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diritto privato

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Parte prima: Nozioni introduttive e principi fondamentali
A. Realtà sociale e ordinamento giuridico.
1. Norme e comportamento. Le norme sono strumenti di valutazione del comportamento, che
può essere giudicato giusto o ingiusto, morale o immorale, lecito o illecito.
Valutare un comportamento equivale a dare un giudizio: questo giudizio è fondato o infondato, a
seconda se è giustificato da una norma.
Il linguaggio delle norme è dunque prescrittivo e non descrittivo, cioè comunica valutazioni che
vietano o permettono comportamenti, ma non descrivono eventi o emozioni.
La valutazione del comportamento è la funzione costante delle norme: ciascuna di esse è
portatrice di una regola e ciascuna è connessa all’altra.
Le norme assumono diverse tipologie in base alle materie che disciplinano: es. le norme di
organizzazione dell’impresa, le norme come regole costitutive e come regole di condotta di
comunità.
2. Giurisprudenza come scienza sociale. La valutazione del comportamento presuppone la
conoscenza delle regole e lo studio delle regole è una forma di conoscenza della società, che è
affidata alla giurisprudenza.
La giurisprudenza è la scienza del diritto ed è strettamente legata alla società in cui svolge la
sua funzione, ossia è influenzata dalle condizioni politiche, sociali, economiche, religiose, ecc.
Per questi motivi la giurisprudenza è da intendersi anche una scienza sociale che permette la
conoscenza della struttura e della funzionalità di uno stato.
Una regola si pone affinchè serva a qualcosa: la sua realizzazione è garantita da sanzioni positive
o negative.
Le sanzioni negative, qualificate solo come sanzioni, sono conseguenze sfavorevoli inflitte a
colui che ha violato la norma (es: risarcimento del danno); esse non riguardano le pene restrittive
della libertà essendo campo del diritto penale. Le sanzioni positive sono conseguenze favorevoli
per colui che ha osservato le norme (es: leggi di incentivazione riguardanti una politica fiscale di
favore).
Il diritto positivo è il diritto prevalentemente scritto posto da fonti predeterminate e
riconoscibili; esso ha la funzione di:
a) conservare le situazioni presenti nella società conformando le proprie regole a quelle
sociali preesistenti;
b) trasformare, sotto la spinta di interessi alternativi, l’esistente modificando la società.
La coattività è carattere fondamentale dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, non di
ogni singola regola giuridica; consiste nella sanzionabilità delle situazioni. Questo però non vale
sempre, infatti esempi di regole non coattive si riscontrano nell’ambito sia di rapporti
patrimoniali ma soprattutto non patrimoniali, come nell’ambito del rapporto matrimoniale, che
non sono coercibili mediante sanzioni.
3. Diritto, morale e regole non giuridiche. Il compito del diritto è di prevenire e sciogliere i
conflitti sociali; esso si basa su un consenso morale di fondo. Quando la norma è rilevante non
basta lasciarla alla mera esecuzione della moralità, ma essa viene trascritta per essere applicata. Il
diritto e la morale nella maggior parte dei casi sono complementari: quanto al contenuto, la
differenza sta solo nel fatto che nel diritto vi è la necessità di definire in anticipo la fattispecie da
regolare, quali siano le sanzioni, fissare il risarcimento, ecc…: quanto alla forma, le regole
morali non sono rispettate se manca la convinzione interiore di chi agisce, per le regole
giuridiche basterebbe invece l’osservanza esteriore del comando, il timore della sanzione. Questo
collegamento tra diritto e morale non è sempre verificato, in quanto in alcune fattispecie il diritto
e la morale entrano in conflitto (es: l’aborto).
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4. Linguaggio giuridico e linguaggio comune. Il linguaggio giuridico non coincide sempre con
quello comune: esso, infatti, assegna alle parole una qualificazione giuridica che implica delle
conseguenze giuridiche.
Esiste quindi, per ogni termine, una definizione legislativa che, anche se dà una definizione
vincolata del termine, è sempre sottoposta ad interpretazione. Le definizioni legislative sono
adeguate o inadeguate, non vere o false: sono adeguate, se congruenti con la realtà dei
comportamenti.
A volte il linguaggio giuridico e quello naturale hanno un nesso molto stretto, che pone in essere
alcuni termini di confine, come persona, interesse e promessa.
Con queste espressioni il sistema giuridico entra in contatto con la realtà.
Non tutti i termini sono definiti dalle norme giuridiche, ma alcuni, come le definizioni
dottrinali, sono definiti dalla dottrina.
Senza queste il linguaggio dei giuristi e delle leggi sarebbe poco comprensibile.
5. Segue. Disposizione, articolo, norma. Regole e principi come norme.
Il diritto non definisce la norma, la regola e il principio, ma li presuppone.
La disposizione è un enunciato che fa parte di un testo che è fonte del diritto. Ogni disposizione
ha almeno un significato, a cui si è giunti con l’interpretazione.
La disposizione interpretata esprime una norma con la quale si valuta una condotta.
Nella norma si identificano una fattispecie astratta e una concreta: l’astratta è costituita dalle
circostanze previste dalla norma; la concreta consiste nella fase di identificazione della
situazione reale con quella astratta e nell’applicazione delle conseguenze previste.
Abbiamo poi l’articolo, che è la partizione interna di una legge e serve unicamente per
indicare a quale enunciato si intende far riferimento.
Esso è utile quando la legge è lunga e complessa. Se ha più capoversi si divide in commi e può
contenere una o più norme.
Una disposizione è ricavabile non solo da un unico articolo, ma dalla combinazione di più
articoli contenuti in leggi diverse.
Importante è il rapporto esistente fra regole e principi: entrambi sono norme.
La regola è una norma che richiede un insieme sufficientemente specifico di comportamenti per
la sua soddisfazione.
Il principio è norma che impone la massima realizzazione di un valore: è sempre applicabile ad
una nuova fattispecie.
Il principio si afferma non con un’unica intensità e non con un'unica soluzione perché esso è
norma aperta ad una molteplicità di soluzioni.
Ogni regola è riconducibile almeno ad un principio. La regola riguarda un
comportamento e lo valuta: questo, se valutato positivamente, costituisce un modo di realizzare
un principio.
La regola è quindi una scelta tra le molteplici opportunità di realizzazione di un principio:
nessuna regola ha senso se non sia riferita ad un principio.
Un problema che ci si pone è se la regola sia congruente col principio e se ne sia l’unica
modalità di attuazione.
La norma eccezionale è una regola non riconducibile in via immediata al principio.
La norma inderogabile, invece, è una regola valutata come l’unica modalità di attuazione del
corrispondente principio.
La norma eccezionale non si può applicare otre i casi e i tempi in essa considerati; quella
speciale, invece, è dettata per materie particolari in un tipo più generale; essa può essere
applicata per analogia.
Le regole speciali non sono necessariamente eccezionali: per essere tali non è sufficiente la
particolarità della materia, ma occorre che sussista un contrasto con il principio.
Quella eccezionale è, invece, una prescrizione dettata per problemi singolari (1) o per fattispecie
atipiche (2).
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Per quanto riguarda la 1ª ipotesi, un esempio può essere una regola che vieti di vendere energia
elettrica ad un paese straniero con il quale vi è una crisi diplomatica e militare, essa è una
deviazione del principio delle libertà degli scambi.
Per quanto riguarda la 2ª ipotesi un esempio può essere la regola che vieta di uscire dai finestrini
di un autobus, essa è una situazione atipica.
L’eccezionalità o la specialità di una norma dipende dal sistema di norme ove è inserita:
al mutare del sistema, può mutare la qualificazione.
L’eccezionalità è questione d’interpretazione.
La norma eccezionale è applicabile anche analogicamente all’interno del proprio contesto.
La norma derogabile è applicabile salvo che la volontà dei privati non disponga
diversamente; quando una norma inderogabile è violata, spetta al soggetto interessato chiedere
al giudice di applicare le sanzioni previste.
La norma inderogabile può essere anche imperativa: in tal caso essa è vincolante e coercibile
perché non lascia ai privati la libertà di disporre diversamente (es: inserendo clausole contrarie).
La violazione di una norma imperativa provoca la nullità dell’atto, salvo che la legge on
disponga diversamente.
Tra lo stato d’inderogabilità assoluta e la totale derogabilità vi sono stati intermedi di
inderogabilità di diversa intensità.
L’esperienza legislativa comunque conosce l’inderogabilità in peius: la norma stabilisce un
livello minimo di tutela al di sotto del quale è vietato scendere, ma le parti restano libere si
assicurare un risultato migliore più favorevole di quello minimo garantito.
Il giudizio sull’inderogabilità o sul tipo di derogabilità è pertanto l’esito di un procedimento
interpretativo.
6. Sistema, gerarchia, bilanciamento dei poteri.
Ogni norma è applicabile alle ipotesi (fatt. concrete) che rientrano nel suo ambito di valutazione
(fatt. astratte).
Il sistema giuridico è il diritto, l’insieme dei principi, delle regole e delle norme; esso è aperto,
cioè mutabile in relazione alle nuove esigenze e alle nuove fattispecie.
Sappiamo che la regola è realizzazione del principio, ma nel caso in cui nell’ordinamento
manchino le regole esplicite corrispondenti, un principio è direttamente applicabile.
Ogni norma che entra a far parte del sistema può mutarne l’assetto: l’unico limite è il rispetto
delle regole sulla produzione legislativa e dalla rigidità della Costituzione.
Nella risoluzione di una fattispecie non vi è soltanto un concorso di principi, ossia un
richiamo alla pluralità di esigenze, ma anche un concorso di regole, cioè quando due o più
regole sono applicabili alla medesima fattispecie concreta.
Quando una regola entra in conflitto con un’altra si ha il conflitto di regole; consiste nel fatto
che una regola proibisce un comportamento che l’altra impone.
Per risolvere questo conflitto (antinomia) esistono 3 criteri:
1) cronologico: tra due regole in conflitto prevale quella emanata per ultima;
2) gerarchico: prevale quella posta da una fonte di livello superiore;
3) della specialità: prevale quella più particolare rispetto alla generale.
Può esistere,a sua volta, un conflitto tra criteri: in tal caso il criterio cronologico cede di fronte
agli altri due e quello gerarchico prevale su quello di specialità.
Per i principi non esistono conflitti ma sempre dei concorsi.
Questo concorso lo si identifica nel bilanciamento dei principi, che consiste nell’individuare le
rispettive relazioni di preferenza e compatibilità, e la norma da applicare.
Il bilanciamento si configura nella ragionevolezza, che è un giudizio su una norma particolare
ricavata da norme generali: ragionevole o irragionevole è perciò la regola applicata.
Ragionevole è la scelta di chi pone una regola adeguata, proporzionata, non discriminatoria e non
contrastante con la giustizia.
Il bilanciamento dei principi è strettamente legato ad una gerarchia dei valori che postula
un criterio di preferenza; in assenza di tale criterio sarebbe impossibile stabilire se una soluzione
sia migliore di un’altra, impossibile distinguere bilanciamenti corretti e scorretti.
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Bilanciare senza gerarchia deresponsabilizza il giudice, cioè egli è libero di non pronunciarsi su
priorità di valori; si potrebbe così cadere in un mero decisionismo del giudice.
La dottrina del bilanciamento quindi introduce un ulteriore principio, quello del precedente
giudiziario moderatamente vincolante.
Occorre mantenere in equilibrio 3 esigenze:
1) evitare che il giudizio sui valori favorisca l’intolleranza;
2) garantire che le sentenze dei giudici siano controllabili dal punto di vista della loro
fedeltà al testo della costituzione;
3) assicurare una certa continuità nelle decisioni giudiziarie.
È errato contrapporre gerarchia dei valori e bilanciamento.
Giudicare ragionevole qualcosa postula che vi sia un criterio di preferenza altrimenti la
ragionevolezza sarebbe il travestimento linguistico del nudo potere del giudice.
La ragionevolezza quindi rende concreta una preferenza: è un criterio di giudizio sulla
preferibilità della regola applicabile.
Nel nostro ordinamento il fondamento della ragionevolezza è il valore della persona, tutelata
dall’art. 2 della Costituzione.
7. Principi e clausole generali.
Un principio per essere applicato, deve essere fondato, individuando nel sistema le disposizioni
che lo esprimono.
Il principio è una norma che impone la massima realizzazione di un valore; i principi si dividono
in:
a) generali, sono quelli fondamentali della comunità;
b) tecnici, sono la costruzione concettuale di esigenze dettate dalla vita pratica;
c) assoluti, operano in concorso con gli altri due e riguardano i principi supremi, quelli
inviolabili.
Le clausole generali sono un frammento di disposizioni normative con significato vago: alcuni
esempi sono il buon costume, l’ordine pubblico.
La differenza tra clausola generale e principio è che nel principio il parametro di valutazione del
comportamento è certo, nella clausola generale è incerto, poiché dalla disposizione che contiene
ancora si deve ricavare un significato applicabile.
Solo dopo che lo si è ricavato, la norma si può dire individuata.
Tutte le disposizioni hanno una certa vaghezza che per essere superata ha bisogno di
integrazione, ossia dell’interpretazione.
A al riguardo definiamo un ulteriore concetto, quello di standard, che è un criterio
giuridico normale del comportamento sociale; gli standards operano come principi, regole o
come direttive di politica del diritto.
Lo standard indica un rinvio a valutazioni sociali; è inutile distinguere le clausole generali, i
concetti determinati, il libero apprezzamento, gli standards.
Un’accettabile classificazione distingue 3 funzioni delle clausole generali:
1) la funzione di recezione, è quella tradizionale dove le clausole rinviano a norme sociali
le quali, pur non trasformandosi in norme giuridiche, sono applicate dal giudice; le norme
sociali integrano le lacune;
2) la funzione di trasformazione, dove la clausola generale recepisce non le norme sociali,
ma i valori sociali;
3) la funzione di delegazione, dove il giudice non si limita a formulare valutazioni che egli
considera conforme a quelle socialmente dovute, ma assume la responsabilità di compiere
scelte economico – politiche che egli considera conformi ai valori giuridici
dell’ordinamento vigente.
In una società senza partizione gerarchica delle fonti, l’uso delle clausole generali esprime
l’esigenza dell’ordinamento giuridico di rinviare a valutazioni e norme sociali.
Questo rinvio è da intendersi come un’area di sviluppo della giurisprudenza circa la soluzione di
problemi lasciati aperti dal legislatore.
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In un ordinamento giuridico con una propria gerarchia delle fonti, è impensabile che la
tecnica legislativa delle clausole generali sia applicata al medesimo modo di una società senza
partizione gerarchica delle fonti.
Le clausole generali sono uno strumento di concretizzazione di valutazioni contenute in altre
norme: ogni clausola seleziona un tipo di concorso di principi ed esprime la scelta del legislatore
di dedicare attenzione privilegiata ad alcuni problemi e non ad altri.
In quanto tecnica legislativa, le clausole generali sono impiegate sia in leggi ordinarie sia in leggi
costituzionali.
8. Diritto e potere. Il potere è la capacità di persone di influenzare il comportamento umano.
In una realtà sociale dove vige la pari dignità, il potere è giustificato e rispettato mediante le
norme.
Ma è la stessa norma ad attribuire un potere; chi rispetta la norma è in una situazione di potere:
nessuno può ostacolarlo o sanzionarlo.
Chi formula ,invece, le norme ha il potere di distribuire il potere.
La sovranità è il potere che non riconosce altro potere al di sopra del suo.
Affinché la comunità si costituisca in ordine politico, un potere deve affermarsi come sovrano,
dotato di autonomia, sì da non riconoscere alcun altro potere al di sopra di sé e da istituire poteri
settoriali e locali soltanto entro un ambito da sé stesso delineato. Un potere siffatto è
manifestazione di sovranità.
9. Legalità e legittimità nello Stato sociale di diritto.
La legalità è la fedeltà alla legge, il rispetto della norma e dell’ordinamento giuridico che la
comprende.
La legittimità è la giustificazione del potere: essa è giustificata dalla legalità, perché grazie al
rispetto della norma e dell’ordinamento giuridico, si giustifica anche colui che le ha emanate.
Questi due principi sono presenti nello Stato di diritto.
Lo Stato di diritto è “Stato” in quanto potere dominato dal diritto ed è “di diritto” in quanto
mediante il diritto realizza l’indirizzo di governo e garantisce la sicurezza della vita dei cittadini.
Caratteri dello Stato di diritto sono: 1. la supremazia della legge sull’amministrazione, 2. la
subordinazione dei diritti dei cittadini soltanto alla legge, 3. l’indipendenza dei giudici.
Lo Stato è persona giuridica ed ha la funzione di mantenere l’ordine, di assicurare l’equilibrio tra
i gruppi dominanti e i dominati.
Lo Stato sociale di diritto è il tentativo di coniugare legalità e giustizia sociale; esso
riconosce al cittadino sia libertà negative, ossia limitazioni di sovranità dello Stato nei confronti
dell’individuo, sia libertà positive, ossia la pretesa dell’individuo ad una serie di prestazioni da
parte dello Stato finalizzate a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno e libero sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese” (3² cost.).
Lo Stato sociale di diritto mantiene la garanzia della separazione dei poteri dello Stato di
diritto.
Nel corso degli anni questo modello di costruzione del benessere e della giustizia collettiva ha
avuto attuazione distorta e parziale, caratterizzata dalla proliferazione caotica di leggi speciali e
dalla dilatazione del potere amministrativo (burocrazia).
Si è avuta quindi una crisi dello Stato sociale di diritto, crisi generata dai particolarismi verso i
singoli o verso determinati gruppi, sulla raccomandazione, sull’interesse a lucrare sempre anche
nella forma della tangente, sull’estorsione o, peggio, sulla necessità, per ottenere ciò che spetta,
di utilizzare forme illecite, ed infine sul sistema della spartizione dei posti senza alcun rispetto
per il merito e le competenze dei singoli.
La crisi è smarrimento culturale, perdita del senso civile della legalità e della giustizia.
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Lo Stato sociale si deve fondare sui diritti e sui doveri sociali: la cultura dei doveri non è ancora
diffusa e ciò ha causato la crisi dello stato sociale.
La legittimazione del potere statale è fondata su di un sistema di valori, positivizzato
(scritto) nel supremo atto legislativo e fondativo del vigente ordinamento: la Costituzione
Repubblicana.
La legittimità non è assorbita nella legalità, ma la fonda: la società è fedele alla legge in quanto
essa è legittimata nell’esercizio del suo potere dalla stessa società.
Il potere dello Stato non si giustifica più in sé stesso; esso si giustifica in quanto è
raggiungimento di giustizia e libertà sociale che costituiscono la ragione di quel patto
costituzionale tra i cittadini, il quale patto costituzionale riconosce il potere allo Stato.
La legge non è più libera, ma deve rispettare la dignità umana e consentire l’effettiva libertà della
persona.
La persona è il valore fondamentale da attuare; la democrazia è lo strumento per realizzare
questo valore.
Chiunque rispetti e condivida i valori della Costituzione ha l’obbligo politico di fedeltà verso la
sovranità dello Stato e il dovere giuridico di osservare le norme.
L’ordinamento deve preservare l’integrità individuale, morale o politica; nel caso ciò non
avvenga, il cittadino utilizza la disobbedienza civile e o l’esercizio di un legittimo diritto di
resistenza.
Il rispetto per le differenze individuali induce la tutela dell’obiezione di coscienza:
l’ordinamento riconosce il particolare valore morale, religioso o culturale del rifiuto di tenere un
determinato comportamento ed esonera taluni dal dovere corrispondente.
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B. Fonti del diritto
10. Fonti del diritto. Gerarchia e competenza.
Le fonti del diritto sono gli atti o i fatti considerati dall’ordinamento idonei a creare, modificare o
estinguere le norme giuridiche.
La fonte è il fatto o atto mediante la cui interpretazione viene determinata la norma; le fonti sono
a loro volta individuate da altre norme.
Quando lo Stato decentra i suoi poteri ad entità autonome, ad es. enti locali o sovrannazionali che
dettano norme immediatamente vigenti nello Stato (norme della CE) e che legiferano in virtù di
un potere proprio, si produce un pluralismo di fonti.
Sappiamo che ogni norma è posta da una superiore, quindi esiste una gerarchia così strutturata:
a) fonti costituzionali (Costituzione e leggi costituzionali);
b) fonti comunitarie (atti normativi dell’UE) e fonti internazionali;
c) fonti primarie (leggi ordinarie statali, decreti legge e decreti legislativi, regolamenti
parlamentari, referendum e leggi regionali);
d) fonti secondarie (regolamenti amministrativi);
e) fonti terziarie (consuetudini, ecc…).
L’unica elencazione normativa delle fonti del diritto italiano, contenute nel codice civile del
1942 (art.1 disposizioni preliminari), è del tutto superata: è anteriore alla Costituzione
repubblicana del 1948, non esaurisce il quadro delle fonti primarie e secondarie, richiama fonti
ormai cessate quali le norme corporative, espressione dell’ordinamento fascista, soppresso nel
1943.
La nostra Costituzione è rigida cioè non può essere modificata da leggi ordinarie del Parlamento
ed essa assegna in modo diretto o indiretto ciascun’altra fonte la propria funzione normativa.
Il sistema delle fonti è chiuso a livello primario: una legge ordinaria non può istituire un’altra
fonte primaria.
Le fonti secondarie possono invece avere fondamento legislativo: una legge ordinaria può
istituire una fonte di rango regolamentare (fonte secondaria).
La gerarchia delle fonti indica una forza attiva, ossia la capacità di creare, modificare o
estinguere norme, e una forza passiva, ossia la capacità di resistere all’abrogazione.
La competenza indica la materia o il rapporto sul quale la fonte è abilitata a porre norme
giuridiche.
La combinazione di gerarchia e competenza è imposta dal vigente sistema delle fonti nel
quale l’unica fonte a competenza generale è la legge ordinaria dello Stato, abilitata a regolare
qualsiasi materia o rapporto, salvo che dalla Costituzione non si evinca l’attribuzione della
competenza ad altre fonti.
Vi sono cmq fonti dello stesso rango che hanno competenze specifiche: basti pensare alla legge
ordinaria e ai regolamenti parlamentari che hanno il medesimo rango gerarchico (fonti primari),
ma soltanto ai secondi è consentito disciplinare l’organizzazione interna della Camera o del
Senato; a volte la competenza si divide secondo il tipo di normazione (formulazione di principi o
di regole).
L’articolazione delle gerarchie e delle competenze è lo strumento mediante il quale il
sistema normativo assicura l’attuazione dei propri principi.
Le fonti primarie e secondarie esprimono i rapporti di separazione, fiducia e controllo tra potere
legislativo ed esecutivo.
La norma che impone per una fonte una certa procedura esprime il tipo di integrazione che tale
norma deve assumere affinché sia conforme al sistema costituzionale dei valori.
Ad es. la legge di approvazione dell’amnistia e dell’indulto deve essere approvata dal parlamento
con maggioranza dei 2/3.
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Il vigente sistema delle fonti esige sia la gerarchia sia la competenza; la Costituzione è al
centro del sistema delle fonti, ma tuttavia i rapporti tra le fonti istituite richiamano, affianco della
competenza, la gerarchia: vi è gerarchia ogni volta che una fonte (subcostituzionale) sia
condizione di validità di un’altra.
Quindi non sembra condivisibile la proposta di rimuovere la gerarchia a favore della
competenza.
La Corte Costituzionale è l’organo di controllo della costituzionalità delle leggi e nel
conflitto delle fonti; essa ha il potere di rimuovere dall’ordinamento le norme incostituzionali di
rango primario: la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della
sentenza che ne ha dichiarato l’incostituzionalità (136 cost.).
11. Identificazione delle fonti. Caratteri delle norme giuridiche.
Per identificare le fonti si ricorre ai criteri formali ed in mancanza a quelli sostanziali.
Non bisogna confondere l’identificazione della fonte con la sua validità: un atto è fonte del
diritto se rispetta determinati criteri formali, è valido se rispetta la gerarchia e la competenza.
Sono criteri formali la denominazione ufficiale dell’atto e il procedimento di
approvazione.
La denominazione ufficiale dell’atto è il criterio di identificazione della legge.
Le altre fonti primarie si identificano in base alla forma del procedimento: qualunque atto del
Governo è adottato con “D.P.R.” ma il Governo ha il potere di normazione sia primaria (decreti
legislativi e decreti legge) sia secondaria (regolamenti).
I decreti legislativi si hanno quando il Parlamento delega il Governo a legiferare su determinate
materie ed entro una determinata scadenza; sono adottati a séguito di legge parlamentare di
delega.
I decreti legge si hanno quando il Governo legifera in stato di necessità e urgenza ed esso è
presentato alle Camere, per la sua conversione in legge, il giorno stesso.
I d.l. e i d.lgs. devono essere adottati con il proprio nome e con l’indicazione, rispettivamente,
della legge di delegazione e delle circostanze di urgenza.
Il regolamento governativo deve indicare il parere, non vincolante ma obbligatorio, del
Consiglio di Stato e si richiede l’uso della denominazione ufficiale di regolamento.
In mancanza dei criteri formali si ricorre a quelli sostanziali che sono generalità ed
astrattezza.
La generalità consiste nel fatto che la norma è rivolta non ad un singolo individuo ma alla
totalità degli individui.
L’astrattezza consiste nel fatto che la norma è applicata ad una fattispecie nelle innumerevoli
volte che si ripresenta lo stato di fatto previsto.
Tuttavia la tesi della necessaria generalità ed astrattezza è insostenibile, perché norma è ogni
criterio di valutazione del comportamento.
Vi sono norme individuali, applicabili ad una sola persona o una sola volta (es: leggi che
conferiscono privilegi); norme generali ma non astratte (es: regole che istituiscono
un’istituzione); norme astratte ma non generali (es: funzioni del Presidente della Repubblica).
Al livello delle fonti primarie la tesi della generalità ed astrattezza è smentita dalla presenza di
leggi provvedimento che dispongono non in via generale ed astratta, ma per specifiche
situazioni.
L’assenza di generalità ed astrattezza pone un problema non di identificazione ma di validità.
I presunti criteri sostanziali della generalità ed astrattezza sono utili soltanto al livello
delle fonti secondarie, per distinguere atti che sono fonti del diritto da atti amministrativi che non
sono fonti.
Gli atti del Governo possono essere sia fonti normative (regolamenti) sia atti amministrativi
(provvedimenti).
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12. Costituzione, codice civile, leggi ordinarie.
Le norme espresse dalla Costituzione si trovano in una situazione di supremazia rispetto alle altre
al vertice della gerarchia delle fonti.
La Costituzione fonda l’ordinamento e le norme che esprime, quelle costituzionali, sono
direttamente applicabili nei rapporti di diritto civile: non occorre che una legge ordinaria le
recepisca.
La legge è subordinata alla Costituzione che è rigida e quindi modificabile solo con una
maggioranza qualificata del Parlamento; la forma repubblicana però non può essere modificata
da nessuna maggioranza (139 cost.).
La Corte Costituzionale ha l’ufficio di dichiarare l’eliminazione di tutti quegli atti aventi forza di
legge che siano in contrasto con i principi costituzionali (134 e 136 cost.).
L’unità dell’ordinamento è realizzata dalla corretta interpretazione del giurista che
ricompone le molteplici fonti in coerenza costituzionale, quindi non basta considerare l’articolo
di legge e risolvere la questione concreta.
Il codice è una fonte contenente un insieme di proposizioni prescrittive che disciplinano
un determinato settore; consta di 2969 articoli più le leggi speciali.
Il codice vigente (del 1942) pone in primo piano l’aspetto economico in tutte le sue forme:
impresa, attività produttiva, regolamentazione del lavoro.
In seguito con l’avvento della Costituzione, il codice è stato riletto e la produttività è stata
subordinata ai diritti fondamentali della persona.
Attualmente si parla di decodificazione, ossia perdita della centralità del codice civile
attraverso l’emanazione di leggi speciali che hanno disciplinato settori rilevanti in modo
frammentario.
Ciò tuttavia non significa perdita di unitarietà dell’ordinamento, unitarietà che è assicurata dalla
Costituzione.
Spetta al lavoro dell’interprete individuare i princìpi portanti della legislazione c.d. speciale,
riconducendoli all’unità.
13. Fonti del diritto della Comunità europea.
L’Italia fa parte dell’Unione Europea, organizzazione nata originariamente con finalità di
sviluppo economico, tutto questo grazie alla libera circolazione delle persone, dei servizi e dei
capitali.
Così si è venuto a costituire un ordinamento comunitario, distinto da quello statale, con proprie
fonti e un insieme di competenze enumerate, ristrette alla natura economica.
Tale specificità, però, vincola cmq le fonti comunitarie alla legalità alla legittimità dello Stato
italiano.
In seguito con i vari trattati (ultimo quello di Maastricht del 07 febbraio 1992) i settori di
competenza dell’U.E. si sono ampliati e le finalità sono uno sviluppo sociale non solo economico
ma soprattutto sociale dei paesi membri.
La comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono
assegnati.
In altri settori la Comunità interviene solo se e nella misura in cui gli obiettivi non possono
essere realizzati sufficientemente dallo Stato membro e possono essere realizzati meglio a livello
comunitario (principio della sussidiarietà).
Il principio di sussidiarietà non è una clausola aperta per l’erosione del potere statale ma
rappresenta il riconoscimento di una funzione europea di coordinamento di attività che
rimangono pur sempre statali.
Tra e fonti comunitarie importanti sono i regolamenti e le direttive.
I regolamenti hanno portata generale e sono direttamente applicabili negli Stati membri.
Le direttive invece non sono direttamente applicabili, ma richiedono che lo Stato membro emani
norme interne corrispondenti.
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Qualora non vengano emanate tali norme lo Stato è responsabile del danno provocato al
cittadino.
La direttiva, quando è incondizionata, sufficientemente precisa e sia scaduto il termine concesso
allo Stato membro per il recepimento, è direttamente applicabile nei rapporti tra cittadino e
autorità statale (efficacia verticale); è esclusa l’applicabilità diretta della direttiva nei rapporti tra
cittadini (efficacia orizzontale).
Nella ricostruzione delle fonti comunitarie in ruolo preminente è stato assunto dalla Corte
di Giustizia delle Comunità Europee, che ha il compito di curare la corretta interpretazione del
trattato, e di riflesso dalle Corti costituzionali dei singoli paesi membri.
I regolamenti e le direttive sono gerarchicamente posti al di sopra delle leggi ordinarie,
ma subordinate alla Costituzione; infatti, la Corte può definire incostituzionale un atto normativo
europeo e quindi privo di efficacia nel nostro ordinamento, perché le norme comunitarie non
posso intaccare i principi fondamentali, l’identità e l’essenza del nostro ordinamento.
Questa forma di autotutela è importante per garantire un’identità nazionale e una difesa del
potere della Costituzione, perché la normativa costituzionale prevale su quella comunitaria.
Il problema sta nel fatto che non esiste ancora una Confederazione Europea, che possa garantire
ad ogni Stato che ne faccia parte un’adeguata difesa e tutela.
È impensabile rimettere nelle mani della Corte di Giustizia delle Comunità Europee la funzione
della Corte Costituzionale Italiana.
Ancora, le fonti comunitarie sono poste da organi nominati dai Governi degli Stati
membri e quindi manca un’autentica rappresentatività democratica, ossia una dialettica tra
maggioranza e minoranza, propria della legge: anche in materia economica le fonti comunitarie
devono rispettare la funzionalizzazione sociale dell’impresa e della proprietà imposta dalla
Costituzione.
14. Gerarchia e competenza degli atti comunitari.
L’integrazione delle fonti nazionali e di quelle comunitarie ha prodotto un sistema italo –
comunitario delle fonti.
L’ordinamento comunitario non è provvisto di una rigorosa distinzione tra atti legislativi (fonti
primarie) e atti amministrativi (fonti secondarie e provvedimenti): l’assenza di una gerarchia
delle fonti europee danneggia il sistema e favorisce abusi e ambiguità.
Quando la direttiva è direttamente applicabile, il giudice disapplica la legge ordinaria
contrastante e applica la direttiva; nel caso contrario egli conserva la legge ordinaria, ma la
interpreta, se possibile, secondo la direttiva.
Perciò spetta al giudice nazionale decidere se la direttiva costituisce fonte del diritto ed è idonea
a prevalere sulle fonti primarie nazionali
Inoltre possiamo aggiungere che, quando non è direttamente applicabile, la direttiva vale come
criterio per l’interpretazione del diritto interno.
Se pure la direttiva sia sufficientemente precisa ed abbia quindi efficacia diretta, il suo
contenuto normativo è vincolante per quanto riguarda il raggiungimento dello scopo e non per la
normativa di dettaglio in essa contenuta.
Questa cede di fronte alla legislazione ordinaria interna di dettaglio.
15.Altre fonti. Leggi regionali. Consuetudine.
Fanno parte delle fonti primarie le leggi regionali competenti solo nelle materie indicate nella
Costituzione, tra cui beneficenza pubblica, assistenza sanitaria e ospedaliera, turismo, ecc.
Queste leggi devono rispettare i principi fondamentali posti con le leggi dello Stato.
La consuetudine (o uso normativo) è una fonte-fatto, un comportamento reiterato e
costante dei consociati; affinchè il comportamento costante (usus) sia una consuetudine, occorre
che sia tenuto nel convincimento della sua doverosità (opinio iuris ac necessitatis) .
È una fonte terziaria in quanto è subordinata alla legge e ai regolamenti.
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Può essere secundum legem, quando affianca la legge; praeter legem nelle materie non coperte
da fonti primarie o secondarie; non può essere logicamente contra legem.
Ogni consuetudine, anche in assenza di fonti primarie, deve essere controllata dal punto di vista
della sua rispondenza ai princìpi fondamentali.
Da tale punto di vista le C., piuttosto che prater legem, sono soltanto secundum legem: è fonte
del diritto la consuetudine che superi il giudizio di conformità a Costituzione.
16. Fonti internazionali. Le consuetudini internazionali si possono assimilare gerarchicamente
alle fonti costituzionali.
Il nostro ordinamento si conforma automaticamente alle norme internazionali non formulate in
un trattato ma generalmente osservate.
Diverso è il meccanismo di recepimento per le norme internazionali pattizie, per la cui
vigenza è necessario un atto-fonte di recepimento.
Esso può avvenire con legge apposita (ordine di esecuzione) che è priva di contenuto proprio; o
con specifici atti normativi, che hanno proprio contenuto normativo.
La legge prevale in caso di difformità col contenuto del trattato.
17. Fonti extra ordinem. Le fonti la cui idoneità a produrre norme non è stabilita da norme
superiori si chiamano fonti extra ordinem.
Esempi sono: i contratti collettivi e gli accordi sindacali.
Per questi ultimi lo scopo è di incentivare lo Stato ad emanare adeguate norme giuridiche.
Bisogna distinguere le fonti extra ordinem da altri fatti o atti ai quali taluni conferiscono
la qualità di fonti del diritto (l’emergenza, la necessità e ogni evento rivoluzionario alternativo al
vigente ordinamento).
18. Giurisprudenza e dottrina.
Il principio di legalità esige che il giudice sia sottoposto solo alla legge; inoltre, nella decisione
di una controversia, la sentenza del giudice non è fonte.
Quindi il precedente vincolante non è fonte di diritto in quanto il giudice non è obbligato a
seguire l’interpretazione del precedente giudice.
Ciò che conta è la ratio decidendi, ossia il principio che rappresenta l’idea sulla quale si fonda la
sentenza: idea sempre legata alla fattispecie concreta, alle sue peculiarità che, spesso, hanno
dell’irripetibile.
