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Nuovo riassunto antropologia

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Storia dell'Antropologia di Ugo Fabietti
PARTE PRIMA: L’OTTOCENTO
1) NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA
Nel 1799 grazie a Louis-François Jauffret (professore in scienze naturali) nacque a Parigi la
Société des Observateurs de l’homme, il cui intento era quello di comprendere i punti più oscuri
della storia primitiva, paragonando costumi, abitudini ed il linguaggio dei diversi popoli, primo
piano di ricerca dello “studio dell'uomo” (sapere empirico e disciplina teorica → studio
comparato della società e delle culture). Questa società era composta da intellettuali e scienziati
che si sentivano eredi dell’Illuminismo.
1.1 Prima dell’antropologia (polemica politica, religiosa e i suoi costumi)
Quando tale società fu creata, esisteva già una considerevole letteratura sui “selvaggi”, composta
soprattutto da racconti esotici e di viaggio. In particolare questi ultimi sono costituiti da resoconti di
missionari, esploratori, mercanti e soldati, pertanto erano caratterizzati dal moralismo, pregiudizio e
dall’esotismo e non rispondevano a un progetto scientifico. Ci sono però due eccezioni:
• missionario protestante Jean de Léry, 1578, resoconto del suo soggiorno tra i Tupi del
Brasile che cerca di riflettere sulla natura dei loro costumi
• gesuita francese Joseph-François Lafitau, 1724, Costumi dei selvaggi americani
comparati con quelli dei tempi più antichi, opera che è un punto di incontro tra la letteratura
del viaggio e la polemica filosofica (si pone problemi di tipo storico, antropologico).
Accanto a questa letteratura c’erano le idee di Michel de Montaigne e Jean-Jacques Rousseau, i
quali avevano subordinato l’attenzione per i “selvaggi” ad una critica dei valori espressi dalla
società del tempo. In questa tradizione detta “filosofica”, il discorso dei selvaggi era legato alle
polemiche sulla religione, sulla battaglia antischiavista dei filantropi e conteneva una critica del
potere assolutistico di tipo monarchico.
Il “nobile e virtuoso selvaggio” di Rousseau erano personaggi metaforici nella quale l’europeo
poteva veder “raddrizzata” la sua scomposta figura, repertorio di assenze o presenze (indole, difetti,
virtù; ruolo ideologico preciso).
Rousseau non considerava il selvaggio come soggetto sociale autonomo e diverso, ma i loro “usi e
costumi” rappresentavano dei punti di riferimento e di confronto attraverso i quali trovare le
risposte ai problemi sollevati dal confronto ideologico. Invitava i suoi colleghi filosofi a viaggiare
prima di avventurarsi in speculazioni attorno alla figura umana.
L'idea di comparazione.
Il gesuita Joseph-François Lafitau, aveva pubblicato nel 1724 i “Costumi dei selvaggi americani
comparati con quelli dei tempi più antichi”: secondo alcuni questa opera rappresenta l’inizio di una
nuova scienza, l’etnologia (lo studio comparativo delle diverse culture umane, fondato sui dati
raccolti dall'etnografia). Questa opera fu scritta infatti dopo anni di permanenza dell’autore tra gli
Uroni e gli Irochesi (zona del Grandi Lachi nordamericani, tra Canada e Usa) e vede l’uso di una
sorta di metodo comparativo per dimostrare che presso tutti i popoli c’è l’idea di un essere
superiore > l’autore va contro i sostenitori dell’ateismo “naturale”.
1
1.2 Il progetto di una scienza nuova: La Société des Observateurs de l’homme
(condizioni generali per il costituirsi di questa nuova problematica)
Il contesto politico e ideologico
A partire dal 1792 (anno di costituzione della Prima Repubblica Francese) la ragione, che era
considerata lo strumento della critica illuminista contro il potere assoluto, diveniva essa stessa
elemento del potere (enciclopedia vivente [Cabanis], scienza come servizio sociale).
Il Comitato d’Istruzione Pubblica organizzò un Istituto Nazionale, cioè un settore che avrebbe
dovuto promuovere ricerche nel campo della vita sociale, della legislazione, dell’economia politica
e della geografia. Erano qui presenti tutti gli elementi che permettevano di cominciare a concepire
una “scienza avente per oggetto l’uomo” come essere naturale e sociale dotato di ragione.
Questi furono anche gli anni in cui l’Europa si affacciò sull’Oriente (es. Nasce l’egittologia). Fu un
periodo cruciale per la storia europea: gli interessi di un continente in rapida espansione furono alla
base di un senso di superiorità indiscutibile dell’Europa cristiana, bianca e tecnologicamente
sviluppata nei confronti di tutti gli altri popoli.
“Osservare l’umanità”
Quando Jauffret e i suoi colleghi fondarono la Société des Observateurs de l’homme si poteva già
parlare, all’interno di un quadro scientifico, di uomo come genere universale, ma anche un quadro
ideologico europeo di portatori di una verità indiscussa in campo scientifico, economico e religioso.
Della Société facevano parte filosofi, medici, linguisti, viaggiatori, storici (definiti “savants”), il
loro scopo era quello di osservare l’umanità nella sua variabilità fisica, linguistica, geografica e
sociale.
Osservare voleva dire proporre un metodo d’indagine che si allontanasse dall’esperienza derivante
dalla conoscenza della propria società, per adottare il principio del confronto con la differenza,
dove i viaggiatori, missionari e filosofi con scopi diversi da quelli scientifici, un discorso che
veniva a fondare un nuovo oggetto di studio e un nuovo sapere.
Il fatto che, lo studio dell’umanità fosse riconosciuto come “socialmente utile” permise a Jauffret
di iniziare un’attività di ricerca e di insegnamento: raccolta di dati sui costumi dei popoli esotici e
sulle lingue; raccolta di oggetti appartenenti alla cura materiale di diversi popoli; conferenze; piano
per l’allestimento di un museo etnografico > il progetto assume un carattere istituzionale.
Joseph-Marie de Gérando, specializzato in linguistica, scrisse una lunga nota per gli “osservatori”
in partenza per l’emisfero australe. Lo scritto, del 1800, s’intitolava Considerazioni sui metodi da
seguire nell’osservazione dei popoli selvaggi e presentava diversi punti, quali:
1. l’utilità dello studio dei selvaggi per conoscere le tappe della storia trascorsa dell’umanità;
2. l’utilità del recarsi presso di loro per osservarne usi e istituzioni;
3.l’utilità di risiedere tra costoro per periodi prolungati;
4.l’utilità di comparare i loro costumi per meglio conoscere l’Uomo come essere sociale e storico.
Dietro questo programma c'era un progetto filosofico (conoscere la natura umana), sostenuto da un
metodo diverso rispetto a quello utilizzato dai filosofi. Non si trattava più di restare entro i confini
dell'esperienza offerta dalla società europea. Il filosofo doveva farsi “viaggiatore”, percorrere spazi
alla ricerca di quei selvaggi che avrebbero potuto costituire l’esempio vivente della condizione
originaria dei popoli civilizzati (oltre i confini dell'esperienza europea; viaggiatore filosofo che
viaggia ma pensa [correlare i dati dell'osservazione e coordinarli in una teoria]).
La prospettiva teorica era di origine illuminista, la storia dell'umanità sarebbe stata caratterizzata da
un'ascesa progressiva, dagli stadi più bassi di selvatichezza e barbarie, verso la civiltà.
Il tramonto di un progetto scientifico
La Société ebbe vita breve a causa delle mutate condizioni politiche di quel periodo. Nel 1805, anno
dello scioglimento della Società, Napoleone aveva già fatto chiudere quelle sezioni dell’Istituto
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Nazionale in cui si facevano ricerche nel campo delle scienze politiche e morali (programma di
rigida subordinazione della scienza alle esigenze di uno stato burocratico e militarista). Gli
Osservatori vennero chiamati da Napoleone ideologues, “ideologi” (coloro che si occupano
“soltanto” di idee).
1.3 Progresso o degenerazione dell’uomo?
Con l’allontanamento della scienza sociale dal potere, la scienza dell’uomo, che fino ad allora
aveva rappresentato un’estensione del progetto civile e politico della Repubblica, non rappresenta
più lo strumento per la comprensione dell’alterità culturale. Nel 1805 con la Sociètè, chiudeva
anche l’etnologia (o scienza dei popoli) concepita come studio e comprensione della differenza da
Jauffret, Gérando e gli ideologi del gruppo che aveva concepito come studio e comprensione delle
differenze. L'atteggiamento (studio comparato dei selvaggi e dei altri popoli extra-europei) subiva
un'eclissi per buona parte del XIX secolo. Nei 50 anni seguenti il discorso sul “selvaggio” acquisto
caratteristiche marginali. Sul continente prevale la teoria della “degenerazione del selvaggio” le cui
origini erano da far risalire alle “filosofie della restaurazione”, e in particolare, alla “filosofia del
potere teologico” di Joseph de Maistre.
A metà ‘800 torna il discorso sulle società selvagge, anche se ora non rappresenterà più uno strumento di critica sociale
e politica, ma acquisterà caratteristiche sempre più marginali; come nel caso delle opere degli economisti britannici,
dove l’economia del selvaggio rappresenterà solo uno stato-limite su cui sarà possibile edificare le ideologie del
carattere “naturale” dei concetti e dei sistemi economici. Per quanto riguarda il continente europeo, prevarranno le
teorie della “degenerazione del selvaggio”, le cui origini risalgono alla “filosofia del potere teologico” di Joseph De
Maistre.
Il selvaggio come essere “degenerato”
Joseph De Maistre ne Le serate di San Pietroburgo (1821) aveva denunciato la ragione illuminista
come un atto di superbia nei confronti della volontà divina, quindi negava l’esistenza del progresso
della ragione universale che aveva ispirato il lavoro degli “osservatori”. De Maistre rappresentava
l’ala più radicale della “reazione romantica” all’illuminismo. Secondo lui, l’idea di un progresso
umano rappresentava una sfida all’ordine divino e l’unico atto di saggezza possibile era
sottomettersi ad esso ed ai poteri terrestri che ne erano i garanti, cioè la chiesa e la monarchia. Egli
sosteneva che l’uomo non era progredito da uno stato di barbarie ad uno stato di civiltà. Il selvaggio
rappresentava la degradazione dell’uomo a cui questo era condannato a causa del peccato originale
e l’esempio estremo della caduta dalla grazia divina: il selvaggio era l’oggettivazione del peccato
originale, era il simbolo del peccato e rappresentava un’umanità a cui era stata negata la grazia.
La negazione del processo umano
In Gran Bretagna le tesi di De Maistre sulla “degenerazione” furono riprese dal vescovo di Dublino
Richard Wathely (Conferenza introduttive all'economia politica, 1832): il progresso non poteva
essere sostenuto senza un esplicito intervento divino, poiché ai selvaggi era consentito progredire
solo se aiutati da un’umanità già in possesso di una civiltà ottenuta per grazia divina. Egli non
credeva nel progresso autonomo dell’uomo perché, dal giorno della creazione, una parte
dell’umanità aveva progredito per grazia divina mentre l’altra era decaduta.
Le principali tesi del “degenerazione” erano:
1.nessuno aveva fornito una qualche prova del passaggio dallo stato selvaggio alla civiltà;
2. nessun popolo selvaggio visitato a distanza di anni aveva dimostrato di aver compiuto un qualche
progresso per conto proprio;
3.la presenza di un qualche manufatto ritenuto superiore allo standard della popolazione che era
stato ricevuto da un popolo superiore.
Veniva negata l'idea che l'umanità fosse avanzata, sul piano materiale e spirituale, unicamente in
virtù delle proprie forze.
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Creazionismo contro evoluzione
Questa teoria della degenerazione poggiava sulla convinzione che la storia dell’uomo fosse
riducibile ad un arco di tempo delimitato dalla data di creazione del mondo ufficialmente
accettata dalla Chiesa d’Inghilterra, il 4004 a. C. (tesi del degerazionismo sostenibili solo su una
scala temporale ridotta).
L’idea che l’umanità e la natura di oggi fossero come all’epoca della creazione era facilmente
accettata da chi si atteneva a tale cronologia biblica, la quale era tacitamente accettata anche
dalla Royal Society di Londra, la più autorevole istituzione scientifica del tempo.
Ma l’autorità delle Sacre Scritture cominciò a vacillare con i risultati di alcune ricerche
compiute nel campo degli studi biblici. Già alla fine del 1700 alcuni studiosi della Bibbia
avevano cominciato a studiare l’Antico Testamento come un documento storico, e non più come
un libro contenente delle verità assolute ed immutabili > “critica storica della Bibbia”. La Bibbia
diventava così una fonte potenziale di conoscenze sulla società stessa.
Verso la fine degli anni 1850 creazionismo ed evoluzionismo rappresentavano due opposte
interpretazioni della storia naturale e umana.
Creazionismo
Evoluzionismo
Postulava la fissità delle specie viventi, e l'idea
che ogni loro variazione fosse il frutto di un
intervento estraneo ai processi e alla forze del
mondo della natura.
Charles Robert Darwin (1809-1882) ipotizzò
una teoria della storia naturale, l'Origine della
specie (1859). Le forme di vita si sarebbero
trasformate secondo un processo lento di
mutazioni dovute all'influenza esercitata su di
esse dall'ambiente e alla capacita di adattamento
degli esseri con successo a quest’ultimo, e quindi
di riprodurre, nella discendenza, alcune loro
caratteristiche.
Si riapre il dibattito tra il progresso non assistito dall'intervento divino e che sosteneva che la storia
umana era segnata da un faticoso ma inarrestabile movimento verso la conoscenza, il benessere, la
giustizia, mete raggiungibili sono con le sole forze dell'essere umano.
Le teorie evoluzionistiche ebbero un effetto traumatico sul costume e sulla mentalità di allora,
perché ipotizzavano una natura “animale” dell’uomo, producendo l'idea di un evoluzione sociale e
culturale più accettabile costituendo cosi un elemento dell'ideologia auto celebrativa che l'Europa, e
specialmente l'Inghilterra, andava elaborando come giustificazione “scientifica” della propria
crescita in campo economico-tecnologico e della propria espansione in campo coloniale.
1.4 Il quadro ideologico e teorico dominante
Col Congresso di Vienna 1814-15 l’Europa sembrava aver raggiunto un assetto politico definito
“Restaurazione” - stabile nel tempo (inalterato per un secolo), destinato a dar vita a uno sviluppo
economico, sociale e scientifico enorme.
Il pensiero filosofico e scientifico dell’800 lesse le trasformazioni economiche e sociali generate dal
capitalismo indipendentemente dalle modalità di funzionamento del sistema che le aveva prodotte >
viene trattenuta solo la cumulabilità visibile degli effetti materiali generati da questo sistema
economico in ascesa. L’immagine della società che scaturì da questo sguardo particolare fu quella di
una società in rapido sviluppo, pensabile grazie al concetto di progresso.
Progresso, continuità e cumulatività.
A fornire questa immagine concorsero le applicazioni in campo produttivo delle scoperte
scientifiche (scienza → felicità e progresso; sociologia → comprendere gli effetti del progresso
sulla società e guidarli).
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La fiducia nel progresso materiale e sociale costituì il quadro ideologico nel quale venne
organizzandosi il lavoro teorico degli antropologi (evoluzionisti). Per loro quello di progresso era
un concetto sintetico attraverso il quale era possibile esprimere contemporaneamente le idee di
cumulabilità e di continuità culturale. L'eccezionale incremento produttivo delle società europee
ed inglese divenne la chiave di lettura della storia passata.
Praticamente, le leggi che governavano l’aumento della produzione intellettuale e materiale della
società presente sono le stesse che prima lentamente, poi via via sempre più rapidamente, hanno
determinato lo sviluppo delle società passate e quindi il passaggio da uno stadio culturale inferiore
ad uno stadio “superiore” > La storia della società umana apparve così come il risultato dell’azione
di leggi sempre identiche i cui effetti cumulativi avevano generato stadi di sviluppo contrassegnati
da una crescente complessità.
Questa immagine progressiva della storia produsse due conseguenze:
1. i “primitivi” contemporanei dovevano rappresentare lo stadio più remoto dello sviluppo culturale;
2. in base al criterio della complessità culturale crescente, diveniva possibile classificare le società
in inferiori e superiori all’interno di una scala generale di sviluppo.
1.5 Una nuova congiuntura scientifica: geologia, biologia, archeologia
Nei decenni centrali dell’800, in Gran Bretagna, ci fu una rivoluzione delle scienze della natura e
dell’uomo. Geologia, biologia e archeologia assunsero la prospettiva dell’uniformismo (o
attualismo).
L'uniformismo: geologia e scienza del vivente
La teoria dell'invarianza delle leggi che caratterizzano lo sviluppo culturale in senso cumulativo
(teoria del progresso illuminista) con l'ipotesi dello scozzese Charles Lyell (geologo), nel libro
“Principi di geologia” (1830), secondo il quale i processi che trasformano la crosta terrestre erano
di natura identica a quelli che, operando in passato, avevano modellato l’attuale superficie del
globo. L’importanza di queste teorie consisteva nel fatto che consentivano di fornire una
spiegazione alternativa al creazionismo, di come il paesaggio terrestre fosse il risultato “dell'azione
uniforme di cause uniformi”.
I primi antropologi erano convinti che la storia dell'umanità, avanzata del progresso fosse
contrassegnata dalle stesse caratteristiche di cumulatività osservabili nella società scaturita dalla
rivoluzione industriale.
Anche Darwin riprese l’ipotesi -nell’Origine della specie, 1859- di Lyell, sostenendo che
l’evoluzione delle specie poteva essere spiegata sulla base degli stessi meccanismi che attualmente
operano nei processi di differenziazione delle varietà animali addomesticate.
La prospettiva uniformista permise agli antropologi evoluzionisti di sottrarre la storia dell’uomo al
creazionismo e di naturalizzare quei processi di trasformazione che il creazionismo, e il
degenerazionismo, non consideravano come prodotto autonomo dell’attività umana, bensì il
risultato di un intervento divino.
L’archeologia preistorica: selvaggi e primitivi
John Lubbock (archeologo e naturalista) scrisse Prehistoric Times, nel 1865 Inghilterra, in cui
suddivise l’età della pietra in due periodi: paleolitico e neolitico. Inoltre, quest’opera contribuì a far
circolare l’idea per cui la vita dei primitivi abitanti dell’Europa poteva essere paragonata a quella
dei “selvaggi” contemporanei.
Il parallelismo tra Europei preistorici e selvaggi “esotici” rifletteva l’assunto centrale di tutta
l’antropologia evoluzionista: a causa della sostanziale identità delle facoltà mentali umane, i popoli
elaborano, ad un livello di pari sviluppo intellettuale, tipi di adattamento simili sul piano materiale.
Poiché esistono popoli più organizzati di altri sul piano tecnologico, sociale ed economico ciò vuol
dire che esiste una via che porta dallo stato selvaggio alla civiltà. Più un popolo è organizzato da
questo punto di vista, più esso è “avanti” nella scala dello sviluppo che porta dallo stato selvaggio
5
alla civiltà > si parla di fasi o stadi evolutivi.
I reperti archeologici vennero così valorizzati e letti come “misuratori di progresso” in cui era
visibile la cumulatività del progresso materiale > questi reperti possono dunque essere comparati.
Il parallelismo tra preistorici e selvaggi “esotici” rifletteva l'assunto centrale dell'antropologia
evoluzionista: a causa della sostanziale identità delle facoltà umane, i popoli elaborano, a un livello
di pari sviluppo tecnologico, tipi di adattamento simili sul piano materiale (più organizzato
tecnologicamente + avanti nello sviluppo + civiltà).
È dunque nell’ambito dell’evoluzionismo positivista (scientifica e intellettuale che si colloca la
comparsa di una “scienza delle società primitive”. Con l’evoluzionismo l’antropologia acquista le
caratteristiche di un sapere scientifico dotato di autorevolezza e in seguito lo status di disciplina
accademica. Lo sviluppo dell'antropologia moderna resta essenzialmente legato allo spazio che
progressivamente le teorie evoluzionistiche in genere vennero acquistando nella mentalità e
nell'immaginario “medio” della seconda metà dell'ottocento.
2) L’ANTROPOLOGIA EVOLUZIONISTA NELL’ETA’VITTORIANA
Fu con la regina Vittoria -governò dal 1837 al 1901- che la Gran Bretagna s’impose come maggiore
potenza industriale, coloniale, militare e politica; sempre in questo periodo nacque l’antropologia
moderna.
Il proletariato inglese aveva lentamente migliorato le proprie condizioni grazie alla nascita dei
sindacati, dovuta alla spinta del socialismo riformista. La borghesia vive un crescente sviluppo
economico. Vi fu una vasta opera di alfabetizzazione e scolarizzazione. I progressi (dovuti anche al
capitalismo di rapina e allo sfrenato liberalismo) nel campo tecnico-scientifico e le conquiste in
campo coloniale e sociale diedero il via ad una visione ottimistica e progressiva del divenire
storico. Proprio questo ottimismo fu la chiave d’interpretazione della storia dell’umanità, che per
essere sostenuta aveva bisogno di prove empiriche, fornite proprio dall’antropologia.
L'antropologia moderna nasce da un graduale affrancamento dalla speculazione filosofica e con la
produzione di conoscenze empiriche cumulative relative alla popolazione extra-europea e della
stessa Europa.
2.1 La “scienza delle società primitive”: Edward B. Tylor (1832-1917)
L’antropologia che si sviluppò nell’epoca vittoriana fu una scienza “ottimista” come la società che
l’aveva prodotta. Essa fu definita “la scienza del riformatore”, nel senso che l’antropologia, con il
suo sapere, poteva dare un contributo utile ad una umanità che aveva bisogno di riforme sociali,
politiche e culturali. Tale definizione fu creata da Edward B. Tylor. Egli cercò di ricostruire gli
stadi dell’evoluzione culturale.
Il concetto di cultura
Primitive Culture, 1871, Tylor: studio dedicato allo sviluppo delle idee religiose dallo stadio
primitivo a quello moderno; affronta l’idea di evoluzione culturale e contiene la prima definizione
antropologica di cultura:
“La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che
include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e
abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società”.
Dalla definizione emergono alcune idee importanti:
•
La cultura (o civiltà) si ritrova ovunque (intesa nel senso etnografico più ampio) > non
esistono popoli senza cultura.
•
la cultura come “insieme complesso” in elementi che possiamo trovare ovunque (tutti hanno
un economia, morale, diritto, tecnologia, ecc. per quanto primitive).
6
•
La cultura è “acquisita” e non connaturata alla “razza” (come pensano i creazionisti) ne si
trasmette con il sangue.
•
La cultura è acquisita dall’uomo in quanto membro della società > esistono tante culture
quante sono le società e gli umani sono soggetti “culturali”.
Con Tylor il concetto di cultura (civiltà) non fa più riferimento solo all’individuo, ma è messo in
relazione con l’intera umanità e le società che la compongono. Nonostante lo spostamento dal
contesto individuale a quello collettivo, Tylor mantenne gli aspetti semantici del contesto
precedente, come quelli di cumulatività e di crescita: “colti” si diventava per effetto di una
“accumulazione di sapere” (latini → “cultura animi” > condizione spirituale di un processo
interiore per acquisizione di conoscenze artistiche, letterarie, scientifiche). La cultura umana
(singolo individuo, popolo, umanità) appariva come un patrimonio ottenuto cumulativamente e
ulteriormente incrementabile.
La cultura è concepita dagli antropologi evoluzionisti come composta da elementi che hanno tra
loro un rapporto complesso, (ma non dinamico ed integrato ma come somma di elementi [oggetti,
azioni, simboli, ecc.]) > cultura come insieme complesso. Essi sono “dentro” una cultura e al
tempo stesso la costituiscono: gli insiemi sono scomponibili nei loro elementi. Taylor non si poneva
il problema (emergerà più tardi) di come tali elementi interagiscono tra loro.
Il progetto della antropologia evoluzionista si configurò subito come tentativo di ricostruire, grazie
ai dati forniti dalle osservazioni sui popoli selvaggi, primitivi e barbari, delle sequenze di sviluppo o
di progresso come auspicate dalla Société. La scomponibilità delle culture nei vari elementi
permetteva di “estrarre” dalle varie culture quel dato elemento che, risultando presente in tutte le
culture studiate, consentiva di determinare la sequenza dello sviluppo dell’elemento prescelto (es.
Religione, famiglia, arte, etc.). Il concetto di cultura (enunciato da Taylor) risultava adeguato al
progetto evoluzionista, e poteva dispiegarsi in maniera implicita o esplicita.
Per Tylor esistevano popoli “inferiori” e “superiori”, nel senso che forme di organizzazione sociale
più semplici avevano portato a forme di vita associata più complesse e meglio organizzate > la
storia del genere umano segue una linea ascendente.
Egli definiva la civiltà come un miglioramento generale dell’umanità grazie ad una più alta
organizzazione dell’individuo e della società per promuovere la bontà, il potere e la felicità
dell’uomo.
In questa affermazione, ci sono i temi dominanti dell’ideologia antropologica vittoriana:
• la civiltà pensata come risultato di un processo cumulativo;
• il processo evolutivo è pensato sulla base di una crescente complessità organizzativa;
• l’idea della vita sociale come mezzo per promuovere il progresso, la ricchezza e la felicità
di tutti gli uomini.
La concezione “progressiva” della cultura
Tylor, come i suoi contemporanei, pensava che i popoli “selvaggi” sparsi nei vari continenti
rappresentavano gli stadi precedenti della storia umana e le condizioni di vita dei preistorici. In
Anthropology 1881, afferma che le tribù selvagge e barbare rappresentavano più o meno gli stadi
culturali attraverso i quali sono passati i nostri progenitori (inserisce la definizione di cultura in
una rappresentazione complessiva della storia umana dai caratteri progressisti).
Tylor non escludeva il regresso culturale, ma lo considerava soltanto contingente e secondario
rispetto al processo cumulativo delle conoscenze (pensieri, moti di volontà, azioni seguono leggi
definite), concepiva lo studio della cultura come fondato sullo stesso metodo delle scienze naturali.
Le religioni e le sopravvivenze
Tra i temi di riflessione dei primi antropologi ci sono:
• La religione: rifletteva lo scontro tra creazionisti ed evoluzionisti e la messa in discussione
dell’autorità biblica -oltre che la chiesa- in materia di scienza naturale e di origini umane
7
•
(l’antropologia sembra nascere in primo luogo come antropologia della religione).
La parentela: era un altro oggetto di riflessione, in cui si mescolava l’interesse per
l’evoluzione del diritto, la curiosità per lo strano modo in cui i parenti si chiamavano e il
desiderio di avvicinare temi allora proibiti come le pratiche sessuali dei primitivi.
In Cultura primitiva Tylor tratta l’evoluzione della religione > parla e definisce l’animismo = “la
credenza nelle anime e negli esseri spirituali in genere” > secondo Tylor i popoli primitivi erano
“animisti” (possedevano infatti un pensiero mitico, magico e religioso, credevano che gli oggetti,
anche se inerti possedevano un “anima”).
Sulla base di alcuni resoconti etnografici, egli postulò che dall’esperienza del sogno i nostri
progenitori avevano tratto la convinzione che i fenomeni di sdoppiamento della personalità e delle
apparizioni -che si verificano durante lo stato di sonno- erano dovuti all’esistenza di un “doppio”.
Questo “doppio” o “anima”, poteva vivere indipendentemente dal corpo sia durante la vita che dopo
la morte.
Per Taylor l'animismo era “la base della filosofia della religione” dai selvaggi all'uomo civile, dove
quel tipo di pensiero riconduceva a una spiegazione dei fenomeni naturali e psichici estranei
all'indagine razionale e materialista (distinzione tra pensiero mitico, magico e religioso dal quello
scientifico e razionale). L'affiorare del pensiero razionale come lenta e progressiva maturazione
intellettuale. Animismo come presenza interrotta dalla filosofia del selvaggio alla filosofia del
moderno professore di teologia.
Si assiste poi a un processo evolutivo fatto da stadi che culmina con l’affiorare del pensiero
razionale. Per Tylor l’animismo è una presenza ininterrotta dalla filosofia del selvaggio a quella
moderna (sopravvivenza) > con l’accumularsi delle conoscenze e la nascita del pensiero razionale
l’animismo, esteso all’inizio a tutti i viventi e non, si restringe fino a riguardare solo il cristiano
civilizzato.
Le sopravvivenze (importante concetto dell'antropologia evoluzionista)
Con la nozione di sopravvivenza, Tylor intendeva che, quando ci sono stati dei cambiamenti nelle
condizioni di vita di un popolo, è probabile che molte cose non abbiano avuto origine nel nuovo
stato di cose ma che si sono mantenute all’interno di esso. La sopravvivenza è quindi una credenza,
un rito, un’idea di uno stato culturale precedente ma che continua a sopravvivere. Essa è quindi un
fossile sociale, che è una miniera di informazioni per l’indagine storica.
Quindi la sopravvivenza era qualunque cosa il cui significato fosse perito da secoli, ma che poteva
continuare a sopravvivere semplicemente perché era esistita in precedenza. Rilevare una
sopravvivenza voleva dire poter risalire all’epoca in cui quell’idea o pratica (oggi sopravvissuta)
aveva un significato e quindi poter comprendere lo stadio di sviluppo culturale precedente a quello
attuale.
La teoria delle sopravvivenze → Tylor dinamizza il concetto di cultura che non rivela il rapporto
che possono avere tra loro gli elementi che compongono un insieme complesso ben definito. La
sopravvivenza è qualcosa “fuori posto”, priva di relazioni con gli altri elementi della cultura,
relazioni (dinamiche) che essa poteva avere in un'epoca culturale precedente.
