tra la differenziazione etnorazziale e
lo stato penale è la questione più difficile da porre e da risolvere
di questo programma di ricerca, e questo per diversi motivi7. In
primis perché lo studio del dominio razziale è una palude concettuale ed un settore della ricerca in cui il teatro della politica e la
declamazione morale primeggiano troppo spesso sul rigore analitico e sulla qualità dei materiali empirici (Wacquant, 1997a).
Poi perché la probabilità di soccombere alla logica del processo,
che è il nemico giurato dell’analisi sociologica, ed è fortissima
quando si mette mano al ‘razzismo’, viene qui raddoppiata
dal fatto di considerare una istituzione, la giustizia criminale,
che ha proprio come funzione ufficiale quella di pronunciare
dei giudizi di colpevolezza. In terzo luogo per comprendere il
legame attuale tra razza e potenza pubblica è necessario risalire
quattro secoli addietro, al momento di fondazione della colonia
che diventerà gli Stati Uniti, senza per altro cadere nella trappola
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[neoliberalismo]
STATO
Mano sinistra
‘workfare’
Punishing the Poor
Mano destra
‘prisonfare’
[prigione]
Deadly Symbiosis
CITTÀ
[hyperghetto
anti-ghetto]
RAZZA
(etnicità)
CLASSE
(mercato)
Urban Outcasts
(BODY)
Anima e Corpo
Fig. 1 – Il triangolo fatale del precariato urbano
Fonte: elaborazioni dell’autore
di fare del presente l’eredità inerte ed ineluttabile di un passato
vergognoso che rimane da espiare. Da ultimo la divisione etnorazziale non essendo una cosa ma una attività (simbolica, una
relazione oggettiva e incarnata), non è fissa e costante: si evolve
attraverso le epoche in funzione appunto del modus operandi
dello stato. Queste difficoltà spiegano perché io abbia per ben
due volte ripreso il libro dall’editore per rivederlo da cima a
fondo (e che per questo oggi non potete valutare che attraverso
gli articoli che permettono di leggere delle versioni preliminari
e provvisorie dei principali capitoli).
Deadly Symbiosis mostra come la separazione etnorazziale
lubrifichi e intensifichi la penalizzazione e come per converso
l’ascesa dello stato penale modelli la razza come una modalità
di stratificazione e di classificazione, associando la blackness con
la pericolosità deviante e scindendo la popolazione nera secondo
un gradiente giudiziario (Wacquant, 2005b). La dimostrazione
procede attraverso tre tappe che ci trasportano su tre continenti.
Nella prima tappa ricostruisco la concatenazione storica delle
quattro ‘peculiari istituzioni’ che hanno successivamente contribuito a definire e a confinare i neri attraverso la storia degli
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Stati Uniti8: la schiavitù dal 1619 al 1865, il regime di terrorismo
razziale nel Sud noto come «Jim Crow» dal 1890 al 1965, il
ghetto della metropoli fordista nel Nord dal 1915 al 1968 e infine
la costellazione ibrida nata dalla mutua interpenetrazione dello
hyperghetto e di un sistema carcerario ipertrofico. Ho stabilito
che la stupefacente inflazione nel confinamento della lower-class
nera a partire dal 1973 (la borghesia nera ha sia supportato che
beneficiato della espansione penale stessa, il che è sufficiente a
invalidare la tesi contro-evangelica dell’avvento di una «nuova
Jim Crow») è il risultato del collasso del ghetto come contenitore
etnico e del susseguente sviluppo della rete penale tutt’intorno
ai suoi resti. Questa maglia carceraria è stata rafforzata da una
serie convergente di mutamenti, che da una parte hanno ‘prigionizzato’ il ghetto, dall’altro hanno ‘ghettizzato’ la prigione, in
una sorta di triplice relazione di equivalenza funzionale, omologia strutturale e sincretismo culturale conglomerati insieme
(Wacquant, 2001). La simbiosi tra lo hyperghetto e la prigione
perpetua la marginalità socioeconomica e la contaminazione
simbolica del sottoproletariato nero; e ricompone il significato di
‘razza’ e la struttura della cittadinanza secernendo una cultura
pubblica razzializzata della denigrazione dei criminali.
In seguito espando il modello fino ad abbracciare la massiccia
iper-incarcerazione dei migranti post-coloniali nella Unione Europea, che si rivela essere ancora più esorbitante nella maggior
parte degli stati membri di quanto non lo sia la super-carcerizzazione dei neri americani dall’altra parte dell’Atlantico- fatto
rivelatore ma ancora poco conosciuto che è per lo più trascurato o negato dai criminologi continentali (Wacquant, 2005c).
L’attenzione posta selettivamente sugli stranieri e la preferenza
accordata al confinamento di coloro che provengono dagli ‘eximperi occidentali’, assumono le due forme complementari del
‘trasporto’ interno ed esterno, la purga carceraria o l’espulsione
geografica (drammatizzata dalla cerimonia giornalistico-burocratica del ‘volo charter’). A complemento di queste misure vi
è il rapido sviluppo di una ampia rete di campi di detenzione
riservati ai migranti irregolari e di politiche aggressive di persecuzione e di esclusione che spingono i migranti verso l’informalità e normalizzano le zone e le pratiche del ‘non diritto’
attraverso il continente così come alla sua periferia mediante
l’esternalizzazione di programmi di controllo dell’immigrazione
e dell’asilo (Broeders and Engbersen, 2007; Ryan and Mitsilegas,
2010). Questo complesso di misure ha lo scopo di strombazzare
la forza delle autorità e di riaffermare il confine tra ‘loro’ e un
‘noi’ europeo che si va cristallizzando9.
