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Le architetture ad Aula il paradigma Mie

Le architetture ad aula: il paradigma Mies van der Rohe
euro 20,00
Renato Capozzi
Renato Capozzi (Napoli 1971), architetto, allievo di Salvatore Bisogni con cui ha collaborato
in diverse ricerche universitarie su temi inerenti l’architettura della città e la composizione
architettonica degli edifici collettivi, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in
Composizione Architettonica presso lo IUAV di Venezia ed è specializzato in Progettazione
Architettonica e Urbana. Attualmente è professore a contratto di Teorie della ricerca
architettonica contemporanea presso al Facoltà di Architettura di Napoli e di Composizione
Architettonica presso la Scuola Superiore di Architettura Urbana promossa dalla Fondazione
Studi Superiore di Architettura. Ha preso parte in ambito universitario a numerosi seminari
teorici e progettuali e ha curato numerose pubblicazioni, convegni e mostre. Per i tipi della
CLEAN nel 2008 ha pubblicato con F. Visconti il volume Architettura Razionale >1973_2008>.
Ideazione, costruzione, procedure compositive
Con l’obiettivo di definire il ruolo e il senso complessivo degli edifici ad Aula - rispetto al
chiarimento e avanzamento dei vari temi (ideazione), dei tipi costruttivi assunti e delle
procedure compositive adottate - questo studio muove da un assunto teorico di fondo:
la possibile identificazione del tema dell’edificio pubblico con il tipo architettonico dell’Aula.
L’ipotesi di una concreta identificazione tra gli edifici pubblici con il tipo dell’Aula è
esemplarmente rinvenibile nelle architetture civili di Mies van der Rohe, ove la presenza
di un unico spazio indiviso a carattere rappresentativo domina la composizione.
Nella Convention Hall, nella Crown Hall, nel Teatro di Mannheim, sino al Museo di Berlino
- analizzati con ridisegni critici/interpretativi - Mies, adoperando una procedura compositiva
di tipo tettonico - sintattico, produce una profonda erosione/riformulazione del tema
dell’edificio pubblico. La scelta sintetica dell’Aula non impedisce a tali manufatti di affermare
la loro ragione costitutiva, ma consente, in tutti i casi presi in esame, di realizzare un
notevole avanzamento nella precisazione dei caratteri e dei temi collettivi affrontati.
Le Aule di Mies vogliono selezionare una parte speciale della “stanza smisurata” della
natura riproducendo nel finito l’idea di “spazio universale” completamente aperto e
attraversato dalla natura o dai contesti urbani in cui questi edifici si collocano, realizzando
˘
sub specie architetturae quella “vertigine del vuoto” tanto presente nelle opere di Malevic,
attingendo al contempo alle non transitorie regole e principî del Classico inteso non come
replica acritica di forme desunte dalla storia, ma come “aspirazione” alla generalità e
all’intelligibilità della costruzione architettonica adeguata al nostro tempo.
Renato Capozzi
Le architetture ad Aula:
il paradigma Mies van der Rohe
Ideazione, costruzione, procedure compositive
Io non sto solo lavorando sull’architettura, io sto lavorando
sull’architettura come un linguaggio, e penso che si debba
avere una grammatica per avere un linguaggio. Lo si può
usare per proposte formali, ed allora si parla in prosa.
Se si è bravi in questo, allora si può parlare una
meravigliosa prosa. Se poi si è veramente bravi, allora si
può essere un poeta.
Mies van der Rohe
1
Copyright © 2010 CLEAN
via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli
telefax 0815524419-5514309
www.cleanedizioni.it
[email protected]
Tutti i diritti riservati
È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-165-4
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
INDICE
Questo testo trova origine nella ricerca condotta presso l’Istituto
Universitario di Architettura di Venezia, all’interno del Dottorato di
Ricerca in Composizione Architettonica - XVI ciclo con il titolo
Il Tema dell’Aula nelle architetture di Mies van der Rohe.
Ideazione, costruzione e procedure compositive sotto la guida del
professore Armando Dal Fabbro, che ne è stato relatore, con il
sapiente contributo critico del professore Gianugo Polesello, che
ne è stato controrelatore, e con l’attento tutoraggio della
professoressa Martina Landsberger. La tesi è stata discussa nel
2004 dinanzi alla commissione costituita dai professori
Gianni Fabbri, presidente, Marino Narpozzi e Fabrizio Spirito.
con l'egida di
Università IUAV di Venezia
Dottorato di Ricerca in
Composizione Architettonica
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare per il contributo fondativo offerto a questo
lavoro i professori:
Salvatore Bisogni il mio maestro, che ha ispirato questo studio
Gianugo Polesello
Antonio Monestiroli, che da ‘allievo’ di Mies ha apprezzato
questo studio scrivendone l’introduzione
Carlos Martí Arís
Armando Dal Fabbro per aver orientato e condiviso la struttura
della ricerca
Martina Landsberger per aver riletto e corretto il testo della ricerca
Il collegio dei docenti del DRCA dello IUAV e in particolare:
Luciano Semerani - coordinatore, per aver concesso l'egida del
DRCA a questa pubblicazione
Gianni Fabbri
Gino Malacarne
Renato Rizzi
Antonella Gallo
I dottorandi del DRCA
Patrizia Terlizzi per il conforto e l’aiuto prezioso che ha reso
possibile questo lavoro
Ilario Boniello per le discussioni su Cartesio
Carolina Cigala per i continui incoraggiamenti che mi ha fornito
Claudio Finaldi Russo per aver condiviso e ampliato molti
ragionamenti
Massimiliano Fraldi per le estenuanti e pazienti discussioni sulla
costruzione
Esther Giani per l’ospitalità rara
Ciro Iacobelli per la collaborazione alla redazione dei
rididesegni critici
Fritz Neumeyer che mi onora della sua amicizia
Valeria Pezza per le occasioni ulteriori che mi ha offerto di
riflettere sul tema
Federica Visconti per avermi convinto a pubblicare questo studio
e per aver avuto la pazienza di leggere e discutere il merito
del testo.
6
MIES
E LA SUA SCUOLA
Arntonio Monestiroli
7
PRESENTAZIONE
Armando Dal Fabbro
8
PREMESSA
13
14
38
41
49
IL TIPO
DELL’AULA
59
GLI EDIFICI
Definizione del tipo architettonico dell’Aula in rapporto agli edifici pubblici
Affinità e distinzione tematica degli edifici pubblici ad Aula
Il ruolo della costruzione negli edifici ad Aula
Procedure compositive: sintassi e paratassi
AD
AULA
DI
MIES
VAN DER
ROHE
60
88
95
101
110
La ricerca di Mies van der Rohe sull’Aula
La Crown Hall presso l’IIT di Chicago, 1950-1956
Il Teatro Nazionale di Mannheim, 1952-1953
La Convention Hall di Chicago, 1953-1954
La Neue Nationalgalerie di Berlino, 1962-1968
131
IL CLASSICO COME ‘FUTURO’
132
Attualità/inattualità del tipo ad Aula, Mies van der Rohe e la questione del classico
139
RIDISEGNI ANALITICI, PROCEDURE COMPOSITIVE, ASSETTI COSTRUTTIVI
186
188
190
BIBLIOGRAFIA
INDICE DEI NOMI
INDICE DELLE OPERE
DELL’AULA
MIES
E LA SUA
SCUOLA
PRESENTAZIONE
Antonio Monestiroli
Armando Dal Fabbro
Quando penso alle aule di Mies mi torna alla mente un brano di un filosofo a me caro sul Duomo di Colonia che ho letto
tanti anni fa e che mi ha molto impressionato: «In un simile Duomo c’è posto per tutto un popolo. Infatti qui la comunità di
una città e dei suoi dintorni deve raccogliersi al suo interno. Lo spazio nella sua vastità non è suddiviso in parti fisse ma
ognuno va e viene indisturbato, affitta per l’uso momentaneo uno scanno, si inginocchia, recita le preghiere, se ne va.
Se non è l’ora della grande messa le cose più diverse avvengono senza incomodo nello stesso tempo. Qui si predica,
là si porta un malato, contemporaneamente si svolge una lenta processione, qui avviene un battesimo, in un altro luogo
ancora un prete legge la messa oppure benedice un matrimonio e per ogni dove persone sparpagliate stanno inginocchiate di fronte agli altari e alle immagini dei santi. Tutte queste cose sono racchiuse in un unico e identico edificio. Noi
non abbiamo qui da ricercare una rispondenza a un fine particolare ma una rispondenza al di sopra di ogni singolarità
e finitezza» (Hegel, Estetica, Berlino 1838, Milano 1963).
Mies progettando le sue aule parte dallo stesso punto di vista. Nel caso della Crown Hall, attraverso la conoscenza delle
funzioni della scuola, Mies arriva a definire un’idea generale di scuola e, fra le tante possibilità tipologiche e costruttive
che offrono i materiali e le tecnologie a disposizione, sceglie per un unico grande spazio indiviso, un’aula, un unico
grande spazio trasparente e luminoso, in cui in un solo colpo d’occhio tutte le attività della scuola sono visibili e manifestano il valore che le accomuna: quello del lavoro collettivo di studenti e docenti. Mies insegnava in questo grande spazio luminoso, in una comunità per la quale aveva voluto costruire uno spazio rispondente. Mies in questo caso non ha
costruito solo una bella scuola dunque ma ha definito anche una bella idea di scuola. Questi due fatti sono inscindibili.
La scuola e l’idea di scuola sono legati indissolubilmente in quella struttura fatta dai quattro grandi portali che danno una
forma alla scuola. Possiamo dire una forma monumentale. Il passaggio dall’idea di scuola alla sua struttura fisica è un passaggio difficile da insegnare. In questo passaggio noi siamo aiutati dalla profondità e chiarezza dell’idea di scuola.
Quanto più chiara e profonda sarà quest’idea tanto più facile sarà definire la ragione ultima dell’edificio e trovare la
forma ad essa rispondente. Ma quale è la ragione degli edifici? Quella deducibile dai valori del tempo o quella tratta dal
nostro personale punto di vista sull’epoca in cui viviamo? Tale questione è in realtà una questione attuale e controversa.
Lo stesso Mies in un primo periodo dice che l’architettura è la cristallizzazione dei valori dell’epoca. Una affermazione
che asseconda il suo desiderio di oggettività delle scelte, una sorta di astensione dal giudizio di chi progetta. Questo è
un atteggiamento oggi molto diffuso. Solo più tardi Mies rovescerà la questione riconoscendo la volontà di chi progetta,
(la Kunstwollen di Riegl) il suo peso determinante nell’opera, e affidando a chi progetta il compito di riconoscere i valori
dell’epoca attraverso un suo personale punto di vista. Così, anche senza rinnegare un procedimento razionale portato alle
sue estreme conseguenze, Mies riconosce l’impossibilità di un processo deduttivo dall’epoca all’opera. È necessario che
l’opera risulti dalla definizione dei valori di un’epoca, che vanno riconosciuti da chi progetta. Dunque il progetto è attività
conoscitiva della realtà, un’attività che procede dal concreto all’astratto, dalla materia all’idea, attraverso le funzioni proprie di un’epoca storica. Un punto di vista profondamente realista eppure proiettato verso una realtà nuova, una realtà che
ancora non si conosce. A partire da questa volontà di conoscenza Mies fonda il suo progetto su un’idea di movimento
dal concreto all’astratto, procedendo dal particolare al generale. È in questo movimento del pensiero dalla materia all’idea
che il progetto prende forma. Attraverso tre livelli della conoscenza: dallo studio dei materiali, attraverso l’analisi delle funzioni, fino alla conoscenza dei valori. Al centro di questo processo ci sono le funzioni. Le funzioni della nostra vita civile.
Funzioni che rendono praticabile la nostra vita, che danno senso alla nostra vita. Queste funzioni vanno analizzate nella
loro particolarità ma, come abbiamo visto, è necessario andare oltre tale particolarità.
Questo è il punto centrale dell’insegnamento di Mies: il passaggio necessario dalla funzione al suo valore generale.
Tutto questo Renato Capozzi lo ha capito a fondo e restituito attraverso la sua attenta e profonda analisi del lavoro di Mies
che ha eletto a suo principale maestro.
Composizione e costruzione animano le scelte di campo del lavoro di Renato Capozzi.
Composizione assunta come regola e rigore figurativo, costruzione intesa come principio (procedimento) logico,
come aspirazione all’assoluto tettonico. La ricerca indaga il lavoro di Mies Van der Rohe; in particolare il “valore”
ideativo, compositivo e costruttivo degli edifici ad Aula per i quali invenzione spaziale e soluzione tecnica coincidono.
Gli esempi presi in esame rappresentano i progetti più maturi del periodo americano dell’opera di Mies: la Crown
Hall dell’IIT di Chicago del 1950-1956; Il Teatro nazionale di Mannheim del 1952-1953; la Convention Hall a Chicago del 1953-1954; la Neue Nationalgalerie a Berlino del 1962-1964.
Lo studio muove da un assunto teorico di fondo: la possibile identificazione del tema dell’edificio pubblico con il tipo
architettonico dell’Aula. E l’ipotesi di una concreta coincidenza tra gli edifici a carattere collettivo e l’Aula è significativamente rinvenibile nelle architetture di Mies, ove la presenza di un unico spazio indiviso domina la composizione.
Renato Capozzi affronta con rigore metodologico il tema dell’Aula, a partire dalla costruzione di una “genealogia”
di opere tesa a rintracciare e chiarire i caratteri distintivi e specifici di tali manufatti. Dall’origine etimologica del termine “Aulé” all’identificazione, da parte della cultura ellenistica e poi romana, dell’Aula con il tema dell’edificio collettivo. Compiendo una perlustrazione molto accorta, la prima parte del saggio indaga l’evoluzione del tipo ad Aula
ed il suo significato semantico, e come questo si è modificato nel tempo. Sarà Hilberseimer, prima con Großstadt Architectur (1927) e soprattutto con HallenBauten (1931) - che costituirà il primo contributo teorico di riferimento, per
questa classe di manufatti - con il quale il tema dell’edificio pubblico ad Aula riceverà un notevole sviluppo e approfondimento. In forma quasi manualistica, Hilberseimer promuove e anticipa quelli che saranno i temi su cui si baserà la ricerca miesiana, anche in relazione alla costruzione della città moderna.
Gli esempi presi in esame, della Crown Hall, del Teatro nazionale di Mannheim, della Convention Hall di Chicago
e della Neue Nationalgalerie di Berlino, sono studiati e indagati, di volta in volta, nei loro aspetti ideativi, costruttivi
e compositivi. Disegni grafici, comparazioni in scala, interpretazioni geometrico-compositive, concludono, all’oggi,
la ricerca sul tema dell’Aula nei progetti di Mies.
In conclusione, lo studio, ponendosi su un piano espressamente compositivo, rintraccia alcune invarianti sintattico-compositive per questa classe di manufatti, segnalando l’attualità del tema della Aula/edificio pubblico e la sua capacità di porsi come uno dei capisaldi urbani per la costruzione e l’infrastrutturazione della città contemporanea. Così
come, il valore nelle opere di Mies, andrebbe studiato e sviluppato in una ricerca più ampia, riferita sostanzialmente
al forte legame che Mies istituisce fra Moderno e Classico in architettura. Un rapporto con la storia, per nulla nostalgico, ma sempre legato alla necessità di esprimere la modernità, l’architettura del proprio tempo, una nuova e
antichissima bellezzà. In altre parole: nova sed antiqua. È la modernità del classico che ritorna trasfigurata nei progetti di Mies, nei modi di cogliere l’architettura e di trasmetterla.
6
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PREMESSA
riflessione sulla loro identità possibile in relazione alle possibilità della costruzione e della geometria, alla scelta di
opportune procedure compositive e sintattiche. Chi inventa percorre sentieri ancora inesplorati, e in questo senso l’invenzione è alla base dell’opera d’arte: «Nel triangolo tra scienza, arte e filosofia, chi ne occupa il vertice più alto?
Il livello di problematicità può aumentare là dove ci si chiede: la scienza è soltanto scire per leges? E l’arte è solo facere per inventiones? Il significato del termine “inventio” è lecitamente rinviabile a “venire in”, cioè alla “penetrazione”
nella res e quindi alla scoperta filosofica della sua verità»10. L’ideazione tiene per così dire insieme, in termini sintetici, gli aspetti costruttivi e le regole compositive. L’ideazione chiarisce i pesi ammissibili delle scelte geometriche, proporzionali, costruttive, stilistiche e infine linguistiche.
Il metodo è necessario alla ricerca della verità
Descartes, regle IV
Questo studio si occupa di definire le regole compositive, in rapporto alle scelte costruttive, delle architetture di Mies
van der Rohe caratterizzate dalla presenza dominante della grande Aula, vale a dire di un unico spazio continuo a
carattere rappresentativo che governa l’intera composizione. In termini più generali il libro tende a definire il ruolo e
il senso più complessivo degli edifici pubblici caratterizzati dalla presenza dell’Aula, rispetto al chiarimento del tema,
delle sue ragioni costitutive, dei tipi costruttivi assunti e delle procedure compositive adottate. Il tentativo è stato quello
di fissare e sistematizzare alcuni elementi stabili dell’edificio ad Aula, classificare le sue tipologie, comprenderne il
rinnovato carattere architettonico e costruttivo, individuarne le parti architettoniche compiute ricorrenti ed eccezionali.
L’ipotesi di una possibile coincidenza tra gli edifici a carattere pubblico con il tipo architettonico dell’Aula è chiaramente rinvenibile nelle architetture di Mies van der Rohe, ove la presenza di un unico spazio indiviso, cui sono subordinate tutte le altre articolazioni, domina la composizione. «Queste architetture vogliono costruire un grande interno:
un ambiente unico e a luce unica, in cui è possibile contenere un grande numero di persone e diverse attività essenzialmente di tipo rappresentativo»1. Come afferma lo stesso Mies «la creazione di uno spazio comune presuppone
la condivisione di valori comuni»2. Vi è una relativa indifferenza distributiva rispetto ai vari usi previsti, spesso con pochi
adattamenti facilmente intercambiabili. L’elemento distintivo è l’Aula, la sua costruzione, pur essendo differenti i modi
e le forme che la realizzano. L’obiettivo è anche quello di cogliere l’attualità di questo tema, che non sembra aver ricevuto da parte della ricerca architettonica moderna e contemporanea, con l’eccezione di pochi maestri, un adeguato approfondimento. Non è un caso, infatti, che i progetti o gli edifici pubblici ad Aula costruiti nel secolo scorso
siano pochi, e di questi solo alcuni realmente innovativi, mentre i numerosi costruiti agli inizi di questo millennio sono
prevalentemente esercizi formali o esibizioni ipertecnologiche. Il riferimento al tema primigenio - inteso come ciò che
domina una qualsivoglia composizione architettonica - quello del ricovero, della delimitazione con la formazione di
un luogo ai fini di un suo uso collettivo, implica una continua riflessione sul senso ultimo da attribuire a tali manufatti
in diretta relazione con la natura e da essa distinti in quanto artifax. Si è cercato di chiarire i nessi tra il momento
ideativo, come disvelamento e avanzamento del tema specifico, della ragione3 di ogni edificio, le tecniche costruttive e le procedure compositive adoperate. Sebbene il tema architettonico dell’Aula sia fissato, molteplici sono i modi
per esplicitarlo in rapporto ai differenti tipi di edifici pubblici. Non tutti gli elementi e le forme sono idonei a rappresentare l’identità e l’individualità dei manufatti: proprio nella selezione delle forme necessarie (grammatica) e nella
disposizione (sintassi) degli elementi sta il primo atto ideativo da cui muovere. Gli aspetti ideativi e innovativi dovranno
contemperarsi con quelli tecnico-costruttivi e con i modi della composizione al fine di ritrovare una nuova unità ed equilibrio, un moderno nihil addi capace di «nuove sintesi estetiche adeguate alle nuove esigenze e pulsioni contemporanee, non per registrarle semplicemente, ma per ricondurle a un ordine possibile oltre che auspicabile»4.
Parafrasando le categorie vitruviane, spesso ridotte e banalizzate da un’ottica ingenuamente funzionalista, si è inteso
prima esplicitare il significato attribuito alle tre questioni dell’ideazione, della costruzione e delle procedure compositive5 attraverso le quali si è poi analizzato e specificato, dal punto di vista architettonico, il tema dell’edificio pubblico e dell’ipotesi della sua costituzione in quanto Aula.
Costruzione - Essa va intesa come il fondamento epistemologico dell’architettura. La costruzione in quanto principio
dell’architettura concorre assieme al tipo che realizza il tema e attraverso la composizione a determinare il carattere11
degli edifici. È nel continuo confronto della costruzione tettonica con le geometrie, gli elementi dell’architettura, i principî compositivi e le proporzioni che si realizza l’architettura. Questi mondi formali e tecnici appaiono nelle opere
migliori intimamente connessi e indissolubili. Non si è inteso certo qui ridurre gli edifici ad Aula a mero atto costruttivo, ma chiarire i legami tra gli elementi architettonici, le soluzioni statico-costruttive che tali edifici esigono e l’idea
architettonica che li sottende nel tentativo di segnalare e approfondire le svolte rispetto al problema della costruzione
e delle tecniche che queste architetture fanno intravedere e tenendo conto che - come aveva intuito Benjamin - è proprio nel campo delle tecniche costruttive che da sempre si manifesta l’innovazione. Le soluzioni costruttive nella loro
‘verità’ determinano gran parte dell’identità degli edifici ad Aula, potendo contrastare con il loro realismo quasi ‘etico’
ogni deriva formalistica. La possibilità di coprire grandi luci in ambienti di varie forme e dimensioni è insita in tali architetture. Rafael Moneo ci ricorda che «solo accettando o patteggiando i limiti e le restrizioni che l’atto del costruire
comporta, l’architettura (l’opera) diviene ciò che essa è realmente»12. La forma non è data e non è il fine, ma è il risultato di un serrato confronto con i dati e le possibilità della tecnica: usando le parole di Mies «Noi non abbiamo
problemi di forma ma soltanto problemi costruttivi. La forma non è l’obiettivo ma soltanto il risultato del nostro lavoro.
Non esiste una forma valida in sé. La forma più perfetta è sempre condizionata, nasce assieme alla funzione, è
l’espressione più elementare della sua soluzione. La forma come fine è formalismo, e noi la rifiutiamo. Allo stesso modo
lo stile non è un nostro obiettivo»13. Per Mies infatti la costruzione diventa ‘struttura’, nel senso più alto del termine: ordine espressivo.
Ideazione (Invenzione) - Ci si riferisce non tanto alla creazione di forme inedite ex nihilo 6, quanto piuttosto al disvelamento di principî organizzativi sintattici ed espressivi, alla definizione e reificazione di un’idea che esige una profonda conoscenza della ragione degli edifici pubblici per costruire architetture che siano condivise e riconoscibili. Per
ideazione si intende la ricerca di nuove forme necessarie, di nuovi temi e di più progrediti assetti stilistici7 ed estetici
capaci di produrre «nuove sintesi formali»8. L’innovazione tematica o re-invenzone avviene nel senso di in-venio, cioè
di trovare nella ‘cosa’9, e ciò implica una conoscenza profonda del senso da attribuire a tali manufatti assieme a una
Composizione - Per gli edifici pubblici ad Aula sono state investigate le procedure compositive adottate e sperimentate e in che modo tali regole interagiscono con le ipotesi figurative, con la precisazione del tema e con i dati tecnico-costruttivi: con l’obiettivo dell’individuazione degli elementi stabili o meno stabili di tali architetture, il ruolo sintattico
loro assegnato, e i rapporti di dipendenza, di necessità o d’inclusione tra gli elementi ricorrenti presenti in tali manufatti e l’Aula. Il tentativo è stato quello di definire se esista la permanenza di alcuni temi e principî compositivi e individuare gli avanzamenti possibili, rispetto alle nuove esigenze organizzative e di senso. Sono state approfondite
le relazioni tra le parti, i sistemi di controllo proporzionale, le articolazioni volumetriche, il ruolo delle questioni dimensionali evidenziando come le norme compositive si adeguano e spiegano le tecniche per creare un senso appropriato al rinnovato apparato costruttivo. Si è evidenziato come le procedure compositive adottate in tali manufatti
in generale possono essere di tipo sintattico quando le varie parti costituenti l’edificio sono riassunti in un unico volume o di tipo paratattico quando alla precisazione e gerarchizzazione degli elementi e delle parti costitutive fa riscontro una loro individuazione in volumi distinti e/o accostati. «Comporre significa usare ciò che si sa (Gaudet): il
ciò che si sa non va inteso come complessivo bagaglio di soluzioni preformate ma come conoscenza e riconoscimento di regole all’interno di un più vasto procedimento logico»14. I materiali della composizione sono per l’appunto
gli elementi dell’architettura di là da una loro possibile interpretazione semantica. L’operazione analitica di discretizzazione in elementi dell’oggetto architettonico, per sua natura continuo, è utile innanzitutto per ritrovare le leggi che
presiedono alla concatenazione e alla proporzione di tali parti o sistemi di parti, che ne costituiscono l’ossatura compositiva. Il chiarimento del passaggio dal sistema classico auto-commisurato degli ordini alla scomposizione, tutta moderna, dell’oggetto architettonico in piani, punti e rette quali ‘figure individue’ è in tal senso fondamentale. Gli elementi
sono ridotti a solidi: piani, volumi, sostegni che, solo a partire dalla loro messa a contrasto, determinano un tutto architettonico e si emancipano dalla loro ovvietà e individualità astratto-geometrica per nominarsi e identificarsi come
atti della costruzione. È di primaria importanza il passaggio tra la disposizione e l’individuazione planimetrica degli
elementi e la loro rappresentazione tridimensionale. Tema, questo, cruciale nella storia delle teorie compositive, come
traspare dalle osservazioni di Palladio sulla maniera di ‘voltare le stanze’ e sulle loro corrette proporzioni. L’obiettivo
8
9
deve rimanere quello di costruire edifici dotati di finezza e concisione, ma al tempo stesso proiettati allo spazio natura intesa come «nuovo contesto generale dell’architettura e della città»15.
La costruzione di nuove ipotesi sintattico-costruttive e di senso per edifici ad Aula necessita di un’attenta analisi conoscitiva sia del tema architettonico, a partire dalle formulazioni illuministe, sia delle opere costruite o progettate nel
corso di questo secolo innanzi tutto dai maestri del Movimento Moderno «questo non per ricavarne immediatamente
delle soluzioni preformate sia sotto il profilo compositivo che linguistico, ma per verificare l’ipotesi di una progressività della ricerca architettonica»16. Non si vuole assumere il rapporto analisi-progetto in termini deterministici quanto
piuttosto costruire una genealogia di opere tesa a chiarire i caratteri distintivi e specifici di tali manufatti, un sistema
ordinato e intellegibile per puntare al dis-velamento del senso attuale dei manufatti e delle forme con cui rappresentarlo. Per questo motivo il libro è articolato in due parti principali distinte ma tra loro correlate in senso circolare ed
euristico17.
La prima parte si occupa della definizione, in sede teorica, dei caratteri invarianti ed essenziali del tipo architettonico dell’Aula, del rapporto tra i vari temi di edifici pubblici e l’assunzione unificante dell’Aula; dell’approfondimento
delle tecniche costruttive e delle procedure compositive presenti in tali manufatti. In tale ambito sono individuati e messi
a confronto alcuni exempla della storia e della modernità. L’adozione metodologica dei riferimenti ha lo scopo di indagare le procedure compositive, le strutture organizzative e le soluzioni tecniche attraverso le quali tali edifici di volta
in volta hanno selettivamente specificato e chiarito la loro ragione, dando via via risposte più avanzate e adeguate
alle necessità che il loro tempo esprimeva. Gli exempla indagati/studiati, ordinati secondo un orizzonte sincronico,
vogliono restituire nel loro complesso un’idea di architettura ben orientata, in cui l’identità tra architettura e costruzione
sia manifesta e siano manifesti, enumerabili, descrivibili e quindi intellegibili, principî sui quali tale idea si fonda e si
rivela nell’opera. Il riconoscimento di un’idea di architettura è nell’identificare un sistema di regole che stanno alla base
del fare e che gli oggetti esemplari riflettono e spiegano: significa riconoscere la necessità di una teoria, di un progetto d’ordine condiviso, cioè di un progetto stilistico che è ineffettuale «al di fuori dell’esperienza classica»18. Non
si vogliono dedurre le opere dalla teoria - intesa come insieme ordinato di proposizioni che affermano l’esistenza di
relazioni stabili tra determinati concetti - né viceversa assegnando solo al ‘fare’ la primazia ma stabilire una circolarità efficiente tra exempla (gli osservati) e principia (l’osservazione), tra praxis e Theoria. La Theoria infatti ‘osserva’
le opere e da esse trae le sue regole, tali regole vanno poi verificate e anche emendate nel continuo confronto con
l’esperienza. La scelta di limitare a pochi maestri e quindi a poche ‘architetture esatte’ il campo di investigazione
muove dal convincimento che esse, anche se in differenti epoche, hanno rappresentato e continuano a rappresentare un preciso modo di intendere l’architettura (da Vitruvio a Lukács) e il suo farsi collettivo, che non punta alla esibizione di forme gratuite ma che parte dalla conoscenza della ragione dei manufatti, dalla possibilità di riconoscere
dei tipi trasmissibili e delle forme riconoscibili.
La seconda parte, che logicamente sviluppa e verifica la prima, ma che allo stesso tempo ne ha guidato e chiarito
la struttura, riguarda lo studio approfondito delle architetture ad Aula di Mies van der Rohe e in particolare: la Convention Hall di Chicago (1950-1956); il Teatro Nazionale di Mannheim (1952-1953); la Crown Hall presso l’IIT
di Chicago (1953-1954) e la Neue Nationalgalerie di Berlino (1962-1968).
La scelta metodologica è stata quella di analizzare - scomporre il tutto in parti e ricomporre le parti nel tutto19 - le architetture civili di Mies dopo averne definiti i caratteri generali attraverso un punto di vista orientato: il ‘filtro selettivo’
dell’Aula. In tal senso, lungi dal voler proporre una ennesima esegesi di tipo storico-critico sull’opera di Mies, si è inteso selezionare e individuare alcune questioni teoriche e snodi problematici a partire dalle sue architetture, attraverso
la loro misurazione e il riconoscimento dei sistemi di regole che ciascuna di esse propone, partendo dal presupposto - come si è anticipato - che in architettura non si dà Theoria, che è ‘visione razionale’ delle forme, senza le opere,
le quali come ci ricorda Carlos Martí Arís «sono le autentiche depositarie della conoscenza tanto in architettura quanto
in qualsiasi attività artistica»20. Questo non per negare l’importanza e il ruolo della teoria ma sottolineando la necessità
che essa sia in qualche modo ‘estratta’ dagli esempi concreti dell’architettura nel suo farsi concreto e non ‘astratta’21
da esse recuperando, in ciò, la fondamentale distinzione operata da Giorgio Grassi tra i due modi di costruzione
teorica del ‘trattato’ e del ‘manuale’. Rendere evidenti le identità tematiche delle varie architetture selezionate in rapporto ai luoghi in cui si collocano, alle relazioni che esse stabiliscono con la costruzione complessiva della città, alle
procedure compositive che sottendono in stretta e insopprimibile relazione con le scelte costruttive e con i caratteri architettonici che mettono in scena è stato l’obiettivo di questo lavoro nella convinzione che le opere debbano essere
continuamente interrogate secondo l’ipotesi che non esistono punti di vista oggettivi ma solo ‘letture profonde e consapevoli’. Gli edifici studiati, nel declinare ognuno differenti temi, forme e dimensioni, sono accomunati dalla scelta
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dell’Aula come «forma architettonica capace di rappresentare il loro carattere collettivo, una sorta di Ur-tipo, di tipo
originario, in cui le articolazioni funzionali sono poste in secondo piano»22. La scelta sintetica dell’Aula non impedisce tuttavia a tali manufatti di affermare la loro ragione costitutiva ma, al contrario, consente, in tutti i casi presi in
esame, un notevole avanzamento nella precisazione dei temi che i vari edifici affrontano. La loro caratterizzazione
e individualità tematica è realizzata attraverso le adeguate soluzioni costruttive in stretto rapporto con le procedure
compositive adottate23. Cambiano cioè in modo relativo le maniere con cui sono costruiti, ma con variazioni che riguardano più l’affinarsi delle tecniche e del linguaggio che il senso particolare e il valore di ogni edificio. Tali manufatti - infrangendo dogmi, canoni e convenzioni - rappresentano delle discontinuità profonde e aprono la strada alla
costruzione di nuove regole. L’avanzamento, la deroga - come ci ricorda Apollinaire - produce una discontinuità ma
sempre rispetto a qualcosa, ha bisogno di una serie di materiali già sedimentati da cui partire, determina sì una frattura ma che attende di essere ricomposta conoscendo le regole che si vorrebbero violare.
Le architetture ad Aula di Mies sono state analizzate utilizzando le tre categorie dell’ideazione, della costruzione e
della composizione e contemporaneamente attraverso il metodo del ‘rilievo critico’ ovvero la riduzione alla stessa
scala, il ridisegno con la medesima grafia dei progetti e le rielaborazioni grafico/interpretative dell’assetto compositivo, proporzionale/modulare e costruttivo, cercando di chiarirne le regole e i principî che essi sottendono.
L’approfondimento degli exempla programmaticamente prescinde dalle particolari valenze o collocazioni di tipo urbano, partendo dal presupposto che parlare di contesto per queste architetture risulta inadeguato in quanto esse non
commentano un luogo, un tessuto ma, al contrario, lo determinano, lo sintetizzano, ne riformulano i caratteri e le relazioni d’ordine24. Il vero contesto entro cui tali edifici si pongono può tornare piuttosto a essere il ‘tutto aperto’ del
territorio, la dimensione «marcatamente estensiva»25 della città contemporanea. Così, individuate le norme che questi edifici sottendono nella loro costituzione e autonomia, si è poi verificata nei vari casi la loro capacità di orientare
e influenzare i particolari contesti urbani in cui sono collocati, constatando che spesso tali manufatti, assieme con altri
di pari grado, sono capaci di relazionarsi tra loro secondo tensioni di natura topologica, di influenzare e riassumere
il tessuto urbano circostante.
Infine il libro, riprendendo e riferendosi ad altre esperienze26 e verificando l’attualità del tema, ha voluto identificare
alcune regole compositivo-architettoniche e nuove possibili risposte e riformulazioni tematiche per la costruzione degli
edifici pubblici ad Aula basate sulla loro capacità di porsi ancora come ‘capisaldi’, come ‘punti fissi’ per la costruzione e l’infrastrutturazione della città contemporanea riproponendo una riflessione sul futuro del classico come risposta
alla disarmante condizione di questi anni.
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Cfr. L. Lanini, Mies van der Rohe lost ARK, in “Progetto”, n. 15, aprile 2003.
Intervista in “Mies” un film di M. Blackwood, New York, NY 1985.
Cfr. A. Monestiroli, La ragione degli edifici. La scuola di Milano, Milano 2010.
Cfr. S. Bisogni, Introduzione alla ricerca MURST, Funzione e senso, 2003.
Le tre categorie interpretative adottate sono state individuate e proposte dal prof. S. Bisogni.
«È necessario intendersi chiaramente sul significato del termine ‘invenzione’. [...] le invenzioni architettoniche sono scelte tra materiali che
esistono. [...] qualunque discorso architettonico si basa su delle convenzioni, su dei topoi che sono comuni a chi parla e chi ascolta [...], e
che queste parole preesistono al singolo edificio e che proprio per questo possono essere invenzione, nel senso di ritrovamento,
convenzionamento basilare di qualsiasi discorso», in L. Semerani, Il trattato incompiuto, in Id., L’altro moderno, Torino 2000 e ancora lo
stesso Semerani precisa «Il tipo architettonico è un’invenzione, esso costituisce una delle più importanti esperienze trasmissibili», in
L. Semerani, L’architetto del principe, in Id., L’altro moderno, Torino 2000.
«Accademico, in senso deteriore, significa accettare una tecnica costituita, per qualsiasi arte, rinunciando all’invenzione. Ma rinunciare
all’invenzione significa nel contempo rinunciare ad approfondire la soglia che divide, o è semplicemente liminare, tra esperienza personale e
esperienza artistica. Non esiste arte che non sia autobiografica»; da A. Rossi, Introduzione a Boullée, in E.L. Boullée, Architettura, saggio
sull’arte, Venezia 1967, p. 18.
S. Bisogni, op.cit., 2003.
«Io credo che l’invenzione, la capacità inventiva, non faccia parte della dotazione necessaria di un architetto (e neppure, ritengo di un
artista in generale). Il suo strumento principale è l’immaginazione [ideazione] che si applica sempre su cose note; queste cose deve prima di
tutto possederle con sicurezza».
da G. Grassi, Invenzione e accademia, in Id., 6 risposte a 2C, in “2C - Construcion de la ciudad”, n.10.
Cfr. F. Carnelutti, Arte e scienza,1959.
Cfr. A. Monestiroli, Questioni di metodo, in “Domus”, n. 727, maggio 1991 et Id., La metopa e il triglifo. Rapporto tra costruzione e
decoro nel progetto di architettura, in “QA”, n.13, 1992.
Cfr. R. Moneo, La solitudine degli edifici, in “Casabella”, n. 666, Milano 1999.
Cfr. Mies van der Rohe, Baukunst und Zeitwille, in “Der Querschnitt”, 1924, tr. it., in L. Hilberseimer, Architettura a Berlino negli anni ’20,
prefazione di G. Grassi, Milano 1967.
Cfr. F. Spirito, Il tema di architettura e la sua messa in opera, in “Progettazione urbana”, bollettino DPU, Università degli Studi di Napoli
Federico II, n. 0, gennaio 1993, p. 28.
A. Monestiroli, op.cit., 1992.
S. Bisogni, op.cit., 2003.
“Euristica” è una parola moderna derivata dal verbo greco eurisco, che significa ‘trovare’. L’euristica è l’arte di pervenire a nuove scoperte o
invenzioni, nella filosofia della scienza designa l’arte della ricerca, del promuovere e condurre rettamente la ricerca. Il problema di un
metodo che, oltre a regolare la classificazione del sapere, fosse soprattutto uno strumento di ricerca e di scoperta fu affrontato, nel XVII
secolo, da Francesco Bacone, che all’antica logica di Aristotele, basata sulla deduzione, oppose un approccio sperimentale e induttivo ai
fatti d’esperienza (le opere). Nel sistema di circolarità ermeneutica ci si vuol riferire a un continuo andirivieni dalla teoria alla prassi e
viceversa di modo che entrambe siano alimentate vicendevolmente l’una dall’altra.
Cfr. A. Monestiroli, Necessità della teoria, in AA.VV., Il progetto di architettura, Roma 2002, et, A. Monestiroli, Continuità dell’esperienza
classica, in E. D’Alfonso, Ragioni della storia e del progetto, Milano 1985.
R. Barthes afferma che tale procedura analitica, tale divisione e riunione dell’oggetto osservato restituisce la struttura, «[...] produce del nuovo
e questo nuovo è nientemeno che l’intellegibile generale [...]», in R. Barthes, ‘’L’attività strutturalista, in Id., Saggi critici, Torino 1966,
p. 246.
Cfr. C. Martí Arís, La cimbra y el arco. Una nota sobre la investigacíon en arquitectura, in “Circo”, n. 93, novembre 2001.
Cfr. V. Pezza, La materia del progetto, lezione, novembre 2001.
L. Lanini, op.cit., 2003.
Cfr. A. Monestiroli, Le forme e il Tempo, introduzione a L. Hilberseimer, Mies van der Rohe, Milano 1984.
Cfr. I. de Solà-Morales, Mies van der Rohe e il grado zero, in “Lotus”, n. 81, 1994.
G. Grassi, Introduzione, in L. Hilberseimer, L’architettura a Berlino negli anni Venti, Milano 1967.
Ci si vuol riferire sia a ricerche teoriche esemplari sul tema dell’aula - e in particolare agli scritti di S. Bisogni, C. Martí Arís, A. Monestiroli,
R. Neri - sia a sperimentazioni progettuali strettamente legate a tali elaborazioni che in alcuni casi ne rappresentano la verifica/premessa e
in particolare ai recenti progetti di Aule di S. Bisogni, G. Grassi, A. Monestiroli.