Il metodo comparativo
Per gli antropologi evoluzionisti, le culture e le società incontrate dall’Occidente (a livello
intellettuale > pochi antropologi ebbero esperienza diretta) dovevano essere ricondotte a uno
sviluppo cumulativo della cultura (di cui l’occidente era il culmine) > lo scopo era tracciare gli stadi
di sviluppo della cultura. Questo progetto richiedeva un attraversamento delle altre esperienze
culturali > l’antropologia diviene un sapere comparativo, metodo ispiratore della antropologia.
Erano disprezzabili esempi della barbarie a cui il peccato aveva condannato una parte dell'umanità
(al contrario dei creazionisti e degenerazionisti).
Caratteristica dell’antropologia è che la comparazione tra culture è la premessa di ogni possibile
conclusione tendente alla generalizzazione (implicita, esplicita, enfatizzata, ,sfumata, declinata in
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senso geografico o in senso tipologico). Gli evoluzionisti furono quelli che fecero un uso più
massiccio della comparazione, e per questo furono spesso criticati, poiché avevano la tendenza a
decontestualizzare i dati etnografici per piegarli al loro progetto conoscitivo degli stadi di sviluppo.
Possibilità divergenti
L’evoluzione culturale immaginata dagli antropologi di questa epoca non prevedeva che tutti i
popoli seguissero un’identica via di sviluppo > solo in linea generale si può parlare di evoluzione in
quanto lo sviluppo culturale è dominato da un principio detto delle possibilità divergenti > le
diverse culture possono intraprendere diverse vie dando inizio a percorsi evolutivi diversificati nei
vari campi (politico, sociale, religioso, etc.).
Il concetto di cultura come insieme complesso (e scomponibile), la nozione di sopravvivenza e la
comparazione costituiscono dunque i punti d'appoggio di un progetto teso alla ricostruzione degli
stadi dell'evoluzione culturale.
Tylor applicò ai suoi studi ed alle ricerche una base statistica, applicando un metodo detto delle
“variazioni concomitanti” o delle “correlazioni statistiche”. Saggio Su di un metodo per lo studio
dello sviluppo delle istituzioni 1889 > Cercò di stabilire la frequenza statistica con cui certe pratiche
matrimoniali e rituali dipendono dalla presenza della discendenza matrilineare o patrilineare.
Campione = 350 società.
Un esempio riguarda la correlazione da lui stabilita tra il costume della couvade e il tipo di
discendenza della società in cui era presente questo costume. La “couvade” è quel comportamento
consistente nel rispetto di certi tabù e talvolta nella simulazione dei sintomi del parto e post-parto,
da parte del marito > si tratta di una dichiarazione pubblica di paternità dell’uomo. Risultò che la
couvade era assente nelle società matrilineari, molto presente nelle società a discendenza “doppia”
(cioè patri e matrilineari) e poco presente nelle società patrilineari. Secondo Tylor la couvade era
comparsa nella discendenza doppia (dove vi era massima incertezza sulla appartenenza della prole
a un gruppo piuttosto che a un altro) ed in quella patrilineare era solo una sopravvivenza.
 il saggio del 1889 di Tylor segna la comparsa dell’idea di una antropologia edificabile su basi
statistiche ripresa successivamente.
2.2 I riti comunitari e l’efficacia sociale della religione: William Robertson Smith
Nella seconda metà dell’800 nasce un dibattito religioso (già affrontato da Tylor) > in esso vi è la
questione rispetto all’origine della religione come istituzione e del monoteismo. Essa è affrontata
da William Roberson Smith . Egli si schierò a favore della “critica storica della Bibbia”. La sua
originalità sta nel fatto che, pur accettando i presupposti dell’antropologia evoluzionista, partiva da
premesse opposte a quelle dei suoi contemporanei. Mentre gli evoluzionisti indicavano come fase
iniziale della religione un’attitudine riflessiva dell’individuo “primitivo”, Smith si concentrò sulla
dimensione sociale e collettiva, in particolare sull’attività rituale.
(William Robertson Smith è un professore universitario scozzese di arabo ed ebraico e inoltre è
uno dei fondatori dei moderni studi semitici, un orientalista. A differenza dei suoi colleghi effettuò
ricognizioni sul campo in Egitto e Palestina).
Lo studio della società e della religione
Dal 1878 Smith inizia a concepire l’idea di uno studio comparato delle istituzioni sociali e religiose
dei popoli semitici. Riprendendo gli evoluzionisti, Smith provò ad elaborare una teoria generale dei
rapporti tra società e religione.
1889, Conferenze sulla religione dei semiti (Lectures on the Religion of Semites): Smith espone le
sue idee relative alla natura sociale del fenomeno religioso.
Ogni esperienza religiosa prende il via dai riti e dai simboli ad essa correlati. Questi sono condivisi
dai membri di una determinata società che, nascendo in una comunità, li trovano già presenti e
attivi. Smith contrapponeva quindi questa dimensione collettiva e pubblica della religione, che si
manifestava attraverso riti di devozione che coinvolgevano tutta la società (riti comunitari), a quella
9
individuale.
Attraverso lo studio del materiale biblico sosteneva un’omologia tra attività religiosa e rituale ed
identità politica e sociale, affermando che nella società arcaica la religione di un uomo è un
elemento integrante delle sue relazioni politiche > il fatto di conformarsi o meno ai rituali pubblici
fosse il segno dello stato dei rapporti tra gli individui e tra questi e la comunità > natura sociale
della religione + la religione ha una funzione di elemento coesivo della società.
Il sacrificio (studiato da Smith tra i popoli semitici) in favore di una divinità non rappresentava un
dono allo scopo di ingraziarsela, ma era un rituale di comunione tra la società e una divinità che
rappresentava simbolicamente l’unità della società stessa (questa idea della divinità come nume
tutelare del gruppo era già stata espressa dallo storico francese Nouma D. Fustel de Coulanges in
La cité antique 1864, uno studio comparato sull’origine delle istituzioni politico-religiose di Atene e
Roma arcaiche). Coulanges aveva sostenuto che la società era fondata inizialmente su basi
teocratiche.
La discendenza comune e la co-territorialità (elementi fondanti nella costituzione della comunità
politica, la città), erano elementi secondari rispetto al culto comune delle divinità tutelari.
La religione appariva come mezzo per regolare i rapporti sociali perché -attraverso l’adesione ai
rituali pubblici- permetteva agli individui di conformarsi agli standard di comportamento collettivi;
rappresentava anche un elemento coesivo, poiché attraverso le riunioni periodiche, rafforzava negli
individui il senso di appartenenza ad un unico corpo sociale.
La religione era dunque, per Smith, qualcosa che non esiste per la salvezza delle anime, ma per la
conservazione e il benessere della società.
Israeliti antichi e beduini contemporanei
I materiali usati per sostenere la teoria del sacrificio provenivano dallo studio della Bibbia, dai
classici arabi e dalle osservazioni sui Beduini dell’Egitto e della Palestina compiute personalmente.
Egli riteneva che la vita dei nomadi arabi fosse simile a quella del popolo dei patriarchi biblici, e
che le loro istituzioni fossero le sopravvivenze di quelle del popolo di Israele (idea molto diffusa tra
gli orientalisti di allora e in linea con la prospettiva evoluzionista [popoli primitivi e stadi di
sviluppo]).
Influenzato dalle teorie sull’evoluzione delle forme di discendenza, in Parentela e matrimonio
nell’Arabia antica (Kinship and Marriage in Early Arabia), 1885 disse: tra gli arabi pre- israelitici,
esisteva un sistema matrilineare, che con l’avvento dell’Islam divenne patrilineare -in realtà la
teoria appare oggi inesatta-.
Egli sottolineò che le genealogie degli arabi non rappresentavano una successione temporalmente
ordinata di individui, ma erano il frutto di manipolazioni per giustificare lo stato attuale della
società (società segmentarie).
Questa teoria fu molto importante perché rappresentava il primo lavoro antropologico sul mondo
arabo e poi perché pose le basi per lo sviluppo di quel settore di ricerca che si occupa dello studio
delle “società segmentarie” (capitolo 14).
 A Smith spetta il merito di aver riconosciuto l’esistenza di forme di organizzazione politica
prive di istituzioni centralizzate ma fondate sull’equilibri di gruppi (segmenti) di discendenza a loro
contrapposti (oltre al tema dei rapporti tra rito e coesione sociale).
2.3Dalla scienza delle forme alla biologia dell’arte
In Europa 1800 troviamo un interesse per i “primitivi” che si sviluppò con l’allestimento di mostre nelle quali venivano esibiti i prodotti della cultura materiale dei popoli (armi, utensili, etc.)- e
l’organizzazione di musei. Prima tutti i reperti storici erano esibiti in modo non sistematico:
l’emergere della teoria evoluzionista in campo culturale imprime una svolta a questo modo di
presentare gli oggetti.
Metà XIX secolo, Inghilterra: Augustus Pitt-Rivers, un generale, decise di costruire dei musei che
portassero all’attenzione degli studiosi e del pubblico generico i prodotti della tecnologia e delle arti
10
dei popoli primitivi. Gli oggetti venivano esposti in base a criteri di classificazione tipologica che
dovevano illustrare l’evoluzione di un oggetto, dalle sue forme più primitive a quelle più attuali =
originalità. Nella classificazione, il materiale veniva diviso in gruppi. Ogni gruppo era costituito da
oggetti di forma o funzione simile e provenienti da luoghi più disparati > l’avvicinamento di questi
oggetti veniva a formare una serie che, dal più semplice al più complesso, illustrava l’evoluzione
dell’oggetto medesimo.
Rivers pensava infatti che l’essere umano, una volta acquisita una certa idea, la applicasse in
maniera automatica ai suoi prodotti senza avere coscienza degli stadi anteriori per cui l’oggetto era
passato > per lui insomma gli umani non partono da zero ma confidano nella continuità e
cumulatività culturale. Da questa sua idea nasce poi a fine 800 il Museo dell’università di Oxford
che porta ancora oggi il suo nome.
Italia 1869 Paolo Mantegazza, sull’esempio di Rivers, fonda il Museo di Antropologia ed
Etnografia di Firenze.
Alfred C. Haddon, biologo inglese divenuto antropologo, tentò di definire meglio il progetto di
una scienza delle forme. Egli si interessò delle trasformazioni degli stili decorativi incisi su supporti
di vario tipo > era persuaso che queste fossero il risultato di un processo mediante il quale una serie
di fattori cognitivi e ambientali venivano a incidere sull’evoluzione delle forme degli oggetti e sugli
stili artistici stabilendone, come avviene per le forme viventi, la nascita, lo sviluppo e la fine. Arriva
dunque alla nozione di “biologia dell’arte” che prendeva avvio dai popoli primitivi in mezzo ai
quali queste forme e questi stili erano comparsi per la prima volta.
Haddon vuole trattare l’arte da un punto di vista non estetico (soggettivo) ma scientifico, la
biologia dell'arte era un modo per applicare a dei prodotti umani quella prospettiva delle scienze
naturali che studia la distribuzione e le variazioni tra le forme viventi ed è in grado quindi di
determinarne l'evoluzione.
La teoria di Haddon non ha grande successo, viene rivalutata molto tempo dopo.
2.4 Dalla magia alla scienza: James George Frazer
La discussione sull’evoluzione della cultura si rivolse prevalentemente alle tematiche religiose, del
rito e della magia primitiva. L’idea di un progressivo sviluppo della razionalità umana stimolò
tentativi di collegare il pensiero magico con quello religioso e quest’ultimo con quello scientifico.
L’impresa più notevole compiuta in questa direzione è quella di James G. Frazer, professore di
antropologia sociale a Liverpool e Cambridge. È considerato l’ultimo esponente dell’evoluzionismo
culturale vittoriano.
Il cammino del pensiero umano
Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione 1890 (The Golden Bough. A Study in Magic and
Religion) è l'opera più nota di Frazer che contiene una teoria fondata su dati desunti dal repertorio
etnografico e dalla letteratura classica > Egli ipotizzò che magia, religione e scienza fossero delle
“tappe” nell’evoluzione intellettuale dell’uomo. La magia, intesa come tentativo da parte dell’uomo
di controllare la natura, corrispondeva ad una fase di sviluppo dell’intelletto umano caratterizzato
dalla confusione e dall’ignoranza sui rapporti causali che dominano nel mondo dell’esperienza
oggettiva.
In un secondo momento, alcuni uomini, pensarono di accattivarsi il favore delle potenze della
natura: nasceva così la religione e la figura del sacerdote, mediatore tra l’uomo e la divinità.
Quando però altri uomini si accorsero che gli dei non potevano risolvere i problemi umani, si ebbe
la terza e più recente fase dello sviluppo dell’intelletto umano, quella cioè caratterizzata
dall’osservazione dei fenomeni naturali e dalla ricerca delle leggi che ne regolano il divenire. Si
apriva così la possibilità di conoscere secondo modalità di tipo scientifico-razionale la natura e di
dominarla a scopo pratico.
In Frazer erano presenti tutte le caratteristiche dell’evoluzionismo vittoriano:
1. la storia vista come una successione di stadi;
11
2. l’idea di un progresso da una fase all’altra;
3. la possibilità di considerare “sopravvivenza” qualunque elemento culturale che, appartenendo ad
una fase anteriore, era presente in una fase successiva. Erano così considerate sopravvivenze tutte
quelle pratiche, o credenze che, pur presenti nella società vittoriana, richiamavano l’oscuro
intelletto primitivo e selvaggio.
Questa sua opera è stata interpretata da alcuni come un grande repertorio di sbagli attribuiti al
mondo primitivo; la teoria del passaggio pensiero magico → religioso → scientifico inoltre sembra
non aderire totalmente all’idea trionfale del progresso: Frazer è l’ultimo vittoriano perché la sua
opera non è ispirata da quell’ottimismo che caratterizza i suoi predecessori > Il ramo d’oro pare
sanzionare in campo antropologico l’affacciarsi di una crisi culturale che l’antropologia stessa
aveva contribuito a innescare. L’opera testimonia la crisi delle certezze dell’uomo di fine 800 e
sostiene che il futuro della umanità si nasconde nella nebbia, nell’ombra e nel buio.
3. LE ORIGINI DELL’ANTROPOLOGIA AMERICANA E LEWIS HENRY MORGAN
Negli Stati Uniti gli studi etno-antropologici si svilupparono nella prima metà dell’800 per
iniziativa di un ristretto gruppo di curiosi dei costumi dei nativi americani e di ricercatori dilettanti.
Tra di loro c’era Lewis Henry Morgan, che seppe inserire le sue osservazioni in una visione
teorica di ampio respiro. Questo è il motivo fondamentale per cui Morgan è considerato una figura
cardine nella storia dell’antropologia americana e negli studi antropologici in genere.
Le ricerche di Morgan si svolsero in due direzioni:
•
raccolta di dati riguardanti i sistemi di parentela delle popolazioni indiane del Nord
America;
•
raccolta di dati sui sistemi di parentela dei popoli extra-americani.
Il “problema” indiano
Quando Morgan iniziò le proprie ricerche attorno al 1840, l’opinione pubblica americana aveva una
duplice visione dei nativi americani (indiani) -entrambe risalenti all’epoca della Dichiarazione
d’indipendenza (1776).
Visione negativa
Visione positiva
Riguardava le questioni interne dove l'indiano
era visto come un nemico che impediva all'uomo
bianco di espandersi in una terra che questi
riteneva sua, poiché si riteneva capace di
sfruttarla “razionalmente”.
Se si trattava di contrapporre il vigore e la
libertàdel della libertà del Nuovo Mondo alla
decadenza e alla oppressione della vecchia
Europa, l'Indiano era chiamato a sostenere, con
la virtù, valore, semplicità, amore della libertà, la
giovane nazione americana.
Thomas Jefferson, secondo Presidente degli Stati Uniti, cercò di risolvere il problema: gli indiani
avrebbero potuto mantenere il diritto di proprietà sulle terre e diventare cittadini americani, se
avessero abbandonato la loro economia di caccia per convertirsi all’agricoltura (possesso del suolo
come caratteristica di una nazione).
3.1. Morgan e gli Irochesi
Morgan scrisse nel 1851 “La Lega degli Irochesi” in cui si occupava dei sistemi di parentela
indiani. L’opera rappresenta la prima descrizione scientifica di una tribù. Esso fornisce la
descrizione dell’organizzazione socio-politica delle sei “nazioni” della federazione irochese; si
12
occupa anche dei lori sistemi di parentela.
L’opera ebbe successo ma non nacque da interessi scientifici in senso stretto: essa raccoglieva
infatti rielaborazioni di alcune “lettere” che Morgan aveva pubblicato quattro anni prima sulla
American Review all’indomani di una felice conclusione di una causa giudiziaria dove egli aveva
difeso Senèca, una delle “nazioni” della Lega Irochese che rischiava di perdere le proprie terre per
colpa dei bianchi speculatori.
“Vocazione” antropologica di Morgan > nasce nello stato di New York in cui si trovano numerose
riserve indiane > stringe amicizia con un discendente di una stirpe di capi senèca e grazie a questa
conoscenza compì brevi soggiorni nella riserva dei Senèca.
Morgan si concentra sul sistema di relazioni che le sei nazioni irochesi (Senèca, Oneida, Mohawk,
Cayuga, Onondaga, Tuscarora > sponde meridionali del Lago Ontario) intrattengono tra loro >
ognuna di queste “nazioni” (gruppi) si trova in relazione con le altre in virtù di una complessa rete
di rapporti di parentela; ognuna delle nazioni era divisa in un certo numero di “tribù” designate da
un nome di animale > tribù con lo stesso nome si trovavano in ciascuna delle sei nazioni e i loro
membri, anche se di nazioni diverse, si consideravano discendenti di un antenato comune e
“fratelli” tra loro (per Morgan questo è un modo efficace per mantenere relazioni pacifiche tra le
nazioni Irochesi).
Il quadro complessivo che tracciò degli Irochesi fu quello di una federazione di popoli legati da
valori comuni con un sistema sociale democratico ed egualitario nonostante fossero selvaggi.
Morgan paragona questo ordinamento politico a quello di Atene democratica per dimostrare che gli
indigeni andavano trattati con rispetto.
Lo scopo politico di “Morgan”
Morgan paragono l'ordinamento e lo spirito della federazione irochese a quello di dell'Atene
democratica per dimostrare che gli Indiani erano degni del più grande rispetto, non inferiore a
quello dovuto agli Antichi.
Morgan vuole sollevare un problema nazionale: egli è convinto che la democrazia Americana sarà
perfetta e superiore alle altre solo quando riuscirà a risolvere, sulla base dei principi egualitari su
cui si fonda, il “problema indiano”.
L'irochese di Morgan non aveva nulla del “buon selvaggio”.
Di fronte alla minaccia della scomparsa degli Indiani, Morgan propose una politica di
assimilazione progressiva attraverso l’educazione dei giovani e l’assegnazione di terre dee quali
essi potevano disporre liberamente.
3.2. I sistemi di parentela
Dalla metà dell’800 lo studio delle culture indiane venne favorito dalla creazione di istituzioni
che dovevano documentare la vita dei nativi: 1846 Smithsonian Institution e 1879 Bureau of
American Ethnology.
Nel 1858 Morgan scopre presso i Sioux e gli Ojibwa l’esistenza di un sistema terminologico
di parentela simile a quello irochese nonostante si trattasse di popolazioni appartenenti a ceppi
linguistici differenti.
Gli Irochesi designavano in modo diverso i parenti rispetto ai “popoli civilizzati”: un soggetto
(Ego) chiamava “padre” il fratello di suo padre, e “madre” la sorella di sua madre. I figli del
fratello del padre e della sorella della madre erano chiamati “fratello e sorella”. Questo però
non voleva dire che l’atteggiamento nei confronti del padre, fosse lo stesso nei confronti del
fratello del padre, nonostante questo fosse chiamato “padre” anche lui. Questo modo di
chiamare il fratello del padre era una “sopravvivenza” di un’epoca in cui non era possibile
distinguere i due individui, poiché caratterizzata dall’”esogamia adelfica”, cioè l’unione di
una donna con più fratelli (pg. 39).
13
L'origine degli indiani americani
In quegli stessi anni Morgan si interessa alla questione dibattuta tra gli indianisti sull’origine
degli Indiani americani. Secondo Morgan gli Indiani d’America erano di origine asiatica
(rilevatasi esatta) ed il fatto di trovare in Asia un sistema di parentela simile era per lui una
prova sufficiente a sostenere questa tesi. Per Morgan le somiglianze nella parentela sono più
importanti delle somiglianze linguistiche in quanto: “il linguaggio, non solo cambia il suo
vocabolario ma, con il passare del tempo, modifica la sua struttura grammaticale… mentre un
sistema di relazioni, una volta entrato in funzione, è meno soggetto a cambiamenti”. Un
sistema di parentela esprime quindi idee permanenti ed immutabili, che sono sopravvissute ai
cambiamenti linguistici quanto a tutte le suddivisioni ed alla migrazione del gruppo originario.
In Asia e in America ci sono strutture di parentela simili anche se indicate con termini diversi a
cui si oppongono le strutture di parentela dell’uomo “civilizzato” fondate su un principio
differente (si tratta dei gruppi Ariani, Semitici e Uralici).
Sistemi classificatori e sistemi descrittivi
I dati sul sistema di parentela, benché differenti, presentavano un struttura logica simile. A
questo gruppo di sistemi di parentela si opponeva, essendo fondato su di un principio
differente, il gruppo di sistemi che Morgan indicò come Ariani, Semitici e Uralini e a cui
apparteneva quello in uso presso i popoli “civilizzati”.
I risultati vennero ordinati ed esposti in Sistemi di consanguineità e di affinità della famiglia
umana, 1871 (uno dei lavori più importanti della storia dell'antropologia). Morgan stabilisce la
distinzione tra due grandi gruppi di sistemi di parentela corrispondenti a due modi
radicalmente differenti di designare i parenti consanguinei quelli in relazione di sangue e
quelli dei partenti affini (o alleati), i quali sono invece acquisiti attraverso una relazione di
tipo matrimoniale.
Questi due gruppi sono chiamati da Morgan:
• sistemi classificatori (es. Quello irochese): i parenti consanguinei in linea collaterale non
vengono terminologicamente distinti da quelli in linea diretta > es. gli irochesi non avevo delle
distinzioni terminologiche, chiamavano sia il padre che lo zio “padre”. Ipotesi: questo sistema
sarebbe stato caratteristico di un’organizzazione sociale basata sui rapporti di parentela > società
tipica del periodo delle “barbarie”, quando non vi erano stati e leggi codificate e la parentela
esercitava una forte influenza riguardo l’aiuto reciproco tra le persone.
• sistemi descrittivi (es. Quelli dei popoli europei): i parenti consanguinei in linea collaterale
(parenti acquisisti tramite unione matrimoniale) vengono distinti terminologicamente dai parenti
consanguinei in linea diretta > es. I popoli europei fanno una distinzione terminologica: il fratello
del padre si chiama “zio”. Ipotesi: questo sistema nacque quando la società fu fondata sui rapporti
di tipo politico > società legata alla “comparsa della civiltà”.
In mancanza di leggi codificate o di uno Stato in grado di assicurare i diritti degli individui, il
legame di parentela presenta tra le nazioni non civilizzate esercita una forte influenza rigaurdo a
tutto ciò che ha a che vedere con l'aiuto reciproco tra le persone (appartenenza tribale).
Morgan associa le differenze tra i due gruppi a un processo evolutivo: le caratteristiche dei
sistemi classificatori sarebbero gradualmente scomparse per lasciare il posto alla logica di tipo
descrittivo; Morgan tentò di spiegare questo processo evolutivo ricostruendo le forme che
l’istituzione familiare aveva assunto nelle diverse epoche storiche: dalla “promiscuità
originaria”, in cui non si potevano riconoscere i figli di una coppia rispetto a quelli di un’altra,
si arrivò alla civiltà con la famiglia monogamica, dove si potevano descrivere con precisione i
rapporti di parentela.
L'evoluzione dei sistemi di parentela
Per Morgan, il tipo dell'organizzazione sociale fondato sulla parentela era ancora
caratteristico del periodo della “barbarie”, mentre la comparsa di un società fondata sui
rapporti di tipo “politico” era strettamente connessa alla “comparsa della civiltà” (possibilità
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di pensare le varie forme di organizzazione sociale sulla base di uno schema di tipo
evoluzionistico → logica classificatoria, fasi di un processo evolutivo di trasformazione).
Lo schema che riassumeva le tappe dell'evoluzione della famiglia, che Morgan considerava
alla base della società, veniva messo in relazione al processo di lenta sostituzione della logica
classificatoria da parte di quella descrittiva: dalla promiscuità originaria alla famiglia
monogamica (descrizione dei rapporti esistenti).
La chiave che permetteva di ricostruire questa sequenza evolutiva erano quei termini di
parentela il cui impiego sembrava a Morgan non giustificato dalle effettive pratiche
matrimoniali esistenti ma da quelle più arcaiche (una specie di sopravvivenze).
Relazioni sociali e termini di parentela
I termini di parentela, secondo Morgan, riflettevano infatti la natura delle relazioni sociali,
chiamare padre anche il fratello del padre, era una “sopravvivenza” di un epoca in cui non era
possibile di distinguere i due individui (poliandria adelfica → unione di una donna con più fratelli).
Le terminologia di parentela poteva assumeva la stessa funzione epistemologica che le
sopravvivenze svolgevano nell'opera di Tylor (umanità unica → nazioni → progresso ineguale →
costumi e istituzioni come una sequenza).
Le terminologie di parentela potevano essere dunque delle sopravvivenze , e come tali venir
utilizzate nella ricostruzione delle fasi di sviluppo storico (comunque la fase di passaggio dai
sistemi classificatori a quello descrittivo rimane altamente problematico).
L'emergere della proprietà privata (quindi individuale) viene considerata da Morgan come unico
fattore in grado di spiegare la sostituzione di un sistema classificatorio da parte di un sistema
descrittivo.
Questo passaggio alla società politica era strettamente collegato con la comparsa dei diritti di
proprietà privata sulla terra, che avrebbero influenzato il sistema delle relazioni.
3.3 Morgan e l’evoluzione sociale
Nel 1877 Morgan pubblicò La società antica, che diventò celebre soprattutto perché Marx ed
Engels vi avevano visto la conferma indiretta della loro concezione materialistica della storia. Per
alcuni questo libro costituisce il lavoro più influente nella storia dell’etnologia, tuttavia quest’opera
fu anche molto criticata e divenne bersaglio di condanna dell’evoluzionismo antropologico nei
decenni successivi.
In quest’opera Morgan affrontò temi quali: il significato delle terminologie di parentela; lo
sviluppo dell’idea di governo; lo sviluppo dell’idea di proprietà; l’evoluzione della cultura e delle
società umane.
Per comprendere meglio questa evoluzione, bisognava stabilire un numero di periodi che chiamò
etnici, ciascuno dei quali rappresentava “una distinta condizione della società e distinguibile per un
modo di vita ad esso peculiare”. La successione dei periodi etnici era: “selvaggio → barbaro →
civilizzato”, con l’aggiunta di tre sotto periodi: inferiore, intermedio e superiore; per le prime due
fasi si passa da un periodo all’altro grazie a invenzioni e scoperte.
Esempio. Lo stadio intermedio dello stato selvaggio era caratterizzato dall’acquisizione della pesca
come mezzo di sussistenza e dall’uso del fuoco, ed era seguito dallo stadio superiore dello stato
selvaggio, che vedeva l’invenzione dell’arco e della freccia, e quindi della caccia come tecnica di
sussistenza. A questo seguivano i tre stadi della barbarie, ognuno caratterizzato da invenzioni e
tecniche di sussistenza, seguiva infine lo stadio della civiltà, caratterizzato dall’invenzione di un
alfabeto fonetico.
I vari stadi sono condizioni connesse l’una all’altra in una sequenza di progresso naturale e
necessaria.
Le invenzioni e le scoperte, viste in rapporto di connessione cumulativa, erano viste come gli indici
del progresso di ogni fase storica e come l’elemento espressivo di ciascuna fase.
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L’America e l’umanità
La considerazione delle invenzioni e scoperte come “segni” del progresso era un idea
condivisa dagli studiosi europei contemporanei a Morgan.
Un’idea diffusa al tempo di Morgan era che dalla storia dell’America fosse possibile trarre anche la
storia passata dell’umanità, America vista come “laboratorio dello storico”. La società indiana,
infatti, doveva rappresentare la fase storica in cui l’umanità viveva di caccia, raccolta e pesca, e con
il loro indebolimento ci fu la comparsa del commercio e la diffusione della pastorizia (il ranch) e
dell’agricoltura (la fattoria) fino all’apice con la società industriale (culmine del progresso).
La storia d’America forniva dunque non solo la chiave di lettura della successione delle epoche
della storia umana, ma anche offriva, per la rapidità con cui questa storia era giunta a compimento,
l’immagine di un progresso materiale la cui cumulabilità poteva essere pensata in termini di
“progressione geometrica”.
Il libro La società antica, secondo alcuni autori, avrebbe costituito il lavoro più influente nella storia
dell'etologia (influenza e dibattito → speciali attenzioni di Karl Marx e Friedrich Engels → lettura
indiretta della loro concezione materialistica della storia). Questa opera fu anche il principale
bersaglio delle critiche che l'antropologia americana, nei decenni successivi, rivolse
all'evoluzionismo antropologico, di cui fu considerata l'espressione più compiuta.