La penalizzazione, razzializzazione e depoliticizzazione delle
turbolenze urbane associate con la marginalità avanzata in
questo modo procedono di concerto e si rafforzano l’una con
l’altra in un nesso circolare così sul continente Europeo come
negli Stati Uniti.
La stessa logica opera in America Latina, dove, infine, conduco
il lettore per permettergli di scrutare la militarizzazione della
povertà nelle metropoli brasiliane come rivelatrice di una logica
profonda di penalizzazione (Wacquant, 2008b). In un contesto
di estrema disuguaglianza e di crescente violenza di strada,
spalleggiata da uno stato patrimoniale che tollera come routine
la discriminazione giudiziaria per colore e classe, e di scatenata
brutalità poliziesca. Vanno considerate inoltre le spaventose condizioni di detenzione imposte ai prigionieri, tali da imporre un
contenimento punitivo ai residenti delle degradate favelas e dei
conjuntos, il che equivale a trattarli alla stregua di nemici della
nazione. Ed è garantito che tutto questo alimenta il disprezzo
per la legge e la routinizzazione degli abusi così come l’espansione senza controllo del potere penale, che si può osservare
attraversare il Sud America in risposta all’ascesa congiunta di
disuguaglianza e marginalità (Müller, 2012). Questo excursus
brasiliano conferma che il vettore della penalizzazione opera
sempre in maniera altamente selettiva, colpendo prioritariamente le categorie doppiamente subordinate nell’ordine materiale
delle classi e nell’ordine simbolico dell’onore.
2. Torno ora sull’ispirazione teorica del mio lavoro, che non
sempre è percepita chiaramente dai lettori (o in maniera fumosa
e ellittica), anche se essa fornisce la chiave per l’intelligibilità
generale di un insieme di ricerche che in sua assenza potrebbero
sembrare piuttosto disperse se non addirittura sconnesse. Per
dipanare le connessioni triangolari tra ristrutturazione di classe,
divisione etnorazziale e modificazioni dello stato nell’epoca del
neoliberalismo trionfante ho adattato parecchi concetti sviluppati
da Pierre Bourdieu (1997) e li ho fatti operare su nuovi fronti –
marginalità, etnicità, penalità – partendo dal micro livello delle
aspirazioni individuali e delle relazioni interpersonali nella vita
quotidiana, fino al livello intermedio delle strategie sociali e delle
costellazioni urbane, per giungere al livello macrosociologico
delle forme dello stato (fig. 2):
– potere simbolico è il «potere di costituire il dato mediante
l’enunciazione, di fare vedere e di far credere, di confermare o
trasformare la visione del mondo e mediante ciò l’azione sul
mondo e così il mondo stesso» (Bourdieu, 1991, p. 170). Esso
illumina la marginalità come liminalità sociale (traducendosi di
volta in volta nella invisibilità e nella ipervisibilità), la penalità
come abiezione di stato e la razzializzazione come violenza
a base cognitiva. Più estesamente esso mostra in che modo le
politiche pubbliche contribuiscano alla produzione di realtà
urbana mediante le loro attività di classificazione ufficiale e di
categorizzazione (un esempio è in Francia l’invenzione della
nozione di quartier sensible e i negativi effetti che essa ha avuto
sul comportamento dell’amministrazione, dei media e delle
imprese, ma anche tra gli abitanti delle zone così designate e
sui loro vicini);
– campo burocratico fa riferimento alla concentrazione della
forza fisica, del capitale economico, del capitale culturale e
simbolico (implicante in particolare il monopolio del potere
giudiziario), che «costruisce lo stato come detentore di una sorta
di meta-capitale» che gli permette di influire sull’architettura e
sul funzionamento dei diversi ‘campi’ costitutivi di una società
differenziata (Bourdieu, 1993, p. 52).