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IL TIPO
13
DELL’AULA
DEFINIZIONE DEL TIPO ARCHITETTONICO
IN RAPPORTO AGLI EDIFICI PUBBLICI
DELL’AULA
L’ipotesi di un’identificazione concreta tra edificio pubblico e il tipo dell’Aula, metodologicamente, presuppone la definizione della natura e dell’origine del termine del lemma ‘Aula’. Tale necessità etimologica1 muove dal convincimento
che il corretto uso dei termini e dei concetti deve muovere da una chiara comprensione del senso originario o, in altri
termini, del significato vero, reale (etimos) più profondo delle parole2. Questo non per un mero gusto filologico ma,
al contrario, per fondare su quella verità insita nel contenuto primo delle parole una ipotesi di futuro consapevole. La
definizione restituisce oltre al significato primo, alla genesi, anche ‘l’evoluzione interna delle cose’. La parola Aula
deriva dal greco αυλή, (da αυσλή, cfr. antico indiano vas, vásati, rimane in un luogo, si ferma, pernotta) che può
indicare il cortile chiuso davanti alla casa, le parti costituenti di una Corte principesca: θάλαµος και δωµα και
αυλή, il muro del cortile, υψηλή δέδµητο…ερίδροµος αυλή, l’abitazione, capanna, dimora, αυλή µεκύων,
o può coincidere con il palazzo principesco, Ζηνος αυλή3. È utile sottolineare fin da ora uno stretto legame del termine con il tema della casa a corte (dimora) nei suoi differenti sviluppi dal privato (casa) al pubblico (palazzo). Antonio Monestiroli ci ricorda che «Fustel De Coulanges descrive l’atto originario di costruzione della casa antica come
atto di recinzione attorno all’altare degli dei della famiglia: in questo atto è contenuto tutto il significato dell’abitare
che va ben al di là della sua funzione (peraltro molto complessa nella forma evoluta della Domus) e fissa in modo
univoco il rapporto fra la casa e il luogo, che diviene il luogo proprio della famiglia, il luogo con cui questa si identifica per più generazioni»4.
Come è riportato dal DEAU5 «l’Aulé era generalmente lastricata, con porta d’ingresso a mezzogiorno, e chiusa a nord
da un portico (pastàs) spesso a due piani, sul quale si affacciava il megaron, seguito dal ginecoide; nelle case di
Olinto altri ambienti d’abitazione (andròn) e magazzini si aprivano lateralmente alla corte. In età ellenistica l’Aula è
generalmente sostituita dal peristilio». Analogamente il termine tedesco Halle, dal verbo hehlen (che a sua volta deriva dai latini occulere e celare e dai greci καλυτειν e κρυτειν) «denotava in origine un ambiente coperto da
struttura a luce unica aperto e, accanto al significato di portico (Vorhalle), successivamente indicherà un ambiente cintato sui quattro lati destinato alle adunanze»6. Dal termine Aula deriverà significativamente l’aggettivo aulico (dal gr.
aulikòs, e lat. aulicus, -a, -um) che significa letteralmente appartenente alla corte, principesco, di linguaggio o stile
nobile, e, in senso traslato, è secondo Dante uno degli attributi del volgare letterario, «degno di risuonare nella reggia [Aula]» , riportando in tal modo il senso ed il valore alla forma immanente del luogo rappresentativo.
La radice aul- denota «il sito dell’accampamento, che normalmente viene mantenuto da un inverno all’altro segnando
il luogo con una cinta di pietre, e scelto in funzione del riparo dei venti dominanti, presso alberi o a ridosso di basse
colline; il recinto per le mandrie è circondato da incannucciate o da fosse scavate nel terreno» (Guidoni)7. A partire
da questa ultima accezione si può rintracciare uno stretto legame non solo etimologico tra l’Aula ed il recinto (témenos), tra il luogo rappresentativo unitario, il suo costituirsi come manufatto, e l’atto primordiale della delimitazione dello
spazio distinto dalla natura, in quanto ostile, ma anche nel senso di sottrarne una parte. Sostituendo «alla natura una
natura più o meno estratta dalla prima» (Valéry)8.
L’atto del recingere, di separare, di dividere, ci ricorda la Arendt9, «significa costruire un muro che si dirà nomos (da
cui témenos), cioè legge, norma che regola e misura lo spazio. L’atto di recingere e quello di ripararsi sono il presupposto della possibilità di esperire una conoscenza, di realizzare un’esperienza».
Di particolare rilievo e interesse riguardo al tema dello spazio cintato sono le riflessioni di Giovanni Di Domenico:
«[...] far architettura è essenzialmente fare recinti. Il significato essenziale dell’architettura sta forse nel suo essere recinto, nel costruire un ambito di spazio controllato separando un interno da un esterno tramite un muro. Costruendo
un muro - un recinto chiuso - intorno a sé, l’uomo sottrae una porzione di spazio allo spazio ostile della Natura, la fa
propria, la pone sotto il proprio incontrastato dominio, rendendola innanzitutto sicura e poi adatta a sé, alle proprie
esigenze individuali e sociali. È proprio tale atto primario di divisione [di ana-lisi, di temno] che consente lo sviluppo
successivo della vita individuale e associata, lo sviluppo di una cultura, la nascita della civiltà. L’architettura a recinto
è all’origine della civiltà ed è antica quanto l’uomo. Ma se separandosi dalla natura naturalis, ostile, l’uomo conquista
uno spazio sicuro, nel contempo egli perde quel rapporto che lo legava alla Natura, che lo legava al mondo come
un tutto: egli perde, come propria casa, la ‘stanza smi-surata e superba’ della Natura; e comincia a sentire l’atto in
sé creativo della separazione, come atto violento, contro di sé, e - forse - come atto blasfemo […] Allora l’uomo, essere filosofico e poetico a un tempo, tenta di recuperare all’interno della casa [Aula], di quell’angusto spazio che ha
inventato ed eletto a sua dimora a similitudine delle grotte e delle tane, quella complessità e quella bellezza di cui è
capace; tenta di recuperare la bellezza e l’infinitezza, sempre varia, della Natura; il senso di totalità che la anima.
Tenta di recuperare, sia in senso letterale che simbolico, ciò che ha perso. E incorpora all’interno della casa frammenti di spazio aperto, corti, frammenti di natura (l’albero, l’acqua, l’uccello, il vento e lo stormire delle foglie) nel
contempo realtà e simbolo; e moltiplica, rende vario, ricco di spazi e di presenze, lo spazio interno, per renderlo in
qualche modo simile agli spazi della Natura, e più adatto a se stesso come totalità, corpo e spirito, nel quadro delle
nuove esigenze. L’uomo capisce che il suo nuovo utensile, casa, o stanza che dir si voglia, non è come gli altri (la
ruota, il carro), ma qualcosa di diverso e di più; comprende che essa, stanza [Aula], tende inevitabilmente a farsi
mondo, doppio del mondo»10.
L’invenzione dell’Aula, dello spazio separato e alter dalla natura rappresenta la volontà di ricostruire una porzione
speciale di quella ‘stanza smisurata’, di ricostruire un mondo e di conoscerlo, di ritrovare nel finito e nell’artificiale
l’idea d’infinito (ápeiron), del senza misura. La ricerca di questo mikrós kósmos11 - che è ordine e decoro - equivale
secondo Shelling alla ricerca della bellezza che è appunto «la percezione dell’infinito nel finito»12,in cui «la progettazione dell’edificio - come affermava Louis Khan - deve iniziare con l’incommensurabile, quindi passare attraverso il
misurabile per finire ancora nell’incommensurabile». Non è un caso che Goethe definisca l’architettura come «una
seconda natura costruita a fini civili», una natura razionale e ordinata che vuole riprodurre e alludere analogicamente
alla perfezione e all’assolutezza dello spazio infinito che ci circonda.
In tal senso Martin Heidegger, a proposito del significato della nozione di Raum (spazio), lo riporta all’originario Rum
che denota un luogo reso libero per permettere un insediamento di coloni o un accampamento: «un Raum è qualcosa
di sgombrato, di liberato, e ciò entro determinati limiti, quel che in greco si chiama péras. Il limite non è il punto in cui
una cosa finisce, ma, come sapevano i Greci, ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza dove è il principio
della presenza della forma»13. Il riparo ‘naturale’ è trovato, il riparo ‘sgombrato’ (vuoto) è opera, è la sua prima Raumgestaltung (spazio figurato), prodotto dell’uomo è ‘luogo fondato’ reso abitabile, «salvifico del dolore e della morte,
che premette un Ordinamento eterno e divino del mondo»14. In tale accezione lo spazio diviene un vuoto non nel senso
scientifico della fisica ma in quanto luogo o interno - denso di valore - definito artificialmente, o meglio architettonicamente, e costruttivamente da una metrica, da un sistema di rapporti e commensurazioni. Come precisa Valeria Pezza
l’interno, l’architettura è «il vuoto ricondotto ad una misura […] l’architettura è fatta di gesti, eseguiti nel vuoto, che sono
divenuti misura del vuoto stesso: su questi l’architettura ha costruito un mondo di forme autonomo ma coerente con la
vita reale (che si svolge in essi ed in essi si rappresenta), adeguato ad essa, anzi capace di ‘evocare adeguatezza’
[Monestiroli da Lukács]»15. I ‘gesti’ cui allude Pezza sono gli elementi dell’architettura composti per definire un tutto che
non si realizza come mera sommatoria di parti ma attraverso dei principî, dei ‘legami’, che li tengono assieme in
modo chiaro e intellegibile. Il vuoto inteso come interno, come individuazione intenzionale, normata e misurata di un
luogo e delle attività reali che vi avvengono che rimandano «alla nostra presenza nel mondo»16 è insieme il luogo separato del témenos, della casa/focolare, del rito del tempio o della recita del teatro, è spazio ordinato nel senso della
Raumkunst (arte di costruire lo spazio). Lo spatium determinato dall’Aula è inteso in quanto σταδιου (distanza) e cioè
intervallo, porzione finita di uno spazio non misurabile e per definizione smisurato che è quello della natura17. In generale - nell’interpretazione di Cacciari - «si può parlare di architettura quando si comprende che un progetto affronta
compositivamente il problema del vuoto…come comporre il vuoto»18. Secondo Calvino «il vuoto è altrettanto concreto
che i corpi solidi (Lucrezio), il vuoto non è il nulla, il niente, il vuoto è la condizione base del mondo, come noi lo conosciamo, lo percepiamo: se si può costruire il mondo è perché non fa ostruzione, perché c’è spazio, è vuoto». Il vuoto
è esso stesso un pieno denso di significati ma anche forma architetturata, quindi è dotato di ordine. Un’analoga concezione spaziale è quella di ma, che nella tradizione giapponese indica lo ‘spazio nel mezzo’ ossia l’intervallo di
tempo fra diversi fenomeni, ma anche la distanza degli oggetti nello spazio. Il vuoto è inteso come intervallo pregno
di significato, attorno cui si costruisce il senso dell’opera19.
La ‘capanna primitiva’, il rifugio primordiale sarà interpretato da Schmarsow20 come una vera e propria matrice spaziale definendola Raumgestalterin, creatrice dello spazio, vista come ‘principio guida soggiacente’ a ogni figurazione
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15
e forma architettonica. In questo senso si può parlare per l’Aula in quanto ‘riparo primordiale’ di άρχετύος, ovvero
di referente formale, di modello originario ideale e primitivo delle cose, del quale le manifestazioni sensibili della realtà non sono che filiazioni o imitazioni. Gli archetipi rivelano condizioni fondamentali dell’essere o meglio sono in
diretto contatto con gli universali (Platone), in tal senso le forme archetipiche sono intrinsecamente pubbliche perché
capaci di una «ricezione generalizzata» (Benjamin). Questo è spiegato forse anche dal fatto che il termine Aula è di
tipo autologico cioè contiene in sé, simultaneamente, la sua spiegazione spaziale e il suo significato. Rappresenta l’idea
che contiene in sé il senso generale dell’edificio. L’archè è idea prima, ciò che sta all’inizio del tempo ma è anche ciò
che si impone in quanto evidente, logico ed elementare costituendo il «tramite attraverso cui si attua il rapporto fra idee
e forme» (Monestiroli). Secondo Giorgio Grassi, infatti, «l’archetipo è rappresentato dalle forme semplici ed originarie dell’architettura, da quelle forme cioè […] che sembrano esibire il contenuto stesso e la motivazione umana. Tali
forme non soltanto rappresentano i principî immutabili secondo cui è nata l’architettura, ma essi ne costituiscono altresì
le norme in quanto l’architettura deve ritornare a tali forme nel suo [continuo] processo di rifondazione»21.
L’ideazione deve procedere a partire da materiali che pre-esistono, nella consapevolezza che ex nihilo nihil fit (dal
nulla non si genera nulla) e il nulla «non produce l’essere; altrimenti il nulla sarebbe l’essere […] tutto ciò che si genera è già prima nell’archè, da cui tutto procede e tutto ritorna»22. L’architettura, nel suo farsi, deve continuamente
confrontarsi con gli archetipi interpretandoli continuamente e nuovamente pena il rifiuto delle forma che propone. La
variazione, combinazione, reinterpretazione è la vera ‘attività poietica’’ insita nell’architettura, il vero avanzamento
possibile in un sapere che è innanzitutto ‘sublime ricapitolazione’ (Eco) del già noto. I tipi che permangono nel tempo
«grazie al carattere di generalità si rendono quindi archetipi» (Norberg Schulz).
L’Aula denota un particolare archetipo, o per meglio dire una ‘sintetica idea spaziale’, che combina e unifica diversi
archetipi preesistenti e il suo ruolo di modello, di paradigma, è più concettuale che materiale. Del resto il contrario
dell’archetipo è proprio la copia: come si è detto, la vera mimesis che l’Aula propone è quella con la natura con la
sua infinitezza e armonia e inoltre con quelle «architetture certe»23 che ne hanno colto l’essenza. Non è un caso che,
in tutta l’architettura classica, si assegni a tale ‘referente spaziale’ il compito di rappresentare una moltitudine di temi
collettivi. Il passaggio dal Recinto Sacro di Micene al Palazzo di Cnosso a Creta, alla lunga precisazione del tipo
del Tempio a partire dall’identificazione del megaron e poi del naos, della cella, e della peristasi è concettualmente
lineare. La cella del tempio forse rimanda in termini analogici alla «dimora più splendente e radiosa del mondo: il
palazzo degli dei del cielo, invisibile ai mortali, dove ogni divinità ha la sua personale residenza, luminosa come
un diamante, dove c’è la casa di Zeus, con una sterminata sala [Aula], dove gli dei si riuniscono intorno a lui per
prendere decisioni, per giudicare, per sedersi a banchetto bevendo e mangiando in coppe e piatti d’oro. La mensa
poggia come tutto l’edificio sulle nuvole. [...] [la] città celeste, al di sopra della quale la volta del cielo stellato (Urano)
fa da tetto alla grande sala, la mitica assemblea degli Dei il αντήεoν»24. In tal senso il Mito riveste un carattere
di esperienza e di ricerca delle ragioni ultime dell’universo e delle leggi profonde che regolano la vita degli uomini,
è «materia in movimento suscettibile di continue trasformazioni verso il logos». I miti archetipici in special modo privilegiano e consentono l’intellegibilità e l’ermeneusi del mondo. In ultima analisi «il carattere saliente della civiltà
greca - come afferma Benevolo - è lo spirito di universalità cioè la capacità di astrarre dalle formulazioni contingenti
e impostare i problemi in senso generale e assoluto, sottomettere ogni atto architettonico particolare al sistema di regole e rapporti universali valido al di sopra del tempo»25.
Dal Tempio - l’edificio che rappresenta per eccellenza la civiltà greca e i suoi ideali estetici - deriveranno, in maniera
diretta, tutti gli edifici collettivi nei quali si rappresenterà la polis, con la fondamentale differenza di valore e di senso
riguardo alla necessità di costruire un interno non come la Casa del Dio - e quindi inaccessibile e inattingibile - ma
come luogo di riunione di una koinè, di una ekklesia, di una collettività. Nel Tempio infatti la cella è un luogo ‘riservato’ che ospita la statua del Dio, il suo simulacro, ed è ‘visibile’ solo ai sacerdoti. Le funzioni religiose ‘pubbliche’,
come sacrifici o matrimoni, avvengono all’esterno sulle are scoperte, solitamente poste davanti al naos. In alcuni
casi, come l’Ara di Ierone II a Siracusa, tali altari votivi si rendono addirittura autonomi dal tempio e divengono essi
stessi degli enormi spalti gradinati e distinti dal suolo cui si rivolge la comunità, radunata nello spazio antistante lasciato sgombro per assistere ai riti propiziatori. Non è un caso se alcuni autori26 hanno suggerito una stretta affinità
degli edifici collettivi della città greca con il tipo del teatro intravedendo una più complessa interazione tra il sistema
naos/peristasi e quello della cavea teatrale a sua volta inteso come riformalizzazione dell’areopago.
Il Bouleuterion, il Telesterion, le sale ipostile (Persepoli, Delo), i pritanei, ma anche la stoà, combineranno in modi differenti e a volte contrapposti gli elementi - o solo alcuni di essi - già presenti nel modello del tempio periptero e nel
teatro. Il pritaneo, ad esempio, è il luogo dove si esercita la più alta magistratura, si conservano gli archivi antichi della
città e il fuoco sacro della polis rappresentato da Hèstia27, la dea del focolare, l’inventrice dell’arte di costruire le case,
ma anche la dea del centro, dell’omphalos 28, della casa e in senso più ampio della riunione, della comunità e dello
stare insieme. Il centro rappresenta ciò che è conosciuto a differenza di ciò che è nel mondo circostante ed è inconoscibile o addirittura minaccioso, in generale il centro (omphalos/mvndvs) è «la scoperta o la proiezione di un punto
fisso che è equivalente alla creazione di un mondo» (Mircea Eliade). L’uomo, ogni volta che definisce un centro, ricostruisce il proprio mondo, crea cioè un ‘artefatto’29. L’insistenza sull’idea di centro sul piano architettonico generalmente equivale alla scelta di organizzazioni spaziali di tipo centrale, con almeno due assi di simmetria tra loro
ortogonali, in cui l’idea dello ‘stare’ sia manifesta nella forma stessa che organizza lo spazio che non ha una orientazione prevalente ma un centro da cui si dipartono infinite direzioni. Ma immediatamente, a tale scelta di individuare
un vuoto dotato di centro, fa riscontro la necessità di coprirlo con un tetto che ne consenta l’utilizzo. Se per la casa
l’atto fondativo è l’erezione di un muro, per l’edificio pubblico è l’erezione e il sostegno di un tetto, di una «copertura
sovrana» (Perret) che è insieme impresa tecnica e sforzo collettivo. A tal riguardo è paradigmatica l’evoluzione del Telesterio di Eleusi, ove ‘attorno’ alla cella - l’Anaktoron - che conteneva il tesoro della polis, derivata dallo schema originario del megaron, si costruiranno differenti ipotesi conformative che riassumeranno di volta in volta i vari tipi del
teatro, della sala ipostila e del portico, sino alla soluzione, o per meglio dire all’esempio di Ictino, che supera in termini sintetici e generalizzanti tali referenti e fonda un nuovo tipo architettonico: l’Aula civica. L’Aula di vaste dimensioni
(m 51,56x49,44), di forma pressoché quadrata, con un piano mezzanino che si affaccia sul vuoto centrale a doppia altezza, è coperta da un tetto con capriate lignee - con la grande apertura dell’opeion «da cui entrava la luce del
mattino»30 - poggiato su un doppio peribolo di sostegni interni circondato da gradinate su tutto il perimetro, e per un
lato scavate nel banco tufaceo. La grande Aula è delimitata da un muro di forma quadrata cui fa da contrappunto
una semi peristasi esterna particolarmente fitta - come nel Tempio - che serve a dichiarare, a mettere in scæna il suo
carattere rappresentativo. Ictino, come aveva già sperimentato nel Partenone, propone di liberare quanto più possibile lo spazio interno dagli appoggi, non intralciando la vista degli spettatori verso il centro che è occupato dall’antico santuario/megaron da cui si era sviluppato per successivi ampliamenti il telesterio. L’Aula effettivamente realizzata
da Filóne oltre a semplificare l’organizzazione interna eliminando il mezzanino, ridurrà la semi peristasi a un portico
in antis (Atrio di Filóne) ma soprattutto proporrà un notevole infittimento degli intercolumni dei sostegni interni da 4x4
a 6x6, scontando così le notevoli difficoltà tecniche legate alla considerevole luce da coprire e riproducendo di fatto
una sala ipostila e non più uno ‘spazio sgombrato’. Questo limite tecnico, e la sua ricaduta sull’organizzazione spaziale, mostra l’insopprimibile e difficile rapporto con il ‘fatto costruttivo’ che questo tipo di edifici, fin dal loro apparire,
conterranno. Forse questa di Eleusi è la prima Aula pubblica coperta della storia e costituirà il modello per la Curia
romana sino alla Camera dei Comuni inglese31. Lo schema dell’edificio è semplice e assoluto (il quadrato), non vi sono
sub-articolazioni distributive, lo spazio interno coincide con il volume esterno e la sua forma generale è determinata e
governata dalla geometria ordinatrice e riduttiva dell’architettura come la matematica lo è della natura intera (Galilei).
Anche rispetto ai prodromi dei bouleteria, il Telesterio, nella linearizzazione delle gradinate perimetrali al centro che
assecondano la centralità della pianta quadrata, si emancipa dalla mera replicazione a scala ridotta del teatro semicircolare, risolvendo in tal modo notevoli difficoltà compositive relativamente all’attacco tra forme e figure a matrice
curvilinea e pareti rettilinee. In sostanza nell’Aula ‘prima’ di Eleusi, realizzando una nuova sintesi, vengono combinati
il tipo del teatro (forma) e quello della sala ipostila (tecnica) che era prevalentemente direzionata. Tale sintesi tende a
liberare quanto più possibile lo spazio interno per ritornare all’antico archetipo del témenos, spazio ‘ritagliato’ e ‘sgombrato’ (sacro o domestico), scoperto dove tutti potevano vedere in ogni punto l’estensione dello spazio e dove l’uomo
riaffermava la sua presenza nel mondo separandosi dalla natura circostante. Si assiste, per la prima volta nella cultura greca, a un lavoro sull’invaso interno che nel Tempio era ridotto e celato dalla cella. Tale rivoluzione concettuale
viene portata alle estreme conseguenze nel Therlsirion di Megalopolis. Qui infatti al principio di commensurazione dettato dal canone governato da una geometria e da una metrica proporzionale di tipo relativo (rapporto canonico) si
sostituisce una liberazione degli elementi da vincoli modulari, controllati da un sistema proiettivo polare per certi versi
analogo a quello adoperato negli spazi aperti per la collocazione dei grandi edifici dell’Acropoli. Nel Therlsirion si
parte dal quadrato centrale per poi determinare la posizione dei sostegni attraverso l’intersezione dei raggi che si diramano dal centro del quadrato e si intersecano con archi di cerchio di diametro crescente, corrispondenti forse a delle
gradinate, secondo una progressione di tipo logaritmico e di rettangoli anch’essi con una dilatazione progressiva di
tipo polare. Lo spazio punteggiato che si determina, pur mantenendo una relativa gestibilità/controllabilità delle luci,
offre, con il complesso sistema di disassamenti dei sostegni, una inedita moltiplicazione prospettica del vuoto che
vuole in qualche modo riprodurre in questo riparo l’infinità del bosco. Infine, quasi a ribadire fisicamente una filiazione
dal teatro, è significativo il rapporto posizionale con la grande cavea soprastante.
Edifici di varia natura, civile o religiosa, destinati alla riunione, alla celebrazione di un qualche rito, alla rappresen-
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tazione di eventi o spettacoli, ma anche alla conservazione del sapere, saranno accomunati dal costante riferimento
all’archetipo dell’Aula. La Biblioteca di Efeso, la Boulè di Pergamo, il Pantheon, la Basilica di Massenzio, le Terme
di Caracalla, il Teatro coperto di Pompei, i Mercati Traianei, pur nei differenti ruoli, usi e dimensioni saranno accomunati dalla scelta costante dell’Aula, quale elemento capace di esemplificare l’idea stessa del luogo pubblico nel
quale si riconosce un’intera comunità. Questo luogo definito a partire dall’identificazione di un interno, che può essere coperto, semicoperto o addirittura scoperto e più o meno confinato, contiene un significato che va oltre le singole funzioni particolari e si configura innanzi tutto come il ‘grande riparo’ collettivo immerso nella natura, che avrà
«il compito di rappresentare la vita civile degli uomini, la loro attività e il loro ruolo in una libera società organizzata»32.
Da questo momento la cultura greca, e poi quella romana, identificheranno con l’Aula il tema dell’edificio collettivo.
Il Pantheon, in particolare, riassume e supera tutti gli edifici ad aula prodotti dall’architettura romana diventando il prototipo successivo dell’idea stessa di centralità continuamente ribadita nelle sue proporzioni (diametro pari all’altezza
43m), nella decorazione nobilissima a cassettoni rastremati della volta e nell’oculo che rappresenta allo stesso tempo
il luogo geometrico che fissa la regola della costruzione, la fonte di luce che si proietta sulla cupola e il rimando al
divino. L’assolutezza della volta è tale che, per ribadirne l’autonomia formale, figurale e di senso, la partizione dal
tamburo dei cassettoni non è multipla di quella che definisce il sistema delle cappelle absidate. In tal modo si vuol
trasferire a tale elemento monolitico - e alla grande impresa tecnica di cui è testimone - il compito di rappresentare
la singolarità e l’unicità dello spazio che contiene. Tali edifici rappresentativi, nel loro comporsi a formare Agorà o
Acropoli, determineranno quei luoghi centrali, eccezionali e singolari, attorno ai quali si costruiranno la città e il territorio, distinti dalla ripetizione ovvia e consueta della residenza.
Carlos Martí Arís con grande chiarezza individua una stretta relazione e identificazione tra l’edificio pubblico e gli
elementi archetipici e per questo ‘certi’ del portico e del muro. I due elementi sono complementari: «il muro stabilisce
un limite orizzontale allo spazio e costruisce il recinto, il portico lo delimita in senso verticale e costruisce il suo tetto»33.
Dal comporsi e dalla differente relazione topologica di tali elementi - secondo Martí Arís - si generano i tipi del tempio e della stoà che inverano due modi differenti e complementari di definire lo spazio: «gli elementi sono gli stessi,
cambia solo il loro rapporto topologico. Nel tempio periptero il portico avvolge il muro che delimita il recinto della
cella e costruisce così un deambulatorio, o pteron. In questo caso il portico gira intorno a un nucleo chiuso e genera
uno spazio di forma convessa. Nella stóa il portico costruisce un percorso parallelo all’elemento murario, costituito
in questo caso da una lunga navata che contiene diversi locali (negozi, uffici, ecc.). Quando si compongono due o
più stóa si forma uno spazio pubblico circondato da portici: questa è l’origine dell’agorá e del foro. Allora il portico
racchiude un grande vuoto e costituisce uno spazio di forma concava»34.
Il ‘muro’ che, come aveva segnalato Choisy, «è il tipo dell’ordine»35, costruisce e custodisce un interno, mentre il ‘portico’ definisce e delimita un esterno. Come si vedrà di seguito «nella ricerca miesiana si trovano molti riferimenti al
tema del portico come elemento di identificazione dello spazio pubblico»36. L’Aula dunque combina i due elementi
in un’unità finita più complessa ma, se possibile, più adatta a riflettere il tema dell’edificio pubblico, poiché lo riassume in un unico assetto formale e spaziale e quindi in un τύος cioè «un enunciato che descrive una struttura formale»37 che contiene al suo interno un’idea di architettura. L’enunciato si può descrivere a questo punto come uno
«spazio unitario, preferibilmente continuo, e capace di accogliere un certo numero di persone in vista di un uso collettivo»38. L’interpretazione, o messa in opera di un tipo, si realizza attraverso un esercizio di articolazione/variazione
che ordina e individua al suo interno - dal punto di vista formale - gli elementi costitutivi immutabili e le parti subordinate (secondarie) e le regole della loro composizione relativa. Tale attività di relazione tra elementi e parti, tra elementi fissi e variabili non deve compiersi come attività combinatoria ma deve puntare a un ordine che non faccia
perdere l’identità al tipo e la riconoscibilità del suo referente, cioè l’essere recinto topologico che realizza e rappresenta la comunità. Lo spazio dell’Aula trova la sua ragione costitutiva nella «destinazione collettiva delle attività che
accoglie»39. Il lavoro sul tipo deve produrre quelle «variazioni necessarie [e solo quelle] nei secoli affinché un testo
[un’opera] si componga, dando vita in sé a un kosmos, a un ordine, […]»40. L’Aula si configura come una parte autonoma, composta di vari elementi a partire dall’identificazione di un unico principio conformativo: quello dello spazio unico rappresentativo. Tale parte può coincidere o non con l’intero manufatto ma in ogni caso ne costituirà il nucleo
e il principio compositivo generale, ‘dominante’ e gerarchizzante, cui le altre parti e il sistema dei caratteri si dovranno
subordinare. Lo stesso Arís, nel ripercorrere la genealogia dei vari tipi di edifici pubblici, riporta l’esempio del Palazzo
Municipale medioevale in cui all’Aula sopraelevata, destinata alla riunione, alle decisioni politiche e all’amministrazione della res pubblica come nelle basiliche romane, corrisponde al piano terra il portico (arengario) destinato a
mercato, cui è demandato il rapporto con la città. Non è chi non veda, in tale esempio, la conferma dell’assunto iniziale che fa coincidere l’Aula con l’edificio pubblico e della sua capacità di contenere e di assorbire al suo interno
sia il tema del ‘recingere’’ che del ‘coprire’, in tal modo attivando la dialettica delle due coppie oppositive: delimitazione/apertura e concisione/estensione. L’Aula è il presupposto e assieme la ‘norma’ dalla quale muove l’ideazione
dell’edificio pubblico, la sua ‘intuizione eidetica’, in senso bergsoniano, che ha già in sé, nella sua essenza, il senso
del tema che si deve rappresentare.
Il palazzo municipale medievale, perfezionato dal Palazzo della Ragione a Padova, viene successivamente sviluppato, in maniera più consapevole, da Palladio nella Basilica di Vicenza: uno dei pochi edifici civili di tutto il Rinascimento/Manierismo. La Basilica di Palladio, come il Palazzo della Ragione, affida il suo carattere rappresentativo
alla soluzione e ostentazione del tetto a carena di nave rovesciata che, all’interno, consente una notevole amplificazione dello spazio della sala e, all’esterno, per la forma che mostra, fa riconoscere il ruolo civile del manufatto. Dal
punto di vista dei caratteri architettonici in quest’edificio - che si rifà selettivamente al modello romano della Basilica
- come nelle ‘Scuole grandi’ veneziane, non si cerca una contrapposizione sintattica e volumetrica tra la sala delle
adunanze e il ‘Broletto’ quanto una giustapposizione tra parti in un’unità complessiva ottenuta attraverso l’esatta scansione dei moduli e delle partiture architettoniche che irrigimentano l’intera costruzione. Il caso delle ‘Scuole grandi’
veneziane è particolarmente significativo proprio per i modi con cui questi edifici risolvono il rapporto tra il piano terra,
di solito a tre navate, e la sala superiore e il problema della loro connessione verticale. Spesso la scala diviene un
vero e proprio volume accostato all’Aula: è il caso della Scuola di San Rocco in cui il corpo dello scalone, disposto
normalmente rispetto all’Aula, assume un’identità costruttiva e rappresentativa propria che risolve l’irregolarità del
lotto. La Scuola, costretta nel tessuto fitto delle calli veneziane da cui emerge soprattutto per la dimensione del vuoto
che contiene, non potendo offrire una ricezione autonoma rispetto alla ripetizione della residenza che la circonda,
affida la rappresentazione del suo carattere alla decorazione della facciata in cui le campate che individuano l’Aula
presentano due ordini di colonne a rilievo che ne ribadiscono l’organizzazione. Altro è il caso della Scuola Grande
della Misericordia di Jacopo Sansovino in cui la posizione di tangenza rispetto al canale omonimo sposta l’attenzione
dalla decorazione della facciata al suo rapporto assoluto del quadrato, alla precisazione sintattica del volume (m
53x24 alto 24m) libero su tre lati e ai suoi rapporti costitutivi, con un chiaro riferimento al Tempio, relegando il corpo
della scala a un ruolo tecnico accessorio che non intacca l’integrità e l’assolutezza del manufatto.
Nell’Illuminismo - a partire dal dibattito precedente sull’autorità degli antichi, con la Querelle des ancient et de modernes e poi con la disputa tra Goethe e l’abate Laugier sulla capanna primitiva - ritorna il tema della nascita dell’architettura, del suo fondamento teorico e del riferimento agli archetipi. Secondo Quatremere de Quincy attraverso
la capanna primitiva «l’architettura si inventa un modello che non aveva», che rappresenta sia l’origine dell’arte del
costruire sia il suo fondamento logico-razionale. Gli scritti e i progetti di Boullée sulla nozione di carattere e sul rapporto con la Natura, tema centrale della cultura settecentesca, riaffermano l’identificazione tra i rinnovati temi civili
della Rivoluzione: il Museo, la Biblioteca, il Municipio e il tipo dell’Aula.
Nel progetto per una Biblioteca pubblica, come ha rilevato Aldo Rossi «Boullée “volta” una grande corte creando
quello spazio centrale coperto che costituirà la costante tipologica degli edifici pubblici moderni; la soluzione diventa
esemplare nelle architetture pubbliche urbane»41. La sala di lettura, che misura 300 piedi per 90 (m 88,8x26,67)
nel rapporto quasi di 1/3, circondata da gallerie colonnate, è pensata come una enorme cascata di libri in cui, significativamente, come nella “Scuola di Atene” di Raffaello, è mostrata simultaneamente la cultura umana, la sua accumulazione, la sua ricerca. La grande copertura a cassettoni non strutturale, che mima una volta in muratura, si
inscrive, come nel Pantheon, in un ideale quadrato di 27 metri di lato e vuole sottolineare la sacralità e la nobiltà di
questo ‘scrigno’ di libri. Ma anche nel Museo o “Monumento alla riconoscenza pubblica”, l’intera composizione è
determinata dall’enorme Aula voltata, che ponendosi anche qui come una ‘seconda natura’ - anche come cultura non contiene una funzione espositiva, risolta peraltro nelle quadrerie disposte ai quattro angoli, ma l’idea stessa di
Museo come ‘Casa delle Muse’, recuperando, nell’organizzazione sintattica, gli elementi descritti da Strabone per
il Museo di Alessandria: una grande Aula, gallerie colonnate, un recinto, un’esedra e un piccolo recinto corrispondente a un tempietto circolare, contenente le tombe degli uomini illustri. In tale ‘spazio assoluto’ di tipo newtoniano,
come nel Cenotafio a Newton - Tempio da dedicare alla Ragione-Natura come riformulazione laica del Pantheon si deve rappresentare la ragione dell’edificio e la sua essenza ultima. Tale immenso invaso si pone a un livello più
alto rispetto ai quattro accessi sottolineando ancora una volta la sua condizione sacrale. Le architetture di Boullée sono
pensate come «monumenti aperti alla profondità del bosco» (Rossi), immerse cioè, senza mimesi, nella natura, dichiarando la loro diversità con l’ambizione di rendere quella natura infinita uno spazio misurabile, intellegibile e rappresentabile nel gioco di volumi, di ombre e di luci. Per Boullée «l’architettura consiste nel porre in opera la natura»:
da qui la scelta di collocare questi manufatti, composti ancora di corpi ‘semplici e regolari’, in diretto rapporto con
il territorio e non all’interno di un tessuto consolidato, che consente di svincolarne la ragione e l’organizzazione da
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imprecisate e forse imprecisabili relazioni contestuali per approfondire innanzi tutto le regole di costruzione interna,
imponendo una disciplina ancor più forte all’uso degli elementa, alla loro forma, al loro senso e alla loro commensurazione. Gli edifici pubblici di Boullée, quindi, rappresentano non solo un importante avanzamento stilistico rispetto
alle precedenti esperienze tardo-barocche, ma divengono i capisaldi del riordino e del ripensamento illuminista dell’intera struttura urbana delle capitali europee. Saranno proprio i progetti di Boullèe e di Ledoux a rifondare i nuovi
tipi civili per la città, divenendo il presupposto della ricerca del Moderno sull’architettura e sull’idea di città.
Di contro la cultura ottocentesca - nella costruzione degli edifici pubblici che per lo più si riferivano a modelli classici
- non ha assegnato all’Aula il compito di rappresentare il senso di tali manufatti. Isolato è il caso di Schinkel che, a
partire da una riflessione generale sulla città di Berlino, costruisce alcuni manufatti civili per la capitale tedesca che,
nel loro complesso e nella loro triangolazione, restituiscono una nuova ipotesi urbana in cui le grandi architetture rappresentative, come dei ‘solitaire’, si liberano dalle trame indifferenziate delle caserme d’affitto e costruiscono una
nuova acropoli per la città di Berlino in cui «ogni edificio deve essere puro, perfetto, autonomo. E qualora vi si accosti un edificio d’altra natura, sia anch’esso autonomo e cerchi un rapporto col primo collocandosi nel sito e sotto
l’angolo più opportuni»42. La procedura compositiva è del tutto simile a quella del campo dei Miracoli a Pisa, in cui
corpi autonomi estremamente concisi stabiliscono rapporti a distanza determinando un centro che è innanzitutto un
vuoto, un vuoto che coordina le relazioni tra architetture che in esso dialetticamente si rappresentano. Tutti gli edifici
civili dell’architetto del principe - dalla Singakademie alla Elisabethkirke, dalla Schauspielhaus all’Altes Museum passando per le Bauakademie - ricercano la loro forma e il loro carattere distintivo sovrapponendo alla costruzione muraria e alla finitezza del volume un sistema trilitico articolato di membrature in cui ogni elemento concorre, per la parte
che gli è propria, alla descrizione del tema. Tale atteggiamento analitico restituisce e ‘spiega’ la teoria delle scelte
congruenti, il procedimento compositivo, rendendolo intellegibile. Particolare attenzione è rivolta alle soluzioni d’angolo che devono rafforzare o attenuare l’idea di massa e di unità.
Gli schemi tipologici combinatori per gli édifices publiques e le griglie modulari di Durand, invece, sviliscono e impoveriscono le invenzioni illuministe, riprese poi dai progetti di Schinkel per lo stato Prussiano. Si pensi ad esempio all’enorme differenza di valore tra il progetto di Boullée per la Biblioteca e quello effettivamente realizzato da Labrouste.
Saranno le nuove architetture tecniche - i mercati, le grandi esposizioni, le stazioni ferroviarie - scevre da esigenze rappresentative che recupereranno, attraverso le nuove possibilità costruttive, il tema del grande spazio. Non è un caso
che Viollet-le-Duc riproponga, nel progetto di una “Sala con tremila posti a sedere” del 1872, l’idea primigenia dell’Aula indivisa, sperimentando l’utilizzo dei nuovi materiali combinati alla pietra. «Si deve rifiutare ogni forma - diceva
- che non sia retta dalla struttura». In generale, fatte salve alcune insulae monumentali, anche il ruolo ordinatore dell’edificio pubblico nella città viene ridimensionato e costretto all’interno delle maglie pervasive e illimitate del tracciato
viario della ‘città di pietra’, rinunciando così a ogni possibile apertura alla natura e al territorio.