3.4 Dopo Morgan
Nell’ultimo scorcio dell’800 l’antropologia americana crebbe molto a livello accademico grazie ai
suoi ricercatori. Nel 1888 uscì il primo numero della American Anthropologist, la rivista ufficiale
dell’associazione degli antropologi usa. Nello stesso anno, al termine delle guerre indiane, venne
generalizzato il sistema delle riserve. Riserva nata per proteggere gli indiani, doveva riprodurre
l’immagine illusoria di una società tenuta al riparo da contaminazioni esterne > l’immagine di
società sottratta all’influenza di quella progredita bianca rafforza l’immagine antropologica della
cultura indiana come primitiva e avente un’arcaicità pura.
Eccezioni: ricerca di James Mooney sulle forme di resistenza indiana che trovarono espressione in
nuovi culti religiosi > libro The Ghost Dance Religion and the Sioux Outbreak of 1890, del 1896,
analizza il movimento messianico diffuso tra gli indiani emarginati nelle riserve che venne represso
col massacro di Wounded Knee del 1890.
PARTE SECONDA: DALLA FINE DELL’800
ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE
4. TRA SOCIOLOGIA, FILOSOFIA ED ETNOLOGIA: LA RIFLESSIONE
FRANCESE SULLE SOCIETA’ “PRIMITIVE”
4.1 L’eredità di Auguste Comte (1798-1857)
In Francia, nonostante vi fosse un interesse intellettuale per la vita dei popoli extra europei, lo
studio delle società “primitive” si sviluppò più tardi rispetto all’Inghilterra, verso la metà del
XIX sec. E inizialmente era molto legato alla sociologia. Questa a sua volta derivava dalla
filosofia, in particolare da quella “positiva” di Comte.
Comte aveva focalizzato i suoi studi sulla normatività sociale, cioè sull’equilibrio e
sull’ordine sociale come frutto della possibile applicazione di un sapere positivo (la
sociologia) che fosse allo stesso tempo conoscenza e strumento di gestione della società sulla
base di criteri di natura tecnico-scientifica.
Questo ideale positivo della società subirà un colpo con la guerra del civile del 1870 > le
vicende della Comune di Parigi generano domande diverse da quelle formulabili nell’ottica
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ottimista e progressista di Comte > la “legge dei tre stadi” (teologico, metafisico, positivo) di
questo pensatore, che faceva approdare l’umanità alla fase finale o “positiva” rappresentata
dalla società capitalistica-industriale dell’800; non era in grado di spiegare i fenomeni di
massa emergenti dalle mutate condizioni sociali, politiche ed economiche della Francia del
XIX sec. Era infatti chiaro che anche quest’ultima era largamente dominata da forze
apparentemente irrazionali che affondavano le proprie radici nell’opinione pubblica e nelle
tensioni sociali e religiose.
4.2 Coscienza e rappresentazioni collettive: Emile Durkheim (1858-1917)
Emile Durkheim si sforzò nel modo più significato verso una prospettiva teorica che potesse
comprendere quei fenomeni sociale che il pensiero di Comte non riusciva. Fu la guida della
cosiddetta “scuola sociologica” che influenzò la riflessione francese in campo sociologico ed etnoantropologico.
La prospettiva normativa e la coscienza collettiva
Allontanandosi da Comte - per il quale i “sentimenti comuni” erano attivi solo in società dominate
da un pensiero pre-positivo (prerazionale). Durkheim individuò il principale di questi sentimenti
nella coscienza collettiva che definì come l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla
media dei membri di una stessa società nell’opera La divisione del lavoro sociale 1893 (opera in cui
si rivelano i primi interessi etnologici dell’autore).
La coscienza collettiva fa riferimento ad una entità sovraindividuale, indipendente dalle coscienze
singole e dotata di una logica di sviluppo autonoma. Per Durkheim tutte le società possedevano una
coscienza collettiva e quindi erano tutte comparabili tra di loro.
La sociologia stessa era un sapere comparativo che doveva prendere in considerazione il numero
più alto possibile di società per giungere alla conoscenza delle leggi della vita sociale.
E' in questa prospettiva comparativa che la sociologia di Durkheim si apre alla etnologia:
Durkheim estende infatti il suo interesse per le società “primitive” fino a impostare interamente
alcuni suoi lavori in una prospettiva etnologica.
Solidarietà meccanica e solidarietà organica
La maggiore o minore intensità con cui la coscienza collettiva si manifestava nelle diverse società
veniva indicata e messa in relazione da Durkheim con 2 tipi di solidarietà vigenti tra i membri nei
due tipi di società:
Solidarietà meccanica = società primitiva
Solidarietà organica = società civilizzate
La vita sociale occupa ogni spazio della vita del
singolo, determinandone le scelte e i sentimenti;
forte sarà la riprovazione sociale per ogni atto
che va contro le norme sociali di
comportamento. Nelle società con il massimo
grado di solidarietà meccanica, la coscienza
collettiva è tanto forte da essere coestensiva
delle coscienze singole. L'individuo risulta
essere meccanicamente guidato dalle forze
sociali.
Nella società prevale la tendenza del singolo
individuo; gli individui si riconoscono nella
comunità grazie ad atti intenzionali rispondenti
ad una adesione volontaristica; la coscienza
collettiva occupa uno spazio più ristretto.
Questi due tipi di società sono gli estremi di una varietà complessa dove le due forme di solidarietà
si intrecciano per costituire forme di società “miste” nelle quali prevale ora l’una ora l’altra
solidarietà.
17
4.3 La religione e le sue forme elementari – la teoria del totemismo
Le forme elementari della vita religiosa (Durkheim, 1912), tentativo di elaborare una teoria
generale della religione e della società attraverso l’individuazione di elementi (cioè le forme
elementari della religione) che entrano a far parte di tutti i sistemi religiosi e sociali.
Per Durkheim questo tentativo è legittimo perché il fenomeno religioso è un fatto
sociologicamente universale: alcune religioni possono essere dette superiori alle altre perché
mettono in gioco funzioni mentali più elevate, ma se facciamo riferimento alle religioni semplici,
esse rispondono alle stesse necessità, assolvono la stessa funzione, dipendono dalle stesse cause, e
perciò possono manifestare anch’esse la natura della vita religiosa e risolvere il problema che
vogliamo trattare.
Le religioni sono dunque comparabili tra di loro poiché, al di là del loro grado di complessità, alla
base di tutti i sistemi di fede e di tutti i culti deve esserci necessariamente un certo di numero di
rappresentazioni fondamentali e di atteggiamenti rituali che rivestono ovunque lo stesso
significato oggettivo ed adempiono ovunque alle stesse funzioni.
Il problema di individuare queste rappresentazioni fondamentali o forme elementari venne risolto da
Durkheim assumendo che la religione, nel suo stato originario, fosse presente nelle società più
semplici.
Il totemismo (teoria) degli aborigeni australiani era, secondo un’idea allora accettata, una forma
di religione in cui un gruppo si identificava con un animale, una pianta o un qualsiasi fenomeno
naturale che sarebbe diventato il simbolo del gruppo in quanto raffigurante l’antenato da cui il
gruppo credeva di discendere. Come tale il totem era fatto oggetto di culto da parte dei membri del
gruppo.
Durkheim considerava il totemismo come il sistema religioso più semplice al cui interno agivano
rappresentazioni di natura collettiva indipendenti dalla psiche individuale > esse erano la proiezione del
gruppo sociale su un piano ideale. L’unità del gruppo, la sua solidarietà e la consapevolezza di non
poter esistere fuori dalla società spingono gli individui a idealizzare la loro unione la quale si trova
rappresentata nel simbolo del totem e nel culto ad esso tributato.
Per Durkheim gli esseri umani operano uno spostamento simbolico facendo del totem un oggetto
di culto quando invece inconsapevolmente adorano e rispettano il clan, cioè la società.
La religione come fenomeno unitario
Per Durkheim le dinamiche appena descritte agiscono a qualunque stadio di evoluzione della
società e del pensiero > ne consegue che religioni primitive e sofisticate costituiscono un fenomeno
unitario.
Ciò che tutte le religioni adorano attraverso il rito infatti (anche se in modi diversi) è la società
stessa la quale si impone con forza sugli individui e mantiene vivo il senso di una perpetua
dipendenza. Tuttavia Durkheim, che su questo punto fu influenzato dalla concezione di William
Roberson Smith sul rapporto tra riti comunitari e senso di appartenenza sociale, non volle avanzare
una teoria della religione come “sociolatria” (culto della società), ma volle piuttosto sottolineare il
dominio esercitato dalla collettività sull’individuo.
Questo dominio non è solo di natura coercitiva: al contrario la società, con le sue regole e leggi, si
impone attraverso l’esercizio di un potere morale che, secondo Durkheim, non è altro che il rispetto
che gli individui hanno per essa, un potere al quale obbediscono spesso anche in contrasto con i loro
stessi interessi personali (es. gli individui che si sacrificano per il bene comune).
La religione appare come un sistema di rappresentazioni e riti attraverso i quali gli individui
partecipano misticamente e collettivamente (cioè in modo non razionale e non individuale) al
corpo sociale in modo per lo più inconscio.
I “fatti sociali” e la natura sociale del pensiero
Le forme elementari della vita religiosa segnano un momento decisivo nella riflessione
etnosociologica: da Durkheim in poi fenomeni come la religione, le istituzioni giuridiche, le norme
etiche, etc. non poterono più essere considerati come il risultato di un progresso intellettuale che
aveva origine nelle impressioni soggettive (teoria della nascita delle religioni, Taylor; discendenza
18
patrilineari degli evoluzionisti).
Le regole del metodo sociologico, 1895, Durkheim stabilisce e considera i fatti sociali - che per
lui sono l’oggetto specifico della sociologia - come insiemi di azioni e di rappresentazioni
identificabili sulla base del potere che essi avevano di esercitare una costrizione sugli individui.
Ruoli, riti, credenze, obblighi, etc. sono fatti sociali che hanno vita autonoma, sono indipendenti
dalla psicologia dell’individuo e determinano “dall’esterno” il comportamento dei membri di una
società > essi di fatto impongono agli individui l’adesione alle regole del corpo sociale di cui essi
facevano parte attraverso obbligazioni e norme.
 i concetti sono sociali e la religione è il modo in cui la società ce li fornisce imponendo il suo
potere su di noi.
4.4 Il “prelogismo” di Lucien Lèvy-Bruhl, il “teorico della mentalità primitiva”
Lucien Lèvy-Bruhl (1857-1939) contribuì a sviluppare le idee di Durkheim in modo originale;
filosofo e professore alla Sorbona, fu uno dei più fini interpreti della tradizione del razionalismo
filosofico; con alcuni colleghi getta le basi dell’Institut d’ethnologie (1925).
La morale e la scienza dei costumi 1903, opera che nasce come libro di filosofia e vuole rispondere
alla domanda “esiste una morale oggettiva?” > la sua critica nei confronti di una morale teorica
universale e oggettiva lo pongono nella condizione di aprirsi alla etnologia.
Per Bruhl qualunque teoria che avesse la pretesa di fondare una morale oggettiva doveva partire
dall’assunto che esiste una natura umana sempre e ovunque identica a se stessa (pregiudizio
etnocentrico) > per Bruhl invece la teoria non fonda alcuna morale, ma può solo studiarla >
studiare la morale = cercare di comprendere il diverso significato che l’esperienza morale può
assumere in contesti sociali differenti, cioè i diversi sistemi morali che sono caratteristici nelle
diverse società.
In questo testo Bruhl compie la sua “rivoluzione etnologica”: il suo sguardo si volge alle società
“primitive” (che da ora in poi diventano il suo oggetto di studio > in particolare ne studia il pensiero
primitivo) che gli offrirono materiale etnografico su cui riflettere non solo in merito alla morale, ma
anche in relazione alle forme di pensiero (le funzioni mentali).
Le rappresentazioni “mistiche”
In Psiche e società primitive 1910, critica la tradizione dell’evoluzionismo inglese > le
rappresentazioni collettive, per quanto bizzarre, non erano - come pensavano gli evoluzionisti errori
di valutazione compiuti dalla rozza mente del primitivo nel tentativo di rintracciare le cause reali dei
fenomeni > le rappresentazioni collettive erano veri e propri fatti sociali (comuni al gruppo sociale e
trasmissibili nelle generazioni) che Bruhl vedeva, seguendo Dukheim, come già date nella società
(non bisognava dunque tentare di scoprirne l’origine prima) > per quanto possano essere primitive
le società osservate, noi incontriamo sempre spiriti socializzati presi già da una moltitudine di
rappresentazioni collettive che gli sono state trasmesse da una tradizione la cui origine si perde nella
notte dei tempi.
L’universo simbolico del primitivo era per Bruhl omogeneo all’universo sociale in cui il primitivo
stesso viveva. Era il carattere emotivo dell’esperienza sociale a generare tipi particolari di
rappresentazioni collettive che costituivano questo universo simbolico. Il gruppo sociale primitivo
viveva così un’esperienza mistica che si realizzava nelle pratiche del culto e del rito > in questo
contesto l’individuo non aveva un giudizio proprio e indipendente da quello che gli veniva imposto
dalla società.
Per Bruhl la mentalità primitiva è caratterizzata da una “impermeabilità all’esperienza” > es. gli
individui praticano la magia indipendentemente dai risultati che con essa possono ottenere in quanto
è la rappresentazione collettiva che impedisce loro di concentrare l’attenzione sui dati
dell’esperienza oggettiva.
Partecipazione e prelogicità
La mentalità dei primitivi è mistica e regolata da una logica che mira a coordinare tra loro le
rappresentazioni di natura mistica > Bruhl definisce questa tendenza della mentalità primitiva
partecipazione. Inoltre, in opposizione alla mentalità del pensiero civilizzato, vede la mentalità
19
primitiva come dipendente da una forma di ragionamento pre-logico.
Ne La mentalità primitiva 1922, si preoccupa, come la nostra, delle cause di ciò che accade, ma non
le cerca nella stessa direzione: vive in un mondo in cui innumerevoli potenze occulte dappertutto
presenti sono sempre attive e pronte ad agire > queste potenze erano ciò che la mentalità primitiva
coglieva nella loro relazione “partecipativa” dove la parte corrisponde al tutto e il gesto rituale
prefigura o addirittura sta per l’azione reale > questa relazione partecipativa determina la natura
prelogica della mentalità primitiva.
Pensiero pre-logico = non significa meno evoluto (come per gli evoluzionisti), ma a-scientifico e acritico > è una differenza qualitativa quella che c’è tra i popoli civilizzati e le società “primitive”.
Significato e limiti del prelogismo
Alcuni hanno visto questa distinzione tra pensiero prelogico e logico una sorta di variante del
pregiudizio etnocentrico e ciò è innegabile. Tuttavia questa distinzione rappresenta il tentativo di
organizzare una comprensione della differenza svincolata dai criteri evoluzionisti, questa teoria
della mentalità voleva conferire al primitivo un suo spazio reale di esistenza e di riconoscimento.
Levy-Bruhl non aveva esperienza di campo e di conseguenza considerava tutte le società primitive
equivalenti con l’effetto di poterle contrapporre in blocco alla società occidentale
Negli ultimi anni di vita Bruhl cambia opinione riguardo alla contrapposizione dei due pensieri
(prelogico mistico vs logico razionale): dai Quaderni pubblicati postumi nel 1949 risultò la sua
volontà di attenuare l’abisso che aveva tracciato tra i due tipi di pensiero attraverso la constatazione
di come, anche nella società positiva e scientifica, ci fossero tracce di atteggiamenti partecipativi,
mistici e pre-logici.
5) TRADIZIONI POPOLARI ED ETNOLOGIA IN ITALIA
A differenza di Gran Bretagna, Francia e Germania, dove lo sviluppo degli studi etno-antropologici
era legato alla scoperta del mondo coloniale, l’antropologia italiana emerse in relazione a studi
folklorici da una parte e da studi di ispirazione storico-giuridica relativi alla età classica dall’altra
(tradizione bicefala). La parte dello studio delle tradizioni popolari (o demologia) ha avuto il
sopravvento sulla seconda parte per molto tempo.
5.1 Demologia (tradizioni popolari)
Nei primi anni del 900 la cultura antropologica mostra un ritardo in Italia che può essere spiegato in
relazione al ritardo con cui era avvenuta l’Unità politica dell’Italia. Il soffermarsi sui costumi della
comunità italiane andava di pari passo con la riscoperta delle proprie origini > “raccolta delle
tradizioni popolari”.
La raccolta delle tradizioni popolari
Gran parte della produzione riconducibile agli studi sulle tradizioni popolari si configura come
parte della ideologia costitutiva dell’Italia postunitaria in via di formazione; in Italia la coscienza di
una eterogeneità di fondo del popolo italiano fu sempre presente negli studiosi delle tradizioni
popolari.
Dopo una una prima fase (1826-1839) caratterizzata da studi di tipo geografico-statistico su singole
località/regioni e da una ricerca di curiosità o di raccolta di forme liriche (rispetti e stornelli). In
questa prima fase le preoccupazioni di carattere storico non furono completamente assenti. Ebbe poi
inizio un secondo periodo (seconda metà dell’800) in cui si volevano individuare delle peculiarità
regionali non solamente per una semplice collezione di “curiosità”: grazie alla influenza esercitata
dalle correnti europee su alcuni filologi italiani, la ricerca assunse un indirizzo che mirava alla
ricostruzione storica di diffusione e distribuzione delle forme liriche all’interno della Penisola.
20
Studi svolti nella prima fase:
• Alberto La Marmora: inviato in Sardegna come ufficiale dell’esercito piemontese, raccolse
informazioni sulla vita delle popolazioni locali tentando una comparazione con i popoli
dell’antichità classica
• Niccolò Tommaseo: raccolta di canti popolari, ebbe epigoni non certo di pari livello.
La teoria del “nostrano etnico”
Seconda metà dell'800, con l'influsso delle correnti europee si assunse un indirizzo che mirava alla
ricostruzione storica di diffusione e di distribuzione delle forme liriche all'interno della Penisola.
Studi svolti nella seconda fase:
•
•
Alessandro D’Ancona
Costantino Nigra (1828-1907): elaborò la teoria del “sostrato etnico” nell’opera Canti
popolari piemontesi e in lavori di carattere teorico > sviluppò l’idea secondo la quale l’Italia
si presenta -dal punto di vista della produzione lirica popolare- divisa in due aree
geografiche, una superiore e una inferiore. Nella parte superiore erano comprese le regioni a
nord dell’Appennino tosco-emiliano, nella parte inferiore tutte le regioni a sud di
quest’ultimo. Nigra ricondusse i motivi prevalenti dell’area superiore all’elemento narrativo
storico-romanzesco e quelli dell’area inferiore all’elemento lirico-amoroso, ciascuno con
una sua struttura interna. Filologo celtista, cercò anche di correlare la “canzone” storicoromanzesca dell’area superiore alle liriche del medesimo genere presenti nell’area francese e
iberica. Infine cercò di mettere in rapporto le peculiarità dei contenuti delle liriche delle due
aree con i dialetti parlati, finendo per ricondurre queste differenze alla grande divisione tra
un mondo “italico” ed uno “celtico” entrambi nascosti sotto uno “strato” latino.
5.2 Tra antropologia e demologia
Italia, seconda metà dell’800: iniziano a prendere forma altri interessi. Studiosi rilevanti sono:
•
•
•
Paolo Mantegazza: lombardo, sostenitore dell’evoluzionismo biologico, in Italia diede un
decisivo contributo alla diffusione delle idee di Darwin; fu fondatore del Museo di
Antropologia e di Etnografia di Firenze (1969) e titolare della prima cattedra di
Antropologia a Firenze.
Tito Vignoli: toscano, fu professore di Antropologia alla Accademia Reale di Milano
(università) e direttore del Museo di Storia Naturale di Milano; evoluzionista, nel 1879
pubblica Mito e Scienza > era una esposizione della sua visione dell’evoluzione del pensiero
umano ed ebbe influenza sugli sviluppi successivi dell’iconologia (studio delle immagini).
Giuseppe Pitré: siciliano, medico, raccolse molte testimonianze popolari del mondo
siciliano; fu il vero iniziatore degli studi demologici nel nostro paese grazie a una lunga
opera di raccolta e registrazione etnografica > edificò la monumentale Biblioteca delle
tradizioni popolari siciliane (1871-1913) > nei 25 volumi di questa opera raccolse proverbi,
favole, credenze, pratiche magico-mediche, giochi e divertimenti popolari, chiamando
“demopsicologia” l’ambito di questo genere di studi; fonda un museo etnografico a Palermo
che porta il suo nome; è una figura di primo piano perché non fu uno studioso da tavolino
ma, in quanto medico, ebbe l’opportunità di frequentare assiduamente i ceti popolari
dell’isola.
21
5.3 Dall’esplorazione extra-europea all’etnografia dell’Italia: Lamberto Loria (1855-1913)
Nel corso dell'800 gli studi etnologici erano molto spesso considerati parte integrante di una
antropologia rivolta soprattutto allo studio delle caratteristiche fisiche.
La tradizione etnologica italiana fu per molto tempo subalterna al settore degli studi demologici.
Essa non nacque sul campo ma come filiazione in parte della tradizione storico-giuridica orientata
verso lo studio del mondo classico (in particolare quello romano-latino).
L’Italia ebbe, nella seconda metà del XIX secolo, eccellenti esploratori-etnografi, soprattutto
africanisti > le attenzioni sono riservate all’Africa poiché, alla fine dell’800, inizia a costituire
l’obiettivo dell’espansione coloniale italiana; vi fu qualche eccezione: Carlo Guarmani
(esplorazioni in Arabia) e Renzo Manzoni (esplorò lo Yemen).
Le ricerche di questi esploratori etnografici in Italia non furono realizzate all’interno di un progetto
scientifico sistematico.
La figura più rilevante fu quella di Lamberto Loria: nato ad Alessandria d’Egitto da genitori
italiani, viaggiò nel Turkestan, in Lapponia e in Eritrea, visitò la Nuova Guinea e le Isole Trobriand
raccogliendo importanti collezioni etnografiche.
Nell’ultimo periodo della sua vita si dedicò all’etnografia italiana interrompendo la sua attività di
esploratore > lui stesso parla di una “conversione”.
Nel 1906 fonda con altri il Museo di Etnografia italiana e nel 1910 fonda la Società di Etnografia
italiana e si fa promotore del primo Congresso Nazionale della stessa che si tenne l’anno successivo
nella capitale.
La mostra di etnografia italiana
Nel 1911 (cinquantenario unità d'Italia) organizzò la Mostra di Etnografia Italiana. Lo scopo era
quello di offrire ai visitatori un’immagine autentica dalla vita condotta dai diversi ceti popolari. La
mostra fu orientata da una vera e propria “politica della raccolta” dei reperti etnografici > un esame
del processo di organizzazione della mostra ha messo in luce come questi materiali vennero
riprodotti in base a una manipolazione dei reperti originali > la mostra risultava quindi basata
sull’uso ambiguo dell’autenticità e della finzione > i costumi “veri” non esistevano più e bisognava
produrne di nuovi secondo un modello che alterava il contesto entro cui i costumi erano stati
confezionati e riciclati > ciò che si presentava agli occhi dei collaboratori di Loria infatti erano
costumi vecchi e con parti mancanti: bisognava crearne di nuovi secondo un ideale estetico
estrinseco al contesto d’uso.
Attraverso questa finzione Loria e i suoi collaboratori produssero un effetto illusorio di autenticità.
Loria e i suoi misero in funzione strategie di “costruzione” identitaria con l’effetto di rendere il
costume popolare italiano qualcosa di “veramente autentico”.
Il Congresso della Società di Etnografia Italiana
Sempre nel 1911 Loria organizzò il Congresso della Società di Etnografia Italiana > il convegno
fu animato da interventi nei quali era possibile rintracciare una forte apertura alle correnti
internazionali che stavano assumendo consistenza in Francia e Gran Bretagna; lo slancio dato da
questo convegno agli studi etnografici si affievolì negli anni successivi come effetto della
scomparsa di Loria, dello scoppio del conflitto mondiale e del clima culturale allora dominante in
Italia (dove iniziano a prevalere definitivamente gli studi demologici su quelli etnologici, come
dimostra anche la “conversione” di Loria).
I motivi di un “ritardo” e di un “dominio”
I motivi che hanno portato la tradizione demologica a sopravanzare quella etnologica sono vari e
complessi: storici, politici, accademici e culturali. Tra questi:
• breve durata della dominazione coloniale italiana
• idealismo filosofico italiano che provoca il mancato radicamento del naturalismo
positivistico (Gran Bretagna e Francia).
• “Manifesto della razza” sotto la dittatura fascista: discriminazione di alcune categorie di
22
•
•
italiani non ritenuti sufficientemente ariani da parte del regime.
Nei secoli precedenti mancanza di uno stato nazionale che avesse imposto una lingua
standard, delle strutture burocratiche uniformi e delle leggi valide.
forti disparità sul piano economico tra le diverse regioni (nord vs sud) e i ceti sociali stessi.
6) L’ETNO-SOCIOLOGIA FRANCESE
L'influenza di Durkheim con i suoi concetti di fatto sociale e di coscienza collettiva fu enorme
non solo nel pensioro sociologico francese ed europeo, ma anche su quello etnologico che, in
Francia, avrebbe lentamente acquistato una propria autonomia rispetto alla corrente sociologica.
In Francia sociologia ed etnologia rimasero per lungo tempo legate tra loro. Per Durkheim infatti la
sociologia era un sapere comparativo e riteneva lo sviluppo di questa disciplina inscindibile dalla
conoscenza relativa a tutte le società > molti furono influenzati da questo pensatore e videro queste
due discipline “unite”.
L’originalità della riflessione etno-sociologica francese consisteva nel tentativo di cogliere, dietro i
fenomeni sociali, le ragioni nascoste del loro accadere: si cominciò così a parlare di classificazioni,
opposizioni, strutture, etc > concetti che, secondo Durkheim, avrebbero dovuto descrivere i modi
in cui il pensiero collettivo si rappresenta la realtà sociale e naturale.
6.1 La morte, il sacro, il profano: Robert Hertz (1882-1915 > morto prematuro per la guerra)
Robert Hertz studiò le rappresentazioni collettive definite da Durkheim; scrisse due opere
fondamentali: Contributo allo studio sulla rappresentazione collettiva della morte 1907 e La
preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa 1909 > sono pubblicate su L’Annee
sociologique, la prestigiosa rivista fondata nel 1898 da Durkheim; fu uno degli iniziatori della
antropologia “alpina” avendo compiuto agli inizi del 900 uno studio sul Santuario di San Besso a
Cogne e del pellegrinaggio a esso collegato > questa è la sua unica ricerca “sul campo”; aveva una
formazione filosofica; due sono le regioni che gli forniscono materiale per le sue riflessioni più
rilevanti: l’Indonesia e il Borneo.
L’idea ispiratrice che sta alla base dei lavori di Hertz può essere ricondotta alla problematica
durkheimiana della coesione sociale > per quanto riguarda la rappresentazione collettiva della
morte, per esempio, essa sollevava un problema più vasto, ovvero quello della comprensione dei
meccanismi grazie a cui una società riesce a mantenere viva la propria identità e coesione; le
credenze dei primitivi riguardo alla morte per Hertz (al contrario di Tylor e Frazer) non
costituivano delle “spiegazioni” e quindi l’origine del pensiero religioso, ma esse erano delle
“rappresentazioni collettive”, cioè dei processi mentali (come sostenuto da Durkheim) condivisi da
tutti i membri di una società che investivano le relazioni tra il singolo e la comunità, oltre che i
valori fondamentali del gruppo sociale.
Lo “scandalo” della morte
1907, Contributo allo studio sulla rappresentazione collettiva della morte: Hertz sottolineò come la
morte è sentita diversamente dai vari popoli sia a livello culturale che sociologico > alla morte di un
capo o di un uomo con grande dignità infatti, un senso di panico colpisce il gruppo mentre al
contrario la morte di uno straniero, di uno schiavo o di un bambino passa inosservata; la morte di
fatto distrugge sia il corpo che l’essere sociale dell’individuo > il rapporto dell’individuo con il
gruppo di cui fa parte e dal quale trae la sua stessa identità sociale finisce e per questo la comunità
vede la morte di un suo membro come un attacco alla propria coesione. Il gruppo deve quindi
ristabilire quell’equilibrio -che la scomparsa di un individuo ha alterato- attraverso una serie di
rituali atti allo scopo: i rituali funebri.
Hertz si interessò in particolare dei rituali delle popolazioni del Borneo, che consistevano in due riti
distinti intervallati da un periodo di lutto. Subito dopo la morte di un individuo c’erano le prime
esequie, seguite dopo un certo tempo, da un altro rito più solenne del primo, durante il quale veniva
23
data una sistemazione definitiva ai resti del defunto. Era questo il rito della seconda sepoltura che
Hertz prese come punto di partenza per la riflessione sul significato sociologico della morte in
quanto oggetto di rappresentazioni collettive.
La morte come transizione
In questo doppio rito funebre, Hertz individuò il carattere fondamentale che la morte ha presso tutte
le società, cioè quello di una transizione da uno stato all’altro, dalla comunità dei vivi a quella dei
defunti. I riti funebri erano simili a quelli della nascita e del matrimonio, perché anch’essi
sancivano il passaggio da una condizione sociale ad un’altra. Lo “scandalo” rappresentato dalla
perdita di un membro del corpo sociale si traduce dunque in una re-incorporazione in quella che è la
continuità del mondo dei vivi, e cioè il mondo dei defunti. Questa affermazione di continuità, che
corrisponde alla credenza in una vita ultraterrena, è caratteristica di tutte le società e di tutte le
religioni.
Destra e sinistra: sacro e profano
1909, La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa: opera da scritta da Hertz in
quanto ritenne insoddisfacenti le spiegazioni della neurofisiologia relativa alla prevalenza del lato
destro del corpo umano e volle dare una diversa spiegazione.