Designa la rete di istanze amministrative che al contempo collaborano a rafforzare le identità ufficiali e competono nel regolare
le attività sociali e rendere operante l’autorità pubblica. Il campo
burocratico mette l’accento sulla distribuzione (o meno) dei beni
pubblici e permette di legare tra loro politiche sociali e politiche
penali, di individuare i loro rapporti di supplenza funzionale o
di colonizzazione e di ricostruire la loro evoluzione convergente
come un prodotto di lotte, intorno e nel cuore stesso dello stato,
che oppongono il polo protettore (femminile) al polo disciplinare
(maschile) per la definizione e il trattamento dei ‘problemi sociali’ di cui i quartieri della relegazione rappresentano il crogiolo
e il punto di fissazione;
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potere simbolico
STATO
campo burocratico
(polo protettivo)
(polo disciplinare)
spazio sociale
CITTÀ
CLASSE
(mercato)
RAZZA
(etnicità)
habitus
Fig. 2 – L’architettura teorica sottostante
Fonte: elaborazioni dell’autore
– spazio sociale è la multidimensionale ‘struttura di giustapposizione di posizioni sociali’ caratterizzata dalla loro ‘mutua
esternalità’, dalla loro distanza relativa (prossimità o lontananza) e il loro ordinamento gerarchico (sopra, sotto, tra) disposti
secondo le due coordinate fondamentali del volume globale di
capitale posseduto dagli agenti nelle diverse forme e composizione della loro dotazione, vale a dire il ‘peso relativo’ del «più
efficiente principio di differenziazione» che sono il capitale
economico e culturale (Bourdieu, 1994, pp. 20-22) In quanto
‘realtà invisibile’ irriducibile alle intersezioni osservabili, che
«organizza le pratiche e le rappresentazioni degli agenti», lo
spazio sociale ci aiuta a cartografare la distribuzione delle risorse
efficienti (Bourdieu, 1994, p. 25) che determinano le chances di
vita ai differenti livelli della gerarchia urbana, poi a sondare le
conrrispondenze o al contrario le disgiunzioni tra le strutture
simboliche, sociali e fisiche della città;
– habitus, definito come il sistema socialmente costituito di
«schemi di percezione, di apprezzamento e di azione che ci
permettono di operare gli atti di conoscenza pratica» che ci
guidano nel mondo sociale (Bourdieu, 1997, p. 200), e ci spinge
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a reintrodurre nell’analisi l’esperienza carnale degli agenti- e la
marginalità, la razzializzazione e l’incarcerazione non sono altro
se non una costrizione corporea, percepita intensamente intus et
in cute. Lo habitus ci aiuta a indagare «l’azione psicosomatica,
[che] si esercita sovente tramite l’emozione e la sofferenza»
mediante le quali gli agenti internalizzano i condizionamenti
e i limiti sociali, in modo tale che si cancelli l’arbitrarietà delle
istituzioni e si accettino i loro verdetti (Bourdieu, 1997, p. 205)10.
Esso ci invita a tracciare empiricamente piuttosto che solamente
a postulare il modo in cui le strutture sociali sono ritradotte nelle
realtà vissute, sedimentandosi negli organismi sociali sotto forme
di disposizione e di espressione. Queste disposizioni tendono
a validare e a riprodurre, o al contrario a sfidare e trasformare,
le istituzioni che le hanno prodotte a seconda che siano in divergenza o in accordo nella loro conformazione al modello di
istituzioni in cui si imbattono.
C’è tuttavia una relazione di implicazione logica e una catena
biunivoca di causalità che corre tra i differenti livelli suggeriti
dalla fig. 211: il potere simbolico si imprime sullo spazio sociale
col garantire autorità e orientando la distribuzione di risorse
efficienti a categorie di di segmenti di differente rilevanza. Il
campo burocratico convalida o emenda questa distribuzione
fissando il mutuo ‘tasso di cambio’ tra le diverse forme di capitale possedute. Detto in altri termini non si può comprendere
l’organizzazione delle gerarchie urbane – e soprattutto fino a
che punto esse siano etnicizzate – senza inserire nell’equazione
esplicativa lo stato come istanza di stratificazione e di classificazione. A sua volta la struttura dello spazio sociale si oggettiva
nello spazio costruito (basti pensare ai quartieri segregati e
alla distribuzione differenziata dei servizi collettivi nei diversi
distretti) e si incarna in categorie cognitive, emotive e conative
che guidano le strategie pratiche degli agenti nella vita quotidiana, nelle loro cerchie di conoscenze, sul mercato del lavoro,
nel loro interagire con le istituzioni pubbliche (corpi di polizia,
uffici dell’assistenza, autorità preposte a casa e tasse) e che modellano il loro rapporto soggettivo con lo stato (che poi è parte
integrante della realtà oggettiva dello stato stesso). La catena
causale può essere ricostruita dal basso verso l’alto: l’habitus
propone le linee di azione che riaffermano o alterano le strutture
dello spazio sociale, e l’implicazione collettiva di queste linee
a sua volta rafforza o modifica il perimetro, i programmi e le
priorità dello stato e le sue categorizzazioni.
É questo ingranaggio concettuale ad articolare l’etnografia
della boxe presentata nel mio libro Body and Soul (Wacquant,
2004) fino alla comparazione istituzionale che struttura Urban
Outcasts. Ai miei occhi entrambi queste due opere rappresentano
il due volti di una medesima indagine sulla struttura e sull’esperienza della marginalità (come indicato al fondo della fig.
1), approcciata da due angoli opposti ma complementari; Body
and Soul fornisce un’antropologia carnale di un mestiere di un
corpo nel ghetto, una sorta di sezione fenomenologica, effettuata
dal punto di vista dell’‘agente significante’ caro ai pragmatisti,
incorporata in uno spaccato di vita ordinaria visto da dentro e
da sotto mentre Urban Outcasts propone una macrosociologia
analitica e comparativa del ghetto, costruita a partire dall’alto e
dall’esterno del mondo vissuto che inquadra12.