I pochi edifici pubblici progettati o costruiti dagli architetti del Movimento Moderno, invece, riflettono e approfondiscono i temi e i problemi posti dagli illuministi, a scale, tecniche e forme diverse, fondando nuovi tipi adatti alle domande che il loro tempo poneva, ma con la stessa carica ideativa e innovatrice, riaffermando ancora una volta
l’identità di tali manufatti con il tipo ad Aula. La natura naturata ritorna a essere elemento e materia e, al tempo
stesso, sfondo della costruzione dell’architettura e della città. Proprio questa rinnovata esigenza di rapportarsi allo spazio natura produrrà sovente una rielaborazione dei due principî conformativi della delimitazione (recingere) e della
protezione (coprire) scarnificando il primo e amplificando il secondo. Il problema del confinamento dello spazio sarà
risolto frequentemente attraverso grandi superfici vetrate filtrando la tradizione delle halle ottocentesche o molto traforate, con lo scopo di mostrare e di denunciare - di rendere esplicite e visibili - le attività che si svolgono all’interno
e allo stesso tempo relazionarle in modo diretto all’esterno. Le possibilità della tecnica e della scienza delle costruzioni e l’utilizzo dei nuovi materiali artificiali (cemento armato e ferro) consentiranno la progressiva amplificazione dimensionale dello spazio interno sempre più libero da sostegni interni. Saranno proprio i manufatti civili a ordinare il
territorio e a misurare la città moderna. Sono rari i casi di edifici pensati all’interno della città della storia: il problema
diventa invece quello di infrastrutturare la Großtadt a una scala differente e nuova. La Borsa di Amsterdam di Hendrik Petrus Berlage, pur situandosi in prossimità del centro consolidato - l’Altestadt -, si pone come nuovo polo di riorganizzazione urbana a scala più vasta. La grande Borsa è costruita attorno a tre grandi aule, tutte nel rapporto 1/2
(borsa merci, borsa valori, borsa cereali), coperte da una struttura metallica reticolare a tre cerniere. Le aule maggiori
sono disposte in sequenza e possono ospitare anche manifestazioni politiche, feste o cerimonie ufficiali.
Tutte le parti destinate a uffici e locali ricorrenti si affacciano tramite ballatoi continui in questi spazi a tutta altezza
determinandone il carattere di esterni urbani significativamente connessi da un passage voltato a botte. L’edificio è
governato dall’adozione di complessi tracciati regolatori a matrice quadrata (3,8x3,8 m) per l’assetto planimetrico
che coincide con quello strutturale delle capriate e di tipo triangolare per la determinazione delle proporzioni dei fronti
e la disposizione delle bucature.
Gli altri edifici pubblici prodotti nel ‘secolo breve’ si dispongono per lo più ai margini del tessuto consolidato aprendo
nuove direttrici di sviluppo e di espansione verso il territorio. È questo il caso, ad esempio, della Biblioteca Centrale
di Stoccolma di Asplund: uno dei primi edifici moderni che assumono in termini esemplari il tema dell’Aula. L’edificio, costruito a ridosso di un parco pubblico extra moenia, lavora sull’accostamento al volume cilindrico della sala
di lettura di tre corpi riuniti a formare una corte aperta. L’Aula dei libri, più alta del blocco delle sale di lettura, si impone per la sua forma e per la sua dimensione a voler denunciare la ragione dell’edificio: la conservazione e la diffusione della cultura. Utilizzando l’ipotassi per individualizzare le parti dell’edificio il procedimento risulta essere
inverso rispetto a quello di Schinkel nell’Altes Musem in cui l’attenzione è rivolta più alla definizione del volume esterno
in rapporto al grande colonnato urbano che alla necessità di evidenziarne le parti rappresentative interne. Nella biblioteca di Stoccolma invece le parti vengono prima scomposte, definite per forma e per ruolo, e poi ri-assemblate
a partire dalla chiara evidenziazione della rotonda centrale di 27 metri di diametro volumetricamente più alta (28m)
rispetto ai corpi perimetrali – subordinati - disposti ad U attorno ad essa. Il carattere dell’edificio è affidato essenzialmente alla predominanza del volume dell’Aula dei libri che ne racconta la ragione e il movente. La ricerca di
Asplund sull’edificio pubblico proseguirà con il Woodland Crematorium nel Cimitero di Stoccolma (1935-1940). La
grande Aula esterna (41,16x29,4 m) nel rapporto 1/√2, destinata alle cerimonie all’aperto, coordina i differenti volumi e le parti distinte43 che costituiscono il complesso: la Cappella, il Crematorio, la Croce. L’enorme atrio, posto di
fronte alla Cappella, è pensato come un grande ‘riparo’ definito da un portico gigante trabeato in cemento armato
rivestito in pietra e da un tetto in struttura mista in legno rinforzato in ferro rivestito all’intradosso da travi e terziere in
legno che confluiscono in un impluvium centrale tetrastilo, orientato normalmente alla direzione prevalente del tetto,
con un chiaro rimando all’atrio della domus romana. Questo spazio, completamente libero, aperto e fluttuante e pure
così conciso nelle forme e nei rapporti tra gli elementi, riassume il senso della morte e del raccoglimento e lo proietta
all’esterno naturale. Nella ricerca di Asplund, in definitiva, si confrontano senza agglutinazioni, due principî compositivi complementari che risulteranno fondamentali per la definizione formale dell’Aula: quello ‘tettonico’ nel Crematorio e quello ‘stereotomico’ nella Biblioteca. In Italia Adalberto Libera costruirà il Palazzo dei Ricevimenti e dei
Congressi che ripropone il principio dell’Aula dominante riferendosi anche dimensionalmente all’architettura del Pantheon più volte meditata nei suoi studi sulla spazialità e la costruzione dei monumenti della romanità. Al volume stereometrico contenente i due atri porticati, gli uffici e la sala dei congressi, fa da contrappunto e contrasto il solido
cubico completamente cieco della grande Aula per i ricevimenti concluso da una ieratica copertura a crociera con
una struttura in acciaio. Negli stessi anni Edoardo Persico, nel raffinato Salone d’Onore per la Triennale di Milano con delle inaspettate affinità con gli studi di Mies sulla Neue Wache - e Franco Albini, con il progetto per il Palazzo
dell’Acqua e della Luce che declina il tema della sala ipostila sollevata dal suolo, riproporranno il tema dell’Aula in
relazione alla costruzione di edifici rappresentativi. I grandi progetti di Giuseppe Terragni punteranno invece più sulla
ricerca di un reticolo cartesiano governante l’intero manufatto che sull’individuazione di parti rappresentative discrete,
frequentemente assorbite in quanto solidi puri all’interno delle maglie pervasive della griglia.
Sarà soprattutto in Germania, dove negli stessi anni si stava costruendo la grande città moderna sotto la spinta della
riunificazione nazionale, che il tema dell’edificio pubblico ad Aula riceverà un notevole sviluppo e approfondimento
registrato puntualmente da Hilberseimer nella Großstadtarchitektur e in particolar modo in HallenBauten 44, che senza
dubbio costituisce il primo contributo teorico di riferimento per questa classe di manufatti. Come afferma Salvatore Bisogni nell’introduzione a questo ‘trattato/manuale’ «Hilberseimer muove da un’assunzione univoca e tutt’altro che accettata nei dibattiti e nelle propensioni dell’avanguardia di quegli anni: quella di poter costruire tali grandi manufatti
(gli edifici pubblici) a partire dall’Aula che li contraddistingua, non solo rispetto ad altri edifici pubblici a ‘Sale’, ma
caratterizzati dal ruolo ‘dominante’ dell’Aula, rispetto ad altri locali che essa comprende o a cui si accostano.[…]
Ciò che coerentemente interessa Hilberseimer è la formulazione quasi manualistica dei nuovi dati organizzativi per
il grande edificio pubblico ad Aula. In tale prospettiva, sottesa e non dichiarata, sulla possibilità di costruire nuovi
monumenti della condizione contemporanea si chiarisce il senso della definizione, assunta da Hilberseimer, dell’Aula
come scelta prioritaria del comporre, per il suo valore evocativo delle grandi architetture e per misurarsi con esse.
[…] Nuovi Palazzi dall’Aula ‘dominante’ rispetto ai locali ricorrenti, oppure essa stessa comprendente l’intero manufatto, illuminato e aperto al territorio, ma ‘delimitato’; prolungato nella natura circostante e, in pari tempo, ‘conciso’
per essere dotato di stabile identità e armonia. Principî e condizioni che fanno di nuovo posare i manufatti sul suolo
libero e aperto, che fanno esibire un ordine dimostrabile delle forme architettoniche e ugualmente dotati di una nuova
rappresentatività estetica che contenga ancora il rimando a un tutto nuovo della periferia e del territorio, compreso il
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caso, artificiale o di natura che sia»45. Questi manufatti - ci ricorda ancora Bisogni in un’altra occasione46 - sono «privi
di ogni naturalità, in quanto essi stessi contenenti la natura come ordine astratto e in pari tempo reale». Hilberseimer,
prima di addentrarsi nei problemi organizzativi e costruttivi dei vari tipi di edifici ad Aula che classifica (StadtHallen,
Festhallen, Sporthallen fino ai complessi espositivi), riporta varie architetture d’elezione: il Pantheon, la Basilica di
Massenzio, Santa Sofia, la Chiesa di San Pietro a Roma e il Palazzo della Ragione a Padova. Tali riferimenti devono
essere tutti in qualche modo superati e trascesi in un processo di ideazione/invenzione, in una continua semplificazione e in un asciugamento delle forme di queste opere paradigmatiche al punto da renderle irriconoscibili in quanto
referenti originari. L’ambizione è quella di costruire dei manufatti che contengono, rinnovandole, tutte le architetture
con le quali, faticosamente e volontariamente, ci si è misurati. Le forme della storia vanno selettivamente giudicate,
la storia è «il territorio delle scelte», delle affinità e non del rifugio. Hilberseimer assume esplicitamente l’identità tra
Aula ed edificio pubblico e gli esempi a lui contemporanei che riporta - il concorso per la Società delle Nazioni di
Hannes Meyer e di Le Corbusier, la Jarhunderthalle di Max Berg, la Stadhalle di Magdeburgo di J. Göderitz, la Halle
Stadt und Land di Bruno Taut o la splendida Fiera di Breslavia dello stesso Berg - verificano tale ipotesi di partenza.
Questi progetti, assieme ai grandi edifici tecnici come la Turbinenfabrik AEG di Peter Behrens47 o quelli destinati allo
sport, svelano le enormi possibilità espressive e tecniche insite nell’adozione dell’Aula e apriranno agli approfondimenti successivi compiuti innanzi tutto da Mies van der Rohe in maniera quasi assiomatica e apodittica ma anche da
alcuni progetti di Le Corbusier come il Parlamento e l’Alta Corte di Giustizia a Chandighar o la Chiesa del Convento
de la Tourette. Questi due ultimi progetti, in particolare, definiscono due atteggiamenti compositivi entrambi presenti
nell’opera di Le Corbusier. Nell’Alta Corte di Giustizia il corposo e fitto sistema delle sale d’udienza, articolato attorno ad una promenade architecturale, viene limitato dal grande ‘gesto a reazione poetica’ del portico di ingresso
in modo analogo al lucernario tronco conico del Parlamento che denunciava nel corpo stereometrico dell’edificio la
presenza dell’aula assembleare. La grande ‘tenda risvoltata’ rappresenta l’intero manufatto che, composto di ricorrenze e ripetizioni, si mostra come un’unica grande copertura - una sorta di emblema - che contiene e supera le articolazioni interne definendo il carattere unitario e rappresentativo dell’istituzione. Di contro, nel Convento de la
Tourette, recuperando la memoria delle sale capitolari, lo stesso Le Corbusier assume il tema dell’identificazione di
un unico volume ad altezza costante molto verticalizzato, quasi totalmente cieco, e con forte carattere stereotomico
al quale vengono giustapposti due volumi più bassi subordinati, la sacrestia e soprattutto la cripta che adotta, per
contrappunto, forme sinuose più complesse senza mettere in discussione l’autorevolezza e la primazia sintattica del
grande invaso per la liturgia. A sottolineare tale intangibilità del volume, la chiesa si accosta significativamente alla
C del Convento senza trovare alcuna connessione, se non di tipo funzionale, che possa omologarlo al sistema iterativo delle celle dei religiosi, volendone in qualche modo rappresentare la riassunzione.
A tali esempi (paradigmatici) proposti dai maestri seguiranno altri non meno significativi (emblematici) sviluppati a partire dall’immediato dopoguerra. Valgano per tutti alcuni edifici di Arne Jacobsen come il Municipio e la Biblioteca di
Rödrove in cui, in temi differenti e usi collettivi distinti, si sperimentano ulteriori modi di comporre l’Aula con le parti ricorrenti. Nel Municipio di Rödrove la Sala del Consiglio si individualizza in un volume autonomo affacciato sul grande
prato antistante, chiuso su due lati, vetrato sui restanti e collegato alla lama degli uffici comunali in corrispondenza dell’atrio di ingresso a tutta altezza. Nella Biblioteca invece si accorda il sistema della piastra-recinto - un grande rettangolo aureo completamente chiuso all’esterno che contiene con i depositi le sale di lettura affacciate su patii interni con quello dell’Aula centrale quadrata per le manifestazioni collettive, definita da una copertura emergente rastremata
ai bordi e sorretta da quattro esili colonne. Il tetto in tal modo si pone quale elemento plastico fortemente espressivo,
staccato sull’intero perimetro, librandosi sul volume lapideo sottostante, completamente rivestito in marmo nero, quasi
a volersi riferire, come era avvenuto nel Crematorio di Asplund, all’idea del grande atrio tetrastilo della domus. Ancora il Padiglione dei Paesi Scandinavi alla Biennale di Venezia di Sverre Fehn sviluppa il tema dello spazio indiviso
attraversato dalla natura e non presenta sistemi subordinati relazionati all’Aula dominante ma lavora sull’identificazione di un grande vuoto - porzione definita del suolo naturale - coperto da un tetto traforato che non occlude la vista
del cielo e il passaggio della luce. Si tratta ancora una volta di un grande riparo semi-aperto incassato per due lati
nel terreno e per altri due completamente aperto o vetrato definito da una copertura libera da appoggi interni in travi
lamellari di cemento precompresso molto ravvicinate ma non collegate all’estradosso che, significativamente, rimandano a una costruzione in legno. Le travi secondarie poggiano su una grande trave trasversale che scarica, a sua volta,
su di un setto contro terra e un pilastro composito. La chiarezza del sistema costruttivo, l’estrema trasparenza della copertura - che consente anche l’irruzione di alcuni tronchi degli alberi lasciati in situ - riproduce l’idea di uno spazio naturale ma allo stesso tempo artificiale, ‘selezionato e misurato’ e, per questo, conoscibile.
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AFFINITÀ
E
DISTINZIONE TEMATICA
DEGLI
EDIFICI PUBBLICI
AD
AULA
Nell’importante saggio sull’abitare C. N. Schulz48, sulla scia delle riflessioni di Heidegger in Costruire, abitare, pensare, opera una distinzione fondamentale tra i differenti modi dell’uomo di costruire il suo rapporto con il mondo e
la vita associata individuando tre articolazioni principali: l’abitare privato, l’abitare collettivo e l’abitare pubblico. Nell’abitare privato, dove l’uomo deve ricostruire un micromondo e dove l’individuo deve potersi ‘realizzare’, il luogo
che consente e premette tale possibilità è la casa. Nell’abitare collettivo il problema è quello di scambiare idee e
prodotti e il teatro di questo scambio è essenzialmente la città, nel suo complesso, e i suoi luoghi civili, la piazza, le
strade e lo spazio urbano. Nell’abitare pubblico, infine, si premette l’adesione e condivisione di valori comuni in cui
riconoscersi: il luogo della rappresentazione di tali valori, attraverso una specifica istituzione è l’edificio pubblico e
in senso ampio il monumento. Il senso del collettivo è il raduno, è l’assemblea, è l’appropriazione di un luogo in cui
l’incontro non è casuale bensì strutturato e organizzato. Ciò premette un ‘accordo’ che, a sua volta, implica il riconoscimento di valori condivisi e pone le basi per la vita associata. Da tale esigenza si genera la necessità di un luogo,
di un ‘foro’, un ‘consesso’ dove le motivazioni comuni vengono manifestate. Tale luogo è l’istituzione in quanto ‘essere’ e l’edificio pubblico è l’ente che la reifica e la rappresenta nel reale. L’edificio pubblico che contiene ed esibisce tali valori dovrebbe mostrarsi come «spiegazione visibile di un mondo comune […] non è un simbolo astratto, ma
poeticamente mette in relazione il perenne con il comune»49 allo stesso modo in cui in Heidegger la ‘Casa nella Foresta Nera’ «fonda il luogo» ed è «raduno (Versammlung) di un mondo».
Nell’impostazione esposta si supera la classica distinzione tra manufatto pubblico e collettivo secondo cui il primo è
accessibile a tutti e il secondo rivolto a una comunità selezionata, allargandone il senso e legandolo alla rappresentazione di valori e operando lo stesso passaggio che compie Mies dalla «funzione al valore» (Monestiroli). L’edificio
pubblico così inteso si pone ancora una volta come il ‘centro significativo’ dello spazio esistenziale collettivo della polis
ma anche del tessuto costruito della città riassumendone la ragione, è «una figura cospicua che raduna e spiega l’ambiente»50. Il centro è spaziale e, al tempo stesso, è nucleo germinale/generativo (Panofsky)51 della forma e topos significativo del tema. È in questo centro, luogo dello stare, presupposto del vuoto misurato, che la singola istituzione si
mostra e si distingue, di volta in volta, da altre consimili o differenti ed è da questo nucleo che ricava la ragione delle
forme con cui si rappresenta il suo carattere ‘riconoscibile e distintivo’ all’esterno in stretta relazione con la scelta costruttiva che ha consentito la possibilità di realizzare tale vasto interno. L’istituzione, che è posta prima dell’opera da
una collettività, definisce il tema che l’ideazione deve assorbire e rendere riconoscibile attraverso il carattere appropriato che riflette la specifica destinazione, la sua «funzione splendente» (Semerani). In altri termini si può riaffermare
la differenza relativa, non sostanziale, tra il pubblico e il collettivo, nel senso che l’istituzione si rappresenta in un luogo
e la collettività si riconosce in questo. Il collettivo, così inteso, contiene altresì una definizione più ampia del senso della
riunione ma al tempo stesso rimane meno formalizzata e più disponibile a interpretazioni di tipo simboliche, mentre il
pubblico, che presuppone una struttura sociale organizzata, necessita di una formalizzazione concreta che, nell’ipotesi qui avanzata, coincide con l’Aula. L’Aula cioè definisce quegli edifici pubblici, civili (da cives), ipostasi del collettivo, che muovono dall’idea dello stare assieme, di una collettività che si riunisce e in quest’atto si riconosce.
I caratteri generali dell’edificio pubblico saranno determinati dalla necessità di rendere evidente la specialità di tali manufatti attraverso il riferimento al tipo ad aula. È facile vedere che la scelta dell’Aula come forma rappresentativa e sintetica dell’edificio pubblico, in quanto imago Mundi, pone immediatamente il problema della distinzione tematica tra i
vari tipi di edifici a carattere rappresentativo. Il tema non deve essere confuso con l’uso: negli edifici ad aula ciò che è
preminente per la precisazione del tema è il loro carattere rappresentativo e la loro ragione collettiva. La definizione
formale tipologica rimane stabile mentre gli usi, il programma e le funzioni possono sovrapporsi e/o modificarsi.
I vari temi riassunti con l’Aula in che termini condizioneranno la sua figurazione e il suo carattere? Come sarà, pos-
sibile assumendo lo stesso principio spaziale, declinare adeguatamente la ragione, la destinazione, di ogni edificio
particolare? È evidente che un teatro deve essere diverso da un museo o da una biblioteca ma è pur vero che tale
differenza non è sostanziale ma attiene prevalentemente a condizioni d’uso e non di senso. Tutti gli edifici pubblici,
distinti per ruolo e dimensione dalla ripetizione ovvia della residenza ma anche dalle attrezzature collettive e tecniche, sono caratterizzati - come ricorda Antonio Monestiroli - da un’unica ‘funzione generale’: quella appunto di contenere un grande numero di persone ai fini di una loro comune attività collettiva. Quest’ultima può consistere in una
rappresentazione o in un rito, nella ricerca e trasmissione del sapere, dell’arte e, in senso generale, della cultura o
nell’esercizio di un diritto, nell’amministrazione della res pubblica: pratiche che, come si è visto, sul piano logico e
del significato si equivalgono e si integrano.
Il problema dell’architettura quindi sarà di manifestare con le forme necessarie, non contingenti, e nella maniera più
adeguata, tale esigenza di fondo. Saranno alcuni elementi caratteristici dei manufatti a manifestare le varie destinazioni specifiche. Nel teatro, ad esempio, la sottolineatura del ‘rapporto topologico’ tra scena e platea determinerà
gran parte del carattere dell’edificio. Allo stesso modo nel museo e nella biblioteca gli oggetti della rappresentazione,
le opere o i libri e la loro conservazione, dichiareranno il tema particolare così come, nelle sale assembleari, sarà
la visione della moltitudine a manifestare con immediatezza la motivazione e il ruolo dell’edificio. I modi della costruzione in rapporto alle differenti esigenze dimensionali e, non ultimi, il sistema dei caratteri e il principio del ‘decoro conveniente’ dichiareranno opportunamente la ragione di ogni manufatto. Resta il fatto, tuttavia, che è sempre
possibile ricondurre tutti questi temi a un unico referente compositivo - l’Aula appunto - in grado di generalizzarne la
funzione particolare ponendo in secondo piano gli elementi non necessari e le articolazioni secondarie per ricercare
un’identità superiore da declinare ogni volta. Il problema rimane quello di costruire manufatti rappresentativi e in
quanto tali riconoscibili non tanto per le loro differenze ma innanzi tutto per la loro generalità che è quella di mettere
in scena l’idea, la forma e l’ethos della collettività. La forza del principio dell’Aula e l’insistenza sulla sua capacità di
rappresentare la comunità sta proprio nella possibilità di rinunciare all’obsoleta classificazione degli edifici secondo
le varie destinazioni operata dalla manualistica ottocentesca per puntare invece a principî e regole più alti e profondi.
Il criterio della classificazione ridiventa quello essenzialmente formale: alla ricerca di invarianti e di strutture d’ordine
soggiacenti da interpretare e adattare alle varie evenienze particolari.
L’impossibilità o l’incapacità della città contemporanea di costruire nuovi monumenti, «nuove figure potenti che costruiscono un mondo»52, nuove «forme simboliche più forti della loro funzione» (Rossi), di costruire cioè i propri luoghi
rappresentativi, forse è dovuta proprio alla confusione e all’indebita sovrapposizione tra ruolo e uso, tra ragione e
funzione, tra principio e risultato, all’incapacità di penetrare e rappresentare la realtà e i suoi caratteri non transitori.
Secondo Giedion infatti «la monumentalità origina dal bisogno ricorrente della gente di creare dei simboli per le sue
attività e per il suo destino, per le sue credenze religiose e le sue convenzioni sociali. […] la riconquista della espressione monumentale rappresenta il terzo passo dell’architettura moderna, dopo la formazione della casa e il restauro
dell’urbanistica»53 e allo stesso modo «Il monumentale - per Berlage - è la qualità delle opere di architettura, una qualità che contiene il senso di collettività, e che riposa su un ordine razionale informato alla necessità e alla chiarezza;
il monumentale è proprio della classicità»54. L’edificio pubblico essendo l’espressione del generale diviene monumento che stabilisce «un chiaro legame tra costruzione e figurazione» (Grassi), esso determina il ‘sito’, il contesto urbano o naturale in cui si colloca, la sua organizzazione circostante, trasformandolo così in ‘luogo’. Attraverso la
costruzione il luogo viene descritto e delimitato e il suo significato viene spiegato e reso evidente.
I grandi manufatti civili della storia e della modernità stanno a testimoniare che è proprio la rappresentazione adeguata della loro condizione collettiva, a prescindere dalle particolarità d’uso, ciò che rende loro ‘esemplari’ e per
questo capaci di realizzare quel ‘rispecchiamento’ e quell’adeguatezza alla realtà e alla vita nelle forme dell’Arte di
cui parlava Lukács55. Tale aspirazione deve guidare la ricerca della ragione ultima e più autentica degli edifici pubblici che «non va ricercata al di fuori della realtà, […] ma è da conoscere in essa, nella vita reale degli uomini che
l’architettura racchiude»56.
Come osserva Agostino Renna «(per Boullée) il risultato dell’architettura non è dato dalla padronanza del processo
di progetto, quanto dalla grandezza dell’invenzione che, una volta trovata, serve da modello a tutte le costruzioni
dello stesso tipo. Da un nucleo emozionale di riferimento la costruzione passa attraverso un’immagine complessiva e
l’analisi tecnica conclude la costituzione dell’opera» e ancora «Per certi versi è l’aspetto più affascinante di una pratica di apprendimento del progetto indagare come i grandi maestri e le grandi architetture hanno, di volta in volta,
risolto il problema di rendere specifico, parlante, in un edificio quei contenuti universali che l’edificio intendeva possedere; come hanno trasformato il vetro in cristallo»57.
Nella linea indicata da Boullée - si vedrà - Mies van der Rohe spingerà alle estreme conseguenze questa identifica-
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Ogni progetto di architettura è una soluzione diversa, più avanzata, di un tema di architettura. Nel tema di architettura è racchiuso tutto un
patrimonio di conoscenze e aspirazioni di una collettività […] Ogni tema viene posto dalla collettività cui appartiene storicamente e torna,
dopo essere stato nuovamente svolto, alla collettività stessa
Antonio Monestiroli
L’architettura è l’espressione visibile di un punto di vista che altri desiderano condividere
Mies van der Rohe
zione tra edificio pubblico e Aula al di là delle particolari destinazioni d’uso. Egli, infatti «[...] porta le analisi della
funzione a un grado di approfondimento che supera ogni particolarità, andando alla ricerca non tanto dei tipi dei
diversi edifici pubblici come il teatro, il museo ecc. quanto di un tipo che li comprenda. O per lo meno sembra che
Mies voglia riconoscere negli edifici pubblici che studia un’unica funzione generale, che è quella della riunione di
un gran numero di persone intente a un’attività che le accomuna. [...] La costruzione di un edificio pubblico è un’impresa collettiva che deve rappresentare un valore generale. Quando questo non traspare, la costruzione, per quanto
perfetta essa sia, non darà nessuna gioia. Mies decide per il tipo ad aula e su questo inizia la sua lunga ricerca. La
corrispondenza tra Aula e luogo collettivo è antica. L’Aula contiene in sé il valore, la sua forma sarà evocativa di questo»58. Ogni edificio pubblico ha un suo significato e deve ricercare una sua identità. L’architetto dovrà rendere esplicito questo significato attraverso le forme e i caratteri dell’architettura. Secondo Quatremere infatti «l’arte di
caratterizzare ogni edificio, vale a dire di rendere sensibili colle forme materiali e di far comprendere le qualità e le
proprietà inerenti alla sua destinazione, è forse di tutti i segreti dell’architettura il più prezioso a possedersi, e nel tempo
stesso il meno facile a essere indovinato»59. Un edificio pubblico deve distinguersi dalla casa e con le sue forme rappresentative, che sono metafora della sua costruzione, deve essere disvelamento di quel mondo complesso e condiviso che lo ha determinato che va svelato, cioè reso ‘vero’ (aletheia) e quindi intellegibile.
Gli edifici pubblici progettati o costruiti da Mies operano appunto il disvelamento attraverso il principio della trasparenza che ‘offre’ tale interno simultaneamente alla città e alla natura. Le sue architetture ad aula affideranno, nella
teoresi di Monestiroli, gran parte del loro carattere ai modi di costruzione dell’Aula in cui, appunto, la soluzione costruttiva e la sua espressione architettonica realizzano il passaggio dal ‘tipo al carattere’. Come suggeriva ai suoi studenti dell’IIT lo stesso Mies, nella ricerca delle forme appropriate da selezionare per i nuovi manufatti collettivi bisogna
seguire un metodo (una direzione ordinata) che passa dall’analisi della funzione alla forma: «Esamineremo una per
una ogni funzione di ogni edificio e la useremo come base della forma»60 in un «continuo trasferimento della forma
attraverso la resistenza del reale»61 (Grassi). La tesi che - attraverso le categorie dell’ideazione (tema), della costruzione e delle procedure compositive - si è inteso dimostrare per le architetture di Mies e induttivamente (retroattivamente) per la generalità degli edifici pubblici ad aula, è che l’assetto costruttivo diviene uno - certamente decisivo ma non l’unico dei fattori determinanti il carattere dell’edificio pubblico, in vista di una distinzione tematica particolare all’interno della classe generale degli edifici ad aula. La questione della costruzione dovrà cioè equilibrarsi e confrontarsi con le scelte formali-geometriche e con l’esaltazione di alcuni elementi stabili distintivi di ogni tema. Solo con
la soluzione dialettica del difficile rapporto tra costruzione, forma e topologia compositiva degli elementi, in un complesso sistema di regole compositive e proporzionali, l’Aula diviene simbolo, espressione o meglio ‘sintesi figurativa
della collettività’.
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IL RUOLO
DELLA
COSTRUZIONE
NEGLI
EDIFICI
AD
AULA
La tecnica è molto più che un metodo essa costituisce di per sé un mondo
Mies van der Rohe
Dovunque la tecnica trovi il suo reale adempimento la si eleva alla sfera dell’architettura
Mies van der Rohe
La tecnica non è semplicemente un mezzo. La tecnica è un modo del disvelamento62
Martin Heidegger
Ogni tecnica sottende una metafisica
Jean-Paul Sartre
Intimamente connesso al tema dell’Aula è il problema della sua costruzione. Sin dai primi esempi costruiti di questi
‘vasti spazi’ le soluzioni statico-costruttive hanno rappresentato un dato ineludibile del problema: l’invenzione spaziale
e formale va di pari passo con quella tecnica. Sospendere nel vuoto grandi carichi per superare ampie luci per la
copertura di vasti ambienti «ha da sempre rappresentato un desiderio innato dell’uomo, e un impegno collettivo di risorse umane e materiali»63. Gli edifici ad aula, per le loro cospicue dimensioni, hanno costituito un terreno di sperimentazione e d’invenzione notevolmente fertile. Rimane aperto il problema di un corretto rapporto tra le ipotesi formali
e figurative e le soluzioni costruttive. Appare chiaro, tuttavia, che l’approfondimento degli assetti strutturali è condizione necessaria ma non sufficiente per la determinazione della forma architettonica dell’Aula. La verità delle soluzioni tecniche rappresenta certamente un dato insopprimibile e contiene al suo interno un complesso di norme e
regole che non necessariamente coincidono o spiegano le norme e le regole della composizione. Del resto il significato letterale di construere è quello di mettere insieme, cioè di comporre - cumpònere - nel senso di ordinare una
materia indistinta dandole una forma. Per analogia in matematica ‘costruire’ rappresenta l’atto di determinare una grandezza a partire da altre. Tale grandezza si ottiene compiendo una serie di operazioni, non soltanto attraverso calcoli numerici, ma anche concretamente con la costruzione di figure geometriche. L’architettura è «chiarezza costruttiva
portata fino alla sua espressione esatta»: in questa definizione di Mies van der Rohe sono compresi due aspetti fondamentali dell’ideazione architettonica, quello rappresentativo e quello costruttivo. La scelta tecnica diviene consapevole quando è derivata e connessa al senso dell’edificio e al suo intento rappresentativo (espressivo). L’atto del
costruire è connesso a quello dell’inventare e rappresenta in termini generali una specifica azione dell’intelletto, compiuta disponendo le diverse parti secondo uno schema sintattico, secondo un ordine logico e razionale che opera
una ratio cioè un rapporto consistente tre elementi noti.
«Il sistema costruttivo origina anche un altro sistema, il mondo della forma, autonomo e al tempo stesso derivante e
dipendente dalla costruzione, o, per essere esatti, un sistema estetico […]»64. Il problema della tekné cioè del ‘come’
e il problema della poiesis, della capacità di un manufatto di rendersi ‘riflettente’ di un tema, di reificare un’idea, di
produrre emozioni, è chiarito dalla definizione di tecnica data da Platone nel Simposio (205 b-c), come la «causa
che conduce una qualsiasi cosa dall’essere non ente all’essere ente». Boullée precisa opportunamente - in aperta polemica con la nota definizione di Vitruvio - che «la concezione dell’opera ne precede l’esecuzione. I nostri antichi padri
costruirono le loro capanne dopo averne creata l’immagine. È questa produzione dello spirito che costituisce l’architettura e che noi di conseguenza possiamo definire come l’arte di produrre e di portare fino alla perfezione qualsiasi edificio… In che cosa consiste questa perfezione? Nell’offrirci una decorazione relativa a quel tipo di costruzione
alla quale si trova applicata; ed è attraverso una distribuzione conveniente alla sua destinazione che si può presumere di portarla alla sua perfezione»65. In tale definizione si afferma una priorità dell’atto ideativo rispetto a quello
esecutivo-costruttivo, coniugandola inoltre alla questione del decoro e quindi al sistema dei caratteri architettonici, proponendo in tal modo il primato della composizione come categoria autonoma. Qui l’idea di perfezione è ancora
quella di rispondenza tra ragione del manufatto e forme con le quali esso si mostra, concordanza e relazione tra le
parti e il tutto identificando la bellezza come ‘sistema di rapporti’ (Diderot). «È impossibile combinare bene due cose
senza una terza: ci vuole tra esse un legame che le colleghi. Non c’è miglior legame che, di se stesso e delle cose
che unisce, fa uno solo ed unico tutto. Ora, tale è la natura della proporzione» (Platone, Timeo), in tal senso non vi
è contraddizione con l’esattezza delle proporzioni e dei rapporti cui si riferisce Mies. Secondo Raffaella Neri66, in
un recente saggio sugli edifici ad Aula, il progetto di un edificio ad aula presenta essenzialmente due questioni da
risolvere: la prima attiene alla soluzione tecnica della copertura di spazi di vaste dimensioni generalmente indivisi,
la seconda, strettamente connessa alla prima, riguarda i modi (le forme) attraverso i quali rendere espliciti il loro ruolo
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collettivo ed ‘il valore cui sono destinati’. La costruzione e la rappresentazione sono intimamente connessi muovendo
dall’assunzione che le forme dell’architettura da cui si determina il carattere dell’edificio sono la traduzione attraverso
il principio del decoro67 delle forme della costruzione che devono rendersi espressive per emanciparsi dalla loro ragione tecnica e per conferire dignità e bellezza all’architettura. La decorazione è propria dell’architettura e conferisce senso all’edificio, è una qualità ‘aggiunta’ agli elementi costruttivi rispondente al carattere e alla destinazione degli
edifici o meglio dei monumenti, essa «deve essere e parere necessaria» (Quatremere). È proprio il principio del decoro, inteso come disvelamento e identificazione della forma e del comportamento strutturale dell’edificio e delle sue
membrature, che realizza il passaggio dall’ovvietà e neutralità delle forme tecniche all’espressività di quelle architettoniche, «l’ornamento (decor) è il segreto che la Baukunst assume per consentire al Tekton di dispiegare i valori di cui
egli è custode»68.
La relazione indissolubile e il continuo contrasto dialettico tra costruzione e forma è chiarito dalla distinzione proposta da Karl Bötticher 69 tra Kenform (forma nucleo) e Kunstform (forma artistica), cioè «tra la forma “ontologica” della
tecnica e la forma “rappresentativa”, che oscilla tra il rivelare e il dissimulare, tra la volontà [e necessità] di esprimere
la struttura (tettonica) e quella di ricoprirla con un apparato descrittivo con rivestimento rappresentativo»70 che ne sveli
il meccanismo e che possa rendersi espressivo secondo una precisa intenzionalità estetica. Bötticher in sintonia con
le tesi di Viollet-le-Duc e poi di Choisy sostenne che ogni nuovo principio spaziale e stilistico sarebbe stato prodotto
da innovazioni strutturali Werkform e dall’utilizzo di nuovi materiali. In particolare sarebbe stato il tipo di copertura a
determinare il nuovo stile come è avvalorato dai grandi monumenti della storia71. La stessa Neri propone come criterio classificatorio degli edifici ad aula di tipo tassonomico quello di ordinarli non tanto secondo la loro destinazione
d’uso (relativa e intercambiabile), la conformazione spaziale o il sistema di costruzione delle strutture verticali, ma piuttosto secondo la tipologia e i materiali della loro copertura. In tal modo si ristabilisce un confronto tra tipologia costruttiva e tipologia architettonica partendo dal presupposto teorico che «la decorazione è la qualità delle forme che
rende la costruzione espressiva»72, è «ciò che conviene, che si addice alle cose, perché il decere è ciò che rende
degno l’edificio, perché in esso si mostra l’ordine di cui è conseguenza»73.
Sovente, negli edifici ad aula, ma raramente in quelli di Mies, la decorazione che metaforizza l’atto costruttivo, mette
in opera un principio costruttivo che non è quello effettivamente operante, al fine di ritrovare nelle forme che mostrano un’adeguatezza rispetto al carattere che il manufatto deve avere. Esemplarmente si pensi ai soffitti lignei a cassettoni delle cattedrali o a quello lapideo del naos del Tempio in cui la mono-direzionalità del sistema architravato
lapideo diviene ancora, analogicamente, il graticcio ligneo del Tempio arcaico. Il progetto teorico di Le Corbusier
per la Maison Dominò, volto a indagare le possibilità della tecnica in relazione ai cinque punti da lui formulati, sembra contenere, almeno in potenza, il pericolo di una dissociazione tra l’apparato costruttivo portato all’interno e la
relativa libertà nell’impaginazione della facciata. Ben altro è l’uso di Perret74 (di cui Le Corbusier è pur stato allievo)
della costruzione intelaiata in cemento armato: la costruzione ‘deve’ essere mostrata, deve essere «portata ad ornamento». Premesso che nell’elaborazione di Le Corbusier - al tipo della Maison Dominò in cui si utilizza il sistema puntiforme corrisponde in maniera equivalente il tipo della Maison ‘Citrohan’ ove si esperisce il sistema continuo murario,
e che le facciate libere si dotano in tutti i progetti di un apparato regolativo e proporzionale molto serrato - rimane,
nel distacco operato tra la pelle (la scocca) e l’ossatura del manufatto, il pericolo di un arbitrio figurativo. Tale arbitrio ha prodotto la dissociazione delle forme architettoniche da quelle della costruzione riducendo le prime a mera
espressione figurativa, una reductio ad imago, simulacro - phanthasmata - di una forma pellicolare/spettacolare
priva di consistenza. Rispetto a tale impostazione, nelle aule di Mies, si assiste a un’interpretazione del tutto rovesciata:
il sistema delle membrature e degli elementi della costruzione si identifica con l’architettura stessa, cioè diventa sistema
di rappresentazione stabile della ragione dell’edificio e in definitiva del suo carattere mentre le parti interne sono flessibili. Gli elementi della costruzione sono mostrati nel loro comportamento effettivo e vengono didascalicamente ordinati rispetto al ruolo gerarchico che ognuno di essi assume secondo sistemi di proporzionamento meno sofisticati
di quelli di Le Corbusier, come il modulor con successioni decimali, ma forse più intellegibili. Il controllo è dato dall’adozione di moduli organizzativi ‘interi’ sopratutto della pianta e poi dell’alzato. Viceversa una relativa libertà è affidata agli elementi conformativi interni - pareti, setti, vetrate - destituiti di ruolo strutturale che si possono adattare ai
differenti usi che uno spazio sovraordinato può contenere. È proprio Mies a contestare la indebita dissociazione operata da Le Corbusier ribaltandola: la struttura messa in evidenza è stabile, rappresenta il carattere permanente del
manufatto e allo stesso tempo definisce un vuoto misurato all’interno del quale possono articolarsi in maniera non anarchica, in quanto relazionata alla modularità generale, la disposizione degli elementi. La costruzione diviene il presupposto invariante di tale ‘libertà controllata’.
«L’architettura nasce quando si supera il problema tecnico» (Mies): in ciò probabilmente sta la fondamentale distin-
zione tra ingegneria e architettura. Quando gli elementi della costruzione, superato il problema costruttivo di cui sono
il risultato, si pongono tra loro in rapporto, ovvero ‘in composizione’, con l’obiettivo di rappresentare le loro identità
in rapporto al tutto, allora si dispiega un ordine riconoscibile: si installa una ‘architettonica’. L’architettura, in qualche
modo, rappresenta attraverso gli elementi l’atto costruttivo, e non coincide strettamente con esso, cioè «la forma tecnica (affinché possa avere per noi un significato) ha bisogno di essere traslata» (Oud)75.