Per Hertz la preminenza della mano destra era una vera e propria istituzione sociale; riguardo
questo argomento riprese il tema/distinzione del sacro e del profano analizzato da Durkheim e
ancora prima da Smith; queste due dimensioni spingono gli esseri umani a strutturare l’universo
secondo un principio bipolare: le cose, i fenomeni naturali, gli animali, gli esseri vegetali e umani
sono distribuiti concettualmente tra questi due opposti, la destra e la sinistra, che riproducono la
distinzione più generale tra sacro e profano.
Questa distribuzione bipolare tra destra e sinistra era sottolineata dalle lingue indoeuropee in cui il
termine destra aveva la stessa origine in tutte le lingue (dalla radice sanscrita deks), mentre la
sinistra variava, forse anche perché la destra era solitamente associata al positivo, alla forza fisica,
al buon senso, alla felicità, mentre la sinistra era legata all’inquietudine.
Hertz arriva a individuare un principio di opposizione fondamentale nelle forme di classificazione
tipiche del pensiero umano il quale si traduceva in una catena di opposizioni (maschile/femminile,
chiaro/scuro, etc.) che fanno riferimento all’opposizione sacro-profano.
6.2 I riti di passaggio: Arnold Van Gennep (1873-1957)
Arnold Van Gennep si mosse ai confini tra l’etnologia e folklore, di cui può esserne considerato
uno dei padri fondatori in Francia con l’opera Manuel du folklore francais contemporain (19371958); il suo lavoro fu duramente criticato dagli allievi di Durkheim (la corrente allora dominante),
in particolare Mauss (allievo di Durkheim), per aver praticato un tipo di comparazione tipico degli
evoluzionisti britannici, quando invece i durkheimiani preferivano scegliere dei “fatti elementari”
per poi costruire, sulla base di essi, una teoria generale de fenomeni “sociali”. > rimase in ombra e
solo dopo la seconda guerra mondiale fu riconosciuto in tutta la sua importanza; la sua opera più
celebre fu I riti di passaggio del 1909, accolta non cordialmente sulle pagine della rivista della
scuola di Durkheim, L’Annee sociologique.
Il significato sociologico dei riti di passaggio
In Riti di passaggio ipotizza e intuisce che la vita degli individui fosse scandita, presso tutti i gruppi
umani, da una serie di riti che sanzionano pubblicamente il passaggio da una condizione sociale ad
un’altra. Questi “riti di passaggio” erano cerimonie che rendevano meno traumatici i cambiamenti,
sia per la società che per gli individui interessati. Questi riti investivano, man mano che si
retrocedeva nella “scala della civiltà”, aspetti sempre più numerosi della vita individuale e collettiva
che, agli occhi di noi “civilizzati”, appaiono come profani e non richiedono una ritualizzazione.
Secondo Van Gennep infatti, nelle società prescientifiche (come con autori Roberson Smith e
Durkheiim), il mondo è diviso nelle categorie di profano e sacro e il secondo termine prevale sul
primo. Ogni evento di interesse sociale (morte, nascita, pubertà, parto), tutto deve essere
accompagnato da riti di passaggio atti a scandire la transizione da uno stato all'altro degli individui
24
coinvolti.
La struttura tripartita dei riti
Gennep all’interno di ogni rito di passaggio, egli distinse 3 fasi, ognuna caratterizzata da rituali
specifici:
¬
¬
¬
separazione (riti preliminari)
margine (riti liminari): è la fase più importante perché consente di attenuare il carattere
traumatico del passaggio dalla fase iniziale di distacco da una determinata condizione alla
fase della incorporazione in un’altra categoria sociale sotto forma di acquisizione di un
nuovo status; inoltre è la fase più delicata perché la condizione indefinita di
“sospensione” di chi si sottoponeva al rito era considerata come portatrice di forze
giudicate pericolose per la comunità; (in Hertz questa fase corrispondeva allo “stadio
transitorio” che stava tra le due esequie);
aggregazione (riti postliminari).
Il comparativismo di Van Gennep non aveva il significato che gli attribuiscono i suoi critici, i quali
videro nella quantità dei dati da lui citati un cedimento alla tradizione evoluzionista e una volontà di
trovare ovunque dei riti che si somigliavano.
Van Gennep voleva invece confermare, al di là delle somiglianze, l’esistenza di ciò che era per lui
l’essenza di ogni sequenza cerimoniale, ovvero la sua tripartizione > accentuò dunque l’aspetto
simbolico del rituale, precisando che erano le connessioni logiche tra le fasi del rito a dover
interessare gli etnologi e non i contenuti.
I riti come classificazione del sociale?
L’accentuazione dell’aspetto simbolico dei riti emerge anche nell’opera del 1920, Lo stato attuale
del problema totemico; Van Gennep qui critica l’idea di Durkheim e Mauss secondo cui la prima
forma di religione (il totemismo) sarebbe stata all’origine di ogni forma di classificazione della
realtà sociale e naturale > per lui, al contrario, il principio classificatorio era un’istanza che
precedeva qualunque altra attitudine dell’intelletto umano compresa quella religiosa, poiché anche i
popoli che non conoscono il totemismo hanno un loro sistema di classificazione.
Alla luce della considerazione dell’attitudine classificatoria come uno degli elementi primordiali del
sistema di organizzazione sociale e generale, i riti di passaggio sembravano svelare un’altra
funzione: non solo sanciscono il passaggio da uno status sociale all’altro, ma sono anche l’”artificio
sociale” attraverso il quale gli esseri umani rendono comprensibile a se stessi la transitabilità da una
all’altra delle diverse condizioni in cui è classificato l’universo sociale.
6.3
Lo studio dei fatti sociali “totali”: Marcel Mauss (1872-1950)
Marcel Mauss Fu l’ultimo grande allievo di Durkheim; non compì mai delle ricerche sul
campo, tuttavia fu promotore della ricerca etnografica e a lui si deve se, dal 1920, la
riflessione sociologica francese sulle società “primitive” si orientò definitivamente verso la
ricerca empirica costituendosi quindi in etnologia; con Bruhl e altri promosse la fondazione,
nel 1925, dell’Institut d’ethnologie dell’Università di Parigi; filosofo di formazione semitista,
conoscitore della storia delle religioni, insegnò all’Ecole pratique des hautes etudes e poi
anche all’Istitut imprimendo al suo insegnamento un carattere etnologico.
La produzione di Mauss fu vasta e spaziò in tutti i campi: magia, religione, studi sull’idea di
persona, lavori sulla classificazione, ricerche sulle tecniche del corpo e sulla morfologia
sociale, studi sul sacrificio, sul dono e interventi sulla vita politica della Francia.
Le forme di classificazione e l’omologia strutturale (da riguardare)
1901/2, Su qualche forma primitiva di classificazione : quest’opera fu realizzata in collaborazione
con Durkheim e il suo scopo era quello di mostrare come la classificazione dell’universo naturale
25
non dovesse essere considerata come l’effetto di un’attitudine “spontanea” della mente umana, tesi
invece sostenuta da Van Gennep.
Gli esseri umani non raggruppano istintivamente in categorie oggetti ed esseri animati che
esperiscono (contiguità, somiglianza), ma li raggruppano avendo in mente la ripartizione degli
stessi esseri umani in gruppi sociali > per sviluppare questa idea di una omologia tra l’ordine della
società e l’ordine attribuito dagli esseri umani alla natura, i due autori considerano la società degli
aborigeni australiani (ritenuta allora quella più primitiva) come punto di partenza della loro analisi.
Le società australiane avevano il sistema più semplice di organizzazione sociale esistente: erano
divise in classi matrimoniali - gruppi esogamici non fondati sulla discendenza, ma sua altri criteri di
assegnazione sociale-.
I due autori cercano di stabilire come la loro classificazione di persone, animali e cose avvenga
secondo criteri omologhi alla divisione sociale in classi matrimoniali.
Ogni classe aveva un nome di un animale (totem) e gli era associata una serie di fenomeni naturali,
di animali e di oggetti: il mondo era in tal modo ordinato/classificato in categorie direttamente
legate alle suddivisioni della loro società + ad una variazione della società corrispondeva una
variazione nell’ordine del sistema di classificazione.
La società appare dunque come ciò che proietta il suo ordine sul sistema delle rappresentazioni.
Da questi studi deriva l’idea dell’omologia strutturale del sociale e del simbolico + l’immagine di
una pluralità di livelli simbolici di natura eterogenea ma strutturati secondo lo stesso sistema di
relazioni (omologo) sul piano formale. xx
Il fatto sociale “totale”
L’ipotesi della omologia strutturale spinge Mauss a cercare quegli elementi del sociale (che
chiama, sull'esempio di Durkheim, fatti sociali) suscettibili di coinvolgere, nel loro accadere,
la pluralità complessiva dei livelli sociali: i fatti sociali totali.
Un esempio di studio di questi fatti è l’opera del 1904, Saggio sulle variazioni stagionali delle
società eschimesi, scritto in collaborazione con Henry Beuchat; Mauss di fatto analizza la
diversa disposizione “morfologica” (il modo diverso in cui i gruppi si riunivano e si
disperdevano) che la società di questi cacciatori artici tendeva ad assumere nelle diverse
stagioni dell’anno (dispersione dei nuclei familiari in estate e loro concentrazione in inverno)
dal punto di vista del significato totale che essa rivestiva sul piano sociologico.
Per Mauss le tendenze di dispersione e unione di questi gruppi andavano considerate in
relazione al variare dell’intensità della vita sociale: riti, feste e relazioni raggiungevano la
massima frequenza d’inverno, mentre cessavano in estate quando i gruppi si disperdevano
sulle tracce degli animali > la vita sociale degli Eschimesi aveva una natura bipolare e ciclica
che si realizzava nell’alternare “collettivismo” e “individualismo” a seconda che le relazioni
sociali vivessero o meno la loro massima intensità.
Questa bipolarità si rifletteva anche a livello simbolico: le rappresentazioni di persone, cose,
animali e fenomeni naturali erano infatti associate all’uno o all’altro termine della opposizione
stagionale attorno alla quale si costituiva la vita di questi gruppi.
Mauss vedeva quindi nella morfologia dei gruppi sociali non qualcosa che dovesse essere
spiegato, ma invece qualcosa che al contrario permetteva di spiegare i diversi aspetti della vita
di una comunità.
Per Mauss la diversa forma di aggregazione che la società assumeva a seconda delle stagioni
era un fatto sociale totale perché gettava lo sguardo su una molteplicità di altri elementi della
vita sociale.
La teoria del dono
1923-4, Mauss torna a interessarsi di fatti sociali totali e scrive il famoso Saggio sul dono (Essai
sur le don), forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche: questo fa riferimento agli studi
etnografici sul potlatch di Boas e sullo scambio cerimoniale kula di Malinowski caratteristico di
alcune isole della Melanesia > questi lavori sembravano dimostrare che, anche presso le società
primitive, esistevano fenomeni complessi e articolati di scambio e circolazione dei beni materiali.
Mauss interpreta questi fenomeni come tipici esempi di fatto sociale totale. Questi fenomeni erano
strettamente legati ad altri aspetti della vita sociale di queste popolazioni: essi sembravano essere al
26
centro delle relazioni tra individui e tra gruppi caratterizzate da varie forme di scambio basate sul
principio della reciprocità. Mauss raggruppò questi fatti sociali totali sotto la categoria del dono,
sottolineando il carattere apparentemente libero e gratuito ma allo stesso tempo obbligato di esso.
Mauss cercava di spiegare questi fenomeni attraverso il principio secondo il quale la società impone
agli individui di comportarsi in base a delle regole che spesso sfuggono ai suoi stessi membri, come
aveva sostenuto Durkheim.
La teoria indigena
Tre erano le regole alla base della teoria del dono per Mauss: dare, ricevere, ricambiare >
attraverso queste fasi si strutturava il principio di reciprocità.
Mauss riconduceva tale principio (obbligatorio) a una qualità intrinseca agli oggetti scambiati, che
li assimilava alla persona che li aveva posseduti e che rimaneva in essi anche dopo che erano passati
nelle mani di un’altra. La mancata restituzione degli oggetti donati quindi avrebbe prodotto
l’interruzione dello scambio che sarebbe diventato a sua volta un danno per il trasgressore della
regola: la qualità presente nella cosa, infatti poteva vendicarsi sul trasgressore in quanto forza
appartenente al possessore originario della cosa donata, la forza “magica” di colui che l'aveva
ceduta.
Queste idee nacquero in Mauss a partire dalla lettura della etnografia polinesiana e dalla teoria dello
hau dei Maori (Nuova Zelanda). Lo hau sarebbe infatti, secondo i Maori, lo spirito della cosa
donata, ciò che pone colui che riceve il dono in una posizione di “debito” nei confronti del donatore
e lo obbliga quindi a ricambiare per restaurare una specie di equilibrio delle forze alterato dall’atto
del donare.
Questo principio della reciprocità valeva sia per gli individui che per i gruppi coinvolti negli
scambi.
Mauss arriva a sostenere che le pratiche del dono rappresenterebbero delle variazioni di un
commercio di ordine nobile per stabilire pacifiche relazioni tra i capi nel caso del kula, mentre nel
caso del potlatch rappresenterebbero un costante torneo per acquisire prestigio.
Secondo Levi-Strauss, autore che riprenderà Mauss sul principio di reciprocità, l’aver assunto una
teoria indigena come spiegazione di un fenomeno era un grande progresso perché si affrontava un
problema etnografico prendendo le mosse da una teoria indigena piuttosto che servirsi di nozioni
occidentali ( come animismo, mito, partecipazione) tuttavia l’aver assunto la teoria hau come
spiegazione del fenomeno era anche un limite > lo hau infatti non costituisce la ragione ultima dello
scambio, esso è la forma cosciente mediante cui gli uomini di una società hanno colto una necessità
la cui ragione è altrove, con altrove Strauss allude ai principi inconsci che secondo lui stanno alla
base del principio di reciprocità, un principio che, oltre al dono, regola lo scambio matrimoniale.
Il Saggio sul dono e molto importante, apre a una migliore comprensione del ruolo sostenuto e del
posto occupato dalla dimensione economica delle “società primitive”, suggerisce nuove prospettive
nello studio delle dinamiche sociali e degli studi sulla parentela.
7)
GLI SVILUPPI DELL’ETNOGRAFIA AGLI INIZI DEL NOVECENTO
1890, Il ramo d’oro di Frazer > svolta rispetto alla mentalità evoluzionista che aveva dominato il
mondo scientifico nella seconda metà dell’800
Gli ultimi anni della regina Vittoria sono caratterizzati da profonde trasformazioni:
• crescita della Germania e degli Stati Uniti sul piano economico;
• crescita della Germania e della Francia in campo coloniale.
• inasprimento della concorrenza nazionale che non consente di guardare più alla Gran
Bretagna come all’indiscussa dominatrice;
• pur rimanendo la più forte, la Gran Bretagna comincia quel lento periodo di declino che
appare tale solo alla fine della Prima Guerra Mondiale.
L’idea di evoluzione e progresso sociale non costituisce più un elemento indiscusso del panorama
27
intellettuale.
Si assiste a una “crisi delle certezze + alla nascita di teorie come la psicoanalisi di Freud e la teoria
della relatività di Einstein > lo studio della psiche e del mondo fisico come ribaltamento di
prospettiva > Il soggetto conoscente non era più un punto di riferimento assoluto.
L’antropologia positivista nata con lo scopo di studiare le società “primitive” ora rintraccia elementi
di “primitività” nello stesso pensiero occidentale > dov’era la linea di separazione tra selvaggi e
civilizzati? Era possibile conoscere le società primitive soltanto attraverso uno sgurdo lontano e
distaccato?
7.1 Teorici e ricercatori sul campo
Un tratto saliente della ricerca antropologica per tutto l’800 fu una separazione tra antropologi,
coloro che riflettevano sulle società primitive dal punto di vista teorico, ed etnografi, coloro che
raccoglievano dati sul campo.
Ad eccezione di alcuni studiosi americani (es. Morgan) olto spesso la tecnica adottata per
raccogliere dati etnografici fu quella dei questionari: essi venivano inviati ai “men on the spot”
(uomini sul posto) cioè Europei che avevano, a vario titolo, contatti frequenti con i nativi delle
colonie > questi questionari, promossi da istituzioni scientifiche e adottati anche da singoli studiosi
(Taylor, Frazer), avevano vari limiti tra cui il fatto che, spesso, quelli che dovevano compilarli
erano portatori di pregiudizi / non capivano lo spirito di coloro che avevano formulato il
questionario.
Vi furono tuttavia delle eccezioni tra questi etnografi corrispondenti:
-
Lorimer Fison e Alfred W. Howitt (missionari attivi in Australia nell’ultimo quarto
dell’800, corrispondevano con Morgan, Tylor, Frazer): scrissero nel 1880 Kamilaroi and
Kurnai, opera fondamentale per la conoscenza della organizzazione sociale delle comunità
degli aborigeni che in quel periodo erano oggetto di particolare attenzione per gli etnologi
(si avvertiva l’urgenza di raccogliere dati su una popolazione considerata in rapida
disintegrazione sul piano culturale e di regresso a livello demografico + gli aborigeni erano
visti come rappresentanti di uno stato remoto della umanità e la loro società, la più semplice,
era considerata quella in cui leggere la fase aurorale di molti fenomeni tra cui quello della
prima religione, cioè il totemismo).
Collaborazione tra antropologi ed etnografi > la più famosa è quella che lega, a partire dal
1896, Frazer a William B. Spencer (professore di biologia a Melbourne) e Francis J. Gillen
(magistrato e poi diventato resident nell’Australia centrale); Spencer e Gillen pervennero a una
conoscenza notevole della vita degli Australiani ed ebbero intensi contatti con gli aborigeni (essi, in
segno di gratitudine nei confronti di Gillen che li aveva protetti dalle brutalità della polizia
australiana, consentirono ai due studiosi di assistere alle loro cerimonie e di fotografarle); Spencer
e Gillen scrissero importanti opere etnografiche tra cui The Native Tribes of Central Australia 1899
e The Northern Tribes of Central Australia 1904
Ultimo scorcio XIX secolo, in Gran Bretagna, la ricerca etnografica riceve grande impulso da
programmi di studio che prevedevano la raccolta sistematica di dati su base regionale:
1884 vien promosso un progetto (tra i cui promotori vi fu Tylor) relativo alla costa del Pacifico
canadese destinato ad avere grande impatto sugli sviluppi della antropologia statunitense in quanto
vide la partecipazione di Franz Boas che si sarebbe poi trasferito in America.
1892 piano per la realizzazione dell’Ethnographic Survey of the United Kingdom, progetto che
mirava alla raccolta sistematica di dati di tipo fisico-antropologico, etnologico, archeologico e
folklorico di tutte le Isole Britanniche + negli stessi anni nacque il monumentale Imperial Gazetteer
of India in cui funzionari, amministratori ed etnografi raccolsero una massa impressionante di dati
28
relativi alle varie popolazioni delle province dell’India britannica.
Tutte queste grandi survey (ricognizioni) etnografiche rientravano in un piano di collaborazione tra
la giovane antropologia e l’amministrazione coloniale e contribuirono allo sviluppo della nostra
disciplina sul piano accademico; esse consistevano nella compilazione di rapporti ottenuti mediante
la raccolta di dati di vario tipo, raccolta che avveniva per opera di più ricercatori che soggiornavano
per brevi periodi presso le comunità oggetto di studio; spesso condotte da anonimi ricercatori o
funzionari, queste survey cominciarono pian piano a vedere la partecipazione di studiosi
professionali e divennero stile caratteristico della ricerca di singoli studiosi che combinavano
l’attività etnografica con lo studio teorico.
7.2 I “nuovi etnografi”
Come la disciplina si radicò nelle università britanniche, esse divennero i principali motori della
ricerca > vi fu un declino della raccolta dei dati “a distanza” attraverso l’impiego di corrispondenti.
La spedizione allo Stretto di Torres
Tra coloro che in questo periodo nelle università britanniche diedero maggiormente impulso alla
etnografia vi furono ricercatori con una formazione di tipo scientifico (biologi, psicologi, medici) >
ciò influì sulle tecniche di raccolta dei dati sul campo le quali prevedevano classificazioni
sistematiche dei campioni per “tipi”, sul modello delle scienze naturali.
Alcuni di questi scienziati avevano preso parte, nel 1888, a ricerche di biologia marina nel braccio
di mare che separa l’Australia dalla Nuova Guinea, lo Stretto di Torres; tra questi vi era Alfred
Cort Haddon > al ritorno della spedizione pubblica un resoconto della sua esperienza a contatto
coi “nativi” che ebbe molto successo > ciò lo spinse a dedicarsi completamente alla antropologia.
Haddon si batté per una seconda spedizione scientifica allo Stretto di Torres (1898-1899) che
includesse anche un programma etnologico: egli fu così convincente che la spedizione, organizzata
dall’Università di Cambridge, fu espressamente dedicata alla raccolta di dati etnografici > questa
spedizione costituisce una pietra miliare nella storia della antropologia: essa fu diretta da Haddon
che coinvolse molti altri studiosi ed ebbe un successo straordinario > venne raccolta una preziosa
collezione di oggetti oggi conservati nel museo etnografico di Cambridge + l’antropologia fu
consacrata definitivamente sul piano accademico.
Dopo questa spedizione ve ne furono altre in Africa centrale, Malesia, Australia e Oceania
(Melanesia e Polinesia).
Ciò che più conta è la prosecuzione delle indagini sul campo da parte di ricercatori per i quali un
soggiorno più o meno prolungato tra i “nativi” era necessario per potere stabilire con essi la
confidenza necessaria per conoscere la loro società e cultura > in questi anni emerge una nuova
figura di etnografo
Le ricerche si moltiplicano
La svolta fu rappresentata dai cosiddetti “nuovi etnografi” (britannici) = studiosi che, dopo una
preparazione di tipo teorico, si recavano direttamente sul campo per raccogliere informazioni
direttamente dai “nativi”; tra loro, detti anche antropologi “della generazione di mezzo”,
ricordiamo: Edward Westermark: ricerche in Marocco; Charles Seligman: ricerche in Africa e India;
Robert R. Marett: ricerche in Melanesia; Arthur M. Hocart: ricerche in Polinesia; John Layard:
ricerche alle Nuove Ebridi; William H. R. Rivers: ricerche in India, Polinesia e Melanesia.
Anche nei paesi di lingua tedesca e in misura minore in Francia l’etnografia conobbe un notevole
sviluppo in questo periodo.
Il lavoro di questi etnografi era frutto di nuovi metodi di ricerca applicati sul campo > l’etnografia
di questo periodo riflette gli importanti cambiamenti sul piano metodologico > viene abbandonato il
metodo comparativo evoluzionista e si passa a ricerche concentrate su singoli gruppi e poco
29
numerosi + non si riflette più da lontano, gli antropologi si recano direttamente presso la
popolazione da studiare > si passa dalla survey (ricognizione rapida e superficiale) alla monografia
etnografica.
Novità del genere monografico:
-
si dedica a molteplici aspetti della vita sociale e culturale del gruppo
riflette la maggiore consapevolezza dei ricercatori dell’importanza della conoscenza
approfondita di una società/cultura intese come “totalità”
producono conoscenze puntuali e dettagliate
si cerca di conoscere il grado di interrelazione dei fenomeni appartenenti allo stesso ambito
socioculturale
Il genere monografico era destinato a produrre l'incremento della conoscenza anche effetti
significativi sul piano della concezione stessa dell’oggetto dell’antropologia: uno di questi fu una
rappresentazione delle popolazioni studiate dagli antropologi come di gruppi dotati di una propria
cultura distinta da quella di altri (ci si concentra sullo studio di una tribù/comunità mettendo in
secondo piano le relazioni che essa aveva con altre comunità simili).
Antropologi e missionari
L’affermazione della antropologia non fu priva di ostacoli > tra i maggiori concorrenti degli
antropologi vi erano infatti geografi, storici delle religioni, filologi e soprattutto i missionari.
I missionari, sull’onda della espansione coloniale, avevano intrapreso una massiccia e metodica
impresa di “conversione” delle popolazioni “primitive”. Si erano installati in ogni angolo del
pianeta e la maggior parte era animata da fini evangelici, anche se vi era chi si interessò a conoscere
i “costumi” dei primitivi. Tra questi ultimi missionari, alcuni seppero guardare con vero e proprio
interesse scientifico alla cultura dei “primitivi” e produssero dei lavori di rilievo: essi sono Fison e
Howitt in Australia, Robert H. Codrington in Melanesia (monografia The Melanesians 1891), il
tedesco Carl Strehlow in Australia (opera sugli Aranda e i Loritja).
I missionari-etnografi diedero contributi notevoli, tuttavia gli antropologi erano figure diverse da
questi: erano legati ad ambienti accademici, erano “scienziati” laici e non avevano interesse a creare
conversioni o trasformazioni sui popoli studiati > per gli antropologi i “primitivi” dovevano essere
protetti dal rullo compressore della cultura occidentale. Gli antropologi dunque dovettero
organizzare un modello di “condotta scientifica” che li mettesse in grado di fronteggiare la
concorrenza dei missionari > cominciarono a vantare una superiorità scientifica ed elaborarono
raffinate tecniche di indagine che controbilanciassero la vasta conoscenza che i missionari avevano
dei nativi in quanto vivevano con loro + che rendesse la disciplina degna di figurare nelle
università.
7.3 Etnografia ed etnologia nella Mitteleuropa
Nell’Europa centrale di lingua tedesca, ma anche in quella orientale, dove il tedesco era la lingua
della comunicazione scientifica, le teorie evoluzioniste non avevano conosciuto uno sviluppo pari a
quello avuto nell’area anglosassone e francese > nella seconda metà dell’800 infatti gli interessi di
quest’area comprendevano invece lo studio della letteratura, delle tradizioni popolari, delle
comunità contadine, dell’aspetto fisico dell’uomo, dei popoli extraeuropei.
Negli imperi Tedesco e Austro-ungarico gli interessi etnologici furono dunque meno legati alla
storia coloniale: l’impero Austro-ungarico infatti non ebbe mai possedimenti al di fuori dell’Europa,
mentre quello Tedesco entrò sulla scena del colonialismo in un periodo tardo (Congresso di Berlino,
30
1885) rispetto alle altre nazioni
L’etnologia mitteleuropea (area della lingua tedesca e slava) si sviluppò inizialmente grazie a
geografi, naturalisti, medici e missionari per assumere una fisionomia accademica solo agli inizi del
900.
Le caratteristiche dell’etnografia di lingua tedesca
Come detto, l’evoluzionismo culturale non fu una corrente particolarmente seguita nell’area
tedesca: Adolf Bastian, che molti ritengono il fondatore della antropologia tedesca, non era un
evoluzionista ma un positivista profondamente convinto della priorità dell’osservazione sulla
speculazione teorica; fu un grande etnografo, ispiratore di spedizioni etnologiche, organizzatore e
promotore di iniziative in campo museografico.
L’antropologia mitteleuropea, una grande scuola etnografica, si distingue per (seconda metà-fine
800/anni 20 del 900):
¬ La straordinaria prolificità in campo etnografico: Bastian ebbe allievi di valore > Karl von
den Steinen americanista -Amazzonia- e oceanista, Theodor Koch-Grunberg area
Amazzonica, Max Schmidt Sudamerica, Alois Musil Medio Oriente -beduini-. Questi autori
esprimono una concezione dell’etnografia come studio diretto e prolungato sul campo di una o
più popolazioni
¬ La sua natura “diasporica”: dopo la dissoluzione degli imperi Tedesco e Austro-ungarico,
anni 20-30 del 900, etnografi ed etnologi influenzati dal marxismo lasciarono questi paesi per
andare in Gran Bretagna o negli USA (diaspora etnologica) > il clima politico culturale
nell’area della Mitteleuropa infatti si era fatto sempre più opprimente (nazionalismo
aggressivo, antisemitismo e anticomunismo rendevano la situazione poco favorevole allo
studio della alterità culturale); un fenomeno analogo accadde nella Russia post-rivoluzionaria
di Stalin
¬ Tendenza a trasformarsi in un’antropologia speculativa, irrazionalista e a volte
reazionaria: a seguito della diaspora, l’etnologia di lingua tedesca ebbe paradossalmente il suo
momento di massima celebrità e influenza teorica > in una atmosfera sempre più opprimente si
affermarono, in etnologia, teorie della storia culturale tendenzialmente degenerazioniste (anche
se non esplicitamente razziste) i cui esponenti furono emarginati negli anni della nazificazione
in quanto troppo “moderati”. Non mancarono poi antropologi ed etnologi che aderirono al
nazismo.
Anche se non coinvolto nei progetti di discriminazione razziale, l’etnologo austriaco Richard
Thurwald ricoprì posti importanti all’Università di Berlino, fondando istituiti e riviste che esistono
ancora oggi. Egli fu forse l’unico antropologo di lingua tedesca non espatriato che, per i suoi studi
etnografici in Oceania, Nuova Guinea, Africa e per i suoi lavori di antropologia economica, ha
goduto di una notevole considerazione da parte dei suoi colleghi all’estero (britannici e americani).
Con la partenza, allontanamento o marginalizzazione degli studiosi legati alla tradizione empirista,
razionalista o marxista ebbero larga influenza le teorie (“irrazionaliste”) di alcuni geografi come
Friedrich Ratzel (antievoluzionista) che, alla fine dell’800, avevano prospettato una visione della
storia culturale come sviluppo a partire dall’influenza esercitata da alcuni popoli “superiori” su
altri. Sostenendo la politica coloniale tedesca, Ratzel coniò l’espressione “spazio vitale”
(Lebensraum), indicando con essa la meta dei popoli germanici.
Ratzel era antievoluzionista ma non aveva quell’inclinazione etnografica e quella “simpatia” per i
popoli “primitivi” che aveva Bastian.