Utilizzo queste nozioni come altrettante leve teoriche per elaborare dei concetti che mi servano a individuare nuove forme di
marginalità urbana, ad identificare le attività dello stato orientate
alla produzione della stessa a monte e al suo trattamento a valle,
e quindi a misurare i vettori di disuguaglianza emergenti nella
metropoli dualizzata nell’epoca della insicurezza sociale diffusa
(fig. 3). Così in Urban Outcasts io mi appoggio alla nozione di
spazio sociale per introdurre la triade ghetto/hyperghetto/antighetto e per dissezionare le mutevoli costellazioni socio-spaziali
contenenti le popolazioni diseredate e disonorate intrappolate
al fondo della scala dei luoghi che formano la città (Wacquant,
2008a; 2010b). Coniugando la teoria del potere simbolico di
Bourdieu (1991) con l’analisi di Goffman (1964) sulle identità
negate (spoiled) forgio il concetto di stigmatizzazione territoriale per rivelare come attraverso la mediazione di meccanismi
cognitivi operanti a diversi livelli tra loro intrecciati, la denigrazione dei quartieri della relegazione colpisce la soggettività e i
legami sociali di coloro che vi abitano esattamente allo stesso
modo delle politiche statali che li modellano. In accordo con i
precetti dell’epistemologia di Bachelard sviluppo una caratterizzazione ideal-tipica del nuovo regime di marginalità avanzata
(chiamata così perché essa non è né residuale, né ciclica, né
transitoria ma organicamente legata ai luoghi e ai settori più
avanzati dell’economia politica contemporanea e in particolare
alla finanziarizzazione del capitale) che fornisce una griglia
analitica precisa per la comparazione internazionale.
In Punishing the Poor e in una serie di articoli da esso derivati
(Wacquant, 2010c; 2010d; 2011b), elaboro la nozione di prisonfare per analogia concettuale con quella di welfare per designare
l’intreccio di politiche – comprendenti categorie, agenzie burocratiche, programmi di azione e discorsi giustificatori – che
si ripromettono di risolvere i mali urbani attivando il braccio
giudiziario dello stato invece dei servizi sociali. Suggerisco che
il contenimento punitivo è una tecnica generalizzata di contenimento delle categorie marginalizzate che può assumere la
forma della assegnazione ad un quartiere dei diseredati o della
circolazione senza fine nel circuito penale (polizia, tribunali,
carceri, celle e i loro tentacoli organizzativi: prove, condanne,
banche dati giudiziarie, ecc.). Descrivo il meccanismo politico
ascendente che poggia sulla doppia regolazione dei poveri mediante disciplinante workfare e neutralizzante prisonfare, come
liberal-paternalistica, in quanto applica la dottrina del laissez
faire et laissez passer al vertice della struttura di classe, verso i
possessori del capitale economico e culturale, mentre si rivela
intrusivo e direttivo in basso, quando si tratta di contenere le turbolenze sociali generate dalla normalizzazione della insicurezza
sociale e dalla crescita delle disuguaglianze. Questo dispositivo
partecipa alla costruzione di uno stato-centauro che presenta un
profilo radicalmente diverso ai due estremi della scala sociale
e dei luoghi in violazione aperta della norma democratica per
cui tutti i cittadini devono essere trattati allo stesso modo. I
suoi dirigenti utilizzano la ‘guerra al crimine’ (che non è una)
come un teatro burocratico per riaffermare l’autorità e mettere
in scena la sovranità dello stato proprio nel momento in cui
questa sovranità è stata infranta da una mobilità del capitale
senza più freni e dall’integrazione giuridico-economica degli
insiemi politici sovranazionali.
In Deadly Symbiosis ho proposto di sostituire la nozione seducente ma ingannevole di ‘incarcerazione di massa’ che limita
oggi i dibattiti scientifici e civici su prigione e società negli Stati
Uniti (anch’io l’ho impiegato senza pensarci troppo nelle mie
pubblicazioni almeno fino al 2006), con il concetto più preciso
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sovranità messa in scena
POTERE SIMBOLICO
paternalismo liberale
STATO
“prisonfare”
CAMPO BUROCRATICO
contenimento punitivo
stigmatizzazione territoriale
razza = crimine civico
sociodicea negativa
cittadinanza giuridica
segmentazione penale
ipercarcerizzazione
SPAZIO SOCIALE
marginalità avanzata
CITTÀ
ghetto
CLASSE
(mercato)
hyperghetto antighetto
HABITUS
RAZZA
(etnicità)
Fig. 3 – Principali concetti sviluppati
Fonte: elaborazioni dell’autore
di ‘iper-incarcerazione’, con lo scopo di sottolineare l’estrema
selettività della penalizzazione secondo la posizione di classe,
l’appartenenza etnica o lo stato civile e il luogo di residenza,
selettività che è una proprietà costitutiva – e non incidentale
– della politica di gestione punitiva della miseria (Wacquant,
2011b, pp. 218-219). Ricordo che la pena non è solo un indice
diretto della solidarietà e della capacità politica cruciale dello
stato, come affermò oltre cento anni fa Emile Durkheim in De
la division du travail social (1893), essa rappresenta anche il
paradigma del disonore pubblico, inflitta come è quale sanzione
del ‘demerito’ individuale e quindi civico del criminale. Il che
mi porta a caratterizzare la penalità nei termini di un operatore
di sociodicea negativa: essa opera molto più mediante il suo
funzionamento ordinario che per il tramite del clamore degli
scandali che essa alternativamente scatena e spegne (Garapon et
Salas, 2006). La giustizia criminale produce una giustificazione
istituzionale delle sventure del precariato al fondo della scala
sociale, giustificazione che fa eco alla sociodicea positiva della
fortuna dei dominanti, che diviene effettiva con la distribuzione
dei diplomi delle università d’élite sulla base del ‘merito’ acca-
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demico al vertice della medesima scala (Bourdieu, 1989)13. Le
sanzioni penali e la loro registrazione ufficiale sotto forma di
casellario giudiziario (Führungszeugnis in Germania, Strafblad
in Olanda) opera in maniera simile ad una ‘laurea al rovescio’:
attestano l’indegnità di colui che ne è titolare e incitano ad una
restrizione di routine delle sue chances di vita, come rivela
l’amputazione dei legami familiari e sociali, delle possibilità di
trovare casa e lavoro e reddito dei pregiudicati in pressoché tutti i
paesi avanzati. É sufficiente allora considerare la razza come un
crimine civico (Wacquant, 2005b) per svelare la stretta parentela,
ed è qualcosa di più di una somiglianza o di una affinità, pur
anche ‘elettiva’ alla Weber tra razzializzazione e penalizzazione:
ambedue implicano una amputazione dell’essere convalidata
dall’autorità simbolica suprema. La categorizzazione razziale e
la sanzione giudiziaria fabbricano dei veri e propri paria di stato,
tanto più sminuiti quanto più esse sono strettamente coniugate.