Come è stato anticipato, la ‘soluzione ottima’ dal punto di vista meramente tecnico di norma non coincide con l’ottima soluzione architettonica. «Le forme tecniche devono rendersi espressive» (Monestiroli) per diventare forme architettoniche e sono proprio le relazioni e le scelte di tipo proporzionale e compositivo che rendono possibile questo
passaggio. Saranno le procedure compositive a determinare tali scelte, a volte prescindendo dalle semplici ma
astratte regole del calcolo, assecondando altre regole non meno esatte e necessarie76. Il ruolo dei vari elementi potrà
utilmente essere chiarito, anche dal punto di vista formale, proprio dal loro comportamento strutturale. Le forme costruttive sono condizione necessaria e irrinunciabile ma non sufficiente per la determinazione della forma architettonica. Nelle parole di Schinkel «Il pratico, l’utile, l’adeguato, portato a bellezza, è compito dell’architettura; questa
parola deve avere tale significato, al contrario della semplice costruzione, che designa solo l’adeguato il forte, il solido, l’utile, non ancora pervaso di un elemento di bellezza. […] L’architettura differisce dalla costruzione, perché si
distingue e si eleva, attraverso il sentimento estetico, al di sopra della costruzione. A ogni costruzione appartiene un’architettura»77. La ‘Capanna primitiva’ di Laugier, più volte identificata come l’inizio dell’architettura, è ancora tutta costruzione e bisognerà attendere molti secoli prima che assi o piedritti ricavati con buonsenso dalla materia informe e
diveniente divengano pilastri e travi prima e colonne poi, composti insieme con ordine razionale ed estetico. I principî costruttivi della capanna e del tempio sono analoghi, quello che cambia, oltre alla materia, è la necessità espressiva delle forme della costruzione: nel Tempio dorico anche elementi che sono destituiti di un effettivo ruolo costruttivo
come i triglifi (pietrificazione delle teste delle travi di legno) permangono e vengono ripetuti anche sui lati minori in
quanto necessari al decoro dell’edificio, le metope invece vengono aggiunte al sistema architettonico non per metaforizzare comportamenti costruttivi ma per raccontare allegoricamente le “storie degli Dei e degli Eroi”. In tale differenza di senso si chiarisce la contrapposizione tra «decoro e ornamento»78. La colonna, come «metafora dell’atto del
sorreggere» (Hegel)79, non è più un pilastro o peggio un sostegno ma diviene per Alberti «la più bella decorazione
dell’architettura destinata agli edifici più importanti della città: i Templi». ll passaggio logico che impone agli elementi
un ordine superiore per diventare forme nominabili dell’architettura classica premette una concezione estetica che governi la disposizione degli elementi «visti come cose in sé secondo la loro natura» (Mies) e il loro ruolo nell’ambito
dell’unità complessiva del manufatto, da un lato recuperando l’ideale aristotelico dell’accrescimento organico della
forma80, dall’altro tendendo a riflettere la perfezione degli universali introdotti da Platone. Gli elementi primari dell’architettura moderna, lontani da quelli auto-commisurati e regolativi del sistema degli ordini, ma debitori della semplificazione e individuazione delle membrature operata dalla cultura gotica (in quanto struttura logica della
distribuzione degli sforzi), rimandano linearmente al ‘repertorio’ degli elementi costruttivi. Gli elementi dell’architettura
si specializzano per ruolo e per senso: i piani, i punti e le rette della geometria diventano coperture, pilastri, muri,
pareti che attraverso le procedure antiche della ripetizione, della variazione, della congiunzione e della combinazione, conformano lo spazio e, allo stesso tempo, ne consentono la costruzione. Il problema rimane quello di ritrovare nuove leggi adeguate, insieme tecniche ed estetiche, che sappiano mettere in relazione stabile e non gratuita
le parti.
In tal senso è importante osservare - a proposito delle reciproche influenze tra il momento tecnico e quello sintattico
ideativo - che nella distinzione semperiana81 tra ‘tettonico’ e ‘stereotomico’ è facile intravedere una stretta analogia
tra due modi distinti di comporre: quello che lavora ‘per elementi’ (piani e punti) e parti distinte, e quello che lavora
‘per volumi’ e ‘per masse’. Infatti costruzione tettonica sono tutte le strutture a scheletro in cui si possono individuare
e isolare gli elementi costruttivi, che finiscono per coincidere con quelli architettonici, e invece per costruzione stereotomica si intendono quelle parti, come il crepidoma, che formano singolarmente masse omogenee e indivise,
analogamente al gioco dei volumi e delle masse nelle forme dell’architettura. Sul piano dei caratteri e del decoro è
facile vedere che il problema del ‘rivestimento’ e della ‘pelle’ dell’edificio deve misurarsi con i dati della struttura, che
nel nostro caso è già essa stessa forma.
Nell’ambito delle soluzioni costruttive, per la copertura di ambienti di varie forme e dimensioni, il passaggio dal sistema arcaico trilitico o ligneo (greco) a quello voltato (romano) rende possibile nuove ipotesi spaziali e compositive.
Il rapporto con la geometria si fa più necessario, le forme planimetriche adottate e le loro regole proporzionali fissano direttamente la gamma delle soluzioni statiche opportune. Negli edifici ad aula, soprattutto nei casi di composizione sintattica, si può affermare che la soluzione del tetto, essendo preponderante per la definizione dello spazio
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rispetto alle membrature della strutture perimetrali di sostegno sia puntiformi che continue, diventa risolutiva dell’intero
edificio, della sua forma generale e della sua ‘ricezione’. Appare evidente che la liberazione dello spazio interno
da sostegni e la sua proiezione all’esterno è impensabile senza l’utilizzo di materiali e tecniche capaci di sopportare
gli sforzi e le sollecitazioni innescate dai carichi in gioco. Le soluzioni tecniche per la struttura della copertura risultando quasi sempre ‘in vista’ determinano in gran parte l’espressione architettonica e la forma dell’edificio.
In generale i modelli costruttivi adoperati per la copertura degli edifici ad aula sono riconducibili a tre tipi fondamentali
dai quali derivano varie sottoclassi.
Il primo sistema è quello trilitico, sia nella versione ‘isostatica’ di trave con due appoggi sia in quella ‘iperstatica’ con
telai rigidi - portali - ripetuti in funzione ovviamente dell’elasticità e dell’inerzia specifica dei materiali in gioco. È facile vedere che questa tipologia strutturale - che astrae e precisa il dispositivo della campata gotica rendendolo
schema modulare - premette un suo utilizzo unidirezionale limitando così fortemente la dimensione trasversale del manufatto rispetto a quella longitudinale. In questa categoria costruttiva, anche con un differente comportamento determinato dalla presenza di sollecitazioni spingenti, vanno aggiunte le strutture voltate unidirezionali e i sistemi a capriata
lignea.
Il secondo sistema è quello voltato a cupola realizzata con murature a cassa vuota di laterizi e malta o, come nel
Pantheon e nelle Terme di Baia, con vari strati di cementa, dalle pietre, ai mattoni, alle pomici, resi solidali con malte
pozzolaniche. La cupola, a differenza dell’arco, consente di superare luci più ampie e presuppone una figura planimetrica ‘centrale’ poligonale o circolare. Nel caso del Pantheon in particolare la decorazione a lacunari oltre a connotare e descrivere la curvatura della volta, a differenza della decorazione sovrapposta degli ordini presa in prestito
dall’architettura greca che mima un comportamento non effettivo della costruzione per esigenze rappresentative, realizza un accordo tra le necessità auliche e il comportamento della struttura. È facile vedere che i lacunari rastremati
realizzano un notevole alleggerimento della massa muraria, già affidata a una costruzione per strati di differente
densità e spessore, individuando delle linee principali di trasmissione dei carichi secondo meridiani e paralleli che
anticipano le recenti acquisizioni sul comportamento di tale tipologia costruttiva82.
Il terzo sistema, che sviluppa concettualmente il primo e integra il secondo, è quello della struttura bidirezionale a piastra o a graticcio di travi, che sfruttando opposte e duali sollecitazioni (flessione e torsione) consente di coprire ambienti di notevoli dimensioni con spessori ridotti. In tale ultima tipologia costruttiva divengono fondamentali le differenti
modalità di scarico a terra della copertura. La piastra che ha una sua rigidezza nel piano potrà essere solo appoggiata o incastrata in modo più o meno continuo sul suo contorno o nelle sue prossimità. Variante importante di quest’ultimo modello costruttivo è quello dei reticoli spaziali, che sfruttando le sole sollecitazioni normali, ottenute dalla
decomposizione di quelle flessionali, consente la copertura di luci grandissime con altezze esigue, con un peso proprio relativamente basso, consente agevolmente di individuare elementi semplici (aste e nodi) variamente combinabili e facilmente assemblabili.
È facile vedere che a tali modelli corrispondono alternativamente differenti classi di materiali idonei a sopportare i vari
regimi sollecitativi che si producono. L’utilizzo di materiali lapidei non resistenti a trazione sarà limitato ai sistemi trilitici e a quelli voltati o a cupola, mentre materiali elastici (legno) o addirittura isotropi, quali cemento armato o precompresso e soprattutto acciaio, potranno essere adoperati per le strutture intelaiate e per quelle bidirezionali e spaziali.
Le architetture ad Aula di Mies spingono alle estreme conseguenze i modelli costruttivi sopra elencati, ponendosi esse
stesse come degli avanzamenti di quelle tecniche. Mies nei suoi progetti adopererà sia il sistema a telaio ripetuto su
grandi luci (Crown Hall, Mannheim) sia quello a piastra nervata ‘ortotropa’83 (Bacardi, Neue Nationalgalerie) ma
anche il reticolo spaziale (Convention Hall). Le soluzioni da lui proposte sono sempre innovative e spesso coincidono
con le acquisizioni contemporanee della ricerca più avanzata della scienza e della tecnica delle costruzioni: basti pensare alle soluzioni esatte per le piastre di Grashof e di Thimoshenko o agli studi di Wachsmann sui reticoli spaziali.
In particolare il lavoro di Konrad Wachsmann si segnala per un’importante innovazione a proposito delle tecniche
costruttive basate sul principio dei tetraedri spaziali che, oltre a ottimizzare il comportamento dei singoli elementi
messi in gioco ottenendo soluzioni sempre più rarefatte, quasi prive di massa, consentiranno, con spessori ridotti, un
notevole aumento dimensionale delle luci copribili. Tale ricerca - effettuata innanzitutto dal punto di vista costruttivo propone di fatto, come avverte Argan84, una ipotesi formale/costruttiva complementare a quella di Mies, con una
potenziale espansione infinita degli invasi, chiaramente rinvenibile nelle proposte utopiche di Buckminster Fuller e di
Yona Friedman. Il sistema delle aste e dei nodi diluisce la massa costruttiva in esili linee di forza che singolarmente
sono trascurabili rispetto al loro assemblaggio continuo ma che, complessivamente, realizzano un tipo di spazio levitante rapportato al suolo da pochi ancoraggi filiformi, una sorta di trespoli tentacolari, che combinano gli stessi elementi e geometrie utilizzati per le coperture risultando quindi orientati secondo angoli predeterminati di massimo
sforzo. Le immagini dei progetti di Wachsmann, nella loro chiarezza costruttiva, per l’introversione della struttura verticale che libera la pelle più similmente al sistema Domino, rimandano, dal punto di vista strettamente formale, ad alcuni progetti e disegni di Hans Poelzig o Bruno Taut nell’Alpine Architektur. Va sottolineato che, come nel sistema
domino, le possibilità insite nell’adozione del reticolo spaziale (portato alle estreme conseguenze) hanno prodotto,
anche di recente, una notevole ‘liberazione’ in senso espressionista delle forme esposte, frequentemente disgiunte dal
sistema costruttivo, con esiti formali che sovente mimano figure organiche difficilmente riferibili o deducibili da principî prettamente architettonici ma quanto riconducibili a un formalismo ostentato, reso possibile, ma non orientato, da
una costruzione altamente flessibile. Tale liberazione formalistica trova una fonte di ispirazione non tanto e non solo
nelle forme naturali, ma quanto in una misinterpretazione e indebita trasposizione di alcune eteronome teorie filosofiche ed estetiche (Derrida) e in una lettura distorta e superficiale della fisica quantistica post-newtoniana, della geometria non euclidea e delle tecnoscienze in generale.
È singolare il fatto che le opere della cosiddetta ‘terza avanguardia’ (da Gehry e Libeskind a Zaha Hadid) dal punto
di vista formale e delle soluzioni costruttive quantunque celate da scocche a curvatura variabile di varia natura e consistenza in definitiva si assomiglino così tanto. L’utilizzo di modellatori solidi altamente avanzati - gli unici capaci di
gestire, costruire e al fine generare queste geometrie complesse - combinati con algoritmi di calcolo strutturali iterativi, fatalmente forniscono, paradossalmente, soluzioni costruttive identiche perché ottimizzate solo sul minimo sforzo
in modo univoco e non già su principî formali. In tali esibizioni e sperimentazioni la composizione e le sue regole cedono il passo a una incessante e inconsapevole ‘modellazione’. Di ben altra natura sono le invenzioni spaziali di
Mies che producono direttamente delle intuizioni85 costruttive controllate e regolate dalle proporzioni e dai rapporti
armonici tutti ancora governabili con la mano86 e quindi ancora con il pensiero.
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PROCEDURE COMPOSITIVE: SINTASSI
E PARATASSI
Nell’affrontare il tema dell’edificio pubblico - e più in generale ogni tema di architettura a partire dalla casa - è necessario determinare il peso ammissibile tra le parti rappresentative/eccezionali e quelle ricorrenti, muovendo dalla
considerazione che l’individuazione delle parti è «prioritaria all’atto del comporre» (Boullée). Tale rapporto, tale relazione sintattica, non è solo scalare o banalmente funzionale ma determina in gran parte il destino, la configurazione
finale dell’intero edificio. Nelle architetture ad aula si rintracciano chiaramente due possibili e complementari procedure compositive differenti: la paratassi e la sintassi. Le procedure compositive per la costituzione di tali manufatti possono essere di tipo sintattico quando i vari elementi e le varie parti costituenti l’edificio sono riassunti in un unico
volume, o di tipo paratattico quando all’individuazione e gerarchizzazione degli elementi e delle parti costitutive fa
riscontro una loro individuazione in volumi distinti accostati. Nel primo caso si tende a restituire un’immagine sintetica definita e ‘rivolta all’interno’ nella quale tutte le parti contribuiscono alla definizione del tutto. Nel secondo caso
le parti distinte per forma e dimensioni divengono ‘corpi autonomi’ che stabiliscono tra loro delle tensioni volumetriche che per accostamenti o compenetrazioni definiscono, soprattutto all’esterno, il senso del manufatto.
Nella paratassi le parti dell’edificio sono rese evidenti e autonome nella loro costituzione formale e figurale, in quanto
«silenziosi oggetti» (Tafuri). Il posizionamento e il rapporto reciproco avviene, per così dire, a distanza e il sistema
differenziato dei caratteri concorre alla determinazione della loro autonomia volumetrica e formale. In tal senso diventano fondamentali da un lato la distanza e il vuoto tra i corpi, il modo in cui le masse si fronteggiano o si giustappongono, senza mai fondersi, e dall’altro l’equilibrio complessivo che esse devono determinare. Come rileva Ezio
Bonfanti - a proposito delle architetture di Aldo Rossi - «la paratassi (procedimento additivo), che attenua o elimina le
connessioni e le mediazioni, è in effetti un procedimento caratteristico della letteratura, dell’arte, e anche dell’architettura moderna (dove è collegabile a una tendenza già emersa nel Settecento che il Kaufmann ha notoriamente sottolineato, [...] rilevandovi la scomparsa di alcuni requisiti fondamentali del “sistema del Rinascimento e del Barocco”,
e in primo luogo del criterio della “gradazione”)», essa è contrapposta a «procedimenti basati sull’amalgama o sulla
mediazione»87. La paratassi quindi è un ‘ordine tra pari’, tra singolarità che rimanda, nell’etimo, alla disposizione delle
navi greche schierate in battaglia (ut castrorum acies ordinata).
Nella sintassi i vari elementi e le parti dell’edificio pur essendo riconoscibili sono riuniti e tenuti insieme da un principio d’unità e di concinnitas. L’obiettivo, in questo caso, è trovare una forma sintetica, capace essa stessa di affermare
l’identità dell’intero manufatto. I caratteri avranno il compito di rendere evidente tale unità e saranno perciò quanto
più uniformi possibili. Il procedimento sintattico lavora essenzialmente sulla finitezza e fa coincidere l’intero edificio
con l’Aula, da sola in grado di riassumere il tema e mostrare la ‘cosa’. Vi è una sostanziale indifferenza distributiva,
non si vuole raccontare il funzionamento dell’edificio, il manufatto è ridotto a oggetto significante di per sé, per l’autorità della forma generale e sintetica che lo rappresenta. L’Aula intesa come grande invaso che contiene il tutto, ipostasi del vuoto, la si può definire, in termini strutturalistici, come un’architettura ‘segnica’88 cioè - come afferma De Fusco
- un’architettura che «non contiene articolazioni seconde, un’architettura in cui il significante ed il significato sono univocamente individuati, in qualche modo sono talmente liminari che finiscono per coincidere». La paratassi e la sintassi, complementari e omologhe procedure compositive, trovano selettivamente un loro impiego in relazione alle
differenti condizioni topologiche e tematiche che i vari manufatti affrontano. Sono i rapporti con la condizione naturale o urbana al contorno che fanno adottare l’uno o l’altro sistema. Il continuo e il discreto non servono a commentare un luogo, ma a ridefinirne e reinterpretarne i caratteri e le relazioni d’ordine. Il procedimento paratattico denuncia
l’articolazione dell’edificio per parti e lo relaziona al contesto, quello sintattico invece lavora sulla costruzione di un
elemento primario (monumento) che coordina e riformula le relazioni tra i sistemi morfologici in cui si colloca. Vi sono
casi in cui l’Aula è dominante rappresentando sinteticamente il senso dell’intero edificio e a essa vengono sottoposti
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(ipotassi) gli elementi ricorrenti. In altri casi le parti che concorrono alla definizione del tema vengono, per così dire,
isolate nella loro individualità sia sfigurale che volumetrica per poi essere ricomposte per accostamento semplice, per
giustapposizione, o per interpenetrazione. Frequentemente agli elementi ricorrenti proiettati all’esterno o disposti lungo
il perimetro fa da contrappunto, anche in termini scalari, il volume dell’Aula che diviene per così dire contraffortato
da parti accessorie che hanno una loro autonomia formale e architettonica e che, in alcuni casi, sono addirittura staccate dal volume principale. Non mancano inoltre dei casi in cui si assiste alla combinazione di sistemi sintattici e paratattici con disposizione libera delle parti e degli elementi. Entrambe le tecniche su esposte saranno dominate dal
principio della finitezza, dalla proporzione e dalla regolarità.
In tale interpretazione e classificazione ‘binaria’ per la costituzione degli edifici ad aula sono esemplari due progetti:
lo “studio per un edificio, coperto e aperto sui lati, con colonnato monumentale” per la Festhalle all’interno di una
Colonia balneare a Rügen (1936) di Heinrich Tessenow ed il progetto di Hilberseimer per la Stadthalle a Norimberga89.
Il primo edificio, una vera e propria piazza coperta, è pensato ancora una volta come un ‘grande riparo’ costituito
da una semplice copertura piana, quasi quadrata, di 125 metri di lato, sorretta da esilissimi sostegni disposti su
quattro file. La maestosa Aula è attraversata in tutte le direzioni dalla natura, ‘pietrificando’ il disegno della foresta
dello stesso Tessenow. Il riparo, pensato come una grande sala ipostila, ricorda, nella disposizione concentrica dei
sostegni che si diradano verso l’interno, il Therlsirion di Megalopolis sviluppandone i modi di controllo geometrico
polare, introducendo - attraverso complessi ribaltamenti e proiezioni - tre ulteriori fuochi esterni alla figura. L’Aula ipostila di notevole altezza (36 m) sorprende per la sua modernità figurativa e per le proporzioni notevolmente dilatate
ed esasperate. Vi è una discretizzazione assoluta degli elementi che si emancipano didascalicamente dalla loro natura astratto-geometrica solo per il modo in cui sono composti. L’edificio non si costituisce in quanto volume, la copertura e i sostegni semplicemente delimitano un luogo, selezionano una parte della natura e la rendono abitabile,
confermando l’intuizione di Hegel: «Un interno che non abbia un esterno (cui riferirsi), non sarebbe neppure un interno». Quasi a volerne giustificare l’audacia - nelle parole di Tessenow che riecheggiano quelle di Heidegger – l’Aula
delle feste è «un maestoso e monumentale ridosso nella natura circostante in cui […] il modello di riferimento utilizzato è quello di uno dei più naturali e antichi spazi destinati alle grandi adunanze, cioè la Waldlichtung [radura del
bosco], uno spazio che in sé offre una protezione certo approssimativa dalle intemperie, che sicuramente possiede
tutta una serie di difetti come ambiente per le feste e per le adunanze, ma che pure unisce altrettanta bellezza al suo
essere antico»90.
La Stadthalle di Norimberga, invece, lavora sul principio del volume stereometrico, sulla compiutezza e sulla giustapposizione delle forme. L’Aula gradonata domina la composizione e a essa si accostano altri corpi che la radicano al suolo. Anche la tecnica rappresentativa91 adoperata da Hilberseimer, con il gioco delle ombre proprie e dei
pieni e dei vuoti, accentua questa condizione gerarchica e di gioco delle masse messe a contrasto.
Questi due progetti quindi contengono due modi compositivi differenti rispetto all’Aula che svelano due mondi formali,
due principî spaziali e compositivi: quello che lavora per piani e per punti, che elementarizza le sue parti costitutive
sinteticamente rappresentate in un tutto, e quello che si costruisce con masse giustapposte, per volumi semplici e puri
fortemente caratterizzati. Sono due concezioni complementari della composizione. la prima - che abbiamo già definito delle masse stereotomiche - in cui si demanda all’accostamento o compenetrazione dei volumi puri l’espressione
parlante dell’architettura; la seconda elementarista-tettonica in cui le materie da comporre sono gli elementi della costruzione (pilastri, travature, coperture, bucature) ordinati dal ruolo costruttivo e dai rapporti proporzionali relativi. Inoltre in questi due progetti si raffrontano l’idea progressiva di trasparenza e leggerezza consentita dall’ordinamento degli
elementi con l’idea classica di pieno, di volume, di massa e di severità. Il tema dell’identità e della semplificazione
degli elementi e quello delle masse e dei volumi puri sono al centro del progetto stilistico dell’architettura moderna.
Le ricerche e le opere di Boullée e Ledoux prima, e di Mies e Le Corbusier poi, esemplificano questi due atteggiamenti. Boullée e Ledoux, accomunati dal rifiuto della norma degli ordini che sono utilizzati come citazioni o allegoricamente, sono contrapposti da una differente interpretazione dell’ordine murario che, nel primo, coincide con i
corpi e i solidi della geometria euclidea e, nel secondo, viene scomposto in parti autonome (il basamento, il fusto e
il coronamento). La posizione di Laugier, concettualmente simile a quella di Ledoux, lavora essenzialmente sul sistema
trilitico in cui gli elementi sono quelli propri della costruzione e la loro relazione mutua è determinata dal regime degli
sforzi e dei carichi agenti. Schinkel, a sua volta, opera una sintesi tra il sistema murario e il suo ordinamento per fasce
caratterizzate e l’analiticità di quello trilitico della connessione e distinzione degli elementi. Per Mies, come per Schinkel, la composizione è innanzitutto composizione di elementi costruttivi che possono determinare anche un volume ma
non in modo univoco, per Le Corbusier - memore della sua “Lezione di Roma”- di contro l’attività compositiva si eser-
cita innanzitutto sulle masse e sulla loro caratterizzazione superficiale: «Il volume e la superficie sono gli elementi mediante i quali l’architettura si manifesta. Un volume è avvolto in una superficie, superficie che è diversa secondo le
linee generatrici e direttrici del volume, mettendo in risalto l’individualità di questo volume»92.
In conclusione si può affermare che, relativamente alla posizione e al peso dell’Aula nell’ambito della composizione
complessiva dell’edificio, si possono presentare alternativamente tre differenti condizioni: l’Aula coincide con l’intero
manufatto e ne determina la forma e il carattere complessivo (sintassi); l’Aula emerge per la posizione dominante occupata nell’articolazione volumetrica accostandosi ad altre parti che le sono subordinate (ipotassi); l’Aula si rende del
tutto autonoma e distinta da altre parti riunite sintatticamente in una sorta di montaggio in cui non vi è nessuna gerarchia compositiva (isotassi). Vi sono poi dei casi abbastanza discutibili (Plec̆ nik nella biblioteca di Lubiana) in cui
l’Aula non è definita attraverso un’autonoma configurazione volumetrica, ma si dichiara soprattutto attraverso la variazione e l’amplificazione del sistema dei caratteri e della decorazione.
Gli edifici ad Aula di Mies invece adotteranno, senza mediazioni, il procedimento sintattico ‘elementarista’ puntando
alla definizione di manufatti che, pur non realizzando dei volumi classicamente intesi, riescono a essere fortemente
concisi e unitari anche nella loro articolazione in corpi fortemente individualizzati, lavorando essenzialmente su un
sofisticato controllo proporzionale di tipo relativo di tutti gli elementi e della figura complessiva. Questo controllo è
realizzato attraverso la commensurazione delle singole parti col tutto e mediante la ripetizione finita e la formalizzazione gerarchizzata delle membrature costruttive che determinano, senza iati, il carattere e l’aspetto del manufatto.
L’assunzione sintattica operata da Mies, la scelta di costruire delle aule liberate dal problema del rapporto con le parti
subordinate - di solito ricavate all’interno del volume neutro del basamento sia esso entro o fuori terra - riduce il problema della definizione architettonica del manufatto alla selezione di concise figure planimetriche riconoscibili e nomotetiche (quadrato/rettangolo) adeguate per questo a rappresentarne l’assolutezza. Questo passaggio dall’assemblaggio
di volumi alla determinazione di un vuoto confinato dagli elementi della costruzione, declinati in relazione alle dimensioni e ai rapporti della figura planimetrica, determina la necessità di stabilire una connessione logica tra tale figura e la tipologia costruttiva: l’adozione di piante centralizzate o unidirezionali fisserà, a un tempo, il tasso di
rappresentatività del manufatto e la sua espressione costruttiva.
Dal punto di vista strettamente compositivo la scelta di misurarsi con figure regolari a simmetria bilaterale - rettangoli
aurei o dinamici - o con figure a simmetria radiale - il quadrato - produce, a sua volta, un problema di disposizione
delle parti, degli elementi, degli accessi in accordo con tale assetto planimetrico. Gli elementi della costruzione a
loro volta nel comporsi costruiscono una sintassi - un sistema di relazione interno alle cose - in cui ogni singolo elemento viene individuato nel suo ruolo costruttivo specifico. Tutto ciò determina di fatto un ‘Ordinamento’, Ordmung
che guida «secondo la intima natura delle cose» la opportuna collocazione e relazione tra gli elementi per il grado
e il ruolo superiore equivalente o inferiore che ognuno può assumere nella definizione del tutto. L’equivalenza produce
la ripetizione, la supremazia produce l’eccezione o la ripetizione non uniforme di grado maggiore.
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1. ετυµολογία, ας, η (ετυµο-λόγος e questo da έτυµος e λέγω) spiegazione etimologica, derivazione, etimologia; έτυµος (ετέος) ep.
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poet. 1. vero, reale 2. corporale, visibile, chiaro; ετοίµος, att. anche έτοιµος 1. reale, effettivo, giunto ad effettuazione, ad esecuzione 2.
pronto, allestito, preparato, esistente. G. Gemoll, Vocabolario greco-italiano, Palermo-Milano, 1922.
L’esigenza di partire dal significato fondativo delle parole muove da una necessità metodologica indicatami dal prof. Gianugo Polesello, che
ringrazio. A tale riguardo si vedano anche:
- P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse, l’avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Milano 2004;
- S. Di Natale, Parole della filosofia o dell’arte di meditare, Milano 2004;
- Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche, voce ‘Lemmi’, in www.rai.it.
G. Gemoll, Vocabolario greco-italiano, Palermo-Milano 1922.
A. Monestiroli, L’architettura della realtà, Milano 1979.
Voce “Aula”, Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica (DEAU), a cura di P. Portoghesi, Roma 1968.
Cfr. A. Maglio, nota del traduttore, in L. Hilberseimer, Hallenbauten, Napoli 1998, p.13 sgg.
Voce “Aula”, op.cit., Roma 1968.
P. Valéry, Eupalinos ou l’architecte, Paris 1924, tr. it. Eupalino o dell’architettura, Pordenone 1986.
Cfr. H. Arendt, Vita activa, Milano 1989, p. 251.
G. Di Domenico, L’idea di recinto, Roma 1998, p. 8 e sgg.
Nel senso di conoscenza del mondo edificato dall’uomo. Si veda R. Masiero, Estetica dell’architettura, Bologna 1999, p. 29 e sgg.
F.W.J. Schelling, Philosophie der Kunst, in G. Pigafetta-R. Masiero, Arte senza Muse, Milano 1988.
M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1976-80.
E. Severino, Raumgestaltung, in Id., Tecnica e architettura, Milano 2003, p. 87.
Cfr. V. Pezza, voce “Vuoto”in Id., Misura e forma del territorio storico, in Id. La costa orientale di Napoli, Milano 2002.
Ibidem.
Cfr. K. Frampton, Tettonica e architettura, Milano1999.
Cfr. M. Cacciari, citato in V. Pezza, voce “Vuoto”in Id., op.cit., 2002.
Cfr. E. Palazzotto, Elementi di teoria nel progetto di architettura, Palermo 2002.
Cfr. A. Schmarsow, Das Wesen der architektonischen Schöpfung, Leipzig 1894.
Cfr. G. Grassi, La costruzione logica dell’architettura, Padova 1967, p. 98 sgg.
Cfr. E. Severino, La Filosofia Antica, Milano 1984.
L’espressione «architetture certe» è stata proposta da Salvatore Bisogni nell’ambito della ricerca MURST Funzione e senso, 2004.
Cfr. R. Caporali, D. Forconi, Miti Greci, Firenze 2002.
Cfr. L. Benevolo, Disegno storico dell’architettura religiosa in occidente, in P. Carbonara, Architettura Pratica, vol. III tomo 1°, Torino 1958.
Si veda il saggio di P. Grandinetti, Tipi architettonici e regole compositive nell’architettura e nella città antica, IUAV, Venezia 1981.
«Estia è una divinità del fuoco come Efesto, ma di un fuoco diverso. Estia governa il fuoco dalla fiamma tranquilla che arde in ogni focolare
domestico, dalla casupola (capanna) al grande palazzo. Estia è anche patrona del focolare pubblico: le città e gli stati non sono altro che famiglie più grandi, che si reggono su uguali principi, primo fra tutti quello della civile concordia. Anche le città greche hanno allora il loro focolare pubblico, il cui fuoco viene custodito in una casa particolare chiamata ‘pritaneo’ o palazzo del consiglio. E nelle varie città, il fuoco,
con tutto il suo contenuto simbolico trasferito dal privato nella società, viene alimentato dai magistrati (più alti) chiamati ‘pritani’. Estia ha un suo
speciale pritaneo anche nella dimora di Zeus, dove arde l’eterno fuoco celeste. Forse proprio da questo fuoco, [...], Prometeo ruba la scintilla
da donare agli uomini sulla Terra», da R. Caporali, D. Forconi, Miti Greci, Firenze 2002.
«Estia è la dea del focolare e sia delle case private e sia dei luoghi pubblici […] inventò l’arte di costruire le case, il simbolo era il braciere che
a Delfi divenne l’ombelico che si supponeva fosse il centro del mondo», da R. Graves, I miti greci, Milano 1963.
«La grande Madre in una grotta o in una capanna alimentava il focolare che fu il [...] primo centro sociale. Ecco perché la prima vittima di un
sacrificio pubblico greco veniva sempre offerta a Estia del Focolare. Il bianco simulacro aniconico della dea, il più diffuso dei suoi emblemi,
che troviamo a Delfi come omphalos o ombelico, rappresentava forse, [...], il bianco cumulo di cenere ammucchiato sopra la brace viva che
è il sistema più facile per conservare acceso il fuoco senza fumo», da R. Graves, I miti greci, Milano 1963.
Il termine artefatto e la sua relazione con il mondo è di R. Neri, Saggio sulla costruzione. Una ricerca sul ruolo della costruzione nel progetto
di architettura in rapporto a tipologia e decorazione. DRCA IUAV, V Ciclo 1989-1992.
Cfr. G.E. Mylonas, Eleusis and the Eleusinian Mysteries, Priceton-London 1961 et F. Noack, Eleusis, die Baugeschichtliche entwicklung des Heligturns, Berlin-Leipzig 1927.
Cfr. R. Martin, Architettura greca, Milano 1988, p.120.
Cfr. A. Renna, Qual è l’architettura del nostro tempo, in Id., L’illusione e i cristalli, Roma 1980.
Cfr. C. Martí Arís, Il portico ed il muro come elementi dell’edificio pubblico, in R. Neri, P. Viganò (a cura di), La modernità del classico, Venezia 2000.
Ibidem.
Cfr. A. Choisy, Historie de l’architecture, Paris 1899. Su Choisy si veda M. Leushergar, La lezione di Auguste Choisy, in “Parametro”, n. 255,
gennaio-febbraio 2005.
Cfr. C. Martí Arís, op.cit., in R. Neri, P. Viganò (a cura di), La modernità del classico, Venezia 2000.
Cfr. C. Martí Arís, Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura, Milano 1990.
Cfr. C Martí Arís, voce “Tipo”, in AA.VV., Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da L. Semerani, Venezia
1993.
Cfr. R. Neri, Edifici ad Aula, Facoltà di architettura civile-Politecnico di Milano, Milano 2003.
Cfr. R. Barthes, Variazioni sulla scrittura, Torino 1996.
Cfr. A. Rossi, Introduzione a Boullée, pp.17-18 in E.L. Boullée, Architecture. Essai sur l’art, ed. it. Boullée, Architettura. Saggio sull’arte, Padova
1967.
Cfr. K.F. Schinkel, cit. in W. Hegemann, La Berlino di Pietra, 1930.
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43. Sulla distinzione tra pezzi e parti e sulla composizione additiva si veda E. Bonfanti, Elementi e costruzione. Note sull’architettura di Aldo Rossi,
in “Controspazio”, n.10, ottobre 1970.
44. L. Hilberseimer, Hallenbauten, trad. it. a cura di L. Lanini e A. Maglio, introduzione di S. Bisogni, Napoli 1998.
45. Cfr. S. Bisogni, Introduzione, in L. Hilberseimer, op.cit., Napoli 1998, p. 7 sgg.
46. S. Bisogni, Lectio magistralis per l’inaugurazione dell’anno accademico 2008-2009 del corso di Laurea Magistrale in Architettura, Facoltà di
Architettura Napoli settembre 2008.
47. Sull’opera di Behrens, si veda A. Moro, Peter Behrens: la ricerca della bellezza, Padova 2010.
48. C. Norberg-Schulz, L’abitare, Milano 1984.
49. Ibidem.
50. Ibidem.
51. E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Milano 1959, p. 5.
52. R. Schwarz, Vom bau der Kirche, Würzburg 1938.
53. Cfr. S. Giedion, Architecture you and me, Cambridge 1950.
54. Cfr. H.P. Berlage, Amsterdam e Venezia, 1883, in AAVV, Architettura, urbanistica ed estetica, Bologna 1985.
55. Cfr. G. Lukács, Estetica, Torino 1970.
56. Cfr. A. Monestiroli, op.cit., Milano 1977.
57. Cfr. A. Renna, Il progetto, in Id., L’illusione e i cristalli, Roma 1980.
58. Cfr. A. Monestiroli, Le forme e il tempo, intr. a L. Hiberseimer, Mies van der Rohe, Milano 1984, p. 12.
59. Quatremere de Quincy, voce ‘carattere’ del Dizionario storico di architettura, Mantova 1842.
Sulla nozione di carattere si veda E. Mantese, voce “carattere” in AA. VV., Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno,
diretto da L. Semerani, Venezia 1993 ed inoltre il fondamentale saggio di G. Grassi, Il carattere degli Edifici, in “Casabella”, n.772, Milano
2004.
60. Citato da M. Caja in Id, Mies van der Rohe: architect as educator. Una mostra e un convegno, in “QA”, Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’Archiettura del Politecnico di Milano, n.14, ottobre 1992.
61. Questa espressione a proposito di Mies è usata da Giorgio Grassi nella sua “Introduzione a Hilberseimer”, in L. Hilberseimer, Un’idea di piano,
Padova 1967.
62. «Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello Stellen, del ‘richiedere’, nel senso della provocazione. Questa provocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, il
trasformato immagazzinato e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. Mettere
allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare sono i modi del disvelamento», da G. Nardi, Le nuove radici antiche. Saggio
sulla questione delle tecniche esecutive in architettura, Milano 1986, p. 33.
63. Cfr. E. Sicignano, Grandi coperture, Roma 2000.
64. M. Ginzburg, Costruzione e forma in architettura. Il costruttivismo, in AA.VV., Saggi sull’architettura costruttivista, 1924.
65. E.L. Boullée, Architecture. Essai sur l’art. Ed. it., trad. e introd. di A. Rossi, Boullée, Architettura. Saggio sull’arte, Padova 1967.
66. R. Neri, op cit., Milano 2003.
67. Cfr. A. Monestiroli, La metopa e il triglifo. Rapporto tra costruzione e decoro nel progetto di Architettura, Milano 1989, ora in Id., La metopa
e il triglifo, Roma-Bari 2002, et, R. Neri, Saggio sulla costruzione. Una ricerca sul ruolo della costruzione nel progetto di architettura in rapporto a tipologia e decorazione. DRCA IUAV, V Ciclo 1989-1992.
68. F. Dal Co, Figures of Architecture and Thought: German Architecture Culture, 1880-1920, New York 1990.
69. Cfr. K. Bötticher, Die Tektonick der Hellenen, Postdam 1844-1852, in W. Hermann, G. Semper, In Search of Architecture, Cambridge 1984,
trad it. Stralci in F. Dal Co, Teorie del moderno. Architettura Germania 1880-1852, Roma-Bari 1985.
70. K. Frampton, Costruzioni pesanti e leggere. Riflessioni sul futuro della forma architettonica, in “Lotus”, n. 99, Milano 1998.
71. Egli infatti scrive: «[…] tutti i modi possibili in cui si poteva usare la pietra per coprire uno spazio sono stati sfruttati, e questi hanno completamente esaurito le possibili applicazioni strutturali di tale materiale. […] Un nuovo sistema di copertura, finora sconosciuto (che naturalmente porterà con sé un nuovo mondo di forme artistiche), può fare la sua comparsa soltanto se si adotta un materiale sconosciuto, o piuttosto un materiale
che finora non è stato utilizzato quale principio guida. Dovrà essere un materiale che consenta grandi campate e che presenti un peso minore
ed una resistenza maggiore rispetto alla pietra […] Un materiale di questo tipo è il ferro […] che diverrà la base per il sistema di copertura del
futuro e […] introdurrà nell’architettura l’ultima delle tre forze, vale a dire la resistenza assoluta», da K. Bötticher, The Principles of the Hellenic
and Germanic Way of Building, discorso per la Schikelfest (1846), in W. Hermann, G. Semper, op.cit., p. 158.
72. R. Neri, op.cit., Milano 2003.
73. Cfr. E. Severino, Raumgestaltung, in Id., Tecnica e architettura, Milano 2003, p. 95.
74. «Colui che dissimula una qualsiasi parte della struttura si priva del solo legittimo ornamento dell’architettura. Colui che dissimula un pilastro commette un errore. Colui che fa un falso pilastro commette un delitto», da A. Perret, Contribution a un théorie de l’architecture, 1952.
«È la base stessa dell’architettura se la struttura non è degna di restare in vista (di apparire), l’architetto non ha assolto alla sua missione», da
A. Perret, Le Musée Moderne, in “Museion”, dicembre1929.
75. J.J. P. Oud, in Bauwelt, 1926 tr. It in W. Hegemann, op.cit., p.20.
76. Cfr. A. Monestiroli, op.cit., Napoli 1994.
77. K.F. Schinkel, cit., in W. Hegemann, La Berlino di Pietra, 1930.
78. Cfr. A. Monestiroli, La metopa e il triglifo. Rapporto tra costruzione e decoro nel progetto di Architettura, Milano 1989, et, A. Loos, Ornament
und Verbrechen, tr. it. Ornamento e delitto, in Id., Parole nel vuoto, Milano 1972.