31
7.4 L’etnologia tedesca dall’etnografia al diffusionismo: la teoria dei “cicli culturali”
Nell’area di lingua tedesca l’interesse per la dimensione storica caratterizzò per tutto l’800 lo
studio della società e della cultura. Quando il razionalismo scientifico positivista di Bastian lasciò
il posto alle teorie di Ratzel, anche in etnologia la dimensione storica divenne centrale.
L’incontro tra dimensione storica e dimensione geografica
La cosiddetta “teoria dei cicli culturali” (Kulturkreislehre) nacque durante gli ultimi anni dell’800
sulla spinta della “storia culturale” (Kulturgeschichte) > diversamente dall’evoluzionismo, la storia
non era intesa come uno sviluppo che avveniva in base a leggi naturaliste, ma come un processo di
sviluppo inerente alle singole culture. A questa concezione di storia culturale si aggiunse la
dimensione geografico-etnologica in base alla quale si poteva ipotizzare che se alcuni aspetti
culturali dimostravano similitudini e ricorrenze ciò era avvenuto soprattutto per diffusione.
L'idea di diffusione culturale
Secondo questa prospettiva tedesca, le “similitudini culturali” riscontrabili tra popoli
geograficamente lontani erano imputabili alla diffusione culturale, una prospettiva che si
discostava da quella evoluzionista (secondo cui in condizioni simili gli esseri umani producono
forme di vita sociale e idee del mondo tra loro simili perché simile era la loro struttura psichica) e
da altre.
Bastian, che non condivideva l'idea di una tendenza evolutiva in campo culturale, aveva affermato
il carattere unitario dell'essere umano e delle sue facoltà intellettuali attraverso il concetto di idee
elementari, forme comuni di organizzazione psichica dell'esperinza sussettibili di manifestazioni in
maniera diversa a seconda del contesto culturale particolare.
Importanza della museologia
Gli studiosi tedeschi e austriaci che aderirono al diffusionismo lavorarono su oggetti materiali che si
prestavano meglio di altri ad essere comparati in una prospettiva trans-culturale > importanza della
museologia. Concentrando la loro attenzione su armi, utensili e oggetti ritenuti esempi di “arte
primitiva”, questi studiosi elaborarono la teoria della diffusione di ciò che chiamarono “strati” o
“cicli culturali”.
Fritz Graebner e la nozione di “ciclo culturale”
Un “ciclo” o “strato” culturale era un insieme di elementi di cui era possibile verificare la
compresenza in una determinata area del pianeta; ogni ciclo era espressione di una fase della storia
culturale di un determinato popolo; gli elementi di un ciclo erano quelli che si erano
successivamente sovrapposti ad altri preesistenti > il compito della etnologia era ricostruire questi
cicli individuandone le stratificazioni successive.
Il maggior rappresentante di questa teoria fu Fritz: tedesco, museologo ed etnologo africanista,
lavorò soprattutto in Oceania; articolo 1905 Cicli culturali e strati culturali in Oceania > illustra il
suo pensiero: voleva individuare, all’interno di un’area determinata, tratti culturali riconducibili ai
rispettivi cicli, ovvero fasi storiche, caratterizzate dalle successive “importazioni” dei tratti
medesimi. Il diffusionismo suo e quello dei suoi colleghi sfociarono in un ciclopico lavoro di
classificazione e ordinamento dei tratti in tipi e sottotipi.
Limiti della prospettiva diffusionista:
-
la compresenza di tratti culturali formanti un ciclo distinto da altri veniva stabilita a partire
da speculazioni (in base a cui non si poteva stabilire in modo certo l’origine dei tratti e il
loro arrivo in una determinata area) difficilmente sostenibili a partire dai dati storici ed
32
-
-
etnografici > il risultato è che i cicli erano costituiti da tratti assai eterogenei
mancava una prospettiva che cercasse di connettere i tratti da un punto di visto organico
(critica principale): i tratti quindi risultavano collegati tra loro in maniera spesso arbitraria
Lo scopo di Graebner era accertare la diffusione dei cicli e quindi stabilire l’influenza di una
cultura su un’altra > egli non pensava che le culture fossero monolitiche, ma, giustamente,
frutto di influenze reciproche; le culture per lui e gli altri erano tuttavia il frutto di
sovrapposizioni “cicliche” di “complessi” di tratti culturali provenienti da altrove.
Il diffusionismo ottenne importanti risultati, per esempio la dimostrazione dell’influenza
della cultura del Sudest asiatico su quella del Madagascar. Tuttavia, il diffusionismo
germanico si caratterizzò per la tendenza a eludere l’elemento della continuità geografica >
favorì dunque ricostruzioni spesso fantasiose su “spostamenti” di cicli culturali su scala
planetaria; l’individuazione in qualche area del pianeta della supposta presenza di tali
“cicli”, definiti in base a speculazioni spesso prive di fondamento empirico, era vista come
effetto della migrazione di qualche popolo in possesso di una cultura superiore.
L’origine dell’idea di Dio. L’influenza di Wilhelm Schmidt
Wilhelm Schmidt: austriaco, missionario cattolico, insegnò a Vienna e poi in varie università
europee, diffusionista, fece di tutto per emarginare quegli etnografi che non condividevano questa
idea; fondò la scuola di Vienna a cui appartennero validi etnografi come Paul Schebesta e Martin
Gusinde.
Schmidt venne elaborando una vera e propria visione della storia culturale umana secondo cui lo
sviluppo culturale avrebbe preso le mosse da due forme culturali primitive di base, una
caratterizzata dal culto della madre-terra e l’altra del padre-cielo. Egli si dedicò a una ricerca che
mirava a ricostruire l’origine e lo sviluppo delle idee religiose, in particolare dell’idea di Dio > 1910
sulla rivista Anthropos da lui fondata pubblica lo scritto in francese L’origine dell’idea di Dio
(inizio di un’opera monumentale che completò nell’arco di anni).
Il lato degenerazionista del diffusionismo
Nei discorsi di Schmidt si palesa l’evidente lato “degenerazionista” del diffusionismo: tutti i
sostenitori di questa prospettiva infatti mostrarono la tendenza a considerare la diffusione del tratto
culturale a partire da un centro d’origine come causa della sua “decadenza” rispetto alla sua
(supposta) purezza originaria; venendo a contatto con altri tratti e “complessi culturali” qualunque
elemento, specie se spirituale, sarebbe andato soggetto a un’alterazione spesso concepita come
corruzione e decadimento > questa idea di degenerazione è presente in maniera conclamata nei
lavori di Schmidt intenzionato a dimostrare la presenza, anche presso i popoli naturali/primitivi,
dell’idea di un essere superiore (Dio) > secondo lui i pigmei africani avevano l’idea di tale essere
ma essa, all’origine “pura”, si era ridotta all’idea vaga di un essere superiore come “signore” della
natura.
I popoli primitivi confermavano quindi, nelle intenzioni dei missionari diffusionisti come Schmidt,
la Sacre Scritture e in particolare il fatto che l’umanità, quando era comparsa, possedeva un’idea
della divinità unica che col tempo era andata incontro all’oblio per rivivere nel giorno della
rivelazione divina > il compito morale dei missionari-etnologi diventava quello di ricondurre i
primitivi che non avevano conosciuto tale rivelazione alla consapevolezza piena e definitiva
dell’idea di Dio che covava, seppur sbiadita, nelle loro menti.
33
8) LO SVILUPPO DELL’ANTROPOLOGIA NEGLI STATI UNITI E LA “SCUOLA” DI
BOAS (1856-1942)
Nell’ultimo scorcio del XIX secolo vennero condotte negli Stati Uniti importanti ricerche promosse
dal programma del Bureau of American Ethnology che approfondirono la conoscenza sui nativi
americani: Studio di Mooney sul movimento nativista sioux (accennato nel capitolo dedicato a
Morgan), l'ultimo decennio dell'800 fu segnato da lavori importanti come: John Henry Powell,
Indian Linguistic Families of America North of Mexico 1891, sui miti e le lingue aborigene; Frank
Hamilton Cushing, Outlines of Zuni Creation Myths 1891-2, sui miti degli Zuni; Alice Fletcher, Il
rito Hako 1904, sul rito d’iniziazione degli indiani Pawnee.
8.1 Il “particolarismo storico” di Franz Boas
Gli istituti di ricerca britannici, stimolati dalle ricerche promosse in USA, promossero uno studio
sugli indiani della costa canadese del Pacifico a cui partecipò anche l’etnografo tedesco Franz
Boas. A lui si deve la quasi totale rifondazione dell’antropologia americana sviluppata poi dai suoi
allievi. Quando venne chiamato a far parte del progetto da Horatio Hale, aveva già lavorato tra gli
eschimesi (Inuit) e nella costa canadese del Pacifico.
Boas concepiva il lavoro sul campo come studio di singole culture o di aree culturali particolari > il
fatto di concentrarsi su un contesto culturale o areale specifico doveva costituire il prologo di quel
“particolarismo” che per Boas era condizione preliminare di ogni progetto comparativo. Lo studio
di un singolo contesto culturale o area fu infatti il principio ispiratore del lavoro svolto da Boas nel
quadro della North Jesup Expedition che egli diresse tra il 1897 e il 1900 tra i Kwakiutl della costa
nordoccidentale dell’America.
Boas diffuse un’immagine autorevole degli studi antropologici negli usa e fu anche un intellettuale
impegnato contro il razzismo; professore alla Columbia University di New York, curatore
dell’American Museum of Natural History, “allevò” almeno due generazioni di illustri antropologi.
Nel 1911 scrisse L’uomo primitivo (The Mind of Primitive Man), che esaltava il carattere unitario
(biologico ed intellettuale) del genere umano ed era contro il razzismo. Sostenne la mancanza di
relazioni tra cultura e razza, dimostrando come le caratteristiche culturali di un popolo non avessero
alcun rapporto con l’aspetto fisico dei suoi membri.
La critica dell’evoluzionismo
Boas criticò l’assunto evoluzionista nel libro teorico I limiti del metodo comparativo
dell’antropologia 1896 (testo teorico più noto), dove enunciò i principi generali del cosiddetto
metodo storico, secondo il quale i tratti culturali simili osservabili presso popoli distanti tra loro
sarebbero apparsi indipendentemente senza alcuna origine storica comune.
Boas negava il valore dello sforzo evoluzionista di costruire una storia sistematica uniforme
dell’evoluzione della cultura; secondo lui gli evoluzionisti erano portati a concludere che esiste un
sistema superiore secondo il quale l’umanità si è sviluppata ovunque partendo dal presupposto che
l’origine di fatti culturali simili fosse anch’essa simile in quanto dovuta alla sostanziale unità
psichica del genere umano; sostenere che un fenomeno etnologico si è sviluppato in maniera
indipendente in un certo numero di luoghi diversi tra loro per Boas equivaleva a sostenere che tale
fenomeno aveva avuto uno sviluppo identico in ogni luogo e fosse sempre dovuto alle stesse cause
(elemento di debolezza delle ricostruzioni delle sequenze storiche).
Per dimostrare la fragilità dell’assunto evoluzionista, produsse una serie di esempi riguardanti la
possibile origine differente e il diverso significato che fenomeni culturali simili potevano avere in
contesti culturali differenti: ad esempio in quegli anni si sosteneva che l’associazione tra clan e
totem (tra gruppi di consanguinei e un simbolo animale-fosse una caratteristica tipica di tutti i
popoli primitivi) l’esistenza di tribù composte da clan totemici diversi era ritenuta il prodotto della
riunione di clan precedentemente separati. Boas invece mostrò come questo tipo di società potesse
essere il risultato di un processo totalmente inverso, e cioè la scissione di tribù numerose in
34
segmenti meno ampi (clan), alla discendenza matrilineare su quella patrilineare oppose la
dimostrazione che presso gli Indiani della costa americana del Pacifico settentrionale era accaduto il
contrario.
Boas come gli evoluzionisti dava per scontata l’unità psichica del genere umano, ma sosteneva che
fosse arbitrario pronunciarsi sull’universale identità delle cause che avevano determinato
l’emergenza di fenomeni culturali apparentemente identici ed appartenenti a culture diverse.
Lo “storicismo” di Boas
Per Boas l’obiettivo fondamentale dell’antropologia era la conoscenza delle cause storiche che
avevano determinato la forma dei tratti culturali propri di una certa popolazione. Questa conoscenza
era possibile solo se l’indagine fosse stata circoscritta ai costumi nella loro relazione alla cultura
complessiva della tribù che li pratica in correlazione con la ricerca della loro distribuzione
geografica tra le tribù limitrofe. In questo modo si sarebbero potute determinare le cause storiche
che hanno portato alla formazione dei costumi in questione e ai processi psicologici del loro
sviluppo.
Questi erano i principi generali del metodo storico (o particolarismo storico, come poi sarebbe
stato chiamato) il cui oggetto era rappresentato dallo studio e dalla conoscenza delle culture singole.
Boas si focalizzava sullo studio del contesto particolare a causa del clima culturale del suo paese
d’origine (Germania), e soprattutto sulla distinzione tra “scienze della natura” e “scienze dello
spirito” (dove l’enfasi era posta sulla conoscibilità non di leggi, ma di fatti storici intesi come
individualità irriducibili ad altre > in particolare scienze della natura = approccio nomotetico
(ricerca delle leggi che regolano l'accadere dei fenomeni naturali ) e scienze dello spirito =
approccio idiografico > Windelband, Rickert e Dilthey).
Il particolarismo di Boas trae ispirazioni dalla filosofia storicista e neokantiana tedesca di fine 800.
8.2 L’analisi del potlatch
Tra il 1894-95 Boas condusse una ricerca tra i gruppi del Kwakiutl (nativi della costa americana del
Pacifico settentrionale). Si avvalse dell’informatore indiano George Hunt che addestrò: i due
collaborarono tanto strettamente che risulta difficile stabilire a chi dobbiamo cosa. Il frutto delle
ricerche venne pubblicato nel 1897 nell’opera L’Organizzazione sociale e le società segrete degli
Indiani Kwakiutl.
Nello studio delle popolazioni locali Boas s’interessò all’istituzione del potlatch. Si tratta di un
insieme di pratiche rituali diffuse tra le popolazioni indiane della costa della Columbia Britannica e
dell’isola di Vancouver (Canada): sono rituali di “ostentazione” che prevedono la distruzione di
grandi quantità di beni considerati “di prestigio”, cioè privi di un valore d’uso corrente.
Attraverso il potlatch, individui dello stesso status sociale si sfidavano in una gara distruttiva per
affermare pubblicamente il proprio rango, per abbassare quello di qualche rivale o riacquistarlo nel
caso lo avessero perduto. Oggi questa pratica viene vista come un meccanismo attraverso il quale
venivano sottratti al processo riproduttivo della società quei beni, che se fossero stati immessi
nuovamente, avrebbero provocato un’alterazione del sistema.
La principale critica agli studi di Boas riguarda il fatto di aver trattato questo rituale dal punto di
vista strettamente economico facendo passare al lettore la popolazione come composta di astuti
trafficanti; egli infatti lo interpretò come una pratica connessa all’acquisto del prestigio che poteva
derivare ad un individuo dal fatto di aver distribuito o distrutto più beni dei suoi rivali e dall’averli
perciò superati in generosità. Inoltre utilizzò il linguaggio dell’economia di mercato in un contesto
che non aveva nulla a che fare col mercato, allo stesso tempo considerava quella occidentale come
l’unica società con una vera economia > ideologia economico-etnocentrica di Boas.
Boas spiegò il potlatch in termini economici ma da un lato lo spiegò anche in termini di sole
attitudini “psicologiche”: la sua attenzione verso le attitudini degli individui nei confronti dei valori
della loro cultura rappresentò un passo avanti per l’antropologia.
Psicologia e cultura
Per Boas uno dei compiti fondamentali della etnologia era determinare i processi psicologici che
operavano nello sviluppo dei fenomeni culturali. Nel 1830, con l’opera Alcuni problemi di metodo
nelle scienze sociali, pose il problema di come l’individuo, reagendo alla propria cultura,
35
contribuiva a riprodurre e modificare al tempo stesso i modelli sociali di comportamento.
Lo studio dei processi psicologici doveva emergere, nelle intenzioni di Boas, come linea di ricerca
alternativa rispetto alla tradizione evoluzionista e ad ogni approccio deterministico (geografia,
razza, economia, psicoanalisi).
Questi processi psicologici ( rappresentazione che gli agenti di una data cultura si facevano della
propria esistenza sociale), divenivano la realtà oggettiva, ultima, della vita sociale stessa, per cui il
criterio che permetteva di qualificare come valida una qualunque inchiesta etnografica stava nel
grado maggiore o minore di fedeltà con la quale l’etnologo sapeva cogliere la realtà sociale nella
rappresentazione che di essa si facevano i membri della popolazione studiata. Questa
prospettiva,come il tema dell'influenza esercitata dall'individuo sui processi dei cambiamento
culturale, venne anunciata ma non sviluppata.
Nei suoi effetti antievoluzionistici influenzerà la tendenza “diffusionista” (studio della distribuzione
dei fenomeni culturali in aree contigue), quanto la tendenza “particolaristica” e “indivudualizzante”
(lo studio delle singole culture) riemersa negli ultimi decenni con particolare vigore.
8.3 La critica della prospettiva causale e lo studio della parentela: Alfred L. Kroeber (1876-1960)
Alfred L. Kroeber fu il primo studente a laurearsi sotto la guida di Boas. Il suo “esordio
antropologico” ebbe come sfondo la problematica boasiana costituita dalla critica della prospettiva
casuale nella spiegazione dei fenomeni culturali.
Nel 1901, in Spiegazione mediante cause ed origini, critica le teorie sull’origine del mito basate su
un tipo di spiegazione mono-c ausale; secondo queste teorie i miti derivano da processi di ordine
psicologico sviluppatisi da una credenza originaria (come la teoria dell'animismo secondo Tylor),
secondo lui, invece, i miti sono aggregati di tendenze indistinguibili che si compenetrano dando
luogo al mito specifico; allo stesso modo la teoria che vedeva nei miti l’interpretazione deformata
di eventi storici reali e quella per cui il mito come un’invenzione allegorica a scopo eticopedagogico apparivano a Kroeber inesatte in virtù della rigidità causale del ragionamento su cui si
fondano.
Ciò che per queste teorie era la causa originaria e la spiegazione del fenomeno mitico per lui era
una tendenza parziale che ciascuna di queste teorie metteva in luce.
Per Kroeber è la compresenza delle tendenze che dà luogo all’irriducibilità del fenomeno mitico
che deve essere compreso nella sua totalità individuale e non nei suoi singoli aspetti separati; la
concezione dei fenomeni culturali è quella per cui essi sono elementi di un “complesso” la cui
comprensione non può avvenire in base all’assunzione di singole istanze causali.
I principi costitutivi delle terminologie di parentela
La critica a Morgan
La critica del metodo comparativo e del principio causale come metodo di spiegazione dei
fenomeni culturali fecero da sfondo ad un’opera nella quale criticava le posizioni di Morgan
rispetto ai sistemi di parentela > 1909, Sistemi classificatori di relazioni.
La confutazione delle teorie di Morgan era conseguenza di un modo totalmente diverso di
concepire la natura degli stessi sistemi terminologici di parentela: per Morgan esprimevano la
natura dei rapporti e delle istituzioni sociali, per Kroeber invece riflettevano la “psicologia”,
veicolata dal linguaggio, dei soggetti culturali: i termini di parentela rispecchiano la psicologia, non
la sociologia; essi sono determinati in primo luogo dal linguaggio. Con il termine psicologia
Kroeber intendeva il complesso delle attitudini che in ogni cultura vengono elaborati nei confronti
dei propri parenti.
Con il termine di cultura, in sintonia con la concezione boasiana, come l’insieme delle attitudini
(mentali, quindi psicologiche), degli individui. Questa definizione era in sintonia con la concezione
boasiana della cultura: i termini di parentela venivano quindi considerati come un particolare
aspetto della cultura stessa, in questo caso il linguaggio.
L’importanza dell’opera rispetto alla critica di Morgan è quella di aver lasciato intendere che le
terminologie di parentela non possono essere considerate solo in riferimento alle relazioni sociali
(riflessi di pratiche matrimoniali), ma possono essere anche associate a domini semantici diversi da
quello parentale (es. quando usiamo il termine “zio” in riferimento a individui che non ci sono
36
parenti in senso stretto)
Sempre in quest’opera Kroeber, attraverso l’analisi di 12 sistemi di parentela appartenenti ad
altrettanti gruppi di nativi americani, evidenziò 8 principi fondamentali che regolano la
costituzione di tutti i sistemi terminologici (di parentela):
differenza tra persone della stessa generazione e di generazioni diverse;
differenza tra parentela in linea diretta e in linea collaterale;
differenza d’età nell’ambito della stessa generazione;
il sesso del parente;
il sesso di colui che parla;
il sesso dell’individuo attraverso il quale passa la relazione di parentela tra chi parla e colui di
cui si parla;
7. distinzione tra parenti consanguinei e acquisiti per matrimonio;
8. la condizione di vita attraverso cui passa la relazione tra chi parla e colui di cui si parla; Alcuni
sistemi contengono tutti i principi, altri tengono conto solo di una parte di essi.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Alcuni sistemi terminologici tengono conto di tuti gli otto principi, altri una parte soltanto. Il
sistema inglese e italiano ne prende in considerazione 4 (1,2,4,7).
Il valore linguistico delle terminologie
La scelta del livello linguistico come livello esclusivo di comprensione delle terminologie di
parentela equivaleva a negare l’esistenza di quel rapporto causale tra pratiche matrimoniali e
terminologie di parentela che Morgan aveva invece postulato allo scopo di rendere intellegibile
l’evoluzione dei sistemi in ipotetiche sequenze storico-evolutive > questa scelta contribuisce anche
ad orientare lo studio dei sistemi di parentela verso un tipo di approccio formale destinato a perdere
di vista l’ipotesi dell’autore (di Systems), ovvero quella secondo cui in alcune società le relazioni di
parentela svolgono molte di quelle funzioni che nelle società “civilizzate” vengono invece assolte
da rapporti di tipo politico-economico, di conseguenza le terminologie di parentela esprimano
essenzialmente delle relazioni sociali.
8.4 La natura “superorganica” della cultura: da Boas a Kroeber
La battaglia di Boas contro il razzismo e le teorie dell’esclusione
Nell’ultimo decennio dell’800 Boas comincia la sua battaglia negli Stati Uniti per sostenere
(dimostrare se possibile) tre cose:
1.
la pretesa di ricostruire l'evoluzione della cultura umana a partire dallo
studio dei popoli primitivi era priva di fondamento;
2.
il pensiero dei primitivi era analogo a quello dei civilizzati e non molto
diverso dall'americano medio. Se c'erano differenze erano dovute alla specificità del
contesto sociale in cui era l'individuo;
3.
nature e cultura (intese da lui come razza e cultura) erano due cose ben
distinte, mentre il razzismo consisteva nel voler collegare la prima alla seconda, attribuendo
alla razza un ruolo determinante nei confronti della cultura (esempi dei giapponesi + alti in
USA che in Giappone).
Egli si trovava di fronte ad un’America razzista, feroce contro i neri e dura con gli immigrati;
inoltre, verso la fine del XIX secolo, si era instaurato in Inghilterra come negli Stati Uniti- un
orientamento conosciuto con il nome di “darwinismo sociale” > era un’ideologia sociologicopolitica diffusa negli ambienti conservatori medio-alto borghesi secondo la quale la selezione
naturale sarebbe stata la stessa che regolava la selezione sociale.
Il risultato di questa battaglia di Boas fu che si riuscì a rendere autonoma la cultura da altri aspetti
della vita umana.
37
L’opposizione natura/cultura
Il Novecento si aprì con l’opposizione concettuale natura/cultura che rinvia ad una
contrapposizione oggettiva e radicale. Natura e cultura resteranno, per l'antropologia, una coppia
concettuale distinta a designare due aspetti diversi e distinti della realtà. Da un punto di vista
filogenetico (cioè della specie umana), la cultura fu vista come qualcosa che arrivava sulla scena
quando l’evoluzione biologica si era compiuta: i fenomeni culturali costituivano uno strato
sovrapposti e non riconducibile a quello organico. Analogamente la cultura apparì come qualcosa
sovrapposto al piano individuale, qualcosa di esterno agli individui che essi vivano in maniera
“passiva”, ricevendola e trasmettendola.
Per Kroeber l’oggetto dell’antropologia era la cultura intesa come “insieme complesso” (Tylor). In
una delle sue opere, Il superorganico del 1917, affermò che i fenomeni culturali sono di natura
superorganica, irriducibili all’ordine dei fenomeni biologici. I fenomeni culturali non hanno una
relazione di continuità con i fenomeni biologici, ma hanno una esistenza autonoma, quindi sono
spiegabili solo sulla base di altri fenomeni culturali, appartenenti perciò allo stesso livello di realtà e
intelligibilità (critica al darwinismo sociale già attaccato da Boas)
Kroeber criticava il darwinismo sociale americano (già attaccato da Boas), secondo il quale
esisteva una sorta di continuità tra l’ordine del biologico e quello del sociale, che finiva per
assimilare le leggi di funzionamento della società e quelle della natura, giustificando le
disuguaglianze delle società di allora in termini di “selezione naturale”.
Il conferimento di una natura superorganica, sovraindividuale e sovrastorica ai processi culturali
finiva per collocare Kroeber in una posizione diversa rispetto a Boas e ai suoi scolari: egli sembrava
infatti promuovere, secondo questi ultimi, una specie di reificazione della cultura.
Oltre alla critica a Morgan e alla teorizzazione della cultura come entità “superorganica”, Kroeber
diede un grande contributo nel campo dell’etnografia degli Indiani del Nordamerica e della
California.
8.5 Il diffusionismo negli Stati Uniti
Negli anni in cui si affermavano le teorie di Boas, si costituì negli usa un indirizzo di ricerca
antropologico che poneva al centro della propria attenzione la distribuzione geografica delle
culture indiane, i loro contatti e prestiti reciproci sul piano della cultura materiale,
dell’organizzazione sociale e della vita religiosa.
La nozione di area culturale
All’interno di questa prospettiva di ricerca assunse un ruolo centrale la nozione di area culturale,
ovvero l’area geografica entro la quale erano presenti determinati tratti, cioè elementi culturali
quali una certa tecnica di cattura della selvaggina, un istituto matrimoniale o una credenza. La
nozione di area culturale poggia sulla concezione che considera le culture come somma
complessiva dei loro tratti componenti (traduzione in ternini etnografici della concezione
Tyloriana della cultura) > la seguente concezione si trasformò nella questione di determinare la
distribuzione dei tratti culturali pensata come conseguenza di processi di diffusione dei tratti
medesimi.
La nozione di area culturale si impose nei primi anni del 900 per opera di studiosi impegnati in
campo etnografico e museografico; l’attività museografica ebbe un ruolo decisivo: se in precedenza
l’esposizione dei reperti rispettava l’idea evoluzionista (criterio di complessità crescente
indipendente dal luogo di provenienza), ora l’esigenza era quella di rendere intelligibili al pubblico
le somiglianze e le differenze tra i reperti provenienti dalle diverse culture comprese entro il
territorio degli Stati Uniti.
Il problema di fondo ora è: come si può spiegare la distribuzione irregolare di tratti culturali tra
gruppi che possiedono un nucleo comune di elementi tali da farci considerare questi stessi gruppi
come appartenenti alla stessa area culturale?
La risposta da un lato è concepire i tratti culturali come qualcosa che poteva migrare, diffondersi da una
cultura ad altre, dall’altro veniva problematizzata la natura composita e selettiva della cultura (alcuni
tratti sono accolti e altri no a seconda della loro compatibilità o meno con il nucleo della cultura
ricevente).
38
In questo lavoro di definizione delle culture aborigene, della loro estensione e della distribuzione
dei tratti culturali, si distinse Clark Wissler = direttore dell’American Museum of Natural History
di New York, scolaro di Boas, intraprese un lavoro di classificazione delle culture indiane sulla base
del criterio delle loro relazioni con l’ambiente; tra il 1915 e il 1925 venne elaborando una teoria
delle aree culturali come ambiti di diffusione dei tratti simili a partire da un centro di irradiazione
(centro culturale) > in tale “centro” sarebbero presenti tutti i tratti che caratterizzano l’area, i quali
sono irregolarmente distribuiti nel resto della stessa diventando sempre più “radi” man mano che ci
si allontana dal “centro” > ciò può spiegare perché popolazioni della stessa area culturale non erano
tutte culturalmente identiche.
La nozione di area cronologica
La nozione di area culturale implicava in qualche modo la presenza di un elemento temporale che
spiegasse un progressivo allontanamento dei tratti dal centro alla periferia > con la nozione di “area
cronologica” (age area) Wissler tentò di assegnare una dimensiona temporale al processo di
diffusione: i tratti più lontani dal punto di diffusione iniziale erano i più antichi, e quindi
appartenenti al nucleo culturale originario.
Le teorie di Wissler e dei suoi colleghi furono criticate da antropologi e linguisti tra cui
l’etnolinguista Edward Sapir, un allievo di Boas; in La prospettiva temporale nella cultura
aborigena americana (1916) osservò come i tratti culturali non si diffondono in maniera uniforme
in tutte le direzioni + la diffusione non avviene sempre con ritmi identici > è difficile perciò
accertare l’anteriorità e la successione di certe acquisizioni di una cultura da parte di un’altra.
critica al diffusionismo della scuola austro-tedesca e alla teoria degli strati che per Sapir non
sono definiti nella loro integrazione, ma come mera somma di tratti di natura disparata.