del discorso-panico sulla supposta ‘ghettizzazione’ dei quartieri
della working-class in Francia e successivamente alla sua propagazione in tutta Europa, ho arricchito la mia prospettiva storica
di un asse comparativo. La comparazione mette in luce il ruolo
decisivo, ma differente sulle due sponde dell’Atlantico che lo
stato riveste nella produzione della marginalità. Poi, affascinato
dal mestiere di boxeur ho tratteggiato le storie di vita dei miei
compagni di palestra e ho scoperto che quasi tutti erano passati
per la prigione o per la cella: se volevo comprendere lo spazio di
possibilità che venivano loro offerte – o in questo caso precluse
– dovevo imperativamente fare entrare l’istituzione carceraria
nel mio campo di osservazione sociologica. É questo il momento
in cui ho compreso che la crescita bulimica del sistema penale
americano a partire dal 1973 era perfettamente concomitante e
complementare all’atrofia organizzata dell’aiuto sociale, e alla
sua riconversione disciplinare in un trampolino verso il lavoro
precario. La rivisitazione storica della invenzione della prigione nel XVI secolo ha confermato in seguito il legame organico
che connette fin dalla loro origine l’assistenza ai poveri e il
confinamento penale fornendo al tempo stesso un fondamento
strutturale all’intuizione empirica della loro complementarietà
funzionale. Nel frattempo ho mappato in Les Prisons de la misère
la diffusione planetaria della politica poliziesca della ‘tolleranza
zero’, punta avanzata della penalizzazione della povertà nella
città polarizzata. Ho mostrato che essa si realizza sotto il segno
della ‘deregulation’ del lavoro dequalificato e della riconversione del welfare in workfare: essa è parte della costruzione del
Leviatano neoliberale (Wacquant, 1999; 2009b; 2010e).
Ad ogni tappa la divisione etnorazziale serve da catalizzatore o
da moltiplicatore; accentua la frammentazione del lavoro salariato segmentando e mettendo in contrasto i lavoratori; facilita
la ritirata dell’aiuto sociale e il dispiegamento dell’apparato
penale dato che è tanto più facile rendere più dure le politiche
nei riguardi degli assistiti e dei criminali quanto più essi sono
percepiti come degli ‘outsiders’ civici, segnati da una macchia
congenita e definitivamente incorreggibili, opposti in tutto e per
tutto ai cittadini ‘radicati’ (established), per richiamare la dicotomia cara a Elias e Scotson (2004). Ma è soprattutto il marchio
razziale che si rivela essere della stessa natura del castigo penale:
sono due manifestazioni gemelle del disonore di Stato. E così
senza averne mai avuto l’intenzione sono giunto a praticare una
specie insolita (qualcuno direbbe insolente) di sociologia del
potere politico dato che mi sono trovato a confrontarmi in fin
dei conti con la questione dello stato come istanza materiale e
simbolica e trascinato in dibattiti sulla natura del neo-liberalismo
e sul contributo della penalità al suo avvento16.
Il ‘triangolo fatale’ che decide della sorte del precariato urbano
è uno schema ex-post, emerso gradualmente mano a mano che
progredivano le mie ricerche, qui a grandi linee richiamate. Ciò
spiega come i tre libri che lo riassumono siano usciti tardivamente, (almeno con un decennio di scarto rispetto alla produzione dei dati) e in maniera disordinata: ho dovuto ripensarli e
riscriverli più volte sia per separarli sia per raccordarli meglio.
Questa concatenazione analitica è anche quella che conferisce
maggior peso a ognuno di essi e spero che il nostro incontro di
oggi sarà l’occasione di attestarlo concretamente. Il mio intervento e la mia presenza rappresentano un invito ad una lettura
trasversale e generativa non per il piacere estetico di infrangere
le convenzioni accademiche, ma per trarne collettivamente tutto
3. Mi scuso se sono stato allusivo quando avrei dovuto essere
didattico, e viceversa, ma per dare un panorama completo dei
miei temi ho dovuto semplificare i miei ragionamenti e comprimere gli argomenti. Tuttavia io spero che questi rudimenti
di cartografia analitica vi renderanno possibile comprendere
meglio e specialmente permetteranno di collegare i tre libri che
stiamo per discutere. Vi anticipo che reagirò senz’altro ad alcune
delle vostre critiche su uno o l’altro dei libri, sottolineando che
la risposta è già data in uno o negli altri due, o che la domanda
è rinviata o risolta nella suddivisione del lavoro tra i tre libri.