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C. Principi
19. Studio del diritto per problemi. Diritto privato, diritto pubblico e diritto civile.
Il diritto è frazionato didatticamente in una pluralità di settori in base al rapporto che
disciplinano.
La tradizione vuole che il diritto pubblico disciplini il rapporto tra lo Stato ed il cittadino, il
diritto privato disciplini il rapporto tra privati.
Queste definizioni non possono più valere, perché lo Stato agisce delle volte da privato.
Quindi tali definizioni sono superate ed ora si possono qualificare di diritto pubblico
solo le regole che istituiscono e disciplinano l’organizzazione interna dello Stato e degli altri enti
locali che rappresentano la sua sovranità.
In ogni settore abbiamo sia nome pubbliche che private: a volte si soddisfa l’interesse privato, in
quanto si soddisfa direttamente l’interesse dei singoli; a volte quello pubblico, perché si soddisfa
quello della collettività.
L’interesse pubblico deve essere considerato come interesse di tutti, di molti o strumentale che
deve essere soddisfatto affinché altri interessi individuali vengano soddisfatti.
Tale interesse non prevale su quello individuale perché è più ampio, cioè più generale.
Sono di diritto civile le regole e i princìpi riconducibili al principio di eguaglianza; sono
di diritto pubblico le norme che istituiscono una differenza tra soggetti comuni (i privati) e gli
enti pubblici.
Tuttavia l’etichetta di diritto privato, va’ sostituita con quella di diritto civile, inteso come il
diritto in condizioni di eguaglianza, disciplina il rapporto tra i cives (cittadini).
20. Personalismo e solidarismo costituzionale.
Il personalismo è la dottrina che riconosce l’uomo come individuo che si realizzi nella sua
personalità.
La Costituzione si fa garante della tutela dei cosiddetti diritti inviolabili, affinché l’uomo si
realizzi senza ostacoli di alcun genere (art. 2 cost.).
La Costituzione riconosce anche la solidarietà intesa come la cura dell’altro, che esprime la
cooperazione e l’eguaglianza dei diritti fondamentali di tutti.
Essa riconosce anche i gruppi come luogo di sviluppo della persona, ma li subordina ad
essa: sono le formazioni sociali, che sono tutelate solo se idonee a garantire lo sviluppo di ogni
persona che ne faccia parte.
21. Principio di democraticità. La democrazia è uno dei principi cardini del nostro Stato: essa è
una procedura di decisione con un libero confronto di opinioni e con deliberazioni raggiunte
dalla maggioranza, senza dimenticare i diritti insopprimibili della minoranza.
È inseparabile dall’eguaglianza perché altrimenti non si giustificherebbe il diritto di
partecipazione di tutti alle decisioni, dalla persona perché non tutte le decisioni maggioritarie
sono legittime.
L’attuazione della democrazia nella società si manifesta mediante il rispetto reciproco,
l’eguaglianza morale e giuridica: ricordiamo i sindacati e i partiti che devono essere a base
democratica.
22. Principio della divisione dei poteri e principio della legalità.
Lo Stato garantisce una prevenzione di abuso di potere con la separazione delle sue funzioni
tipiche; esiste il potere legislativo (Parlamento), potere esecutivo (Governo) e potere
giudiziario (Magistratura).
Tutti e tre coesistono in condizione di equilibrio e di reciproco controllo impedendo la
prevaricazione dell’uno sull’altro.
Nella Costituzione sono previsti organi ai quali sono affidate funzioni non riconducibili alla
predetta tripartizione: così il Presidente della Repubblica o la Corte Costituzionale (134 cost., il
compito di dirimere i conflitti tra poteri dello Stato); così il Consiglio Superiore della
Magistratura (104 cost.).
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Un importante potere è quello giudiziario, che riconosce l’indipendenza e l’inamovibilità del
magistrato (art. 107 cost.).
Il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101 cost.) pretendendo una ragionevolezza
nell’emanazione della sentenza, in quanto non può giudicare secondo le proprie visioni del
mondo.
La legalità scaturente dalla Costituzione non si riduce a quella del codice civile: è legalità
di uno Stato sociale di diritto, fondato sulla libertà, sulla solidarietà e sull’eguaglianza.
23. Principio di eguaglianza.
Art. 3 ― Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (1),
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua , di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (2), impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese.
(1) L’ordinamento repubblicano riconosce al cittadino un unico titolo di dignità, il
lavoro. Tutti coloro che concorrono al progresso materiale e spirituale del Paese sono eguali fra
loro e dinanzi alla legge; nessun privilegio può consentire di porsi al di sopra della legge.
L’eguaglianza così intesa sancisce la subordinazione di tutti i consociati, compresi i poteri dello
Stato e gli enti pubblici, all’osservanza della legge.
Eguaglianza non vuol dire egualitarismo (eguali condizioni sociali), ma deve essere
intesa nel fatto di offrire a tutti le pari opportunità senza effettuare discriminazioni.
Questo principio è leso quando o situazioni uguali sono giudicate diversamente o quando
situazioni diverse sono giudicate in ugual modo.
Il principio di uguaglianza è unitario.
La distinzione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale è arbitraria: l’una e l’altra sono
in funzione reciproca; entrambe esprimono un unico principio, quello dell’eguaglianza nella
giustizia sociale.
Si è cercato di fare a meno dell’eguaglianza sostanziale, riducendo l’eguaglianza alla
mera parità di trattamento.
In tal modo si perde di vista il nesso tra eguaglianza, pari dignità e sviluppo della persona; si
perde di vista la centralità del rispetto dei diritti fondamentali a favore di quelli patrimoniali.
(2) La prima parte della norma, nell’affermare il principio di eguaglianza formale,
considera l’individuo nella sua astrattezza, indipendentemente dalle condizioni materiali e
sociali in cui egli concretamente si trova.
Il principio d’eguaglianza sostanziale, invece, sancisce il passaggio dall’ordinamento liberale
classico (in cui la società era organizzata sulla base della proprietà privata e dell’assoluta
libertà economica) allo Stato sociale ed interventista, che si impegna a creare le condizioni
necessarie per consentire l’accesso di tutti a determinate utilità sociali messe a disposizione
della comunità, come la salute [v. 32], il lavoro [v. 38], l’istruzione [v. 34].
Quindi essa è attuata non soltanto con la redistribuzione dei beni e con discipline diversificate in
ragione della disuguaglianza di fatto, ma anche con la garanzia di un’effettiva partecipazione
degli individui alla dinamica dei rapporti di diritto civile.
24. Funzione legislativa e giustizia costituzionale.
Sono limiti della funzione legislativa l’irretroattività e la riserva di legge.
L’irretroattività afferma che, nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in
vigore prima del fatto commesso (25² cost.).
Solo nella materia penale è regola di rango costituzionale; negli altri àmbiti è un principio: le
leggi retroattive sono legittime purché non in contrasto con l’eguaglianza, la ragionevolezza e il
principio di legalità.
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La riserva di legge è la previsione (implicita o esplicita) di materie, riportate nella
Costituzione, in cui la disciplina è prevista soltanto con legge.
Esse sono: assolute, il legislatore deve specificare nei dettagli la materia riservata; relative,
impone al legislatore di determinare la disciplina di principio e lasciando a fonti secondarie
quella di dettaglio; rinforzata, quando la Costituzione indica anche quali debbano essere i
contenuti della legge.
Ruolo di controllo della costituzionalità delle leggi è svolto dalla Corte Costituzionale, il
cui strumento di controllo è la ragionevolezza.
Le sentenze sono di:
• inammissibilità, quando il processo non si avvia perché mancano i requisiti;
• rigetto, quando la Corte accerta l’infondatezza della questione di incostituzionalità e
impone che la legge resti in vigore;
• accoglimento, quando la Corte accerta l’incostituzionalità della legge e la elimina tutta o in
parte.
Esistono anche le sentenze interpretative di rigetto, quando la legge è dichiarata costituzionale
perché interpretata in un certo modo e interpretative di accoglimento, quando la legge è
dichiarata incostituzionale perché interpretata in un certo modo.
La differenza tra le due sentenze di interpretazione è che con quella di rigetto la
disposizione resta in vigore, perché non ha una forza legale vincolante; mentre con quella di
accoglimento essa viene eliminata e non può essere applicata da nessuno
Esiste anche la sentenza additiva, quando la legge è dichiarata incostituzionale non per quello
che dice, ma per quello che non dice.
Pertanto l’attività della Corte incide comunque nella funzione legislativa e impone una
collaborazione con il Parlamento.
Quindi la Corte si pone non pochi problemi nel dichiarare sentenze di incostituzionalità.
Proliferano, allora, i modelli di intervento:
a) sentenze monito: la questione è decisa con una sentenza di rigetto e si auspica un
intervento del Parlamento, perché si teme che si possa determinare un “vuoto
legislativo”;
b) sentenze di incostituzionalità sopravvenuta: si impedisce che gli effetti della
dichiarazione di incostituzionalità siano retroattivi, per ridurre il costo della sentenza;
sentenze a incostituzionalità differita: si assegna un termine al legislatore per
provvedere, ritardando gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità;
c) sentenze attuative dell’eguaglianza “verso il basso”, nelle quali, piuttosto che
estendere un benefico a categorie non comprese da una legge, si preferisce toglierlo a chi
lo ha attualmente, con un risultato opposto a quello delle sentenze additive di prestazione;
d) sentenze additive di principio, nelle quali, invece di imporre allo Stato una prestazione
a favore di una determinata categoria, la Corte dichiara incostituzionale una legge vigente
e indica non la regola, ma il principio.
25. Funzione legislativa e funzione di mercato.
La legge non può discostarsi o entrare in conflitto con il mercato perché esso, non solo è tutelato
dalla Costituzione (es: la libertà di iniziativa economica art. 41 cost.), ma è indirettamente una
fonte (es: i contratti e gli accordi di lavoro).
Quindi, il mercato pretende una certa indipendenza dallo Stato, il quale non solo lo aiuta, ma può
intervenire nei casi in cui sono lesi i diritti fondamentali dell’uomo.
L’intervento dello Stato nel mercato si configura tramite: intervento pubblico (impresa
pubblica e società private a partecipazione pubblica), aiuto finanziario pubblico all’impresa
privata (sgravi fiscali, finanziamenti a tasso agevolato o a fondo perduto) e l’antitrust
(regolamentazione giuridica della correttezza del mercato).
L’antitrust trova i suoi fondamenti nella Costituzione: la libertà di concorrenza è
implicita nella libertà di iniziativa economica, essa è un mezzo per realizzare l’utilità sociale o
l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione economica e sociale del Paese.
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Tuttavia la tutela del mercato trova un maggiore sviluppo a livello comunitario (Trattato di
Amsterdam dal 1° maggio 1999), mediante il divieto di alcune azioni da parte delle imprese,
come ad esempio:
—
divieto di intese pregiudizievoli al commercio tra gli Stati membri e restrittive della
concorrenza all’interno del mercato comune (art. 81) disponendo la nullità delle intese,
eventualmente concluse, con efficacia retroattiva;
—
divieto, alle imprese che hanno una posizione dominante nel mercato comune, di farne un
esercizio abusivo (art. 82);
—
disciplina delle relazioni finanziarie tra i poteri pubblici e le imprese pubbliche, nonché le
imprese alle quali gli Stati affidano la gestione di servizi nell’interesse generale (art. 86);
—
regolamentazione degli interventi degli Stati membri nell’economia, per impedire che gli
aiuti economici alle imprese generino limitazioni e modifiche al libero esplicarsi della
concorrenza (artt. 87-89).
In particolari settori, come formazione educativa e informazione, l’antitrust assume un
ruolo politico e istituzionale, perché rappresenta lo strumento di difesa del diritto all’istruzione e
all’informazione.
Numerose sono le leggi speciali a riguardo, fra cui la Legge 416 del 1981, che vieta le
concentrazioni quando comportino l’assunzione di una posizione dominante nel mercato
editoriale, indipendentemente da ogni abuso; la Legge 223/1990 sulla disciplina del sistema
radiotelevisivo pubblico e privato, che ha esteso le regole antimonopolistiche e di trasparenza
dell’editoria a tutto il settore dell’informazione.
È stata inoltre istituita l’Autorità garante per la radiodiffusione e l’editoria poi soppressa e
sostituita dall’Autorità garante per le telecomunicazioni.
Antitrust e intervento pubblico sono giustificati, dal punto di vista costituzionale e
comunitario, solo se finalizzati al miglioramento delle condizioni di vita, alla socialità,
all’attuazione del sistema dei valori costituzionali.
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D. Fatto ed effetto giuridico.
26. Concetti, dogmatica, conoscenze per l’applicazione.
I concetti sono impiegati dalle norme nella formulazione dei giudizi sul comportamento: questi
assegnano un ordine così che la realtà, umana e naturale, cessa di essere caotica.
La scienza che analizza ed elabora i concetti viene chiamata dogmatica giuridica; il dogma
giuridico non è quella verità religiosa eterna ed indiscutibile, ma è un concetto elaborato per
servire alle esigenze di un determinato ordinamento giuridico.
Il concetto quindi non è vero o falso, ma è utile o inutile: è utile se idoneo a spiegare un
problema pratico.
La dogmatica, perciò, è una forma particolare di conoscenza utile per l’applicazione delle norme.
La costruzione e l’elaborazione dei concetti fondamentali non è scelta libera del giurista,
infatti il diritto non opera individualmente, ma è prodotto dell’incessante agire degli uomini.
Il giurista è responsabile della sua opera: l’attuazione della legalità costituzionale esige
l’innovazione dogmatica.
Bisogna però conoscere prima la dogmatica acquisita, per poi ricostruire, modificare o anche
abbandonare i dogmi non più giustificabili, quali strumenti per l’applicazione delle norme del
vigente ordinamento.
Conosciuto quindi deve essere il linguaggio usuale degli operatori del diritto.
27. Fatto, effetto, situazione soggettiva e rapporto.
Fatto è l’evento o lo stato dal quale deriva una conseguenza giuridica.
Effetto è la conseguenza giuridica che si collega al fatto; gli effetti sono di tre specie: costitutivi,
modificativi, estintivi.
La situazione soggettiva è ciò che si costituisce o si modifica: il fatto è ciò che ha come effetto la
nascita, la modificazione o l’estinzione di una situazione soggettiva.
Rapporto giuridico è la relazione tra due situazioni soggettive correlate.
Dato che la norma è lo strumento della valutazione del comportamento umano, bisogna
definire il comportamento rispetto alla norma e la posizione del soggetto: se bisogna pretendere
un comportamento o lo si deve tenere, è la norma che lo decide.
La situazione del soggetto rispetto alla norma è di potere (situazione attiva) o di dovere
(situazione passiva): dovere e potere non sono mai assoluti, infatti vi sono momenti di
prevalenza di uno o dell’altro.
Il soggetto che può o deve agire è il titolare della situazione soggettiva: il legame tra soggetto e
situazione è la titolarità.
Il trasferimento della situazione soggettiva è il passaggio di un diritto da un soggetto ad un
altro: cambia il titolare della situazione soggettiva.
La situazione soggettiva e il rapporto giuridico sono strettamente legati in quanto il
comportamento umano è relazionale: ad esempio, se un soggetto ha il potere di pretendere un
determinato comportamento (situazione attiva), c’è necessariamente chi ha il dovere di tenerlo
(situazione passiva).
La situazione soggettiva è categoria generale della quale fanno parte il diritto soggettivo,
la potestà, l’obbligo, l’interesse legittimo, ecc…; è strumento di ragionamento.
Gli effetti del fatto giuridico sono le situazioni giuridiche soggettive costituite, modificate o
estinte.
La situazione soggettiva esprime gli interessi, qualificati dalla normativa applicabile in
riferimento ad ogni concreto comportamento, qualificato come permesso o dovuto in base alla
sit. sogg.va: permesso, se esercizio di sit. attiva, dovuto, se esecuzione di sit. passiva.
La connessione delle situazioni soggettive nel rapporto giuridico esprime l’esigenza di
valutare il comportamento non solo nel momento statico, quale descrizione dell’effetto, ma anche
nel momento dinamico, come regolamento di interessi .
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28. Rilevanza ed efficacia del fatto giuridico.
Il fatto giuridico è qualsiasi evento idoneo, secondo l’ordinamento, ad avere giuridica rilevanza.
La norma prevede l’ipotesi del verificarsi dell’evento (cioè del fatto) e la possibilità che questo,
umano o naturale, una volta venuto ad esistenza, abbia rilevanza giuridica.
Il fatto, quando si verifica, attua quanto previsto astrattamente dalla legge: l’ordinamento gli
attribuisce una qualifica e una disciplina.
Rilevanza ed efficacia sono due concetti distinti: rilevante è il fatto valutato da norme
giuridiche; efficace è l’atto al quale sono riconducibili effetti giuridici (nascita, modificazione ed
estinzione).
Se un fatto è efficace, è anche rilevante; il contrario non vale, quindi un fatto rilevante può anche
essere non efficace.
Ogni fatto, anche il più semplice, ha giuridicità: alcuni cmq asseriscono l’esistenza di fatti
giuridicamente irrilevanti.
Questi c.d. fatti irrilevanti o sono fatti rilevanti ma non preordinati all’efficacia, o non sono fatti.
Il fatto concreto è sempre giuridicamente rilevante; il fatto è rilevante ma non ancora
efficace quando l’interesse richiede un ulteriore evento per la sua attuazione, affinché abbia
senso riferirlo a comportamenti.
Il contratto sottoposto a condizione sospensiva (vendo la moto se sarò promosso) è rilevante, ma
inefficace fino a quando non si verifichi l’evento futuro e incerto (la promozione) dedotto in
condizione, il che rende attuale il trasferimento.
In tal caso la situazione è rilevante, ma non efficace sotto il profilo della sit. finale, bensì
solamente sotto quella di aspettativa.
Ciò non impedisce che il contratto produca altri effetti, i c.d. effetti preliminari, poiché è attuale
l’interesse a proteggere l’aspettativa del trasferimento, a preservare questa possibilità da eventi
che renderebbero irrealizzabile il trasferimento (vendita della moto prima della promozione).
Non si devono tuttavia confondere rilevanza, inefficacia ed efficacia preliminare: un fatto
rilevante può non produrre temporaneamente alcun effetto né preliminare né finale.
Per ogni fatto è sempre individuabile la norma o l’insieme di norme in base alle quali
qualificarlo, e quindi giudicarlo.
Giuridicamente significativo è qualsiasi evento che possa essere spiegato secondo situazioni
soggettive, sia che esso sia esercizio o esecuzione di una situazione soggettiva già esistente, sia
se costituisca una novità nell’ordinamento, innovando così il quadro delle sit. sogg.ve
preesistente.
Lo stesso fatto è giuridicamente rilevante non soltanto e necessariamente ad un sol fine,
ma a più fini.
Esso ha una diversa qualificazione giuridica secondo che rientri in uno o in un altro assetto
d’interessi.
Ad esempio lo stato di gravidanza: anzitutto è manifestazione dell’esercizio della libertà
personale (art. 13 cost.); in secondo luogo, in presenza di un contratto tra la donna ed una clinica
per l’inseminazione artificiale, lo stato di gravidanza è il fatto in relazione al quale si valuta
l’adeguatezza dei mezzi che costituiscono l’oggetto dell’obbligazione assunta dal medico.
29. Fatto, atto e negozio.
Fatto giuridico è ogni accadimento naturale o umano al verificarsi del quale l’ordinamento
ricollega qualsiasi effetto giuridico costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico.
Il fatto giuridico può essere naturale, quando non è prodotto dalla volontà umana, ma dalla
natura (es: temporale); può essere umano, quando è prodotto dall’uomo ed è qualificato come
atto giuridico.
Gli atti a loro volta si distinguono in atti giuridici in senso stretto e in negozi giuridici.
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Nell’atto in senso stretto esiste una consapevolezza dell’atto, ma non l’intenzione a produrre
effetti; nel negozio esiste non soltanto la consapevolezza, ma l’intenzione a produrre effetti
giuridici.
Il negozio è espressione del potere riconosciuto ai privati di autoregolamentare i propri interessi
(Autonomia Negoziale), potere che si estrinseca in modi diversi:
1. libertà di concludere l’atto;
2. libertà di scegliere l’altra parte;
3. libertà di fissare il regolamento.
A volte però l’ordinamento interviene, limitando queste libertà.
Il negozio può essere:
− tipico, se è uno schema già disciplinato dal legislatore;
− atipico, in tal caso il potere di autonomia si concretizza anche nel potere di creare
nuovi schemi purchè realizzino interessi meritevoli di tutela.
L’atto in senso stretto è tipico se corrisponde ad un fatto umano e i suoi effetti sono interamente
preordinati dalla legge. Né il negozio, né l’atto in senso stretto sono definiti dal codice: sono
categorie dottrinali.
Il negozio è categoria assai più ampia: nell’ambito di questa definizione rientrano entità
eterogenee quali il contratto, il testamento, il matrimonio, l’atto costitutivo di una società.
− Con il contratto si dà vita ad un rapporto patrimoniale fra due o più parti;
− Il testamento, invece, è un negozio unilaterale;
− Il matrimonio è un accordo non di tipo patrimoniale, anche se ci sono situazioni di tipo
economico.
È utile ricordare che fattispecie di effetti giuridici è non soltanto l’atto ma anche l’attività.
L’attività è una serie coordinata di fatti umani, unificati da una finalità comune: il possesso, la
gestione di affari, la convivenza quale fattispecie costitutiva dei rapporti giuridici della famiglia
non fondata sul matrimonio.
30. Dichiarazione e comportamento concludente.
I fatti umani (atti in senso stretto e negozi) si manifestano o per dichiarazione o per
comportamento concludente.
La dichiarazione è l’atto comunicativo con il quale il soggetto intende trasmettere un
significato: può essere di scienza o di volontà.
È di scienza quando l’autore comunica ciò che sa: esempi sono le testimonianze, le perizie,
ecc…; essa è un fatto umano rilevante, ma non è né atto, né negozio giuridico.
È di volontà se l’autore comunica una volontà, fonte di effetti: la dichiarazione non deve essere
per forza verbale, ma può essere anche gestuale, ad esempio un movimento del capo o anche il
linguaggio dei sordomuti, il silenzio assenso (detto dichiarazione espressa).
Il comportamento concludente è un atto non intenzionalmente comunicativo.
Ad esempio, chi dopo aver scritto, datato e sottoscritto di propria mano il testamento (art. 602
c.c.), volontariamente lo distrugge nel chiuso della propria camera, non intende comunicare
qualcosa a qualcuno.
Il comportamento si esaurisce nella distruzione del pezzo di carta, ove è scritto il testamento.
La legge attribuisce a tale comportamento un significato: revoca del testamento (art. 684 c.c.).
Un altro esempio è costituito dalla convalida tacita (1444²).
Nell’ambito della categoria negoziale si è individuata una sottospecie, detta negozio di
attuazione, nella quale l’autoregolamento di interessi è realizzato mediante un comportamento
immediatamente satisfattivo dell’interesse: ad es. la revoca tacita del testamento attuata con la
distruzione del documento che lo contiene.
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31. Liceità e meritevolezza.
In linea di massima è lecito ciò che non è illecito per l’ordinamento.
Il fatto (s’intende il contratto) è illecito quando è contrario a norme imperative, all’ordine
pubblico ed al buon costume (art. 1343 c.c.).
Il giudizio di liceità presuppone una valutazione in negativo: è sufficiente la non contrarietà a tali
norme sopra indicate.
In tema di responsabilità “extracontrattuale”, ossia al di fuori di un preesistente rapporto
obbligatorio, è illecito qualunque fatto che sia doloso, intenzionale o colposo, che procura ad
altri un danno ingiusto (2043).
La valutazione di un atto implica tuttavia non soltanto un giudizio di liceità, ma anche di
meritevolezza di tutela: in tal caso abbiamo un giudizio in positivo, con cui dobbiamo verificare
se l’atto tende a realizzare interessi meritevoli di tutela.
Questo ci richiama ai principi fondamentali dell’ordinamento fra cui quello di solidarietà che
trova, nel campo dell’autonomia negoziale, la sua specificazione nel richiamo all’utilità sociale.
Quindi l’interesse del singolo viene tutelato nella misura in cui alla realizzazione dell’interesse
del singolo, corrisponde anche la soddisfazione dell’interesse della comunità.
I principi guida sono quello:
− Personalistico, che riguarda la tutela della persona, la rilevanza dell’essere che si
desume dall’art. 2 della Costituzione;
− Solidaristico, in cui vi sono non solo doveri in chiave economica, ma anche sociale.
Non ogni atto lecito è meritevole di tutela: la semplice liceità esime (libera dall’obbligo) soltanto
dalla responsabilità.
32. Struttura e funzione del fatto giuridico.
Nel rapporto e nel fatto si definisce un profilo strutturale (com’è) e uno funzionale (a che serve).
Esempi di profilo strutturale sono la distinzione tra fatto istantaneo (es: la conclusione
del contratto; art. 1326¹ c.c.); continuativo (es: lo svolgimento di un’assemblea in una società
per azioni; art. 2363 ss c.c.); o periodico (es: il pagamento di stipendi o di canoni di locazione).
Riguarda ancora la struttura determinare quante parti sono necessarie per formare un atto; l’atto
(o negozio) che richiede la dichiarazione di una sola parte ha struttura unilaterale; se invece
esige la dichiarazione di due parti è bilaterale e così via.
La struttura non dipende dalla libera scelta dei soggetti (nel contratto) né dal caso: essa si
determina in concreto.
Quando il giurista valuta il fatto, egli individua la funzione cioè costruisce la sintesi
complessiva degli interessi sui quali il fatto incide.
Comunque, per la definizione di fatto o rapporto, si parte da un profilo funzionale, ossia si parte
da un suo scopo o funzionalità per poi definirlo strutturalmente, quindi il profilo strutturale segue
quello funzionale.
Individuare la funzione equivale a cogliere il significato normativo degli effetti del fatto.
Tale significato, ricostruito mediante regole e principi, si esprime in sit. soggettive, ossia in
effetti del fatto: la funzione è SINTESI degli EFFETTI ESSENZIALI del fatto.
L’analisi funzionale del fatto è completa quando oltre al punto di arrivo si tiene conto
anche del punto di partenza: la funzione, infatti, si realizza in modo diverso a seconda della
situazione preesistente: se essa muta, muta anche il percorso da seguire per raggiungere il
risultato.
La struttura del negozio è variabile e dipende dalla funzione e dai rapporti sui quali l’atto
incide. Un esempio può essere la remissione del debito (art. 1236 c.c.).
Esso è un fatto che produce il proprio effetto (estinzione dell’obbligazione) con strutture diverse:
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−
Bilaterale, nel contratto si esige dichiarazione del creditore e comportamento dichiarativo,
ossia il silenzio, del debitore.
Se manca una dichiarazione, la fattispecie non si forma e non si produce l’effetto estintivo.
−
Unilaterale, serve la dichiarazione del solo creditore.
Il giudizio sulla necessità o meno della dichiarazione del debitore dipende dall’esistenza di
interessi su cui il fatto incide.
Nella remissione bisogna accertare se il debitore abbia un suo interesse giuridicamente rilevante
antecedente al fatto – remissione: se egli ha interesse, deve partecipare alla struttura e la
remissione è bilaterale; se non ha interesse, non deve partecipare alla struttura e la remissione è
unilaterale.
La variabilità della struttura causa 2 conseguenze:
1. se la struttura è variabile, sono ammissibili negozi unilaterali anche in ipotesi non
previste (negozi unilaterali atipici): per l’unilateralità del negozio basta che gli interessi
siano solo di una parte;
2. il soggetto che non è parte del negozio, cosiddetto “terzo”, può subire sia un beneficio sia
un danno; occorre però essere portatori di un interesse rilevante secondo il diritto.
33. L’effetto giuridico.
La rilevanza preordinata all’efficacia indica l’idoneità del fatto a produrre effetti giuridici.
Gli effetti giuridici sono classificabili in costitutivi, modificativi ed estintivi, secondo che, in
conseguenza del fatto, nasca, si modifichi o si estingua un rapporto giuridico: questa tripartizione
degli effetti è esclusiva.
Le altre specie, a volte utilizzate, sono riducibili alle tre fondamentali: così gli effetti di
accertamento, regolamentari, normativi, preclusivi, di qualificazione (di persone, cose o fatti).
L’effetto di accertamento è attribuito al negozio con il quale le parti fissano i termini del
rapporto del quale sono titolari rimovendo qualunque incertezza circa la sua esatta
configurazione.
L’efficacia c.d. dichiarativa non innova le situazioni preesistenti, ma ne rappresenta soltanto
uno svolgimento interno cosicché le situazioni preesistenti sono rafforzate (es: riconoscimento
del debito), specificate (es: ordine del datore di lavoro) o affievolite (es: ipoteca, che limita il
diritto di proprietà).
Lo stesso vale per l’efficacia preclusiva, un cui esempio è costituito dall’ usucapione.
La preclusione è un modo di trattare un concorso di fatti o un conflitto di fatti; nel concorso di
fatti, tutti sono idonei a produrre lo stesso effetto, ma se ne sceglie uno in quanto giuridicamente
migliore degli altri nel giustificare la pretesa; nel conflitto di fatti prevale un fatto e si nega
rilevanza agli altri (es: usucapione).
L’effetto regolamentare è un effetto modificativo; i negozi regolamentari mutano la
disciplina di situazioni costituite.
L’effetto normativo è la determinazione di un regolamento di un rapporto futuro, ad
esempio, i contratti normativi che determinano il regolamento di successivi contratti, se le parti
decideranno di concluderli.
L’effetto eliminativo è un effetto estintivo retroattivo: la situazione soggettiva è estinta e in più
si considera tale situazione come non mai esistita. Un esempio è la revoca della stipulazione a
favore di terzi (art. 1411² c.c.).
L’effetto impeditivo opera impedendo a priori il verificarsi di un effetto, ad esempio, il debitore
si può opporre all’adempimento del terzo (art.1180² c.c.).
La situazione soggettiva non deve essere qualificata poiché è essa che qualifica i comportamenti,
ad esempio, la qualifica di una persona può essere uno status o il nome di un particolare
riferimento di valore.
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Il negozio c.d. attributivo di status ha un effetto costitutivo: lo status è una situazione
soggettiva; attribuire lo status significa far nascere una situazione soggettiva.
34. Funzione come sintesi degli effetti essenziali.
La qualificazione è il procedimento che dalla determinazione della funzione giunge
all’individuazione della disciplina.
È dalla sintesi degli effetti essenziali (quindi dalla Funzione) che si comprende se il fatto
giuridico sia, ad es., una donazione o una diversa figura negoziale e quindi poi ad individuare la
relativa normativa da applicare.
In questo secondo momento dobbiamo fare delle precisazioni, in quanto c’è una corrente
dottrinale che distingue nettamente l’interpretazione del fatto rispetto alla qualificazione del
fatto.
Di fronte ad una fattispecie negoziale, posta in essere da privati, l’attività dell’interprete si
articola in più fasi:
1. interpretazione → cercare di capire cosa le parti hanno inteso realizzare;
2. qualificazione → diamo veste giuridica a quel fatto posto in essere dai privati;
3. sussunzione
→ riconosciamo poi che in quel fatto ci sono degli estremi dello schema
delineato dal legislatore, definito COMPRAVENDITA;
4. applicazione delle regole.
Sono quattro fasi distinte l’una dall’altra.
Il nostro manuale, invece, ha una posizione diversa rispetto a questa dottrinale.
Secondo il Perlingieri non si devono separare così nettamente questi momenti, perché si
presuppone che ci sia uno stacco fra quella che è la realtà empirica e quella giuridica; invece si
dice che l’ordinamento è parte integrante della realtà quindi non è possibile separare
Interpretazione e Qualificazione.
Esse sono fasi di un unico procedimento conoscitivo, che tende a individuare il senso
dell’operazione per una funzione pratica, per risolvere un certo tipo do conflitto, per applicare un
certo tipo di norma, avendo presente ciò su cui andrà ad operare il regolamento stesso.
Nel fare tale valutazione bisogna evitare il ricorso al rigido meccanismo della sussunzione
perché applicandolo alla lettera finiamo, non sempre, per ignorare qualche particolarità di quel
regolamento e non daremmo la giusta soluzione perché ignoriamo quei profili che sono
importanti per il caso concreto, ma che non lo sono ragionando in astratto.
Bisogna quindi fare una distinzione tra gli effetti giuridici: questi possono essere diretti o
riflessi, immediati o differiti.
Per la qualificazione della fattispecie bisogna considerare quelli diretti e non quelli riflessi.
Questo perché gli effetti essenziali sono sempre diretti, ma non tutti gli effetti diretti sono
essenziali: sono essenziali tutti gli effetti che caratterizzano la fattispecie posta in essere, senza i
quali una qualsiasi fattispecie avrebbe un altro tipo di effetto
Occorre individuare se gli effetti abbiano lo stesso rilievo nella qualificazione del fatto: se
determinano la funzione pratico-giuridica sono essenziali, se non la determinano non sono
essenziali.
Nel valutare quali sono gli effetti essenziali dobbiamo valutare il caso concreto: bisogna
considerarli nella loro unitarietà.
È la sintesi di questi effetti che mi dà il tipo di atto e quindi la funzione: una volta individuata la
funzione, ho qualificato l’atto.
Gli effetti essenziali si distinguono in immediati, ossia si possono produrre in modo
istantaneo, e differiti: il differimento può essere opera delle parti, ad esempio, l’apposizione di
un termine iniziale (differimento) oppure è disposto dalla legge, ad esempio, nella vendita di
cosa futura (art. 1472 c.c.).
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Per es. pongo in essere un contratto di acquisto, però mi accordo col proprietario che il
trasferimento avvenga dopo 2 anni: questo effetto differito mi qualifica comunque l’atto perché
già aveva posto in essere l’atto 2 anni prima.
Se il differimento è di 30 anni, cosa succede? In tal caso viene snaturata la funzione e quindi
potremmo trovarci di fronte ad una diversa fattispecie, come ad es. il fatto che sia stata data una
somma a mutuo con l’obbligo di restituirla entro 30 anni.
Nel caso in cui non riesce a restituire la somma, l’appartamento viene acquisito da chi ha già
dato 30 anni prima la somma e quindi non c’è più la compravendita.
È importante distinguere effetti diretti e riflessi: l’effetto riflesso, voluto o legale, non ha
la sua causa direttamente nel fatto (come l’effetto diretto) ma, invece, è l’effetto dell’effetto.
Gli effetti diretti sono quelli voluti dal soggetto agente e solo questi possono essere presi in
considerazione nell’individuazione della Funzione; gli effetti riflessi NO perché non c’è
congruenza tra l’effetto e la volontà del soggetto.
Ad esempio, la rinunzia al diritto di proprietà, dove come primo effetto vi è la perdita della
titolarità della proprietà o dismissione del diritto, ha come effetto riflesso, che i “beni immobili
che non hanno proprietario sono di proprietà dello Stato” (art. 827 c.c.).
Questo fatto non è da intendersi come un mero trasferimento di proprietà, ma è una rinuncia del
diritto di proprietà in modo volontario a vantaggio dello Stato, perché la dismissione della
titolarità è effetto voluto, il trasferimento è effetto legale.
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E. Situazione soggettiva e rapporto giuridico.