79. Hegel nell’Estetica afferma che la colonna «non ha altra determinazione che quella di sorreggere» e di seguito «ed è grande bellezza dell’architettura classica non erigere più colonne di quanto non siano in effetti necessarie per sorreggere una travatura e ciò che su di esso poggia,
le colonne destinate a semplice ornamento, nell’architettura vera e propria non possiedono vera bellezza, per cui la colonna, quando se ne sta
puramente per se stessa, non risponde alla sua vocazione. In tal modo nella colonna l’architettura vera e propria passa da ciò che è sempli-
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cemente organico alla rispondenza intellettuale ad un fine e da questa si approssima all’organico. È stato qui necessario citare questo doppio
punto di partenza dell’architettura, il bisogno vero e proprio e l’autonomia sciolta da ogni rispondenza, perché il vero è dato dall’unione di entrambi i principi. La bella colonna parte dalla forma naturale, che viene poi trasfigurata a sostegno, a forma regolare ed intellettuale».
«Principio è quel che di necessità non deve essere dopo altro […] Ciò che è bello, sia un animale sia ogni altra cosa costituita di parti, deve
avere non soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello infatti sta nella grandezza (misura) e nell’ordinata disposizione delle parti», Aristotele, La Poetica.
Cfr. C. van de Ven, Space in Architecture, Assen 1978.
Cfr. S. Di Pasquale, L’arte del costruire, Padova 2000.
Si veda il saggio di M. Losasso sulla costruzione della Galleria di Berlino, in “Restauro”, n. 139, 1997.
Cfr. K. Waschmann, Una svolta nella costruzione, pref. di G.C. Argan, Milano 1960. Sull’opera di Wachsmann si veda anche: AA.VV.,
Forme e tecniche dell’architettura contemporanea, pref. di P. Buccarelli, catalogo della mostra tenuta alla Galleria di Arte Moderna di Roma Valle Giulia 20 marzo-20 luglio 1950, Roma 1959.
A questo proposito Argan afferma che: «sarebbe un errore supporre che l’intuizione (statica N.d.A.) porti con sé sempre qualcosa di improvvisato o di arbitrario, si sottragga ad ogni controllo o disciplina […]; l’intuizione è anch’essa una tecnica della mente umana, […] che si compie secondo un processo o un suo metodo; […] si può giungere sino a pensare che l’intuizione rappresenti il superamento dei limiti tradizionali
del pensiero logico e tenda quindi a sostituirsi ad esso come una logica nuova, comprensiva di un’assai più vasta serie di fenomeni e quindi
risultante da una più complessa e vitale esperienza», in G.C. Argan, Progetto e destino, Milano 1977, p.246.
Cfr. H. Focillon, Elogio della mano, in Id., La vita delle forme, Milano 1976.
E. Bonfanti, op.cit., pp. 19-28.
Si veda R. De Fusco, Segni storia e progetto dell’architettura, Roma-Bari 1983.
Cfr. S. Bisogni, Prefazione, in L. Hilberseimer, op.cit., Napoli 1998.
Citato in M. De Michelis, Heinrich Tessenow, Milano 1991.
Si veda, R. Capozzi, La composizione ‘essenziale’ nelle architetture di Hilberseimer, in L. Hilberseimer, Grosstadtbauten e altri scritti di arte e
di architettura, a cura di M. Caja, Napoli 2010.
Le Corbusier, Verso un’architettura, 1923, p. 35 e p. XXXVIII.
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GLI
EDIFICI AD
AULA
DI
MIES
VAN DER
ROHE
LA RICERCA
DI
MIES
VAN DER
ROHE
SULL’AULA
Mies sfugge a classificazioni troppo schematiche, a etichette critiche, e rappresenta e ha rappresentato per intere generazioni di architetti lo ‘scheletro nell’armadio’2 con cui misurarsi continuamente. Criticato dagli amanti di un ritorno
alle forme del passato e allo stesso tempo frainteso e tradito dagli innovatori a ogni costo, Mies - per il complesso
della sua riflessione sui fondamenti della disciplina - costringe a un confronto con la sua ricerca, con la sua idea di
architettura (principia), con le sue opere (exempla). Egli viene spesso considerato come ‘l’architetto della tecnica’ o
peggio della tecnologia, riducendo così l’enorme portata del suo contributo alla costruzione del complessivo progetto
stilistico del Movimento Moderno. Come è stato evidenziato da Antonio Monestiroli3 invece, tra i maestri Mies è forse
quello che più di ogni altro contribuisce alla costruzione di questo ‘stile’, o meglio, ‘ipotesi stilistica’, di ‘tendenza verso
lo stile’ (Rogers), conciliando nella sua ricerca le tre principali questioni: il rapporto con la natura, il rapporto con la
tecnica, il rapporto con la storia.
La volontà di misurare e misurarsi con la natura e di renderla conoscibile si traduce in leggi, regole, moduli, misure,
in elementi, piani, sostegni di cui Mies si serve per portare alla perfezione, come avrebbe detto Boullée, i suoi edifici. Le sue architetture sono immerse nella natura, ne rappresentano la condizione di intelligibilità, ne selezionano una
parte che «ad essa viene sottratta e ad essa deve essere restituita» (Bisogni). Le architetture di Mies rappresentano la
sintesi di una ricerca più ampia che è quella del moderno in architettura, riferendosi al contempo agli esempi della
classicità, della Sala ipostila, del Tempio e della Casa romana. «Assolutamente classico nei principî ma lontano dalle
sue forme consuete»4 il suo rapporto con la storia non è affatto nostalgico ma sempre legato alla necessità di esprimere la modernità, l’architettura del proprio tempo, una «nuova e antichissima bellezza». Per Strawinsky infatti «la vera
tradizione non è testimonianza di un passato ormai concluso, ma forza viva che anima e forma di sé il presente»5,
essa va interrogata, va sottoposta a critica per estrarne dei principî razionali. Vi è in Mies la convinzione che solo
un oblio selettivo delle forme del passato ci consente di progredire, di affermare la nostra identità e di riflettere la nostra condizione. Come è intuibile ‘l’oblio selettivo’ non vuol dire dimenticare il passato e le architetture che ci ha lasciato, vuole bensì significare la necessità di una selezione consapevole e colta dei riferimenti sui quali costruire la
propria arte. Come in Adorno «non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze»6 e «il meglio
del nuovo corrisponde a un antico bisogno, le opere autentiche sono allora delle critiche di quelle passate»7. La reinterpretazione delle forme, o meglio dei fondamenti del classico, non è mai banale, è sempre espressiva, spiazzante,
è sempre alla ricerca dei presupposti di quelle forme della loro intima ragione, del ‘che cosa’ (la motivazione pratica, il tema) per trovare ‘un come’ (l’esecuzione, il sistema delle scelte, il tipo, gli elementi adottai, il carattere). Apoditticamente, in tal senso, Mies afferma che «ogni come è sostenuto da un cosa»8. Mies giudica il ruolo della
costruzione determinante e al tempo stesso determinato dalle proporzioni e dal senso degli edifici, la costruzione non
è autonoma, non è la ragione delle forme, l’architettura si realizza attraverso un uso consapevole delle tecniche che
sono rese espressive attraverso principî quali la misura e la proporzione: ciò che lo interessa concretamente è innanzitutto una ‘costruzione chiara’. L’architettura è per Mies, ancora una volta, la Baukust, l’arte del costruire che inizia dal modo ‘accurato’ di mettere insieme due mattoni. Il ruolo fondamentale ma subordinato della tecnica in Mies
è sintetizzato chiaramente nelle parole di Hilberseimer per il quale «la tecnica è sempre solo un mezzo dell’architettura, mai può diventare un fine in sé, […] certo le pure costruzioni tecniche non sono ancora architettura, sebbene
anche nei semplici edifici tecnici sia difficile stabilire il confine tra ciò che è formalmente ordinato e ciò che non lo è
[…] una costruzione si trasforma in arte sempre e unicamente attraverso misura e proporzione»9 e inoltre «la struttura,
se non è ancora architettura, è lo strumento della sua costruzione e diventa architettura se colui che costruisce comprende il principio che ordina ogni parte secondo il suo valore».
Il rapporto con la costruzione per la prima volta trova un’estetica adeguata e rigorosa, ‘vera’ («il bello è la luce del
vero» per Sant’Agostino) e non banalmente analogica delle tecniche, in un’opera che spinge la struttura alle sue
estreme possibilità, allo stesso modo del Pantheon o della Cupola di Brunelleschi. La verità (alétheia) è ciò che non
è nascosto e la forza delle architetture di Mies sta proprio nel non nascondere, come in Wittgenstein, niente dietro
alle cose, nel ricercare continuamente una sintonia profonda con la realtà dell’epoca, una corrispondenza, un’armonia
come adaequatio rei et intellectus (S. Tommaso)10. La tecnica non è un fine ma un mezzo per ottenere le forme architettoniche: l’architettura di Mies, nel voler rappresentare l’aspetto artistico come significato in sé (Malevic̆ e Ad Reinhardt,) non vuole ricordare niente al di fuori di essa, non vuole essere monumento ma espressione esatta del proprio
tempo (Zeitgeist).
Il grado zero di Mies, il beinahe nichts (quasi niente) delle sue architetture manifesta lo sforzo di pervenire attraverso
l’architettura e le sue semplici ma antichissime regole alla definizione del manufatto, in un processo di continua riduzione delle forme. La perfezione logica dei suoi edifici costruiti, la loro apparente banalità cela un lavoro paziente
su pochi ma essenziali ‘elementa’ non ulteriormente scomponibili che, di volta in volta, sono messi a ‘contrasto’ a partire da regole e relazioni d’ordine chiaramente espresse. Parlare di contesto nell’opera di Mies risulta improprio, le
sue opere non commentano un luogo, non si relazionano ad esso, ma al limite lo determinano. Le architetture di
Mies - come nelle parole di San Tommaso - sono «disposizioni libere» in cui è possibile «[...] vivere».
In un importante saggio11 sull’opera di Mies, Ignasi de Solà-Morales, richiamando alcune tematiche suprematiste o
minimaliste, afferma che «parlare di contesto nell’opera di Mies significa introdurre un paradigma concettuale altrettanto inadeguato. Le sue opere non sono costruite in relazione al contesto né costituiscono un commento o una mimesi al luogo in cui si trovano. [...] In Mies l’architettura non è mai un monumento. Non lo è nel senso etimologico
della parola monumento: l’opera che si riferisce ricorda qualcosa al di fuori di se stessa, cioè un fatto, un tempo storico, la collettività, alle origini, i valori civili o morali. L’opera d’arte è autoreferenziale perché comincia e finisce in
se stessa e si spiega solo con la sua materialità, la sua fattualità, la sua evidenza. [...] la sua architettura è autoreferenziale. Spiega se stessa e fa della sua presenza l’atto primordiale della sua significazione».
L’assolutezza delle architetture miesiane e la loro individualità sono tradotte e spiegate in modo evidente nel famoso
schizzo di Le Corbusier sulle differenti condizioni posizionali di alcune grandi architetture della storia in rapporto
quasi di intercambiabilità rispetto alle particolari localizzazioni o collocazioni di esse. Gli edifici ad aula di Mies non
si adattano né si mimetizzano nel contesto, ma si costruiscono come oggetti autonomi e solitari a partire dalle relazioni a distanza che essi stabiliscono, trasformano il contesto in luogo dominato e misurato dall’architettura. Nel Kulturforum di Berlino ad esempio, come nel Campo dei Miracoli a Pisa, i corpi ‘puri’ sono poggiati sul suolo naturale
e la qualità dello spazio è determinata dalle relazioni topologiche o ‘prossemiche’ che tali solidi innescano, dalle
loro tensioni reciproche e dal vuoto che è frapposto tra le cose. Lo spazio tra le cose, tra gli oggetti, si conforma attraverso la natura degli elementi visti come ‘corpi in sé’, il loro disporsi e la loro capacità di attrazione o repulsione
relativa. Il vuoto è esso stesso un pieno nel quale si situano i vari manufatti, stabilendo un rapporto analogo a quello
della ricerca artistica contemporanea dove il fondo del quadro diventa esso stesso progressivamente o alternativamente figura.
Le fabbriche di Mies sottendono un’ipotesi di città condivisa con Hilberseimer, dove le architetture civili strutturano non
solo parti urbane consolidate ma anche intere porzioni di territorio e di natura. Tali architetture per il loro carattere di
perentorietà e finitezza e per la loro dimensione multiscalare riformulano le relazioni d’ordine tra la città, il suo entroterra e la natura.
Le architetture civili di Mies sviluppano tutte il tema della coincidenza tra edificio pubblico e Aula senza mediazione
alcuna. «Il carattere specifico delle sue architetture è la loro grande apertura, che li relaziona direttamente allo spazio natura e rende possibile osservare e denunciare le attività umane e civili che vi si svolgono senza il tramite di segni
architettonici o di parti aggiunte»12. La tendenza all’apertura non impedisce, in alcuni casi, quando il tema e la ragion pratica lo richiedono, di costruire dei sistemi di confinamento che selezionano nell’edificio ciò che è giusto mostrare o attraversare e ciò che è giusto celare perché il senso dell’edificio richiede raccoglimento: e non mi riferisco
agli elementi tecnici addensati all’interno o sistemati nelle parti basamentali quanto piuttosto alla specialità delle attività che attengono al significato e alla destinazione del manufatto. Sono paradigmatici il Ginnasio e la Cappella dell’IIT o il recinto della Convention Hall. Nel ginnasio le gradinate sono serrate all’esterno da un basamento leggermente
arretrato dalla parete vetrata in aggetto che lascia intravedere le travi reticolari della copertura. Nella Cappella dell’IIT i lati lunghi sono in mattoni, limitano l’apertura della vetrata di ingresso e celano alla luce l’altare e il presbiterio.
Nella Convention Hall poi, in particolare, il recinto è l’edificio stesso che solo all’attacco a terra offre una relativa
trasparenza. La riduzione operata sugli elementi è connessa linearmente alla riduzione dell’architettura, dell’arte del
costruire, a pochi principî essenziali. Gli elementi o le parti ricavate da questo processo di selezione estrema fisse-
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Nel silenzio del grande spazio sorge non l’anelito a perdersi, ma la speranza di ritrovare se stessi
Rudolf Schwarz1
Credo che l’architettura abbia poco a che vedere con la creazione di forme ‘interessanti’ è un arte oggettiva che nasce dallo spirito del tempo
Mies van der Rohe
ranno il carattere del manufatto. I principî sono di due tipi: spaziali e compositivi. Quelli spaziali diventano la differente interpretazione del vuoto definibile o come un tetto o come un recinto mentre quelli compositivi si sintetizzano
in ordine, proporzione e misura. Le forme con le quali questi edifici si costruiscono dall’interno come dall’esterno
sono sempre riconoscibili e al tempo stesso adeguate al ruolo e alla ragione di ogni manufatto, per Mies «le nostre
strutture utilitarie si trasformeranno in architettura solo quando, soddisfatto il loro scopo, diventeranno strumenti dello
spirito dell’epoca (Zeitwille). Lo scopo [ragione] di un edificio è il suo reale significato. Gli edifici di tutte le epoche
hanno assolto a dei compiti, a compiti reali. Questi compiti, tuttavia, erano diversi per tipo e carattere. Lo scopo era
sempre decisivo per l’edificio. Esso determinava il sacro e il profano»13, il problema del valore è decisivo, «noi dobbiamo porre nuovi valori»14.
Mies, dal Teatro di Mannheim alla Biblioteca dell’IIT, sino al Museo di Berlino, adoperando una procedura compositiva di tipo sintattico, produce una profonda erosione/riformulazione del tema dell’edificio pubblico, al pari di
quanto era avvenuto da parte degli architetti illuministi. Come ricorda Frampton «Analogamente a Viollet le Duc, Mies
considerava il “grande spazio” come la testimonianza definitiva del livello raggiunto da una data civiltà»15. Le aule
di Mies si pongono quindi come nuove architetture civili per rappresentare le società democratiche. Nell’affrontare
la descrizione degli edifici ad aula di Mies sembra opportuno, ripercorrendone il regesto dei progetti e delle realizzazioni, segnalare quelle opere, che pur non riguardando strettamente edifici pubblici, ne anticipano alcune soluzioni
sia sul piano linguistico che compositivo. Tale necessità muove dalla convinzione che in tutta l’opera di Mies si possa
rintracciare una coerenza ricorsiva e un’ostinazione davvero impressionante nel continuo riproporsi di alcuni temi. In
altri termini, si può affermare che ogni progetto riassume e ‘supera’ i precedenti, spostando sempre più avanti il grado
di perfezione delle sue architetture e manifestando una linea di ricerca che nel suo sviluppo avrà, con successivi accorgimenti e senza ripensamenti, un approdo assolutamente consistente con le premesse. La meditazione continua e
ostinata di Mies sulla precisazione delle soluzioni di dettaglio - da cui l’aforisma ripreso da Flaubert e Warburg «Dio
sta nei particolari» - è confrontabile [della stessa natura] con la ricerca più generale verso definizione degli elementi
e sui tipi che li devono sintetizzare, in una ‘tensione’ sempre nuova ma sempre profonda verso l’essenza (ousia) delle
cose. Il lavoro sul dettaglio non è mai slegato né potrebbe esserlo dal sistema generale. Nel progetto, epistemologicamente, l’approfondimento delle soluzioni del particolare rimette ogni volta in gioco l’equilibrio compositivo generale: la dote necessaria dell’architetto sta nel prevedere o vincolare la perturbazione prodotta localmente da una
soluzione particolare sull’intero manufatto. Mies governa il particolare verificando e assicurandosi della sua consistenza
logica con i principî compositivi che regolano l’intero sistema, un tutto (holos) che non è mai la mera e meccanica
sommatoria delle sue parti.
Le prime opere di Mies risentono del portato del Novembergruppe e di tutta la poetica espressionista. Nel Monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg alla perfetta costruzione e tessitura muraria fanno da contrappunto i disassamenti e le rientranze dei volumi, come pure nei bellissimi disegni per le torri di Friedrichstrasse dove, nelle
facciate poliedriche o curvilinee, si riflette e si giudica la convenzionale città ottocentesca che aveva omologato le
differenze e si era costruita indifferente rispetto alle identità dei luoghi.
Ludwig Hilberseimer nel suo L’architettura a Berlino negli anni Venti rappresenta in modo chiaro la tensione e gli scontri che in quegli anni fecero spaccare il fronte espressionista di Scharoun, Mies, Gropius, Taut contrapponendolo alla
nascente tendenza della Neue Saclickeit (nuova oggettività) attorno alla quale si ritrovarono coloro che saranno i maestri riconosciuti del razionalismo architettonico.
Gli ‘elementaristi’ - e primo tra tutti Mies - produrranno una selezione ed elementarizzazione delle forme dell’architettura attraverso le forme della costruzione come nel ‘rasoio di Occam’ in cui, se si deve scegliere tra due spiegazioni, di norma si dovrebbe scegliere la più semplice (non la più ovvia) escludendo ciò che è complesso o per meglio
dire ‘complicato’16. Come sottolinea Hilberseimer «La necessità di plasmare una massa eterogenea, spesso gigantesca di materiali, secondo una legge formale che sia valida per ciascun elemento, comporta una riduzione della
forma architettonica all’essenziale, al necessario, al generale, cioè una riduzione alle forme geometriche cubiche,
che sono gli elementi fondamentali di ogni architettura. E qui assume tanto maggior rilievo quella che è la qualità essenziale dell’architettura: il senso dei volumi e delle loro proporzioni, la capacità organizzativa. Plasmare grandi
masse secondo una legge generale, dominando la molteplicità, è ciò che Nietzsche intende per stile. Il caso generale, la legge sono venerati e posti in primo piano, l’eccezione invece è messa da parte, la sfumatura cancellata,
trionfa la misura, il caos è costretto a diventare forma, una forma logica, inequivocabile, che è matematica e legge»17.
È con il progetto della Casa in mattoni del 1923 che Mies, mutuando ricerche De Stijl, si allontana dai suoi ‘necessari’ e ‘mai sopiti’ esordi espressionisti, approdando a un’elementarizzazione, a un neoplasticismo scarno fatto di piani
e di pareti in mattoni di varie lunghezze variamente disposte che si prolungano da un centro, quasi a voler proiettare
l’interno della casa verso lo spazio natura. A tal proposito è interessante il confronto con i contemporanei studi di Theo
van Doesburg (Ritmo di una danza russa) o di Mondrian. Tuttavia il confronto, le affinità o la presunta derivazione di
strutture formali dalle avanguardie figurative vanno attentamente ponderati e non sopravvalutati: il rapporto con le avanguardie può essere costruttivo solo se è filtrato dalle specificità disciplinari ed è tanto più fecondo se temporalmente
limitato alle fasi di rivolgimento stilistico. Le tesi dell’avanguardia vanno ridiscusse sub specie architetturae, pena la
gratuità delle forme ‘derivate’ da un loro trasferimento acritico. Non è un caso che Mies abbia negato, anche nel
periodo del Novembergruppe, qualsivoglia influenza da parte degli artisti a lui contemporanei, primo fra tutti Mondrian. L’avanguardia, per sua stessa natura, quando si realizza in opere costruite, perde la sua carica rivoluzionaria
e al più, nel migliore dei casi, può generare una nuova tradizione (del moderno). Perché l’ansia di novità in sé non
produce innovazione, cioè avanzamento della conoscenza18.
Nel Padiglione di Barcellona del 1928 le pareti non sostengono più le lastre del tetto ma, ridotte di spessore, servono solo a ripartire lo spazio o a cingere gli spazi esterni assieme alle pareti di vetro. Il sostegno della copertura è
affidato a una teoria di esilissimi pilastri cruciformi in acciaio cromato, quasi invisibili, anche per la loro lucentezza
e riflettenza, ma che in definitiva stanno a punteggiare l’ordine compositivo che legittima e consente il posizionamento
o lo slittamento delle pareti in marmo che frequentemente non raggiungono il soffitto. Vi è un‘ipotesi di spazio mai
visto nell’architettura sino ad allora, vi è l’ordine costruttivo-compositivo, vi è il tetto, il recinto semiaperto, vi sono le
pareti opache o trasparenti: tutti questi elementi non si sovrappongono mai, le parti dell’edificio si discretizzano, si
passa, come direbbe Le Corbusier, dal Plan Paralysé al Plan Libre. Una plan libre ancora più vero e spiazzante di
quello di Corbù ma pur sempre vincolato dal sistema cartesiano della costruzione in cui, con le parole di Mies «la
pianta flessibile e la costruzione chiara non sono separabili l’una dall’altra, […] la struttura è la spina dorsale dell’insieme senza la quale la pianta non sarebbe libera ma caotica e bloccata»19. Non si dà pianta libera senza vincoli, senza disciplina, la libertà non può esistere al di fuori di un ordine regolativo. Il Padiglione, che rimanda all’idea
di casa, è pur tuttavia un edificio pubblico nell’accezione di voler riflettere, rappresentare una istituzione o, in questo
caso, una nazione. Ancora una volta, come osserva Martí Arís, il «Padiglione di Barcellona può essere descritto
come una piattaforma disposta sopra un basamento, che si chiude mediante un muro di cinta e si copre parzialmente
mediante un portico. Basamento, recinto e portico sono dunque i principali elementi dell’architettura del Padiglione»20.
Queste tecniche di giustapposizione o accostamento degli elementi verranno riprese in vari progetti di quegli anni
quali la Casa Tugendhat del 1930, in cui l’articolazione interna per piani e per punti è ricomposta all’esterno con
volumi stereometrici sovrapposti e affacciati alla natura. Il concorso, ancora degli stessi anni, per un monumento ai
caduti nella Neue Wache di Schinkel, dal significativo titolo “Raum”, con la presenza di un grande vuoto confinato
da pareti in marmo di Tinos con al centro una grande urna dedicata ai morti (Den Toten), preannuncia, a scala ridotta, gli spazi assoluti degli edifici pubblici successivi. Il progetto di una Casa a tre corti del 1934, pur utilizzando
il sistema sostegni-pareti, manifesta, nella sua volontà di cingere una porzione ben definita di spazio natura, un atteggiamento complementare e inverso a quello della Casa in mattoni. Definito il recinto, la porzione di suolo della
casa, il problema è articolare i luoghi dell’abitazione in senso gerarchico rispetto a questo suolo. Le tre corti sono
l’affaccio di differenti parti della casa e di queste solo il soggiorno si apre sia sul grande patio di ingresso sistemato
a giardino sia su quello retrostante lastricato. Questo è un progetto importante per due aspetti: sotto il profilo distributivo Mies riesce, nell’articolazione delle pareti con funzioni di schermo, a definire e a separare i locali tecnici della
casa da quello rappresentativo del soggiorno e da quello intimo dell’enorme stanza da letto nascosta dietro una parete di onice o da un dipinto di Braque; è uno dei primi progetti nel quale Mies adotta esplicitamente un sistema di
proporzionamento di tipo aureo in cui il lotto e le tre corti sono misurati da un tracciato regolatore molto attento. Le
varie parti della casa non sono affatto casuali nella loro forma, dimensione e posizione.
La partenza per gli Stati Uniti, nel 1938, segna una svolta nella produzione di Mies: il nuovo mondo gli consente di
esperire realmente le intuizioni che aveva elaborato in Germania, e rappresenterà la maturazione compiuta (Acmè)
della sua ricerca sull’architettura.
Il Museo per una piccola città del 1942, elaborato su invito della rivista “Architectural Forum”, rappresenta in tal senso
uno snodo importante. Infatti, in questo progetto, Mies adotta un sistema di piani in successione e di piedritti disposti secondo maglie quadrate in cui alla grande e sottile copertura rettangolare continua - che presenta una piccola
corte aperta per due lati alla natura - fanno riscontro due patii semichiusi disposti sui lati corti. Al di sotto del tetto,
che si prolunga sino a lambire uno dei patii, trovano posto forme libere che contengono i vari padiglioni, un piccolo
auditorium, e la parte espositiva definita da pareti slittate. Significativamente la planarità del tetto viene interrotta da
due travi reticolari estradossate necessarie per assorbire l’amplificazione dei moduli strutturali in corrispondenza dell’auditorium. Questa variazione, anche se denuncia e descrive all’esterno una parte eccezionale del manufatto, d’al-
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tro canto manifesta chiaramente la difficoltà di coniugare il reticolo cartesiano omnicomprensivo con la presenza di
ambienti di dimensioni e ruolo eccezionali.
Il dissidio tra l’Aula e il reticolo modulare-costruttivo viene in parte composto nel progetto, purtroppo non realizzato,
per la Biblioteca del Campus dell’IIT. L’edificio si costruisce attorno all’Aula occupata interamente dai libri (o per meglio dire allo scrigno dei libri) cui corrisponde in negativo il patio scoperto di analoghe dimensioni. Attorno a tali vuoti
si accostano le sale di lettura regolate da un sistema di appoggi puntiformi che si iterano longitudinalmente. Nella
Biblioteca, l’Aula viene ricavata all’interno di un sistema periferico che non ne consente la ricezione immediata. I caratteri esterni, distinti sui vari fronti, non la denunciano in maniera univoca. Il sistema costruttivo adottato è sostanzialmente iterativo, la modularità organizzativa di 24 piedi è ancora troppo angusta per determinare la possibilità
di uno spazio continuo rappresentativo per cui, in corrispondenza dello spazio centrale, i partiti strutturali sono ‘celati’ da una parete continua. Ciò non toglie che, in generale, la regola metrica e proporzionale rappresentata dalla
griglia «pone alla ragione dei limiti, aprendo allo stesso tempo alla libertà la dimensione del possibile». Il reticolo infatti non impedisce, attraverso opportuni accorgimenti scalari, di assorbire l’eccezionalità delle parti rappresentative
che possono trovare una loro chiara distinzione e individualità all’interno del manufatto.
Caso abbastanza isolato nella produzione di Mies è la Cappella all’IIT (1952) ove, assecondando la necessità di
proteggere il luogo destinato alla meditazione e alla preghiera, Mies si appunta essenzialmente sulla definizione di
un volume parallelepipedo estremamente scarno in cui la soluzione del tetto non è significativa se non come decoro
interno. La Cappella di Mies, fin dalla scelta della figura planimetrica affidata a un rettangolo aureo ≈5/8 e del proporzionamento in alzato secondo il rapporto 1/2, si pone come un vero e proprio teorema compositivo esatto e conciso, apodittico nelle regole che propone. Come in altri casi, Mies erode profondamente il tema assolutizzandolo ma
rendendolo sempre conoscibile e comprensibile. La riduzione all’essenziale, a pochi e semplici elementi, produce architetture apparentemente dissacranti della tradizione e delle forme del già noto ma che, a ben vedere, ripropongono
una riflessione sapiente e raffinata, nova sed antiqua, sui principî universali della classicità. In questo piccolo edificio, intriso (come quelli di Schwarz) delle letture e della filosofia di Guardini e così vicino nelle proporzioni generali
alla Neue Wache di Schinkel (per il quale Mies come si è detto aveva progettato una bellissima sistemazione a sacrario), il luogo sacro ‘avviene’ e si ‘manifesta’ all’interno di un unico ambiente indiviso così come era stato agli
esordi del cristianesimo. Il volume in muratura portante, completamente cieco sui lati lunghi, richiede un trattamento
molto austero. La Cappella, nelle parole di Mies, «ha un aspetto nobile, è costruita con materiali buoni ed ha buone
proporzioni. Troppo spesso noi pensiamo all’architettura in termini spettacolari. In questa Cappella non c’e nulla di
spettacolare […] si voleva che fosse semplice e di fatto è semplice. Nella sua semplicità non è rozza, è invece nobile e nella sua piccolezza è grande: di fatto è monumentale»21. Il rapporto con l’esterno-natura è affidato alla sola
vetrata d’ingresso serrata dai risvolti delle pareti longitudinali, quelle che erano le parti costituenti della Cappella
sono ridotte a elementi diafani non ulteriormente elidibili ma pur sempre carichi di un’espressività ed evocazione del
sacro. «Tutto ormai è compiuto», scompaiono quegli elementi non decisivi alla definizione del tema della chiesa,
come il nartece o il transetto mentre vengono assolutizzati o reinterpretati quelli determinanti. L’assemblea dei fedeli
e il complesso del presbiterio, con l’altare e il tabernacolo posti su di un podio, hanno come fondale ieratico un semplice e candido tendaggio, così colto nel rimandare agli antichi retables o al conopèo posto a schermo del tabernacolo, e che al tempo stesso conclude la direzionalità del popolo dei fedeli in un’abside omessa’ intrisa di misticismo,
pressoché immateriale nella sua consistenza e per questo più adatta a riflettere l’ascesa al divino e a sorreggerne il
simbolo. Le parti accessorie come i confessionali e una piccola sacrestia sono significativamente raggruppati e condensati oltre questo limite invalicabile22. L’altare e la tenda con la croce si possono osservare dall’esterno, così come
può essere ‘vista’ l’intera assemblea dei fedeli denunciando con tale espediente il tema svolto.
Lo studio di Peter Carter - aveva collaborato con Mies prima come laureando e poi nel suo studio a partire dal 1958
sino al 1968 - sollecitato dallo stesso Hilberseimer e intitolato: Mies van der Rohe at Work, rappresenta il primo contributo, quasi esaustivo in termini documentari, dell’opera di Mies successiva alla sua venuta in America nel 1938 in
qualità di Direttore della Facoltà di Architettura dell’IIT. È un testo importante sia perché è stato redatto a partire dall’osservazione diretta del modo di lavorare di Mies, sia perché tenta una prima sistematizzazione della sua produzione americana utilizzando un metodo descrittivo non di tipo storico-critico ma essenzialmente interpretativo/
compositivo. Una interpretazione analitica dell’opera più matura del maestro di tipo ‘formale e costruttivo’ e non banalmente figurativa. La Biblioteca, la Cappella e il Museo, cui si è accennato assieme agli altri progetti che Mies concepì dopo la sua partenza per gli Stati Uniti, saranno classificati da Carter23 nei tre tipi: High-rise skeleton frame
buildings (edifici alti con struttura a scheletro), Low-rise skeleton frame buildings (edifici bassi con struttura a scheletro), e Clear span buildings (edifici con struttura senza appoggi interni), categorie che modificheranno, raffinandole,
le tecniche compositive da lui utilizzate in Europa. Nella distinzione tassonomica operata da Carter, come sottolineato
da Carlos Martí Arís, si verifica la coincidenza tra la tipologia strutturale e il tipo architettonico, partendo dal presupposto che in Mies la scelta costruttiva, una volta irreggimentata da un controllo proporzionale, definisce direttamente la struttura formale recuperando in modo inedito, attraverso elementi discreti, il rapporto di necessità tra
organizzazione spaziale e assetto tettonico. Come in Wittgenstein «la forma è la possibilità della struttura»24. La ricerca della semplicità dell’espressione formale e dell’esattezza della costruzione garantiscono la riconoscibilità e la
condivisione dei valori contenuti nelle sue architetture.
Nell’opera americana di Mies progressivamente si passa, con grande determinazione, dal reticolo discreto dei sostegni disposti su maglie ordinate, dai piani-parete e dal tetto-lastra a un’ipotesi conformativa ancor più radicale: i
sostegni vengono portati all’esterno, la copertura diviene un piano continuo potenzialmente infinito, l’edificio così è
completamente aperto all’esterno o meglio contiene una sezione ‘particolare’ della natura. L’obiettivo di Mies, in tutti
questi progetti, è di realizzare con le forme dell’architettura, attraverso le necessarie scelte costruttive, ancora una volta
l’idea archetipica di ‘spazio universale’, cioè di uno spazio a-dimensionale o per meglio dire multiscalare quasi privo
di massa, completamente aperto e attraversato dalla natura o dai contesti urbani in cui questi edifici si collocano, realizzando sub specie architetturae quella ‘vertigine del vuoto’ tanto presente nelle opere di Malevic̆. Queste architetture contengono solo spazio sgombrato in cui si rappresentano le attività umane in cui è possibile «vivere in stato di
libertà» (Tommaso d’Aquino).
Il primo progetto nel quale si sperimenta in termini astratti lo ‘spazio universale’ è la Concert Hall del 1942, che sembra isolare, assolutizzandolo, il piccolo teatro contenuto nel Museo per una piccola città. Gli elementi del teatro vengono sintetizzati in piani diafani, sospesi nel vuoto e significativamente montati in un famoso collage all’interno della
fabbrica di aeroplani di Albert Kahn: volendo in questo ‘prestito’ rimandare a successivi approfondimenti il problema
costruttivo.
La Casa Farnsworth del 1945 rappresenta una prima verifica di tali intuizioni: le pareti si addensano in un volume
tecnico, i pilastri dipinti di bianco sono proiettati all’esterno e sostengono sia il pavimento, sollevato dal suolo, che
la copertura, la parete vetrata perimetrale non determina volume, la natura è il vero sfondo di questa prima Aula. La
casa si basa su alcuni principî chiaramente espressi «semplicità di costruzione, chiarezza dei significati tettonici e purezza del materiale saranno elementi della nuova estetica». È interessante la successione delle piattaforme che dal
suolo naturale man mano si artificializzano e si sollevano dal suolo. Si passa così dal primo ripiano di poco sollevato dal prato (scoperto-aperto) alla loggia d’ingresso (coperta-aperta) sino alla casa (coperta-chiusa). Come ha osservato Carlos Martí Arís25, la Casa Farnsworth è solo accidentalmente una casa, mentre il Padiglione di Barcellona
è in effetti una casa.
La Casa Caine di quegli stessi anni è forse più ambigua di Casa Farnsworth in quanto presenta file di sostegni sia
sui bordi che al centro della copertura. È nel 1950, con la casa 50 x 50 e le sue varianti dimensionali (15x15 e
18x18 metri), che il tema dell’apertura completa verso l’esterno e della perdita del volume viene messo a punto facendo per la prima volta ricorso al quadrato come forma planimetrica. La copertura cassettonata (8 moduli x 8 moduli) è sostenuta da soli 4 pilastri disposti nel centro di ogni lato. Anche qui le pareti tendono a condensarsi in un
nucleo tecnico e pur tuttavia vi sono due mobili-parete liberi con funzione di schermo al pranzo e al letto.
Il progetto non realizzato per la Sede della Bacardi a Cuba (1957), per la consistenza delle elaborazioni/variazioni,
sondando differenti se non opposte soluzioni costruttive e figurali, rappresenta nella sua forma definitiva la fondazione
di un nuovo tipo d’Aula a pianta centrale e una nuova sintassi degli elementi messi in gioco. Infatti da una prima soluzione rettangolare con pilastri sul contorno in corrispondenza dei moduli costruttivi a meno degli angoli, subito scartata da Mies, si passa a uno schema quadrato con solo otto appoggi centrati sui lati. Contemporaneamente fu
considerato un numero molto grande di alternative, da quella con due travi estradossate su pianta quadrata o rettangolare, a quella a portali paralleli sino a una versione molto simile a quella già indagata nella Convention Hall
(1953). Anche le soluzioni di appoggio riceveranno una estrema raffinazione da alcune varianti molto espressive: a
mezza luna o a setti binati fino a pilastrature a ombrello incastrate al colmo e incernierate alla base. Preliminarmente,
per la vicinanza del mare e per le condizioni di caldo umido, viene escluso l’uso dell’acciaio e allo stesso tempo l’uso
non protetto di vetrature continue. Il tema dell’edificio è quello della sede rappresentativa di una grande compagnia
di liquori che, nelle stesse richieste del committente, doveva contenere uno spazio indiviso libero da ‘ostruzioni’ visive. Nella Bacardi Mies riprende il tema formale dell’Aula quadrata a cassettoni completamente aperta all’esterno
ma con un’importante innovazione: la parete vetrata non è a filo di copertura ma si arretra determinando una sorta
di portico di mediazione. L’individuazione di questo luogo esterno che circonda l’intero edificio (peràs) conferma, secondo Arís, il carattere periptero delle architetture miesiane26 e il suo referente archetipico del Tempio, ribadito dalla
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relazione tettonica tra le colonne (come egli stesso amava chiamarle) e il fronte del tetto. Tale relazione è analoga,
confrontabile, ma a ben vedere non coincidente, con quella che sussiste tra la ripetizione dei triglifi e delle metope,
qui omesse, e la testa delle colonne, qui prive dell’echino. La relazione è attinente soprattutto alle corrispondenze proporzionali tra le scansioni del tetto (non più architrave), la sua altezza e le colonne. Le forme, come i materiali, sono
cambiati: quello che non muta è la necessità di costruire relazioni stabili tra elementi composti secondo una regola
evidente. I pilastri cruciformi, posti a filo della copertura, sono leggermente rastremati verso l’alto per alloggiare le
cerniere sferiche che li collegano alla lastra di copertura. Il fronte della copertura è ritmato dalle teste delle travi che
ribadiscono il modulo organizzativo. A questo proposito si è parlato forse impropriamente di un ‘ordine miesiano’.
Tale affermazione è imprecisa per due aspetti. In primo luogo l’ordine è qualcosa di normativo che genera un metodo di composizione fisso; in Mies ogni problema viene continuamente riformulato ancorché ricondotto a un archivio di materiali selezionati e distillati nel tempo attraverso continui affinamenti. In secondo luogo l’ordine determina
una struttura formale abbastanza ferrea in cui le variazioni sono minime, gli elementi in gioco e le forme che li devono rappresentare sono fissi; in Mies l’espressione formale invece è sempre condizionata dal materiale e dal ruolo
sintattico dell’elemento riguardo al tutto, non produce né può produrre - a valle - una riproduzione acritica delle forme
che egli stesso ha individuato. Paradigmatica in questo senso è la ‘variazione continua’ rappresentata in uno studio
per i pilastri della Bacardi e poi nel Museo Schäfer in cui al variare del materiale variano sensibilmente le forme, le
dimensioni e le proporzioni degli elementi indagati, spiegando, come sarà chiaro in seguito, la ragione dell’articolazione formale dei sostegni isolati tra la Bacardi e la NNG, tra la Convention Hall e il Padiglione di Toronto. La soluzione della copertura 54x54 metri consiste in una piastra nervata in cemento armato precompresso ottenuta
dall’incrocio di travi a sezione variabile scalettate per avere la massima inerzia (flessionale e torsionale) al centro della
piastra e disposte su una griglia di 18 moduli x 18 moduli poggiata in solo 8 punti con due pilastri per lato a intervalli di 5-8-5 moduli. La posizione dei pilastri, come aveva intuito Mies fin dai primi disegni sul comportamento della
piastra, è l’ottima per avere momento flettente minimo e deformata minima al centro della piastra, coincide anche con
rapporti aurei, secondo lo sviluppo intero della successione di Fibonacci27, e rimarrà inalterata in altri progetti che riprenderanno lo stesso schema. La deformata della piastra conseguente a tali condizioni di appoggio è sorprendentemente analoga - per gli stati di equilibrio tensionale interno che si innescano - a quella di una piastra poggiata in
maniera continua su tutto il contorno. La deformata assume la caratteristica forma dello sferoide capovolto che sottolinea ancora una volta la centralità dell’edificio e dello spazio interno che delimita.