Altre obiezioni di altri studiosi:
-
la trasmissione dei tratti culturali poteva essere il risultato non solo di una semplice
diffusione di essi, ma di una migrazione di gruppi umani;
con il tempo il centro di un’area poteva, a seguito di processi di diffusione o migrazione,
mutare in maniera considerevole.
L’idea per cui era possibile intraprendere lo studio della distribuzione dei tratti culturali al fine di
tracciare mappe areali ebbe in America vita abbastanza lunga, fino agli inizi degli anni 1950. Tale
studio mostrò i propri limiti nella difficoltà stessa di definire i tratti salienti in base ai quali era
possibile definire “una cultura”.
La corrente diffusionista americana (massima diffusione tra in America tra il primo e secondo
decennio del 900) non si propose come quella europea una ricostruzione globale dei processi di
diffusione delle culture umane, bensì, più realisticamente, di rendere conto della definizione e della
distribuzione delle aree culturali indiane del Nordamerica ponendo quindi dei limiti alle loro
speculazioni.
12) L’ETNOLOGIA FRANCESE (1920-1940)
Tra ‘800 e scoppio 1 guerra mondiale, riflessione francese su società primitive era rimasta legata a
una dimensione intellettualistica e speculativa, a causa della derivazione degli studi etnografici da
quelli filosofici e sociologici. Le fonti etno utilizzate da Durkheim, Hertz, Mauss, Lévy-Bruhl…
sono per lo più in lingua inglese e tedesca, non francese.
Soglie della 1gm la scuola di ispirazione Durkheimiana si preparava al “balzo etnografico” anche
grazie al lavoro di Mauss, che credeva molto nella pratica etnografica pur non avendo mai fatto
ricerche sul campo MA molti scolari di Drukheim muoiono nel conflitto.
39
12.1 L’africanistica e Marcel Griaule
Primi 2 decenni del ‘900 etnografia praticata in Africa occidentale subsahariana dai funzionari
amministrazione coloniale. I lavori di Maurice Delafosse e Louis Tauxier gettarono le basi
africanistica (maggior seguito in seno alla tradizione francese).
Fine anni ‘20= insegnamento di Mauss e attività dell’Institut d’ethnologie (fondato nel ’25) posero
condizioni per nuova fase: anche conoscenza culture primitive diventa affare di stato:
• missione Dakar-Gibuti, di cui viene votato il finanziamento in Parlamento nel ‘31;
• raccogliere dati su lingue e culture regioni africane attraversate (da Costa Atlantico a costa
Oceano Indiano);
• riportare oggetti d’uso rituale e comune per il Musée d’ethnographie du Trocadéro di Parigi
(poi nominato Musée de l’Homme nel ’37).
Missione dura 2 anni, dalla primavera del ’31 all’inverno del ’33 e si conclude con un enorme
successo scientifico e di pubblico > etnografia come studio delle società primitive sul campo
Direttore della missione era Marcel Griaule (1898-1956), allievo di Mauss dopo studi matematici
e ricercatore anche in Etiopia nel ’28. Della spedizione, ne scrive un resoconto Michel Leiris
(1901-1990), Africa fantasma (’34): è il primo tentativo antropologico di coordinare l’osservazione
di sé e degli altri, è la prima esperienza di un’intimità antropologica che non si riduca a un
naufragio nella mitizzazione dell’altro.
Durante una delle tappe, contatto con i Dogon > diventeranno frutto di vari studi.
Lo studio della cosmogonia Dogon
1938, Griaule (MG) pubblica Maschere Dogon: studio analitico di un rituale e relativa simbologia
con al centro le maschere > idea di un’interconnessione tra simbologia, mito e sacrificio Dogon
(concezione cosmologie primitive come sistemi coerenti e autonomi di pensiero)
1948, Dio d’acqua= resoconto della cosmogonia Dogon ricostruita nello stile del dialogo con un
anziano cacciatore cieco, Ogotemmeli, incontrato nell’ultima missione di MG in Africa. Questo
testo contiene “il pensiero Dogon”, degno di essere accostato al pensiero filo dell’antichità e
materia di utili riflessioni da parte dei cristiani.
Popolo considerevolmente primitivo che possedeva una cosmologia sofisticata + consentì a MG di
formulare una th del rapporto tra sistema mitico e vita sociale (organizzazione sociale, rapporti tra i
sessi, ecc… apparvero a MG come non divisibili da cosmologia Dogon)
Negli atti ordinari i Dogon ritualizzano il mito inteso come sistema di idee-guida compiuto e
strutturato. Gli artigiani Dogon ad es riproducono l’ordine primigenio illustrato dal mito.
MG idea che mondo mitico e cosmologia costituiscano un complesso d’idee e che la realtà discenda
dalla rappresentazione che hanno gli attori sociali di quel complesso di idee > studiare cosmogonia
per comprendere tutta la società, ma ci vuole iniziazione.
“Iniziazione di MG” = serie di interviste con il saggio Ogotemmeli > problema: forse MG ha scritto
ciò che i Dogon volevano che scrivesse, in modo che la loro religione apparisse coerente e il più
possibile simile a una religione > i Dogon conoscevano i bianchi, non erano così isolati
Il metodo dell’etnografia
MG rivendica la priorità degli studi monografici su quelli comparativi (parziale contrasto con la
tradizione durkheimiana): solo una conoscenza approfondita di una società e del suo pensiero può
portare a un sapere completo > visione dell’umanità come gruppi distinti, ognuno con una cultura
fondata su principi differenti.
L’idea di MG (disciplina fondata sullo studio in profondità delle singole culture) potrebbe essere
comparata al particolarismo storico di Boas e al funzionalismo di Malinowski: anche loro ricerca
circoscritta a singoli contesti culturali e sociali.
Inoltre, per MG, lo studio delle culture altre deve mirare a cogliere i sistemi cosmologici così come
essi sono avvertiti dai nativi > tipo di atteggiamento che l’antropologo deve mantenere (problema
posta da Malinowski in termini diversi) : lettura non fondata su categorie dell’osservatore, ma in
base alla coerenza interna dei sistemi.
40
1957, postumo, Il metodo dell’etnografia= sulla base delle lezioni alla Sorbona, testimonia
l’acutezza e la spregiudicatezza di MG, che considerava l’inchiesta etnografica come un’operazione
strategica. Le metafore mettevano in risalto: la tortuosità dell’inchiesta tramite metafore e il
carattere lacunoso nelle dichiarazioni dell’informatore; il continuo sforzo di rimettere in pista
l’indigeno che tende a divagare; il valore che le divagazioni e i vuoti di memoria hanno in quanto
indizi di fatti sociali. Sostenitore di una specie di etnografia d’urgenza, compito di registrare fatti
sociali e culturali destinati a scomparire sotto l’influenza della cultura occidentale
Sarebbe davvero paradossale se MG si fosse fatto sul serio manipolare dai Dogon, anche se
dimostrerebbe appieno la difficoltà della ricerca etnologica, la cui raccolta dati implica una
complessa relazione tra etnologo e indigeno.
Le religioni e i sistemi di pensiero africani
MG e sua equipe lavorarono tra i Dogon dalla metà degli anni ’30 alla metà degli anni ’50, esclusi
gli anni della guerra. I primi anni ’40 tragici, alcuni degli studiosi etnografici migliori morirono in
guerra, altri furono fucilati dai nazisti; 1° nucleo resistenza francese ai tedeschi si formò al Musée
de l’Homme.
Dopo la morte di MG, le ricerche sui Dogon vengono continuate da altri, tra cui Germaine
Dieterlen (’03-’99), Denise Paulme (’09-’98) e la figlia Genevieve Calame Griaule (’24-). I suoi
seguaci puntano a fornire un sistema coerente di pensiero e società Dogon; essi affrontano i sistemi
cosmologici e le religioni africane, tentando di ricomporre gli universi mitici e religiosi tipici delle
culture indigene dell’Africa occidentale francese.
Fine anni ‘30= alcuni antropologi impostano il problema della coerenza della magia in termini di
coerenza logica interna ad un sistema di pensiero (Evans-Pritchard con Azande)
La prospettiva di MG, uno sguardo dal di dentro ai sistemi di pensiero dei popoli africani apparve
limitata davanti alla nuova tendenza francese di volgersi ai problemi della trasformazione sociale e
del cambiamento culturale. etnografia di MG e dei suoi allievi venne criticata similmente alla
prospettiva funzionalista, accusa di congelare le culture in forme di sistemi di pensiero e strutture
sociali avulse dal contesto storico e dalle trasformazioni a cui sono sottoposte.
12.2 L’oceanistica e Maurice Leenhardt (1878-1954)
Maurice Leenhardt (ML) fu il virtuale fondatore, in Francia, dell’etnologia oceanistica, campo
battuto solo prima della 1a guerra mondiale da antropologi britannici e tedeschi. ML era un
missionario protestante inviato in Nuova Caledonia (isola della Melanesia a est dell’Australia) nei
primi anni del secolo.
Tradurre la bibbia
In Nuova Caledonia c’era il popolo dei Canak, che ML deve evangelizzare: preferisce mettersi sulla
scia della tradizione locale, alla ricerca di un ponte con la loro cultura, per diffondere in essa la fede
nel Dio cristiano > lavoro di traduzione delle Sacre Scritture nel loro linguaggio, e per far ciò
dovette indagare a lungo la lingua canak > densa di simboli e idee complesse.
Il mito e la persona
1947, Do Kamo. La persona e il mito nel mondo melanesiano, elaborazione delle idee di cultura e
persona del mondo Canak by ML, per certi versi coincidente con la visione della cosmologia
Dogon di Griaule.
I Canak avevano spirito profondamente religioso. ML, seguendo il suo essere missionario, non partì
dall’analisi dei fatti sociali, ma dalla persona > affronta il mito a partire dai fatti personali vs tradizione
francese di ispirazione durkheimiana il mito costituiva un complesso di rappresentazioni pervasive
nella vita dei Canak.
• mito NO racconto nel quale era stata trasfigurata la realtà storica (come Malinowski) mito
NO tentativo pre-razionale di spiegare la realtà (come Frazer). Il mito dava senso al tempo,
al paesaggio e alla persona; c’era come un’identità di corpo e natura nella mente
partecipativa arcaica, e questa identità era espressa nel mito.
41
•
il mito era lo spazio intellettuale in cui il primitivo costruiva il proprio mondo come spazio
di partecipazione caratteristico della sola mentalità arcaica. Il pensiero partecipativo e
razionale convivevano uno accanto all'altro e non erano caratteristici di due epoche distinte
della storia umana.
Significato delle ricerche di Leenhardt
Muovendosi da premesse teoriche e metodologiche diverse da Griaule (aderì in parte alle teorie di
Lévy-Bruhel relative al carattere partecipativo della mentalità primitiva).
Leenhardt, ancor prima di Griaule, inaugurò quella corrente che studia le cosmologie indigene più
come sistemi di pensiero che come aspetti simbolici immediatamente connessi alla struttura sociale.
Nello stesso periodo gli antropologi britannici cercavano di studiare i sistemi di pensiero come parte
della struttura sociale al cui funzionamento tali sistemi contribuiscono.
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1925, Notes d’ethnologie neo-caledonienne
1937, Gens de la Grande Terre
12.3 La “sociologia maghrebina” e Robert Montagne
Tradizione sociologica francese di ispirazione durkheimiana ebbe innesto orientalistico e
nordafricano > innesto che confluisce (anni ’20) nella “sociologia maghrebina”, ossia la riflessione
condotta da studiosi francesi sulle società e le culture del Nordafrica
1830-1912= Algeria, Tunisia, Marocco erano diventate colonie o protettorati francesi: storici,
geografi, etnologici, sociologi trovano terreno per le loro ricerche. Durkheim aveva tratto spunti
importanti da questi studiosi del xix secolo: la sua teoria della solidarietà sociale fondata sulla
contrapposizione società meccaniche-società organiche si era poggiata sulle ricerche di Hanoteau e
Letorneux sui berberi dell’Algeria.
Le ricerche prodotte dalla sociologia maghrebina si concentrarono sullo studio di aree ad alta e
complessa civilizzazione corrente di studi piuttosto lontana da interessi etnologia francese anni
’20-’30, orientati verso l’africanistica (Griaule) e l’oceanistica (Leenhardt) corrente di studi
largamente ignorata dall’antropologia.
I sistemi politici berberi
Tra quanti, influenzati da Mauss, si dedicarono agli studi delle società nordafricane e del Vicino
Oriente, ci fu Robert Montagne (RM) (1893-1954)
Robert Montagne (influenzato dalle idee di Mauss), formazione eclettica, a metà tra lo scientifico
e l’umanistico, giunse nel 1918 come militare in Marocco, dove imparò l’arabo e il berbero e
divenne uno dei maggiori conoscitori delle popolazioni locali e della loro organizzazione sociale e
politica. Lavorò anche in Siria raccogliendo un corpus di testi epici beduini (’30-‘32) e occupandosi
per primo della sedentarizzazione dei beduini del Vicino Oriente 1947, La civiltà del deserto=
sintesi lavori sui nomadi.
RM fu direttore dell’Institut Français di Damasco, con il quale collaborarono linguisti ed etnologi e
fondò nel ’36 il Centre des Hautes Etudes sur l’Afrique et l’Asie Modernes, dove si formarono i
giovani amministratori destinati ai territori musulmani controllati dalla Francia.
Dal 1924, RM pubblica su riviste orientaliste articoli su popolazioni berbere del Marocco e
dell’Algeria > origine per I berberi e il Makhzen, 1930, una delle più grandi monografie
etnografiche del ‘900: consiste in uno studio dell’organizzazione politica delle tribù berbere
dell’Atlante marocchino e dei loro rapporti con il governo (Makhzen) del sovrano del Marocco.
MA successo dell’opera post mortem per
o
o
o
o
collocazione disciplinare di RM (prof di sociologia musulmana al College de France)
suo contributo anni ’30-‘40 in area interessata agli studi britannici piuttosto che
francesi
etnologia francese in quegli anni no rivolta verso Nordafrica o Medioriente (aree di
complessa civilizzazione)
interessi etnologia francese diversi: al centro i sistemi di pensiero (Griaule), la
42
o
concezione del mito e della persona (Leenhardt) e lo studio di magia e religione
primitive (Mauss).
RM si avvalse molto della documentazione storica, mentre si tendeva allora a lavorare
su popolazioni prive di scrittura.
RM ci mostra, ne I berberi e il Makhzen, un affresco di vita sociale dei popoli installati nell’area dei
monti dell’Atlante e della evoluzione delle forme di organizzazione politica presenti in quest’area >
berberi da secoli in lotta con il governo del Sultano arabo per salvaguardare indipendenza.
Normalmente i berberi avevano istituzioni democratiche (capi eletti a turno in ogni tribù), ma il
potere di questi capi aumentava quando eliminavano i concorrenti dando vita a piccoli potentati >
questo sistema avrebbe dovuto tornare allo stadio iniziale alla morte del capo, ma se quello riusciva
ad allearsi con il Sultano, facendosi nominare suo rappresentante locale, il processo subiva
un’alterazione: potere di questi capi diventava tirannico, che si disgregava con la morte del Sultano
o con la ribellione della comunità vessata, grazie a campioni della democrazia. Il sistema tornava
all’origine, ma rischiava ancora di cadere nella tirannia, magari proprio a causa di quelli che erano
stati i campioni oscillazione tra due estremi: governo democratico o oligarchico da un lato e forma
tirannica dall’altro.
Oggetto dell’opera di RM è quest’alternanza di fasi, un’“alternanza monotona di periodi di
organizzazione e di anarchia”.
Risultato del lavoro di RM= specializzazione dell’evoluzione politica berbera; ogni comunità si
trovava in un momento diverso (tirannia, democrazia, oligarchia o momenti intermedi).
Lo spazio geografico diventava lo sfondo su cui proiettare le differenti fasi di trasformazione dels
sistema politico berbero.
14) IL FUNZIONALISMO STRUTTURALE BRITANNICO DA RADCLIFFE-BROWN
A EVANS-PRITCHARD
14.1 La scienza naturale della società: Alfred R. Radcliffe-Brown
Dopo la partenza di Malinowski per gli Stati Uniti nel 38’, Alfred R. Radcliffe-Brown (RB)
divenne la figura più influente dell’antropologia britannica. Delineò un quadro di riferimento
teorico che oltrepassò i confini anglosassoni. La produzione scientifica della quasi totalità degli
autori britannici che hanno dominato la scena teorica tra il 40’ e il 60’ si situa all’interno del campo
problematico in gran parte definito da Radcliffe-Brown (il quale ha insegnato negli Stati Uniti, a
Chicago, e a Oxford).
Benchè Radcliffe-Brown abbia scritto che la scuola funzionalista in antropologia era un mito
inventato da Malinowski, egli è considerato proprio il principale promotore della prospettiva che
poneva l'accento sulla strutturaa sociale (non sulla cultura) come entità “funzionalmente” integrata.
L'influenza di Durkheim xxx
Allievo di Rivers, Radcliffe-Brown nei primi anni del 900’ compì inizialmente ricerche
nell’arcipelago delle isole Andamane (nell’Oceano indiano, a ovest rispetto la Thailandia) e nel 22’
(stesso anno della pubblicazione di “Argonauti” di Malinovski) pubblicò “the Andaman Islanders”
(gli isolani delle Andamane). Radcliffe-Brown fu profondamente influenzato da Durkheim tanto
che nel libro pubblicato nel 22’ cercò di definire la funzione sociale dei fenomeni mitico-religiosi.
“Tra le fondamentali condizioni che devono essere soddisfatte se gli esseri umani vogliono vivere
in società vi è l’esistenza di quella cosa che noi chiamiamo religione, ovvero la credenza in un
grande Potere Invisibile tra il quale e noi stessi deve esistere sempre un rapporto fortemente vitale
al fine di mantenere e stabilire l’armonia”.
Fin dagli inizi del 20’ Radcliffe-Brown si pose il problema di definire l’oggetto dell’antropologia a
43
partire dalla formazione di un metodo che potesse giustificare precisamente una tale definizione.
Seguendo Durkheim, Radcliffe-Brown tentò di circoscrivere il campo dell’antropologia allo
studio dei fenomeni in quanto tali, cioè dei fenomeni non riducibili ad un altro ordine di realtà.
Questa prima delimitazione era una possibilità per meglio individuare l’oggetto dell’antropologia,
grazie alla definizione di un metodo che egli pose come centrale. Questo metodo consisteva in:
identificazione dei meccanismi che operano all’interno della società consentendone il
funzionamento; poi nella loro comparazione; se possibile poi nella loro generalizzazione a livello di
“leggi”. Così definito, il metodo dell’antropologia individuava immediatamente l’oggetto stesso: le
leggi che determinano il funzionamento e le trasformazioni delle società.
[Metodo: identificare i meccanismi che fanno funzionare la società e generalizzarli a leggi, Oggetto:
leggi che determinano funzionamento e trasformazione delle società].
Etnologia e antropologia sociale
La definizione del metodo e dell'oggetto dell'antropologia consienti a Radcliffe-Brown di operare
due distinzioni:
1.
tra l'antropologia e l'etnologia. In Gran Bretagna aveva per oggetto lo studio della
cultura materiale e della storia dei popoli “primitivi”. Secondo Radcliffe-Brown invece
l’antropologia doveva occuparsi dei popoli primitivi attuali, MA coniò il termine di
“antropologia sociale” per indicare un nuovo tipo di approccio scientifico (a differenza
dell’antropologia di tradizione evoluzionista, che ricostruisce le fasi di sviluppo).
L’antropologia sociale era una scienza naturale della società che indaga fenomeni appartenenti
ad uno specifico ordine di realtà e irriducibili ad altri di diversa natura.
L’approccio di tipo scientifico è possibile poiché questa disciplina può essere fondata su un metodo
di tipo induttivo tipico delle scienze naturali, poiché “tutti i fenomeni sono sottoposti alle leggi
della natura e di conseguenza è possibile, applicando metodi logici, scoprire e provare alcune leggi
generali, ciascuna delle quali si applica ad un certo numero di fatti o eventi”.
L'antropologia sociale era un scienza naturale della società che indaga fenomeni appartenenti a
uno specifico ordine di realtà (i fatti sociali) e che sono irriducibili ad altri di natura differente.
La struttura sociale
L’acquisizione del concetto di struttura sociale fu un fatto importante per l’antropologia. E’ in
riferimento a questo concetto che l’antropologia britannica si svilupperà, distinguendosi dalle altre e
specialmente da quella americana (americana= studio della cultura  studio del comportamento
individuale e dell’adattamento dell’individuo alla sua società). A quello americano, RadcliffeBrown oppose lo studio analitico dei rapporti sociali, la cui trama complessiva costituiva appunto la
struttura sociale.
Struttura, processo e funzione sociale
Struttura sociale come trama dei rapporti realmente esistenti tra gli individui. Ha come referente
una realtà concreta, che corrisponde ai rapporti effettivamente intercorrenti e osservabili tra i
membri di una società (parenti, economia, lavoro, politica, ecc.).
Questo concetto va considerato in relazione a quelli di “processo sociale” e “funzione sociale”.
Processo sociale come moltitudine di azioni degli esseri umani e in particolare della loro
interazione”; funzione sociale come rapporto tra la struttura e il processo vitale”.
La società è un insieme coordinato di attività, è dunque un’organizzazione.
Sociale come un insieme coordinato di attività, come struttura organizzata. Metafora società44
organismo vivente: strutture organiche che per sopravvivere dipendono da fenomeni che
garantiscono l’insieme dei processi vitali.
Il riferimento a Durkheim era evidente, la funzione sociale (rapporto tra la struttura e il processo
vitale), è anche il rapporto che una forma di attività sociale (un rito, una transizione economica,
ecc.) ha con la sua struttura sociale “alla cui esistenza e continuità porta un contributo.
Il concetto di funzione di RB un valore epistemologico diverso da quello che esso possiede
nell'ultimo Malinowski, e segna la divaricazione tra il funzionalismo dei due autori.
Il concetto di funzione in Radcliffe-Brown ha il ruolo di contribuire al mantenimento del
complesso socio-culturale (funzionalismo ristretto di Malinowski).
(Radcliffe-Brown prospettò un nuovo campo problematico, chiamato “fisiologia strutturale”,
ovvero la conoscenza dei meccanismi che mantengono in vita una trama di rapporti sociali, del
modo in cui questi meccanismi operano e di come si conservano le strutture sociali. Tuttavia lo
studio della fisiologia strutturale rimase allo stadio programmatico poiché gli studi di RadcliffeBrown e allievi si concentrarono principalmente sull’analisi del funzionamento delle strutture
sociali e sui meccanismi che ne assicuravano il perdurare nel tempo.)
La comunità strutturale
Il cambiamento non è nella natura della struttura come pensata da RB, la struttura resta identica,
cambiano i suoi contenuti. “La continuità strutturale di un organismo è una continuità dinamica,
non statica, un processo nel quale la materia di cui è formato l’organismo cambia in continuazione,
mentre la forma resta la stessa. La continuità strutturale delle società umane è dinamica in questo
senso. Gli uomini sono la materia, la forma il modo in cui essi sono in rapporto tra loro grazie a
relazioni di tipo istituzionale. La dinamica sociale era cosi concepita in termini di semplice
rimpiazzo degli elementi della struttura.
Lo studio di sistemi di parentela
Lo studio dei sistemi di parentela è forse il settore della ricerca antropologica al quale RadcliffeBrown ha fornito il contributo maggiore. La sua competenza si fondava sulla sua esperienza di
lavoro tra gli aborigeni australiani. “The social Organization of Australian Tribes” (1930-1931) era
il risultato di diverse ricerche compiute in Oceania.
Questo lavoro aveva predetto, grazie a un’ipotesi formulata sulla base della letteratura etnografica,
l’esistenza di un particolare sistema matrimoniale in una regione dell’Australia, sistema Kariera
che prende il nome da una tribù dell’Australia nord-occidentale. E’ un sistema a quattro sezioni in
base al quale un individuo viene assegnato ad una sezione (di quattro), diversa tanto da quella del
padre quanto della madre. Egli è obbligato a sposarsi con un individuo che non appartenga né alla
propria sezione né a quella del padre né della madre. Il sistema è congegnato per assumere carattere
di ripetitività ciclica. Questo lavoro rimane nella storia dell’antropologia come un “memorabile
successo deduttivo”. Secondo Radcliffe-Brown, “è possibile trovare, al di là delle diversità, un
numero ristretto di principi generali applicati e combinati in maniere diverse” (studio dei sistemi di
parentela, 1941).
Radcliffe-Brown torna nel 1941 sul problema del rapporto tra le terminologie di parentela e
comportamento sociale. Più vicino alla posizione di Rivers (terminologia come riflesso delle
relazioni sociali) che non quella di Kroeber (in rilievo l'aspetto psicologico delle relazioni espresse
di singoli termini). RB propose una lettura delle terminologie di parentela in grado di farne
emergere innanzitutto il significato in relazione ai comportamenti sociali reali.
45
(La differenza tra gli evoluzionisti e Radcliffe-Brown emerge soprattutto in relazione
all’interpretazione di alcune caratteristiche dei sistemi di tipo omaha (dal nome dei nativi
nordamericani presso cui fu osservato per la prima volta un sistema di questo genere). Il sistema
omaha ha la caratteristica per cui la figlia del fratello della madre (quella che noi chiamiamo cugina,
o cugina incrociata matrilaterale) viene chiamata anch’ella madre. Radcliffe-Brown spiega
l’esistenza di questa terminologia come un modo per rendere sociologicamente coerenti, laddove
possibile, questi tipi di unione. La cugina diventerebbe infatti la matrigna dei figli di suo marito,
venendo così chiamata “madre” (a differenza degli evoluzionisti, che credevano che in passato fosse
possibile l’unione di un uomo con la figlia del fratello e della moglie).
I principi strutturali
Radcliffe-Brown cercò di definire il significato delle terminologie di parentela a livello di struttura
sociale. Stabilì dei principi strutturali alla luce dei quali le terminologie di tipo classificatorio
acquistavano funzionalità sociologica e perdevano le caratteristiche di “sopravvivenza” che gli
evoluzionisti attribuivano ad esse.
Il primo di questi principi strutturali è quello dell’unità del gruppo dei fratelli (sibiling group),
cioè dei figli di stesso padre e madre senza distinzione di sesso. Il gruppo dei sibiling costituisce
un’unità definita solidale, per l’unità che esprime “nei confronti di una persona estranea al gruppo”
ma legata a quest’ultimo per via di un rapporto con uno dei suoi membri.
Il sibiling group spiegherebbe il fatto che un individuo possa chiamare tanto il fratello del proprio
padre quanto la sorella del padre, entrambi “padre”, come avviene in certi sistemi africani di bantu.
Radcliffe-Brown mise dunque in rapporto diretto la terminologia di parentela con il
comportamento sociale senza però attribuire caratteristiche di causa ed effetto. Egli non riprodusse
la problematica degli evoluzionisti che facevano dipendere le terminologie dai tipi di unione
matrimoniale, ma affermava semplicemente l’unità funzionale di terminologie e di comportamento
sociale.
L'unità di lignaggio
Un altro principio strutturale posto da Radcliffe-Brown è quello dell’unità di lignaggio. Un
individuo può rivolgersi con lo stesso termine a tutti gli individui appartenenti alla linea di
discendenza di uno dei genitori. Quindi, tenendo conto dell’identità sessuale ma non di quella
generazionale, è possibile chiamare “madre” la madre, le sue sorelle, le sue cugine matrilaterali…
La teoria del totemismo
Nel saggio di Radcliffe-Brown del 1929 “La teoria sociologica del totemismo” vengono messe in
discussione le conclusioni di Durkheim circa l’uso di simboli animali e vegetali nella
caratterizzazione del totem. Secondo Durkheim la solidarietà tra membri del clan poteva essere
ottenuta mediante l’identificazione con un segno o simbolo.
Il totemismo “economico”
Radcliffe-Brown accettava il pensiero di Durkhaim relativo all’effetto integrativo prodotto dal
simbolo totemico con i gruppi che si identificano in esso, ma respinge il pensiero relativo all’uso di
animali e vegetali: sostiene che questi siano un modo sbagliato per stabilire la relazione rituale tra
uomo e totem.
L'atteggiamento rituale nei confronti del loro totem (Durkheim → effetto della natura del totem in
quanto simbolo della società), veniva considerato da RB come un caso particolare di una più
generale attitudine rituale nei confronti della specie animale e vegetale.
Il comportamento rituale nei confronti delle piante e animali era, secondo Radcliffe-Brown,
connesso con l’importanza che determinate specie avevano nella vita economica di certi gruppi. 
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affermazione dei gruppi + ritualizzazione = totemismo (piante o animali). Questa teoria era però
provvisoria, perché alcune specie erano fatte oggetto di culto pur non avendo un ruolo
nell’economia delle società.
Il totemismo “strutturale”
Vent’anni più tardi Radcliffe-Brown abbandona la teoria “economica” del totemismo e si
concentra su due problemi. 1) perché solo certe specie e non altre, per rappresentare
simbolicamente certe relazioni tra gruppi 2) perché spesso si ritrovano abbinate certe specie, con
caratteristiche simili ma pensate come “opposte” (esempio, metà falco e metà cornacchia, oppure
metà corvo e metà aquila). Attraverso l’analisi comparata di alcuni miti australiani e nordamericani,
Radcliffe-Brown conclude che “il mondo della vita animale è rappresentato in termini di relazioni
sociali simili a quelle della società umana” e che l’opposizione di due animali è frutto di “un
determinato principio strutturale”. Il totemismo può così esprimere una serie di rapporti opposti ma
correlati (esempio lo scambio matrimoniale tra gruppi).
Per alcuni autori, come per Lévi-Strauss, ciò costituiva una apertura verso un'analisi di nuovo tipo,
che egli porterà a termine nel 1962 con il suo nome sul totemismo.