35. Situazioni soggettive. Le situazioni giuridiche soggettive vanno considerate sotto diversi
profili, tra loro concorrenti:
• profilo effettuale, ogni situazione è effetto di un fatto;
• profilo dell’interesse, l’interesse è l’elemento giustificativo della situazione;
• profilo dell’esercizio, l’interesse si traduce, nel momento del suo esercizio, in
comportamento e in attività;
• profilo normativo, la situazione costituisce l’individualizzazione della norma;
• profilo funzionale, la funzione del fatto si realizza nell’effetto.
Per quanto riguarda la funzione, il nostro ordinamento conforma la funzione di ogni situazione
soggettiva in una prospettiva sociale: la funzione concreta, quindi, è una funzione sociale.
La socialità della funzione rende complesso il contenuto della situazione soggettiva: tale
complessità significa che nessuna situazione è pura, cioè soltanto attiva o passiva.
Non vi è mai un potere senza alcun dovere o un dovere senza alcun potere.
Quando il titolare attivo esercita il suo potere deve cercare di non ledere altre situazioni
riguardanti il soggetto passivo, il quale può pretendere dei comportamenti da parte del soggetto
attivo per tutelare un suo interesse (sono una serie di qualificazioni accessorie inverse).
Il soggetto attivo e quello passivo devono cooperare, in modo tale, da non ledere il diritto
dell’uno e non aggravare il dovere dell’altro.
36. Situazioni e rapporto.
Le situazioni soggettive sono sempre comprese entro un rapporto giuridico del quale ciascuna
situazione è un elemento.
Dalla norma sorgono diritti e doveri; in tanto esiste un diritto in quanto esiste un correlativo
dovere e in tanto vi sono un obbligo e un dovere perché esistono interessi protetti che si
sostanziano nell’adempimento di quell’obbligo e di quel dovere.
L’ordinamento non è soltanto un insieme di norme, ma anche un sistema di rapporti.
La definizione tradizionale costruisce il rapporto giuridico come relazione tra soggetti: è una
definizione non esatta in quanto ci sono molteplici ipotesi in cui mancano due soggetti, ma sono
già individuati due interessi e quindi due situazioni soggettive.
Una situazione soggettiva può essere momentaneamente senza soggetto o anche priva di soggetto
determinabile a priori, come nella promessa al pubblico (prometto cento a chi troverà il mio
libro).
In questo caso le situazioni attive e passive sono già individuate, ma non il titolare attivo, che
verrà individuato successivamente.
Quindi, il rapporto è relazione tra situazioni soggettive e non tra soggetti e dal punto di
vista funzionale, esso è regolamento di interessi e si configura come l’ordinamento del caso
concreto.
37. Analisi delle situazioni soggettive.
Le specie di effetti (costituzione, modificazione, estinzione) sono un numero chiuso; le specie di
sit. soggettive invece devono essere necessariamente aperte perché la situazione è il criterio di
qualificazione dei comportamenti e può avere perciò varie manifestazioni.
Quando si passa dalla volontà astratta della norma alla volontà concreta del soggetto, si
ha il passaggio dal diritto oggettivo a quello soggettivo.
Per diritto oggettivo si intende il complesso di norme giuridiche che prescrivono ai soggetti un
dato comportamento, che può essere positivo (obbligo) o negativo (divieto); diritti soggettivi
sono, invece, posizioni giuridiche soggettive di vantaggio, che si concretizzano nel potere di
agire per il soddisfacimento dei propri interessi, protetti dall’ordinamento giuridico.
La dottrina tradizionale definisce il diritto soggettivo come il potere della volontà di agire
per soddisfare un proprio interesse tutelato dalla legge; il mondo esteriore, invece, è l’oggetto del
diritto.
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Questo oggetto può essere una cosa (res) o il comportamento tenuto da un soggetto, obbligato
nei confronti di un altro, titolare del diritto.
I diritti soggettivi si distinguono in:
ƒ reali, che sono assoluti, cioè opponibili erga omnes (verso tutti), in quanto chiunque è
tenuto a rispettare la posizione di potere che il titolare della situazione attiva ha sulla cosa
(es: diritto di proprietà);
ƒ di credito, sono relativi, poiché il titolare della situazione attiva (creditore) può esercitare
il suo potere soltanto verso un soggetto determinato obbligato ad un comportamento
(debitore).
I diritti reali e i diritti di credito sono diritti soggettivi patrimoniali e ad essi si affiancano i diritti
soggettivi non patrimoniali, che sono i diritti della personalità e i diritti di famiglia.
Il diritto soggettivo è concepito come appartenenza al titolare delle facoltà di agire: il modello di
riferimento è la proprietà, il dominio pieno sulla cosa.
In passato i diritti soggettivi erano strettamente legati alla volontà; oggi è stata sostituita
dall’interesse, poiché nessun potere si giustifica se non in funzione di un interesse, di uno scopo
pratico.
L’interesse è definito dalla tradizione come “tensione dell’individuo verso un bene (interesse
soggettivo)” o come “esigenza di beni e valori da realizzare (interesse oggettivo)”.
L’interesse è la ragione per agire, è il fondamento della situazione soggettiva.
Per applicare la norma al fatto occorre tradurre il comando in ragioni per agire (interessi)
costruite come disciplina di quel fatto.
Ciò significa trasformare il criterio impersonale di valutazione nella valutazione di quel
comportamento individuale: questo è il compito dell’interprete.
38. Definizioni delle situazioni soggettive attive e passive.
Il diritto soggettivo è il potere riconosciuto dall’ordinamento ad un soggetto per soddisfare un
proprio interesse.
Nel diritto soggettivo si definiscono le facoltà, ossia i comportamenti attuativi del diritto sono le
facoltà del titolare del diritto, non sono situazioni soggettive autonome.
Ovviamente il diritto soggettivo ha dei limiti interni ed esterni.
Il limite esterno, che privi il titolare del diritto di una facoltà essenzialmente propria del diritto,
sarebbe di natura eccezionale.
Quindi il limite è interno: il titolare può tenere i comportamenti e solo quelli che siano
giustificati dall’interesse posto a fondamento della situazione soggettiva.
Le situazioni soggettive possono essere attive e passive.
Fra le passive abbiamo:
ƒ l’obbligazione, dovere di eseguire una determinata prestazione patrimoniale (diritto di
credito);
ƒ l’obbligo, dovere di eseguire una prestazione non patrimoniale: il diritto soggettivo è
anche non patrimoniale (obbligo di fedeltà).
Può anche essere correlato ai diritti reali: obbligo di non interferire col godimento del
proprietario.
I diritti soggettivi sono legati alla patrimonialità ma sono inadeguati se relativi alla personalità;
per la personalità esistono altre situazioni soggettive attive.
Le situazioni soggettive attive sono:
ƒ il diritto potestativo (detto anche potere formativo), diritto di provocare unilateralmente
una vicenda giuridica sfavorevole ad un altro soggetto il quale non può opporsi; la
situazione del soggetto che non può opporsi è detta soggezione.
Esso definisce il massimo grado di tutela: l’attribuzione di tale potere deve avere perciò
una meritevole ragione giustificatrice.
ƒ l’aspettativa, situazione soggettiva strumentale per l’acquisto di un’ulteriore situazione:
es. sono i contratti a termine o a condizione i quali preservano una situazione soggettiva
futura. Durante lo stato di pendenza della condizione ciascuna parte deve comportarsi
secondo buona fede: cmq tale aspettativa non va confusa con l’ipotesi di attesa di utilità.
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Esempi di aspettative di mero fatto sono l’attesa di ricevere denaro per eredità da un
parente, che non viene tutelata dall’ordinamento.
ƒ la potestà, situazione soggettiva dove il titolare ha sia un potere per la cura dell’interesse
altrui, sia un obbligo ad esercitare tale potere, che è situazione di potere – dovere (es:
genitore che esercita la potestà nell’interesse del figlio);
ƒ l’interesse legittimo, è la situazione soggettiva correlata alla potestà: la titolarità di tale
situazione giustifica interventi di controllo sulla correttezza e diligenza dell’operato del
titolare della potestà;
ƒ l’onere, è un obbligo potestativo, cioè il titolare può adempierlo o no: è un
comportamento nell’interesse proprio del titolare della sit. passiva.
Un es. è la trascrizione per opporre il proprio acquisto a terzi.
ƒ lo status: sul tema dello status, molteplici sono le teorie.
Un 1° orientamento nega che lo status sia un’autonoma situazione soggettiva, ravvisando
in esso soltanto la somma delle norme e degli effetti relativi ad una condizione della
persona.
Un 2° orientamento ha inteso lo status come vincolo nel quale si trova l’individuo in una
comunità originaria (Stato, famiglia).
Un 3° orientamento ha esteso notevolmente il concetto, considerandolo come
conseguenza dell’appartenenza dell’individuo al gruppo: lo status quindi diviene una
qualità della persona.
Si considerano status perciò la qualità di erede, di imprenditore, di pensionato, ecc.
Secondo il ns. manuale questi orientamenti devono conformarsi al principio di
eguaglianza, il quale soltanto può rimuovere il significato originario di condizione
sociale, affermando la pari dignità delle persone.
Lo status è una situazione soggettiva che esprime la situazione del soggetto nell’ambito di
una collettività; le situazioni soggettive sono: a) assolute, cioè valevoli erga omnes; b)
espressive della posizione dell’individuo in una comunità organizzata; c) fondate su una
comunione di vita e quindi pressoché mai su base contrattuale o negoziale.
Utilizzando questi criteri si definiscono:
− lo status personae, appartenenza alla comunità umana di vita nella quale si compie la
personalità individuale;
− lo status civitatis, l’appartenenza alla comunità politica come cittadino;
− lo status familiae, la posizione di membro della famiglia.
È la comunione che induce a qualificare la sit. soggettiva come status.
Un cenno ulteriore sullo status personae, quale posizione giuridica dell’uomo nella
comunità.
Esso non s’identifica con la capacità giuridica, ma è la traduzione soggettiva di un valore
obbiettivamente tutelato, come tale non disponibile, modificabile o contestabile.
Lo status personae costituisce una situazione permanente di base, originariamente acquisita, che
riassume, come situazione unitaria e complessa, i diritti inviolabili ed i doveri inderogabili tipici
ed atipici, connessi secondo l’ordinamento al vivere dell’uomo in comunità.
Rappresenta perciò la configurazione soggettiva di un valore: la personalità è valore, lo status
personae è sit. Soggettiva della persona in un determinato momento del suo divenire.
ƒ interessi diffusi, non appartengono ad un gruppo organizzato ma ad ogni individuo che
sensibilità per il bene verso il quale si dirige l’interesse.
Salute e ambiente sono valori da attuare nel massimo grado possibile: sono presenti in sit.
tipiche, ma anche atipiche, qualificabili come interesse diffuso, quando riguardano a) una
collettività indeterminabile a priori; b) abbiano ad oggetto un bene a godimento plurimo;
c) il godimento non sia riservato solo a chi opera per la tutela.
Per configurare una sit. soggettiva sono necessarie due condizioni: l’idoneità del concetto a
comprendere una serie congruente di comportamenti e la determinazione di un insieme coerente
di regole.
Non basta asserire che un dato comportamento realizza l’interesse, ma occorre stabilire l’ipotesi i
cui tale comportamenti realizza l’interesse, chi ne sia il portatore e chi il destinatario degli effetti.
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39. Titolarità: legame tra soggetto e situazione.
La titolarità è il legame tra soggetto e situazione soggettiva.
Il soggetto non è essenziale per l’esistenza della sit. soggettiva, infatti vi sono interessi tutelati
che non hanno ancora un titolare: basti pensare alla donazione a favore di nascituri o di non
concepiti.
La titolarità può essere:
ƒ attuale, ossia immediatamente rilevante;
ƒ potenziale, si esprime con la nozione di spettanza, che indica la potenzialità della
situazione. Il soggetto non è titolare della situazione che acquisterà, ma ha già un titolo
per acquisirla.
ƒ occasionale, titolarità che spetta a qualsiasi soggetto in quanto fungibile;
ƒ istituzionale, quando il titolare deve essere necessariamente determinato e la titolarità
non è trasferibile.
Ad esempio, se un soggetto si rivolge ad un avvocato per essere difeso, la prestazione
debitoria, ossia il comportamento dovuto dall’avvocato, si caratterizza poiché questi è scelto
per le sue qualità.
Questa situazione debitoria è intuitu personae, perché si fonda su un rapporto di stima e
fiducia (es. del chirurgo che deve tenere personalmente l’operazione in quanto il paziente ha
una stima e fiducia nei suoi confronti, tali che non può farsi sostituire da un altro medico).
Il rapporto giuridico non si estingue perché muta il soggetto, ma si modifica.
Quando, però, le parti decidono di mutare il soggetto in questa situazione, mutano il
regolamento di interessi e l’oggetto del rapporto: vengono perciò mutati i caratteri
identificativi del rapporto (novazione soggettiva).
40. L’oggetto del rapporto giuridico. In sintesi:
a) il bene giuridico è l’oggetto di una situazione soggettiva;
b) ogni situazione giuridica ha un bene quale oggetto;
c) i beni possono essere patrimoniali o non patrimoniali;
d) i beni possono essere a godimento esclusivo o plurimo da parte di una molteplicità di
soggetti;
e) l’individuazione di un interesse meritevole con un corrispondente bene è compiuta
dall’ordinamento in base non soltanto a regole ma anche a principi.
Poiché sono individuati anche da princìpi i beni giuridici non sono un numero chiuso.
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F. Dinamica delle situazioni soggettive.
41. Complessità dei comportamenti ed esercizio delle situazioni soggettive.
Le situazioni soggettive sono categorie per qualificare una serie aperta, ma non infinita, di
comportamenti umani.
Ogni comportamento riferibile ad una situazione soggettiva è esercizio di quella situazione
soggettiva.
È impossibile stabilire ad es. quali comportamenti siano da “proprietario” e quali no, in quanto
essi sono comprensibili come significati della situazione “proprietà” soltanto in relazione alle
circostanze concrete.
Il concetto di esercizio è essenziale per comprendere il significato delle situazioni
soggettive. Occorre distinguere esistenza, titolarità ed esercizio delle situazioni soggettive.
Una situazione si dice esistente, quando esiste un fatto giuridico con efficacia costitutiva.
La titolarità è il legame tra la situazione soggettiva e il soggetto; l’esercizio è ogni
comportamento riferibile alla situazione soggettiva.
Di regola, solo il titolare della situazione può esercitarla, però vi sono ipotesi in cui un soggetto
diverso è legittimato all’esercizio.
L’esercizio richiede che sia determinato l’effetto: esso è la qualificazione del fatto, l’esercizio è
la qualificazione del comportamento.
Bisogna comprendere la funzione affinché un comportamento sia qualificabile come esercizio.
42. Godimento, disposizione e controllo.
Potere di godimento, possibilità per il titolare di trarre dal bene tutte le utilità coerenti con la
funzione della situazione stessa e anche utilità che si possono ricavare indirettamente dalla
situazione, in base a considerazioni fatte sul bene da altri soggetti.
La facoltà di godimento coincide con la libertà.
Es. di godimento nei diritti reali è quello di passeggiare per il proprio fondo, in quanto si
ricava una utilità dal bene, coerente con la funzione della proprietà stessa.
Es. nei diritti di credito è l’iscrizione nel bilancio dell’impresa di un credito da cui si trae
un’utilità indiretta, dovuta ad es. dalla valutazione positiva di banche o analisti di mercato.
Potere di disposizione, potere di provocare una vicenda costitutiva, modificativa ed
estintiva di un rapporto giuridico; può riguardare situazioni reali o di credito, patrimoniali o non;
inoltre può produrre effetti favorevoli o sfavorevoli nei confronti di soggetti diversi dal titolare.
Potere di controllo, è un potere che controlla la diligenza e la correttezza degli organi di
potere ed è relativo non solo agli enti, ma a tutte le situazioni soggettive nelle quali l’interesse
del titolare dipende dalla cooperazione altrui.
Ad es. il creditore ha il potere di controllare l’attività del debitore in quanto l’inerzia del debitore
nel curare i propri affari o il tentativo di sottrarsi all’adempimento, giustificano azioni del
creditore.
Quando tale potere è affidato alla gestione altrui il potere di controllo si manifesta con maggiore
intensità: ad es. nel mandato può essere imposto un obbligo di rendiconto, che è strumentale
all’esercizio del potere di controllo.
Si configura anche quando non è espressamene previsto in una norma: ad es. nei comitati, ai
soggetti che lo hanno finanziato, spetta il potere di controllare se le somme versate siano
destinate effettivamente al raggiungimento delle finalità prefissate.
Si tratta cmq di casi di controlli interni: sono possibili anche controlli esterni, come la
certificazione del bilancio di una società effettuata da una società di revisione.
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43. Potere di disposizione e legittimazione. Il potere di disposizione può essere attribuito per
volontà negoziale (es: fonte negoziale, contratto) o per legge (es: fonte legale, impedimento del
soggetto o sua incapacità di agire) a soggetti diversi dal titolare i quali, curano i suoi interessi,
esercitando tale potere.
Quando il potere di disposizione è rimesso a terzi per volontà, il titolare conserva il suo potere di
disporre aggiungendo il potere di un terzo al proprio; quando il potere di disposizione è rimesso a
terzi per legge, il titolare non può disporre.
Se il titolare della sit. non è incapace di agire o di intendere e di volere, egli ha il potere di
disposizione; se questo potere spetta ad un soggetto diverso dal titolare, è una sit. sogg. a sé
assimilabile alla potestà.
Se il titolare è incapace, non ha il potere di disposizione; se è capace, il conferimento a terzi
dell’esercizio di quel potere non lo priva del potere di disporre, ma aggiunge il potere di un terzo
al proprio.
La legittimazione a disporre è l’abilitazione a compiere il negozio quale atto di
disposizione della situazione.
Un negozio concluso privo di legittimazione è inefficace, cioè non produce la vicenda
dispositiva.
44. Abuso ed eccesso della situazione soggettiva. Il mancato esercizio della situazione
soggettiva dà luogo a prescrizione o decadenza, mentre un esercizio difforme configura l’abuso e
l’eccesso.
L’abuso è l’esercizio contrario o estraneo alla funzione della situazione soggettiva (es: installare
pali nella proprietà privata per togliere la luce al vicino).
Si ha sempre abuso quando si minaccia di far valere un diritto allo scopo di estorcere un
consenso che faccia conseguire vantaggi ingiusti (violenza morale)
L’eccesso è l’esercizio di un potere che non si ha: il potere può mancare del tutto o superare i
limiti imposti.
45. Esercizio del diritto e collegamenti tra rapporti. I criteri per classificare i collegamenti tra
rapporti giuridici sono molteplici.
Si distinguono in primo luogo 4 tipi di collegamenti diretti:
a) collegamento di accessorietà: ad un rapporto principale (es: pagamento di una somma di
denaro) si collega un rapporto di garanzia reale (es: pegno o ipoteca) o personale (es:
fideiussione). Le vicende del rapporto principale incidono sull’esistenza o sull’entità del
rapporto accessorio; a volte è anche il contrario.
b) collegamento di integrazione: è l’ipotesi dei rapporti nei quali ad una prestazione
principale si affiancano prestazioni accessorie (es: dovere di protezione secondo buona
fede). In tal caso questo termine ha un significato diverso dal precedente, in quanto si
tratta di comportamenti da affiancare a quello principale, che concretizzano talvolta la
funzione del rapporto principale.
c) collegamento di solidarietà: ha luogo nelle obbligazioni solidali e, in genere, nelle ipotesi
di convergenza di una pluralità di rapporti, ciascuno con il proprio titolare ma con
identica prestazione, oppure nelle ipotesi nelle quali un unico rapporto ha una pluralità di
soggetti contitolari della situazione attiva e/o passiva;
d) collegamento per funzione, ha luogo sia nei rapporti corrispettivi (sinallagmatici), in cui
ciascun rapporto si giustifica in funzione dell’altro; sia nei rapporti sorti dai contratti con
comunione di scopo (es: associazioni ed altri enti).
I collegamenti tra rapporti possono essere anche indiretti:
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a) collegamento per identità di titolare: una pluralità di rapporti confluisce nella titolarità
di un medesimo soggetto (es: il patrimonio) ;
b) collegamento per identità di riferimento oggettivo: quando una pluralità di rapporti ha
come punto di riferimento un medesimo oggetto;
c) collegamento per identità di prestazione o per godimento simultaneo: è un’ipotesi
particolare del precedente gruppo; quando più rapporti hanno non soltanto il medesimo
punto di riferimento oggettivo, ma anche il medesimo esercizio. È il caso di bene a
godimento plurimo (es: informazione, ambiente);
d) collegamento di derivazione: riguarda gli acquisti derivativo-costitutivi (es: subcontratto;
l’usufruttuario concede una servitù);
e) collegamento strumentale: riguarda il rapporto preliminare che crea una situazione di
aspettativa (situazione preliminare) all’acquisto di una diversa situazione giuridica
(situazione finale).
46. Scambio e circolazione. Il valore di scambio identifica il valore dei beni sul mercato.
Più i beni circolano nel mercato, più questo è efficiente: se consideriamo lo scambio solo dal
punto di vista mercantile sarebbe riduttivo.
Si può scambiare:
• senza garanzia giuridica dello scambio, donazione;
• con garanzia giuridica del perfezionamento dello scambio, promessa al pubblico: se B decide
e fa X, A è obbligato a dare cento;
• con garanzia giuridica dell’attuazione dello scambio, contratti corrispettivi: mi obbligo a
darti cento perché ti obblighi a fare X.
Corrispettivi: sono quei contratti in cui ciascuna delle 2 o più parti effettua una
prestazione che è ragione dell’altra.
Si ha conflitto tra interessi cooperativi quando la maggior soddisfazione dell’uno implica la
minor soddisfazione dell’altro.
La corrispettività è la cooperazione regolata per contratto con un risultato finale vantaggioso
per entrambe le parti.
Essa si instaura tra le prestazioni, ossia tra i risultati che il contratto assicura alle parti: non è
necessario che vi siano due obbligazioni, anche la compravendita è corrispettiva.
L’onerosità è una qualità dell’acquisto, la corrispettività è una qualità della prestazione.
Il contratto con prestazioni a carico di una sola parte è l’opposto di quello corrispettivo
Il negozio è bilaterale perché concluso con la partecipazione di due parti; è unilaterale l’effetto
perché è favorevole solo per una parte.
L’efficacia reale riguarda il trasferimento, che è immediato: si ha una vicenda
modificativa, muta il titolare.
L’efficacia obbligatoria è quando si ha l’obbligo di trasferire e il trasferimento ha luogo con
successivo atto: in tal caso si ha una vicenda costitutiva, perché nasce l’obbligazione di trasferire.
La scissione tra titolo e modo di acquisto è venuta meno con l’introduzione del principio del
consenso traslativo: quando il contratto ha la funzione di trasferire un diritto, l’effetto traslativo è
immediato (vendita).
La vendita è un contratto consensuale, corrispettivo e ad efficacia reale: l’acquirente però il
rischio del perimento della cosa di cui è divenuto proprietario prima della consegna.
Chi trasferisce un diritto è chiamato alienante o dante causa, chi ne diviene titolare si
chiama acquirente o avente causa.
Il trasferimento può avvenire anche per successione e può essere:
ƒ a titolo particolare, quando trasmette singole situazioni;
ƒ a titolo universale, quando sono trasferite la totalità delle situazioni attive e passive
(unica ipotesi certa è quella mortis causa).
L’acquisto può essere:
29
ƒ
ƒ
a titolo originario, con l’acquisto della situazione soggettiva che non ha alcuna
situazione giuridica precedente; questa situazione non è necessariamente nuova,
ma occorre che essa non nasca da un trasferimento;
a titolo derivativo, con l’acquisto di una situazione che ha fondamento nella
precedente titolarità di un altro soggetto. L’acquisto a titolo derivativo può essere:
derivativo-traslativo, con il trasferimento della titolarità del diritto; derivativocostitutivo, con il trasferimento di alcuni poteri o facoltà. In questa ipotesi nasce
un’autonoma situazione soggettiva minore.
47. Esercizio della situazione e terzi. Nella situazione soggettiva e nel suo esercizio si
definiscono parte dell’atto (l’autore) e parte del rapporto (destinatario dell’effetto).
Un soggetto però può essere destinatario dell’effetto anche senza essere parte del rapporto:
parliamo in tal caso di terzi.
I terzi sono i soggetti che non sono parti.
È terzo sia il destinatario dell’effetto, sia chiunque non è parte né destinatario dell’effetto.
I terzi assumono una pluralità di posizioni rispetto alla situazione soggettiva:
a) possono lederla e quindi pagare il danno: LESIONE ⇒ RISARCIMENTO DANNI;
b) possono esserne favoriti, anche non essendo destinatari;
c) cooperano nell’esercizio i terzi che agiscono nell’interesse altrui.
La cooperazione può essere:
• LIBERA ⇒ al terzo è conferito il potere di disposizioni (agire per conto altrui);
• DOVUTA ⇒ la gestione è oggetto di una specifica obbligazione di agire per conto
altrui (mandato);
• RAPPRESENTATIVA ⇒ il terzo agisce in nome altrui;
• NON RAPPRES. ⇒ agisce in nome proprio
d) possono essere lesi dall’esercizio di una situazione, ma anche dal mancato esercizio di
una stessa;
e) possono essere lesi non dall’esercizio ma dall’effetto.
I conflitti che sorgono dall’esercizio della situazione soggettiva si possono risolvere con: 1)
efficacia obbligatoria dell’atto, 2) discipline dell’acq. a titolo originario, 3) inopponibilità.
Se il negozio non attua il trasferimento ma incide su trasferimenti futuri, ha efficacia solo
tra le parti e non nei confronti di terzi.
Se il conflitto riguarda immediatamente il trasferimento si dovrebbe applicare il principio
di priorità del trasferimento, secondo cui chi acquista per primo dall’alienante, prevale.
L’acquisto a titolo originario è un particolare modo di assicurare l’inopponibilità di tutti gli altri
fatti acquisitivi del medesimo diritto.
Con l’inopponibilità si risolvono molte difficoltà: quando riguardano i diritti di credito
prevale colui che per primo ha notificato la cessione al debitore ceduto, o chi ha ricevuto
l’accettazione mediante atto di data certa.
Nei diritti personali di godimento prevale chi per primo il godimento, o chi ha concluso il
contratto con atto di data certa anteriore.
Nei diritti reali su beni immobili prevale chi ha conseguito il possesso in buona fede in base ad
un atto astrattamente idoneo al trasferimento (art. 1155 c.c.).
Negli atti traslativi soggetti a trascrizione prevale chi ha trascritto per primo.
Si può avere conflitto anche tra alienante e aventi causa dell’acquirente: A trasferisce a
B, B trasferisce a C, il contratto tra A e B è invalido o inefficace, che succede a C?
Se C acquista in buona fede, è acquirente a titolo originario (1153 c.c.); se il bene è immobile, C
fa salvo il suo acquisto ove ricorrano i presupposti dalla c.d. pubblicità sanante.
L’efficacia di un contratto annullabile, simulato, rescindibile o risolubile viene meno
quando il giudice accerta il vizio.
Si dispone che la sentenza che accerta il vizio non è efficace nei confronti dei terzi (C).
30
G. Metodo giuridico e interpretazione.
48. Metodo e scuole. Il metodo è un insieme di operazioni per giungere ad un risultato; il
metodo giuridico è il procedimento del quale si serve il giurista per trarre le norme giuridiche.
Il metodo quindi è il mezzo per individuare la norma. La metodologia può essere descrittiva,
storiografica e prescrittiva. Nel nostro ordinamento il metodo è quello di saper attuare la legalità.
49. Diritto positivo come diritto interpretato. L’ermeneutica è la teoria dell’interpretazione ed è
importante perché le norme da applicare sono interpretate dal giurista. Le interpretazioni sono
tre: a) letterale, il significato è ricercato nelle parole;
b) logico-sistematica, il significato è ricercato nella ratio-legis;
c) analogica, applicazione contemporanea di un medesimo principio a due fattispecie.
Per l’interpretazione analogica occorre:
a) vi siano due fattispecie l’una disciplinata e l’altra no;
b) vi sia un elemento comune alle fattispecie;
c) questo elemento comune sia elemento di giustificazione per la disciplina della prima
fattispecie.
Prima esisteva un’interpretazione per gradi, ossia: letterale, logico-sistematica e infine analogica;
ora vi è una coesistenza delle tre.
50. Responsabilità dell’interprete. L’opera dell’interprete è molto importante e per questo è
responsabile dell’attuazione garantita dai principi costituzionali. L’interpretazione non è altro
che una strategia e i suoi caratteri importanti sono la sussunzione e il sillogismo. La sussunzione
è la riconduzione del caso concreto alla fattispecie astratta della norma e questa riconduzione si
fa con il sillogismo.
51. Critica dell’”In claris non fit interpretatio”. Questa formula è criticata:
a) perché il testo della norma è chiaro;
b) che l’interpretazione letterale è sufficientemente adeguata.
Questa formula è stata duramente criticata perché, anche se chiara, va interpretata con ratio dal
giurista. Una norma è chiara quando è stata interpretata.
52. Interpretazione e qualificazione del fatto. L’interpretazione riguarderebbe la conoscenza
dell’atto, la determinazione del significato dell’espressione usata; la qualificazione
riguarderebbe la veste giuridica, la valutazione di tale significato. Con queste definizioni si è
fatta una scissione delle cose, ma è un errore, perché tutte e due concorrono nella conoscenza e
quindi sono inscindibili.
53. Costituzione e diritto comunitario: interpretazione e applicazione. Il nostro ordinamento
con l’entrata dell’Italia nell’U.E. si è conformato sempre di più alle fonti e alle prerogative
comunitarie. Unica pretesa è che questi atti normativi europei non siano incostituzionali.
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H. Diritto internazionale privato.
53. Apertura internazionale dell’ordinamento. Con l’Italia nell’U.E. si è posto il problema di un
diritto privato internazionale, per risolvere conflitti fra privati stranieri o fra privati
connazionali in terra straniera. La materia ultimamente riformata è giunta a conclusione che su
parametro personale prevale quello del luogo, ossia la disciplina da applicare è quella del luogo.
Ad esempio, degli italiani che sono in conflitto a Parigi; la questione si risolve con il diritto
francese in Italia. Tuttavia l’Italia ha un’apertura internazionale. Ciò consente l’operatività sul
proprio territorio di norme non emanate in Italia.
54. Determinazione dei criteri di collegamento. I criteri di collegamento sono la cittadinanza e
il luogo nel quale è avvenuta la fattispecie. Per quanto riguarda le obbligazioni contrattuali, le
parti possono scegliere quale diritto applicare.
55. Norme di applicazione necessaria, ordine pubblico, interpretazione. Per assicurare il
rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano s’impedisce l’operatività del diritto
straniero quando esso contrasti con l’ordine pubblico. Infine anche il diritto straniero è
sottoposto a interpretazione per tutelare i diritti fondamentali dell’uomo.
32
Parte seconda: Persone fisiche e persone giuridiche
A. Persone fisiche.
1. Persona umana e soggetto. La persona fisica è l’uomo considerato nella sua individualità e
nel rapporto con gli altri. Ci sono due correnti di pensiero: la prima discorre indifferentemente di
persona, soggetto, uomo, individuo; la conseguenza è che ogni essere umano vivente è persona e
quindi soggetto di diritto.
Meno diffuso, invece, è l’orientamento che, ravvisando l’esistenza di differenti ambiti di
incidenza per il soggetto e per la persona, propone di tenerli separati.
Il soggetto giuridico è il titolare di situazioni soggettive; possono essere soggetti giuridici non
soltanto le persone fisiche, ma anche gli enti.
2. Capacità giuridica. Soggettività. Personalità. La capacità giuridica è l’idoneità di un
individuo ad essere titolare di situazioni soggettive.
La soggettività è la qualità del soggetto giuridico e fa parte dei diritti inviolabili dell’uomo (art.
2 cost.), riconosciuti e garantiti.
L’appartenenza al genere umano costituisce requisito necessario e al tempo stesso sufficiente ai
fini del conferimento della soggettività e non sono ammesse distinzioni di sorta tra individuo e
individuo (art. 3¹ cost.).
La personalità è l’aspetto dinamico garantito nel suo pieno e libero svolgimento.
3. Nascita ed esistenza. La capacità giuridica si acquista con la nascita ed è richiesto non solo
che il feto si stacchi dal grembo materno, ma che l’individuo nasca vivo.
La legge dichiara capace di succedere per causa di morte anche i concepiti al tempo dell’apertura
della successione (art. 462¹ c.c.) e li considera capaci di ricevere per donazione (art. 784¹ c.c.).
Anche il pasciuto non concepito può ricevere per testamento o per donazione, purché si tratti di
figlio di persona vivente al momento dell’apertura della successione o del compimento della
liberalità.
Non poche discussioni sono state avanzate nei riguardi del problema dei nascituri e proprio con
riferimento ai nascituri, l’esistenza di situazioni giuridiche soggettive ovvero di un centro di
interessi più o meno complesso, che riceve tutela senza che esista attualmente un soggetto,
induce a non considerare il soggetto di norma come elemento essenziale della situazione
giuridica.
4. Residenza, domicilio e dimora. L’art. 43 c.c. definisce il domicilio, la residenza e la dimora.
Il domicilio (quid iuris) è costituito da un elemento intenzionale, ossia la volontà di costituire e
mantenere in un luogo la sede dei propri affari, e da un elemento materiale, ossia che è proprio
in quel luogo che il soggetto ha costruito la sede dei propri affari.
La residenza è la permanenza sufficientemente stabile in un luogo.
Quando parliamo di affari ed interessi, l’ordinamento non intende solo quelli di natura
patrimoniale, ma anche quelli di natura personale, familiare e sociale.
La dimora è il luogo dove la persona si trova temporaneamente e occasionalmente.
Il soggiorno è la permanenza breve, ma non momentanea in un determinato luogo.
La scelta del domicilio e della residenza è libera, salvo specifiche disposizioni penali o di polizia.
Il domicilio legale o necessario riguarda il minore e l’interdetto (art. 45 c.c.).
In particolare, il domicilio del minore va individuato nel luogo di residenza della famiglia; se non
esiste residenza familiare, il minore ha il domicilio del genitore con il quale convive.
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5. Scomparsa, assenza e morte presunta. La scomparsa è l’allontanamento della persona dal
suo ultimo domicilio o residenza con la mancanza di notizie.
Con tale dichiarazione viene nominato un curatore per tutelare i beni dello scomparso da parte
del tribunale (art. 48 c.c.).
Dopo due anni dalla scomparsa, per domanda degli eredi o di chi vanta dei diritti sui beni dello
scomparso, il tribunale dichiara lo stato di assenza (art. 49 c.c.).
A questo punto viene eseguita la ripartizione dei beni agli eredi, i quali però, non possono
disporne liberamente, e quindi alienarli, ipotecarli, darli in pegno, ecc… (art. 52 e 54 c.c.).
Il coniuge dello scomparso non può impugnare il matrimonio finché dura l’assenza (art. 117³
c.c.).
Nel caso che lo scomparso ritorni, oppure ne sia provata l’esistenza in vita, gli è dovuta la
restituzione dei beni da parte dei possessori (art. 56 c.c.).
La dichiarazione di morte presunta presuppone la scomparsa di un soggetto di almeno 10 anni
(art. 58 c.c.).
In caso di catastrofi o eventi naturali, questa dichiarazione è pronunciata dal tribunale, su istanza
degli eredi e dei parenti, dopo tre anni dall’evento naturale (art. 60 c.c.).