Non lo dirò per scusarmi ed evitare di rispondere: è soprattutto
l’economia d’insieme del progetto a richiederlo, dato che il tutto
è più della somma delle parti che ogni gruppo di lettori tende ad
autonomizzare in base al focus della sua specifica disciplina14.
Il progresso empirico e le novità concettuali proposte in ogni
libro sono direttamente debitrici di quelli fatti negli altri due.
Un solo esempio: non avrei individuato il legame sotterraneo
tra penalizzazione e razzializzazione come forme strettamente
imparentate della infamia di stato se non avessi prima teorizzato la stigmatizzazione territoriale come una delle proprietà
contraddistintive della marginalità avanzata e successivamente
mostrato il parallelismo tra lo hyperghetto e la prigione.
Come coda del discorso e per rassicurarvi, devo rivelare che
non mi sono seduto verso il 1990 con in testa il progetto stravagante di scrivere tre libri. É stato il dispiegarsi progressivo del
mio percorso di ricerca, i progressi (e i numerosi arretramenti)
empirici che lo hanno permesso, così come sono stati i problemi
teorici che ne emergevano (o sparivano) a condurmi da uno
all’altro vertice del triangolo classe-etnicità-Stato, ed è questa
connessione esistenziale imprevista ad avermi spinto lungo le
linee che collegano un vertice all’altro15.
Al principio di tutto c’è lo shock – inseparabilmente emozionale ed intellettuale – che ho sperimentato di fronte alla crudele
desolazione urbana ed umana dei resti del South Side, il cui
paesaggio lunare si stagliava letteralmente davanti alla mia
porta quando io sono atterrato a Chicago. Lo shock mi ha spinto
a entrare nella palestra di boxe per servirmene come luogo di
osservazione a partire dal quale riprendere la questione dell’accoppiata ‘razza e classe’ nella metropoli americana e tentare di
ricostruire dal basso la nozione di ghetto, in opposizione allo
sguardo da lontano e dall’alto che dominava la sociologia nazionale sul tema (Wacquant, 1997b). In risposta all’irruzione
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il profitto empirico e teorico che è possibile ricavare dal connettere i temi delle tre sessioni del pomeriggio. Io concluderò con
questo cri de coeur analitico: studiosi della marginalità urbana,
dell’etnicità e della penalità, unitevi! Non avete da perdere che
le vostre catene concettuali e avete un mondo di scoperte scientifiche da conquistare e di raccomandazioni pratiche da inserire
nel dibattito pubblico.
(traduzione di Agostino Petrillo)
Nota del traduttore
Il testo di Loic Wacquant che qui presentiamo offre una sintesi
molto efficace e al tempo stesso estremamente densa del pensiero
dell’autore. Per questo motivo troviamo qui concentrati termini
di difficile o inadeguata resa in italiano, quali prisonfare, workfare, hyperghetto, outcast, che fanno parte del lessico personale che
Wacquant è andato costruendo nel corso del suo pluridecennale
lavoro di ricerca. Inoltre gli stessi termini tornano negli schemi
riassuntivi che l’articolo propone, e vanno quindi a far parte di
una sorta di glossario essenziale utile a orientarsi nella sua ormai
vasta produzione. Abbiamo perciò scelto di lasciarli in lingua
inglese, fidando nell’intelligenza del lettore e nella chiarezza
della spiegazione che ne offre l’autore. Nella traduzione, che
è stata condotta sul testo inglese della conferenza, ricorrono
anche espressioni e neologismi tipici della sociologia francese
contemporanea e in particolare della scuola di Pierre Bourdieu,
di cui Wacquant è dichiarato discepolo, quali sociodicea, carcerizzazione, razzializzazione. In questo caso ci si è attenuti alle
traduzioni italiane ormai consolidate.
Note
1. Questo testo è una versione compressa e semplificata della mia comunicazione di apertura del colloquio «Marginalité, pénalité et division
ethnique dans la ville à l’ère du néolibéralisme triomphant: journée
d’études autour de Loïc Wacquant», organizzato alla Université Libre
de Bruxelles il 15 ottobre 2010. Ringrazio il Laboratoire d’Anthropologie des Mondes Contemporains, le Groupe d’Études sur l’Ethnicité, le
Racisme et les Migrations, lo Institut de Gestion de l’Environnement
et d’Aménagement du Territoire, et la Faculté des Sciences sociales et
politiques de l’Ulb per la loro accoglienza e il loro sostegno a questa
impresa collettiva e Mathieu Hilgers per averla seguita con intelligenza
e persistenza. Il testo è stato ripreso in occasione della Conferenza
«Processi di riappropriazione della città. Pratiche luoghi e immaginari»,
Roma, 17-19 giugno 2013, a cura del Network ‘Tracce Urbane’.