L’Aula bianca è poggiata su un blocco basamentale che contiene gli archivi, gli uffici e i locali tecnici. Al piano principale sono collocati i locali di rappresentanza e gli uffici ripartiti dalle consuete pareti variamente disposte ma conformi al modulo organizzativo generale di 1x1 metro. Gli unici elementi conformativi interni al piano del podio sono
due pareti basse disposte tra loro ‘normalmente’ che stabiliscono una tensione topologica con il setto monolitico degli
impianti e rimandano ai semi-recinti che definiscono la sistemazione esterna. Ancora una volta questi elementi diafani risultano fondamentali nel loro disporsi e nella possibilità di essere traguardati dall’esterno per conferire il carattere conforme all’edificio manifestandone con chiarezza la distinzione e identità tematica. In questo progetto inoltre
è interessante notare che l’Aula vera e propria, delimitata dalle vetrate, presenta un controsoffitto che maschera le strutture a sezione variabile della copertura, giudicate troppo grevi e discontinue al punto da compromettere l’unitarietà
dello spazio continuo sottostante.
Nel 1960 Mies è incaricato di redigere un progetto per un Museo a Schweinfurt in Germania per accogliere la collezione Schäfer. Nelle prime versioni del progetto si prevedeva una copertura poggiata su sedici pilastri orditi secondo
una maglia 3x3, tre esterni per lato e quattro al centro, che definivano un volume compatto senza sbalzi laterali. Il
Museo al centro presentava una corte interna, anch’essa quadrata, che connetteva il piano di ingresso con quello
interrato. Tale soluzione, che pure risolveva il programma funzionale, fu giudicata troppo ovvia e poco espressiva:
tal che la soluzione definitiva che Mies propose è del tutto simile al progetto per la Bacardi che giudicava ormai una
sorta di ‘prototipo’. L’assolutezza di questo spazio può consentire diversi utilizzi, dall’esposizione di opere d’arte alla
sala per concerti, non intaccando minimamente l’autorità delle forme che propone. A Schweinfurt la struttura invece
di essere in calcestruzzo armato come a Cuba è in acciaio brunito a sezione costante e le colonne, anch’esse in acciaio, sono composte da due profilati IPE incrociati. Ancora una volta, all’interno dell’Aula, la nervatura del tetto è
mascherata da un controsoffitto piano, per il passaggio degli impianti e per l’alloggiamento di pennellature acustiche, e il basamento è ridotto a un semplice piano di posa lastricato. I problemi tecnici e rappresentativi posti dal
Museo Schäfer e dalla Bacardi, come si vedrà di seguito, verranno risolti e riformulati a Berlino nella Neue Nationalgalerie.
Il progetto, sorprendentemente poco indagato, per l’Home Federal Saving and Loan building (Cassa depositi e pre-
stiti federale) a Des Moines (1960-63), opera ‘manierista’ nella migliore accezione del termine, realizza una difficile
mediazione tra il piccolo Cantor Drive-in (l’ante-fatto) ed il grande Teatro di Mannheim (il fatto), proponendo un avanzamento di entrambi sia in senso rappresentativo che costruttivo. Anche in questo caso viene riformulato il tema dell’edificio: la banca, quando diviene istituzione pubblica, non è più uno scrigno impenetrabile e inconoscibile. L’edificio
pubblico, come nelle torri a piano terra, in tutta la sua estensione è completamente trasparente da terra al soffitto: gli
unici elementi che interrompono tale attraversabilità sono i nuclei marmorei dei montacarichi per l’intera altezza e le
due coppie di scale che servono la galleria. In questo caso i monoliti che collegano la parte del piano di ingresso
con il mezzanino degli uffici e con il caveau interrato, nel loro trattamento nobile e nella loro ieraticità dichiarata, rimandano in maniera sintetica alla ragione ‘preziosa’ del manufatto. Viene recuperata una relativa centralità dell’edificio a base rettangolare attraverso il ricorso a un rapporto di pianta 2/3 (un quadrato più ½) ottenuto con dei
moduli quadrati 24x16 che mitiga l’eccessiva longitudinalità del Mannheim e mediante l’introduzione di un piano
mezzanino, una sorta di loggiato costruito attorno a una corte interna, già indagato in una versione iniziale per la
Crown Hall e nell’edificio per la compagnia Bacardi in Messico28 (1957-61), che delimita lo spazio interno realizzando un vuoto centrale a doppia altezza. Inoltre tali rapporti di pianta consentono un uso dei due cavalletti reticolari (come nel Cantor Drive-in) in senso normale agli ingressi contrapposti che (come nel Mannheim) sono serrati da
due setti marmorei che si arretrano rispetto al volume sospeso definito dal mezzanino.
Dal punto di vista costruttivo, pur lavorando sull’aporia di ordire le travature principali nel senso della maggiore estensione al pari del Drive-in, si recupera un’uniforme distribuzione del carico su ogni cavalletto al punto da far ruotare
anche la direzione di inerzia prevalente sia dei pilastri che dei profilati della reticolare anche per avere sui pilastri
un profondo effetto chiaroscurale determinato dall’ombra delle ali sull’anima del profilato. Il piano del mezzanino è
in parte sostenuto dai setti continui longitudinali e in parte dai nuclei degli ascensori che svolgono anche una funzione
conformativa orientando il vuoto centrale, cinto dal mezzanino aggrappato alla lastra di copertura dalla sequenza
dei montanti verticali di facciata. Il vuoto è perfettamente centrato sulla figura generale e, riducendone l’estensione
di tre moduli sui lati corti e di cinque su quelli lunghi, risulta avere una proporzione di ≈1/√2 (10 x 14 moduli) che
rappresenta un raffinamento della figura principale. Tale rapporto dinamico determina la forma della doppia altezza
centrale per riduzione e allo stesso tempo la figura generale dell’edificio per accrescimento geometrico, in una progressione armonica di sorprendete semplicità ed equilibrio. Allo stesso modo il rapporto tra la posizione dei cavalletti, il loro interasse e gli sbalzi si fa più esatto: si passa da una proporzione di 1/3 o, considerando il semi-interasse,
di 2/3 (come nella Crown Hall e nel Mannheim) a 3/10 o a quella aurea di 3/5 (assumendo il semi-interasse). In
altre parole, proseguendo nella successione di Fibonacci, ci si approssima sempre di più fino all’infinito mantenendo
però moduli interi (razionali) al rapporto aureo (irrazionale). Questa proporzione consente di riprodurre poi la stessa
ratio del vuoto centrale sul fronte, nel rettangolo 1/√2 che si determina tra i due cavalletti misurati in tutta la loro altezza. La concisione del manufatto, pur essendo direzionato, è estrema, esso non può estendersi indefinitamente. Attraverso l’assetto tipologico, l’evidenza del sistema costruttivo, l’estremo e semplice decoro determinato dai due portali
che dichiarano all’esterno la presenza di uno spazio continuo29, l’edificio recupera all’interno un centro significativo
(l’Aula vera e propria) - pur relazionato all’esterno a vari livelli - intorno a cui gravitano armonicamente le attività che
vi si svolgono e vi si rappresentano.
Nel Chicago Federal Centre (1960) e soprattutto nel Toronto Dominion Centre (1968) si sperimenta un nuovo inedito rapporto tra il tipo ad Aula indagato nei progetti antecedenti con il tipo a torre che aveva subîto parallelamente
lo stesso processo di precisazione e semplificazione a partire dal Seagram, a sua volta preceduto dai Lake Shore
Drive Apartaments. La relazione figurale e volumetrica tra le torri e l’Aula produce una serie di combinazioni e variazioni posizionali che sottendono una lettura molto profonda della città americana. Mies comprende, come nel
Seagram, che la strada americana non è percepita come lo spazio pubblico della città per due ragioni fondamentali: in primo luogo nella downtown per la sua sezione tipica rispetto agli edifici che la bordano, di norma notevolmente verticalizzati rispetto alla loro impronta a terra, la percezione è tendenzialmente orizzontale, e in secondo
luogo per la considerazione che la parte dei grattacieli che è fruibile in senso pubblico è essenzialmente quella basamentale. È proprio nei basamenti, a partire dagli edifici di Sullivan, che si concentrano le attività rappresentative
come la lobby, e non a caso i basamenti vengono investiti del maggiore carattere rappresentativo, soprattutto in termini decorativi e nell’impiego di materiali nobili.
Il basamento è una delle parti della classica composizione delle torri di Sullivan che in relazione al fusto (sistema iterativo degli uffici) e al coronamento definiscono il carattere generale dell’edificio alto che cela in sé un prodigio tecnico. La riformulazione sul tipo a torre operata da Mies produce molteplici e importanti innovazioni di senso. Il
basamento viene eliminato e sostituito da un portico trasparente dal quale senza mediazioni sorge il fusto che diviene
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un volume stereometrico ritmato dalle membrature del curtain wall che svelano il sistema costruttivo metallico operante
all’interno. In luogo del basamento, che accoglieva le attività collettive dell’edificio, Mies propone un piedistallo lastricato che recupera una proporzione accettabile dell’edificio rispetto alla strada e determina uno spazio di relazione
esterno che la città americana non aveva. Tale rivoluzione riesce a essere tanto profonda da incidere sui regolamenti
edilizi di New York consentendo in cambio dell’arretramento dalla strada maggiori altezze a parità di sedime.
Nel Dominion Centre di Toronto, opera realizzata postuma, Mies porta alle estreme conseguenze questa innovazione: il basamento in quanto luogo collettivo si eleva dalla strada e la originaria lobby coperta viene estratta dal
basamento dell’edificio e individualizzata in un corpo autonomo ad aula che si compone al di sopra di questo piano
incontaminato con gli edifici a torre. L’Aula non è più isolata come nelle città europee, come a Berlino, ad esempio,
in cui il problema dell’irregolarità del lotto viene assorbito dal basamento per consentire l’integrità e assolutezza dell’Aula che nella sua trasparenza dialoga a distanza con altri edifici civili e con la città nel suo complesso.
Nella città americana l’Aula deve rapportarsi con gli altri edifici, pur necessari, che la circondano e principalmente
con le torri per uffici che giacciono in pari grado sul basamento civico separato dal caos e dal traffico delle strade.
L’Aula non può essere un tetto che levita, deve configurasi come un volume autonomo massivo, trasparente ma non
inconsistente, per potersi relazionare alla verticalità dei volumi delle torri che a essa si giustappongono. Il significato
di questa operazione è di grande importanza: l’Aula diventa, come nei disegni di Schinkel, una ‘loggia urbana’ dalla
quale osservare non tanto gli altri edifici di scala troppo dilatata ma lo spazio pubblico ‘ritrovato’. Il paesaggio urbano, tendenzialmente informe come nella natura (a-peiron), per essere conoscibile deve essere ricondotto a un ordine misurabile, deve essere inquadrato cioè reso ‘idilliaco’ (incorniciato) come in Lukács in cui «l’uomo si contrappone
alla natura come potenza autonoma»30. Si tratta di un grande riparo ‘finito’ potenzialmente traforato dal quale osservare la città. Lo ‘spazio universale interno’ dell’Aula ha il suo equivalente nello ‘spazio universale urbano’ del
piano pubblico31. Tale necessità di costruire una pergola urbana aperta confligge però con l’esigenza di avere una
copertura continua di notevoli dimensioni. La soluzione tecnica del tetto, nel padiglione di Toronto, pensato come una
piastra nervata del tutto analoga a quella di Berlino ancorché incastrata puntualmente su tutto il contorno, non consente qui la realizzazione di un sistema di lucernari. Infatti la piastra superiore, qui in lamiera grecata, date le notevoli sollecitazioni flettenti, non è più solo compressa ma soggetta a momenti anche negativi e ciò, assieme alle
necessarie canalizzazioni impiantistiche, impedisce una sua agile foratura all’estradosso. Mies, per risolvere tale problema, porta avanti il discorso della decorazione in modo del tutto analogo, concettualmente, al rapporto tra la struttura in acciaio - annegata nel getto protettivo di cemento - delle torri e degli edifici bassi con il sistema di
‘rappresentazione’ dell’atto della costruzione. Mies decide di sostituire i lucernai con dei diffusori artificiali sospesi
alla copertura che occupano esattamente i lacunari tra le ali inferiori delle travi. Queste variano significativamente di
larghezza ispessendosi verso il centro secondo una progressione costante di 3/2 determinando un’anamorfosi di una
sfera proiettata (prodotta dalla pressione di una sfera su un graticcio) nel piano, congruente con il regime deformativo. Questi corpi illuminanti realizzano all’interno una sensazione di trasparenza che smaterializza la copertura e la
riduce all’incrocio delle putrelle divenute fasce opache tra campi di luce, eliminando l’effetto di grevità del tetto a cassettoni. Ma l’operazione all’interno dell’Aula non è sufficiente, è necessario trovare una nuova decorazione adeguata
per l’esterno superiore del tetto - la quinta facciata rappresentativa dell’edificio - partendo dalla constatazione che la
città americana, oltre alla condizione bassa dei basamenti, consente una ricezione simultanea dall’alto dei roof o
anche degli n-piani di cui sono composte le torri. Il tetto non è più visto solo dal basso ma deve offrire un carattere
distintivo anche dall’alto. Mies a questo punto decide di rivestire, o meglio di tassellare, l’estradosso della copertura
con grandi formelle di vetro bianco a massello non trasparente intervallate da giunti elastici in neoprene che ribadiscono l’organizzazione costruttiva sottostante. Il sotto è analogo al sopra, direbbe Cacciari «esercizio teoretico maxime». Sono tali nobilissime formelle che risolvono una limitazione tecnica in arte a determinare il carattere
rappresentativo dell’Aula conferendogli una forza espressiva addirittura più intensa delle torri che la circondano.
Come si è visto le soluzioni tecniche e i principî spaziali sperimentati a scala ridotta in Casa Farnsworth e nella casa
50x50 rappresentano il paradigma formale e costruttivo dei grandi edifici collettivi ad aula continua. Dalla Casa Farnsworth, costruita sul principio del telaio ripetibile, deriveranno, passando per il Cantor Drive-in del 1946-47 a Indianapolis (nel quale per la prima volta le grandi travi della copertura sono denunciate all’esterno), la Crown Hall,
il Teatro di Mannheim e l’Home Federal Saving and Loan building. Dalla casa 50x50 discenderanno, attraverso successive riformulazioni e innovazioni, la sede della Bacardi, il Museo Schäfer e infine il Museo di Berlino con la variazione del padiglione di Toronto. Dalla suggestione spaziale dell’interno ‘continuo’ della Concert Hall deriverà in
maniera diretta la Convention Hall.
Queste strette relazioni tra progetti anche diversi per ruolo, per senso e collocazione vengono riaffermate e denun-
ciate - anche in modo compiaciuto - nelle tavole comparative che Mies fa predisporre dal suo studio. Vengono ridisegnati alla stessa scala i tre progetti analoghi per Cuba, Schweinfurt e Berlino, distinti per forma e sistema costruttivo, con l’indicazione in pollici e in metri delle variazioni dimensionali che sottostanno allo stesso principio
proporzionale che lega i vari elementi in modo stabile. La dimensione modulare della griglia varia da 2 a 3,6 metri
e la grandezza del tetto da 54 a 64,80 metri, lo spessore del tetto da 1,50 a 1,80 metri, l’altezza libera interna
da 7 a 8,40 metri. Le proporzioni degli elementi rimangono fisse, lo spessore della copertura è sempre 1/36 della
luce massima tra gli appoggi ed 1/10 rispetto allo sbalzo (1:1:60), allo stesso modo dello spessore della copertura
rispetto all’altezza della colonna (1:4:67). Va sottolineato che la soluzione costruttiva e formale è la stessa pur essendo
differenti i temi affrontati: questo a conferma del fatto che la sola scelta costruttiva non definisce in modo univoco il
tema, se non intervengono il principio del decoro, che determina il carattere, e un’accentuazione denotativa di alcuni elementi o parti specifici del manufatto.
In definitiva si può affermare che ogni edificio pubblico o rappresentativo ha un suo antefatto ‘sperimentale’ ma allo
stesso tempo ‘teorico-astratto’ (conoscitivo) in progetti di scala e di impegno più modesto, soprattutto nei progetti di
case. Il luogo dell’abitazione è pensato in stretto rapporto con la natura. Essa può essere cintata (case a patio), osservata (case in vetro o torri), o intesa come luogo degli edifici collettivi che ordinano e costruiscono la città. Come
afferma Frank Schulze32, tutti gli antecedenti riconoscibili sono di volta in volta riunificati e perfezionati per definire
quello che Mies chiamava ‘organismo’. L’architettura per Mies «non è un cocktail […] non si inventa ogni lunedì mattina» bensì è frutto di una lunga e paziente ricerca sui fondamenti e di una continua riproposizione, sempre nuova,
degli stessi elementi. L’atteggiamento conoscitivo di Mies è di tipo deduttivo/induttivo al contempo o se si vuole di
tipo evolutivo33. Ciò è riconfermato non solo dai disegni comparativi dei suoi edifici ad aula più rappresentativi (numerati e disposti in ordine cronologico) ma soprattutto dal confronto dimensionale sia in pianta che in alzato proposto da Peter Carter34 tra la casa 50x50 e la Convention Hall di 720x720 piedi per esemplificare la loro intima
relazione sia concettuale che formale, nonostante la loro estrema differenza scalare. L’investigazione che Mies opera
sulle figure elementari del rettangolo (e le sue possibili variazioni proporzionali) e del quadrato è legata a due procedure compositive complementari: quella ‘gotica’ che utilizza come principio d’ordine generale la ripetizione delle
membrature costruttive, esaltata dalla direzionalità dell’impianto (come il ritmo delle travi, le partiture della grandi vetrate del Teatro di Mannheim e della Crown Hall), e quella ‘classica’ che lavora su parti finite e autonome non ulteriormente scomponibili (come il tetto e la colonna della Neue Nationalgalerie o il recinto della Convention Hall),
assolutizzata dalla scelta di una pianta centrale35.
La scelta di Mies di concentrarsi su tali figure elementari è tutt’altro che priva di conseguenze. Il rettangolo e il quadrato evocano due qualità spaziali nettamente distinte e complementari. Il rettangolo determina, in relazione allo
squilibrio dimensionale più o meno accentuato delle sue dimensioni, uno spazio comunque direzionato e orientato.
Il quadrato (caso particolare e matrice/generatore del rettangolo) di contro determina in maniera più sottile dello stesso
cerchio uno spazio che si relaziona a un centro. Infatti il passaggio dall’ovvietà e naturalità ancestrale del cerchio
(non misurabile) al rettangolo (il misurabile) e poi al quadrato (la centralità misurabile) è di grande livello logico. Esistono infiniti al quadrato (∞2 ) rettangoli con infinite proporzioni differenti perché determinati dal rapporto variabile tra
i lati da ricercare ogni volta in modo opportuno e adeguato, viceversa topologicamente esiste un solo quadrato che
può solo ampliarsi o contrarsi ma mantiene fisse le sue proporzioni. Il riflesso dell’adozione e selezione di figure quadrangolari è l’utilizzo di un modulo organizzativo ‘cubico’ che le misuri e le proporzioni sia in pianta che in alzato.
I moduli, sia nel caso dei rettangoli che dei quadrati, si possono relazionare alla figura generale o assumendone la
ragione proporzionale (Casa Farnsworth, Mannheim, NNG e Convention Hall) o configurandosi come una sua astrazione. In quest’ultima accezione rientra il caso del Home Federal Saving and Loan in cui il rettangolo viene ricondotto
a misura attraverso moduli quadrati generando un rapporto adimensionale tra numeri interi. Come in Pitagora in cui
il ‘numero’, nel suo senso astratto e indivisibile ma al tempo stesso concreto, determina il tutto: costruisce l’ordinamento
del mondo e di ciò che sembra inattingibile.
L’esigenza di liberare lo spazio interno da sostegni produce, come si è detto, una estroflessione progressiva della membrature costruttive. Le soluzioni costruttive sono prevalentemente di due tipi: il sistema a telai paralleli con travi estradossate ordito secondo la dimensione trasversale (in alcuni casi in senso longitudinale) e il sistema bidirezionale
piano nelle sue sub-articolazioni a graticcio di travi o a reticolo spaziale. Le strutture primarie si portano all’esterno
del volume nel caso dei sistemi unidirezionali mentre nel caso dei sistemi bidirezionali a pianta quadrata definiscono,
essi stessi, il limite dell’edificio. Nel primo caso il rapporto tra i pilastri e il sistema descrittivo dei montanti di chiusura,
anch’essi con un ruolo strutturale ma di ordine inferiore, si articola a sua volta in due possibilità sintattiche. Nella Crown
Hall il pilastro appartiene al piano della facciata e si distingue dagli altri profilati che ritmano le vetrate per la sua di-
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mensione dilatata e per l’ovvia circostanza di emergere dal terreno presentando una maggiore altezza che supera
il piano della copertura per accogliere la trave parete. Nel Teatro di Mannheim come nel Home Federal Saving and
Loan building viceversa il grande profilato composto del pilastro si distacca dal piano delle vetrate, probabilmente
per determinare un attacco alla travatura reticolare più complesso (doppio pendolo) di quello di una trave a parete
piena, dialogando a terra con la parete marmorea dello zoccolo, arretrata a formare un portico. Il rapporto tra i sostegni e la facciata nel caso dei sistemi bidirezionali è anch’esso duplice.
Nella Bacardi o nel Museo di Berlino la perimetrazione è affidata a un sottosistema indipendente ma congruente con
i moduli dell’edificio che definisce le pareti vetrate, mentre i pilastri si distaccano completamente da queste ultime determinando un portico continuo e stabilendo la propria relazione innanzitutto con la copertura. Nella Convention
Hall le membrature costruttive si omogeneizzano con quelle del tetto, definendo i campi da saturare con paramenti
lapidei, realizzano un volume che è poggiato su una teoria di plinti tozzi che ancora una volta determinano un portico basso definito dalle vetrate d’ingresso. La soluzione sintetica dei due sistemi sopra enunciati è rappresentata dal
Padiglione di Toronto. Vengono eliminate i montanti secondari e i sostegni diventano essi stessi membratura e ritmo
recuperando, sia nella forma cruciforme sia nel complesso attacco con la copertura che ridiventa trabeazione, il loro
ruolo di colonne. Come si può agilmente osservare l’utilizzo di componenti preformati prodotti industrialmente (profilati a doppio T) e la loro combinazione impongono la costruzione di una grammatica e il rispetto di definite regole
sintattiche di relazione tra gli elementi. Di volta in volta questi sono composti secondo il loro specifico ruolo gerarchico sia in termini costruttivi che espressivi, trasformando in tal modo il ferro in acciaio e il vetro in cristallo.
L’intenzione didascalica di distinguere gli elementi e la possibilità di rendere conoscibile il loro comportamento li affrancano dalla loro ovvietà costruttiva per farli appartenere a un ordine intellegibile per ritrovare le ragioni essenziali
della loro forma, della loro misura e della loro proporzione. Infine vale la pena di fare alcune considerazioni sull’utilizzo della simmetria bilaterale o polare nelle architetture di Mies. In tutti i casi presi in esame l’assetto simmetrico è
determinato sia dalla figura adottata che dal sistema degli accessi, esso non è mai una pre-condizione formale ma
è sempre desunto dall’organizzazione e dalla disposizione degli elementi, è un punto d’arrivo (e non di partenza) di
un sistema costruttivo e compositivo. Lo stesso Mies, facendo tornare alla memoria le affermazioni di Tessenow sull’uso del tetto a falde, interrogato a proposito afferma «Perché gli edifici non dovrebbero essere simmetrici? […] gli
edifici diventano simmetrici quando è naturale. Ma a parte questo, noi non poniamo il minimo accento sulla simmetria»36.
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LA CROWN HALL PRESSO L’IIT
DI
CHICAGO, 1950-1956
Se l’insegnamento ha qualche significato generale è quello di formare e di spingere all’impegno
Mies van der Rohe
Ideazione
Si tratta di un edificio destinato alla Scuola di Architettura e design costruito da Mies al termine del suo mandato di
direttore della Scuola di Architettura, situato all’interno del Campus dell’IIT progettato con Hilberseimer e realizzato
a partire dal 1949. Nella Crown Hall si realizza una rivoluzione non solo linguistica, rispetto agli altri padiglioni universitari e agli altri progetti coevi, ma soprattutto nella ricerca di un nuovo principio spaziale37 da molto tempo ricercato
e ambito da Mies, ma mai realizzato in modo compiuto e in tali dimensioni.
L’edificio propone attraverso questa ‘invenzione’ una nuova e progressiva idea di edificio per lo studio, la ricerca e la
trasmissione del sapere. Il grande piano continuo consente molteplici combinazioni dei tavoli per il disegno e le esercitazioni. Mies riformula completamente il tradizionale assetto tipologico fatto di aule singole per le lezioni ex cathedra, servizi e luoghi collettivi, annullando tutte queste sub-articolazioni all’interno dal grande invaso continuo,
promuovendo in tal modo l’interazione tra gli allievi e il continuo confronto tra questi ultimi e i professori. Con questo
edificio e la filosofia che esso sottende, Mies anticipa di decenni quello che sarà il sistema pedagogico dei laboratori didattici generalmente adottato per l’insegnamento dell’architettura. Lo studio e l‘applicazione singola o collettiva
richiedono spazi flessibili ma non intercambiabili. Non è un caso che le esigue partizioni interne determinano con
grande chiarezza tre grandi parti intercomunicanti: quella centrale con l’ingresso e l’area destinata alle esposizioni collettive permanenti (ciò che è prodotto) e le due aree laterali più luminose per le attività di laboratorio (dove si produce).
Le parti destinate alle attività di laboratorio sono opportunamente schermate dall’esterno da vetrate satinate che consentono una soddisfacente illuminazione diffusa senza tuttavia distrarre le attività degli allievi. La ragione dell’edificio
è sinteticamente rappresentata, come avveniva per i libri nella Biblioteca di Boullée, dalla presenza degli studenti che,
assieme all’esposizione dei loro lavori, divengono i protagonisti di questo grande spazio unitario, di questo enorme
portico/riparo immerso nella natura. Il sapere e la sua trasmissione si autorappresentano in modo chiaro e senza accenti retorici, proprio nell’atto di compiersi in questo involucro ’trasparente’.
Procedure compositive
Mies considerava questo edificio «La struttura più chiara che abbiamo progettato e che meglio esprime la nostra filosofia». Tale chiarezza è evidente non solo per l’esattezza costruttiva ma soprattutto per la sottile trama di rapporti
e proporzioni che regolano l’intero edificio. Significativamente tra tutti gli edifici del campus irrigimentati da una maglia omnipervasiva di 24x24 piedi in orizzontale e di 12 piedi in verticale, la Biblioteca e la Crown Hall sono gli
unici a derogare da tale modulo ordinatore. Tale variazione vuole ribadire il differente ruolo gerarchico assunto da
tali manufatti rispetto a quelli più ripetitivi in cui l’organizzazione spaziale modulare e iterativa non varia.
La Crown Hall, inoltre, pur essendo stata realizzata in una posizione defilata rispetto all’asse di attraversamento principale del Campus ne ha spostato la polarità ponendosi come un nuovo centro ordinatore dell’intero complesso. Il
grande rettangolo di base generato da una raffinata ‘duplicazione’ di un rettangolo aureo è tripartito dai grandi telai
paralleli esterni che mitigano, centralizzandolo, il notevole sviluppo longitudinale. Molti critici hanno visto nella Crown
Hall una stretta analogia con l’Altes Museum di Schinkel. Se ciò è condivisibile per le proporzioni generali e per il
sistema di ripetizione degli elementi, lo è molto meno per l’impianto tipologico interno. Infatti, a differenza dell’Altes
Museum, in quest’edificio, che pur presenta una chiara tripartizione, il centro è continuamente sfuggente e difficilmente
identificabile. I setti marmorei non strutturali contenenti i condotti per gli impianti e la sequenza dei piani verticali, pari
a circa la metà dell’altezza complessiva, contenente le coppie di scale e il blocco dei servizi, per la loro posizione
e distanza reciproca, dilatano progressivamente lo spazio.
La simmetria di tale disposizione non è il fine ma solo il risultato di un chiaro procedimento logico. Costruendo una
fitta sequenza di sovrapposizioni di quinte, in cui ogni elemento è autonomo e fluttuante pur così radicato e giustificato nella sua posizione e direzione, Mies non vuole in nessun modo compromettere il principio unificante del piano
sottile del tetto e della grande apertura dell’involucro vetrato. Il rivestimento dell’edificio è assolutamente tettonico
nella ripetizione dei suoi partiti modulari. Con la prevalenza dei montanti verticali Mies bilancia l’eccessiva orizzontalità del volume che viene reso continuo e omogeneo dalla liberazione degli angoli mediante l’arretramento
della struttura principale.
Il rapporto con il suolo è mediato attraverso la doppia piattaforma simmetrica della scala, con una soluzione certamente meno poetica di Casa Farnsworth, ma forse giustamente più enfatica, dato il ruolo rappresentativo dell’edificio. Nella Crown Hall, nella casa della Baukunst, il caos del contesto urbano e artificializzato viene, per così dire,
riportato a un ordine, a una quiete. La città con la quale si confronta è una realtà convulsa che richiede una regola
e un principio di costruzione chiari e intellegibili.
Costruzione
L’enorme tetto di 120x220 piedi (36.60x67.30 metri) è sospeso a quattro travi estradossate a parete piena di acciaio con un profilo ad I ispessito nelle ali in corrispondenza delle sezioni maggiormente sollecitate a momento flettente. A questi cavalletti distanziati di circa 18 metri, attraverso pendenti in acciaio, viene ancorata la struttura del
tetto, composta di travi in metallo ad ali larghe ordite secondo la dimensione trasversale. Questa soluzione spettacolare, calcolata da Frank J. Kornacker, che elimina con tali grandi luci ogni sostegno interno, consente la realizzazione dello spazio assoluto che Mies ricercava. Qui la costruzione è l’edificio. La parete vetrata perimetrale, lungi
da essere solo una pelle, assolve attraverso dei montanti secondari a una funzione stabilizzante del piano di copertura ancorandolo saldamente al piano seminterrato - significativamente riservato alla scuola di design (opportunamente
sottoposta e subordinata alla scuola di architettura) - avente una struttura intelaiata convenzionale in calcestruzzo armato che offre una notevole inerzia roto-traslativa. L’impiego dei grandi portali paralleli, mutuati dalla costruzione dei
ponti, resa qui innovativa dall’inversione a-tettonica (solo dall’interno) della posizione delle travi estradossate, è assolutamente perfetto dal punto di vista statico. Infatti le travi più estreme, assorbendo il carico dello sbalzo oltre a quello
comune con le travi contigue (area di influenza), si trovano a essere sollecitate nella medesima maniera di quelle centrali sia in termini flessionali che di carichi sui piedritti, soggetti prevalentemente a sforzo assiale e flessionale e non
pressoflessionale o deviato. Questo è uno dei rari casi in cui in una struttura in carpenteria metallica gli elementi portanti non sono dimensionati e unificati su quello più sollecitato, ma sono tutti egualmente ottimizzati. Ancora una volta,
come è evidente dalle foto del cantiere, la vista della struttura senza tamponamenti spiega l’intero manufatto.
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IL TEATRO NAZIONALE
DI
MANNHEIM, 1952-1953
Ideazione
Il progetto elaborato in occasione di un concorso a inviti rappresenta il culmine di una riflessione sul tema del teatro
che occupa Mies a partire dal progetto ‘teorico’ per la Concert Hall sino al progetto ‘didattico/sperimentale’ per l’auditorium nel Museo per una piccola città. Infatti nel famoso collage per la Concert Hall tutti gli elementi denotativi del
teatro - l’atrio, la cavea, il palcoscenico - appaiono astratti e diafani, vengono quasi sospesi, levitanti nella loro individualità formale, in quanto figure della composizione, all’interno del grande spazio indiviso grazie alle enormi travature reticolari della fabbrica Glenn Martin Company di Albert Kahn.
Nel Museo, come si è già anticipato, la parte destinata alle rappresentazioni teatrali e alle conferenze deroga dal
principio modulare a base quadrata proponendo uno scarto dimensionale reso possibile dall’utilizzo di travi estradossate che non interagiscono con le partiture murarie e allo stesso tempo si distinguono dal reticolo discreto dei sostegni. Tale ‘Aula prima’ verrà assolutizzata in un altro collage che testimonia un approfondimento successivo in cui
Mies lavora alla precisazione del rapporto topologico tra vari elementi fissi prima individuati, alla loro autonomia formale e figurativa e alla possibilità di racchiuderli in un prisma trasparente neutro. Tale involucro nella sua semplice articolazione in moduli e scansioni è il necessario contrappunto alla espressività delle forme invocate e per la cavea e
per il sistema di rifrazione del suono che, sospeso al soffitto, riproduce invertita e disarticolata la sezione della platea.
In tal senso è evidente il contrasto tra la regolarità della griglia vetrata, la plasticità della cavea pensata come un grande
vassoio proiettato nel vuoto e ancorato al suolo in un sol punto, i piani slittati del boccascena e il velario del sistema
di diffusione acustica. Nel disegno di sezione che sintetizza questo ulteriore avanzamento nella precisazione del tema
l’attenzione è rivolta più ai rapporti tra i vari elementi e la loro carica relazionale che alla soluzione costruttiva adeguata a tale invaso. L’individuazione delle parti distintive e stabili del tipo e delle figure relative consente a Mies di ricombinarle in un programma più complesso in occasione del concorso per il doppio teatro di Mannheim. Come nello
studio dell’interno, il prisma vetrato viene sollevato dal suolo e, attraverso le partiture strutturali, si garantisce la sua uniformità e finitezza. I due teatri, specchiati rispetto al nucleo centrale del doppio palcoscenico e dei locali tecnici, sono
contenuti in questo volume trasparente e sono misurati dal piano delle gallerie che fissa la loro posizione e misura relativa, al tempo stesso ‘separandoli’, ‘relazionandoli’ e ‘proiettandoli’ all’esterno. L’Aula sospesa risolve poi, come
nello studio citato, il suo rapporto con il suolo attraverso lunghe pareti di notevole spessore rivestite in marmo di Tinos
che opportunamente sono arretrate sui lati lunghi accentuando lo stacco dal suolo e prolungate sui lati corti sottolineando gli ingressi alle due cavee. Viene così scardinata la tipologia tradizionale del teatro in cui la scena e la platea
determinano la forma dell’edificio. Tutti gli elementi rappresentativi (foyer, platee, gallerie, palcoscenici) vengono riconcettualizzati, assolutizzati, erosi e poi ricomposti all’interno dell’Aula. I due teatri sono molto differenti sia per destinazione che per senso. Il primo più grande (1.300 posti), per il teatro di prosa e la lirica, sviluppa gli studi precedenti
della grande cavea-vassoio a sbalzo e risulta più vicino al modello del teatro greco che alla tradizione del teatro ottocentesco elisabettiano; il secondo (500 posti), per la musica concertistica, leggermente incassato nel piano della galleria, risulta più convenzionale nella sua conformazione e molto simile alle tipiche sale a ventaglio dei Buoleteria. Le
richieste del bando e in particolare la necessità della doppia sala, la mole dei locali accessori, racchiusi e celati nel
basamento, finiscono per limitare la chiarezza degli studi sul tema del teatro. La presenza della torre scenica e del corposo blocco centrale tra i due palcoscenici compromette la possibilità di cogliere simultaneamente l’intera estensione
dell’Aula limitando fortemente l’idea dello spazio continuo vuoto nel quale sono disposti i vari oggetti - i topoi - denotativi del tema. Probabilmente l’unico elemento che tenta una difficile ricomposizione del tutto è il sistema delle gallerie ‘dei passi perduti’ perimetrali che, non a caso, nella pianta di concorso sono evidenziate dal disegno della
pavimentazione lasciando in secondo piano le parti più interne legate alla macchina scenica o ai servizi di supporto.
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Costruzione
La soluzione costruttiva proposta in questo edificio di notevole estensione (160x80 metri) amplifica quella dell’auditorium del Museo per una piccola città ma soprattutto, per proporzioni e impegno, quella per il Cantor Drive-in attraverso l’iterazione di sette portali in acciaio inossidabile con passi di 24 metri, realizzati con piedritti di grande
spessore tipo HE a lamiere composte e con travature reticolari simmetriche di 8 metri d’altezza ottenute dall’assemblaggio di profilati correnti ad ali larghe saldate nei nodi. A tali travature sono sospesi sia il piano di copertura continuo sia, attraverso gli irrigidimenti forniti dai montanti della parete vetrata, il piano della galleria che sfrutta anche
l’appoggio sui setti perimetrali. Il sistema ripetitivo dei profilati che danno il ritmo alle superfici vetrate nel complesso
della struttura assolvono a due compiti principali: di sostenere lo sbalzo delle gallerie perimetrali controbilanciando
quello interno e di irrigidire l’enorme pilastro ad ali larghe che, pur avendo una considerevole dimensione trasversale,
potrebbe incorrere nel fenomeno dell’instabilità da svergolamento. All’interno della struttura perimetrale principale vi
è una sottostruttura a maglia rettangolare, verosimilmente in cemento armato, che sostiene il primo impalcato, spesso
assorbita e celata all’interno delle partizioni murarie del nucleo ‘opaco’ più interno. Anche in questo caso, come nella
Casa Farnsworth o nella Crown Hall, la distribuzione dei portali è centrata rispetto all’estensione longitudinale lasciando a sbalzo le parti estreme della copertura al fine di ripartire uniformemente il carico della lastra di copertura
a tutte le travature, trasferendo in tal modo ai pilastri un carico verticale perfettamente centrato. Il riferimento tecnico
di questo tipo di costruzione, ancora una volta, è più vicino alle costruzioni navali o dei grandi ponti a travature reticolari sospese che ai convenzionali edifici industriali in acciaio. Il particolare attacco a doppio pendolo tra le travi
reticolari e i pilastri esterni risolve egregiamente il problema degli sforzi di taglio ed evita l’antinomia dell’appoggio
semplice sui sostegni denunciando il comportamento a telaio iperstatico. Completamente differente è la soluzione costruttiva della cavea grande: si tratta di una grande trave a mensola relativamente sottile, presumibilmente in cemento
armato, incastrata al piede lungo una superficie curvilinea corrispondente alla fossa per l’orchestra, che sfrutta utilmente le rigidezze per forma derivate dal profilo a doppia curvatura.
Procedure compositive
L’intero edificio è definito dalla contrapposizione tra la ricorrenza degli elementi tettonici discreti (struttura di copertura) e di chiusura (vetrate e moduli di facciata) e le relazioni che essi consentono tra gli elementi continui ed eccezionali come le cavee, le pareti basamento, le pareti quinte del boccascena. Si produce ancora una volta la dialettica
tra il continuo e il discreto, tra la ripetizione e la singolarità. La scelta della forma planimetrica piuttosto allungata nel
rapporto di ½ , la disposizione degli elementi, il ritmo delle membrature, la collocazione degli oggetti plastici tendono a enfatizzare senza tentare improbabili mediazioni questo rapporto di necessarietà e di interdipendenza. Il teatro è costruito per strati compositivi differenti. La parte basamentale di 4 metri (¼ dell’intera altezza) mostra un
consistente e articolato apparato distributivo governato dal sotto-modulo della struttura secondaria e serrato dai lunghi setti perimetrali. Il piano della galleria di 12 metri pari ai ¾ dell’altezza viene eroso dalla presenza delle cavee
e si apre come un mezzanino in corrispondenza del foyer. È proprio il grande foyer di ingresso che ha la forma di
un rettangolo aureo a mettere in scena tutti gli strati e i modi compositivi dell’edificio. Esso infatti è l’unico ambiente
che riunifica l’intera altezza dell’edificio contenendo anche l’irruzione del vassoio della platea grande protesa nel
vuoto. Per dirla con le parole di Mies «il grande teatro sporge fuori dalla sua base di cemento come una mano dal
polso». All’esterno vi è la giustapposizione di articolazioni volumetriche autonome sia per carattere che per ruolo sintattico. Sul basamento, quasi inaccessibile, viene poggiata l’enorme ‘massa apparente’ dell’Aula, una ‘grande teca’
completamente vetrata, sormontata dalle grandi costole delle travi parete che attenua con le partiture verticali tra i
piani sottili della copertura e della galleria l’eccessiva orizzontalità del manufatto.