Con questa dichiarazione gli eredi prendono possesso dei beni del presunto morto e il coniuge
può contrarre nuovo matrimonio (art. 65 c.c.).
Nel caso il morto presunto ritorni o ne sia accertata l’esistenza in vita, gli eredi sono tenuti alla
restituzione dei beni nello stato in cui si trovano e di pagargli i beni alienati, e può pretendere
l’adempimento delle obbligazioni considerate estinte (art. 66 c.c.).
Il nuovo matrimonio è dichiarato, su richiesta di entrambe le parti, annullabile, ma i figli sono
considerati legittimi (art. 68 c.c.).
6. Morte e commorienza.
La morte produce l’estinzione della persona fisica e determina la cessazione della sua capacità.
L’accertamento della morte è stato definito dall’ordinamento come la “cessazione irreversibile
di tutte le funzioni dell’encefalo”.
La commorienza è la morte simultanea di due o più persone; è pronunciata quando non si può
stabilire chi sia morto prima e chi sia sopravvissuto per ultimo (art. 4 c.c.).
7. Capacità di agire.
La capacità di agire è l’idoneità del soggetto a svolgere attività giuridica per il perseguimento
dei propri interessi, per modificare la propria sfera giuridica e per esercitare diritti e doveri.
La capacità giuridica è il profilo statico dell’uomo come portatore di interessi; la capacità di
agire è il profilo dinamico dell’uomo come operatore giuridico, protagonista attivo.
La capacità di agire si configura in due aspetti fondamentali:
ƒ la relatività, è l’esclusione o la limitazione della capacità di agire per presupposti al tipo
di atto o corrispondenti a precisi scopi: l’incapacità del minore e degli interdetti giudiziali
e legali (art. 1441 c.c.);
ƒ l’età; il legislatore ha diviso l’età in minore età e maggiore età, maggiore età che si
raggiunge con il compimento del 18° anno e permette l’acquisto della capacità di agire.
Numerose sono le capacità speciali che si acquistano prima della maggiore età: si pensi
soprattutto alla capacità in materia di lavoro (art. 2² c.c.). Il problema, semmai, è di
individuare il momento dal quale il minore può affermare le proprie esigenze, sviluppare
liberamente la propria personalità, talvolta anche in contrasto con le vedute dei genitori
(art.30 cost.; artt. 147, 315 ss c.c.). Si parla, quindi, della cosiddetta capacità di
discernimento, intesa come capacità di scelta e di razionalizzazione.
L’interprete deve stabilire se il minore, con riferimento al singolo tipo di attività, abbia
oppur no le facoltà di discernimento, al punto tale da assumere la decisione con adeguata
consapevolezza. I criteri guida sono l’interesse oggettivo del minore, valutazione unitaria
della sua condizione e l’eguaglianza agli adulti nel suo ruolo di persona.
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8. Minore età e potestà dei genitori.
L’ordinamento attribuisce il potere – dovere di potestà al genitore sul minore.
È un potere-dovere perché il genitore può sì esercitare il potere sul minore riguardo i suoi beni,
ma ha il dovere di operare per gli interessi dello stesso minore, senza abusarne (artt. 320, 330 e
333 c.c.); questa potestà influisce anche sulle scelte del minore.
Tale potestà, comunque, è elastica, cioè i genitori nei primi anni di vita la esercitano in pieno,
poi si affievolisce con la crescita, fino a sparire con la maggiore età.
Quanto ai diritti di libertà, si individuano due profili, uno interno e l’altro esterno.
Sotto l’aspetto esterno, cioè quello dei rapporti che il minore ha con i terzi, non sussistono
eccessive difficoltà per il riconoscimento allo stesso della titolarità e dell’esercizio dei diritti
richiamati; nel rapporto interno, cioè tra genitori e figli (educazione), l’esercizio dei diritti di
libertà da parte dei figli trova pesanti limiti nella potestà dei genitori (es: scelta del lavoro (art. 4
cost.), libertà di professare una fede religiosa (art. 19 cost.), ecc…).
La conseguenza è che esclusivamente ai genitori spetta la scelta dell’indirizzo educativo,
professionale e culturale della prole.
All’orientamento descritto si contrappone una diversa visione che considera il minore come
soggetto di diritto e come oggetto della potestà dei genitori.
Il minore è persona e merita la tutela dei suoi diritti fondamentali e inviolabili.
Considerarlo soggetto di diritto significa consentirgli di effettuare in piena autonomia le scelte
che concernono la sua persona, beninteso quando si producano le condizioni per una consapevole
decisione (capacità di discernimento).
9. Tutela e curatela. La tutela è ufficio di diritto civile surrogatorio alla potestà dei genitori, in
quanto esercita questo potere in mancanza dei genitori e in modo più limitato.
Il tutore è nominato dal giudice tutelare del tribunale del circondariato del domicilio del minore.
I presupposti sono che i genitori o manchino, o sono morti, o sono interdetti, o sono impedititi
nell’esercitare la potestà.
I compiti del tutore sono di assicurare l’istruzione e l’educazione del minore, e di curare anche i
suoi interessi patrimoniali (art. 357 c.c.); il tutore non tenuto, però, al suo mantenimento e, senza
l’autorizzazione del giudice tutelare, non può compiere taluni atti, come l’acquisto di beni, la
riscossione di capitali, l’accettazione di eredità (art. 374 c.c.).
Il protutore, rispetto al tutore, è un organo ora complementare, ora sostitutivo e sussidiario.
L’unica forma di emancipazione è quella legale, riconosciuta dal tribunale all’ultrasedicenne
che contragga matrimonio prima della maggiore età (art. 390 c.c.).
Il minore è affiancato da un curatore, il quale ha il compito di giudicare adeguate le scelte del
minore che si limitano agli atti di ordinaria amministrazione (art. 394 c.c.).
La mancanza della dichiarazione del minore comporta la nullità dell’atto; la mancanza della
dichiarazione del curatore comporta l’annullabilità.
Il compito del curatore è di valutare che l’atto scelto dal minore sia adeguato per i suoi interessi.
Il minore non può rifiutare il consenso del curatore, ma può richiedergli una verifica o una
modifica.
Ci sono casi in cui il tribunale ritenga il minore capace di fare le proprie scelte come
amministrare un’impresa; in questo caso il tribunale, in accordo con il curatore, ritiene il minore
emancipato capace di svolgere gli atti di straordinaria amministrazione (art. 397 c.c.).
Gli organi della curatela sono: il giudice tutelare, il tribunale e il curatore, il quale (curatore),
a differenza del tutore, non ha poteri di amministrazione, di rappresentanza e di cura del minore;
il suo compito è di prestare il suo assenso agli atti compiuti dal minore.
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10. Infermità mentale. L’interdizione giudiziale è causa impeditiva dell’acquisto della capacità
di agire, quando la pronunzia avviene nell’ultimo anno della minore età (art. 416 c.c.) ed è causa
estintiva della capacità se pronunciata dopo il raggiungimento della maggiore età (art. 414 c.c.).
L’interdizione legale è la perdita della capacità di agire ed è vista come pena accessoria a carico
del condannato all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni.
L’infermità mentale è un’alterazione delle facoltà mentali, tale da dar luogo ad un’incapacità
totale di provvedere ai propri interessi.
Per l’esistenza dell’infermità di mente non è necessario che ricorre una definita malattia mentale,
ma è sufficiente che sussista il decadimento e il turbamento etico-sentimentale che
compromettono l’esistenza del soggetto.
Condizione importante è l’abitualità, intesa come durevole purché non si preveda quando la
guarigione potrà avvenire; essa non deve essere confusa con la continuità: l’esistenza di lucidi
intervalli non è di ostacolo alla pronunzia di interdizione.
L’inabilitazione è la perdita parziale della capacità di agire, pronunciata per evitare effetti
pregiudizievoli dell’attività negoziale.
La richiesta è fondata su pregiudizio riguardante fatti non ancora verificatisi o su pericoli
patrimoniali derivanti dalla prodigalità del soggetto.
L’importanza essenziale nella fase istruttoria riveste l’esame diretto dell’interdicendo o
dell’inabilitando da parte del giudice, tanto che questo non può nominare il tutore o il curatore
provvisorio senza prima aver esperito tale esame (art. 419 c.c.).
Gli atti dell’interdetto sono annullabili quando compiuti senza la rappresentanza dl tutore; gli atti
dell’inabilitato sono annullabili senza la presenza del curatore (art. 427 c.c.).
11. Incapacità di intendere e di volere. L’incapacità naturale s’identifica nell’inadeguata
capacità di intendere e di volere l’atto che si sta compiendo.
L’annullabilità dell’atto è prevista quando negli atti unilaterali si dimostra un grave pregiudizio
dell’incapace; nei contratti è prevista quando si dimostra la malafede dell’altro contraente (art.
428 c.c.).
L’incapacità naturale provoca e giustifica le pronunzie giudiziarie di interdizione o di
inabilitazione dalle quali deriva l’incapacità di agire totale o parziale.
Le cause dell’incapacità naturale sono non soltanto turbamenti della psiche, ma anche tutto ciò
che può alterare la sfera affettiva ed emozionale dell’individuo, tanto da privarlo,
transitoriamente, della capacità naturale.
La prova è rigorosa e specifica e deve ritenere fatti obiettivi; la valutazione di essa è svolta dal
giudice.
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B. Persone giuridiche.
12. Enti.
Organizzazioni costituite da individui e beni alle quali l’ordinamento giuridico riconosce la qualità
di soggetti di diritto con capacità giuridica ( possibilità di essere titolari di situazioni soggettive) e
capacità di agire (possibilità di esercitare diritti e doveri attraverso le persone fisiche, organi, che
ne fanno parte).
La soggettività degli enti non è equiparabile a quella delle persone fisiche, perché all’ente
non sono applicabili le disposizioni normative che presuppongono una persona fisica, quali quelle
relative ai rapporti familiari, alla scomparsa, all’assenza, alla morte presunta.
Natura (controversa, abbiamo 2 teorie):
Teoria della finzione → l’ordinamento crea soggetti artificiali, enti distinti dagli individui singoli,
per esigenze di commercio giuridico.
Teoria della realtà → l’ordinamento prende atto dell’esistenza di taluni enti e/o organismi nella
vita sociale ai quali attribuisce poi soggettività.
Classificazioni
Sul piano STRUTTURALE:
− enti a struttura associativa ( associazioni);
− enti a struttura istituzionale (fondazioni).
Sul piano degli INTERESSI PERSEGUITI:
− enti pubblici (interessi generali);
− enti privati (interessi particolari).
Sul piano della FINALITÀ:
− enti privati con finalità lucrative o miste (società);
− enti privati con finalità ideali (associazioni, fondazioni, comitati).
Sul piano dell’AUTONOMIA PATRIMONIALE:
− enti con autonomia patrimoniale ( separazione del patrimonio dell’ente da quello di coloro
che ne fanno parte ). Se tale separazione dei patrimoni è netta e l’ente ottiene la personalità
giuridica, si parla di autonomia patrimoniale perfetta e in tal caso per le obbligazioni
assunte in nome dell’ente risponde esclusivamente il patrimonio dell’ente, non attaccabile
dai creditori personali dei componenti dell’ente stesso;
− enti con autonomia patrimoniale imperfetta (separazione relativa dei patrimoni, mancanza
del riconoscimento → c.d. enti non riconosciuti).
In tal caso è prevista una responsabilità dei componenti dell’ente anche per le obbligazioni
assunte dall’ente stesso.
Sul piano dell’acquisto della PERSONALITÀ GIURIDICA e dell’AUTONOMIA PATRIMONIALE
PERFETTA:
− acquisto automatico con iscrizione nel registro delle imprese (sistema normativo →
società di capitali);
− acquisto con decreto di riconoscimento del Presidente del Consiglio dei Ministri o
ministeriale, su domanda degli interessati e sulla base dell’atto costitutivo e dello statuto,
previa valutazione dell’attualità sociale dello scopo dell’ente e della consistenza del
patrimonio (sistema concessorio → associazioni e fondazioni).
Il sistema è detto concessorio perché l’autorità competente non è obbligata a concedere il
riconoscimento, quindi si dice che ha una certa “discrezionalità politica”.
N.B: l’autonomia patrimoniale perfetta diventa opponibile ai terzi soltanto con l’iscrizione nel
registro delle persone giuridiche istituito presso il Tribunale in ogni Provincia.
37
13-A. Fenomeno associativo e costituzione. Il fenomeno associativo è uno dei fenomeni più
importanti sul piano sociale in quanto esso è tutelato dalla Costituzione: difatti, è sancito il diritto
di “associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge
penale”, proibendo soltanto “le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche
indirettamente, scopi politici mediante organizzazione di carattere militare” (art.18 cost.).
Tuttavia alla libertà d’associazione si affianca la democraticità, principio d’ordine pubblico
costituzionale, che opera su due livelli; sul piano esterno, l’associazione deve essere a struttura
aperta, cioè accessibile a tutti; sul piano interno, deve garantire a tutti i componenti di poter
partecipare con pari dignità alla vita dell’organizzazione.
13-B. Associazioni – caratteri generali.
Le associazioni hanno bisogno di 4 elementi, di cui i primi tre sono definiti essenziali, senza cui
l’associazione non avrebbe vita.
1. elemento personale → ha bisogno di una pluralità di persone che agiscono in nome e per conto
dell’ente, sia come soggetti che lo formano, sia come destinatari del suo scopo;
2. elemento reale → riguarda il patrimonio dell’ente che serve per raggiungere lo scopo
prefissato;
3. elemento teleologico → è lo scopo dell’ente, che dovrà essere determinabile e lecito: esso deve
essere necessariamente indicato nell’atto costitutivo.
Questi tre elementi costituiscono il c.d. elemento materiale dell’ente: accanto a questi tre elementi
essenziali, ce n’è un quarto.
4. elemento formale → ossia il riconoscimento, grazie al quale l’ente ottiene la personalità
giuridica e quindi l’autonomia patrimoniale perfetta.
Per questo l’associazione può essere definita come un’organizzazione stabile, formata da una
pluralità di persone (1° elemento), che avvalendosi di un patrimonio (2° elemento) persegue uno
scopo comune (3° elemento) lecito, non lucrativo e meritevole di tutela.
Esiste poi una distinzione fra associazioni non riconosciute e associazioni riconosciute.
14. Associazioni non riconosciute. L’associazione è un’organizzazione stabile formata da una - (o
di enti) che avvalendosi di un patrimonio persegue uno scopo comune non lucrativo e meritevole
di tutela.
L’associazione non riconosciuta è chiamata così perché non ha richiesto e ottenuto il
riconoscimento.
Per costituirsi ha bisogno di un atto costitutivo in forma di negozio associativo aperto
all’adesione di altre parti (art. 1332 c.c.); in esso si presentano la manifestazione di volontà di
creare l’ente.
Allegato all’atto vi è lo statuto, un insieme di regole che individuano lo scopo, l’ordinamento
interno e l’amministrazione dell’associazione (art. 36 c.c.), deciso e stilato con l’accordo degli
associati.
L’associazione non riconosciuta è la forma di associazione più frequente, perché la mancanza di
riconoscimento determina l’assenza di ingerenze e di controlli dell’autorità amministrativa sulla
vita dell’associazione.
Gli organi sono l’Assemblea e gli amministratori.
L’Assemblea, costituita dai partecipanti all’organizzazione, è l’organo sovrano e ad essa spettano
le decisioni più importanti sulla vita dell’ente, come la determinazione dell’indirizzo politicoprogrammatico o l’individuazione degli amministratori.
Questi ultimi provvedono alla gestione dell’associazione ed hanno il potere di agire all’esterno in
nome e per conto dell’ente. Importante è la tutela del singolo associato riguardo alle possibili
controversie tra l’ente e l’associato.
L’associazione non riconosciuta ha un proprio patrimonio, cioè un fondo comune, costituito
dai contributi degli associati e dai beni con tali contributi acquistati, nonché da tutti i diritti
patrimoniali dei quali l’ente è titolare. Prima dell’estinzione dell’ente, gli associati non possono
chiedere la divisione del fondo comune, né ripetere i contributi versati.
38
L’associazione che non ottiene il riconoscimento è definita associazione non riconosciuta
(es. partiti, sindacati): in tal caso si applicheranno le stesse norme dettate per le associazioni
riconosciute con esclusione solo di quelle che presuppongono il riconoscimento.
L’associazione non riconosciuta ha un’autonomia patrimoniale imperfetta.
Ne deriva che:
− i creditori dell’ente possono rivalersi sul fondo comune, che costituisce la garanzia
patrimoniale generica delle obbligazioni dell’associazione non riconosciuta.
− delle obbligazioni dell’ente rispondono anche personalmente e solidalmente coloro che hanno
agito in nome e per conto dell’ente, a meno che il creditore non sia uno degli associati.
Con l’accordo tra gli associati si può decidere lo scioglimento, la liquidazione e la devoluzione dei
beni residui dell’associazione non riconosciuta.
L’assemblea può anche deliberare la fusione fra più associazioni creando un nuovo ente, con
relativa successione a titolo universale nei rapporti; può anche deliberare la scissione di
un’organizzazione in diverse entità.
15. Comitati. Il comitato è un insieme di persone che si accorda per una raccolta di fondi con
pubblica sottoscrizione per perseguire un fine di interesse generale e non egoistico.
È considerato come un’entità soggettiva distinta sia da coloro che prendono l’iniziativa
(promotori), sia da coloro che diversi da questi assumono la gestione dei fondi raccolti
(organizzatori), sia da coloro che promettono le oblazioni (sottoscrittori).
Per l’atto costitutivo è sufficiente un accordo verbale: rilevante è che l’esistenza
dell’organizzazione e le finalità siano dichiarate all’esterno.
Importante è anche il vincolo di destinazione del fondo, sicché non può essere in alcun modo
devoluto per uno scopo diverso da quello pattuito e manifestato agli oblatori.
Nel comitato si rilevano due fenomeni, quello associativo, nella fase iniziale della
costituzione e della raccolta delle risorse; quello della fondazione, nella fase successiva della
gestione.
Il comitato ha una propria soggettività e può stare in giudizio nella persona del Presidente (art. 41²
c.c.), in mancanza la soggettività è individuata nella persona che occupa la più alta posizione
gerarchica. Il comitato ha un proprio patrimonio e può acquistare anche beni immobili.
Quanto alla responsabilità per le obbligazioni assunte, qualora non sia stata richiesta la personalità
giuridica, opera l’autonomia patrimoniale imperfetta, per cui:
− i creditori personali dei partecipanti all’organizzazione non hanno diritti sul patrimonio
dell’ente;
− delle obbligazioni assunte dall’ente rispondono personalmente e solidalmente tutti i
componenti del comitato (art.41¹ c.c.) e le persone che hanno agito in nome e per conto
dell’ente (art.38 c.c.). Per le obbligazioni del comitato non rispondono i sottoscrittori, i quali
sono tenuti soltanto ad effettuare le oblazioni promesse (art.41¹ c.c.).
16. Associazioni di volontariato. Fenomeno molto importante cui l’ordinamento riserva una certa
considerazione sono le associazioni di volontariato.
Tali associazioni sono comunità che perseguono scopi reputati particolarmente rilevanti sul piano
sociale e che hanno nobili modalità d’attuazione mediante il volontariato, ossia un’attività
prestata in modo personale, spontaneo e gratuito tramite l’organizzazione di cui il volontario fa
parte senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà.
Un esempio sono le associazioni di protezione ambientale, le associazioni venatorie,
organizzazioni che svolgono attività idonee a favorire l’inserimento e l’integrazione di persone
handicappate.
Tali organizzazioni possono assumere la forma giuridica più adeguata per il perseguimento
dei loro fini, con la possibilità dell’iscrizione in appositi registri, conservando anche l’autonomia
patrimoniale imperfetta. Da tale iscrizione scaturiscono vantaggi di non secondaria importanza.
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Per avere diritto all’iscrizione è necessario che nell’atto costitutivo e nello statuto, redatti in forma
scritta con sottoscrizione autenticata dei fondatori, sia prevista l’assenza di fini di lucro,
democraticità della struttura, l’obbligo di formazione del bilancio, l’elettività e la gratuità delle
cariche, ecc…
Dall’iscrizione nel registro consegue una serie di obblighi, pena la cancellazione, come quello di
conservare la documentazione relativa alle entrate, alla possibilità di accedere a conti pubblici, di
stipulare convenzioni, ecc…
Le organizzazioni di volontariato prive di personalità giuridica e iscritti nei registri possono
acquistare beni mobili registrati e beni immobili occorrenti alla propria attività, accettare
donazioni, lasciti testamentari, ecc…
In ipotesi di scioglimento esaurita la fase della liquidazione, tali beni sono devoluti ad altre
organizzazioni di volontariato operanti in analogo o identico settore.
Se non chiedono e quindi ottengono l’autonomia patrimoniale perfetta, nelle associazioni di
volontariato vige l’autonomia patrimoniale imperfetta.
17. Associazioni riconosciute. Le associazioni non riconosciute possono richiedere l’iscrizione nei
registri della prefettura e quindi ottenere la personalità giuridica con consequenziale autonomia
patrimoniale perfetta.
La legge per l’iscrizione richiede l’atto pubblico redatto dal notaio, l’atto costitutivo e lo statuto.
Questi ultimi due devono contenere: la denominazione dell’ente, lo scopo, il patrimonio, la sede, i
diritti e gli obblighi degli associati, le indicazioni della loro ammissione.
Poiché la personalità giuridica è concessa sulla base dell’atto costitutivo e dello statuto, ogni
modifica di essi deve essere approvata dalla stessa autorità competente a concedere il
riconoscimento. IL RICONOSCIMENTO HA FUNZIONE MODIFICATIVA.
L’iscrizione dell’associazione riconosciuta nel registro delle persone giuridiche istituito
presso il Tribunale di ciascuna Provincia, ha la funzione di pubblicità dichiarativa, cioè di
opponibilità ai terzi di tutte le vicende che concernono l’ente, nonché di tutte le limitazioni del
potere rappresentativo degli amministratori.
Gli organi dell’associazione sono l’Assemblea e gli amministratori.
Assemblea → convocata dagli amministratori almeno una volta all’anno per l’approvazione del
bilancio o comunque se ne è fatta richiesta motivata da almeno un decimo degli associati,
l’assemblea è l’organo che riunisce gli associati.
Ha le competenze individuate nell’atto costitutivo e nello statuto ed indicate negli artt. 20, 21 e 22
c.c.: le stesse norme individuano altresì le ipotesi in cui è necessaria una deliberazione con
maggioranza qualificata (modifica dell’atto costitutivo o dello statuto; scioglimento
dell’associazione e devoluzione del patrimonio).
Di norma, infatti, l’assemblea delibera a maggioranza di voti con la presenza di almeno la metà
degli aventi diritto a partecipare (in prima convocazione) o qualunque sia il numero degli
intervenuti (in seconda convocazione).
Amministratori → organo di gestione dell’ente, sono eletti dall’assemblea e operano secondo le
competenze e le funzioni attribuite con lo statuto.
Sono responsabili verso i terzi per la violazione degli obblighi connessi alla loro funzione e verso
l’ente secondo le disposizioni sul mandato.
Fanno parte dell’associazione anche gli Associati: costoro non possono trasmettere la loro qualità
nemmeno mortis causa.
La possibilità di recedere dall’associazione è sempre ammessa tranne se l’associato abbia assunto
l’obbligo di far parte dell’organizzazione per un tempo determinato.
Le deliberazioni contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto possono essere
annullate dall’autorità giudiziaria su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del
p.m. , ma senza pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in
esecuzione delle delibere stesse.
L’impugnazione della deliberazione non ne sospende l’esecutività, salvo che non venga disposta
per gravi motivi dall’autorità giudiziaria.
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Sono inesistenti le delibere adottate da un’assemblea inesistente o non regolarmente costituita.
L’invalidità del singolo voto non comporta l’invalidità della delibera salvo la prova di resistenza
(se si tratta cioè di un voto decisivo per la formazione della maggioranza).
L’esclusione è richiesta dall’assemblea solo per giusta causa e può essere impugnata
dall’escluso entro sei mesi dalla notifica.
Gli associati che per qualsiasi causa non fanno più parte dell’organizzazione non possono ripetere i
contributi versati, né hanno alcun diritto sul patrimonio dell’ente.
Fasi dell’Estinzione
− Deliberazione di scioglimento dell’ente o dichiarazione di estinzione dello stesso da parte
dell’autorità amministrativa per una delle cause previste dalla legge;
− Liquidazione: gli amministratori non possono compiere nuove operazioni, ma solo porre in
essere atti di ordinaria gestione per la conservazione del patrimonio.
La fase è gestita dai commissari liquidatori sotto il controllo del presidente del tribunale;
− Cancellazione dal registro delle persone giuridiche;
− Devoluzione dei beni residui in conformità all’atto costitutivo e allo statuto o, in mancanza,
secondo la delibera assembleare di scioglimento o, in mancanza, attribuzione ad enti che
perseguono scopi analoghi.
I creditori che non hanno fatto valere i loro crediti nella fase della liquidazione, entro un
anno dalla chiusura, possono pretendere il pagamento dai soggetti ai quali i beni sono stati
devoluti.
La responsabilità di costoro è nei limiti di ciò che hanno ricevuto.
18. Fondazioni. La fondazione è un’organizzazione stabile creata per la gestione di un
patrimonio; tale patrimonio è destinato al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità,
individuato dal fondatore.
Per la creazione essa necessita di un atto costitutivo denominato negozio di fondazione, che si
configura come atto unilaterale.
Deve rivestire la forma dell’atto pubblico se inter vivos, oppure una forma testamentaria se
mortis causa.
Ad esso è collegato lo statuto, che, fra l’altro, tratta dei criteri della gestione e di erogazione delle
rendite; può contenere disposizioni sull’estinzione, trasformazione e devoluzione del patrimonio.
Nella fondazione si distinguono il negozio di fondazione, dove si manifesta la volontà di costituire
l’ente, e il negozio di dotazione, accessorio al primo, con il quale si trasferiscono i beni.
L’atto di fondazione può essere revocato dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il
riconoscimento, cioè il fondatore non abbia fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta;
questa facoltà non si trasmette agli eredi.
La fondazione diviene autonomo soggetto di diritto con la concessione del riconoscimento;
prima che il riconoscimento avvenga, per quanto riguarda le obbligazioni, ne rispondono
esclusivamente il fondatore e gli amministratori.
Nella fondazione manca l’assemblea e il compito di gestione va agli amministratori.
Non esistendo un organo di controllo, il controllo della pubblica amministrazione è più penetrante.
Quando lo scopo è stato esaurito o è divenuto impossibile, o il patrimonio è diventato
insufficiente, l’autorità amministrativa anziché dichiarare estinta la fondazione la trasforma
mediante la fusione fra più enti, oppure devolve il patrimonio a fondazioni che si allontanino il
meno possibile dalla volontà del fondatore.
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Parte terza: Situazioni giuridiche
A. Situazioni esistenziali.
1. Considerazioni introduttive. La dottrina distingue i diritti patrimoniali e non patrimoniali; i
diritti patrimoniali riguardano il campo economico e sono disponibili e prescrittibili; o diritti
non patrimoniali sono situazioni soggettive di ogni uomo e riguardano la personalità, perché
hanno la funzione di tutelare, per realizzare esigenze di carattere esistenziale e mediamente
materiale. Questi diritti non patrimoniali sono definiti diritti inviolabili dove non si può scindere
codeste situazioni dal loro esercizio. Questi diritti sono tutelati non solo in ambito nazionale
delle fonti, ma anche da quelle comunitarie.
2. Fondamento unitario e oggetto dei cosiddetti diritti della personalità. La dottrina individua
due dottrine in riguardo ai diritti della personalità: teoria atomistica, dove i singoli diritti
espressamente disciplinati sono tutelati mediante interpretazione estensiva o analogica; teoria
monistica, prospetta l’esistenza di un unico diritto della personalità che riassume tutti gli altri
senza identificarsi con la loro somma. La Costituzione pone al centro del suo compito la tutela
della persona nella sua manifestazione e nel suo raggiungimento degli obiettivi. Lo Stato quindi
deve assicurare ai suoi cittadini la libertà universale che si raggiunge per mezzo dello Stato, il
quale ha il compito di rimuovere gli ostacoli che intralciano il pieno sviluppo della persona. La
legalità costituzionale, tutela la persona anche in termini dinamici, cioè tutela tutto ciò che è in
grado di realizzare in positivo, promuovendo lo sviluppo. Ciò non vuol dire che la Costituzione
tuteli ogni operato dell’uomo, perché esso potrebbe ledere la personalità di un altro individuo.
3. Oggetto e caratteri dei cosiddetti diritti della personalità. L’ordinamento è tenuto a tutelare o
a promuovere la personalità del soggetto. Per quanto riguarda la tutela, essa non è attuabili
soltanto nel momento successivo alla lesione, ma anche in via preventiva, perché la riparazione
del danno non ripristina la perdita subita e quindi non riporta alla situazione iniziale. Esempi di
tutela sono la tutela della salute sul posto di lavoro, agli obblighi di educazione in ambito
familiare, al potere di verificare la rispondenza a verità delle informazioni contenute nelle banche
dati.
4. La spettanza dei cosiddetti diritti della personalità. L’individuazione dei soggetti quali
spettano i cosiddetti diritti della personalità non è agevole; problemi si riscontrano, appunto, nei
riguardi del nascituro e del defunto, in quanto tali diritti spetterebbero alla persone in vita.
Per quanto riguarda il defunto, una lesione della sua dignità è direttamente collegabile ad una
lesione della dignità della sua famiglia. Ne consegue che il congiunto del defunto agisce non
quale titolare di un interesse personale e familiare, ma in base ad un dovere di solidarietà
familiare.
Anche lo straniero, in quanto uomo, ha diritto a realizzare la sua personalità e non è più
richiesta una condizione di reciprocità per il godimento di tali diritti e di diritti rigorosamente
inerenti allo status civitatis.
5. Diritto alla vita e all’integrità fisica. Il diritto alla vita non è espresso esplicitamente nella
Costituzione, ma il suo valore assoluto è intrinseco nei diritti inviolabili. Per vita non s’intende la
vita biologica, ma anche sociale, libera e dignitosa (art. 36 Cost.). L’ordinamento nel tutelare la
vita obbliga i consociati, non solo a non attentarla, ma impone di prestare soccorso penale e
civile. Discussione importante è stata fatta nei confronti della gravidanza; l’aborto è così
ammesso, non solo nei 90 giorni dal concepimento allorché sussista un serio pericolo per la
salute fisica e psichica della donna in relazione a determinate condizioni, circostanze o
previsioni, ma anche dopo tale termine quando sussista un grave pericolo per la vita o per la
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salute della donna. Infatti, le disposizioni favoriscono l’interesse alla vita della madre, piuttosto
che quella del nascituro. Altro problema esiste per il diritto di morire, inteso come disponibilità
del proprio corpo. Lo Stato non permette ciò e critica l’eutanasia passiva, il rifiuto di ricevere
trasfusioni, ecc…Va comunque contestata l’opinione di una generale disponibilità del soggetto
nei confronti del proprio corpo, in quanto, non deve cagionare una diminuzione dell’integrità
fisica, anche se ha fondamento nel principio di solidarietà costituzionale.
6. Diritto alla salute. Il diritto alla salute non si limita alla mera integrità fisica, ma riguarda
anche un sano e libero sviluppo della persona che si raggiunge solo con un’integrità psico-fisica,
non soltanto da un punto di vista sanitario, ma anche da quello ambientale e sociale.
7. Principio di eguaglianza e dignità dell’uomo. Il principio di eguaglianza tutela la libertà
personale dell’uomo vietando ogni forma di discriminazione per sesso, religione, razza, lingua…
Accanto a questo principio di eguaglianza si affianca la dignità dell’uomo che consiste in una
posizione, in una qualità della persona, in una condizione che spetta all’uomo in quanto tale,
indipendentemente dalla sua posizione sociale o dall’appartenenza a determinate comunità.
La dignità del resto non è soltanto consapevolezza del proprio valore morale, ma implica anche il
rispetto che ognuno può pretendere dagli altri in costanza di adeguati contegni.
8. Diritto all’onore e alla reputazione. Il diritto all’onore e alla reputazione sono strettamente
legati alla dignità dell’uomo e riguardano l’integrità morale. Con questo principio si vietano
l’esposizione di immagini altrui in pregiudizio del decoro e della reputazione della persona e dei
suoi congiunti (art. 10 c.c.); vieta qualsiasi tipo di modifica dell’opera o di altro atto in danno di
questa, che pregiudichi l’onore e la reputazione dell’autore. La tutela civilistica specifica un
risarcimento del danno e soprattutto un’azione inibitoria, con una rettifica e pubblicazione della
sentenza di condanna.
9. Diritto all’immagine. Il codice civile (art. 10 c.c.) e la legislazione speciale consentono
l’utilizzazione dell’immagine altrui se vi è assenso della persona ritratta e se l’immagine non
compromette l’onore del soggetto ritratto. L’assenso è esonerato quando la riproduzione è
giustificata dalla notorietà della persona.
10. Diritto alla riservatezza. Il diritto alla riservatezza tutela la vita privata dall’altrui
ingerenza; esso vieta la violazione di domicilio, del segreto telefonico, telegrafico ed epistolare.
La disposizione punisce altresì chiunque si procuri indebitamente notizie o immagini attinenti
alla vita privata mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva e sonora nei luoghi di vita privata.
Connessa alla tutela della sfera personale è la protezione del soggetto sulla diffusione di
informazioni sul proprio conto, dannose per le sue relazioni economiche (privacy economica).
11. Segue. Riservatezza e banche dati. Altro problema riguardante la riservatezza è
l’elaborazione dei dati nelle banche dati delle aziende; prima le banche dati erano previste solo
al dipartimento di pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno, ora tutte le grandi aziende hanno
questi dati. Logicamente l’interessato vanta dei diritti che sono l’accesso gratuito a queste
informazioni, pretendere l’aggiornamento, la trasformazione, la rettifica, la cancellazione e
l’integrazione. Per quanto riguarda i dati sensibili, essi possono essere trattati dalle banche dati
solo con il consenso scritto degli interessati e previa autorizzazione del garante. I dati sensibili
riguardano la rivelazione delle origini razziali, le convinzioni religiose e politiche, ecc…
I danni causati per effetto del trattamento sono risarciti con sanzioni di natura penale (con la
pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna) e di natura amministrativa.
12. Diritto all’informazione. Il diritto all’informazione si configura in una triplice espressione:
diritto di informare, di essere informato, di informarsi. Il diritto di informare riguarda il diritto
di informare la collettività circa il funzionamento della società democratica; esso svolge un
compito molto simile a quello di controllo. Nel caso un soggetto venga leso dalla diffusione di
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errate notizie egli ha come difesa principale il diritto di rettifica, previsto sia dalla legge sulla
stampa, sia dalla legge sul servizio pubblico di diffusione radiofonica e televisiva.
Il diritto ad essere informati riguarda la massima diffusione delle informazioni e di tutela di un
interesse individuale o collettivo. Il diritto ad informarsi, si configura nel diritto ad acquisire
informazioni, ma non nella pretesa di conseguire notizie, salvo diverse disposizioni di legge.
La cronaca ha dei limiti, cioè deve essere veritiera, non illecita e non deve ledere la reputazione
e l’onore altrui.