Dopo Radcliffe-Brown
Radcliffe-Brown e Malinowski, il suo strutturalismo funzionale, furono il punto di riferimento per
quasi tutti i ricercatori che facevano capo alla tradizione agli studi antropologici in Gran Bretagna,
Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. Nei primi anni dopo la conclusione del secondo conflitto
mondiale, ci furono i primi segni di allontanamento dalle posizioni di Radcliffe-Brown.
14.2 Razionalità primitiva e antropologia come arte: Edward Evans-Pritchard
È una delle grandi figure dell’antropologia sociale britannica. Studiò e lavoro attorno ai temi di
magia e religione anticipando problematiche che si sarebbero imposte nella seconda metà del 900’.
Passò da posizioni struttural-funzionaliste ortodosse a una posizione opposta a quella che vedeva
nell’antropologia “una scienza della cultura” fondata su metodologia comparativa e induzione.
Gli Azande e la razionalità primitiva
Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande fu il suo primo e importante libro uscito nel 1937 di
Edward Evans-Pritchard. Gli Azande presso cui Evans-Pritchard aveva condotto ricerche tra il
26’ e il 30’, sono un popolo stanziato tra Sudan e Congo. Ha studiato la loro concezione di
stregoneria e magia e le procedure seguite dagli indovini per scoprire i responsabili dei malefici.
Natura del pensiero magico
Fra gli Azande qualsiasi disgrazia può essere attribuita alla magia. Colui che subisce disgrazie si
rivolge a un oracolo, il quale possiede tecniche per proteggere le persone dalla stregoneria.
Stregoneria, oracoli e magia hanno senso se visti come parti interdipendenti di un unico complesso.
questo sistema ha una struttura logica, stabiliti alcuni postulati risultano valide le conclusioni: la
stregoneria provoca la morte  la morte è la prova che la stregoneria esiste  gli oracoli
confermano che la morte è avvenuta a causa della stregoneria  la magia serve a vendicare la
morte.
La coerenza interna dei sistemi di pensiero
Il problema della razionalità secondo Evans-Pritchard non può essere posto in termini di
alternativa tra vero o falso, bensì in termini di coerenza interna ad ogni sistema di credenze. Il fatto
di considerare la magia come un complesso strutturato di idee è ciò che distingue il pensiero di
Evans-Pritchard (Malinowski ad esempio trattava la sfera della magia in connessione con altri
47
aspetti della vita sociale, non come sistema di idee a sé). Lo studio sugli Azande del 1937 ha dato
inizio ad altri studi sui “sistemi di pensiero”. Da allora in poi il pensiero “primitivo” non si
concentrerà più sulla natura pre-razionale o sulla pre-logica, ma verrà considerato in relazione con
la società che lo esprime e come un insieme coerente di concetti legati tra loro da una logica
propria.
I Nuer e il modello segmentario
La fama di Evans-Pritchard è legata agli studi sull’organizzazione sociale dei Nuer in Sudan,
allevatori di bovini ed agricoltori. Un’attenzione particolare fu dedicata alle dinamiche delle
alleanze e del conflitto. La loro dinamica politica consisteva nei rapporti di alleanza o conflitto che
i vari segmenti autonomi potevano intrattenere alternativamente tra loro (VEDI SCHEMA). Tali
segmenti si univano o si allontanavano gli uni dagli altri per dar luogo a gruppi contrapposti, quasi
sempre in maniera tale che l’opposizione creava un equilibrio delle forze in lotta, così che questo
equilibrio fosse ragione di arresto del conflitto.
L'unità di lignaggio
Questo modello prende il nome di “modello segmentario”. Tale modello dimostra che una vita
politica complessa e articolata poteva esistere anche laddove non era presente un’autorità formale
esercitante un potere. (vedi schema pg. 140).
Una nuova idea di “segmentarietà”
Il modello segmentario consentì di liberare le nozioni di “segmentazione” e “società segmentaria”
dalle immagini di “meccanicità” e “staticità” conferite ad esse da Durkheim.
Durkheim (La divisione del lavoro sociale, 1893) aveva parlato di società a solidarietà meccanica
contrapposta a quella a solidarietà organica. Le prime hanno una struttura simile a quella dei
lombrichi: ogni segmento è una replica, segmento più o segmento meno, si riforma uguale agli altri.
Con Evans-Pritchard le nozioni di “segmentazione” e “società segmentaria” acquistano carattere
dinamico. La segmentazione non è più una semplice “aggiunta o sottrazione” di parti della società
stessa, diventa un processo contestuale. E la società non è più equiparabile ad un organismo
primitivo come quello del lombrico, anzi, è un corpo sociale che si regge sulla dinamicità dei
segmenti i quali si alleano, scontrano e oppongono a pari livello assicurando una condizione di
ordine pur senza un anarchico. Il modello segmentario costitui un vero e proprio paradigma di
riferimento per gli studi sulle società tribali africane e mediorientali.
L’antropologia come “traduzione di culture” e la critica del metodo comparativo
Il carattere coerente e logico dei sistemi di pensiero primitivo, poneva un problema: la loro
traducibilità nel pensiero dell'antropologo e nella logica culturale occidentale.
Evans-Pritchard cerca di rendere ragione a certe affermazioni apparentemente irrazionali (“la
pioggia è spirito; i gemelli sono uccelli”) ricostruendo il sistema concettuale dei popoli che usavano
simili espressioni, dimostrando che all’interno del sistema di pensiero specifico tali affermazioni
hanno perfettamente senso e sono razionali. Queste teorie di Evans-Pritchard sono state criticate
di essere troppo caritatevoli e di voler forzatamente trovare un senso a ciò che è “irrazionale”. È
osservando come e quando i concetti vengono impiegati che è possibile coglierne il senso culturale
specifico e, quindi, tradurli. Altrimenti un osservatore esterno rischia di “razionalizzarli” troppo.
Dal 1950 in poi, l’antropologia acquista la concezione di “traduzione di culture”, e questo
soprattutto per opera di Evans-Pritchard.
Contribuì a un mutamento di prospettiva circa la concezione dell’antropologia. Abbandonò le
posizioni di Radcliffe-Brown iniziando a pensare la disciplina come qualcosa di più vicino alle
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“scienze storiche”. Secondo Evans-Pritchard (che post Azande studiò i Beduini della Libia)
“l’antropologia studia le società più come sistemi morali che non come sistemi naturali, va in cerca
di modelli più che di leggi scientifiche, interpreta piuttosto che spiegare”.).
La critica del metodo comparativo
Evans-Pritchard nel 1965 pubblica “Il metodo comparativo nell’antropologia sociale” e critica il
metodo comparativo. Giudicava “prive di documentazione etnografica adeguata” l’idea di
Radcliffe-Brown sulla comparazione; polemizzava con Frazer il quale forniva esempi ad hoc e
decontestualizzati per dimostrare teoria precostituite. Critica ai tentativi allora in corso (soprattutto
in America) di classificare i tratti culturali allo scopo di produrre un sapere della variabilità
culturale fondata sul criterio, già proposta dagli evoluzionisti e da Durkheim, delle cosiddette
variazioni concomitanti.
Non per questo andava abbandonato il metodo della comparazione. Propose un metodo
comparativo su scala ridotta che prendesse in considerazione società definite sulla base della loro
organizzazione (cacciatori, nomadi…) o situate all’interno di un’area geografica circoscritta.
Proponeva un lavoro di verifica delle ipotesi avanzate dai ricercatori su tematiche definite, non
l’adozione di una prospettiva generalizzata a tutti i costi. Questa riduzione delle pretese del metodo
comparativo spostava l’accento sulla ricerca delle particolarità culturali piuttosto che sulle
uniformità. “L’antropologia deve spiegare le differenze. Ogni pretesa di universalità va contro la
sociologia, la quale vuole spiegare le differenze, non le somiglianze”. Per Evans-Pritchard la
conoscenza etnografica è una premessa fondamentale. Con le sue teorie, contribuì ad accelerare la
crisi del paradigma funzionalista.
20) L’ANTROPOLOGIA E I PARADIGMI DELLA CONTEMPORANEITÀ
A partire dagli anni 70 l’antropologia ha vissuto quella che è stata chiamata “una crisi della
rappresentazione etnografica”. Tale crisi ha riguardato il modo in cui l’antropologia aveva “parlato
degli altri” senza preoccuparsi troppo del modo in cui questi “altri” potevano essere rappresentati
all’interno di un testo etnografico. Le prospettive critiche avutesi in seno all’antropologia francese,
nonché certi sviluppi del funzionalismo britannico, erano i segni non solo del fatto che molti
antropologi cominciarono a porsi domande diverse rispetto al passato, ma anche che il mondo delle
culture non poteva più essere rappresentato come una volta. Dagli anni 70 in avanti sono infatti
venuta emergendo nuove prospettive di ricerca e, soprattutto, nuove modalità di trattare i temi di
discussione dell’antropologia. Le nuove prospettive hanno contribuito a modificare gli stessi oggetti
dell’antropologia e a favorire l’emersione di nuovi paradigmi.
20.1 La crisi della “rappresentazione etnografica”
Questa crisi fu in realtà il prodotto di un’altra crisi: quella che aveva attraversato l’antropologia nel
decennio precedente di cui l’antropologia critiche francesi e britanniche erano state il segnale: le
inquietudini espresse e problematizzate nella domanda relativa al contributo che l’antropologia e
l’etnologia avevano dato, o non dato, alla dominazione coloniale.
Il tema della crisi della rappresentazione etnografica si fuse ben presto con quello della scrittura
come mezzo di controllo dell’alterità. Negli anni 80 la questione della funzione della scrittura nella
costruzione delle rappresentazioni etnografiche esplose con grande risonanza. Ciò fu dovuto alla
pubblicazione di un volume destinato a fare epoca nella storia degli studi: Scrivere le culture
dell’86. Curato dagli antropologi statunitensi James Clifford e George Marcus, il libro
raccoglieva alcuni contributi specialistici vertenti sull’etnografia e, appunto, sui suoi aspetti
49
“scritturali”.
Questo libro era un effetto tardo, indiretto, dell’arrivo della cosiddetta French Theory nelle
università americane durante gli anni 60. E' il nome con cui, negli Stati Uniti, viene genericamente
indicata l’opera di un gruppo di pensatori francesi che vennero adottati dalla filosofia e delle
scienze umane americane all’epoca delle proteste studentesche degli anni 67-68. Tra questi: JeanPaul Sartre, Simone de Beauvoir, Gilles Deleuze, Jean Baudrillard, Michel Foucault, Jacques
Derrida e molti altri.
Scrivere le culture fu tanto il portavoce quanto il promotore di una serie di stanze critiche già
presenti nell’antropologia di lingua anglosassone e che trovarono nuove forme espressive nuovi
oggetti di analisi. Uno di questi fu appunto il tema della scrittura. Questo libro tendeva infatti
Problematizzare in termini di rappresentazione scritturale “il disagio” diffusosi tra gli antropologi
nei decenni precedenti. La fine del mondo coloniale, e di conseguenza le mutate condizioni di
lavoro dei ricercatori, decretarono il tramonto di alcuni paradigmi consolidati e la comparsa di
nuovi oggetti di indagine. La French Theory portò in America una diversa sensibilità in campo
filosofico e letterario.
La dimensione riflessiva
Grande spazio andò acquisendo in questi anni 70 la dimensione della riflessività, cioè
dell’incidenza che un’analisi critica, condotta sulle proprie categorie epistemologiche, ha sulla
costruzione dell’oggetto stesso della ricerca. Il tema della riflessività si dispiegò nel cosiddetto
“sperimentalismo etnografico”, consistente, soprattutto tra gli antropologi americani, nel tentativo
di “far parlare l’altro” nel testo etnografico divenne una missione finalizzata al coinvolgimento di
coloro che erano oggetto della ricerca nella produzione di testi costruiti in maniera tale che dalla
scrittura emergesse la dimensione del dialogo tra ricercatore e nativo. lo sperimentalismo
etnografico fu anche uno stile adatto a spiegare che se coloro che scrivevano erano gli antropologi,
questi avevano degli importanti suggeritore sul campo: i nativi. Si passa dall’osservazione
partecipante (Malinowski) all’osservazione della partecipazione, e il problema di afferrare il punto
di vista dell’indigeno, il suo rapporto con la vita, di rendersi conto della sua visione del suo mondo,
si trasformò in quello di far parlare gli altri nel testo etnografico, esplicitare le inclinazioni dei
ricercatori loro coinvolgimento emotivo nel rapporto con l’altro, esplorare le attitudini espressive
del ricercatore stesso e dei nativi, incitando questi ultimi, in molti casi, a produrre o esibire le loro
stesse produzioni scritte come semplici appunti, memorie sparse o vere proprie autobiografie.
Il dialogismo
La forma dialogica o polifonica, cioè a più voci, del resoconto etnografico, contribuì a fare dei
fenomeni presi in considerazione dell’antropologia qualcosa che appariva più come il frutto di una
invenzione che non di una ri-scrittura oggettiva della parola altrui.
In questa prospettiva, gli oggetti dell’antropologia sembrava non coincidere più con l'atto di
ricondurre a un senso manifesto fenomeni nascosti o incomprensibili al nativo medesimo attraverso
la scrittura. L'intento era innanzitutto quello di esplicitare i significati che emergono come tali
dall'interazione etnografica. Gli oggetti dell'antropologia non vennero più considerati come delle
entità nascoste che necessitavano di essere portate alla luce mediante un processo osservativoinduttivo-deduttivo (strutture, simboli, modelli ecc.), ma qualcosa che si manifesta nell’accordo che
si instaura tra soggetti che dialogano: il nativo e l’antropologo. Tuttavia, accanto a questi temi sono
andata sviluppandosi nuove sensibilità teoriche

con le espressioni “antropologia interpretativa” e “antropologia della contemporaneità”
indichiamo qui due prospettive emerse a partire proprio da queste premesse.
50
20.2 La “svolta interpretativa”
Per “antropologia interpretativa” si intende una prospettiva di ricerca e di analisi affermatasi in
America a partire dalla fine degli anni 60, ma che ha le proprie radici soprattutto nella filosofia e
nelle scienze umane così come queste si sono sviluppate in Europa nel secondo dopo guerra.
L’antropologia interpretativa nasce ufficialmente nel 73 con la pubblicazione di Interpretazione di
culture di Clifford Geertz, ma la prospettiva interpretativa è tuttavia parte di una corrente più
generale di studi nota come “antropologia simbolica”. David M. Schneider, uno dei più autorevoli
esponenti della corrente etnoscientifica dell'antropologia simbolica, diceva: l'oggetto di una teoria
della cultura è di contribuire a una comprensione dell'azione sociale, dal momento che la cultura,
che io definisco con un sistema simboli e di significati, ha un ruolo nel determinare tale azione.
La matrice filosofica e antropologica
Nell'antropologia simbolica (variante interpretativa), confluiscono stili filosofici e intellettuali
come la fenomenologia, strutturalismo, sociologia di Max Weber, linguistica, semiotica, la teoria
della critica della scuola di Francoforte e l'ermeneutica. È debitrice dell'impostazione “ideografica”
o particolarista di Boas (cap. 8).
Tutte le correnti e le risorse e le risorse intellettuali hanno consentito di sviluppare una riflessione
sofisticata su tre tematiche: a) il “punto di vista del nativo”; b) l'incontro tra culture, discussione dei
processi comunicativi tra etnologo e informatore; c) il tema di come questa esperienza di questo
incontro possa essere trascritta in un testo etnografico. A livello epistemologico, l’antropologia
interpretativa pone il problema della conoscibilità delle culture in termini di una visione
“dall’interno“ delle culture stesse; avanza poi la questione dei mezzi che consentono di raggiungere
la conoscenza dell’altro, ovvero del procedimento etnografico o della traduzione di una cultura in
un’altra; e infine il problema della trasmissibilità di tale traduzione ad un pubblico.
L’antropologia interpretativa si pone in contrasto con quelle prospettive come lo strutturalfunzionalismo o il neo-evoluzionismo che avevano fatto della cultura, del comportamento e della
struttura sociale degli oggetti suscettibili di una trattazione tipologica, formale o istituzionale
mirante alla formulazione di proposizioni generali. Essa non risparmia neppure lo strutturalismo di
Levi Strauss; infine, non concorda neppure con l'etnoscienza. La prospettiva interpretativa, pur
ponendo anch’essa l’accento sul comportamento, sul lignaggio e sull’aspetto simbolico della
cultura, riconosce al tempo stesso che quest’ultima e la vita sociale sono “una negoziazione di
significati”. Che cosa si deve intendere per significato, e per negoziazione di significati in questo
preciso contesto?
Per comprendere il programma dell’antropologia interpretativa bisogna partire dal fatto che per essa
la base comune d’incontro dell’osservatore dell’osservato (cioè dell’antropologo e del nativo) è
costituita dalle pratiche realmente agite e rappresentate. queste pratiche consistono in
comportamenti che sono sempre parte di costellazioni più ampi di significato, al di fuori delle quali
essi non avrebbero senso. Le pratiche per poter essere riconosciute come significati devono poter
esistere all’interno di un contesto di rappresentazioni più ampio. E, come tali, le pratiche e i
significati che se veicolano e nei quali sono calate, sono di natura “intersoggettiva”, nel senso che
non sono puramente riducibili agli Stati psichici individuali o alle credenze personali.
La cultura come un sistema “aperto”
Un ulteriore punto su cui poggia la prospettiva interpretativa in antropologia è quello della vita
socioculturale come “sistema aperto”. Una cultura non può essere messa al riparo da influenze
esterne e studiata in laboratorio. In antropologia inoltre, l’osservatore e l’osservato sono calati nella
stessa situazione (l’incontro etnografico), e non esiste di conseguenza una posizione che sia
veramente privilegiata per poter descrivere che cosa succede, dal momento che tanto l’antropologo
51
quanto il nativo stanno in una relazione di influenza reciproca per quanto riguarda l’elaborazione di
proposizioni e di giudizi relativi alla cultura che viene studiata. Non c’è in antropologia quel
“distacco” tra osservatore e osservato, tra scienziato e oggetto della ricerca che si può avere in altri
campi di studio. C’è piuttosto una “circolarità ermeneutica” tra soggetti, ciascuno dei quali è
produttore di significati.
L’antropologia parte anche dall’assunto che, oltre ad essere “animali simbolici”, gli esseri umani
sono anche “animali auto-interpretanti” e “auto-definitori”. Questo fatto, che è alla base della
concezione stessa che la prospettiva interpretativa ha sia della cultura che dell’antropologia,
costituisce un elemento di netta differenziazione da quelle prospettive che pretendono di fondare lo
statuto conoscitivo del sapere antropologico sulla semplice osservazione e anche di quelle che si
illudono di poter usare un linguaggio neutro per descrivere i dati. nessuno di questi due presupposti
(oggettività dell’osservazione e neutralità del linguaggio descrittivo) ha in effetti valore nelle
scienze umane, perché il contesto significante, che è dato dall’interpretazione dialogica tra
antropologo e informatore, è un dato assolutamente primario dal quale non è possibile prescindere
se non a prezzo di distorsioni importanti.
Le pratiche di ricerca appartenenti ad un filone interpretativo si caratterizzano dunque per
l’attenzione che prestano alle variabilità concrete dei significati culturali nella loro complessità
contestuale. La considerazione attorno alla quale ruota l’intera prospettiva interpretativa è che tanto
l’oggetto della ricerca quanto gli strumenti di essa appartengono entrambi allo stesso contesto, il
mondo dell’uomo, animale simbolico e interpretante.
Non si è di fronte a un soggettivismo romantico, ma enfatizza il carattere “pubblico” dei significati
che nascono da relazioni di natura intersoggettiva dialogica e negoziale.
Cultura come testo, descrizione densa e punto di vista del nativo: Clifford Geertz
L'idea di una cultura come testo, metafora fondante il “paradigma interpretativo” nel suo significato
più ampio, trae origine dalla ermeneutica filosofica contemporanea e costituisce il punto nodale del
lavoro teorico di C. Geertz è il virtuale “caposcuola” dell’antropologia interpretativa e una delle
figure di maggior rilievo dell’antropologia contemporanea. I suoi studi sul campo lo hanno portato
a toccare gli estremi geografici del mondo musulmano: l’Indonesia e il Marocco, in un grande
“volo etnografico” che ha costituito la base di lavori a sfondo comparativo.
In interpretazione di culture, Gerrtz ha esposto i principi direttivi di una “teoria interpretativa della
cultura”. Bisogna per la verità precisare che non esiste nulla di più ostico della prospettiva
interpretativa in antropologia quando si tratta di una esposizione sistematica delle sue procedure di
analisi. D’altra parte, egli stesso a farci sospettare della possibilità di cogliere i fondamenti teorici
dell’interpretazione: “il vizio di fondo degli approcci interpretativi a qualunque genere di cosa è che
essi tendono a resistere, o viene loro permesso di farlo, all’articolazione concettuale e a sfuggire
così alle ripartizioni e alle valutazioni di tipo sistematico. [...] Imprigionata nell’immediatezza del
suo dettaglio, un qualunque tentativo di esprimere ciò che dice in termini diversi dei propri è
considerato un travisamento”. Questa sua affermazione ha offerto ai suoi critici l’occasione per
mettere in evidenza come l’antropologia interpretativa si allontana dal poter esplicitare le proprie
premesse teoriche. I suoi critici hanno insistito su ciò che potremmo chiamare “l’indeterminatezza
della teoria interpretativa”.
Il carattere pubblico del significato e la cultura come testo
Potrebbe sembrare che Geertz ammetta l’identificazione dell’antropologia interpretativa con una
forma di soggettivismo, in realtà non è così perché egli aggiunge: “Questo (è il fatto cioè che molte
interpretazioni siano soggettive) non va assolutamente bene per un campo di studio che afferma di
essere una scienza...” Nasce così il problema di definire la natura dell’oggetto dell’antropologia e
del metodo mediante il quale “raggiunge l’accesso al mondo concettuale in cui vivono i nostri
52
soggetti così che possiamo dialogare con loro, nel senso esteso del termine”. “Raggiungere
l’accesso al mondo concettuale” sembra voler dire che dobbiamo scavare oltre una superficie al di
là della quale soltanto si trova la verità. Questo raggiungimento di un mondo concettuale nascosto
non è però per nulla simile a quello teorizzato da Levi Strauss: infatti, per Geertz non si tratta di
oltrepassare la soglia dei fenomeni per cogliere la verità in un luogo come l’inconscio strutturale; si
tratta di “sfogliare” uno ad uno i significati stratificati la cui trama (texture) costituisce il testo (text)
della cultura. In che senso possiamo dire che la cultura è un “testo” e che il metodo per conoscerla
consisterebbe in un lavoro di de-stratificazione di significati? Bisogna tornare alla concezione del
significato tipica della prospettiva interpretativa in genere. Il significato non è un fatto privato (e qui
Geertz riconosce il ruolo svolto da Wittgenstein e da altri nel de-privatizzare il significato), il
significato è intersoggettivo, pubblico, una caratteristica questa che Geertz attribuisce alla cultura
nella sua globalità. Per Geertz infatti, la cultura, costituita da azioni simboliche e quindi da
ragnatele di significati, si configura proprio come un testo o un insieme di testi che l’antropologo
tenta di leggere, come gli stesso dirà “sopra le spalle di quelli a cui appartengono di diritto”.
La descrizione densa
E come farò però l’antropologo a leggere questi testi, costellazioni di azioni e di simboli
significanti, che costituiscono la cultura? Non è una semplice lettura. Il concetto di descrizione
densa dovrebbe poter spiegare che cosa fa, o dovrebbe fare l’antropologo quando cerca di
comprendere una cultura.
Geertz riprende a tal proposito un passaggio del filosofo inglese Gilbert Ryle dove questi mostra
come un semplice gesto può essere interpretato differentemente a seconda del contesto —> una
strizzatina d’occhio può voler dire molte cose: può essere un tic o un ammiccamento, ma questo
ammiccamento può, a sua volta, significare cose diverse. La differenza tra un tic e un
ammiccamento, per quanto non fotografabile, dice Geertz, è grande. Contrarre le palpebre apposta
quando esiste un codice pubblico in cui farlo è un significato d'intesa, è ammiccare.
Antropologia, etnografia e scrittura etnografica
È all’interno di questo testo costituito dalla trama dei significati stratificati, un testo pubblico che si
crea nell’interazione tra i soggetti che opera l’antropologo. Ecco quindi dove risiede l’oggetto
dell’etnografia: una gerarchia stratificata di strutture significative nei cui termini sono prodotti,
percepiti e interpretati tic, ammiccamenti, falsi ammiccamenti, parodia e senza di cui (i significati
gerarchicamente stratificati) di fatto non esisterebbero. Qui Geertz parla di oggetto dell’etnografia.
Sarebbe sbagliato credere che egli stia stabilendo implicitamente una distinzione, infatti per Geertz
l’etnografia è antropologia (e viceversa), in quanto è nel momento stesso in cui l’antropologo destratifica (interpretandole) le strutture significative che egli “fa dell’antropologia”. Il momento
etnografico, insomma, è già un momento teorico-interpretativo nel quale risiede gran parte della
portata esplicativa dell’antropologia.
È In Opere e vite. L’antropologo come autore del 1988, Geertz scrive, rendendo esplicito che cosa
egli intenda per lettura del testo etnografico: “ E così come la critica della narrativa della poesia si
sviluppa meglio da un coinvolgimento immaginativo con la narrativa e la poesia stesse, e non da
nozioni importate dall’esterno circa ciò che esse dovrebbero essere, allo stesso modo la critica della
scrittura antropologica (che non è né narrativa né poesia in senso stretto ma che è entrambe in senso
lato) dovrebbe svilupparsi da un simile coinvolgimento con il testo antropologico e non da
concezioni esterne relative a che cosa dovrebbe somigliare per poter essere qualificato come
scientifico”.
53
Idiografia e antropologia interpretativa
Appare dunque qui, in maniera del tutto esplicita, la vocazione idiografica e particolaristica
dell’antropologia interpretativa, una vocazione che certamente può essere messa in rapporto con il
taglio dato da Boas allo studio delle culture. Sarà bene però non fraintendere  Boas era un
“interpretativo” tanto quanto lo sono stati e lo sono attualmente tutti gli antropologi che si pongono
il problema di capire la cultura da loro studiata. Il particolarismo della posizione di Geertz
costituisce uno dei principali motivi delle critiche a lui rivolte —> i suoi critici gli riconoscono il
merito di aver prodotto studio e non-interpretativi o comunque condotti in una prospettiva di tipo
comparativo e, tuttavia, lo accusano di aver trascurato questo genere di lavori e di aver privilegiato
quelli interpretativi proprio al fine di affermare la validità scientifica dell’antropologia e addirittura
la superiorità della prospettiva interpretativa su tutte le altre. E eppure uno degli studi più noti
dell’antropologo americano si fonda sull’analisi di tre contesti tra loro assai lontani tanto sul piano
spaziale che culturale (l’islamizzata isola di Giava, l’induista Bali e il Marocco musulmano) e
costituisce un esempio ormai classico di antropologia interpretativa: Dal punto di vista dei nativi:
sulla natura della comprensione antropologica.
La nozione di “persona”: un esempio di “comparazione interpretativa”?
Dal punto di vista dei nativi consiste in un esame di tre modi di costituzione dell’idea di persona in
tre contesti culturali distinti: Giava, Bali e una cittadina del Marocco, i quali sono poi i tre luoghi
della ricerca sul campo di Geertz. Tuttavia, all’idea di persona egli non vuole conferire alcun
contenuto predefinito  non intende capire in che modo sia concepita la persona a Giava, a Bali e
in Marocco dando quasi per scontato che essa sia qualcosa provvista di caratteristiche emotive e
razionali analoghe a quelle che noi occidentali siamo soliti conferirle. Non si tratta insomma di
ritrovare in altri contesti culturali la persona così concepita, ma invece di vedere “quali siano le
esperienze dei giavanesi, dei balinesi e dei marocchini all’interno del quadro concettuale della loro
idea di ciò che è il sé”.
La rilevanza di questo lavoro è teorica e, in particolare, metodologica in quanto, in sintonia con la
sua concezione dell’antropologia come etnografia, egli vuole esplorare il modo in cui, attraverso la
descrizione etnografica, un antropologo arriva cogliere il punto di vista dei nativi. E lo spunto di
questo lavoro è fornito dalle reazioni che si ebbero tra gli antropologi alla pubblicazione, avvenuta
postuma nel 67, dei diari di Malinowski. Da questi emergeva un’immagine di Malinowski ben
diversa da quella che ci si era fatti di costui: Malinowski esprimeva un forte disagio di fronte ad una
cultura che gli era estranea, che percepiva a volte come ostile e del tutto incomprensibile.
Malinowski esprimeva non solo “il disagio dell’antropologo“ di fronte alla cultura aliena; non solo
rivelava, attraverso questi diari, che l’antropologo è ben lontano dall’essere un camaleonte
etnografico. Anche se nessuno se ne era reso conto, dice Geertz, attraverso i suoi diari Malinowski
poneva un problema di tipo epistemologico: come possiamo conoscere un’altra cultura se è
impossibile, come appunto dimostrano i suoi diari, capire l’altro per empatia? “Cosa accade (si
chiede Geertz) al comprendere quando l’immedesimarsi scompare?”
Concetti vicini e concetti lontani dall’esperienza
La ricerca di una soluzione porta Geertz a ritenere che il processo conoscitivo in antropologia si
articoli attraverso due tipi di concetti, quelli “vicini” e quelli “lontani“ dall’esperienza del nativo. I
primi sono quelli che chiunque, nel nostro caso un informatore, può utilizzare naturalmente e senza
sforzo per definire ciò che lui e i suoi colleghi vedono, sentono, pensano, immaginano e che
comprenderebbe prontamente quando Utilizzati in modo simile da altri. I concetti lontani
dall’esperienza sono invece quelli con caratteristiche contrarie: amore e nirvana, cathexis
dell’oggetto e sistema religioso.