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LA CONVENTION HALL
DI
CHICAGO, 1953-1954
Ideazione
Il progetto per La Convention Hall ebbe origine all’interno di un più ampio piano di rinnovamento urbano (South Side
Planing Board) in cui era previsto un edificio polifunzionale per convention politiche, manifestazioni sportive, spettacoli musicali, o esposizioni capace di ospitare 50.000 persone. La scala dell’intervento e la flessibilità del programma funzionale spinsero Mies a immaginare un grande spazio quadrato di 720x720 piedi (circa 216 metri),
circondato da gradinate continue, completamente libero da appoggi interni. Gli studi preliminari scartano soluzioni
con coperture a volta o con archi a tre cerniere perché avrebbero comportato notevoli altezze con una grande quantità di spazio inutilizzato.
La soluzione, che verrà approfondita in una serie di varianti successive, sviluppa il tema del grande spazio continuo
sollevato dal suolo avente copertura piana reticolare a doppia orditura. I primissimi modelli mostrano varie soluzioni
costruttive per raccordare l’enorme copertura a pochi sostegni disposti sul perimetro mutuando alcuni studi prodotti
da Mies per la Palestra del campus dell’IIT.
Come afferma Arthur Drexler «La Convention Hall è la più monumentale immagine che l’architettura del XX secolo
abbia prodotto fino ad ora»38. In questo enorme invaso viene in qualche modo riprodotto un vero e proprio microcosmo o come amava dire Mies «un’aula di questa dimensione non dipende dal suo ambiente, crea il suo ambiente».
Questo forse spiega la schematicità del progetto a scala urbana che riprende le direttrici del piano redatto nel 1909
da Daniel Burnham con l’indicazione sommaria di altri quattro volumi accessori disposti simmetricamente e di un
grande vuoto antistante di dimensione equivalente all’Aula destinato a parcheggio. Il progetto inventa un nuovo tipo
edilizio, quello del grande spazio flessibile per manifestazioni di massa, che avrà poi tanta fortuna in America con
i Drome, gli stadi coperti, gli edifici fieristici o grandi manufatti per la distribuzione commerciale. È un edificio-mondo,
pensato come una piccola città completamente auto-sufficiente, connesso ai grandi sistemi infrastrutturali sotterranei
e dotato, al suo interno, di vari servizi accessori quali ristoranti, servizi per il pubblico, aree espositive e capace, con
pochi adattamenti, di accogliere eventi di qualunque genere accomunati solo dalla presenza ‘volontaria e organizzata’ di un gran numero di persone.
Il famoso collage fatto predisporre da Mies ai suoi studenti esemplifica uno dei possibili utilizzi di tale aula/città mostrando una folla densa assiepata sulle gradinate perimetrali e sul parterre che in qualche modo viene protetta dall’enorme parete di marmo di Tinos che avvolge l’intero edificio. L’Aula è ancora una volta interpretata come un luogo
di riunione, del raduno, confermando il legame antico dell’Aula con i Theatra. Come ha sottolineato Antonio Monestiroli39 la perentorietà di questo paramento continuo - ancorché sospeso - fissa il carattere dell’edificio sottolineando
ancor di più con le forme dell’architettura la ragione tematica: l’idea della riunione di grandi folle all’interno di un recinto protetto.
Ancora una volta Mies produce un avanzamento del tema o una sua re-invenzione sempre con un riferimento sottile,
in filigrana, con i grandi archetipi della classicità. Si pensi alla stretta relazione non solo formale ma anche analogica con il Telesterion di Eleusi dove la grande Aula coperta viene ricavata sezionando il banco calcareo a cui sono
addossate le gradinate, volendo in qualche modo proteggere e preservare l’atto stesso del riunirsi. Tale riferimento è
supportato da un viaggio in Grecia di Mies nel 1951. La soluzione costruttiva della copertura in questo caso viene
posta in secondo piano, quasi mascherata. L’edificio è un tutt’uno, le parti anche se chiaramente identificabili non si
possono disgiungere: prevale il grande volume chiuso, lo scrigno, simile per senso alle grandi mura di città. Il muro
rappresenta la necessaria separazione da un esterno informe per ricreare un vuoto denso di leggi «in cui non ci si
può muovere a caso, ma conformemente alla struttura geometrica, ossia a un ordine che viene percepito come assoluto e immutabile»40.
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Costruzione
Gli studi e le soluzioni costruttive per la Convention Hall mostrano un continuo e serrato confronto con le contemporanee ricerche di Wachsmann - che dopo la collaborazione con Gropius si era trasferito all’IIT diretto da Mies - sulle
strutture reticolari spaziali che Mies non prediligeva preferendo quelle a parete piena. I numerosi disegni preliminari
rappresentano una semplificazione e riduzione delle infinite possibilità combinatorie e geometriche di tali tecniche innovative. La struttura è concepita come un unico involucro modulato su una maglia quadrata di 9,14 metri (30 piedi)
che regola, sia in pianta che in alzato (modulo cubico), la posizione e la proporzione delle membrature costruttive.
La grande copertura, il cui spessore coincide con un modulo, poggia ed è parte essa stessa del grande paramento
murario corrispondente alla misura di tre moduli (27,42 metri). Lo schema statico di riferimento è quello di un graticcio di travi reticolari in acciaio bidirezionali a base quadrata incastrato su tutto il contorno rappresentato dalle quattro pareti perimetrali che, opportunamente controventate lungo le direttrici di maggiore sollecitazione, trasferiscono
l’intero carico a un peribolo di 24 sostegni tronco-conici alti 6 metri disposti ogni tre moduli, lasciando liberi, in questo caso, i quattro vertici per due moduli. Per bilanciare il trasferimento di carico sugli appoggi puntiformi, la parete
esterna risvolta all’interno ancora per un modulo determinando un portico perimetrale a sbalzo che viene sorretto da
cavi d’acciaio ancorati alle travature di copertura. Tale accorgimento, oltre a determinare un arretramento delle vetrate d’ingresso, rappresenta al piano d’appoggio un’utile cerchiatura che irrigidisce orizzontalmente l’intero sistema.
Sia le travature reticolari che le controventature verticali sono previste in profilati normali in acciaio di tipo HE mentre
gli appoggi sono in cemento armato anche se vi è una soluzione in cui i pilastri sono ottenuti mediante l’assemblaggio di profilati in acciaio. Il piano d’ingresso, le gradinate e la grande piattaforma centrale sono in cemento armato
su una teoria di pilastri anch’essi in cemento armato disposti secondo la maglia generale di 9.75x9.75 disposta in
modo anulare su tutto il contorno. Alcuni disegni mostrano una successione di variazioni sulla posizione più adeguata sia delle controventature sia del passo dei pilastri, mentre altri studi si occupano dell’opportuno ispessimento
delle ali delle travi di copertura in relazione alle zone maggiormente sollecitate. La soluzione costruttiva nei suoi vari
sviluppi ha sinteticamente chiarito ed esaltato il principio compositivo generale evitando eccessive esibizioni tecnologiche presenti nei primissimi studi che utilizzavano un modulo rettangolare e appoggi a mensola con pilastri ramificati che avrebbero potuto compromettere, in quanto troppo espressivi, l’unità complessiva.
Procedure compositive
La scelta di una pianta centrale quadrata determina in gran parte le scelte compositive dell’intero organismo: dalla
collocazione degli ingressi, alla forma delle gradinate, alla misura opportuna del grande piano lastricato più basso.
All’adozione della maglia omnipervasiva e riduttiva a base quadrata, che fissa sia in pianta che in alzato le proporzioni del manufatto, fa da contrappunto la continuità del grande paramento murario che, al tempo stesso, assorbe
e denuncia la sub-articolazione modulare generativa. Il problema compositivo fondamentale rimane quello di trovare
la giusta proporzione tra queste due masse così diverse per carattere e ruolo. Il piano di ingresso di circa 6 metri è
sensibilmente più basso del modulo che misura il recinto perché deve esaltare la proporzione tozza dei pilastri rastremati ritrovando, nel portico perimetrale, un rapporto più adeguato alla scala umana. La grande massa lapidea
tripartita, che in alcune varianti è proposta con pannelli microforati in alluminio di due tonalità, viene significativamente
staccata dal suolo realizzando un portico di mediazione che drammatizza ancor di più questo effetto di leggerezza
amplificato dalle vetrate continue degli ingressi. Le due soluzioni proposte per il tamponamento della struttura perimetrale determinano altrettanti caratteri architettonici per l’edificio. La soluzione in lastre di marmo (18 per ogni modulo) lavora su un principio di uniformità che dissolve la separazione tra il paramento e la fascia di copertura. La
variante metallica, viceversa, sottolinea la tripartizione del manufatto in fasce sovrapposte restituendo un’immagine
di tessitura graticciata a losanghe (triangoli isosceli 2/4) che, a spese del paramento, dà risalto per densità di trama
e varietà chiaroscurale al coronamento.
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LA NEUE NATIONALGALERIE
DI
BERLINO, 1962-1968
Ideazione
Nel 1962 la municipalità di Berlino affida a Mies van der Rohe l’incarico di redigere un progetto per la costruzione
di una Galleria del XX secolo (Neue Nationalgalerie) da costruirsi in un’area devastata dai bombardamenti dell’ultima guerra, e dove collocare, in base a un piano urbanistico di Scharoun, una serie di edifici rappresentativi della
città e dell’intera Germania dell’ovest: il Museo suddetto, la nuova Biblioteca di Stato, la nuova Filarmonica. Il nuovo
Kulturforum di Berlino voleva proporsi come antipolo del centro neoclassico realizzato da Schinkel. L’incarico a Mies
è dato senza limiti di spesa. Il Museo è il centro di un luogo ‘naturale aperto’ di grande valore urbano e civile, un
luogo da ricomprendere e riordinare secondo rapporti a distanza, differente dalle trame urbane ordinate dal tessuto
residenziale che attorniano la Convention Hall di Chicago. Nel Museo di Berlino l’ideazione41 vuole ‘vedere’, con
gli occhi della mente, la ragione prima dell’edificio e proporre una nuova ipotesi di spazio e di museo ribaltando
completamente i modi con i quali tale manufatto era stato concepito dalla cultura ottocentesca ovvero come manufatto che custodiva ma al tempo stesso celava il sapere (in quanto arte) e la cultura. Vengono superate di colpo l’organizzazione convenzionale del Museo con il sistema atrio, quadrerie e successioni di sale, come codificato negli
schemi combinatori di Durand dai quali non fu immune lo stesso Schinkel nell’Altes Museum, ma anche le contemporanee ricerche di Le Corbusier o di Wright sul museo-percorso, puntando invece a ricomprendere e a rinnovare
l’idea di luogo della memoria e della ‘riconoscenza pubblica’ di Boullée. Tale scelta ideativa e di senso diviene subito scelta architettonica: l’Aula, il grande spazio rappresentativo unitario. Questo spazio continuo - ‘spazio universale’ - rappresenta la natura e anche il luogo delle Muse, della ‘memoria’, il luogo che custodisce ed espone le
opere dell’ingegno umano ampliandone la conoscenza e la comprensione del mondo. L’idea di questo spazio universale è particolarmente evidente nell’unico schizzo di Mies per Berlino, spesso erroneamente scambiato per un
progetto di Concert Hall, in cui sinteticamente si concentra l’ideazione del manufatto e vengono individuati la forma
dell’edificio, il tetto, il sistema che lo sostiene e lo spazio ‘inesprimibile’, analogo della natura, denso dei valori che
contiene. Quello scarno disegno contiene simultaneamente: il tema, la costruzione, l’evocazione. La struttura e la
forma generali sono stabili, gli usi interni sono variabili nel tempo, addirittura inesprimibili - come nello schizzo - nella
loro condizione mutevole. Nel Museo vi è un‘ipotesi di ‘forma dello spazio’ mai raggiunta nell’architettura sino ad
allora, vi è l’ordine costruttivo-compositivo, vi è il tetto, vi sono le pareti opache o trasparenti. Il tetto, in particolare,
domina l’intera composizione e determina uno spazio diafano nel quale i vari elementi architettonici, le pareti, le vetrate, nelle rispettive relazioni topologiche e prossemiche, sono oggetti autonomi, abitatori dello spazio che però rendono conoscibile il vuoto inteso come assenza, come ciò che consente l’apertura. La grande copertura, da sola,
conferisce dignità all’interno ‘radunato’ che copre la sua semplice proiezione a terra e segna il passaggio liminare,
denso di carica espressiva, da un esterno urbano ad un luogo civile.
Le primissime soluzioni per il Museo, di cui si conservano pochi disegni e un plastico, configurano due versioni principali: la prima riguarda un’Aula quadrata coperta da una piastra nervata in cemento armato precompresso di 20x20
moduli (XX secolo?) sostenuta da un colossale pilastro centrale a sezione variabile; la seconda di pianta rettangolare ripropone per così dire una trance della Crown Hall o del Teatro di Mannheim con l’introduzione di un portico perimetrale e una copertura sorretta da sei pilastri che, attraverso tre telai paralleli con travi-parete, sostengono la soletta
cassettonata. Rapidamente queste due iniziali ipotesi sono scartate e Mies ritorna (com’era suo solito) alle soluzioni sperimentate nella Bacardi e nel Museo Schäfer, riuscendo in definitiva a sintetizzarle e superarle mirabilmente. Del primo
riprende il basamento nel quale alloggiare le collezioni permanenti del museo e del secondo la struttura a sezione costante in acciaio, forse il materiale più idoneo a rappresentare l’era tecnica. La Neue Nationalgalerie, l’ultima opera
realizzata da Mies, esemplifica una ricerca ostinata durata alcuni decenni sui fondamenti dell’architettura come arte. È
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la sua opera più discussa, la più amata e odiata al tempo stesso, rappresenta il suo ‘canto del cigno’, nonché la summa
del suo modo di intendere l’architettura. La forza di quest’opera sta nell’essere sintetica di una ricerca - che è quella del
moderno in architettura - riscontrando il riferimento ai temi della classicità, della Sala ipostila, del Tempio e della Casa
romana o, in maniera equivalente, alle architetture di Schinkel che di queste sono una prima sintesi.
Costruzione
La scelta di costruire un enorme tetto quadrato sostenuto in maniera discreta su soli otto appoggi determina la necessità
di trovare la corretta disposizione di tali sostegni sia dal punto di vista statico per ottimizzare le deformazioni e sia
dal punto di vista delle proporzioni che le campate dovevano assumere in rapporto allo spessore della copertura. La
copertura, calcolata da Roger Dienst, consiste in una piastra ortotropa nervata di 180 cm di spessore (1/36 della
luce libera) strutturata su 18x18 moduli e che misura 64,80x64,80 metri. Il modulo-base dell’intera costruzione, sia
in pianta che in alzato, è di 1,20x1,20 metri. Il tetto in acciaio Krupp, montato a piè d’opera per parti compiute
pre-assemblate (con saldature continue a completo ripristino) e sollevato da otto martinetti idraulici fino alla quota di
8,40 metri, pesa circa 1.280 tonnellate. Queste cifre danno conto dell’importanza e dell’eccezionalità di quest’opera, tenendo presente anche che a tutt’oggi non è stata costruita una copertura con tale luce libera e con simili
condizioni d’appoggio. L’enorme copertura poggia su soli otto pilastri ed è levitante al pari della sezione ideale
della trave rappresentata nella scienza delle costruzioni solo dalle ali del profilato a doppio T, senza l’anima che in
realtà serve a connetterle. I pilastri sono disposti secondo la sequenza 5-8-5 che risulta essere l’ottima per avere momento flettente minimo e deformata minima al centro della piastra, sequenza che coincide anche con rapporti aurei
sia in pianta che in alzato, verificando una corrispondenza tra gli aspetti compositivi e proporzionali e quelli staticocostruttivi. I pilastri - o meglio le colonne come li chiamava Mies - ottenuti dall’intersezione di due profilati a doppio
T, sono leggermente rastremati verso l’alto per accogliere su una piastra cruciforme la cerniera sferica che li connette
alla copertura. È una procedura tettonicamente inversa a quella della colonna dorica nel senso che all’allargamento
dell’echino e del dado si sostituisce l’appoggio puntiforme per sottolineare l’autonomia e la sospensione del tetto, peraltro già evidente grazie alla liberazione degli angoli con gli sbalzi. L’erosione o reductio (nel senso di Husserl) delle
forme del classico, la loro riconcettualizzazione, produce una nuova modanatura, una legge formale (nomos) adeguata alle tecniche e che contiene in sé il suo referente archetipico. È da segnalare che la simmetria della pianta e
la simmetria degli appoggi, oltre a consentirne un calcolo semplificato altrimenti notevolmente oneroso per gli elaboratori allora a disposizione, determina in modo univoco una uniforme ripartizione dei carichi sulle colonne che sopportano, anche se in regime iperstatico, esattamente 1/8 del carico complessivo. A sottolineare il comportamento
della piastra, all’interno dei cassettoni al disotto della lamiera di chiusura delle anime delle travi che risulta essere a
sua volta una piastra compressa, vengono saldati alcuni profili piatti (ribs) nelle due direzioni che si infittiscono nella
parte centrale per garantire maggiore rigidezza flessionale nella parte più sollecitata. Inoltre l’intero graticcio delle
travi viene serrato sui bordi da travi maggiorate e inspessite in prossimità agli appoggi riducendo in tal modo le perturbazioni indotte dalle reazioni vincolari e consentendo una deformata complessiva nel piano della piastra corrispondente a una sezione sferica42 come è chiaramente verificabile dalla distribuzione circolare delle acque meteoriche
sull’estradosso di copertura. Il fronte del tetto è ritmato e decorato dalle teste delle travi che ribadiscono il modulo organizzativo del graticcio. È da notare che la struttura dell’Aula risulta chiaramente leggibile anche a livello inferiore
pur non essendo denunciata, è ‘centrata’ e indipendente rispetto ai moduli dei pilastri. Il podio su quale è posto il
Museo è realizzato attraverso una maglia omnicomprensiva (7,20x7,20) di pilastri in cemento armato con solaio in
soletta strutturale.
Procedure compositive
La fabbrica sintetizza e contiene tutte le architetture di Mies, tutti i suoi modi di comporre. L’edificio risulta dalla giustapposizione di due parti distinte: lo spalto concepito come un volume compatto di tipo stereotomico, che risolve la
relazione con il lotto e più in generale con il sito e l’Aula a sua volta composta di parti ed elementi distinti quali la copertura, i pilastri e la parete vetrata che confermano però, nelle loro partizione, l’assetto tettonico e sintattico. Il crepidoma, in senso classico, ha il ruolo di distinguere l’edificio dal contesto, di rimarcare la sua alterità e intangibilità
adeguate al suo ruolo. Il podio in granito, di altezza differente data l’acclività del sito, misura circa 105x110 metri e
consta di due quadrati traslati e sfalsati in corrispondenza delle scale d’accesso con l’aggiunta di un rettangolo 80x20
che contiene un patio per le sculture. Osservando la pianta del piano posto a quota -4,00 metri dal calpestio dell’Aula
e collegato per mezzo di due scale simmetriche in acciaio, si può notare, a meno dell’ala degli uffici, una perfetta
simmetria distributiva, organizzata sul modulo di 7,20x7,20 metri con pilastri quadrati e scandita da una sequenza
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di spazi ben definiti. Al piano inferiore sembra quasi di ritrovare - come in una ‘archeologia del sapere’ - l’assetto tipologico di una domus con la successione vestibolo-atrio tetrastilo-peristilio ma sorprendentemente, superato l’atrio
quadrangolare, si incontra una sala ipostila 4x11 moduli che, nelle prime versioni, doveva essere liberamente attraversata da pareti disposte in vario modo ma distaccate dai pilastri che erano lasciati in vista. Questa sala ipostila si
apre su di un patio destinato all’esposizione protetta delle sculture. Ritornano in mente il progetto per la Casa a tre corti
ma anche e soprattutto quello per il Museo per una piccola città. Nelle parti più interne o nelle pareti contro terra vengono sistemati gli uffici, i servizi igienici e i locali tecnici, a sinistra trova posto una rampa per il carico e lo scarico
delle opere. Il trattamento degli spazi è assolutamente neutro: le pareti sono dipinte di bianco al fine di far emergere
le opere esposte, che riguardano le avanguardie artistiche del Novecento, con una specifica sezione sull’espressionismo tedesco. A questa densità e articolazione distributiva, necessaria al funzionamento del museo, fa riscontro, al
piano superiore che poi è il piano di ingresso, una quasi totale assenza di partiture e di segmentazioni: vi è un podio
nobilissimo in granito e una grande e severa copertura d’acciaio sostenuta da otto pilastri. Verrebbe quasi la voglia
di non aggiungere altro a tale perentorietà e assolutezza. Siamo per così dire al quadrato nero (l’Aula) su fondo
bianco (lo spalto) di Malevic̆. A cosa serve, cosa vuole significare questo enorme vuoto? Che cosa si vuole rappresentare attraverso questo prodigio tecnico? Premesso che l’utilizzo pratico di tale spazio è abbastanza evidente nell’essere destinato ad atrio di ingresso e sede di mostre temporanee, di cui la più famosa fu quella inaugurale dedicata
a Mondrian, questo spazio diafano a cosa vuole alludere? Per rispondere a questi interrogativi è forse necessario analizzare la successione delle differenti condizioni spaziali che ‘avvengono’ e si succedono sul podio. Si passa da uno
spazio sollevato dal suolo, ma completamente aperto, a uno spazio coperto ma aperto ben definito dalla parete vetrata e dai pilastri che lasciano coerentemente liberi gli angoli, fino a ritrovarsi in uno spazio coperto da questa enorme
piastra fluttuante, locus a rigore confinato, chiuso dalla parete vetrata ma a ben vedere completamente proiettato all’esterno, un esterno che è quasi più concettuale che reale. È l’esterno della Philharmonie o della Biblioteca di Scharoun ma è anche l’esterno del ‘tutto natura’43, dello spazio infinito cosmico, dell’Aperto e della Quadratura (Heidegger)
del quale questo è una parte speciale, solo una porzione, che però riesce a dar conto del tutto e delle sue leggi: nel
patio la natura è circoscritta, sul podio-Tempio diviene totalizzante. Nella NNG è necessario rapportarsi al contesto
urbano per farlo entrare in gioco nell’architettura modificandolo e riconcettualizzandolo. Nella Convention Hall, di contro, il contesto è convenzionale e la scelta di definire l’Aula come un recinto, oltre ad assecondare la ragione dell’edificio, vuole creare al suo interno un suo proprio contesto ordinato e artificiale. L’immensa copertura è una singolarità
inelidibile, è una concrezione (anche se fatta con travi d’acciaio) che non può crescere, né è atomizzabile, allo stesso
modo del Pantheon di cui riprende la perentorietà della forma perfetta e la nobile decorazione a cassettoni rendendola ancor più vera ed efficiente con l’incrocio delle travi in acciaio. Essa è un monolito. La scelta di lasciare liberi gli
angoli, oltre a equilibrare i carichi e le deformazioni della piastra per quelle condizioni di appoggio, tende a rendere
ancora più autonomo e riconoscibile il tetto cui è affidata la descrizione del tema. L’individualità del tetto a cassettoni,
notoriamente non riducibile a un sistema architravato, si rende incombente per la sua completa attraversabilità orizzontale, per l’esiguità degli appoggi e per l’assenza dei sostegni angolari con i conseguenti estesi sbalzi (18 metri)
che volutamente non consentono l’individuazione di un volume ma solo degli elementi. Questa scelta espressiva risulta
inversa a quella di Schinkel nell’Altes Museum in cui i pilastri d’angolo sono talmente evidenziati e messi in rilievo che
l’intera copertura sembra poggiarvi. La modularità generale ordina il sistema costruttivo della copertura e della disposizione dei sostegni e al contempo diviene regolativa delle proporzioni generali dell’edificio sia in pianta con l’incrocio e scomposizione di vari rettangoli aurei e l’identificazione di quadrati di dimensione decrescente dal centro ai
quattro angoli; sia in alzato con la successione di rettangoli con proporzioni progressivamente coincidenti verso il centro con la sezione aurea44 [3x5(5/5) - 3x8(5/8) - 3x5(5/5)]. Tali rapporti pervasivamente ordinano anche le specchiature delle vetrate (3/2) e delle metope del tetto (1/2 - 3x3/2) in una continua concatenazione che garantisce
una euritmia delle parti con il tutto e viceversa. Il sistema proporzionale, apparentemente forzato, che Mies impone a
quest’architettura con l’obiettivo di ricercare le forme necessarie vuole ribadire la non arbitrarietà delle scelte compositive: anche nel fare un ‘semplice quadrato’ ci si deve porre il problema dei rapporti armonici, delle relazioni tra le
parti, del controllo trasmissibile e verificabile dello spazio. Il Museo è una proposizione di tipo apodittico, contiene in
sé le sue leggi e la sua dimostrazione, come in Summerson45 in cui le forme razionali del classico «contengono la loro
spiegazione». In ciò sta probabilmente la grandezza di quest’opera: nell’essere assoluta e raffinata, nelle relazioni con
i mondi formali e tecnici che invoca e nell’essere pur così concreta, così mondana, così costruita con arte. Alla sua
inaugurazione, come è riportato da Bruno Zevi nelle sue Cronache 46, un radicale berlinese disse: «È un edificio che
rende furiosi perché si è costretti ad ammetterne la perfezione».
1. R. Schwarz, Vom Sterben der Anmut, in “Die Schildgenossen”, VIII, 3,(1927-28) p. 289.
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Disegni interpretativi di Augusto Romano Burelli
Disegni interpretativi di Augusto Romano Burelli
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Devo questa espressione al prof. Salvatore Bisogni.
Si veda A. Monestiroli, Le forme e il tempo, pref. a L. Hiberseimer, Mies van der Rohe, Milano 1984.
Cfr. R. Neri, op.cit.
I. Stravinsky, Poetica della Musica, Milano 1983.
Th. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino 1980.
Th. W. Adorno, Teoria estetica, Torino 1975.
L. Mies van der Rohe, Rundschau: Zum neuen Jahrgang (an Dr. Riezler), 1927, citato da A. Monestiroli, in Id., Le forme e il tempo, intr. a L.
Hilberseimer, Mies van der Rohe [1956], Milano 1984.
L. Hilberseimer, J. Vischer, Beton als Gestalter, Stoccarda 1928.
Cfr. F. Irace, Mies, l’enigma del ‘900, in “Domenica” supplemento “il Sole 24 Ore”, 17-6-2001.
I. de Solà-Morales, Mies van der Rohe e il grado zero, in “Lotus”, n. 81, 1994.
L. Lanini, Mies vander Rohe lost ARK, in “Progetto”, n.15, aprile 2003.
Mies van der Rohe, Baukunst und Zeitwille, in Der Querschnitt, 1924, tr. It. L. Hilberseimer, Architettura a Berlino negli anni ’20,1967.
Mies van der Rohe, La nuova epoca, in “Die Form”, 1930, cit. in F. Neumeyer, The artless Word, 1986, p. 309.
K. Frampton, Tettonica e architettura, Milano 1999.
Su semplice e complesso si veda C. Martí Arís, Silenzi eloquenti, a cura di S. Pierini, Milano 2002.
L. Hilberseimer, Groszstadt Architektur, Stuttgard 1927, trad.it. L’architettura della grande città, Napoli 1998, p. 98.
Cfr. C. Martí Arís, La tradizione moderna, in Id., op.cit, Milano 2002.
C. Norber- Schulz, Un colloquio con Mies van der Rohe, riportato in F. Neumeyer, Mies van der Rohe, the artless world, tr. it. Mies van der
Rohe. Le architetture, gli scritti, a cura di M. Caja, M. De Benedetti, Milano 1996, p. 323
C. Martí Arís, Il portico ed il muro come elementi dell’edificio pubblico, in AA.VV, La modernità del classico, R. Neri, P. Vigano (a cura di),
Venezia 2000.
Mies van der Rohe, A Chapel. IIT, in “Arts and Architecture”, IXX, 1,Chicago1953, p. 19.
Cfr. R. Capozzi, La Chiesa ad Aula, in V. Pezza (a cura di), La forma del sacro, Napoli 2004.
Cfr. P. Carter, Mies van der Rohe at Work, New York 1974.
L. Wittgenstein, Tractatus logico-filosoficus, Londra 1961, tr. it. Torino 1964, enunciato 2.033.
Cfr. C. Martí Arís, Mies in chiave tipologica, in Id., Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura, Milano 1990.
Ibidem e inoltre, si veda il saggio citato dallo stesso Arìs: V. Brosa, La razón como relación y el eco de Atenas, tesi di laurea, Barcelona 1987.
La successione di Fibonacci F(i+2) = F(i+1) + F(i) ed in particolare il limite del rapporto F(i+1)/F(i) per (i) che tende all’infinito (i ∞) uguaglia il
valore Ø = 1.618033…numero aureo, di natura irrazionale [(1+√5 )/2] e quindi difficilmente compatibile con l’utilizzo di una griglia modulare intera. Il pregio della successione di Fibonacci [0,1,1,2,3,5,8,13,21,34…] sta proprio nella possibilità di approssimare il rapporto aureo
con una buona precisione utilizzando numeri (moduli) interi 8/5, 13/8, 21/13. Cfr. M. Livio, La sezione aurea, Milano 2003.
Quest’edificio pur non essendo strettamente un’aula e un edificio collettivo in senso stretto, rappresenta un’importante riflessione sul principio di
centralità, precisata e superata per dimensioni e valore nel Home Federal Saving and Loan building. In tal senso si rimanda all’esaustiva analisi sulla sede Bacardi condotta da Martí Arís in Mies in chiave tipologica, in Id., Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura, Milano 1990
pp. 158-160.
Cfr. Martí Arís in Mies in chiave tipologica, in Id., op.cit., Milano 1990 pp. 158-160.
Devo questa intuizione a Pierpaolo Gallucci a sua volta desunta da un’interpretazione della nozione di «Bellezza naturale come elemento della
vita» nell’Estetca di G. Lukacs, op.cit., Torino 1970, cap. XII, par. 2., p. 721.
Cfr. A. Micillo, New York e Mies van der Rohe, in www.architettare.it.
Cfr. F. Schulze, Mies van der Rohe, Milano 1989.
Cfr. C. Martí Arís, Mies in chiave tipologica, in Id., Le variazioni dell’identità. Il tipo in architettura, Milano 1990.
Cfr. P. Carter, op.cit., New York 1974.
Cfr. Ph. Lambert, Mies in America, New York 2002.
C. Norberg-Schulz, Un colloquio con Mies van der Rohe, in F. Neumeyer, op.cit., 1996, p. 324.
«L’aspirazione di questo artista si è esercitata sui temi maggiori dell’arte nuova del costruire: dalla ricerca di una linea originale, all’affermazione di un nuovo concetto di spazio» da E. Persico, All’estremo della modernità, Mies van der Rohe, in “La Casa Bella”, novembre 1931.
A. Drexler, Mies van der Rohe, New York 1960.
Cfr. A. Monestiroli, La metopa e il triglifo. Rapporto tra costruzione e decoro nel progetto di Architettura, Milano 1989, ora in Id., La metopa
e il triglifo, Roma-Bari 2002.
E. Severino, Raumgestaltung, in Id., Tecnica e architettura, Milano 2003, p. 90.
Idea (ideazione) è una delle radici - Id. del verbo όράω (io vedo) nel significato di conoscere. Cfr. E. Panofsky, ‘Idea’, Contributo alla storia
dell’estetica, Firenze 1996 (1924).
Devo questa constatazione alla luce delle verifiche effettuate agli elementi finiti e alle inesauribili e feconde discussioni con l’arch. Massimiliano
Fraldi, ricercatore di Scienza delle Costruzioni presso il Politecnico di Napoli.
Cfr. S. Bisogni, Considerazioni sull’Arte e la Scienza del costruire, in “Restauro”, n.139, 1997.
Queste relazioni modulari paragonabili a una serie continua sono espresse in modo estremamente chiaro nei disegni interpretativi (riconducibili A.R. Burelli) che ho trovato riprodotti nel Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da L. Semerani, Venezia 1993 .
J. Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura, Torino 1970.
B. Zevi, La Galleria Berlinese di Mies, 29 dicembre 1968, in Id., Cronache di Architettura, Roma-Bari 1970-73.
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IL CLASSICO
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COME
‘FUTURO’
DELL’AULA
ATTUALITÀ/INATTUALITÀ DEL TEMA DELL’AULA,
MIES VAN DER ROHE E LA QUESTIONE DEL CLASSICO
Questo saggio che qui si conclude ha tentato di chiarire le seguenti questioni ritenute fondamentali riguardo il tipo
dell’Aula e le architetture di Mies van der Rohe che lo sviluppano esemplarmente:
la possibilità concreta di assumere l’identificazione della generalità dei temi pubblici (a carattere collettivo) con il tipo
ad Aula;
la definizione in sede teorica, ma con il continuo ricorso alle opere, dei caratteri distintivi dell’Aula, delle sue forme
caratteristiche, delle sue parti invarianti rispetto all’ideazione, alla composizione e alla costruzione, individuando le
procedure compositive possibili per questa classe di manufatti (sintassi/paratassi);
i modi attraverso cui l’edificio pubblico ad Aula può specializzare i caratteri distintivi della molteplicità dei temi architettonici che assorbe;
far vedere come la ricerca di Mies van der Rohe, selettivamente indagata rispetto al principio spaziale/formale dell’Aula, sia decisiva a un ulteriore chiarimento del tipo in esame, delle sue possibilità e potenzialità. Mostrare come
le sue architetture civili siano esemplari dell’identificazione con l’edificio pubblico e al tempo stesso depositarie delle
regole e dei principî che presiedono alla composizione, alla costruzione e al significato che tali edifici devono assumere in rapporto alla città e alla natura;
dimostrare l’attualità del tema dell’Aula come elemento di costruzione della città contemporanea.
In termini più espliciti si può affermare che l’assunzione dell’Aula come principio spaziale di riferimento deve necessariamente e continuamente passare per una comprensione e innovazione del tema da svolgere. L’aspetto generale
dell’Aula è quello di una risposta unica, ‘tipica’, a temi differenti accomunati dal senso del collettivo. Ma l’adozione
dei tipi non è immutabile, i temi vanno continuamente reinterpretati e i tipi che li reificano devono modificarsi in ragione di tale riformulazione, di tale confronto con «l’inerzia del reale» (Mies). Lo sforzo è stato quello di provare a
svelare il «segreto di queste architetture» (Grassi), di osservare il modo con cui sono costruite, i sistemi di rapporti che
utilizzano, il riconoscimento delle forme necessarie ed adeguate che adoperano. L’adozione dell’Aula come tipo che
riassume sinteticamente la pluralità dei temi collettivi deve, allo stesso modo, rifondarsi ogni volta per non celare
l’identità e la ragione specifica del manufatto, sia attraverso le forme necessarie cui affidare la sua figura sia nel continuo trasferimento e iniezione di senso degli elementi della costruzione sia nella identificazione delle parti distintive
e caratterizzanti che deve mostrare, mettere in scæna con chiarezza e immediatezza.
Nella proposizione dei tipi e nella potenza di tale atteggiamento metodologico vi è un chiaro rimando a una impostazione classica che si fonda su principî descrivibili e motivabili in senso razionale, logico. Le forme della tradizione
vanno sottoposte a critica nel senso di operare su di esse un giudizio (kritiké tekné - arte di giudicare - da krisis) di
valore capace di svelarne i principî ricercando universali sempre più astratti, ma sempre verificati nei casi concreti,
nelle architetture, di scoprire la loro verità e non di replicarne le forme. Come afferma Emanuele Severino «Il modo
più sicuro di non affrancarsi dal passato è il dimenticarlo. L’autentico oltrepassamento del passato richiede che lo si
conosca a fondo e che ne si tutelino le vestigia»2. Il rapporto con la tecnica deve essere serrato e appropriato al proprio tempo senza operare una sostituzione indebita delle forme dell’architettura con quelle della tecnica che presuppongono una loro interpretazione espressiva e sono subordinate alla composizione e alle sue regole di misura e
proporzione. Il carattere distintivo dei vari temi pubblici risolti con l’Aula non si ottiene solo attraverso la soluzione costruttiva adeguata ma anche con i modi di rappresentazione delle istituzioni, in cui gli elementi o le parti stabili (stoicheia), nel comporsi e nel collocarsi all’interno del vuoto determinato dall’Aula, radicano e svelano all’esterno le
ragioni del manufatto. In questo ambito la selezione delle figure planimetriche e l’autorità di quelle a pianta centrale,
non direzionata, è del tutto evidente e chiaramente confermata dal lavoro di Mies in cui i temi più aulici, cioè più
densi di valore, adottano il quadrato come forma generale che li rappresenta. Non è un caso che proprio le Aule
quadrate spingono più avanti il problema della loro costruzione facendola diventare un’impresa collettiva.
Nelle Aule di Mies l’attività riduttiva sul repertorio degli elementi e sui tipi tratti dallo spessore storico e dalla tradizione dell’architettura, si arresta un attimo prima che sia impossibile riconoscerne il referente. Si produce una semplificazione, un’astrazione, che non riduce gli elementi alla geometria ma tende a una sintesi estrema che vuole
ritrovare il significato essenziale delle cose. Al pari dei numeri primi, che nella matematica possono ‘costruire’ tutti gli
altri numeri, gli elementi e le parti che individua Mies nei suoi edifici possono - come materiali disponibili - ricombinarsi e in senso generale generare tutti i tipi successivi. La definizione dell’Aula, come si è visto, compone e seleziona
due elementi archetipici differenti - il tetto e il recinto - e conseguentemente due principî spaziali contrapposti: quello
che tende all’apertura e quello che tende alla delimitazione. L’atto di recingere e quello di ripararsi sono il presupposto di una conoscenza, della possibilità di realizzare un’esperienza. La scelta di selezionare o combinare tali atteggiamenti di fondo determina univocamente la relazione dell’edificio con la città o la natura, ma immediatamente
anche la qualità dell’interno e dell’esterno e del sistema dei caratteri con cui tale invaso si rappresenta. La scelta cioè
non è arbitraria ma è condizionata dal tema e dal senso dell’edificio. Il diverso orientamento possibile - chiusura o
apertura - rispetto al contesto, in relazione al senso del manufatto e al suo ruolo ordinatore, produce in Mies due alternative rappresentate dalla Galleria di Berlino che svolge il tema del tetto e dalla Convention Hall che si definisce
a partire da un recinto. Declinando e sintetizzando di volta in volta i modelli dell’Acropoli e dell’Agorà3, che presuppongono due idee di città differenti - la prima riconducibile alla città contemporanea (aperta) e alla sua necessità
di ritrovare dei ‘centri’ in rapporto alla natura, e il secondo alla città della storia, alla città consolidata, al suo costruirsi
a partire da un impianto per addizioni compiute - il rapporto dell’edificio ad aula con la città in generale può essere
di tre tipi. Nel primo caso l’Aula concorre, assieme ad altri manufatti civili di pari grado, alla definizione del luogo
pubblico su un piano di parità ed equivalenza: il problema è la costruzione non banale delle relazioni e tensioni a
distanza di tali manufatti come nel caso del Kulturforum a Berlino. Nel secondo caso l’Aula è isolata nella natura o
all’interno stesso della città e risolve il suo rapporto con il contesto attraverso la soluzione del basamento o con uno
spalto che assorbe le irregolarità del sito e permette la costruzione autonoma dell’edificio in senso autoreferente. Lo
spalto diviene un piano neutro dove ‘accadono fenomenicamente’ gli oggetti, le architetture e le loro relazioni a distanza. È il caso della Nationalgalerie e del Teatro di Mannheim in ambito urbano o della sede della Bacardi nel
contesto naturale. Nel terzo caso l’Aula è all’interno di una modularità più generale che irrigimenta altri edifici o può
essere inserita all’interno di una trama urbana ripetitiva in cui il salto scalare delle sue dimensioni e dei suoi caratteri
ne distingue il ruolo.