13. Diritto all’istruzione e all’educazione. Il diritto all’istruzione e all’educazione è un
principio cardine molto importante, perché grazie proprio all’istruzione e all’educazione, l’uomo
può realizzarsi nella società contribuendo anche allo sviluppo della stessa. Questo diritto si
configura come diritto, inteso nella pretesa nei confronti dello Stato, che deve assicurarne lo
svolgimento e fornire i mezzi appropriati; come dovere, inteso in un dovere solidale nei
confronti della collettività, che si concretizza in un’attività che concorra al progresso.
14. Identità e identificazione della persona. Il nome è composto dal prenome o nome
individuale, e dal cognome, generalmente quello di famiglia. Il prenome è imposto dalla scelta
concorde dei genitori ed è dichiarato all’ufficiale di Stato Civile; il cognome, invece,
generalmente è quello del padre.
Il nome è tutelato in quanto è vietata la privazione, l’uso indebito e usurpativo, e s’identifica in
un’identità personale.
Al pari del nome vi è lo pseudonimo che è riconosciuto come segno d’identificazione, e che
nella società ha lo stesso valore del nome.
I titoli nobiliari possono essere aggiunti al cognome, ma sono privi di valore giuridico.
Il rimedio più idoneo alla lesione in oggetto è il diritto alla rettifica, ma sono utilizzabili anche
altri rimedi preventivi e coercitivi, previsti per la stampa ed il risarcimento del danno.
Problema importante riguarda l’identità sessuale; infatti, un soggetto può chiedere di mutare
nome e cognome solo dopo una rettifica del tribunale che provi non solo un mutamento psichico,
ma anche fisico con adeguamenti dei caratteri sessuali mediante intervento chirurgico.
15. I cosiddetti diritti di libertà. La Costituzione assicura all’uomo la libertà che si manifesta in
tante forme:
ƒ naturale, che riguarda la personalità dell’uomo nel pieno svolgimento dei suoi interessi;
ƒ negativa, intesa come libertà dell’uomo nei confronti dello Stato, quindi una libertà da;
ƒ positiva, intesa come diritti e situazioni soggettive attive e quindi una libertà di;
ƒ economica, intesa come libertà di proprietà d’iniziativa e di lavoro; il lavoro è certamente
non soltanto un diritto, ma anche un dovere.
16. Individuo e formazioni sociali. Una rilevanza lo Stato la dà alle formazioni sociali, perché
sono luoghi privilegiati dove la persona esprime se stessa e riesce a realizzarsi. Questa tutela
però non pone su uno stesso piano l’individuo e le formazione sociali; l’uomo è posto sempre in
una posizione di rilievo nei confronti della famiglia, delle aziende, ecc…
17. Lesioni alla personalità e strumenti di difesa. Quando vi sono lesioni alla personalità
l’ordinamento procede alla riparazione; esso consiste in un risarcimento pecuniario e in una
rettifica tramite i mezzi mediatici. La riparazione non riporta alla situazione antecedente e quindi
è inadeguata. Affinché non si verifichino queste lesioni l’ordinamento si muove in via preventiva
con l’inibitoria e i rimedi d’urgenza. L’inibitoria è diretta a far cessare, o a non far iniziare, il
comportamento antigiuridico del danneggiante. I rimedi d’urgenza possono essere chiesti da chi
ha fondato motivo di temere che, nel tempo necessario a far valere un suo diritto in via ordinaria,
questo sia minacciato da pregiudizio imminente ed irreparabile.
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B. Situazioni reali di godimento.
18 I beni. I beni sono le cose che possono formare oggetto di diritto (art. 810 c.c.).
Per cose non s’intendono solo le cose materiali, ma anche quelle immateriali.
Il termine cosa quindi è usato in via generale. I beni sono oggetti di situazioni soggettive e quindi
di un rapporto giuridico.
I beni si dividono in:
ƒ beni in commercio e fuori commercio, dove la differenza è che i beni fuori commercio
non si possono acquistare la proprietà, nemmeno per usucapione;
ƒ beni pubblici e privati (art. 822 c.c.), dove i beni pubblici hanno come titolare di diritto
lo Stato o un ente pubblico e appartengono al demanio pubblico; i beni sono
necessariamente demaniali, quando non possono che non appartenere allo Stato
(spiaggia), o accidentalmente demaniali, il bene diventa demaniale quando diventa di
proprietà dello Stato (strade e ferrovie);
ƒ beni immobili e mobili (812 c.c.), dove i beni immobili sono quei beni non trasportabili
perché naturalmente (un albero), o artificialmente (un edificio) sono incorporati al
suolo; o beni mobili sono la restante parte dei beni. Questa distinzione non sempre è
fattibile, perché alcuni beni mobili vengono iscritti nei registri come i beni immobili (art.
815 c.c.);
ƒ beni divisibili e indivisibili, dove la divisibilità è possibile solo quando le singole parti
divise conservino un valore economico proporzionato al bene intero;
ƒ beni fungibili e infungibili, dove esistono beni che possono essere sostituiti e altri dove
la quantità e la qualità è insostituibile;
ƒ beni generici e specifici, dove i beni generici appartengono ad un determinato genere e
quelli specifici sono considerati per la loro indivisibilità;
ƒ beni produttivi e improduttivi, dove la differenza sta nel fatto che i beni produttivi
producono direttamente o indirettamente un frutto. I frutti possono essere naturali o civili
(art. 820 c.c.): sono naturali quelli che derivano direttamente da un altro bene a
prescindere dall’eventuale opera dell’uomo (il melo comunque produrrà i suoi frutti, e
così gli animali i loro nati); sono civili i frutti che conseguono alla particolare
utilizzazione economica del bene e che coincidono con i redditi che si traggono dal
godimento del bene concesso ad altri (il canone di locazione di un appartamento o gli
interessi su una somma di denaro.
Mentre i frutti naturali si acquistano con la separazione dal bene che li produce, i frutti
civili si acquistano giorno per giorno in considerazione della durata del diritto (art. 821
c.c.);
ƒ beni consumabili e inconsumabili, i dove i beni consumabili si trasformano o si
estinguono (cibo) e i beni inconsumabili hanno un’utilità ripetibile anche se il bene si
deteriora (vestito).
Il bene può risultare anche dalla particolare connessione che può instaurarsi tra più cose: si
discorre, in queste ipotesi di combinazioni di cose che possono essere cose composte o
universalità di mobili.
Le universalità di mobili (art. 816 c.c.) sono costituite dalla relazione di più cose destinate alla
funzione unitaria, appartenenti allo stesso proprietario (biblioteca). La disciplina è diversa da
quella dei singoli beni; ad esempio il principio possesso vale titolo è applicabile ai singoli beni,
ma non alle universalità.
Le cose composte sono costitute dalla connessione di più cose che, nella destinazione
unitaria, perdono la loro funzione originaria per adempierne una diversa (automobile).
La cosa composta si distingue dall’universalità di mobili fondamentalmente perché
nell’universalità non vi è coesione fisica fra i vari elementi, infatti la cosa composta viene
considerata come un bene semplice.
Le pertinenze riguardano quei beni che hanno funzione durevole, di servizio o di ornamento, di
un altro bene; esse hanno carattere accessorio.
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19. La proprietà nel codice e nella Costituzione. La proprietà si pone come uno dei fenomeni
centrali per il suo stretto collegamento con quasi tutti gli istituti di diritto civile; si presenta come
il pilastro degli ordinamenti e, si è reputato, di poterla annoverare tra i diritti fondamentali ed
inviolabili dell’uomo. La proprietà, storicamente concepita in senso “statico” come fonte di
reddito e di godimento, si adegua al modello industriale della società moderna e s’inserisce nella
complessità dei rapporti economici. Da centro del sistema, la proprietà diviene soprattutto uno
degli strumenti mediante i quali si manifesta l’iniziativa economica.
La proprietà è il diritto pieno ed esclusivo di disporre delle cose, entro i limiti e con
l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento (art. 832 c.c.).
Il codice del 1865 prevede limiti negativi, quello del 1942, affianca a questi ultimi
comportamenti positivi. L’espressione “osservanza degli obblighi stabilita dall’ordinamento”
sottintende la realizzazione della funzione che la proprietà deve realizzare (utilità produttivistica)
alla quale non ci si può sottrarre. Emblematica è la possibilità di espropriare i beni che
interessano la produzione nazionale se il proprietario n’abbandona la conservazione, la
coltivazione o l’esercizio (art. 838 c.c.). Contrariamente a quanto traspariva nello Statuto
Albertino, la proprietà non è più un attributo della persona, ma ne diviene uno degli strumenti
mediante i quali si realizza la sua personalità (profilo dinamico previsto dalla Costituzione).
Nella Costituzione, la proprietà è garantita non tra i principi fondamentali (art. 1-12 cost.), né tra
i diritti di libertà (art. 13-28 cost.), ma tra i rapporti economici (art. 35-47 cost.). La proprietà è
riconosciuta esclusivamente come situazione garantita dall’ordinamento che ne determina i modi
di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti (art. 42 cost.).
La funzione sociale assegnata alla proprietà permette di individuare la giustificazione
dell’attribuzione del diritto al soggetto e gli scopi da perseguire, sulla base dei principi di
solidarietà e di promozione della persona.
20. Poteri di godimento e di disposizione. Il potere di godimento è la facoltà di usare o no la
cosa, di deciderne le modalità d’uso, di trasformazione o addirittura la distruzione.
Il potere di disposizione è la possibilità di compiere atti giuridici o di scegliere la destinazione
economica del bene o di disporre materialmente della cosa o, inoltre, di scegliere il tempo di
utilizzazione e di godimento della stessa. Godimento e disponibilità sono pieni ed esclusivi; sono
pieni (pienezza), nel senso che della cosa o sulla cosa il proprietario può fare ciò che vuole; sono
esclusivi (esclusività) nel senso che è vietata qualsiasi intromissione altrui nelle scelte del
proprietario. La pienezza e l’esclusività incontrano dei limiti quando i beni non sono ad uso
strettamente personale.
21. Pluralità di statuti proprietari. Esistono moltissime tipologie di proprietà: case,
appartamento, ecc…. Quindi la proprietà si caratterizza per i profili più diversi e dalle differenti
caratterizzazioni. A ciò consegue una variegata disciplina, perché è impensabile applicare la
stessa disciplina per due tipologie ben diverse di proprietà.
22. I limiti e gli obblighi. Accanto alla proprietà ci sono logicamente dei limiti e degli obblighi
che si differenziano in vincoli pubblici, che riguardano la legislazione pubblicistica, e i vincoli
privati, che riguardano i conflitti tra proprietari. Ulteriori limiti e obblighi emergono dalla
legislazione speciale: si pensi, in particolare, alla materia edilizia ed urbanistica in genere, alla
legislazione in tema di locazione e alla legislazione sull’edificabilità dei suoli.
Oltre all’urbanistica, altro limite molto importante riguarda l’ambiente e soprattutto la sua difesa
dalla sua distruzione e dall’abusivismo. Collegate ai limiti ci sono le limitazioni delle proprietà
conseguenti all’esercizio dell’espropriazione, riconosciuto dalla pubblica amministrazione. Con
l’espropriazione si sottrae la proprietà ad un soggetto allo scopo di destinare il bene espropriato
ad una finalità di interesse generale. Presupposto importante affinché avvenga l’espropriazione è
la finalità per un interesse generale. All’espropriato andrà, come di logica, un indennizzo in
moneta o in lotti edificabili.
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23. Rapporti di vicinato. Il legislatore prevede una disciplina specifica per regolare i rapporti fra
proprietari vicini, tendente a contemperare il diritto al libero esercizio, con il diritto altrui a non
vedersi leso nella propria situazione di godimento.
I rapporti di vicinato sono disciplinati dall’ordinamento che vieta:
ƒ atti emulativi, ossia atti che presentano pregiudizi ad altri come la sopraelevazione di un
muro che toglie aria e luce al fondo vicino (art. 833 c.c.);
ƒ immissioni, ossia immissioni di fumo o calore, esalazioni, rumori e tutto ciò che va oltre
la tollerabilità (art. 834 c.c.).
Una specifica disciplina riguarda le distanze; essa si pone lo scopo di preservare il godimento
del diritto altrui; riguardo a ciò abbiamo la comunione forzosa del muro di confine (art. 874 ss
c.c.): il proprietario può richiedere la comunione del muro di un fondo contiguo e diventarne così
contitolare. Egli, comunque, pagherà un indennizzo per la metà del valore della terra su cui fonda
il muro e metà del valore del muro. Specifiche distanze, anche queste tendenti a garantire il
godimento del bene da parte del proprietario confinante, sono previste per i pozzi, per i fossi, per
i canali, per le fabbriche, per i depositi nocivi o pericolosi e per le piantagioni (art. 889 ss c.c.).
Quanto alle aperture di luce e vedute, queste sono sottoposte ad una disciplina che tende a
contemperare l’esigenza di godere nei propri ambienti di luce naturale e vedute panoramiche con
la necessità di garantire comunque la riservatezza del proprietario del fondo vicino.
La luce è l’apertura che senza possibilità di guardare sul fondo vicino consente l’entrata d’aria e
luce naturale; la veduta è l’apertura che consente di vedere sul fondo vicino [art.901, 903, 905
c.c.].
24. Proprietà fondiaria: edilizia e rurale. Per proprietà fondiaria, il codice considera la proprietà
edilizia (art. 869 ss c.c.), rurale (art. 846 ss c.c.) e i diritti sulle acque (art. 909 ss c.c.).
La proprietà fondiaria è, in linea di principio, illimitata in altezza e profondità.
L’illimitatezza trova il suo confine nell’interesse del proprietario; nel caso manchi tale interesse,
il diritto del proprietario non è più tutelato e non può opporsi all’attività dei terzi (art. 840 c.c.).
Egli ha diritto di chiudere il fondo in qualunque tempo e modo nei limiti stabiliti
dall’ordinamento (art. 841 c.c.). Egli non può impedire la caccia salvo che il passaggio dei
cacciatori comprometta il fondo (art. 842 c.c.).
La proprietà edilizia è limitata dall’urbanistica dei comuni, che definiscono zone edificabili e
non. Ai comuni si è riconosciuto il potere di classificare il territorio comunale in zone al fine di
destinare ciascuna di esse alla realizzazione di specifiche opere: edilizia residenziale, viabilità e
servizi pubblici in genere, verde pubblico, ecc….; gli strumenti utilizzati dai comuni per stabilire
i vincoli di zonizzazione sono i piani regolatori. Alcune lacune presenti nella legislazione
urbanistica sono state colmate definitivamente con la legge Bucalossi, dove si è sostituita la
precedente licenza con una concessione edilizia rilasciata dai comuni nei limiti della conformità
dell’opera agli strumenti di pianificazione urbanistica, e si è trasferito sul proprietario il costo del
contributo per le opere di urbanizzazione. Con questo sistema non si è voluto eliminare la facoltà
di costruire (ius aedificandi) dai poteri del proprietario, ma hanno il solo scopo di accertare la
ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto nei limiti nei quali
il sistema normativo ne riconosce l’esistenza.
Un particolare limite della normativa urbanistica è costituito dal rapporto tra superficie e
volumetria, perché ad ogni area corrisponde un preciso volume di quanto è possibile costruire.
Questo rapporto è stabilito soltanto in via potenziale dai piani regolatori; il consenso dei
proprietari si manifesta con il trasferimento di volumetria o di cubatura.
Diverso e grave problema, rimasto tuttora irrisolto, è quello della sperequazione
(disuguaglianza) che si crea fra i proprietari a seguito dell’adozione del piano regolatore; attesi i
diversi valori economici di mercato, non è indifferente se il proprio terreno è destinato a verde o
a zona residenziale.
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La proprietà rurale è quella dei terreni agricoli; da qui la sua denominazione di proprietà
terriera o, meglio, di proprietà agraria. Essa è limitata dalle trasformazioni dei terreni per il
miglioramento della produzione (art. 857 ss c.c.) e dai vincoli idrogeologici (art. 866 ss c.c.).
25. Modi di acquisto della proprietà a titolo originario. L’acquisto della proprietà può
avvenire sia mediante atti di natura negoziale (contratti) sia con semplici fatti naturali.
Contrariamente all’acquisto a titolo originario, che fa nascere il diritto pieno, l’acquisto a titolo
derivativo è retto dal principio per il quale chi trasferisce (dante causa) non può cedere un
diritto più ampio di quello del titolare. Il nuovo proprietario (avente causa) acquista un diritto
identico per contenuto a quello di cui era titolare il dante causa. I modi di acquisto della proprietà
sono indicati dall’art. 922 del c.c. e quelli a titolo originario sono (art. 923 ss. c.c.):
ƒ l’occupazione, materiale impossessamento della cosa, con la volontà di farla propria;
ƒ l’invenzione, ritrovamento di cose smarrite; il ritrovatore diventa possessore e ha
l’obbligo di portare la cosa smarrita al comune che si occuperà di rendere noto il
ritrovamento: se il proprietario reclama la cosa smarrita, al ritrovatore spetta un premio,
altrimenti, dopo un anno dal ritrovamento, il ritrovatore ne diventa titolare di diritto;
ƒ il tesoro, ritrovamento di una cosa seppellita o nascosta; il ritrovatore ne diventa
proprietario tranne nei casi in cui la cosa ritrovata sia di pubblico interesse (interesse
artistico). In questo caso, al ritrovatore e al proprietario del fondo, dove la cosa è stata
ritrovata, spetta un indennizzo;
ƒ l’accessione, può essere di tre tipi:
1. da cosa mobile a cosa immobile; es.: costruzione di opere su fondo altrui.
Il proprietario del fondo diventa proprietario dell’opera se è stata costruita a sua
insaputa e può chiedere la sua demolizione; se l’opera è stata costruita a
conoscenza del proprietario del fondo, quest’ultimo deve pagare un indennizzo al
costruttore e non può chiederne la demolizione;
2. da cosa immobile a cosa immobile; es.: l’alluvione e l’avulsione.
Con l’alluvione, il proprietario del fondo dove si sono depositati i detriti,
provenienti, in modo lento e progressivo da un altro fondo, diventa proprietario
anche dell’incremento.
Con l’avulsione, il proprietario del fondo, dove si sono depositati parti
considerevoli e riconoscibili di un altro fondo, diventa proprietario
dell’incremento pagando però un indennizzo al proprietario dell’altro fondo.
3. da cosa mobile a cosa mobile; es.: l’unione e la commistione.
Con l’unione di due beni, il proprietario del bene principale diventa proprietario
del secondario e lo stesso vale per la commistione dove però i beni sono
mescolati. In entrambi i casi, il portatore dell’interesse più grande deve
corrispondere un indennizzo all’altra parte.
Vi è anche l’accessione invertita; è il caso in cui il proprietario di un fondo contiguo ad
un altro, costruisce nel fondo contiguo in una parte non utilizzata, un’opera per il suo
interesse. Egli può chiedere di diventare proprietario della parte di fondo occupata entro
tre mesi dalla costruzione dell’opera, pagando, come indennizzo, il doppio del valore
della terra; l’altro proprietario può opporsi facendosi risarcire i danni.
ƒ La specificazione ha lo stesso principio dell’accessione invertita; è il caso dell’acquisto
della proprietà di una cosa creata con materiale altrui: Ad esempio uno scultore che,
utilizza il marmo di un’altra persona per creare la sua opera, deve pagare un indennizzo al
proprietario del marmo per diventarne proprietario; delle volte può accadere che il valore
della materia è maggiore di quello della manodopera, e in questi casi è il proprietario
della materia che deve pagare un indennizzo a colui che creato l’opera per diventarne
proprietario.
26. Superficie. Il diritto di superficie è l’acquisto della proprietà della costruzione esistente o il
diritto di edificare, fermo restando il separato diritto di proprietà sul suolo (art. 952 c.c.).
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Il diritto di superficie determina un particolare modello di proprietà, la cosiddetta proprietà
superficiaria; essa è caratterizzata dal fatto che non si estende più verticalmente, ma
orizzontalmente. Il contratto tra il proprietario del suolo e il superficiario sospende l’operatività
del principio d’accessione. Il diritto di costruzione e il diritto di edificare pur avendo com’effetto
lo stesso risultato, cioè l’acquisto della proprietà su un suolo altrui, configurano situazioni
diverse. Se la costruzione già esiste, ciò che si costituisce è un diritto di proprietà sull’opera. Se il
proprietario, invece, attribuisce la possibilità di costruire sul proprio suolo ad un terzo, questi
acquista prima il diritto di edificare e, una volta eseguita l’opera, la proprietà sull’edificio.
La differenza sta nel fatto che, quando si acquista il diritto di proprietà sulla costruzione,
l’acquisto sarebbe a titolo derivativo; mentre se si acquista il diritto ad edificare, la proprietà
sulla costruzione si costituirebbe a titolo originario. Se si è acquistato un diritto di proprietà, il
diritto è imprescrittibile; se si è acquistato un diritto di edificare, il diritto è sottoposto al regime
della prescrizione, con la conseguenza che, se non si edifica nel termine di 20 anni, il diritto si
prescrive (art. 954c.c.).
Il diritto si costituisce per contratto, testamento o usucapione e può essere previsto a tempo
determinato o indeterminato. Se è a tempo determinato, alla scadenza del termine, vale il
principio dell’accessione, cioè la costruzione accederà al suolo ed il proprietario di quest’ultimo
diverrà proprietario anche dell’opera costruita (art. 953 c.c.).
Il diritto di superficie si estingue per decorrenza del termine, per rinunzia del superficiario, per
riunificazione della figura del proprietario con quella del superficiario; non si estingue per il
perimento della costruzione [art. 954 c.c.].
27. Enfiteusi. L’enfiteusi è un diritto di godimento su cosa altrui; il proprietario di un suolo dà
in enfiteusi il suddetto diritto ad un terzo (enfiteuta), il quale esercita gli stessi diritti di
godimento del proprietario. Gli obblighi dell’enfiteuta sono: migliorare il fondo e pagare un
canone (art. 960 c.c.). All’enfiteuta sono riconosciuti tutti i diritti sul fondo e sulle accessioni
(art. 959 c.c.), quindi la posizione dell’enfiteuta si configura come dominio utile, quella del
proprietario come dominio diretto.
Oltre che su fondi rustici, l’enfiteusi può essere costituita anche su fondi urbani, dove è concessa
o su un fondo al quale accede un edificio o su un fondo concesso allo scopo di costruirvi un
edificio. Gli incrementi di valore che si determinano con l’enfiteusi urbana sono diversi da quelli
dell’enfiteusi rustica ed hanno diversa disciplina.
L’enfiteusi si può costituire per contratto, in forma scritta, per testamento o usucapione e può
essere a tempo determinato o perpetuo; se è stabilita a tempo determinato, non può avere una
durata inferiore ai 20 anni (art. 958 c.c.).
L’enfiteuta può modificare la destinazione del fondo (art. 959 c.c.); può disporre per testamento
del proprio diritto (art. 965 c.c.), ma non può cederlo in subenfiteusi (art. 968 c.c.).
L’estinzione si ha a seguito della scadenza del termine, rinunzia dell’enfiteuta, per perimento
totale del fondo ed espropriazione, si estingue anche quando l’enfiteuta non ha migliorato il
fondo o non ha pagato due annualità di canone (art. 972 c.c.). Il legislatore prevede due peculiari
modi di estinzione del diritto: l’affrancazione e la devoluzione.
Con l’affrancazione si attribuisce all’enfiteuta un diritto all’acquisto (a titolo derivativo) della
proprietà del fondo, pagando una somma di denaro che si ottiene moltiplicando per quindici
volte il valore del canone annuo (capitalizzazione del fondo).
La devoluzione è sostanzialmente un’azione di risoluzione, tendente a tutelare il proprietario di
fronte alle inadempienze degli obblighi dell’enfiteuta.
In virtù dell’estinzione, l’enfiteuta ha un diritto ad un rimborso, commisurato all’incremento di
valore apportato sulla base dei miglioramenti e delle addizioni fatte; resta il diritto di togliere le
addizioni fatte senza arrecare danno al fondo (art. 975 c.c.).
28. Diritti di godimento su cosa altrui. Accanto alla proprietà ci sono altre situazioni di
godimento su cosa altrui; tali situazioni si configurano quando si vantano dei diritti o verso il
proprietario o verso il bene. All’enfiteusi e alla superficie si aggiungono l’usufrutto, l’uso e
l’abitazione, le servitù.
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29. Segue. Usufrutto. L’usufrutto è il diritto di godere di un bene altrui e dei suoi frutti con
l’obbligo di conservare la destinazione economica del bene e di restituirlo alla scadenza (art. 978
ss c.c.). Il bene dato in godimento deve essere un bene fruttifero e non consumabile, però esiste
anche l’usufrutto dei beni consumabili (quasi usufrutto). I frutti sono acquistati
dall’usufruttuario secondo le regole generali (art. 984 c.c.).
Limite importante, cui è tenuto l’usufruttuario, è quello di non modificare l’indirizzo economico
del bene, pena il pagamento di sanzione; è tenuto al risarcimento del danno qualora alteri
l’originaria destinazione economica e può anche essere condannato al ripristino delle precedenti
condizioni. Quanto al godimento, l’usufrutto non può durare oltre la vita dell’usufruttuario; se è
costituito a favore di una persona giuridica, non può eccedere i trent’anni (art. 979 c.c.); esso non
trasmissibile mortis causa.
L’usufrutto congiunto riguarda un usufrutto costituito nei confronti di più persone che si
esaurisce o per scadenza del termine o per la morte dell’ultimo socio.
L’usufrutto successivo è il passaggio automatico dell’usufrutto da una persona ad un’altra per
l’ipotesi di morte di una di esse; è costituito a titolo oneroso ed è espressamente escluso riguardo
agli atti mortis causa.
L’usufrutto si costituisce per legge (genitori sui beni dei figli), volontariamente (per contratto o
testamento) e per usucapione. Il diritto è cedibile ma la cessione non può eccedere la durata
originaria (art. 980 c.c.).
L’obbligo dell’usufruttuario è quello di restituire alla scadenza il bene con l’osservanza della
diligenza del buon padre di famiglia. L’usufruttuario è tenuto alle spese di mantenimento del
bene dato in usufrutto ed i suoi diritti, oltre che sui frutti, si estendono ai miglioramenti e alle
addizioni, ma non al tesoro.
L’estinzione dell’usufrutto si ha per scadenza del termine, per rinunzia, per prescrizione
determinata dal non uso protratto per 20 anni, per consolidazione, per il perimento totale e non
quello parziale della cosa, per abuso dell’usufruttuario susseguente all’alienazione dei beni o al
loro deterioramento. Non si estingue invece se la cosa è espropriata e se perisce per colpa o dolo
di terzi.
30. Segue. Uso e abitazione. A differenza dell’usufrutto, l’uso e l’abitazione hanno limitata
misura della facoltà di godimento che si attribuisce sulla cosa. L’uso è diritto personalissimo, che
attribuisce al suo titolare il potere di servirsi della cosa e di raccoglierne gli eventuali frutti,
limitatamente ai bisogni della sua famiglia (art. 1021 c.c.). Quando l’uso ha per oggetto
un’abitazione, la situazione si qualifica diritto di abitazione (art. 1022 c.c.).
L’uso e l’abitazione si costituiscono per usucapione, volontariamente o per legge. Si estinguono
con la morte del titolare e non possono essere dati in locazione o formare oggetto di testamento.
31. Segue. Servitù. La servitù è un diritto reale di godimento che consiste nel peso imposto
sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.).
Da questa definizione si delineano il fondo servente, il quale ha delle limitazioni delle facoltà
gravate dal peso, e il fondo dominante, che dal peso ne ricava un’utilità.
Il compito del proprietario del fondo servente è di sopportare, di tenere un comportamento
negativo di non fare. Le spese per l’esercizio delle servitù sono a carico del fondo dominante,
salvo diversa disposizione (art. 1030 c.c.).
Affinché vi sia una situazione di servitù sono richiesti tali presupposti: che tra di due fondi
sussista una relazione di servizio e quindi anche di utilità e che vi siano due proprietari diversi
riferiti non però a due persone distinte, ma a due situazioni distinte, ad esempio, un proprietario
può essere titolare di uno dei due fondi e contitolare dell’altro fondo.
Le servitù si costituiscono per contratto o testamento; per le sole servitù apparenti sono previsti
l’usucapione e la destinazione del buon padre di famiglia, che consiste in un modo di acquisto a
titolo originario di due fondi ora divisi, ma primi uniti, dove sono state predisposte opere visibili
di servizio per un fondo in modo tale da manifestare appunto l’esistenza di una relazione di
servizio.
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Le servitù si distinguono:
ƒ apparenti, caratterizzate dall’esistenza di opere visibili e permanenti, destinate
all’esercizio della servitù; e non apparenti, dove manca un’opera visibile (es: servitù di
non edificare);
ƒ affermative (o positive), costituite a favore della situazione soggettiva dominante del
potere di svolgere un’attività nel fondo servente; e negative, ossia proibizione a carico
della situazione servente di compiere atti o comportamenti;
ƒ continue, che per il loro esercizio presuppongono una precedente opera; e discontinue,
prescindono da opere e l’esercizio coincide con il fatto stesso dell’uomo (es: servitù di
passaggio);
volontarie (art. 13504, 1058 c.c.), si costituiscono per volontà dei singoli (contratto o testamento)
o per legge; e coattive (art. 1031 c.c.), soddisfano una necessità del fondo dominante in base al
principio di un dovere di solidarietà per un pubblico interesse. Le servitù coattive sono costituite
per accordo tra i titolari o per sentenza o per atto amministrativo (es: espropriazione per pubblica
utilità).
Nell’esercizio delle servitù, al fondo dominante è richiesto di non aggravare oltre i limiti stabiliti
la situazione servente, e al fondo servente è richiesto di non ostacolare o diminuire l’esercizio del
fondo dominante.
La servitù si estingue per confusione (art. 1072 c.c.), decorrenza del termine, rinuncia (art. 13505
c.c.), abbandono del fondo servente (art. 1070 c.c.) e prescrizione determinata dal non uso
ventennale (art. 1073 c.c.).
Il decorso del termine per la prescrizione per le servitù continue avviene da quando non è più
possibile esercitare il diritto; nelle discontinue, il decorso del termine per la prescrizione scatta
dall’ultima volta che è stato esercitato il diritto (art. 1073² e ³).
32.Comunione. Quando la titolarità di una situazione di godimento è di più soggetti si parla di
comunione (art. 1100 c.c.). La disciplina della comunione è costruita sulla base della
comproprietà, alle situazioni di godimento su cosa altrui, e sulla base di valutazione di
compatibilità, alle altre situazioni patrimoniali.
La comunione può essere volontaria (se nasce dall’accordo dei soggetti), legale (o forzosa; se
nasce dalla legge) e incidentale (se nasce da un evento casuale; es: comunione fra più eredi).
Esistono tuttavia forme speciali di comunione come la comunione legale fra i coniugi. Nella
comunione, il godimento di uno dei titolari si deve misurare con quello dell‘altro, e cioè, non può
neanche modificare la destinazione della cosa comune (art. 1102 c.c.).
La comunione attribuisce ad ogni titolare una quota, sulla quale sono calcolati
proporzionalmente i vantaggi del godimento e gli svantaggi riguardanti le spese di godimento e
di mantenimento. Salvo diversa disposizione, le partecipazioni si presumono eguali fra i
contitolari (art. 1101 c.c.).
Inoltre, ciascun partecipante, se si tratta di cose divisibili, può chiedere lo scioglimento della
comunione, purché non sia forzosa o non si sia stabilito che la contitolarità debba rimanere per
un certo tempo (art. 1111 c.c.).
All’amministrazione concorrono tutti i partecipanti sulla base di deliberazioni prese
dall’assemblea, impugnabili entro 30 giorni. Per gli atti di ordinaria amministrazione, può essere
formato un regolamento e nominato un amministratore. La maggioranza è calcolata sulla
quantità di valore rappresentata dalle rispettive quote di partecipazione e non sul numero dei
partecipanti: per gli atti di ordinaria amministrazione, sono calcolate sulla base del valore delle
quote; per gli atti di straordinaria amministrazione, occorrono i due terzi del valore complessivo
della cosa comune. Si richiede l’unanimità dei consensi per gli atti di alienazione (vendita) o di
costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a 9 anni (art.
1105-1109 c.c.).
Per i beni divisibili, lo scioglimento può essere richiesto con l’accordo delle parti e la ripartizione
è fatta tenendo conto delle quote. Nel caso dei beni indivisibili, i titolari provvedono
all’alienazione e alla ripartizione del ricavato in base alle quote.
51
33. Condominio negli edifici. Il condominio è un caso particolare di più diritti esclusivi; esso
riunisce da una parte la proprietà privata dell’appartamento, dall’altra la comunione forzosa
dell’edificio (art. 1117 c.c.). Ciò comporta quindi dei diritti sulle parti comuni, calcolati sul
valore della proprietà esclusiva, e dei doveri, che sono calcolati in base alla destinazione del
servizio; logicamente ci sono delle spese che sono ripartite o in quote o in base all’uso.
Le parti comuni sono indivisibili, salvo che la divisione possa farsi senza pregiudizio per gli altri.
Gli organi per l’amministrazione del condominio sono l’assemblea e l’amministratore (la nomina
di quest’ultimo è obbligatoria nei condomini con più di quattro partecipanti; art. 1129 c.c.).
L’assemblea si riunisce per deliberare sui fatti dell’edificio; essa delibera con principio
maggioritario ed è vincolante anche per i condomini assenti o dissenzienti. Le delibere sono
impugnabili entro 30 giorni. È possibile la formazione di un regolamento che disciplini l’uso
delle cose comuni, la ripartizione delle spese e l’amministrazione; il regolamento è obbligatorio
negli edifici con più di dieci proprietari esclusivi (art. 1135-1138 c.c.).
L’amministratore è l’organo esecutivo e, nei limiti dell’attribuzione e dei poteri conferitigli dal
regolamento, rappresenta i condomini sia in giudizio sia nei confronti dei terzi (art. 1130, 1131
c.c.).
Quando più edifici hanno tra loro in comunione una serie di opere staccate, ma destinate a
servizio di ciascuna di esse, si ha il supercondominio, formato da edifici e da parti comuni ad
essi: le strade di accesso, la centrale termica, i parcheggi, i prati, ecc….
34. Multiproprietà. La multiproprietà è il diritto con riferimento qualificante nel tempo; tale
diritto, esercitato su un bene comune, consiste in un godimento turnario, cioè limitatamente ad
un determinato periodo. La multiproprietà, pertanto, si caratterizza per l’esistenza di una
comunione e per il godimento esclusivo della cosa comune, esercitabile, per ognuno, in periodi
predeterminati.
Una funzione molto importante è ricoperta dal regolamento: esso, predisposto dal promotore e
accettato con gli atti di acquisto delle singole quote della multiproprietà, disciplina l’uso delle
parti e dei servizi comuni nonché la partecipazione alle relative spese.
Molto frequenti sono le multiproprietà alberghiere, dove si ha il diritto di godere a turno di
un’imprecisata unità abitativa, e quelle azionarie, dove il complesso immobiliare cede ai
multiproprietari una quota di azioni determinata sulla base dei periodi di godimento.
La multiproprietà è disciplinata dal legislatore, che tutela principalmente l’acquirente
attribuendogli il diritto di recesso o la nullità dei patti che dovessero pregiudicarne la posizione.
35. Azioni a difesa dei diritti di godimento. Le azioni a tutela delle situazioni di godimento
vanno distinte in: petitorie, concesse al solo proprietario; confessorie e di nunciazione,
esperibili anche dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui; possessorie, previste per il
possessore.