2. Ho da tempo argomentato su questo punto (Wacquant, 1989) a partire
da una rilettura della controversia scientifica e politica suscitata negli
Stati Uniti dal capolavoro del mio mentore di Chicago, William Julius
Wilson (1980), The Declining Significance of Race, come in un articolo
che invitava all’elaborazione di una ‘analitica del dominio razziale’
che si sottragga alla logica del processo e sia in grado di cogliere la
razzializzazione come una modalità tra le molte che concorrono alla
costruzione dei collettivi (Wacquant, 1997a).
3. Utilizzo qui il termine ‘razza’ nel senso di etnicità negata: un principio di stratificazione e di classificazione che stipula una gradazione
d’onore (declinato secondo fenotipi, ascendenza, o altre caratteristiche
socioculturali messe al servizio dell’intento di creare una chiusura sociale, cfr. Wacquant, 1997), e che si pretende sia basato nella natura;
o anche una paradossale varietà di etnicità che pretende di non essere
etnica, un’aspirazione che, infeliciter, i sociologi avallano ogni qual volta
evocano senza precauzioni il binomio ‘razza ed etnia’ in cui è radicato
il senso comune etnorazziale nei paesi anglosassoni.
4. Il dilemma degli immigrati postcoloniali dei ceti popolari in tutta
Europa è che soffrono della macchiatura simbolica derivante dal
discorso-panico sulla ‘ghettizzazione’, che li individua ovunque come
una minaccia alla coesione nazionale, senza peraltro che essi possano
godere dei ‘benefici paradossali’ della ghettizzazione effettiva (Wacquant, 2010f), tra cui la accumulazione primitiva di capitale economico,
sociale e culturale in una sfera di vita separata, potenzialmente in grado
di dare loro un’identità collettiva condivisa e un’accresciuta capacità
di azione collettiva, in particolare in campo politico.
5. Quelli che dubitano della rilevanza del regime di workfare US per i
paesi non anglosassoni dovrebbero consultare il libro di Lødemel and
Trickey (2001) graziosamente intitolato «An Offer You Can’t Refuse:
Workfare in International Perspective». Più di un decennio fa il testo
già documentava lo spostamento generalizzato delle politiche sociali
dai diritti agli obblighi dei riceventi, la moltiplicazione delle restrizioni
amministrative all’accesso, e la contrattualizzazione dell’aiuto, così
come l’introduzione di programmi di lavoro obbligato in sei paesi
europei. Nella sua meticolosa rassegna di due decenni di programmi
di «attivazione di welfare sociale» (Barbier, 2009, p. 30) mette in guardia dall’operare generalizzazioni affrettate e sottolinea le variazioni
intra-nazionali e cross-nazionali delle architetture e dei risultati, ma
ammette che, oltre al promuovere un ‘contenimento dei costi’, questi
programmi condividono una ‘profonda trasformazione ideologica’
che ha spinto ovunque a una «nuova ‘logica politica e morale’ che si
articola in un discorso moralizzante su ‘diritti e doveri’». Per una più
ampia discussione delle radici politico-economiche e delle varianti del
workfare state vedi Peck (2001).
6. Quando Michel Foucault (1975) pubblicò Surveiller et punir vi era un
consenso internazionale intorno al fatto che la prigione fosse una istituzione obsoleta e screditata. Il confinamento era visto unanimemente
come un relitto di una epoca passata, destinato ad essere soppiantato
da sanzioni alternative e immediate nella ‘comunità’ (si era all’apice del
cosiddetto movimento anti-istituzionale in psichiatria e delle mobilitazioni
in favore della de-carcerizzazione nell’ambito penale). Foucault stesso
(1977, pp. 354, 358, 359) sottolineava che: «la specificità della prigione
e il suo ruolo di giunzione stanno perdendo la loro ragion d’essere con
la diffusione delle tecniche e delle discipline carcerarie in tutto lo spessore del corpo sociale» e con la pluralizzazione delle istanze abilitate
a «esercitare un potere di normalizzazione». Contro ogni aspettativa il
tasso di incarcerazione ha compiuto un balzo in avanti praticamente
ovunque a partire da quel periodo: è quintuplicato negli Stati Uniti ed è
raddoppiato in Francia, Italia e Regno Unito; è quadruplicato nei Paesi
Bassi e in Portogallo ed è sestuplicato in Spagna.
7. Il concetto di sinergia (che deriva dal greco syn, insieme ed ergon,
lavoro) trasmette molto bene l’idea di razzializzazione e penalizzazione
operanti all’unisono per produrre paria di Stato, nel modo in cui due
organi simbolici agiscono insieme nel funzionamento del corpo sociale.
Quando Emile Littré inserì questo termine nel suo Dictionnaire de la
langue française (1872-1877), egli assegnò la nozione alla fisiologia e
la definì come: «un’azione cooperativa o sforzo comune tra vari organi,
vari muscoli. L’associazione di più organi per svolgere una funzione».
8. Ricordo che l’attribuzione sociale e legale della categoria ‘nero’ negli
Stati Uniti è legata alla discendenza genealogica da uno schiavo importato
dall’Africa e non all’apparenza fisica, e che questo ‘cancella’ magicamente
ogni mescolanza etnorazziale (che invece riguarda la vasta maggioranza
delle persone considerate nere) per la stretta applicazione del principio
di ‘ipodiscendenza’ secondo il quale il prodotto di una unione mista appartiene alla categoria ritenuta inferiore. Questa configurazione simbolica
che prefigura l’estremo isolamento spaziale e sociale degli Afro-Americani
nella loro società è virtualmente unica al mondo (Davis, 1991).