La conoscenza antropologica, afferma Geertz, oscilla tra questi due poli, tra la ripresa dei concetti
vicini e quelli lontani dall’esperienza dei nativi, in un continuo tentativo di traduzione controllata
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dei primi nei secondi e di controllo nella gestione di questi ultimi per interpretare i primi. Se infatti
adottassimo la prospettiva secondo la quale dobbiamo usare solo i concetti vicini all’esperienza del
nativo, rischieremmo di essere così dentro l’altra cultura che non la capiremo più, non avremmo il
distacco sufficiente per poterla analizzare così trasmettere i significati ai destinatari del nostro
lavoro di antropologi. Se invece adottassimo l’altra soluzione, quella di utilizzare solo i concetti
lontani dall’esperienza, e rischieremmo di allontanarci dalla vita di coloro che studiamo al punto di
perdere di vista la specificità di essa.
L’utilizzazione, la ripresa, l’analisi dei concetti vicini all’esperienza, e non loro continuo confronto
con quelli lontani usati dall’antropologo per comunicare con il suo pubblico, appaiono a Geertz
come le operazioni necessarie per tentare una comprensione dal punto di vista dei nativi.
La dimensione comparativa
In questa prospettiva Geertz affronta la costituzione della nozione di “persona” nei tre contesti
culturali di Giava, Bali e di una cittadina del Marocco per giungere ad una caratterizzazione e del
modo specifico in cui, in questi tre diversi contesti, si produce l’idea di ciò che il sé. Egli non rifiuta
dunque la dimensione comparativa se per comparazione si intende il raggiungimento di una
conoscenza del modo in cui una realtà universale come l’idea del sé si articoli nelle diverse forme
culturali; rifiuta però la comparazione intesa come prospettiva generalizzante che fa astrazione dal
punto di vista del nativo, che impone i propri concetti etici e si muove solo a livello di concetti
lontani dall’esperienza.
L’antropologia interpretativa dopo Geertz
Nonostante la sua dichiarata avversione per le prospettive generalizzanti, la sua antropologia mostra
di aderire alla vita concreta delle popolazioni studiate. Certo, questa aderenza consiste più
nell’esplorare il punto di vista del nativo, che non nella presentazione di statistiche sulla
produttività, sui matrimoni tra cugini, nella descrizione di un mercato o dei rapporti tra potere
centralizzato e uomini di religione (tutte cose che peraltro ha abbondantemente studiato e scritto).
Ci sembra che nella sua prospettiva vi sia pur sempre una esigenza di oggettività.
Geertz non è né il solo né l’ultimo rappresentante dell’antropologia interpretativa. Sulla sua scia si
è sviluppata ad esempio, dalla metà degli anni 70 ad oggi, una corrente di studi che accentuato
l’elemento ermeneutico dialogico del rapporto tra antropologi e informatori. Il privileggiamento di
questa prospettiva ha decisamente spostato, in molti casi, l’attenzione su questo rapporto a scapito
di uno sguardo “oggettivante” più attento alle condizioni concrete di vita di una popolazione, agli
effetti del comportamento degli individui, allo studio del cambiamento sociale come processo
inscritto nelle forme di relazione tra individui e nelle istituzioni che risultano da quel cambiamento.
Questa corrente interpretativa, o interpretative turn, come è stata definita da due dei suoi più noti e
brillanti rappresentanti (Rabinow e Sullivan), non è sempre convincente sul piano del contenuto
del sapere che essa pretende di trasmetterci. Analisi sicuramente raffinate sul piano stilistico che
rischiano di sviare ad ogni passo in direzione di una specie di “isteria interpretativa” (Gellner),
dove non si capisce più chi interpreta chi e che cosa: l’antropologo interpreta il nativo che a sua
volta interpreta l’antropologo che a sua volta interpreta il nativo… Questo non ci pareva
esattamente il senso in cui Geertz intendeva il lavoro dell’antropologo quando, riprendendo Ryle, lo
esemplificava attraverso la metafora del tic e dell’ammiccamento.
20.3 L’antropologia della contemporaneità
Non si deve però trascurare il fatto che Geertz contribuì non poco a stimolare un esame della
costruzione della rappresentazione etnografica.
È infatti proprio a partire da questioni una volta considerate perlopiù “tecniche” e secondarie quali
55
il dialogo tra l’antropologo e informatore che l’antropologia ha potuto riconsiderare il rapporto con
il proprio oggetto in termini di contemporaneità. Considerato il più delle volte come depositari di
una cultura tradizionale, arcaica o autentica, gli informatori sono stati sovente collocati in un tempo
“altro” come le culture studiate, grazie alla loro collaborazione, dagli antropologi. Del resto
l’antropologia sembra aver costruito gran parte del proprio sapere sul presupposto che gli “altri”
sono in un tempo “altro”. Invece un’attenzione maggiore al rapporto tra l’antropologo e i suoi
informatori, e in particolare ai processi dialogici che sono alla base della raccolta delle informazioni
etnografiche tende inevitabilmente apporre le figure dell’antropologo e degli interlocutori su un
piano di contemporaneità, con una conseguente restituzione all’altro di una parola precedentemente
negata.
La dimensione contemporanea
“Contemporaneità” non soltanto evoca l’oggi, il tempo presente, ma indica anche e soprattutto il
carattere simultaneo con cui i fatti e le idee di un determinato contesto culturale si ripercuotono su
altri contesti sulla vita di esseri umani appartenenti a culture diverse. la dimensione della
contemporaneità è un correlato della globalizzazione. L’antropologia della contemporaneità non è
un’antropologia “del qui e dell’ora”. Le culture sono infatti il prodotto di storie, di stratificazioni, di
incontri, di scambi e di tensioni. Fare antropologia della contemporaneità dovrebbe voler dire
studiare le culture, che prende in considerazione il rapporto che tali culture hanno con il proprio
passato, rapporto sulla base del quale esse costruiscono il proprio presente. Fare antropologia della
contemporaneità dovrebbe voler dire studiare le culture oggi e nel loro ambiente globale che non
si risolve nei rapporti di tali culture con la quale essa coeve, ma che prende in considerazione il
rapporto che tali culture hanno con il proprio passato, e sulla base del quale esse costruiscono il
proprio presente.
Abbiamo usato l’espressione “antropologia della contemporaneità” non tanto per dare il nome di
una corrente, scuola di pensiero o indirizzo teorico particolare, quanto piuttosto a quella che
potremmo forse definire come una preoccupazione, un progetto. Ciò consiste nel non ridurre
l’antropologia ad una mera rivisitazione del patrimonio classico da un lato, né ad una esclusiva
auto-interrogazione sul modo in cui vengono prodotte le conoscenze antropologiche dall’altro. Né
tanto meno ad una “scienza del presente” incapace di leggere il presente e culturale in quanto
prodotto della storia.
Infatti, non solo l’antropologia ha una sua profondità storica che rende possibile la sua stessa
esistenza odierna; essa ha anche la necessità di rivolgersi criticamente a sé stessa per meglio
utilizzare il proprio patrimonio concettuale in un continuo lavoro di rivisitazione dei propri
presupposti teorici, ideologici, etici e politici. Tale antropologia consiste proprio nell’applicazione
degli strumenti analitici e teoretici della disciplina alle condizioni della vita culturale presente,
laddove quest’ultima è impegnata a riformulare identità, confini e somiglianze in contesti inediti.
Il paradigma dell’incorporazione: da Bourdieu a Csordas
Tra quanti hanno contribuito, partire dagli anni 60, a una revisione critica dei metodi e dei
paradigmi antropologici, vi è il sociologo francese Pierre Bourdieu. Egli andò elaborando una
prospettiva teorica originale che ha i propri fondamenti nella teoria prassiologica della conoscenza
e nella teoria dell’habitus, essendo le due strettamente collegate tra loro. Bourdieu aveva
compiuto ricerche tra i berberi dell’Algeria al tempo della guerra di liberazione algerina dal
colonialismo francese e nei Lineamenti di una teoria della pratica del '72 riprese i suoi studi di
etnografia berbera, esponendo quella che, a suo giudizio, e la prospettiva più corretta da adottare nel
corso della ricerca socio antropologica.
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I tre tipi di conoscenza
La conoscenza prassiologica si distingue da quella fenomenologica e da quella oggettivistica: la
prima si produce nell’osservazione del mondo “così com’è”, è una teoria spontanea della
conoscenza che coincide con l’approccio di una certa sociologia (etnometodologia) che mira a
descrivere, così come li registra l’occhio dell’osservatore, gesti, atti, comportamenti. La conoscenza
oggettivistica è, invece, quella adottata e correntemente prodotta dagli antropologi quando, sulla
base delle loro osservazioni, essi collegano fenomeni tra i quali ravvisano una certa familiarità allo
scopo di produrre generalizzazioni (funzionalismo strutturale britannico, antropologia strutturalista
di Levi Strauss e antropologia marxista). La conoscenza prassiologica è invece quella che rende
conto in maniera più efficace dei fenomeni indagati dall’antropologia e dalla sociologia. Essa
consiste nell’osservare le pratiche sociali cogliendole non con lo sguardo della conoscenza
fenomenologica, bensì con quello di chi sa che tali pratiche sono intimamente connesse con le
strutture colte dalla conoscenza oggettivistica. La sua peculiarità consiste nel vedere la pratica agita
come riflesso dell’incorporazione delle strutture oggettive del mondo sociale come i rapporti
economici, le relazioni di autorità, di gerarchia, di conoscenza e, naturalmente, delle ideologie del
proprio gruppo di appartenenza. È a questo punto che interviene la nozione di habitus.
L'habitus
L’habitus è il modo in cui ciascuno di noi esprime, attraverso il comportamento, il pensiero gli
atteggiamenti in genere, il proprio “posto” nel complesso delle relazioni che costituiscono il nostro
mondo e all’interno del quale viviamo. Lo definisce “un sistema di disposizioni durature
predisposto a funzionare come struttura strutturante”  con questo vuole precisare che il nostro
modo di essere nel mondo è condizionato dalle strutture a noi esterne che sono studiate dalla
conoscenza oggettivistico, ma che questo nostro stesso modo di essere nel mondo tende a
strutturare, a dare una forma al mondo esterno medesimo. La distinzione individuo/società tende
così ad attenuarsi e il comportamento individuale può essere visto come qualcosa che è modellato
dalla realtà sociale e, al tempo stesso, contribuisce a modellare quest’ultima.
Il corpo
La nozione di habitus investe quindi la nozione di corpo in quanto mezzo grazie al quale gli esseri
umani entrano in rapporto con il mondo. Il corpo è una specie di mediatore tra noi e il mondo, un
mezzo attraverso il quale entriamo in relazione con l’ambiente circostante. Ciò che Bourdieu
chiama “conoscenza attraverso il corpo” è una forma di conoscenza diversa, una conoscenza
incorporata  comprendiamo il mondo che ci circonda perché il nostro corpo è stato esposto fin
dalla nascita alle regolarità del mondo, questo fa sì che il corpo sia disposto e pronto ad anticipare
queste regolarità in comportamenti che mettono in moto una “conoscenza attraverso il corpo”. La
conoscenza incorporata del mondo sta quindi alla base dell’habitus, tale conoscenza è un
conoscere di natura sociale e culturale, per cui il nostro habitus varie tanto sulla base delle nostre
particolari caratteristiche psicofisiche, quanto a seconda dei modelli comportamentali delle
rappresentazioni che noi interpretiamo come individui appartenenti a un genere, una classe, una
confessione religiosa, una cultura.
A partire dal Bourdieu, gli antropologi hanno molto insistito, negli ultimi anni, sull’idea di
“incorporazione” come nozione capace di descrivere il nostro “essere nel mondo”. Tra questi vi è
l’americano Thomas Csordas, che con il suo Incorporazione ed esperienza. Il fondamento
esistenziale della cultura e del Sè, 1994, ha contribuito più di ogni altro a teorizzare e divulgare il
cosiddetto “paradigma dell’incorporazione”. Secondo questi, che la nozione di incorporazione
possa costituire un paradigma-guida della ricerca antropologica deriva dal fatto che il corpo non è
solo un oggetto di studio, ma anche il soggetto per eccellenza della conoscenza e quindi della
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produzione culturale. Alla luce di questa premessa, la cultura stessa appare come il prodotto di una
esperienza Inter corporea tra soggetti  Csordas accoglie l’idea di una “natura sociale del corpo” e
delle relazioni che legano tra loro i corpi dei soggetti che si muovono sulla scena sociale. Tuttavia,
egli vuole sottolineare come, assumendo il corpo come qualcosa da cui si produce la conoscenza del
mondo sociale, divenga possibile restituire al soggetto una funzione “creatrice” che le teorie
classiche dell’antropologia hanno messo nell’ombra.
L’eredità dell’antropologia marxista
L’antropologia marxista diede un contributo notevole, negli anni 60-90, allo studio delle comunità
tratto nell’orbita del mercato globale  gli studi dell’antropologo americano Robert Redfield sulla
“comunità folk”, e quelli degli economisti Maurice Dobb, André Gunder Frank e Immanuel
Wallerstein sul capitalismo centrale periferico rispettivamente sono tutti, da questo punto di vista,
abbastanza esemplari. Nel caso di Redfield, l’impossibilità di collegare teoricamente le società
contadine al contesto più ampio nelle quali esse sono inserite, portò alla creazione di una categoria
sociale per queste stesse comunità, chiamate appunto “folk” per distinguerle da quelle “tribali” e da
quelle “statuali”. Nel caso degli studi economici, invece, l’analisi del processo di estrazione di
trasferimento della ricchezza dalla periferia del sistema verso il centro capitalista non teneva conto
della natura delle stesse società periferiche da cui tale ricchezza proveniva. L’antropologia marxista
adottò invece una prospettiva che consente di colmare il vuoto tra centro e periferia.
Tuttavia, nel corso degli anni 80 l’antropologia marxista conosce un forte declino, ma la sua
impostazione è ancora presente in molti studi, tanto etnografici quanto teorici. Anche se i rapporti
tra questi due poli del sistema del mondo, il centro e la periferia, necessitano oggi di analisi culturali
che l’antropologia marxista non è stata in grado a suo tempo di elaborare, essa ha dato un contributo
alle analisi della contemporaneità che, se ignorato, renderà più difficile parziale la comprensione del
mondo attuale.
L'antropologia marxista ha certamente sofferto del discredito che ha investito la monotona
ripetizione della tesi di Marx, da parte del “marxismo” ufficiale. Marx aveva concentrato la sua
analisi sull'occidente e sulla sua storia; l'antropologia marxista ha guardato fuori dall'occidente e ha
rifiutato una applicazione dogmatica di realtà sociali diverse da quelle occidentali.
Violenza e sofferenza strutturale
Esponente di primo piano dell’antropologia medica, antropologo e medico lui stesso, Paul Farmer
è colui che ha imposto l’espressione “violenza strutturale”. In Patologie del potere, Farmer illustra
le nozioni di “violenza” e “sofferenza strutturale” applicandole in particolare al caso di Haiti,
dove ha condotto ricerche sulle malattie e la povertà. Per violenza strutturale intende uno stato di
sofferenza di cui non è possibile individuare una sola causa, ma che è invece il prodotto
dell’insieme di più fattori. Dipendendo da una congiunzione di fattori è ancor più difficile, per
coloro che sono coinvolti, poter uscire dalla propria condizione.
Questa non può che generare una sofferenza altrettanto strutturale, cioè dipendente da una serie di
concause difficilmente analizzabili separatamente. Caratteristica di questa forma di sofferenza è che
essa viene incorporata dai soggetti, si inscrive nel loro modo di vivere, di essere, di non-progettare
la propria vita. La sofferenza strutturale che sia in paesi come Haiti e molti altri del sud del mondo è
generatrice di altra violenza che, sua volta, porta ad un aumento della sofferenza stessa.
Sofferenza e cultura
L’analisi di queste due nozioni ha portato Farmer a ridiscutere un luogo comune, ossia l’idea
(ideologica e sbagliata) secondo cui la sofferenza sarebbe frutto di una “cultura incapace” di gestire
determinati problemi. questa idea appare come una giustificazione degli enormi squilibri esistenti
tra paesi, economia e società. E anche un modo per non intervenire laddove si potrebbe invece
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intervenire seriamente (strutturalmente) per cercare di cambiare le cose, preferendo lasciare a una
generica solidarietà internazionale la soluzione di problemi che resteranno irrisolvibili se non si
affronteranno le vere ragioni del disagio e della sofferenza. Quella di Farmer è una denuncia di
come i governi di tutto il mondo, e in particolare dell’Europa e dell’America, pensano di tamponare
le falle nel “sistema mondo” con la logica delle “emergenze” e dell’intervento umanitario.
Incorporazione e resistenza
Strettamente legato a queste problematiche e anche il lavoro dell’antropologa e medico americana
Nancy Scheper-Hughes In Morte senza lacrime, ha appunto studiato la dinamica della violenza e
della sofferenza tra i poveri brasiliani, e l’instaurazione di comportamenti di resistenza e rifiuto nei
confronti del potere espressi attraverso l’incorporazione della violenza e della sofferenza. Altro
aspetto importante del suo lavoro è la sua ricerca sul mercato degli organi —> in un celebre
articolo, Il traffico di organi nel mercato globale (2000), la Scheper-Hughes dà un quadro piuttosto
crudo degli squilibri che favoriscono il commercio di organi umani tra il Nord e il Sud del mondo.
Drammatica appare la ricaduta che il traffico internazionale di organi produce su alcune comunità
povere del pianeta; siamo infatti in presenza di una situazione a cui le definizioni di violenze
sofferenza strutturale cognate da Farmer si adattano alla perfezione. Dal punto di vista socioantropologico il traffico di organi umani è un fenomeno che tocca aspetti della vita culturale molto
diversi, come la concezione dell’integrità del corpo umano e l’idea di contaminazione. Notevoli
sono, tuttavia, gli effetti che il commercio degli organi a sulle dinamiche interne a questa comunità,
i cui membri sempre più spesso vendono un organo del proprio corpo per sopravvivere o tentare di
emigrare.
Il dibattito sulla cultura: dagli Studi Culturali alla “surmodernità”
Le teorie di Greetz sulla cultura giunsero, influenzandolo, nel pieno del dibattito sulla cultura
sviluppandosi negli anni '60. Dagli anni 60 in avanti, l’interesse per la dimensione culturale come
tale era andato diffondendosi un po’ ovunque. Forse non a caso molti degli insegnamenti
universitari, proprio in quegli anni, cominciarono a cambiare il loro nome in “antropologia
culturale. Questi cambiamenti furono soprattutto la conseguenza del fatto che il tema della cultura
divenne sempre più centrale, non solo nei discorsi delle scienze umane sociali ma anche della
politica e dei media. L’affermazione del concetto di cultura, e lo stesso dibattito sulla cultura, si
deve anche al fatto che l’antropologia ha cominciato, nel secondo dopoguerra, ad attirare l’interesse
di studiosi provenienti da altre aree delle scienze umane, storiche e sociali. Questi studiosi
sembrano aver trovato il concetto di cultura più utile di altri per descrivere gli oggetti della loro
indagine della loro riflessione. La grande popolarità che l’antropologia ha acquistato nella seconda
metà del 900 si deve, infatti, anche alla diffusione del concetto di cultura nel linguaggio delle
discipline limitrofe, oltre che all’utilizzazione che di tale concetto è stata fatta dai cosiddetti “Studi
Culturali” nati in Gran Bretagna poco dopo gli anni 60 e diffusisi soprattutto negli Stati Uniti nel
decennio successivo.
Gli studi culturali
L’espressione “Studi Culturali” si deve a Herbert R. Hoggart (1918-2014), un sociologo studioso
della cultura popolare inglese che, nel 64, fondo a Birmingham il Centre for Contemporary Cultural
Studies (CCCS). in Gran Bretagna, con la fine dell’impero coloniale, si sentì la necessità di
ripensare i rapporti tra le componenti della società britannica e la cultura di questo paese alla luce di
nuovi fenomeni come l’immigrazione dalle ex colonie e di quelle che apparivano sempre più come
le nuove dimensioni identitarie. Questo centro vide la luce in ambienti di cui facevano parte
operatori del sociale, e non nei luoghi della “cultura alta” per definizione come potevano essere le
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università di Oxford e di Cambridge. I ricercatori qui tentavano di comprendere una realtà come
quella britannica di allora dove questioni come le differenze etniche quelle basate sul colore della
pelle si aggiungevano i problemi posti dalla crisi del movimento operaio, dalle accentuate
differenze di classe e dalle nascenti discussioni sul genere e l’identità sessuale.
Una diversa idea di “cultura
Per discutere questi problemi in una prospettiva critica, gli studiosi ripreso il concetto antropologico
di cultura ri-problematizzandolo però nel contesto britannico. La cultura venne qui vista come
un’arena, un luogo di incontro-scontro e di disputa-dibattito per l’affermazione di idee e di diritti da
parte di gruppi diversi tesi al riconoscimento, da parte dello Stato o di altri gruppi analoghi. La
politica “multiculturalista” dei governi britannici favorì queste dinamiche sociali e di conseguenza
l’interesse per esse da parte degli studiosi di scienze sociali —> quindi “cultura” come “discorso”
che si costruisce socialmente “attorno” alle donne, ai neri, agli immigrati e che questi stessi gruppi
producono come rappresentazione di se stessi o gli altri gruppi.
Centrale, in questa prospettiva, è la nozione di agency (“agentività”) utilizzata in molti sui lavori da
Stuart Hall (1932-2014), l’esponente più rappresentativo di questo indirizzo. Questa nozione
sintetizza la capacità che gli individui hanno di dare significato a eventi e rappresentazioni,
accogliendoli o rifiutandoli per adattarsi e/o resistere nel momento stesso in cui promuovono una
propria forma di soggettività, dovuta allo stimolo proveniente da tali eventi e rappresentazioni.
Proprio per questa versatilità del concetto di cultura, gli studi culturali hanno goduto di grande
successo presso gli studiosi di altre discipline come la sociologia, l’estetica, le scienze
dell’educazione e, soprattutto, della letteratura e dei media. Queste discipline, infatti, hanno potuto
utilizzare il concetto di cultura in contesti più diversificati rispetto a quelli in cui di solito lo hanno
usato gli antropologi.
La critica del concetto di cultura
Negli anni 70-90, molti antropologi svilupparono una critica di questo concetto di cultura inteso per
molto tempo, dalla stessa antropologia, come un insieme di tratti (comportamenti simboli)
distinguibili chiaramente da altri, tipici di culture diverse. Secondo questi antropologi, il discorso
sulle culture aveva ridotto il mondo a una specie di “mosaico culturale” irrigidito nelle differenze,
mentre invece la realtà si presentavano i fatti assai più fluida di quanto si pensasse.
A questo cambiamento nel modo di considerare la cultura hanno concorso fenomeni come le
migrazioni e la diffusione dei media. Lo spostamento di essere umani dalle regioni più povere (sud)
verso quelle più ricche (nord) del mondo; e il flusso di informazione in tempo reale da un
continente all’altro, (tramite radio, televisione e Internet), hanno messo in comunicazione le culture
come mai era avvenuto prima nella storia dell’umanità.
Problematicità del concetto
L’uso del concetto di cultura è diventato più problematico di un tempo, e ciò è avvenuto,
paradossalmente, in relazione alla frequenza sempre maggiore con cui esso compare nei discorsi dei
media, della politica, oltre che nel linguaggio di tutti giorni. L’uso che se ne fa è lo stesso di quello
degli antropologi di una volta  Il concetto viene utilizzato per rendere riconoscibili,
circoscrivendoli e definendoli, modi di pensare e di comportarsi, e per dare loro così una specie di
consistenza. Esattamente come facevano gli antropologi per “rendere visibili” agli occhi degli
occidentali i costumi dei popoli esotici. però, oggi il concetto è usato soprattutto per indicare una
mentalità, una moda, dei gusti alimentari, lo stile di vita dei giovani, le conoscenze tecnologiche, un
modo di condurre un’azienda o di arredare casa. Ancor più deludente, per gli antropologi, è stato
l’uso “politico” che spesso di questo concetto si è fatto  un esempio può essere la tesi del ritardo
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e del sottosviluppo di certe aree del pianeta presentata come il prodotto della cultura delle
popolazioni interessate, senza tenere conto della storia coloniale, del neocolonialismo e degli
interessi delle potenze mondiali nel determinare l’assetto produttivo, sociale e politico di quelle
regioni. Quello di cultura è diventato infatti un concetto buono per tutte le occasioni e spesso un
modo per stigmatizzare in maniera negativa la diversità culturale. Questo uso diffuso ha indotto
molti antropologi a ritenere che tale concetto abbia esaurito il suo compito in campo antropologico (
=> far emergere i popoli altri dalle nebbie della storia e dell’etnocentrismo euro-americano,
difendere dal razzismo i popoli nativi e coloniali, i neri e gli immigrati in America, infine delimitare
un campo di studi spesso oggetto di “incursioni indebite” da parte di altri scienziati sociali).
Tuttavia, fare a meno del concetto di cultura vorrebbe dire rinunciare al concetto cardine su cui
l’antropologia costruito il proprio discorso sul genere umano, e a indicare la specificità che lo
distingue dalle altre specie in quanto dotato della capacità di produrre simboli e dare un significato
ai propri comportamenti. Infatti, gli antropologi continuano a parlare di cultura sebbene con tutte le
precauzioni che spesso sfuggono a giornalisti, politici ed altri. È in conseguenza di questo “disagio”
nei confronti del concetto di cultura che sono emersi nuovi concetti e nozioni mediante cui
l’antropologia tenta, oggi, di sfumare il concetto stesso per renderlo adatto a comprendere e a
descrivere le nuove realtà del mondo attuale.
“Cultura” o “culturale”? Arjun Appadurai
Antropologo americano di origine indiana, in Modernità in polvere del 1996, Arjun Appadurai ha
sostenuto che il termine “cultura” dovrebbe essere usato nella sua forma di aggettivo - “culturale“ unitamente a un sostantivo di cui si voglia sottolineare il carattere mobile, fluido, relativo,
“culturalmente costruito” cui la parola “cultura” invece non rimanda. Egli sostiene che conferire al
concetto di cultura una capacità descrittiva assoluta e un potere denotativo definitivo equivale ad
avvicinarlo all’idea di “razza”. Allo scopo di individuare gli aspetti del mondo contemporaneo su
cui è possibile condurre un’analisi culturale, Appadurai ha coniato espressioni come:
1. etno-rama  per riferirsi ai nuovi paesaggi umani che si creano per effetto dello
spostamento di popolazioni nelle varie parti del pianeta: migranti, rifugiati, turisti, espatriati
per motivi di lavoro o di studio ecc;
2. medio-rama  i flussi di immagini e informazioni generati dei media che creano nuovi
immaginari in persone appartenenti ad ambiti culturali diversi;
3. ideo-rama  le idee che, grazie ai media e agli spostamenti di esseri umani, viaggiano da
un capo all’altro del mondo, incontrandosi con le tradizioni locali e dando origine a nuovi
modi di intendere con le stesse idee, come la libertà, la democrazia, la sessualità ecc.
Queste espressioni, assieme ad altre come finanzio-rama e tecno-rama (finalizzate a cogliere la
realtà odierna del pianeta dal punto di vista economico e tecnologico), sono quelle che, per
Appadurai, ci consentono di parlare in maniera più appropriata di tutti quei fenomeni culturali che
siamo soliti interpretare come effetti della globalizzazione.
La “condizione surmoderna”: Mark Augé
Antropologo francese africanista che si è invece posto il problema di come le culture
contemporanee riformulano alcuni dei loro fondamenti alla luce di ciò che egli chiama
“surmodernità”. Con questo termine, che allude a una modernità in eccesso, egli vuole indicare
essenzialmente tre fenomeni tipici del mondo contemporaneo: l’accelerazione della storia, il
restringimento dello spazio, l’individualizzazione dei listini. Questi, allora volta, sarebbero effetto
rispettivamente di:
1. un eccesso di eventi di cui siamo quotidianamente informati e che rende la storia
difficilmente pensabile;
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2. un eccesso di immagini (veicolati dai media) che tendono a riportare a noi lo spazio del
mondo;
3. un eccesso di riferimenti individuali che si traduce in una solitudine dell’individuo, a cui
concorrerebbero la secolarizzazione intesa come minore importanza della dimensione
religiosa nella vita sociale rispetto un tempo, e la “fine delle ideologie”, ossia delle grandi
teorie sociali che prospettavano un futuro con determinate caratteristiche di uguaglianza,
ordine, giustizia sociale ecc.

Questi sarebbero i tratti caratteristici della “surmodernità” e della globalizzazione.
Augé, antropologo con una lunga esperienza di ricerca in Africa occidentale (Costa d’Avorio e
Togo), ritiene che le società europee e nordamericane di oggi stiano vivendo, seppure in maniera
assai meno traumatica, ciò che i popoli africani sperimentarono con la colonizzazione: cambiamenti
sociali, fine delle religioni tradizionali e arrivo di una nuova divinità, irruzione di beni materiali
sino allora sconosciuti, contatto con stranieri portatori di immagini, comportamenti e idee all’inizio
incomprensibili. Nella prospettiva di Augé, l’antropologia si presenta come una chiave di
interpretazione del nostro mondo contemporaneo attraverso l’esperienza degli altri; essa mantiene
così, rinnovata, la sua vocazione di “studio del genere umano”, perseguito attraverso l’etnografia, lo
studio delle specificità culturali e il confronto tra queste ultime.
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