A difesa del suo diritto, il proprietario ha a disposizione:
ƒ l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), dove è presupposta la mancanza del possesso e
colui che si reputa proprietario richiede la restituzione a colui che la possiede. Il
proprietario deve dare prova dell’acquisto o a titolo originario, o a titolo derivativo; a
titolo derivativo, bisogna risalire, mediante i precedenti danti causa, all’acquisto a titolo
originario. Chi pretende di essere proprietario dovrebbe provare non soltanto di aver
acquistato il diritto da un precedente titolare, ma anche che il diritto di questo trova un
valido titolo in un precedente acquisto e così fino al primo originario proprietario
(probatio diabolica).
ƒ l’azione negatoria (art. 949 c.c.) spetta al proprietario contro chi pretende di avere diritti
reali di godimento sulla sua cosa, quando da questi si teme di subire un pregiudizio. Il
proprietario mira ad ottenere dal giudice non solo l’accertamento dell’inesistenza del
diritto altrui, ma anche l’ordine di far cessare le turbative e le molestie sulla sua proprietà.
Al proprietario basta dimostrare il proprio diritto di proprietà, mentre il convenuto ha
l’onere di provare l’esistenza del suo diritto che gli è stato negato dal proprietario.
52
ƒ
l’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.), consiste nella demarcazione dei
confini tra due fondi, quando mancano limiti certi; la prova del confine può essere data in
qualsiasi modo e, in mancanza di prove, il giudice può procedere all’accertamento, anche
mediante l’esame delle mappe catastali.
ƒ l’azione di opposizione di termini (art.951 c.c.), presuppone la mancanza di segni per
individuare i confini; si richiede l’apposizione, a spese di entrambi i proprietari, dei segni
di confine.
Per i titolari di un diritto di godimento su cosa altrui ci sono:
ƒ l’azione confessoria (art. 1079 c.c.), dove si tende a far riconoscere non solo l’esistenza
del proprio diritto di godimento su cosa altrui contro chi ne contesti l’esercizio, ma si
mira ad ottenere dal giudice la cessazione degli atti impeditivi e delle turbative al diritto
stesso. In questo caso è l’attore (proprietario) che deve dimostrare l’esistenza della
situazione di godimento.
ƒ l’azione di nunciazione, che sono: la denunzia di nuova opera (art. 1171 c.c.) e il danno
temuto (art. 1172 c.c.); entrambe tendono all’eliminazione di un pericolo proveniente dal
fondo del vicino. La denunzia di nuova opera mira ad impedire i pericoli o le
limitazioni al potere di godimento che possono derivare dalla costruzione di nuove opere,
o da attività intraprese da altri sul fondo vicino. Il danno temuto tende a prevenire il
pericolo di un danno grave ed imminente al godimento del proprio diritto, da parte di una
qualsiasi cosa già esistente sul fondo del vicino (es: tetto pericolante).
53
C. Situazioni possessorie.
36. Fattispecie. Il legislatore definisce il possesso come il potere sulla cosa, che si manifesta in
un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di un altro diritto reale (art. 1140 c.c.).
Il possesso è qualificato: come situazione di fatto, in contrapposizione alla proprietà e agli altri
diritti reali, che sono qualificati situazioni di diritto, e come un atto giuridico, perché fattispecie
produttiva di conseguenze giuridiche.
Il possesso consiste essenzialmente in un comportamento diretto al godimento e
all’utilizzazione, attuali e futuri, di un bene; esso si configura sia nell’attività corrispondente
all’esercizio del diritto di proprietà, sia nella condotta corrispondente all’esercizio di un diritto
reale su cosa altrui.
Il possessore è colui che gode e utilizza un bene, indipendentemente dalla circostanza che sia
oppure no titolare di un diritto reale sul bene in suo potere; accanto a quest’elemento materiale vi
è un elemento spirituale, ossia l’animus possidendi, l’intenzione del possessore di usare la cosa
come il proprietario.
Da qui si può fare la differenza tra possessore e detentore; il detentore, a differenza del
possessore ha una diversità di condotta, in quanto, non si comporta come il proprietario e
riconosce l’altrui diritto sulla cosa.
Il possesso mediato consiste nel fatto che il possessore non possiede direttamente il bene, ma per
mezzo di un’altra persona, il detentore.
Se il detentore volesse diventare possessore non basta la volontà di comportarsi come il
proprietario, ma c’è bisogno di atti giuridici, come la vendita o una donazione di quel bene a suo
favore, oppure un suo atto di opposizione nei confronti del proprietario (es: rifiuto di pagare i
canoni o di restituire la cosa alla scadenza del contratto, ecc…).
Se, invece, il possessore volesse diventare proprietario, egli deve compiere atti di opposizione
contro il diritto del proprietario: tale mutamento si chiama interversione del possesso (art. 1164
c.c.).
37. Rilevanza del possesso. Al possesso la legge collega tre ordini di conseguenze:
a) garantisce al possessore protezione del suo interesse al godimento e all’uso del bene
contro turbative e molestie da parte di terzi;
b) attribuisce al possessore una posizione più vantaggiosa rispetto l’onere della prova; egli
non deve provare nulla, piuttosto è il proprietario a dover provare la sua titolarità;
c) riconosce al possessore senza di titolo di poter acquistare il diritto corrispondente al
comportamento tenuto.
La dottrina più recente tende invece a dare primaria importanza alla tutela giurisdizionale e a
individuare il fondamento non tanto in un interesse particolare del possessore, quanto
nell’interesse generale a mantenere la pacifica convivenza dei consociati, assicurando
l’immediato ripristino dello stato di fatto esistente (comportamento possessorio) e rinviando a un
momento successivo la questione relativa al diritto delle parti in conflitto (fase petitoria).
38. Inizio e durata del possesso. Il possesso si costituisce a titolo originario, tramite
apprensione del possesso del bene, e a titolo derivativo, tramite consegna del bene da parte di un
altro soggetto (il precedente possessore).
La consegna non è necessaria quando:
a) chi diviene possessore è già detentore;
b) chi cede il possesso conserva la detenzione.
Non possono invece costituire fondamento all’acquisto del possesso gli atti di tolleranza, cioè
l’uso dell’altrui bene per ragioni di amicizia, cortesia o di buon vicinato (art.1144 c.c.).
Le regole circa la determinazione della durata del possesso sono (art. 1142 e 1143 c.c.):
a) il possesso attuale non fa presumere il possesso anteriore;
b) chi ha posseduto in tempo anteriore e ora possiede in tempo attuale, si presume abbia
posseduto in tempo intermedio;
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c) se il possessore ha un titolo (compravendita) si presuma che possieda dalla data del titolo,
salvo prova contraria.
I periodi di possesso di persone diverse si possono cumulare e si configurano così la successione
nel possesso e l‘accessione nel possesso.
La successione nel possesso si ha nell’ipotesi di successione a titolo universale, quando l’erede
continui il possesso del defunto con effetto all’apertura della successione. Se il possesso del
defunto era di buona fede, si considera tale anche quello dell’erede; se era, invece, di mala fede
si considera tale anche quello dell’erede (art. 11461 c.c.).
L’accessione nel possesso si ha quando il successore a titolo particolare non continua
automaticamente il possesso del suo dante causa, ma può, se gli giova, unire il proprio possesso a
quello del suo autore (proprietario) al fine di goderne gli effetti (art.1146² c.c.).
39. Possesso di buona fede ed effetti del possesso. È possessore di buona fede, chi possiede
nell’ignoranza di ledere l’altri diritto, cioè ignorando l’altruità della cosa (art. 1147¹ c.c.); è
possessore di mala fede, chi sa di ledere l’altrui diritto.
La buona fede s’identifica nell’ignoranza, ossi della non conoscenza certa del proprietario; essa
si presume, salvo prova contraria, essendo sufficiente la sua presenza al momento dell’acquisto.
Questa ignoranza non va, però, generalizzata, in quanto l’ordinamento prevede che, anche con un
minimo di diligenza, l’acquirente è capace di capire se il dante causa è il proprietario o non (es:
ricettatore). Tuttavia la legislazione prevede e tutela il possessore di buona fede, riconoscendo
diritti e obblighi. Fra gli obblighi, vi è la restituzione della cosa al proprietario.
Fra i diritti, abbiamo:
a) il possessore di buona fede ha il diritto di fra propri i frutti prodotti fino al giorno della
domanda di rivendicazione; il possessore di mala fede, invece, deve restituire i frutti
indebitamente percepiti, ma ha comunque diritto al rimborso delle spese (art. 1148 e 1149
c.c.);
b) il diritto ad un’indennità (superiore rispetto a quella spettante al possessore di mala fede)
per le riparazioni, i miglioramenti, le addizioni portate alla cosa (art. 1150 c.c.);
c) un particolare strumento di autotutela: il diritto di ritenzione, cioè il diritto di non
restituire la cosa finché non gli sia corrisposta l’indennità dovuta o non siano prestate
idonee garanzie (art. 1152 c.c.).
Il legislatore ritiene proprietario il possessore in buona fede che abbia acquistato il bene mobile
dal malfattore, a patto che vi siano due presupposti (art. 1153 c.c.):
a) la buona fede iniziale, ossia ignori che il dante causa non è il proprietario;
b) esista un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà (es: una vendita o una
donazione, che sono contratti traslativi della proprietà, non invece un contratto di
locazione).
Nella risoluzione dei casi tra possessori di buona fede si ricorre spesso al principio possesso vale
titolo, ossia la supposizione che il possessore sia anche il proprietario, e si preferisce tutelare il
primo possessore (art. 1155c.c.).
40. Usucapione. L’usucapione è un modo di a acquisto della proprietà a titolo originario,
mediante il possesso continuato nel tempo, per il numero di anni previsti dalla legge, di beni
immobili, universalità di mobili, mobili beni registrati e beni mobili non registrati (art. 1153
c.c.).
Si possono acquistare anche i diritti reali di godimento ad eccezione delle servitù non apparenti
(art. 1061 c.c.). Il termine ordinario di usucapione è di 20 anni per i beni immobili e per le
universalità di mobili; di 10 anni per i beni mobili registrati (art. 1158, 1160¹, 1162² c.c.). per i
beni mobili non registrati, la proprietà si acquista mediante il possesso continuato per 10 anni, se
il possessore è in buona fede; se è in mala fede, l’usucapione si compie con il decorso di 20 anni.
Chi acquista in buona fede un bene immobile da chi non è proprietario, in forza di un
titolo che sia idoneo a trasferire la proprietà e che sia stato debitamente trascritto (la trascrizione
è elemento costitutivo della fattispecie acquisitiva), ne compie l’usucapione con il decorso di 10
anni dalla data di trascrizione (art. 1159¹ c.c.).
55
Per i beni mobili registrati, l’usucapione abbreviata di 3 anni (art. 1162¹ c.c.). Nell’ipotesi di
acquisto in buona fede di universalità di mobili da chi non è proprietario, in forza di un titolo
idoneo a trasferire la proprietà, l’usucapione si compie in 10 anni (art. 1160¹ c.c.). Termini
speciali e più brevi sono stati introdotti per l’usucapione della piccola proprietà rurale (art.
1159bis c.c.): il termine è di 15 anni per il possesso continuato, di 5 anni dalla data della
trascrizione nel caso di chi acquisti in buona fede da chi non è proprietario, in forza di un titolo
che sia idoneo al trasferimento della proprietà e che sia debitamente trascritto. Vengono usucapiti
anche gli annessi fabbricati.
Il termine necessario per l’usucapione inizia a decorrere quando:
a) dopo la fine della violenza o clandestinità, se il possesso fu iniziato in modo violento
(rapina) o clandestino (di nascosto);
b) dopo la conflittualità fra possessore e proprietario, se il possesso è mutato in forza di
un’opposizione fatta dal possessore contro il diritto del proprietario o per la causa
proveniente da un terzo (art. 1164 c.c.: interversione del possesso).
Il decorso del termine può essere sospeso o interrotto per le stesse cause che valgono per la
prescrizione (art. 1165 c..c); è altresì interrotto quando il possessore è privato del possesso per
oltre 1 anno.
Con l’usucapione si premia chi, pur senza averne diritto, utilizza i beni e li rende produttivi, a
scapito del proprietario rimasto inerte per lungo tempo. L’usucapione semplifica altresì la prova
del diritto di proprietà: colui che afferma di essere proprietario, è sufficiente che dimostri di aver
posseduto il bene per il tempo necessario per usucapire, valendosi, eventualmente, delle regole
dettate in tema di successione e accessione nel possesso.
41. Azioni possessorie e azioni di nunciazione. A difesa del possesso vi sono le azioni di
reintegrazione e di manutenzione.
L’azione di reintegrazione (o di spoglio) (art. 1168 c.c.) spetta al possessore che sia stato
violentemente o clandestinamente spogliato del bene, ed è diretta ad ottenere la reintegrazione
del possesso, ossia la restituzione della cosa. Deve essere esercitata entro 1 anno dallo spoglio o,
se lo spoglio è clandestino, entro 1 anno dalla sua scoperta. Il giudice, sulla base della semplice
notorietà dello spoglio ordina la reintegrazione.
L’azione di manutenzione (art. 1170 c.c.) spetta al possessore di beni immobili e di universalità
di mobili che sia stato molestato nel suo possesso. Essa è diretta ad ottenere la cessazione delle
turbative. Per la sua esperibilità occorre che:
1) il possesso duri continuamente ed ininterrottamente da oltre 1 anno;
2) il possesso sia stato acquistato in modo non violento né clandestino, altrimenti l’azione
può essere esercitata soltanto se è decorso almeno 1 anno dalla fine della violenza o
della clandestinità.
L‘azione può essere esperita anche da colui che ha subito uno spoglio non violento o clandestino,
al fine di essere rimesso nel possesso del bene (art. 1170³ c.c.): l’azione di manutenzione
cosiddetta recuperatoria.
Al possessore sono concesse anche le azioni di nunciazione (denuncia di nuova opera e
denuncia di danno temuto: art. 1171 e 1172 c.c.).
A differenza delle azioni petitorie, che richiedono all’attore la difficile prova del suo diritto sul
bene, le azioni possessorie richiedono esclusivamente la prova del possesso. I beni demaniali non
possono essere usucapiti.
Nella risoluzione delle controversie, il legislatore, mediante le azioni possessorie, assolve
esigenze di ordine pubblico e di salvaguardia della pace sociale, perché queste azioni sono
semplici e spedite. Successivamente chi crede di vantare diritti sulla cosa, oggetto della
controversia, può, mediante azioni petitorie, rivendicare il proprio diritto. Il nostro ordinamento
separa il giudizio petitorio e quello possessorio.
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D. Situazioni di credito e di debito.
a. Struttura e caratteri dell’obbligazione
42. Situazioni reali e di credito: per un diritto comune delle situazioni patrimoniali. La
distinzione tra situazioni reali e di credito è improntata sulla presenza di alcune caratteristiche: le
situazioni reali sono caratterizzate da assolutezza e immediatezza, mentre quelle di credito da
relatività e mediatezza.
Le situazioni reali sono assolute, in quanto, il titolare del diritto può farlo valere erga omnes,
cioè verso la generalità dei consociati; le situazioni di credito sono relative, perché esercitabile
soltanto nei confronti di una persona ben determinata: il debitore.
Le situazioni reali sono immediate perché è il proprietario che esercita il potere di ricavare
utilità dalla cosa; le situazioni di credito sono mediate, cioè hanno bisogno di un intermediario
affinché il proprietario consegua i propri interessi.
Le situazioni reali presentano l‘inerenza, ossia lo stretto legame della situazione soggettiva con
il bene che ne costituisce l’oggetto.
Questi criteri, oramai, sono superati.
Infatti, le situazioni reali possono anche non essere assolute; è il caso del diritto di proprietà: il
primo acquirente, anche se ha acquistato il bene per primo, non può avvalersi del diritto di
proprietà sul bene per opporlo a colui che ha acquistato lo stesso bene successivamente, ma lo ha
trascritto per primo (art. 2644 c.c.).
Ancora, le situazioni di credito possono essere assolute; è l’esempio di una casa in locazione, la
quale è venduta ad un altro soggetto, il contratto di locazione, anche se è cambiato il proprietario,
si conserva; altro esempio riguarda la lesione delle situazioni di credito, la quale può essere
provocata non solo dal debitore, ma anche da terzi.
È stata superata anche la mediatezza, cioè le situazioni di credito possono essere immediate; è il
caso del proprietario il quale, da solo, dà in locazione la casa o l’appartamento.
Superata è anche l’immediatezza delle situazioni reali, le quali, per essere esercitate, hanno
bisogno di un intermediario.
Neppure la preferenza riguarda soltanto le situazioni reali (es: garanzia), ma anche quelle di
credito (es: crediti di lavoro, crediti alimentari).
La preferenza, a riguardo delle situazioni di credito, è il potere del creditore ipotecario o
pignoratizio di soddisfarsi mediante la vendita forzata dei beni del debitore, con priorità e
prevalenza rispetto ai cosiddetti creditori chirografi (cioè non muniti di garanzie reali).
43. Precisazioni terminologiche e di metodo. In materia di obbligazione esistono moltissime
definizioni, le quali però sono incomplete; è il caso delle definizioni unilaterali.
Infatti, le obbligazioni sono viste da una parte, come diritto o pretesa del creditore verso il
debitore, designando l’obbligazione quasi come un‘esecuzione forzata; dall’altra parte,
l’obbligazione è vista come il dovere del debitore di eseguire la prestazione.
La giusta interpretazione, comunque, afferma che entrambe le parti (creditore e debitore) sono
attivamente coinvolte nella vicenda attuativa dell’obbligazione, se pur in maniera diversa per
realizzare gli interessi sottesi al rapporto (art. 1175 c.c.).
Tale cooperazione tra creditore e debitore si fonda anche sul principio della solidarietà (art. 2
cost.).
Le precisazioni terminologiche hanno rilievo pratico e ricostruttivo: esse forniscono utili
indicazioni per individuare con maggiore puntualità e compiutezza il contenuto delle situazioni
giuridiche soggettive, nonché per individuare l’oggetto dell’obbligazione.
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44. Complessità delle situazioni creditorie e debitorie. La situazione creditoria è solitamente
qualificata attiva, mentre quella debitoria è qualificata passiva. Situazione attiva in quanto è
costituita da poteri, pretese, aspettative, ecc…; situazione passiva, in quanto è costituita da
obblighi, doveri, oneri e soggezioni. Queste definizioni dottrinali sono superate perché sono
limitative. Altra critica che viene fatta, riguarda il dovere di correttezza e il dovere di buona fede
(art. 1175 e 1375 c.c.):
il dovere di correttezza, riguarda la correttezza che il creditore deve avere nei confronti del
debitore; il dovere di buona fede, si configura non solo nell’eseguire la prestazione, ma anche
una onestà e correttezza da parte del debitore.
Questi due doveri in realtà, concettualmente, sono la stessa e non è possibile scinderli perché, in
un rapporto obbligatorio è richiesta, non solo la correttezza del creditore, ma anche la buona fede
del debitore; quindi entrambe le parti devono funzionare per raggiungere gli obiettivi stabiliti
attuando il principio di solidarietà. Il legislatore, per tutelare i suddetti principi da coloro che
non li rispettano, impone alle parti gli obblighi di avviso e i doveri di protezione:
gli obblighi di avviso, s’identificano, nel dovere reciproco, in una informazione tempestiva circa
vicende o accadimenti la cui ignoranza possa pregiudicare l’esito del rapporto;
i doveri di protezione tendono a preservare la sfera giuridica delle parti da fatti lesivi connessi
all’esecuzione delle prestazioni.
Le situazioni creditorie e debitorie, quindi, sono state non solo aggiornate ma, anche integrate.
45. Oggetto del rapporto obbligatorio. La prestazione è l’oggetto dell’obbligazione (art. 1174
c.c.) e in relazione ad esse esistono due contrapposti orientamenti: uno patrimoniale e uno
personalistico.
La teoria patrimoniale si basa sulla mera considerazione del ruolo marginale del debitore; infatti
il creditore al fine di raggiungere il suo scopo può ricorrere o ad un processo esecutivo o ad una
vendita forzata dei beni ricavandone denaro. (Critica: Il debitore è visto come uno fra i possibili
strumenti mediante i quali, il creditore potrebbe conseguire il medesimo risultato: infatti al
creditore basta anche l’adempimento da parte di terzi).
La teoria personalistica afferma che, a differenza di quella patrimoniale, la prestazione può
essere richiesta dal creditore, non dalla generalità dei terzi ma, solo dal soggetto obbligato.
(Critica: Questa teoria pone la figura del debitore, a volte come marginale rispetto al bene, ossia
come comportamento accessorio, e a volte, il debitore assume un ruolo fondamentale
nell’attuazione dell’interesse del creditore).
46. Caratteri fisionomici del rapporto obbligatorio. Il rapporto obbligatorio è un vincolo
giuridico in virtù del quale, il debitore è tenuto ad eseguire una prestazione patrimoniale o non
per l’interesse del creditore, che ha il potere di pretendere l’esecuzione di tale prestazione e può
essere chiamato a cooperare con il debitore per consentirgli di adempiere esattamente (art. 1174
e 1175 c.c.).
Il rapporto obbligatorio ha alcune caratteristiche: dualità delle situazioni soggettive, interesse del
creditore e patrimonialità della prestazione.
Per quanto riguarda la dualità, il rapporto obbligatorio è una relazione tra situazioni giuridiche
soggettive complesse che esistono anche senza l’attuale presenza o individuazione del soggetto
titolare. Sufficiente ed essenziale, ai fini dell’esistenza del rapporto, è la presenza di due
situazioni soggettive contrapposte o correlate, che si ascrivano a due centri di interessi distinti.
La dualità va, dunque, riferita alle situazioni soggettive ed ai corrispondenti patrimoni di
riferimento.
L’interesse del creditore è un principio fondamentale sul quale nasce e vive il rapporto
obbligatorio; esso è necessario e deve permanere per tutta la durata del rapporto fino
all’estinzione, altrimenti non si giustificherebbe l’imposizione al debitore di un vincolo.
58
Se l’interesse del creditore viene meno prima dell’adempimento, si realizza una vicenda estintiva
dell’obbligazione per conseguimento dello scopo e ciò determina la liberazione del debitore, in
quanto, l’esecuzione della prestazione non è più d’alcun interesse per il creditore (es: la pioggia
che soddisfa l’interesse del creditore all’irrigazione, anziché ricorrere a quell’artificiale).
Quest’interesse per essere vincolante deve essere meritevole di tutela (art. 1322, 1411 e 1379
c.c.).
Per quanto riguarda la patrimonialità della prestazione, non tutte le prestazioni che nascono
dalla cooperazione tra creditore e debitore sono patrimoniali; infatti, esistono molte prestazioni,
ad esempio chi ascolta un concerto o chi sottopone all’intervento chirurgico, che non sono
patrimoniali ma, artistiche o mediche, che arricchiscono la cultura musicale o migliorano
l’aspetto estetico.
Il creditore può richiedere l’adempimento della prestazione da parte di un soggetto determinato,
rifiutando l’adempimento da parte dei soggetti diversi dal debitore; questa richiesta è legittima,
quando l’adempimento del terzo possa essere pregiudizievole (art. 1180¹c.c.).
L’attuazione del rapporto obbligatorio, oltre all’interesse del creditore, può realizzare anche
interessi giuridicamente rilevanti del debitore, ossia di adempiere la prestazione per svincolarsi
da essa. In questa logica si collocano il potere del debitore di rifiutare la remissione del debito
che gli venga proposta dal creditore (art. 1236 c.c.) e il potere di manifestare la propria
opposizione all’adempimento del terzo, che ne legittima il rifiuto da parte del creditore (art.
1180² c.c.).
47. Segue. Natura patrimoniale della prestazione. La prestazione, per essere oggetto del
rapporto obbligatorio, deve avere sempre e necessariamente natura patrimoniale, in quanto, se
il debitore non adempie, deve corrispondere un’entità pecuniaria. A volte però l’inadempimento
della prestazione da parte del debitore non può essere risarcita con un’entità pecuniaria perché, è
difficile dimostrare da parte del creditore, l’esistenza di danni patrimoniali. Affinché ci sia
un’autonomia contrattuale è necessaria la patrimonialità del bene, ossia che il bene sia
suscettibile di valutazione economica. Il problema sorge quando le prestazioni riguardano beni
non economicamente valutabili come le prestazione di puro fare (prestazioni indicative o di
non fare). Esse possono essere patrimoniali: quando hanno un corrispettivo economico derivante
dal loro esercizio e, quando il loro inadempimento è valutabile da un risarcimento economico. Il
valore economico dei beni deve essere valutato oggettivamente e va determinato nell’ambito di
un contesto giuridico-sociale altrimenti si cade nell’errore di valutarli erroneamente.
48. Classificazioni e statuti. I rapporti obbligatori sono classificati in base alla tipologia delle
prestazioni, che ne costituiscono l’oggetto. Essi s’individuano in obbligazioni di fare, di dare e di
non fare.
Le obbligazioni di dare sono: le prestazioni di consegna di una cosa certa e determinata (art.
1476¹ c.c.) oppure generica (art. 1178 e 1277 c.c.) e le prestazioni nel far acquistare ad altri il
diritto di proprietà (art. 1476² e 1478 c.c.).
Nelle obbligazioni di fare troviamo comportamenti attivi del debitore, ossia le prestazioni che
producono beni materiali (es: edifici, ecc…) e immateriali (es: una lezione, un concerto, ecc…).
Le obbligazioni di non fare sono quelle prestazioni che si attuano con l’astensione.
Non è possibile, in ogni modo, classificare in modo rigido le prestazioni perché, nella maggior
parte dei casi, esse interagiscono tra loro.
Non esiste, quindi, uno statuto delle obbligazioni, ma una pluralità di statuti giustificati dalle
tipologie delle funzioni in concreto perseguite.
49. I vincoli “non giuridici”: in particolare le obbligazioni naturali. La distinzione tra
ordinamento giuridico e gli altri sistemi di regole è che: il primo è caratterizzato dalla
coercitività, ossia dall’esistenza di un insieme di sanzioni che ne assicura l’osservanza.
Per qualificare se una situazione è coercibile o no, esistono tre criteri di qualificazione:
59
1) criterio soggettivo; consiste nel verificare se le parti abbiano assoggettato il rapporto alle
regole del diritto, o se, al contrario, abbiano voluto mantenere il suddetto rapporto su un
piano di amicizia o di mero rilievo sociale. Un indice di giuridicità è offerto dalla previsione
di una clausola penale o di un corrispettivo. Un esempio è il pittore che promette un quadro
all’amico: se la promessa è stipulata in un contratto assoggettato alle regole del diritto, il
pittore chiederà un compenso monetario all’amico, oppure l’amico, in mancanza del quadro,
può avvalersi degli strumenti messi a disposizione dal sistema per sanzionare
l’inadempimento. Se il contratto tra il pittore e l’amico è basato invece sull’amicizia, il
pittore non riceverà nessun compenso oppure in mancanza del quadro, l’amico potrà solo
rimproverare il pittore.
2) criterio oggettivo; è il caso dell’ordinamento che valuta le finalità e gli interessi che si
perseguono: se sono futili, la loro rilevanza giuridica è rimessa alla scelta delle parti; se,
invece, il sistema attribuisce importanza alle finalità e agli interessi che alcune prestazioni
sono in grado di realizzare, la valutazione soggettiva delle parti diviene irrilevante ai fini
della qualificazione. La giuridicità, in queste ipotesi, è fuori discussione e prescinde del tutto
dall’onerosità o dalla gratuità del rapporto.
3) obbligazioni naturali; sono quei rapporti dove è esclusa la coercibilità, perché fondati su
doveri morali e sociali, che hanno giuridica rilevanza non solo nel momento della loro
attuazione ma in funzione del loro adempimento. L’adempimento dell’obbligazione naturale
va distinto dagli atti di liberalità; entrambi sono atti liberi, però, gli atti di liberalità sono sia
socialmente sia giuridicamente liberi, mentre l’adempimento delle obbligazioni naturali è
atto giuridicamente libero, ma moralmente e socialmente dovuto. Le obbligazioni naturali
sono caratterizzate dall’irripetibilità, che ha due condizioni fondamentali:
a) l’adempimento deve avvenire spontaneamente senza costrizione;
b) la prestazione deve essere eseguita da persona capace, perché la prestazione non è atto
dovuto, ma atto negoziale.mil requisito di capacità va identificato non nella capacità
legale di agire, ma nella capacità naturale del solvens.
Ogni obbligazione naturale è assoggettata alla medesima disciplina (art. 2034 c.c.:
irripetibilità di quanto prestato spontaneamente da un soggetto capace).
Un problema riguarda la forma scritta dell’adempimento dell’obbligazione naturale, quando
si ha il trasferimento della proprietà immobiliare (art. 1350 c.c.; pagamento traslativo).
Secondo alcuni l’onere della forma dovrebbe essere rispettato, secondo altri basta, affinché si
produca l’effetto traslativo, una sentenza di accertamento per la trascrizione (art.2645, 2657
c.c.) e per l’opponibilità ai terzi.
b. Le vicende delle obbligazioni
50. La costituzione: le fonti. Fonte di obbligazione è il fatto o l’atto giuridico che secondo
l’ordinamento è idoneo a far sorgere il vincolo. Fatti e atti non sono da intendere come semplici
accadimenti naturali o umani ma, invece, è decisiva la valutazione normativa offerta
dall’ordinamento.
Il codice vigente (art. 1173 c.c.), comunque, non è così rigido, cioè definisce fonte anche un fatto
che non sia idoneo alla nascita dell’obbligazione.
Normalmente fonte e titolo del vincolo coincidono. Tra le fonti troviamo i contratti, ossia tutti
gli atti negoziali compresi gli atti unilaterali atipici, e l’illecito, fonte non volontaria consistente
in ogni fatto che provoca un danno ingiusto ad altri con il conseguente pagamento di un
risarcimento.
51. Pagamento dell’indebito. Il pagamento dell’indebito non è altro che l’esecuzione di una
prestazione non dovuta che produce un’obbligazione di restituire. La ripetibilità dell’indebito
non ha finalità sanzionatorie, ma tende al riequilibrio dei patrimoni.
L’indebito oggettivo si ha quando chi non è debitore adempie nei confronti di chi non è
creditore. Esempio classico è quando un contratto sia stato adempiuto da entrambi le parti e in
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seguito dichiarato nullo, o annullato, o risolto, o dichiarato inefficace. L’indebito oggettivo,
quindi, ha come condizione il venir meno del titolo dell’obbligazione (per nullità,
annullamento, inefficacia, rescissione, ecc…).
Chi ha pagato il debito ha il diritto alla ripetizione, ossia a riottenere ciò che si è indebitamente
dato; l’indebito oggettivo provoca, oltre al diritto alla ripetizione, anche l’obbligazione di
restituire ciò che si è indebitamente ricevuto. Colui che ha adempiuto (solvens) può richiedere la
ripetizione (riottenere); se chi ha ricevuto era in mala fede, al solvens spettano anche i frutti
maturati dal giorno dall’adempimento.
L’indebito soggettivo ex latere accipientis (art. 2033 c.c. in coordinazione con l’art. 1189 c.c.)
si ha quando chi è debitore adempie ad un soggetto che o non è creditore, oppure non è
legittimato a ricevere; colui che ha ricevuto la prestazione (accipiens) non ha titolo per trattenere
quanto percepito ed, in questo caso, il solvens può richiedere la ripetizione.
L’indebito soggettivo ex latere solventis si ha quando chi non è debitore adempie nei confronti
di chi è creditore di un terzo. Esso avviene quando per errore si paga un debito altrui credendolo
proprio. La ripetizione, in questo caso, è disposta dall’art. 2036 c.c. Se il solvens ha adempiuto
credendosi per errore scusabile debitore, può richiedere la ripetizione; se il solvens ha adempiuto
credendosi per errore non scusabile debitore, non può richiedere la ripetizione, ma subentra nei
diritti del creditore (accipiens) verso il vero debitore (surrogazione legale).
La ripetizione consiste nella restituzione della cosa data indebitamente: denaro, beni prestazione
ecc…. Essa è un’azione a carattere personale ed è esperibile dal solvens (o da soggetto altrimenti
legittimato per legge: art. 1189² c.c.) soltanto nei confronti di colui il quale ha ricevuto la
prestazione non dovuta (accipiens). Il carattere personale non è escluso dalla possibilità di
esperire l’azione nei confronti dei successori mortis causa.
Nel caso che il bene da ripetere è una somma di denaro o un bene materiale, la ripetizione
provoca una prestazione di dare, ossia nella riconsegna del bene; nel caso in cui il bene è
deteriorato o è alienato, l’accipiens deve restituire l’equivalente in denaro (art. 2037 e 2038c.c.).
Nel caso in cui il bene è una prestazione di fare (es: il lavoro), il solvens può richiedere la
reintegrazione riconducibile ad una somma di denaro. La ripetibilità non è ammessa per le
prestazioni finalizzate ad uno scopo contrario al buon costume (art. 2035 c.c.).
Il solvens, che abbia efficacemente esercitato l’azione di ripetizione, è tenuto a rimborsare il
possessore delle spese e dei miglioramenti (art. 1149 ss. e 2040 c.c.).
L’art. 2039 c.c. dispone che: nel caso in cui l’accipiens fosse incapace al momento della
consegna della prestazione, indifferentemente in buona o mala fede, egli (l’accipiens) è tenuto
solo nei limiti dei vantaggi provocati dall’utilizzo del bene ricevuto.
L’azione di ripetizione si prescrive nell’ordinario termine decennale, che decorre, nell’ipotesi
d’inesistenza o di nullità del vincolo, dall’esecuzione dalla prestazione; in altre ipotesi, decorre
dall’accertamento della mancanza del vincolo stesso.
52. Segue. Ingiustificato arricchimento. L’art. 2041¹ c.c. dispone che chiunque, senza giusta
causa,si è arricchito a danno di altri è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, ad indennizzare
quest’ultimo della correlativa diminuzione patrimoniale. Quella di ingiustificato arricchimento è
un’azione generale ed un rimedio sussidiario e residuale, in quanto non è possibile esercitare
altra azione per ottenere l’indennizzo del pregiudizio subito (art. 2042 c.c.).
L’ingiustificato arricchimento consiste in uno spostamento patrimoniale senza alcuna
giustificazione per cui uno subisca il danno e l’altro si arricchisca. Colui che si è arricchito deve
indennizzare colui che ha avuto una diminuzione patrimoniale.
I presupposti sono:
a) fatto lecito naturale o umano;
b) ci deve essere un arricchimento con conseguente diminuzione del patrimonio;
c) mancanza di causa, l’assenza, cioè, di un idoneo titolo giuridico, legale o convenzionale,
che giustifichi l’arricchimento e la correlativa diminuzione patrimoniale.
L’ingiustificato arricchimento è fonte di obbligazione indennitaria, che tende a reintegrare la
diminuzione patrimoniale; l’indennizzo è calcolato nei limiti dell’arricchimento e secondo i
valori di mercato.
61
Un esempio di ingiustificato arricchimento è l’avulsione, ossia staccamento di terreno da un
fondo a monte verso un fondo a valle; il proprietario del fondo a valle si è arricchito per uno
staccamento naturale e quindi non giustificato. Al proprietario del fondo a monte spetta un
indennizzo dal proprietario dell’altro fondo.