Nei vari casi sopra esposti l’edificio pubblico rimane un’eccezione capace di distinguersi per ruolo e per senso, che
tenta di ordinare e di riassumere il contesto in un rapporto biunivoco che non ne attenui il valore.
Nella Neue Nationalgallerie si utilizza il referente dell’Acropoli per rapportarsi agli altri monumenti che la circondano.
Per legittimare la distanza e il vuoto che li separa è necessario rapportarsi al contesto urbano per farlo entrare in gioco
nell’architettura trasfigurandolo. Nella Convention Hall invece si produce al suo intorno un grande spazio equivalente
riferibile al foro perché il contesto è convenzionale e la scelta di definire l’Aula come un recinto, oltre ad assecondare la ragione dell’edificio, vuole creare al suo interno il suo environment, il suo campo di pertinenza. Questo atteggiamento è particolarmente evidente in uno dei progetti didattici ispirati da Mies all’IIT che sviluppava il tema del
grande spazio di dimensioni eccezionali. Questa SportHalle - un enorme spazio libero quadrato che sposta al limite
le possibilità dimensionali dell’Aula, coperto da un tetto a cassettoni sostenuto da tre giganteschi pilastri per lato, quasi
a mimare una seconda volta del cielo - contiene al suo interno uno stadio, piste di atletica e alcuni campi per varie
discipline. La grande copertura segna un luogo, determina ancora una volta un microcosmo significativo: un ‘doppio del mondo’. Gli edifici ad aula nel loro complesso (gli exempla), in particolare quelli prodotti da Mies van der
Rohe, e la teoria che sottendono rappresentano una continua fonte di insegnamento, una lezione di dottrina: non un
repertorio di forme o soluzioni da replicare (pena la caduta nel ridicolo) ma un metodo da riprodurre. Le opere esemplari costringono al confronto con esse. La loro descrizione critica riesce a darne una versione interpretativa, ermeneutica, che è sempre un ampliamento della conoscenza (mathos) che si dà o per analogia o per opposizione («omne
quod cognoscitur, coscoscitur per suam similitudinem vel per suum oppositum» - Tommaso d’Aquino). Tale descrizione
deve essere in grado di cogliere una parte delle regole di cui sono depositarie le opere, del modo con il quale sono
state ideate e costruite, deve saper riconoscere le soluzioni e le forme che hanno adoperato/mostrato per risolvere
il loro rapporto con il mondo di cui erano l’espressione. Le Aule di Mies e la sua opera in generale, come una matura e consumata riflessione sui principî universali dell’architettura, l’elogio della lentezza nella ricerca e soluzione del
dettaglio, il suo continuo confronto con le grandi architetture del passato, l’insistenza su alcuni tipi fondamentali e il
riferimento analogico alla natura, sollevano la questione dell’operatività e della permanenza dei principî del classico
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Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che egli conosce è più libero del poeta che scrive quello che gli
passa per la mente ed è schiavo di altre regole che ignora
Raymond Queneau1
Se si volesse inventare ogni giorno qualcosa, non si arriverebbe da nessuna parte. Inventare forme interessanti non costa niente, ma ci vuole
molto tempo per elaborare a fondo una cosa
Mies van der Rohe
Osservare la legge per raggiungere la libertà
George Simmel
in architettura4. Classico inteso come il contrario del creativo, ciò che modera la fantasia, che tende all’oggettivo, all’impersonale che ‘non ha niente a che vedere con la ricerca di forme interessanti’ destinate a sorprendere, purtroppo
tanto presenti nei progetti di questi anni. Come ci ricorda Mies «[...] i templi antichi, le basiliche romane, come pure
le cattedrali medioevali, non sono l’opera di singole personalità, ma la creazione di tutta un’epoca. Chi, di fronte a
questi edifici, chiede il nome del costruttore? Che significato può avere la sua personalità, determinata dal caso? Queste costruzioni sono per loro stessa natura assolutamente impersonali. Esse sono pura espressione dello spirito di
un’epoca»5.
Il classico fondato sui principî e non sulle forme riesce ad avere un valore universale. Per ‘tendere al classico’, come
aspirazione limite, si deve ricostruire un ordine che legittimi gli atti del comporre, che li riporti a delle regole che ne
consentano l’intellegibilità e che renda possibile riconoscere dei tipi trasmissibili e delle forme riconoscibili. La definizione e il riconoscimento dei principî e la loro riduzione all’essenziale amplia il loro grado di generalità e di universalità determinando in tal modo uno ‘statuto’, un corpus definito e trasmissibile. In questo senso il lavoro sul classico
è cosa seria, comporta un impegno etico che rende l’architettura un vero lavoro collettivo in cui ci si possa riconoscere e non una soggettiva e individualistica pretesa di trasformare l’architettura in un semplice veicolo immaginifico
di messaggi promozionali. L’architettura si propone ancora una volta come arte, cioè in grado di spiegare il mondo,
di rendersi una ‘attività conoscitiva’6, di ‘penetrare nella conoscenza’ (Schiller), di aspirare a un’unità contrapposta
alla frammentarietà e alla dissoluzione. Le realizzazioni degli ultimi anni, prodotte da un’equivoca ambizione avanguardista, si caratterizzano per una estraneità ai contesti, un’eccessiva esibizione tecnologica e una netta discontinuità con la storia e i caratteri della città. Queste grandi esibizioni ed esercizi formali non sono semplicemente
auto-referenti rispetto alla città, sono oggetti avulsi che non vogliono spiegare niente al di fuori del linguaggio del proprio autore e del mercato che lo produce. Il loro obiettivo è la ricerca dell’inedito, di ciò che deve sorprendere e catturare l’attenzione. Sono essi stessi prodotti di consumo di quella che Adorno chiamava la mercificata «industria
culturale», non prodotta da una Bildung e da una Kultur ma da una inconsapevole, alienante e acritica Halbbildung7.
La filosofia sottesa a questi oggetti di design è la perdita di ogni fiducia nell’uomo e nella sua capacità di auto-determinarsi con altri nel mondo. Ciò ha comportato la negazione della costruzione collettiva dell’architettura con uno
sfoggio individualista e onanistico di cifre autobiografiche, dimenticando ciò che afferma Borges nella Ricerca di Averroè in cui «l’immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno»8 o il monito di Seneca riportato da Aldo
Rossi: «stolto è colui che inizia sempre punto e a capo e non svolge in modo continuo il filo della propria esperienza».
La deriva delle forme, queste sì veramente autocratiche di certa architettura contemporanea, può solo produrre una
infinita moltiplicazione di messaggi e di forme a-morfe impossibili da motivare o meglio incomprensibili al di fuori di
una sperimentazione linguistico-formale schizofrenica, resa possibile dalle potenzialità pressoché infinite della tecnica e delle tecniche, e che tende in sostanza a un nichilismo individualista9. Come sottolinea Kurt Forster «gli ordini
classici, i principî statici dello spazio assoluto non hanno più senso in una realtà del caos, del flusso, dello spazio incurvato» ma la architettura è il contrario del caos, è una costruzione intellegibile di cui si deve poter dare ragione.
Le forme contemporanee, pur nella loro apparente varietà avanguardista, tendono in definitiva a somigliarsi e - scomparendo elementi identificativi e riferimenti stabili - si tende sempre più alla indifferenziazione dei tipi o per meglio
dire a una loro ibridazione. La rottura con il principio tipologico, come sottolineato da Gianni Fabbri10, produce
sempre più edifici-mondo, edifici-microcosmo, ben più confusi e confondenti: irrimediabilmente lontani da quelli preconizzati da Mies. In tali concrezioni indifferenziate, che presentano all’interno la più articolata distinzione funzionale
possibile, è sempre più difficile, se non impossibile, riconoscere il tema che svolge l’Aula rispetto a tali parti interne,
che nel sovrapporsi confuso fanno ‘ostruzione’. Questi corpi ‘fluidi’ o ‘volumi liquidi’ dalle geometrie più stravaganti
sono come degli arredi di lusso che non trovano misura e radicamento e, sovente, occludono il vuoto che li contiene
riducendo l’Aula, la sua costruzione, a una ‘bolla’, a una semplice scocca di protezione. «Il classicismo [si legga classico] inteso come sistema formale stabile, chiuso, come insieme di norme di immediata applicazione non è più operante. Il classicismo inteso come ricerca di regole per il progetto, come tentativo di ridare intellegibilità al mondo delle
forme è ancora valido ed è presente nel lavoro di alcuni architetti contemporanei»11. Il futuro del classico12 deve presupporre un projectus: non è pensabile al di fuori di un sistema di regole condivise (e non di leggi immutabili), di un
ordine, di obiettivi di fondo, di un affondare nelle radici prime delle forme, dei valori e della tradizione, che siano
‘riflettenti’ il presente, lo spieghino, ne siano l’adempimento, per poi pro-iettarsi (da prohoran - guardare innanzi) in
un futuro degno di essere vissuto. Si deve, per così dire, salire sulle spalle dei giganti per scorgere il futuro, per «vedere realmente il mondo»13. «Ogni epoca - sottolinea Salvatore Settis - per trovare identità e forza, ha inventato
un’idea diversa di classico. Così il “classico” riguarda sempre non solo il passato ma il presente e una visone del futuro. […] Per dar forma al modo di domani è necessario ripensare le nostre molteplici radici».
L’avanzamento produce una discontinuità ma sempre rispetto a qualcosa, rispetto a un retaggio, a una traditio: il nuovo
determina sì una frattura, ma che va ricomposta. Il riconoscimento di un ordine non impedisce la ricchezza e la varietà delle interpretazioni ma ne consente il confronto e la possibilità di applicare le regole in esso contenute con consapevole responsabilità. Non si tratta di proporre un ‘ritorno all’ordine’ ma una ‘andata all’ordine’, allo stesso modo
non si deve ritornare alle origini ma ‘andare alle origini’14. Il carattere specifico del classico15 - come hanno dimostrato le architetture di Mies - è di essere contemporaneamente sovra-storico e, in quanto tale, pervasivo della storia.
Non c’è una seconda Odissea ma l’unica e irripetibile, sub specie aeternitatis, che sempre più conosciamo e interpretiamo, ma che proprio per questo ha aperto la strada e il solco ‘ancora fertile’ a tante opere degne dello spirito
umano.
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Solo un folle può dire che il nostro tempo non ha una sua grandezza
Mies van der Rohe
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E. Severino, Tecnica e Architettura, a cura di R. Rizzi, Milano 2003.
Cfr. S. Giedion, Spazio tempo e architettura, Milano 1984, et A. Monestiroli, L’arte di costruire la città, in Id., op.cit., Roma-Bari 2002 .
Su questo tema si rimanda al fondamentale saggio di M. Cacciari, Il “classico” di Mies van der Rohe, in “Casabella”, n. 629, dicembre 1995,
in cui viene svelato il senso profondo e l’universalità della ricerca miesiana in aperta polemica, qui totalmente condivisa, con l’interpretazione
minimalista fattane da I. de Sola Morales in Mies van der Rohe e il grado zero, in “Lotus”, n. 81, 1994, in cui, non evitando alcune contraddizioni, tra l’altro si afferma: «In Mies non esiste un riferimento alla totalità del kosmos con cui l’arte classica costruiva il significato, gli ordini, i
tipi, le proporzioni, la prospettiva. Non ha senso dunque definire Mies come l’ultimo classicista. [...] l’opera di Mies non parte dalle immagini,
ma dai materiali. Materiali nel senso forte della parola. Parte dalla materia con cui sono costruiti i suoi oggetti. Da una materia astratta, generale, tagliata geometricamente, liscia e pulita, ma consistente, evidente, solida. Ma anche da una materialità più ampia che abbraccia la gravità e il peso degli elementi costruttivi, le tensioni dei loro comportamenti statici, la durezza o la fragilità, dalla artificiosità materiale della
tecnica che prepara e manipola gli elementi con cui si costruisce l’edificio».
Si veda inoltre: E.N. Rogers (firmato E.N.R), Classicità di Mies van der Rohe, in “Casabella”, n. 228, 1959 e A. Monestiroli, Continuità dell’esperienza classica, in E. D’Alfonso, Ragioni della storia e del progetto, Milano 1985.
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Cfr. C. Martí Arís, Silenzi eloquenti, Milano 2003.
Cfr. E. Severino, op.cit., Milano 2003.
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Sulla questione del ‘classico’ si veda inoltre si veda il saggio G. Fusco, Il classico nel moderno, Firenze 2008.
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PROCEDURE
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RIDISEGNI ANALITICI,
COMPOSITIVE, ASSETTI COSTRUTTIVI
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INDICI
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La Galleria Berlinese di Mies, 29 dicembre 1968;
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novembre 1969.
RED., The measure of Mies, in “The Architectural Review”, febbraio
1972.
187
INDICE
DEI
Corner, Donald, 187bibl.
D’Agostino, Angela, 137n
D’Alfonso, Ernesto, 12n, 137n
Dal Co, Francesco, 56n, 187bibl.
Dal Fabbro, Armando, 4, 7, 186bibl.
Dante, (Dante Alighieri), 14
De Benedetti, Mara, 129n, 137n
De Fusco, Renato, 49, 57n
DEAU (Dizionario Enciclopedico di Architettura e Urbanistica),14,
55n, 186bibl.
Denti, Giovanni, 187bibl.
Derrida, Jacques, nato Jackie, 45
Di Bona, Enrico, 187bibl.
Di Domenico, Giovanni, 14, 55n
Di Natale, Salvatore, 55n
Di Pasquale, Salvatore, 57n, 186bibl.
Diderot, Denis, 41
Dienst, Roger, 111
Doimo, Martino, 186bibl.
DPU Dipartimento di Progettazione Urbana, 12n
DRCA Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica, 4, 55n,
56n, 137n, 186bibl., 187bibl.
Drexler, Arthur, 101, 129n, 187bibl.
Durand, Jean-Nicolas-Louis, 20, 110,
Eco, Umberto, 16
Eliade, Mircea, 17
Eliot, Thomas Stearns, 186bibl.
Engel, Klaus, 47, 186bibl.
Estia o Hèstia,16, 55n
Fabbri, Gianni (Giovanbattista), 4, 134, 137n
Farnsworth, Edith, 65, 68, 69, 89, 96
Fehn, Sverre, 22, 37
Fibonacci, (Figlio di Bonaccio) pseud. di Leonardo Pisano Bigollo,
66, 67, 129n
Filóne di Eleusi, 17
Finaldi Russo, Claudio, 4
Flaubert, Gustave, 62
Focillon, Henri, 57n, 186bibl.
Forconi, Daniele, 55n
Forster, Kurt W., 134
Fraldi, Massimiliano, 4, 129n,
Frampton, Kenneth, 55n, 56n, 62, 129n, 186bibl., 187bibl.
Friedman, Yona, 44
Fusco, Gaetano, 137n
Fustel De Coulanges, Numa Denis, 14
Galilei, Galileo, 17
Gallo, Antonella, 4
Gallucci, Pierpaolo, 129n
Gärtner, Artur, 187bibl.
Gaudet, Jean-Louis, 9
Gehry, Frank Owen Goldenberg, 45
Gemoll, Wilhelm, (Guglielmo), 55n
Ghyka, Prince Matila Costiesco (nato Matila Costiescu), 186bibl.
Giangreco, Elio, 47
Giani, Esther, 4
Giedion, Siegfried, 39, 56n,137n
Ginzburg, Moisei Yakovlevich, 56n, 186bibl.
Glaeser, Ludwig, 187bibl.
Glenn Martin Company, 95
Göderitz, Johannes Gustav Ludwig, 22, 36
Goethe, Johann Wolfgang von, 15, 19
Grandinetti, Pierluigi, 55n
Grashof, Franz, 44
Grassi, Giorgio, 10, 12n, 16, 39, 40, 55n, 56n, 132, 186bibl.,
187bibl.
Graves, Robert von Ranke, 55n
Gregotti, Vittorio, 186bibl.
NOMI
“Ad” Reinhardt, (Adolph Frederick Reinhardt), 61
Adorno Wiesengrund, Theodor Ludwig, 60, 129n, 134, 137n
AEG., (Allgemeine Elektricitäts-Gesellschaft), 22
Agostino da Ippona (Aurelius Augustinus Hipponensis), 61
Alberti, Leon Battista, 43
Albini, Franco, 21, 34
Apollinaire, Guillaume,
Arendt, Hannah, 14, 55n
Argan, Giulio Carlo, 44, 57n,
Aristotele, 12n, 57n,
Asplund, Erik Gunnar, 21, 22, 32, 33
Averroè, pseud. di Ibn-Rushd, 134,
Bacardi, (Bacardi y Compania S.A.), 44, 65, 66, 67, 68, 70,
110, 129n, 133, 186bibl.
Barthes, Roland, 12n, 55n
Behrens, Peter, 22, 36, 56n, 186bibl.
Benevolo, Leonardo, 16, 55n
Benjamin, Walter, 9, 16,
Berg, Max, 22, 36
Bergdoll, Barry, 187 bibl.
Bergson, Henri Louis, 19
Berlage, Hendrik Petrus, 20, 31, 39, 56n,
Bill, Max, 186 bibl.
Bisogni, Salvatore, 4ring., 12n, 21, 22, 55n, 56n, 57n, 60,
129n, 186bibl.
Blackwood, Michael, 12n
Blake, Peter, 186bibl.
Blaser, Werner, 186bibl.
Bogliolo, Giovanni, 137n
Bonfanti, Ezio, 49, 56n, 57n, 186bibl.
Boniello, Ilario, 4
Borges (Acevedo), Jorge (Francisco Isidoro) Luis, 134
Bottero, Maria, 186bibl.
Bötticher, Karl Gottlieb Wilhelm, 42, 56n,
Boullée, Étienne-Louis, 12n, 19, 20, 30, 39, 40, 41, 49, 50, 55n,
56n, 60, 88, 110, 186bibl.
Braque, Georges, 63
Brosa, Victor, 129n
Brunelleschi, Filippo, 61,
Bucarelli, Palma, 186bibl.
Buckminster Fuller, Richard, 44
Buddensieg, Tilmann, 186bibl.
Burelli, Augusto Romano, 126-127, 129n
Burnham, Daniel Hudson, 101
Cacciari, Massimo, 15, 55n, 68, 137n, 186bibl.
Caja, Michele, 56n, 57n, 129n, 187bibl.
Calvino, Italo, 15,
Canella, Guido, 186bibl.
Cao, Umberto, 186bibl.
Caporali, Renato, 55n
Capozzi, Renato, 7, 57n, 129n, 187bibl.
Caracalla pseud. di Lucius Septimius Bassianus, 18
Carbonara, Pasquale, 55n
Carnelutti, Francesco, 12n
Carpanelli, Francesco, 187bibl.
Carter, Peter, 64, 65, 69, 107, 129n, 187bibl.
Ching, Francis D. K., 187bibl.
Choisy, Auguste, 18, 42, 55n,
Cigala, Carolina, 4
Cirici, Cristian, 187bibl.
Clark, Roger H., 187bibl.
Cohen, Jean-Louis, 187bibl.
Conte, Marco, 187bibl.
188
Gropius, Walter Adolph, 62, 102, 187bibl.
Guardini, Romano, 64
Guidoni, Enrico, 14, 186bibl.
Hadid, Zaha, 45
Hartoonian, Gevork, 186bibl.
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 43, 50, 56n,
Hegemann, Werner, 55n, 56n
Heidegger, Martin, 15, 38, 41, 50, 55n, 112, 186bibl.
Heller, Robert, 186bibl.
Hermann, Wolfgang, 56n
Hilberseimer, Ludwig Karl, 7, 12n, 21, 22, 50, 52, 53, 55n, 56n,
57n, 60, 61, 62, 64, 88, 129n, 186bibl., 187bibl.
Hirdina, Karin, 187bibl.
Husserl, Edmund Gustav Albrecht, 111
Iacobelli, Ciro, 4
Ictino (Iktìnos),17
IIT (Illinois Institute of Technology), 7, 10, 40, 61, 62, 64, 71, 88,
101, 102, 129n, 133
Il collegio dei docenti del DRCA dello IUAV, 4
Irace, Fulvio, 129n, 187bibl.
IUAV (Università IUAV di Venezia), 4, 55n, 56n, 137n, 186bibl.
Jacobsen, Arne Emil, 22, 37
Jarzombek, Mark, 187bibl.
Johnson, Philip, 187bibl.
Jordy, William H., 187bibl.
Kahlfeldt, Paul, 187bibl.
Kahn, Albert, 65, 76, 95,
Kandinsky, (nato Vasilij Vasil’evi Kandinskij), 76
Kaufmann, Emil, 49, 186bibl.
Khan, Louis, 15
Koenig, Giovanni Klaus, 187bibl.
Koeper, Fredrick, 187bibl.
Kornacker, Frank J., 88
Kostof, Spiro, 187bibl.
Krupp Ltd, (Essen), 111
Kubler, George, 186bibl.
Kundera, Milan, 186bibl.
Labrouste, Pierre-Francois-Henri, 20
Lambert, Phyllis, 129n, 187bibl.
Lampugnani, Vittorio Magnago, 187bibl.
Landsberger, Martina, 4, 55n
Lanini, Luca, 12n, 56n, 129n, 187bibl.
Laugier, Marc-Antoine, 19, 43, 50
Le Corbusier, pseud. di Charles-Edouard Jeanneret-Gris, 22, 35, 42,
50, 57n, 61, 63, 110,
Ledoux, Claude-Nicolas, 20, 50
Leoni, Giovanni, 187bibl
Libera, Adalberto, 21, 34
Libeskind, Daniel, 45
Liebknecht, Karl, 62, 72
Linazasoro, José Ignacio, 186bibl.
Livio, Mario, 129n
Losasso, Mario, 57n, 186bibl.
Lukács, György, 10, 15, 39, 56n, 68,
Luxemburg, Rosa, pseud. di Rozalia Luksenburg, 62, 72
Maglio, Andrea, 55n, 56n,
Malacarne, Gino, 4, 137n
Maldonado, Tomás, 186bibl.
Malevic̆, Kazimir (o Kasimir) Severinovi , 61, 65, 112, 136
Mantese, Eleonora, 56n
Martí Arís, Carlos, 4, 10, 12n, 18, 55n, 63, 65, 129n, 137n,
186bibl., 187bibl.
Masiero, Roberto, 55n, 137n,
Massenzio (Marcus Aurelius Valerius Maxentius), 18, 27
Mertins, Detlef, 186 bibl.
Meyer, Hannes, 22
Miano, Pasquale, 187bibl.
Micillo, Aldo, 187bibl.
Mies van der Rohe, Ludwig, 1, 4, 7, 8, 9, 10, 11, 12n, 18, 21,
22, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 50, 51, 56, 60, 61, 62, 63,
64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71-87, 88, 89, 90-94, 95, 96,
97-100, 101, 102, 103-109, 110, 111, 112, 113-128,
129n, 132, 133, 134, 135, 136, 137n, 140-183, 186bibl.,
187bibl.,
Mikellides, Byron, 187bibl.
Mondrian, Piet (nato Pieter Cornelis Mondriaan), 63, 112, 72
Moneo, Rafael, 9, 12n, 186bibl.
Monestiroli, Antonio, 4, 12n, 14, 15, 16, 38, 39, 40, 43, 55n,
56n, 60, 101, 129n, 137n, 186bibl., 187bibl.
Montella, Concetta, 187bibl.
Moro, Alessandra, 56n
Mylonas, George E., 55n
Nardi, Guido, 56n, 186bibl.
Narpozzi, Marino, 4, 186bibl.
Neri, Raffaella, 12n, 41, 42, 55n, 56n, 129n, 137n, 186bibl.
Nervi, Pier Luigi, 186bibl.
Neumeyer, Fritz, 4, 129n, 186bibl., 187bibl.
Newton, Isaac Sir, 19, 45
Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 62,
Noack, Ferdinand, 55n
Norberg-Schulz, Christian, 16, 38, 56n, 129n,
Occam, (Guglielmo di Ockham), 62
Odifreddi, Piergiorgio, 55n
Oud, Jacobus Johannes Pieter, 43, 56n
Palazzotto, Emanuele, 55n
Palladio, Andrea, 9, 19,
Panofsky, Erwin, 38, 56n, 129n
Papi, Lorenzo, 187bibl.
Parmenide di Elea, 55n
Pause, Michael, 187bibl.
Pawley, Martin, 187bibl.
Perret, Auguste, 17, 42, 56n,
Persico, Edoardo, 21, 34, 129n, 187bibl.
Pevsner, Nicolaus Sir, 186bibl.
Pezza, Valeria, 4, 12n, 15, 55n, 129n,
Pica, Agnoldomenico, 187bibl.
Pierini, Simona, 129n,
Pigafetta, Giorgio, 55n
Pitagora di Samo, 69
Pizzigoni, Vittorio, 187bibl.
Platone, 16, 41, 43
Plec̆nik, Jože, 51
Poelzig, Hans, 45
Polesello, Gianugo, 4, 55n, 186bibl.
Pone, Sergio, 186bibl.
Portoghesi, Paolo, 55n
Pracchi, Attilio, 137n
Quatremère de Quincy, Antoine Chrysostome, 19, 40, 42, 56n
Queneau, Raymond, 132, 137n
Raffaello, (Raffaello Sanzio), 19
Ramos, Fernando, 187bibl.
Renna, Agostino, 39, 55n, 56n, 186bibl.
Ricasso, Pablo, 76
Riley, Terence, 187bibl.
Rizzi, Renato, 4, 137n, 186bibl.
Rogers, Ernesto Nathan, ENR, 60, 137n, 187bibl.
Rossi, Aldo, 12n, 19, 39, 49, 55n, 56n, 134, 186bibl.
Salvadori, Mario, 186bibl.
Samonà, Giuseppe, 186bibl.
Sansovino, Jacopo (nato Jacopo Tatti), 19
Sartre, Jean-Paul Charles Aymard, 41
Savio, Andrea, 187bibl.
Scharoun, Bernhard Hans Henry, 62, 71, 110, 112,
Schiller, Johann Christoph Friedrich von, 134
189
Schinkel, Karl Friedrich, 20, 21, 50, 55n, 56n, 63, 64, 68, 89,
110, 111, 112,
Schmarsow, August, 15, 55n,
Schulze, Franz, 69, 129n, 187bibl.
Schwarz, Rudolf, 56n, 60, 64, 129n
Scortecci, Chiara, 186bibl.
Seagram Company Ltd, 67
Sekler, Eduard F., 186bibl.
Semerani, Luciano, 4, 12n, 38, 55n, 56n, 129n, 137n, 186bibl.
Semper, Gottfried, 43, 56n,
Sen, Amartya Kumar, 55n
Settis, Salvatore, 134, 137n
Severino, Emanuele, 55n, 56n, 129n, 132, 137n, 186bibl.
Sharp, Dennis, 187bibl.
Shelling, Friedrich Wilhelm Joseph von, 15
Sicignano, Enrico, 56n, 186bibl.
Simmel, Georg, 132
Siola, Uberto, 137n
Solà Morales Rubió, Ignasi, 12n, 61, 129n, 137n, 187bibl.
Spaeth, David A., 187bibl.
Speyer, A. James, 187bibl.
Spirito, Fabrizio, 4, 12n
Strabone, 19
Stravinsky (Stravinskj), Igor’ Fëdorovi , 60, 129n, 186bibl.
Stucky, Monica, 186 bil.
Sullivan, Louis, 67
Summerson, John Newenham, Sir, 112, 129n,
Tafuri, Manfredo, 49
Taut, Bruno, 22, 45, 62
Terlizzi, Patrizia, 4
Terragni, Giuseppe, 21, 186bibl.
Tessenow, Heinrich, 50, 57n, 70, 52, 54
Timoshenko (Tymoshenko), Stephen Prokopovych, 44
Tommaso d’Aquino, santo, 61, 65, 133
Traiano (Marcus Ulpius Nerva Traianus),18, 27
Trebbi, Giorgio, 187bibl.
Tugendhat, Ernst, 63,
Urano (Ouranós),16
Vacchini, Livio, 137n
Valéry, Paul, 14, 55n,
van de Ven, Cornelis, 57n
van Doesburg, Theo, pseud. di Christian Emil Marie Képper, 63, 72
Vattimo, Gianni, 56n
Viganò, Paola, 55n, 186 bibl.
Viollet-le-Duc, Eugène Emmanuel, 20, 30, 42, 62
Vischer, Julius, 129n
Visconti, Federica, 4, 137n
Vitruvio Pollione, Marco, 10, 41
Wachsmann, Konrad, 44, 45, 57n, 102,
Wachter, Gabriela von, 187bibl.
Wagner, W. F. Jr, 187bibl.
Warburg, Aby Moritz, 62
Whiffen, Marcus, 187bibl.
Wittgenstein, Ludwig Josef Johann, 61, 65, 129n, 137n
Wright, Frank Lloyd, 110, 187bibl.
Young, Jenny, 187bibl.
Zeus, 16, 55n
Zevi, Bruno, 112, 129n, 187bibl.
Zucchi, Cino, 186bibl.
Zukowsky, John, 187bibl.
INDICE
DELLE
OPERE
“Aulé” (cortile principesco), 7, 14
“Aule a confronto”, disegno, (Mies van der Rohe), 69, 82, 87
“Composizione”, dipinto, (Kandinsky), 76
“Composizione”, dipinto, (Mondrian), 63, 112
“Concert Hall”, collage e disegno di studio, (Mies van der Rohe),
65, 68, 95, 110, 76,97
“Dipinto”, (Braque), 63, 74
“Guernica”, dipinto, (Picasso), 76
“Le differenti condizioni delle architetture”, disegno, s.l., (Le
Corbusier), 61, 71
“Lezione di Roma”, disegno, (Le Corbusier), 50
“Mannaia”_”Featuring Alba”, scultura, Barcellona, (Kolbe), 73
“Mies”, film, (Blackwood), 8, 12n
“Mostra alla NNG”, dipinti, Berlino, (Mondrian), 124
“Quadrato nero su fondo bianco”, dipinto, (Malevic̆),136
“Ritmo di una danza russa”, dipinto, (van Doesburg), 63, 72
“Scuola di Atene”, cartone Biblioteca Ambrosiana_Milano - affresco
Stanza della Segantura, Palazzi Vaticani_Roma, (Raffaello), 19, 30
“Studi di Aule”, disegno, (Mies van der Rohe), 87
“Studio dei tracciati regolatori della Nuova Galleria di Berlino”,
disegno, (Burelli),
“Studio per la Nuova Galleria di Berlino”, schizzo, (Mies van der
Rohe) 110, 115
“Studio per un edificio, coperto e aperto sui lati, con colonnato
monumentale”, disegno, (Tessenow), 50, 52
162-167, 178-181, 183
Acropoli, (tipo), 17, 18, 20, 71,133
Agorà, (tipo), 18, 24, 71,133
“Alpine Architektur”, disegno di città ideale, (Taut), 45
Alta Corte di Giustizia, Chandigarh, (Le Corbusier), 22, 35
Altes Museum, Berlino, (Schinkel), 20, 21, 89, 110, 112
Anaktoron, 17
Ara di Ierone, Siracusa, (Ierone II), 16
Basilica di Massenzio, Roma, (Costantino), 18, 27, 28
Basilica, Vicenza (Palladio), 19, 29
Bauakademie, Berlino, (Schinkel), 20
Biblioteca Centrale, Stoccolma, (Asplund), 21, 22, 32
Biblioteca Comunale, Rödrove, (Jacobsen), 22, 37
Biblioteca di Sainte-Geneviève, Parigi, (Labrouste), 20
Biblioteca Nazionale ed Universitaria, Lubiana, (Ple nik), 51
Biblioteca Nazionale, Parigi, (Boullèe), 19, 20, 30, 50, 88
Biblioteca, Efeso, 11
Borsa, Amsterdam, (Berlage), 20, 31
Boulè, Pergamo, 18
Bouleteria, Mileto, Piene, Heracleia, Termessos, Assos, Kretopolis,
17, 25
Bouleterion, 16
Broletto, Lombardia, 19
Camera dei Comuni, Londra, 17
Campo dei Miracoli, Pisa, 20, 61
Cantor Drive-in, Indianpolis, IND (Mies van der Rohe), 67, 68, 96,
85, 152, 153, 169, 177, 179, 180, 182
Capanna primitiva, (Laugier), 14, 15, 19, 43, 55, 23
Capanna primitiva, (Le Cobusier), 14, 55, 23
Capanna primitiva, (Semper), 23
Cappella all’IIT, (Mies van der Rohe), 61, 64, 129n, 168
Cappella, Stoccolma, (Asplund), 21, 33
Casa 50x50, s.l., (Mies van der Rohe), 65, 68, 69, 74, 81, 87,
140-151, 161, 163-167, 180-181, 183
Casa a tre corti, s.l., (Mies van der Rohe), 63, 112, 187bibl., 74
Casa Caine, Winnetka, IL (Mies van der Rohe), 65, 74
Casa Farnsworth, Plano, IL, (Mies van der Rohe), 65, 68, 69, 84,
87, 89, 96, 140-149, 152-154, 156-160, 180-182
Movimento Moderno, 10, 20, 60
Neue Saclickeit, 62
Novembergruppe, 62, 63
De Stijl, 62
190
Casa in campagna in mattoni, s.l., (Mies van der Rohe), 62, 63, 72
Casa nella Foresta Nera, Todtnauberg, (Heidegger), 38
Casa Tugendhat, Brno, (Mies van der Rohe), 63, 73
Cenotafio a Newton, Parigi, (Boullèe), 19
Chiesa di San Pietro, Roma, (Bramante_Michelangiolo_Maderno),
22
Chiesa di Santa Sofia, Costantinopoli, 22
Chiesa e Convento di Santa Maria de La Tourette, Éveux, (Le
Corbusier), 22, 35
Convention Hall, Chicago, (Mies van der Rohe), 5, 7, 10, 44, 61,
65, 66, 68, 69, 70, 71, 81, 87, 101-102, 103-109,110,
112, 123, 133, 140-151,
Corte principesca o Palazzo principesco, Grecia, (Dedalo?), 14,
Crematorio_Woodland, Stoccolma, (Asplund), 21, 22, 33
Crown Hall, IIT Chicago, (Mies van der Rohe), 5, 7, 10, 44, 67,
68, 69, 84, 85, 87, 88-89, 90-94, 140-149, 152-160, 170,
179-182, 186bibl.
Cupola di Santa Matia del Fiore, Firenze, (Brunelleschi), 61
Curia Julia, Roma, (Faustus Sulla), 17,
Dominion Centre, Toronto, (Mies van der Rohe), 66, 67 68, 70, 83,
150, 175, 176, 178-179, 180-181, 183
Elisabethkirke, Berlino, (Schinkel), 20, 27
Federal Centre, Chicago, (Mies van der Rohe), 60, 83
Festhalle_Colonia balneare, Rügen, (Tessenow), 50, 52, 54
Festhallen, 22
Fiera, Breslavia, (Berg), 22, 36
Filarmonica di Stato, Berlino, (Sharoun), 71, 110,
Ginnasio all’IIT, Chicago, (Mies van der Rohe), 61
Halle Stadt und Land_progetto, Magdeburgo, (Taut), 22, 36
Home Federal Saving and Loan building, Des Moines, IA (Mies van
der Rohe), 66,-67, 68, 69, 70, 129n, 86, 152-153, 173,
177, 179-182
Jarhunderthalle, Breslavia (Berg), 22, 36
Kulturforum, Berlino, (Sharoun_Mies), 61, 110, 133, 71, 120, 124
Maison Citrohan, s.l., (Le Corbusier), 42
Maison Dominò, s.l., (Le Corbusier), 42, 45
Megaron, 14, 16, 17
Mercati Traianei, Roma, (Apoloddoro da Damasco), 18, 27
Monumento a Karl Leibknecht e Rosa Luxemburg, Berlino, (Mies van
der Rohe), 62, 72
Municipio, Parigi, (Boullèe), 19, 20,
Municipio, Rödrove, (Jacobsen), 22
Museo per una piccola città, s.l., (Mies van der Rohe), 63, 65, 75,
76, 95, 96, 112,
Museo Schäfer, Schweinfurt, (Mies van der Rohe), 66, 68, 69, 110,
80
Museo, Alessandria d’Egitto, (Tolomeo I), 19
Museo_”Monumento alla riconoscenza pubblica”, Parigi, (Boullèe),
19,
Neue Nationalgalerie_NNG, Berlino, (Mies van der Rohe), 5, 10,
44, 57n, 62, 64, 66, 68, 69, 70, 110-112, 113-128,133,
140-151, 161, 163-167, 174-176, 178-179, 183, 186bibl.,
187bibl.
Neue Wache, Berlino, (Schinkel), 21, 63, 64
Padiglione dei Paesi Scandinavi alla XI Biennale, Venezia, (Fehn), 22
Padiglione della Germania, Barcellona, (Mies van der Rohe), 63,
65, 72, 73, 187bibl.
Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi, Roma, (Libera), 21, 34
Palazzo dell’Acqua e della Luce all’E’42, Roma, (Albini), 21, 34
Palazzo della Ragione, Padova, (Giovanni degli Eremitani), 19, 22,
29
Palazzo della Società delle Nazioni_Concorso, Ginevra, (Meyer),
22
Palazzo di Cnosso, Creta, 16
Palazzo Municipale, 18
Pantheon, Roma, (Apoloddoro da Damasco), 18, 19, 21, 22, 28,
44, 61, 112,
Parlamento, Chandigarh, (Le Corbusier), 22, 35
Portico (riparo_tetto), 14, 15, 16, 17, 18, 21, 22, 50, 55n, 63,
65, 68, 70, 88, 102, 110, 129n, 186bibl.
Recinto Sacro, Micene, 16
Sala con tremila posti a sedere, Parigi, (Viollet-le-Duc), 20, 30
Sala ipostila, Delo, 16, 23
Sala ipostila_”delle cento colonne”, Persepoli, (Dario), 16
Salone d’Onore alla VI Triennale, Milano, (Persico), 21, 34
Schauspielhaus, Berlino, (Schinkel), 20
Scuola Grande della Misericordia, Venezia (Sansovino), 19
Scuola Grande di San Rocco, Venezia, (Bon_Lombardo_Abbondi_dè
Grigi), 19
Seagram building, New York, (Mies van der Rohe), 67
Sede della Compagnia Bacardi, Cuba, (Mies van der Rohe), 44,
65, 66, 67, 68, 69, 70, 77-79, 81, 82, 87, 110, 129n,
133, 186bibl, 150-151, 178-181, 183
Singakademie, Berlino, (Schinkel), 20
Sporthallen, 22
Sporthalle, progetti didattici all’IIT, (Mies van der Rohe), 133, 136
Stadhallen, 22, 36
Stadthalle, Magdeburgo, (Göderitz), 22, 36
Stadthalle, Norimberga, (Hilberseimer), 50, 52-53
Stoà, 18
Teatro coperto, Pompei, (Marco Artorio Primo), 18, 25
Teatro Nazionale, Mannheim, (Mies van der Rohe), 5, 7, 10, 12n,
44, 62, 67-68, 69, 70, 95-96, 97-100, 110, 129n, 133,
140-149, 152-153, 155-160, 171-172, 177, 179-187, 187
bibl.
Teatro nel Museo per una piccola città, 65, 75
Telesterion, 16
Telesterion, Eleusi, (Ictinos_Filóne), 17, 101, 24, 26, 106
Témenos (muro_recinto), 14, 15, 16, 17, 18, 19, 55n, 61, 62,
63, 69, 101, 102, 112, 129n, 133, 186bibl.
Tempio (tipo),16, 17, 18, 19, 42, 43, 60, 65, 111, 112, 134,
Tempio in àntis, 17
Tempio periptero, 16, 17, 18, 65, 102
Terme di Baia, Bacoli_Pozzuoli,
Terme di Caracalla, Roma, (Aureliano)
Thersilion, Megalopolis, 26
Turbinenfabrik AEG, Berlino, (Behrens),
191
Finito di stampare a Napoli
nel mese di dicembre 2010
per conto delle edizioni CLEAN
nelle Officine Grafiche Francesco Giannini e figli s.p.a.