9. L’infame discorso tenuto da Nicolas Sarkozy a Grenoble nel Luglio
2010 offre un’iperbolica e oltraggiosa illustrazione di questa logica di
segmentazione simbolica e di svilimento mediante la penalizzazione.
Preoccupato di ristabilire la sua vacillante credibilità sul tema della
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Riferimenti bibliografici
sicurezza in vista delle elezioni presidenziali del 2012, il presidente
francese dichiarò «guerra ai trafficanti e ai criminali» annunciando la
nomina di un capo della polizia dal pugno di ferro al posto del prefetto
locale. Egli collegò direttamente gli stranieri indesiderati alla criminalità
(anche se l’incidente che aveva stimolato il discorso coinvolgeva solo
cittadini francesi); li indicò alla vendetta di stato e prescrisse sanzioni
apertamente discriminatorie che andavano ben oltre il sistema giudiziario
(proponendo in aggiunta alle sentenze di condanna di cancellare la loro
cittadinanza nel caso di «cittadini francesi nazionalizzati da meno di dieci
anni» se essi fossero stati coinvolti in atti di violenza contro la polizia, una
misura che viola direttamente la costituzione francese e le convenzioni
europee). Egli lanciò anche una campagna per lo «sgombero dei campi
Rom illegali» e per l’espulsione in massa di coloro che vi risiedevano,
con lo scopo di raggiungere un certo numero di arresti e di fornire materiali per i servizi televisivi della sera. Questa fiammata di law-and-order
pornomania guadagnò alla Francia le vigorose proteste diplomatiche di
Romania e Bulgaria, rimostranze ufficiali e minacce di sanzioni da parte
della Unione Europea e una vasta riprovazione internazionale.
10. É rivelatore che Bourdieu (1997, p. 205) evochi il passaggio cruciale
della novella di Franz Kafka (20012), Nella colonia penale, in cui la sentenza del condannato è incisa sul suo corpo con uno strumento di tortura
come una variante grottesca di quel che egli chiama la ‘mnemotecnica
crudele’ mediante la quale i gruppi naturalizzano l’arbitriarietà che li
fonda. Questa scena ci colloca al punto preciso in cui la lancia materiale
e simbolica dello stato penale trapassa il corpo di colui che ha trasgredito
in un atto ufficiale di desacralizzazione radicale che conduce all’annichilamento fisico: il cittadino non esiste che nel perimetro storico della legge.
11. Per una completa discussione delle relazioni interne tra questi differenti concetti che sottolinea la collocazione baricentrica del capitale
simobolico nelle sue svariate incarnazioni (Bourdieu e Wacquant, 1992).
12. Un esame dettagliato delle strategie di vita di uno hustler in una
economia di rapina di strada (Wacquant, 1998) e delle torsioni pratiche
e normative che lo hyperghetto impone al matrimonio (Wacquant,
1996) rappresentano due dei molteplici punti di contatto tra questi
due livelli e modalità di analisi: anche in questo caso i miei principali
informatori per questi due casi studio sono stati dei boxeurs. Ugualmente le vicende giudiziarie di lungo corso del mio migliore amico e
‘ring buddy’ al Woodlawn Boys Club mi hanno fornito un analizzatore
vivente dei rapporti tra marginalità e penalità nel tempo biografico e
alla scala microsociologica.
13. Riadatto qui la dualità della ‘teodicea’ proposta da Max Weber nella
sua Sociologia della religione, che fa risaltare per contrasto le dottrine
che convalidano «gli interessi interni ed esterni degli uomini di potere»
(Theodizee des Glückes) con le dottrine che legittimano e razionalizzano
la sofferenza dei «ceti socialmente oppressi» (Theodizee des Leidens).
14. É rivelatore il fatto che i contributi ai simposium dedicati a Urban
Outcasts da diverse riviste (da City nel 2008, dallo International Journal
of Urban and Regional Research, dalla Revue française de sociologie e da
Pensar nel 2009 e da Urban Geography nel 2010) e a Punishing the Poor
(organizzati dal British Journal of Criminology, Theoretical Criminology,
Punishment & Society, Critical Sociology and Studies in Law, Politics &
Society, Criminology & Justice Review, The Howard Journal of Criminal
Justice, Amerikastudien, Prohistoria and Revista Española de Sociología)
riproducano la separazione consolidata tra discipline (con all’incirca geografia urbana e sociologia da un lato e criminologia dell’altro, (mentre
le scienze politiche e il lavoro sociale si segnalano per la loro assenza),
e si occupino prevalentemente di un libro o dell’altro.
15. Cfr. Wacquant (2009b) per una più ampia discussione dei legami
analitici e biografici tra «corpo ghetto e stato penale» e per le motivazioni
civili che mi hanno spinto a sbrogliarli.
16. Un approccio alla Bourdieu nei termini di «oscillazione a destra del
campo burocratico» (anch’esso catturato nello slittamento del campo del
potere verso il polo economico) permette di tracciare una via mediana
tra i due modelli dominanti e simmetricamente mutili del neoliberalismo
come ‘regno del mercato’ o come ‘governamentalità’ ispirati rispettivamente da Marx e da Foucault (vedi Wacquant, 2012 e le 7 risposte a
questa tesi nei numeri successivi di questa rivista).
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