Qualora l’arricchimento abbia ad oggetto una cosa determinata, colui che l’ha ricevuta è tenuta a
restituirla in natura se sussiste al tempo della domanda (art. 2041² c.c.).
L’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione
per farsi indennizzare del pregiudizio subito (art. 2042 c.c.).
53. Attuazione del rapporto: l’adempimento. L’adempimento è l’esatta esecuzione della
prestazione dovuta, indirizzato alla piena soddisfazione di tutti gli interessi sottesi al vincolo.
Esso è eseguito esattamente quando rispetta le modalità i tempi e i luoghi.
Nell’esecuzione dell’obbligo debitorio è necessario non solo l’adempimento del debitore, ma
anche una cooperazione del creditore.
A differenza dell’adempimento, il pagamento è l’adempimento di obbligazioni pecuniarie.
Nell’adempimento coesistono la realizzazione del diritto del creditore e l’attuazione dell’obbligo
del debitore; fondamentalmente, però, è oggetto di un obbligo del debitore.
L’adempimento non si configura con la piena soddisfazione di tutti gli interessi, ma con la mera
realizzazione dei soli interessi del creditore (art. 1174, 1175 e 1176 c.c.).
Al debitore è lasciato un certo margine di discrezionalità. Altro punto importante riguardante
l’adempimento è la diligenza, ossia un criterio di responsabilità ed un’esatta e corretta modalità
di esecuzione di un comportamento (diligenza del buon padre di famiglia). La diligenza e la
buona fede sono strettamente collegate.
L’adempimento è fattispecie estintiva del rapporto: esso produce la realizzazione del diritto di
credito e la liberazione dall’obbligo di prestazione. All’adempimento sono tenuti il debitore e i
suoi eredi a titolo universale.
L’adempimento è atto dovuto e non negoziale; in esso si qualificano la causa solvendi, ossia
l’esistenza di un valido vincolo obbligatorio e l’animus solvendi, ossia l’intenzione di
adempiere un debito proprio. Ai fini della causa solvendi, l’animus solvendi è irrilevante, perché
l’intenzione del solvens non è determinante per l’adempimento del debito.
Irrilevante è l’incapacità del solvens (art. 1191 c.c.); l’incapacità (sia di agire, sia naturale) non
compromette la validità dell’adempimento e non dà diritto alla ripetizione (art. 2033 ss c.c.).
54. Segue. Adempimento del terzo e soggetti legittimati a ricevere la prestazione. Mentre
obbligato è il solo debitore, qualsiasi terzo può adempiere anche contro la volontà del creditore;
tuttavia il creditore può opporsi all’adempimento di terzi in due casi:
1) se manifesta un interesse apprezzabile all’esecuzione personale del debitore (prestazione
intuitu personae);
2) se il debitore gli ha manifestato la sua opposizione (art. 1180 c.c.). La sola volontà del
debitore, manifestata mediante l’opposizione, non è sufficiente; essa non vincola il
creditore, il quale ha la facoltà (può) e non l’obbligo di rifiutare l’adempimento del terzo.
Tale rifiuto può essere arbitrario senza il rischio d’incorrere in mora credendi (art. 1206
ss.). Il rifiuto ingiustificato invece, impedisce al creditore di pretendere successivamente
la prestazione dal proprio debitore.
L’intervento del terzo è atto libero e non dovuto; infatti il terzo, anche non conoscendo il
creditore e il debitore, dimostra intenzione (animus solvendi) ad adempiere il debito. Se manca
l’animus, o il debito è inesistente, il terzo può chiedere la ripetizione dell’indebito (art. 20332036 c.c.).
Il terzo può anche agire nei confronti del debitore solo se il creditore, con atto surrogatorio,
surroghi il credito nei suoi diritti verso il debitore (art. 1201 c.c.): questo avviene quando il terzo
ha adempiuto al creditore; se non avviene la surrogazione il terzo può chiedere l’ingiustificato
arricchimento (art. 2041 c.c.).
62
L’art 1188 dispone che il creditore può anche legittimare un terzo ad espletare i suoi diritti
(rappresentante, indicatario); l’adempimento fatto nei confronti di un soggetto non legittimato,
libera il debitore solo se il creditore effettivo l’abbia ratificato o che l’oggetto della prestazione si
sia riversato nel patrimonio dell’effettivo creditore.
L’adempimento a creditore incapace è inefficace perché, l’unico legittimato a ricevere, è il tutore
o il curatore (rappresentante legale).
Ci sono dei casi in cui un soggetto per circostanze univoche appare legittimato a ricevere: è il
caso del creditore apparente; il debitore è liberato dall’obbligazione se prova la sua buona fede,
ossia d’ignorare il difetto di legittimazione. Il reale creditore può richiedere la ripetizione
dell’indebito nei confronti di chi ha ricevuto la prestazione.
55. Esattezza nell’adempimento. L’esattezza è lo sforzo richiesto al debitore al fine di
soddisfare l’interesse creditorio (art. 1175 e 1176 c.c.). Uno dei caratteri importanti dell’esattezza
è la buona fede: ad essa sono assorbiti gli obblighi di custodia e di protezione.
L’obbligo di custodia riguarda le obbligazioni di consegna di una cosa certa e determinata;
consiste nell’obbligo del debitore di custodire la cosa fino al momento della consegna al
creditore (art. 1177 c.c.). La custodia è assorbita nella consegna e soltanto l’impossibilità
sopravvenuta dell’oggetto (perimento) non imputabile al debitore produce l’effetto liberatorio.
L’obbligo di protezione consiste nel fatto che il debitore è obbligato, nell’esecuzione della
prestazione, alla salvaguardia dei beni e della vita del creditore; difatti, si considera inadempiente
il debitore che, pur avendo adempiuto la prestazione, ha leso altri interessi del creditore, estranei
e diversi dall’interesse di prestazione in senso stretto.
L’obbligazione generica è quando l’obbligazione ha ad oggetto cose determinate solo nel
genere e il debitore deve prestare cose qualità non inferiori alla media (art. 1178 c.c.).
Il debitore è tenuto all’esecuzione integrale della prestazione; il creditore, quindi, può rifiutare
un adempimento parziale anche quando la prestazione è divisibile (salvo disposizioni normative
o usi). Il consenso è arbitrario da parte del creditore; egli può anche acconsentire e libera così il
debitore dall’obbligo di prestazione per la parte adempiuta. Il creditore non può rifiutare
l’adempimento parziale, quando la prestazione è divenuta parzialmente impossibile per causa
non imputabile al debitore (art. 1258 e 1464 c.c.).
Il debitore può adempiere con cose altrui (art. 1192 c.c.), purché il creditore ne abbia avuto
conoscenza. Nel caso in cui il debitore chiede la restituzione della cosa altrui, per offrire una
nuova prestazione con cose di cui dispone, il creditore può pretendere, oltre alla nuova
prestazione, anche il risarcimento del danno.
Il creditore ha l’onere di rifiutare l’adempimento inesatto (art. 1218 c.c.) denunciando
l’inesattezza entro un termine di decadenza; se il debitore abbia occultato i vizi in mala fede non
è previsto alcun termine di decadenza.
56. Prestazione in luogo dell’adempimento. La prestazione in luogo dell’adempimento, detta
anche datio in solutum o dazione in pagamento, è una prestazione diversa da quella dovuta,
anche se di valore eguale o maggiore (art. 1197¹ c.c.); condizioni necessarie sono l’accordo e
l’assenso del creditore e del debitore. Senza l’assenso del creditore, la prestazione non produce
né l’effetto liberatorio né l’effetto estintivo; senza l’assenso del debitore, la prestazione non
sarebbe ripetibile (art. 2033 ss c.c.) perché senza causa.
La datio in solutum è diversa dalla novazione, perché quest’ultima sostituisce l’obbligazione
originaria con una nuova con oggetto o titolo diverso (art. 1230 c.c.).
Quando la prestazione diversa consiste nel trasferimento di proprietà o altro diritto, il contratto
solutorio è consensuale; vigono le discipline sulla vendita, ma in caso di vizi ed evizione
(quando, dopo la vendita, un terzo rivendica con successo la proprietà della cosa e il compratore
ne perde la proprietà), il creditore può esigere la prestazione originaria oltre al risarcimento del
danno (art. 1197² e ³ c.c.).
La dazione in adempimento è un contratto oneroso con funzione solutoria direttamente estintivo
dell’obbligazione originaria. Tuttavia anche un terzo può concludere con il creditore una dazione
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in adempimento, ma il rapporto non si estingue né il debitore si libera; il debito esiste, perché il
terzo si surroga nei diritti del creditore (art. 1201 c.c.).
Il debitore, in luogo dell’adempimento, può anche cedere un suo credito (art. 1198c.c.):
l’obbligazione si estingue con l’effettiva riscossione (cessio pro solvendo); tuttavia si estingue
con mero consenso (cessio pro soluto).
Pertanto, la datio in solutum non è un contratto necessariamente reale. Valido ed efficace è anche
un accordo che semplicemente autorizzi il debitore a compiere una diversa prestazione in luogo
di quell’originaria. L’effetto prodotto dalla datio è la modificazione della disciplina del rapporto
obbligatorio: la costituzione di una facoltà alternativa in favore del debitore. In ciò mantiene i
tratti distintivi dalla novazione.
57. Luogo (art. 1182 c.c.) e tempo (art. 1183-1186 c.c.) dell’adempimento. La prestazione deve
essere eseguita nel luogo convenuto dalle parti. Tale luogo è definito secondo gli usi negozialiindividuali, che sono un valido criterio di determinazione del luogo della prestazione.
In secondo piano, si può ricorrere agli usi normativi (differenti da quelli negoziali-individuali),
alla natura della prestazione (es: operazione nella sala chirurgica) o ad altre circostanze.
Convenzione, usi normativi, natura della prestazione o altre circostanze sono criteri di
determinazione ordinati secondo un grado gerarchico. Se tuttavia il ricorso ad essi non consente
di determinare il luogo dell’adempimento, soccorre una serie di disposizioni suppletive:
a) la consegna di una cosa certa e determinata deve essere eseguita nel luogo dove la cosa si
trovava al tempo nel qual è sorta l’obbligazione;
b) le obbligazioni pecuniarie devono essere adempiute al domicilio che il creditore ha al
tempo della scadenza; se tale domicilio è diverso da quello che il creditore aveva quando
è sorta l’obbligazione e ciò rende più gravoso l’adempimento, il debitore, previa
dichiarazione al debitore, ha diritto di eseguire il pagamento al proprio domicilio;
c) negli altri casi l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al
tempo della scadenza.
Il tempo dell’adempimento è esenziale alla configurazione dell’obbligo giuridico di prestazione:
un vincolo senza scadenza cronologica è negazione della stessa doverosità della condotta.
Il termine di adempimento configura la scadenza cronologica dell’obbligazione, rinviata ad un
momento successivo alla nascita del vincolo. Sotto questo profilo, un termine per l’adempimento
è sempre essenziale. I criteri indicati per la determinazione del tempo sono gli stessi di quelli
indicati per la determinazione del luogo dell’adempimento.
Il decorso del termine indica il momento a partire dal quale (termine iniziale) o entro il quale
(termine finale) il debitore deve o può adempiere. Tale è il termine di adempimento, il quale si
atteggia a semplice modalità esecutiva di un vincolo obbligatorio, già validamente sorto.
Il termine di efficacia, invece, attiene al negozio giuridico e indica il momento nel quale (o fino
al quale) si produce l’effetto giuridico.
Se non è fissato alcun termine, il creditore può esigere immediatamente la prestazione. La
determinazione del tempo dell’esecuzione è nella libera disponibilità delle parti.
Importanti sono le nozioni di esigibilità ed eseguibilità.
Se il termine è stabilito a favore del debitore, il creditore non può esigere la prestazione prima
della scadenza, ma il debitore può eseguirla immediatamente; e se il creditore ne rifiuta la
ricezione senza giusto motivo incorre in mora credendi. Se il termine è stabilito a favore del
debitore, il debitore non può eseguire prima della scadenza, ma il creditore può rinunciare al
benefico ed eseguire quanto gli spetta. Quando il termine è stabilito a favore di entrambi, si ha
inesigibilità da parte del creditore ed ineseguibilità da parte del debitore.
Credito inesigibile e debito ineseguibile sono pur sempre situazioni giuridiche esistenti ed attuali.
Il credito inesigibile è pur sempre un credito esistente, in quanto il creditore è legittimato a
trattenere quanto eventualmente ricevuto dal debitore prima della scadenza. Il debitore, che ha
adempiuto anticipatamente, non può ripetere quanto prestato, anche se ignorava l’esistenza del
termine.
Quando il temine manca o è rimesso alla volontà del debitore o del creditore, il termine è fissato
dal giudice.
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Pur in presenza di termine a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la
prestazione, qualora il debitore sia divenuto insolvente o abbia diminuito per fatto proprio le
garanzie che aveva dato o non abbia offerto le garanzie che aveva promesso (decadenza dal
beneficio del termine).
Un termine di adempimento è sempre necessario: esso è definito come requisito causale del
vincolo o come presupposto per l’inadempimento: come requisito causale, in quanto la mancanza
del termine di adempimento produce nullità; come presupposto per l’inadempimento, il ritardo di
esecuzione della prestazione equivale ad inadempimento e comporta risoluzione dei contratti a
prestazioni corrispettive (art. 1457 c.c.).
58. Imputazione dell’adempimento e diritto alla quietanza. Una facoltà molto importante del
debitore consiste nell’imputazione dell’adempimento, cioè, quando il debitore ha più debiti della
medesima specie verso uno stesso creditore, egli può scegliere, senza opposizione del creditore,
quale debito adempiere per primo (art. 1193 c.c.). L’unico limite è che il debitore, solo con il
consenso del creditore, può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle
spese (art. 1194 c.c.).
Qualora il debitore non esercita la facoltà di imputazione, il creditore può esercitarla all’atto del
rilascio della quietanza, purché sia accettata dal debitore (art. 1195 c.c.). L’imputazione per
iniziativa del creditore si produce soltanto se la dichiarazione sia contenuta in una quietanza
accettata dal debitore, e non vi sia stato dolo o sorpresa da parte del creditore. Il debitore,
comunque, può sempre rifiutare la quietanza e richiederne altra con una diversa imputazione.
La quietanza è la dichiarazione con la quale il creditore attesta l’avvenuto pagamento. Per il
rilascio della quietanza non è necessaria la richiesta del debitore, perché ne vanta un vero e
proprio diritto. Egli può richiederla anche prima del pagamento, subordinando quest’ultimo al
rilascio; l’eventuale rifiuto del creditore, senza giusto motivo, fa scattare la mora credendi, che
comporta una più efficace tutela dell’interesse del debitore.
La richiesta di quietanza è, quindi, un esercizio di un diritto del debitore; è oggetto di un obbligo
strumentale alla soddisfazione di un interesse di protezione del debitore.
59. Mora del creditore e liberazione coattiva del debitore. La mora è il ritardo qualificato, e si
verifica quando per fatto del creditore o del debitore c’è un impedimento temporaneo
all’attuazione del rapporto.
La mora presuppone che l’esecuzione della prestazione sia ancora possibile: l’impossibilità
sopravvenuta della prestazione esclude la mora nonché le specifiche conseguenze che
l’ordinamento vi riconnette. La mora va distinta per il debitore e per il creditore.
Il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo rifiuta la prestazione offertagli in forma
solenne o non compie l’attività necessaria affinché il debitore possa adempiere (art. 1206 c.c.).
Per la costituzione in mora è necessario che il debitore faccia offerta formale o solenne della
prestazione mediante un pubblico ufficiale a ciò autorizzato; tale offerta formale o solenne deve
avere questi requisiti:
ƒ deve essere congruente con l’offerta dovuta;
ƒ deve rispettare il tempo, il luogo e la legittimazione attiva e passiva.
Il relativo giudizio è svolto dall’autorità giudiziaria.
Il creditore può rifiutare legittimamente l’offerta se manca uno dei requisiti di validità; non si
costituisce la mora credendi quando la prestazione è divenuta impossibile e il debitore non può
fare una valida offerta della prestazione.
Motivo legittimo è sinonimo di non colpevolezza. Il motivo legittimo che esclude la mora è la
giustificazione apprezzabile secondo un giudizio di buona fede. Il creditore che rifiuti l’offerta in
presenza di un’inesattezza tollerabile compie un atto emulativo non conforme ai principi di
buona fede e correttezza (art. 1175 c.c.). È invece legittimo il rifiuto dell’offerta effettuata con
modalità di tempo o di luogo tali da rendere particolarmente gravosa, se non addirittura
impossibile, la ricezione della prestazione o quando sussista il rischio che il pagamento possa poi
essere revocato.
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Se la prestazione ha per oggetto denaro, titoli di credito, o cose mobili da consegnare al
domicilio del creditore, l’offerta deve essere reale, cioè nella consegna materiale della res debita
al pubblico ufficiale che dovrà esibirla al creditore. Quando la prestazione ha per oggetto
immobili o cose mobili da consegnare in luogo diverso dal domicilio del creditore, l’offerta
consiste nell’intimazione a ricevere, mediante atto notificato. Anche per le prestazioni di fare è
richiesta l’offerta per intimazione.
L’art. 1207 c.c. dispone degli effetti della mora del creditore: quando il creditore è in mora, a suo
è carico l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, impossibilità sopravvenuta che si è
verificata per cause non imputabili al debitore. Al creditore non sono più dovuti gli interessi e i
frutti della cosa non percepiti dal debitore. Il creditore è pure tenuto a risarcire i danni derivati
dalla sua mora e a sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa dovuta.
Gli effetti della mora si verificano nel giorno dell’offerta, se questa è successivamente dichiarata
valida con sentenza passata in giudicato o se accettata dal creditore.
Al continuo rifiuto della prestazione da parte del creditore, il debitore può liberarsi dal debito
con il deposito della somma dovuta in un banca o con la consegna dei beni mobili nel luogo
indicato dal giudice (liberazione coattiva del debitore). Gli effetti dell’offerta e del deposito
sono esecutivi nel momento in cui sarà passata in giudicato la sentenza che avrà accertato che il
rifiuto del creditore era effettivamente ingiustificato; non si produrranno, ovviamente, se il
giudice avrà accertato che il rifiuto del creditore era stato legittimo, perché la prestazione offerta
dal debitore non era un adempimento esatto.
60. Modi di estinzione diversi dall’adempimento. L’adempimento non è l’unico modo di
estinzione dell’obbligazione, ma n’esistono degli altri.
Queste fattispecie estintive si differenziano in satisfattorie e non satisfattorie; una differenza sta
nel fatto che le fattispecie estintive non satisfattorie sono assoggettabili all’azione revocatoria
ordinaria (art. 2901 c.c.), mentre quelle satisfattorie non sono revocabili, perché entrambe le parti
ricevono un beneficio consistente nella liberazione dal proprio debito reciproco.
Satisfattorie sono: la confusione, la novazione e la compensazione
Non satisfattorie sono: la remissione del debito, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione.
61. Segue. Compensazione. La compensazione (art. 1241-1252 c.c.) è fattispecie estintiva che
richiede come presupposto necessario, ma non sufficiente, l’esistenza di crediti e debiti reciproci,
facenti capo a due autonomi o separati centri di interessi, giuridicamente rilevanti.
Due presupposti necessari della compensazione sono la dualità e la reciprocità; la dualità, intesa
come dualità dei patrimoni e non dei soggetti; la reciprocità, intesa come esistenza di due
situazioni o di credito o di debito.
Affinché possano operare la compensazione legale e quella giudiziale, requisito importante è che
le obbligazioni da estinguere, e quindi da compensare, non devono avere una relazione
sinallagmatici, ossia che non abbiano l’una la propria regione giustificativa nell’altra e viceversa.
Non è invece necessario che le fonti costitutive dei rapporti obbligatori da estinguere siano
omogenee (cioè che le obbligazioni reciproche scaturiscano entrambe da contratto, o da fatto
illecito, o dalla legge), né si richiede l’identità dei titoli giustificativi.
La funzione della compensazione non è solo di realizzare l’economia degli atti, evitando che si
eseguano due adempimenti, quando mediante la compensazione si raggiunge lo stesso risultato
pratico; essa ha anche una funzione di autotutela, neutralizzando gli effetti negativi che
deriverebbero dall’eventuale adempimento della controparte.
Il codice disciplina tre tipi di compensazione: legale, giudiziale e volontaria.
La compensazione legale si verifica soltanto se le obbligazioni reciproche abbiano i requisiti
della liquidità e dell’esigibilità, e se i beni oggetto delle corrispondenti prestazioni siano
caratterizzati dall’omogeneità e dalla fungibilità. Un credito è liquido, quando è esistente e
determinato esattamente nel suo ammontare; è esigibile quando il creditore può pretendere che il
debitore esegua la prestazione dovuta. Il credito esigibile è di regola anche azionabile (sia in via
preventiva con misure conservative, sia in via repressiva, con la condanna del debitore
inadempiente); tuttavia l’azionabilità non presuppone necessariamente l’esigibilità.
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L’omogeneità indica l’appartenenza dei beni allo stesso genus (genere); la fungibilità esprime
un’equivalenza qualitativa fra due o più beni, oggetto di prestazioni reciproche.
Affinché la compensazione possa essere richiesta, non è necessario che i crediti reciproci si
equivalgono quantitativamente: là dove tal eguaglianza non vi siano, i debiti o i crediti si
estinguono per le quantità corrispondenti.
La compensazione legale opera automaticamente, ossia i due debiti o crediti si estinguono dal
giorno della loro coesistenza; essa non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, in quanto, è
necessario che la parte interessata manifesti la volontà di avvalersene (eccezione di
compensazione). Esiste una teoria minoritaria, la quale afferma che la coesistenza non ha un
ruolo essenziale, il quale è ricoperto dall’eccezione.
La compensazione giudiziale, decisa dal giudice, si attua quando vi è la mancanza di liquidità in
uno dei due crediti reciproci; questa mancanza è, però, accompagnata dall’accertamento della sua
pronta e facile liquidazione decisa dal giudice.
La pronuncia non assume un ruolo meramente dichiarativo come nella compensazione legale e
volontaria; in quella giudiziale, essa è elemento essenziale e finale del procedimento e produce
l’effetto estintivo. La compensazione giudiziale è fattispecie autonoma, perché può operare o
sulla base di un regolamento compensativo legale, o su uno volontario.
La compensazione volontaria, stabilita per accordo delle parti, opera alla compensazione dei
debiti o crediti reciproci quando mancano i presupposti per una compensazione legale o
giudiziale. L’autonomia privata può anche prevedere un regolamento compensativo preventivo,
nel quale sia previsto che l’effetto estintivo si produca automaticamente, cioè senza la necessità
dell’eccezione, al verificarsi delle condizioni previste.
La compensazione volontaria, a differenza di quella giudiziale, non richiede il requisito
dell’esigibilità.
62. Segue. Confusione. L’obbligazione si può estinguere anche per confusione, quando nella
stessa persona confluiscono la situazione debitoria e creditoria (art. 1253 c.c.).
Presupposto fondamentale ai fini dell’estinzione dell’obbligazione per confusione, è la mancanza
non della dualità di soggetti, ma di quella dei patrimoni o dei centri d’interesse.
La confusione non ha sempre un effetto estintivo; è il caso del mantenimento della fideiussione
anche quando vi sia stata la riunione in una stessa persona della qualità di fideiussore e di
debitore principale (art. 1255 c.c.). La confusione opera anche rispetto all’obbligazione naturale,
qualora si riconosca possibile la successione nel credito o nel debito naturale.
63. Segue. Novazione (art. 1230 c.c.). La novazione è estinzione della vecchia obbligazione per
volontà delle parti mediante la nascita di una nuova: essa può essere oggettiva, quando si
modifica l’oggetto o il titolo e produce effetto estintivo della vecchia obbligazione; soggettiva,
quando produce una vicenda modificativa della situazione debitoria. Tuttavia la novazione
soggettiva è da intendersi non come una mera estinzione del rapporto, ma come modificazione
della disciplina.
La novazione oggettiva è l’estinzione di un rapporto obbligatorio, per costituirne uno nuovo
diverso per oggetto o per titolo.
Affinché si realizzi tale funzione è necessario il concorso di due elementi: uno soggettivo e uno
oggettivo.
L’elemento soggettivo è l’animus novandi, ossia la volontà delle parti di estinguere il rapporto
precedente. Il legislatore richiede la presenza di questa volontà; essa, però, non è da intendersi
come causa efficiente dell’effetto estintivo, ma come consapevolezza che l’effetto estintivocostitutivo produce anche effetti negativi come, per esempio, il venir meno delle garanzie
presenti nella vecchia obbligazione e non estese alla nuova.
Il profilo oggettivo determina come oggetto, ai fini della novazione, la prestazione, il bene o
l’interesse dedotti in obbligazione. Una mera modificazione quantitativa della prestazione o
dell’oggetto o una modificazione delle modalità accessorie, non producono novazione. Soltanto
una modificazione della prestazione o del suo oggetto comporta novazione.
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La novazione oggettiva, a differenza della prestazione in luogo dell’adempimento (datio in
solutum), non solo crea un nuovo rapporto obbligatorio, ma libera il debitore da quello
precedente. Nella datio in solutum, all’inadempimento della prestazione sostitutiva, sopravvive
sempre l’obbligo di eseguire quella originariamente pattuita, perché l’obbligo di eseguire
l’originaria prestazione viene meno soltanto con l’adempimento della nuova, e cioè con
l’estinzione dell’obbligazione; nella novazione, invece, l’inadempimento della nuova
obbligazione non determina mai la reviviscenza di quell’originaria.
Anche il cambiamento del titolo comporta novazione oggettiva. Tuttavia, ai fini della novazione
ciò che deve cambiare è il titolo e non la fonte; esempio è un’obbligazione pecuniaria modificata
in risarcimento del danno (titolo) e come fonte il fatto illecito.
La nuova obbligazione, sorta in seguito alla novazione, ha la sua ragione giustificativa
nell’estinzione in quell’originaria; per ciò la novazione è inefficace (rectius nulla) qualora
l’obbligazione originaria si riveli inesistente. Per concetto d’inesistenza, il legislatore intendeva
la nullità o annullabilità. Ovviamente nel caso dell’annullabilità, la sentenza costitutiva
dell’annullamento deve essere intervenuta prima della conclusione del negozio novativo, in
quanto, la novazione è, comunque, valida qualora il debitore abbia assunto la nuova
obbligazione, conoscendo il vizio del titolo originario.
La novazione non può essere considerata invalida, qualora il titolo originario sia sottoposto ad
azione revocatoria che determina soltanto un’inefficacia relativa o un’inopponibilità
dell’obbligazione originaria; non determina l’annullamento dell’atto pregiudizievole.
64. Segue. Remissione del debito e rinunzia al credito. La remissione del debito è la
dichiarazione di estinzione dell’obbligazione da parte del creditore (art. 1236 c.c.); essa non va,
però, confusa con la rinunzia al credito. Vi sono, difatti, delle distinzioni: la remissione estingue
direttamente l’intero rapporto obbligatorio, la rinunzia è una dismissione della situazione che può
collegarsi anche con l’estinzione; poi, la rinunzia incide direttamente soltanto sulla sfera del
rinunziante ed ha natura di negozio unilaterale che non è assolutamente subordinato, nel suo
perfezionamento e nella sua efficacia, ad una manifestazione di volontà, favorevole o contraria,
del debitore; la remissione, invece, incide sull’intero rapporto, perché può richiedere anche una
partecipazione del debitore che può attenere o al momento perfezionativo della fattispecie (se si
accolga la tesi della natura contrattuale della remissione) o a quello dell’efficacia (se si acceda
alla ricostruzione della remissione quale negozio unilaterale recettizio).
La ratio dell’istituto della remissione ha una duplice finalità: consentire al creditore di disporre
liberamente del suo diritto e tutelare l’interesse, patrimoniale o morale, del debitore a non subire
una liberazione non desiderata.
Per quanto riguarda la struttura, vi sono due dottrine contrastanti: una qualifica la remissione
come atto negoziale contrattuale, l’altra come atto unilaterale recettizio rifiutabile. Il problema è
definire se fondamentale o non la partecipazione del debitore al perfezionamento del fatto
estintivo. La dottrina prevalente è quella che qualifica la remissione come atto unilaterale
recettizio, in quanto, è fondato sulla natura favorevole dei suoi effetti (incrementi del patrimonio
del debitore) tanto da rendere superflua la partecipazione del debitore ala formazione della
fattispecie estintiva. La remissione si realizza mediante la dichiarazione di volontà del solo
creditore e produce l’effetto estintivo nel momento della comunicazione al debitore.
Quest’ultimo ha, tuttavia, il potere di porre nel nulla tale effetto mediante un distinto negozio
che, operando come condizione risolutiva della remissione, ripristina l’originale rapporto.
Per quanto riguarda la natura, si fonda sull’esigenza di rispettare l’assetto degli interessi sotteso
ai singoli concreti rapporti. In quest’ottica, la remissione assume concezione di rapporto
obbligatorio, visto più come cooperazione che come contrapposizione.
La remissione è necessariamente negozio a titolo gratuito, che si può realizzare anche mediante
comportamenti concludenti; un’ipotesi di remissione per comportamento concludente è la
restituzione volontaria del titolo originario del credito.
L’estinzione dell’obbligazione per remissione implica il venir meno delle garanzie personali e
reali, mentre la rinunzia alle garanzie non fa presumere la remissione del debito.
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65. Segue. Impossibilità sopravvenuta. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione può
essere imputabile o meno al debitore: se è imputabile al debitore, egli ne risponde
personalmente; se non è imputabile, determina l’estinzione del rapporto e la liberazione del
debitore (art. 1256 c.c.). Affinché l’impossibilità sopravvenuta sia estintiva deve essere
oggettiva, cioè non legata alla situazione del debitore, ed assoluta, cioè tale da non consentire
l’esatto adempimento a nessuno.
Nelle prestazioni che hanno ad oggetto la consegna di cose generiche e nelle prestazioni
pecuniarie non si può verificare una liberazione per impossibilità sopravvenuta perché, essendo
le cose appartenenti ad un genus e il denaro sempre reperibile, la prestazione è sempre possibile.
L’estinzione del rapporto obbligatorio, quindi, si verifica solo quando sopraggiunge
un’impossibilità totale o definitiva.
Se l’impossibilità è parziale o temporanea, si applica una diversa disciplina.
Per quanto riguarda l’impossibilità parziale, il creditore può rifiutare l’adempimento parziale,
ma nel caso di un’impossibilità parziale sopravvenuta e di un bene divisibile, il debitore si libera,
anche contro la volontà del creditore, eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta
possibile (art. 1258 c.c.).
L’impossibilità temporanea non estingue il rapporto obbligatorio, perché il debitore è tenuto a
adempiere non appena viene meno l’impossibilità. Il debitore non subisce le conseguenze
negative della mora debendi, in quanto il ritardo non gli è imputabile; se l’impossibilità
temporanea sopravvenuta si protrae entro un termine molto elevato, l’obbligazione si estingue in
quanto il creditore non ha più interessi.
66. Segue. Subingresso legale del creditore. Se la prestazione che ha per oggetto una cosa
determinata è divenuta impossibile, del tutto o in parte, il creditore subentra nei diritti spettanti al
debitore, in dipendenza del fatto che sia stato il debitore a causare l’impossibilità; il debitore non
ha più le garanzie dell’obbligazione estinta e pertanto egli ha l’obbligo di prestare anche ciò che
si è conseguito a titolo di risarcimento (art. 1259 c.c.).
Per cosa determinata, la dottrina più moderna non limita la norma alle sole obbligazioni di dare,
ma la estende anche alle obbligazioni di fare o di non fare e a quelle aventi ad oggetto il
godimento di un bene. Il subingresso del creditore nei diritti del debitore non è da considerarsi
come il classico schema surrogatorio.
67. Modificazioni soggettive dal lato creditorio: cessione del credito (art. 1260 – 1267 c.c.). Le
modificazioni soggettive interessano il mutamento della titolarità delle situazioni dei rapporti
obbligatori. Il credito può essere, quindi, ceduto a titolo oneroso o gratuito. Il creditore originario
(cedente) trasferisce ad un altro soggetto (cessionario) il diritto di pretendere la prestazione del
debitore (ceduto). Qualora il credito sia assistito da privilegi, garanzie personali o reali o da altri
accessori, il cessionario subentra anche in questi; il credito, tuttavia, può essere ceduto con
l’esclusione della garanzia. Il debitore non può opporsi (incedibilità legale), ma la legge prevede
che alcuni crediti non possono essere ceduti; essi sono quelli legati al titolo o all’oggetto, i crediti
che vantano creditori con particolare qualità, o crediti con natura speciale (es: crediti alimentari,
stipendi del pubblico impiego). La modificazione o non della titolarità del credito può essere
anche decisa da un accordo delle parti (patto di incedibilità convenzionale).
Nel conflitto tra l’interesse del debitore a non mutare il creditore, emerso nel patto di incedibilità,
e quello del cessionario che ha acquistato il credito, facendo affidamento sul principio generale
della libera trasferibilità e reputando il credito non vincolato, la legge tende a tutelare il
cessionario. Nel caso in cui è avvenuto il trasferimento del credito e il debitore intende
efficacemente tutelarsi rispetto ad un successivo trasferimento, il debitore deve rendere
conoscibile il patto di incedibilità ai terzi, annotandolo, per esempio, sui documenti probatori del
credito che devono necessariamente consegnati al cessionario.
Il trasferimento trova la sua giustificazione nella negoziazione dei diritti e nella funzione da
svolgere.
Un credito può essere ceduto per estinguere una prestazione che il cedente ha verso il
cessionario; infatti, se il cessionario è creditore verso il cedente, quest’ultimo cede il suo credito
69
che vanta nei confronti del ceduto (debitore) (cessione il luogo dell’adempimento). L’obbligo
del cedente nei confronti del cessionario non si estingue con l’attribuzione della titolarità, ma con
l’adempimento del debitore nei confronti del cessionario.
Il credito può essere ceduto anche a scopo di garanzia appunto per garantire l’adempimento di
un’obbligazione del cedente verso il cessionario; quando il cedente adempie, il cessionario deve
restituire il credito datogli in garanzia (cessione a scopo di garanzia).
La cessione può avere due strutture: una struttura trilaterale, che richiede il consenso del
debitore ad autorizzare o ad accettare la cessione; un’altra è la struttura unilaterale, dove basta
la volontà o del cedente o del cessionario.
Una volta stabilita la funzione del negozio traslativo, si è vincolati alla disciplina del contratto e
alla prescrizione sulla forma del negozio a cui si fa riferimento.
Il debitore, di regola, non può opporsi alla cessione; tuttavia ha sicuramente un interesse
giuridicamente rilevante a conoscere la persona destinataria del suo adempimento. Infatti,
l’esecuzione della prestazione è liberatoria solo se è ricevuta dall’effettivo creditore. Il debitore
ha l’obbligo di adempiere nei confronti del cessionario solo se è a conoscenza del mutamento
della titolarità. Quest’informazione è fornita con la notifica dal cedente o dal cessionario con
qualsiasi forma: atto giudiziale, invio postale, ecc…; il cessionario ha l’onere di fornire una
prova sufficiente sull’intervenuto atto di trasferimento. Con l’accettazione, il debitore dichiara
implicitamente al cessionario di conoscere l’esistenza della cessione.
Il debitore ha il diritto di promuovere un’azione di accertamento, con la quale egli verifica la
certezza della titolarità del credito; con quest’azione, il debitore si tutela dal rischio di adempiere
a un falso creditore e quindi di adempiere nuovamente, affrontando, poi, la difficile fase del
recupero nei confronti del non legittimato, che indebitamente ha ricevuto l’adempimento.
La cessione del credito è efficace nei confronti del debitore ceduto, solo dal momento in cui è
stata notificata a questo, o è stata da questo accettata. Fino a quando il debitore non ha ricevuto la
notifica, egli si libera adempiendo nei confronti del cedente, salvo che il cessionario non provi
che il debitore era comunque a conoscenza della cessione anche non avendo ricevuto la notifica.
Se, invece, dopo aver ricevuto la notifica, il debitore adempie nei confronti del cedente, egli non
si libera dall’obbligo perché può essere costretto dal cessionario a adempiere una seconda volta.
Un problema complicato sorge quando il debitore ha la certezza della cessione, ma, dopo
l’adempimento, tale cessione risulta invalida. Il debitore ha l’onere di verificare la validità ed
efficacia della cessione e quindi, nel caso sia stato poco diligente, egli deve di nuovo adempiere.
Nel caso in cui il debitore ha adempiuto in buona fede ad un soggetto che, sulla base di
circostanze univoche, gli è apparso come creditore, viene applicata la disciplina
dell’adempimento al creditore apparente e il debitore è liberato.
Al debitore, tuttavia, è riconosciuta una tutela della situazione preesistente, ossia il cessionario
non può peggiorare la situazione debitoria.
La cessione trasmette il credito a titolo derivativo; il cessionario, quindi, non può acquistare
diritti maggiori di quelli spettanti al cedente.
[(Il debitore, affinché avvenga la compensazione con il cedente, può opporsi alla cessione solo
per i crediti esistenti prima della notifica; in caso contrario, non può opporre l’eccezione al
cessionario.)]
Nei conflitti tra più cessionari, ne esce vincitore colui che ha compiuto l’atto anteriormente, ossia
abbia utilizzato prima gli strumenti di pubblicità (notifica o accettazione); ad esempio, tra il
cessionario che acquista il 1 maggio e notifica il 6 e il cessionario che compra il 2 e notifica il 3,
prevarrà il secondo. Il cedente che ha effettuato il duplice trasferimento è tenuto al risarcimento
dei danni; vi è tenuto anche il secondo cessionario se, quando ha acquistato il credito, era a
conoscenza della precedente cessione e in mala fede ha notificato tempestivamente.
Se il credito è ceduto a titolo oneroso, il cedente deve garantire l’esistenza del credito al tempo
della cessione e la mancanza assoluta di vizi che possono compromettere il credito; se il credito è
ceduto a titolo gratuito, si applica la normativa stabilita per la garanzia per l’evizione del donante
e il cedente deve garantire se esistono particolari oneri per il cessionario.
70
In virtù della garanzia, il cessionario deve ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti: rimborso
delle spese sostenute, restituzione della prestazione eseguita al cedente, e i danni derivanti dalla
perdita e dal mancato guadagno.
Di norma, il cedente non garantisce la solvibilità del debitore ceduto, perché il rischio
dell’inadempimento del debitore è ad esclusivo carico del cessionario. Tuttavia, il cessionario
può ottenere che il cedente assuma la garanzia della solvenza (clausola salvo buon fine).
La garanzia non scatta al momento dell’inadempimento, ma quando il cessionario non riesce ad
escutere il patrimonio del debitore in modo equivalente al credito vantato. Il cedente deve
corrispondere al cessionario non quanto sarebbe stato adempiuto dal debitore ceduto, ma quanto
ha ricevuto come corrispettivo, oltre agli interessi, alle spese e ai danni. Ogni clausola diretta alla
responsabilità del cedente. Il cedente non risponde se la mancata soddisfazione del cessionario
dipende da una sua negligenza nell’iniziare o nel proseguire le istanze contro il debitore ceduto.
Quando non c’è la garanzia di solvenza, si parla di cessione del credito pro-soluta; quando,
invece, vi è la garanzia di solvenza, si parla di cessione del credito pro-solvendo.
68. Segue. Surrogazione per pagamento. La surrogazione per pagamento non è altro che una
cessione dei diritti di credito; essa può essere per volontà del creditore, per volontà del debitore,
per legge.
È per volontà del creditore (art. 1201 c.c.), quando il creditore è adempiuto da un terzo e
surroga il terzo, ossia lo sostituisce, nei suoi diritti di credito verso il debitore; questo tipo di
surrogazione deve essere fatto in modo espresso e contemporaneamente all’adempimento.
È per volontà del debitore (art. 1202 c.c.), quando il debitore, ad esempio, presa a mutuo una
somma di denaro o un bene fungibile per adempiere il creditore, surroga il mutuante nei diritti
del creditore soddisfatto.
È per legge (art. 1203 c.c.), quando il terzo che adempie subentra nei diritti del creditore
indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo o del debitore. Questo tipo di surrogazione è
utilizzato per far sopravvivere il rapporto obbligatorio anche successivamente ad un fatto
estintivo dello stesso.
La surrogazione per pagamento si concreta in una successione (a titolo particolare) nel credito:
colui che si surroga può utilizzare le azioni spettanti al creditore cui si sostituisce e può godere
anche delle eventuali garanzie delle quali è dotato il credito nel quale subentra, secondo i principi
dell’acquisto derivativo.
69. Modificazioni soggettive dal lato debitorio: delegazione. Le modificazioni del soggetto
passivo del rapporto prevedono sempre la partecipazione contrattuale del creditore (delegazione
ed espromissione); per quanto riguarda l’accollo, invece, non è prevista la partecipazione del
creditore.
La delegazione di debito si ha quando il debitore è nello stesso momento creditore verso un
altro debitore; il debitore (delegante) delega il terzo soggetto (delegato) a adempiere al creditore
originario (delegatario).
Tra il delegante e il delegato vi è un rapporto di provvista, tra il delegatario e il delegante vi è
un rapporto di valuta.
La delegazione può essere titolata o pura. È titolata, quando il delegato, obbligandosi verso il
delegatario menziona il rapporto di provvista che lo lega al delegante (es: su invito del delegante,
il delegato si obbliga a pagare al delegatario la somma che il delegato deve al delegante), oppure
menziona il rapporto di valuta fra delegante e delegatario (es: su invito del delegante, il delegato
si obbliga a pagare al delegatario la somma che il delegante deve al delegatario), oppure
menziona entrambi i rapporti.
È pura quando, invece, nessuno dei due rapporti, o di valuta o di provvista, è menzionato.
Se la delegazione è titolata, il delegato può rifiutarsi di pagare opponendo al delegatario le
eccezioni basate o sul rapporto di provvista o su quello di valuta (es: dichiarazione di nullità del
rapporto). Se la delegazione è pura, le eccezioni basate sulla mancanza del rapporto di provvista
o di valuta non possono essere opposte dal delegato, il quale deve comunque pagare, salvo il
71
caso che manchino entrambi i rapporti. Nel caso in cui il delegante non è debitore del delegatario
né è creditore del delegato, la delegazione risulta priva di ogni funzione.
La delegazione di pagamento, a differenza della delegazione del debito, non costituisce una
nuova obbligazione fra il delegato e il delegatario, ma il delegato è semplicemente invitato a
pagare il debito del delegante estinguendo il rapporto. Il delegato, comunque, può anche non
accettare.
La delegazione di debito è, di norma, cumulativa, in quanto il delegato, assumendo il debito del
delegante, diventa condebitore solidale del delegatario.
La delegazione liberatoria (o privativa) si ha quando il creditore, prima o all’atto della
conclusione del contratto delegatorio, decide di liberare il debitore originario e quindi il delegato
diventa il nuovo debitore. Con la liberazione del debitore originario si possono realizzare due
casi:
a) la sostituzione del nuovo debitore nel rapporto obbligatorio originario (effetto privativo)
con la possibilità per il delegato di utilizzare le eccezioni che il delegante avrebbe potuto
esercitare verso il delegatario;
oppure
b) la costituzione di un nuovo rapporto che prende il posto del precedente che si estingue
(effetto novativo), cosicché le eccezioni, che il delegante avrebbe potuto esercitare verso
il delegatario, non possono essere utilizzate dal nuovo debitore e inizia a decorrere un
nuovo termine di prescrizione.
70. Segue. Espromissione. L’espromissione si ha ogni qual volta un terzo (espromittente),
estraneo al rapporto obbligatorio, assuma spontaneamente verso il creditore (espromissario)
l’obbligazione del debitore (espromesso) (art. 1272 c.c.); è prevista la partecipazione
contrattuale del creditore.
La causale dell’operazione è la spontaneità, ossia l’irrilevanza esterna della giustificazione
causale dell’intervento dell’espromittente.
Quindi, a differenza della delega, non c’è il rapporto di provvista tra delegante (espromesso) e il
delegato (espromittente), ma vi è quello di valuta tra l’espromesso e l’espromissario.
L’espromissione può essere cumulativa, in quanto l’espromittente, assumendo il debito
dell’espromesso, diventa condebitore solidale dell’espromissario; o liberatoria, in quanto
l’espromissario decide di liberare il debitore originario (espromesso) e quindi l’espromittente
diventa il nuovo debitore.
L’espromittente può sempre rifiutarsi di pagare opponendo la mancanza del rapporto di valuta tra
espromesso e l’espromissario.
71. Segue. Accollo. L’accollo (art. 1273 c.c.) si produce qualora un terzo (accollante) pattuisca
con il debitore originario (accollato), l’assunzione del debito che questi ha nei confronti del
creditore (accollatario).
L’accollo, a differenza dell’espromissione e della delegazione, non richiede il consenso del
creditore, il quale non partecipa alla convenzione di accollo. L’eventuale adesione del creditore,
accollo esterno, ha la funzione di rendere irrevocabile la dichiarazione di accollo. Se il creditore
non aderisce all’accollo o non ne ha conoscenza, l’accollo produce effetti soltanto tra le parti
(accollo interno), facendo sorgere in capo all’accollante l’obbligo verso l’accollato di tenerlo
indenne dal peso economico del debito, fornendogli, ad esempio, i mezzi per eseguire il
pagamento.
Anche l’accollo può essere cumulativo, in quanto l’accollante, assumendo il debito
dell’accollato, diventa condebitore solidale dell’accollatario; o liberatorio, quando la liberazione
è condizione espressa della stipulazione o se il creditore dichiara espressamente di liberare il
debitore originario (accollato).
La legge prevede che il debitore originario (accollato) non è liberato nel caso di inadempimento
dell’accollante; la dichiarazione di nullità o l’annullamento del negozio di accollo reintegra il
rapporto obbligatorio tra il debitore originario (accollato) e il creditore (accollatario), senza le
garanzie dell’accollante.
72
Quando il creditore libera il debitore originario, il rischio d’insolvenza dell’accollante grava sul
creditore.
[(Diversamente dal delegato, l’accollante assume il debito originario; la sua obbligazione ha il
contenuto di quella accollata ed egli può opporre al creditore le eccezioni fondate sul negozio di
assunzione del debito.)]
L’accollo può essere fatto non solo per volontà delle parti, ma anche per legge.
72. Mora del debitore. La soddisfazione dell’interesse creditorio, la congruenza tra oggetto della
prestazione dovuta e oggetto della condotta esecutiva, e il rispetto delle modalità di tempo e di
luogo sono presupposti immancabili per qualificare il comportamento esecutivo come
adempimento. La mancanza o il difetto di uno di essi determina l’inadempimento, l’inesatto
adempimento, l’adempimento tardivo o adempimento in luogo diverso.
Si ha ritardo quando, scaduto il termine di adempimento, la prestazione è ancora possibile e il
creditore ha ancora interesse a riceverla.
L’inadempimento, al contrario, è il mancato adempimento definitivo, che si verifica quando la
prestazione è divenuta impossibile, o è ancora possibile adempierla e il creditore non ha più
interesse a riceverla, o quando il debitore non può o non vuole adempiere.
Il semplice ritardo si configura alla mera scadenza del termine e non produce, di regola,
conseguenze giuridiche. Questa situazione, che può anche protrarsi nel tempo, è necessariamente
interlocutoria: essa può avere come conseguenza l’estinzione per decorso del termine di
prescrizione o l’estinzione per impossibilità sopravvenuta non imputabile; il ritardo, però, può
anche evolversi nella situazione di ritardo qualificato (mora del debitore) o evolversi nella
situazione di inadempimento definitivo.
Il ritardo diventa mora, ossia fonte costitutiva di responsabilità, quando al mancato
adempimento si aggiunge un atto formale di costituzione in mora; quest’atto formale si configura
nell’intimazione o richiesta di adempimento fatta al debitore per iscritto (art. 1219¹ c.c.).
Tale atto è volontario di formale esercizio della pretesa creditoria, recettizio, interruttivo della
prescrizione, e produttivo di effetti legalmente predeterminati (effetti della mora).
L’atto formale non è necessario quando: il debito deriva da fatto illecito, il debitore ha dichiarato
per iscritto di non voler adempiere, la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore.
Tuttavia, se il termine scade dopo la morte del debitore, per la costituzione in mora degli eredi è
necessaria l’intimazione o richiesta per iscritto e gli effetti della mora si producono a partire dal
9° giorno dall’intimazione o dalla richiesta (art. 1219² c.c.).
La mora è stata definita ritardo qualificato; essa, tuttavia, indica un ritardo meramente legale, in
quanto, non sempre coincide con il ritardo materiale nell’adempimento, nel senso che può
seguire il ritardo, ma può anche prescinderne.
La mora produce inoltre effetti autonomi rispetto a quelli che conseguono all’inadempimento
definitivo: il debitore deve risarcire i danni derivanti dal ritardo o, più correttamente, dalla mora;
inoltre, sostiene il rischio dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a
lui non imputabile.
Secondo autorevole dottrina, già il ritardo semplice produrrebbe alcune conseguenze giuridiche:
potrebbe giustificare la domanda della risoluzione del contratto e legittimerebbe al risarcibilità
del danno. Del resto i danni dovrebbero essere liquidati con riferimento al giorno della richiesta
informale di adempimento e non dalla scadenza. Il prevalente orientamento giurisprudenziale
reputa necessaria la preventiva costituzione in mora anche ai fini della richiesta di risoluzione e
per l’eccezione di inadempimento. I criteri di liquidazione del danno da mora sono analoghi a
quelli utilizzati per il risarcimento del danno da inadempimento.
Se, dopo la mora, la prestazione diviene impossibile anche per causa non imputabile al debitore,
egli non è liberato ed è tenuto a risarcire a anche il danno da inadempimento. L’effetto
liberatorio si può produrre soltanto per le prestazioni aventi ad oggetto una cosa determinata,
qualora il debitore provi che la cosa sarebbe egualmente perita presso il creditore. Tuttavia, se
l’obbligazione consiste nel restituire una cosa illecitamente sottratta, il debitore non è mai
liberato (art. 1221 c.c.).
73
Non si ha mora qualora il debitore, tempestivamente, abbia fatto offerta non formale della
prestazione, salvo che il creditore l’abbia rifiutata per un motivo legittimo (art. 1220 c.c.),
costituendo in mora il debitore.
L’offerta deve essere seria, completa ed effettiva: un mero impegno a adempiere non è
sufficiente.
Un’offerta non formale, che intervenga dopo la costituzione in mora del debitore, ne interrompe
gli effetti (interruzione della mora).
L’adempimento tardivo li elimina ex nunc, provocando la purgazione della mora.
In entrambe le ipotesi, il debitore risponde dei danni provocati dal ritardo, fino al verificarsi
dell’evento interruttivo o purgativo.
Nelle obbligazioni di non fare (negative), di regola, non è concepibile il ritardo
nell’adempimento. Ogni violazione costituisce di per sé inadempimento definitivo (art. 1222
c.c.), rendendo superflua una preventiva costituzione in mora, in quanto, quest’ultima si
configura come situazione interlocutoria che deve lasciare aperta la possibilità di adempiere,
seppur tardivamente. Tuttavia, è possibile un adempimento tardivo qualora l’inerzia del debitore,
per il tempo successivo, sia ancora idonea a soddisfare l’interesse del creditore.
73. Inadempimento. L’inadempimento è l’inattuazione definitiva del rapporto obbligatorio;
esso è fonte di responsabilità e si verifica quando la prestazione è divenuta impossibile, cioè il
debitore non può o non vuole adempiere oppure quando il creditore non ha più interesse a
ricevere un adempimento tardivo. L’inadempimento e il criterio dell’impossibilità sono
specificati nell’art. 1218 c.c.: esso afferma che il debitore è sempre responsabile finché permane
l’oggettiva possibilità della prestazione; egli, solo dopo l’impossibilità sopravvenuta, è ammesso
alla prova liberatoria consistente nella non imputabilità dell’evento che ha causato l’impossibilità
sopravvenuta.
Affinché il creditore provi la sua non responsabilità all’inadempimento, deve dimostrare
l’esistenza di un valido titolo e provare l’inesatta esecuzione della prestazione, in quanto non si
può provare un fatto negativo o un comportamento omissivo.
Il debitore, invece, deve provare che l’impossibilità sopravvenuta sia causa a lui esterna,
inevitabile secondo il metro della diligenza, assoluta, oggettiva e insuperabile, ossia ineseguibile
da parte di qualsiasi debitore. Il debitore sopporta il rischio delle cause ignote in quanto non
possa comprovarne l’accadimento.
L’art. 1218 non funziona da solo, ma con la cooperazione dell’art. 1175, che impone il reciproco
dovere di correttezza.
La buona fede, come criterio di valutazione della condotta delle parti nell’esecuzione del
rapporto, concorre a determinare ciò che il creditore può pretendere e ciò che il debitore deve
fare; essa opera anche come criterio di esclusione della doverosità del comportamento oggetto
dell’obbligazione e dell’esigibilità della pretesa creditoria. Un esempio di comportamento
escluso dalla doverosità dell’obbligazione è il caso in cui il debitore è impedito per lutto in
famiglia.
Per quanto riguarda le prestazioni di dare, l’impossibilità segna i limiti della doverosità della
condotta, nel senso che quest’ultima non è più dovuta quando la prestazione è divenuta
impossibile. Sotto questo profilo l’art. 1218 ha come finalità la disciplina dei criteri di
imputabilità del fatto che ha causato l’impossibilità. L’esigibilità della condotta, pretesa dal
creditore al debitore, non ha più motivo di esistere una volta che è scomparso definitivamente
l’interesse del creditore.
Per quanto riguarda le obbligazioni di fare, l’art. 1218 va coordinato con l’art. 1176, ove si parla
di diligenza. La diligenza è regola generale e non criterio generale di esonero dalla
responsabilità per inadempimento, nel senso che il debitore non è liberato semplicemente
provando di aver tenuto una condotta diligente. L’ordinamento non accoglie la distinzione tra
obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato; tale distinzione è utilizzata per separare
l’ambito di operatività del criterio di diligenza, per le obbligazioni di mezzi e del criterio
dell’impossibilità, per le obbligazioni di risultato. In conclusione, l’ordinamento non opera tale
distinzione, perché in ogni prestazione convivono mezzo (il comportamento del debitore) e
74
risultato (soddisfazione dell’interesse creditorio); tuttavia, ai fini della responsabilità, è la diversa
incidenza quantitativa che distingue le varie obbligazioni.
Esistono anche clausole nel contratto che convengono un nuovo criterio di ripartizione del
rischio di inadempimento, ma queste clausole (di esonero) non possono escludere o limitare
preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave: il relativo patto è nullo
(art. 1229 c.c.).
Salva diversa pattuizione, il debitore che nell’esecuzione della prestazione si avvale dell’opera di
terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di questi (art. 1228 c.c.). Il debitore risponde per il
semplice fatto di aver dato incarico al terzo. Presupposti essenziali per l’applicabilità dell’art.
1128 sono: l’iniziativa del debitore e l’assenza di un rapporto contrattuale tra creditore e terzo.
Nell’ipotesi di inadempimento provocato dal fatto del creditore, il debitore è esonerato da
responsabilità. Quando il creditore è in mora, il debitore mantiene sempre il diritto al
corrispettivo. Se non sussistono i presupposti della mora del creditore, sono applicati i criteri di
ripartizione del rischio dell’impossibilità sopravvenuta, e il creditore è obbligato al corrispettivo
soltanto se l’impossibilità si è verificata per il fatto a lui imputabile.
74. Risarcimento del danno. L’obbligazione gode di una tutela reale e una risarcitoria; quella
reale assicura al creditore il conseguimento dell’oggetto della prestazione, e quella risarcitoria
un equivalente pecuniario. Il risarcimento del danno si effettua quando vi è inadempimento o
un ritardo e consiste in una nuova obbligazione pecuniaria che comprende sia l’effettiva perdita
(danno emergente) che il mancato guadagno (lucro cessante), purché l’una e l’altro siano
conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o del ritardo (art. 1223 c.c.). Quando
l’inadempimento e il ritardo sono dolosi, il risarcimento comprende anche i danni imprevedibili
(art. 1225 c.c.). Non è risarcibile il danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l’ordinaria diligenza (art. 1227 c.c.).
I danni da risarcire non comprendono solo quelli che provengono da inadempimento o ritardo
(effettiva perdita e mancato guadagno), ma anche quelli mediati e diretti, purché rientrino nelle
conseguenze normali e ordinarie del fatto.
Il creditore deve provare non solo il nesso di causalità e l’esistenza del danno, ma a ciò deve
allegare la componente economica dell’evento lesivo (perdita effettiva e mancato guadagno);
la non imputabilità deve essere provata dal debitore.
Al creditore spetta l’onere della prova anche per l’ammontare del danno; nel caso in cui è
impossibile o notevolmente difficile determinare l’ammontare del danno, esso è liquidato
equitativamente dal giudice anche d’ufficio (art. 1226 c.c.).
Il risarcimento è un debito di valore, cioè, successivamente alla liquidazione, diventa un debito
di valuta come una comune obbligazione pecuniaria.
75. Clausola penale e caparra. Il danno può essere liquidato convenzionalmente evitando
l’intervento giudiziale, o mediante un accordo transattivo, o, in via preventiva, con l’istituzione
di una clausola penale. Le parti quindi possono convenire che in caso di inadempimento o
ritardo ci sia una risarcibilità del danno prevista e predeterminata; il risarcimento preaccordato è
limitato alla prestazione promessa e può aumentare in caso di danno ulteriore effettivamente
subito.
La clausola penale è idonea ad assolvere una duplice funzione: di liquidazione preventiva del
danno, e di sanzione per l’inadempimento o il ritardo. Logicamente non esiste un diritto
cumulativo, cioè, il creditore non può pretendere congiuntamente la prestazione principale e la
penale, salvo che quest’ultima sia stata stipulata per il semplice ritardo. L’ammontare della
penale può essere diminuita dal giudice se la prestazione principale è stata eseguita in parte
oppure se la clausola stessa è eccessiva.
Il debitore comunque non può scegliere tra l’adempimento dell’obbligazione oppure il
pagamento della penale: il creditore conserva il diritto a pretendere l’esecuzione in forma
specifica. La penale è utilizzata anche nella liquidazione del recesso (multa penitenziaria).
La caparra confirmatoria è l’effettiva dazione di una somma di denaro o di una quantità di cose
fungibili riguardanti prestazioni corrispettive, e può essere data solo per l’inadempimento e non
75
anche per il ritardo; essa ha una funzione di garanzia. Infatti, non è un acconto perché deve
essere restituita, oppure può essere imputata all’adempimento della prestazione principale.
Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra parte può recedere dal contratto
trattenendo la caparra; se inadempiente è la parte che ha ricevuto, l’altra parte che ha dato la
caparra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra. La parte non inadempiente
può chiedere l’esecuzione in forma specifica o la risoluzione del contratto, e il risarcimento è
regolato dalle norme generali: la caparra versata è usata per il pagamento di danni liquidati o per
eccedenza alla prestazione principale.
A differenza della caparra confirmatoria vi è la caparra penitenziale che è data sempre al
momento della conclusione del contratto, come corrispettivo del recesso: il recedente perde la
caparra o deve il doppio di quella data.
c. Specie tipiche di obbligazioni
76. Obbligazioni pecuniarie. Le obbligazioni pecuniarie costituiscono la più diffusa tipologia
di obbligazioni: esse hanno come carattere fondamentale il denaro. Il pagamento in contanti per
importi superiori ai 20 milioni può essere effettuato solo mediante intermediari abilitati, i quali,
previa consegna della somma, accettano per iscritto l’incarico. Il creditore, una volta venuto a
conoscenza dell’operazione, libera il debitore e può esigere il pagamento solo dopo 3 giorni
dall’accettazione dell’intermediario.
Oggetto fondamentale delle obbligazioni pecuniarie è il denaro; esso è il mezzo legale per
pagare, acquistare, scambiare, determinare i valori economici dei beni, risarcire, ecc….
Il termine tecnico-valutario per indicare il denaro è la moneta; essa può essere contante
(banconote) e scritturale (contabile, bancaria e elettronica). La differenza sta nel fatto che la
moneta scritturale è disponibile presso un ente creditizio.
Il principio nominalistico afferma che: il debito pecuniario si estingue con moneta avente corso
legale nello stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale (art. 1277 c.c.); con questo
principio, ogni svalutazione o rivalutazione della moneta è ininfluente nel pagamento.
Quando il debito è in moneta non avente corso legale, il debitore può pagare in moneta legale
secondo il cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento (art. 1278
c.c.). Con la stipulazione della clausola effettivo, il debitore deve pagare solo con la moneta
indicata anche se non avente corso legale, salvo che alla scadenza sia impossibile procurarsela
(art. 1279 c.c.).
Il principio nominalistico presuppone un debito di valuta, ossia quel debito che al momento del
suo sorgere ha ad oggetto una somma di denaro predeterminata e senza altri parametri di
indicazione numerica (es: 1000 £).
I debiti di valore sono obbligazioni pecuniarie che hanno ad oggetto una prestazione nel suo
valore economico e che, al momento del pagamento, si traduce in una somma di denaro.
In concreto, è difficile stabilire se un debito è o di valuta o di valore; per esempio, il debitore non
sarebbe mai in grado di conoscere con esattezza l’ammontare della prestazione dovuta, in quanto
tale prestazione è soggetta a costante rivalutazione, causate, ad esempio, da una galoppante
inflazione.
Tale problema mette in discussione l’inderogabilità del principio nominalistico, perché tale
principio è adatto solo in periodi di bassa inflazione.
Quindi, le parti possono decidere che una somma di denaro sia suscettibile a una rivalutazione
fatta in riferimento a parametri esterni. Tali parametri possono essere: un criterio di
aggiornamento automatico (clausola Istat) o una rivalutazione effettuata in riferimento all’indice
dei prezzi alla produzione o all’ingrosso (clausola merci). Con questi parametri, sostanzialmente,
un debito di valuta si converte in debito di valore: si parla di obbligazioni indicizzate.
Le clausole di rivalutazione, tuttavia, mitigano solo in parte gli effetti della perdita di potere di
acquisto della moneta, in quanto la variazione dei prezzi di ciascun bene non è omogenea.
Comunque, le clausole monetarie sono particolarmente efficaci giacché consentono di
personalizzare gli effetti della svalutazione.
76
Il denaro è un bene produttivo e i suoi prodotti o frutti civili sono gli interessi. Gli interessi sono
dovuti al creditore e sono di pieno diritto, salvo che diversamente risulti dalla legge o dal titolo.
Infatti con l’obbligazione pecuniaria che sia liquida (determinata nel suo ammontare) ed esigibile
(non sottoposta a termine di scadenza) è sempre accompagnata, salvo che le parti non l’abbiano
espressamente esclusa, da un’obbligazione accessoria. Essa è un’obbligazione pecuniaria
autonoma rispetto a quella principale e quindi soggetta ad un proprio termine di prescrizione: la
sua funzione è quella di corrispondere gli interessi secondo il tasso legale (4%, salvo diversa
disposizione del Ministro del Tesoro) o secondo il tasso più levato che le parti abbiano
convenuto (art. 1282 e 1284 c.c.). Se, però, sono convenuti interessi usurari, il patto è nullo e
non sono dovuti interessi. Tuttavia, gli interessi scaduti producono al loro volta interessi soltanto
dal giorno della domanda giudiziale o per accordo successivo alla scadenza, riguardante un
periodo superiore a 6 mesi (anatocismo; art. 1283 c.c.).
Gli interessi moratori, dovuti nella misura legale, hanno una funzione risarcitoria dovuti per il
ritardato pagamento a seguito della costituzione in mora del debitore; se prima della mora erano
dovuti interessi ad un tasso maggiore di quello legale, anche quelli moratori saranno dovuti nella
stessa misura.
Il maggior danno da ritardo, provocato da inflazione o eccessiva svalutazione monetaria, è
risarcibile soltanto se provato dal creditore. Tuttavia, se è stata convenuta la misura degli
interessi moratori, l’eventuale maggior danno non è risarcibile (art. 1224 c.c.).
Il risarcimento del danno costituisce debito di valore; la mera inflazione non è un danno
risarcibile, il creditore deve provare che la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata, producendo
dei frutti civili.
77. Obbligazioni alternative e facoltative. L’obbligazione cumulativa si ha quando un unico
rapporto obbligatorio ha per oggetto più prestazioni e il debitore si libera eseguendole tutte
cumulativamente. Le obbligazioni alternative (art. 1285 c.c.) si hanno quando un unico
rapporto obbligatorio ha per oggetto due o più prestazioni e il debitore deve eseguire
obbligatoriamente una delle prestazioni dedotte. La scelta (art. 1286 c.c.) spetta di regola al
debitore, salvo nei casi in cui la facoltà di scelta spetta o al creditore o a terzi. Una volta fatta la
scelta, essa diviene irrevocabile e si ha la concentrazione dell’obbligazione (art. 1288 c.c.), cioè
l’obbligazione da alternativa diventa semplice.
L’impossibilità sopravvenuta di una o di entrambe le prestazioni, dovuta a causa imputabile ad
una delle parti, produce effetti differenti secondo che la facoltà di scelta spetti al debitore o al
creditore (art. 1289 e 1290 c.c.):
ƒ caso in cui una delle prestazioni è divenuta impossibile per causa imputabile al
debitore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, l’obbligazione si concentra sulla
prestazione che permane possibile; se la facoltà di scelta spetta al creditore, egli può
esigere l’altra prestazione o chiedere il risarcimento dei danni;
ƒ caso in cui una delle prestazioni è divenuta impossibile per causa imputabile al
creditore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, egli è liberato salvo che non preferisca
adempiere l’altra obbligazione e chiedere il risarcimento del danno; se la facoltà di scelta
spetta al creditore, il debitore è sempre liberato salvo che il creditore preferisca esigere
l’altra prestazione e risarcire il danno;
ƒ caso in cui entrambe le prestazioni sono divenute impossibili, ma soltanto una per
causa imputabile al debitore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, egli deve pagare
l’equivalente della prestazione divenuta impossibile per ultima; se la facoltà di scelta
spetta al creditore, egli può richiedere l’equivalente dell’una o dell’altra;
ƒ caso in cui entrambe le prestazioni sono divenute impossibili a causa di un unico
evento imputabile al debitore: se la facoltà di scelta spetta al debitore, egli può pagare
l’equivalente dell’una o dell’altra; se la facoltà di scelta spetta al creditore, egli può
richiedere l’equivalente dell’una o dell’altra.
Le obbligazioni facoltative hanno ad oggetto una sola prestazione, ma al debitore è riconosciuta
la facoltà di liberarsi eseguendo una diversa prestazione. Il creditore può esigere soltanto la
77
prestazione principale, ma non può rifiutare l’esecuzione della prestazione facoltativa: se la
prestazione principale diviene impossibile, l’obbligazione si estingue.
78. Obbligazioni solidali. La solidarietà è un vincolo che lega più debitori all’esecuzione di una
medesima prestazione: si parla di solidarietà passiva. Ciascuno dei debitori può essere costretto
dall’unico creditore all’adempimento della prestazione, ma l’adempimento di uno libera anche
gli altri coobbligati (art. 1292 c.c.). Il creditore può pretendere l’adempimento ad uno qualsiasi
dei coobbligati, anche se l’obbligazione è stata assunta nell’interesse esclusivo di uno di essi.
Diversa dall’obbligazione solidale è quella parziaria, dove la prestazione è frazionata tra i
diversi debitori i quali sono obbligati soltanto pro-quota (art. 1299 c.c.). Nell’obbligazione
parziaria, l’insolvenza di uno dei debitori è sopportata dal creditore; in quella solidale,
l’insolvenza si ripartisce fra i debitori.
N.B.: Per la situazione passiva, la solidarietà è la regola, la parziarietà è l’eccezione.
I presupposti della solidarietà sono: unicità della fonte e del titolo, e anche l’unicità e l’identità
della prestazione; comunque in difetto dei presupposti, il vincolo può nascere anche per legge o
per natura dell’obbligazione.
La solidarietà è un vincolo obbligatorio anche se vi è una pluralità dei soggetti, perché unico è
l’oggetto, la fonte e il titolo. La solidarietà è esclusa dalla previsione, legale o convenzionale, del
beneficium excussionis, in base al quale il creditore deve preventivamente escutere il
patrimonio di uno dei coobbligati. Però, secondo l’orientamento prevalente, la solidarietà manca
anche quando è previsto il beneficium ordinis, in base al quale il creditore deve
preventivamente chiedere l’adempimento ad uno dei coobbligati (art. 1268 c.c.).
La solidarietà forma dei rapporti interni fra i debitori: l’obbligazione si divide tra i diversi
debitori in parti eguali se non risulta diversamente; il debitore che ha adempiuto l’intera
prestazione ha azione di regresso verso gli altri, cioè può ripetere da ciascun coobbligato la
quota-parte di sua spettanza (art. 1298 e 1299 c.c.).
Vi sono anche i rapporti esterni tra i debitori e il creditore, ed è prevista una specifica disciplina
(art. 1300 e ss c.c.).
La solidarietà non deve essere confusa con la contitolarità, perché la solidarietà presenta un
unico vincolo, mentre, la contitolarità presenta più vincoli.
La solidarietà (attiva) nel credito si ha quando ciascuno dei creditori può pretendere l’esecuzione
dell’intera prestazione e l’adempimento conseguito da uno di essi libera il debitore verso gli altri
creditori (art. 1292 c.c.).
N.B.: Per la situazione attiva, la solidarietà è l’eccezione, la parziarietà è la regola, perché la
solidarietà deve essere espressamente prevista.
Il debitore può indifferentemente adempiere nei confronti di uno qualsiasi dei creditori, salvo che
non sia stato prevenuto da uno di essi con domanda giudiziale (art. 1296 c.c.). Per il resto e a
ruoli invertiti vigono regole analoghe a quelle della solidarietà passiva per quanto riguarda i
rapporti interni ed esterni.
79. Obbligazioni divisibili e indivisibili. L’obbligazione è indivisibile, quando il fatto o la cosa,
oggetto della prestazione, in sé o nella considerazione delle parti è indivisibile (art. 1316 c.c.).
L’obbligazione è divisibile, quando la cosa, o fatto, o prestazione è divisibile pro quota e
l’adempimento pro quota soddisfa proporzionalmente l’interesse del creditore.
Poiché l’interesse del creditore è soddisfatto non dalla prestazione, ma dal suo oggetto,
l’indivisibilità dell’obbligazione coincide con l’indivisibilità della cosa o del fatto oggetto della
prestazione. Per questa ragione, sia l’indivisibilità oggettiva sia quella soggettiva sono sottoposte
ad identica disciplina. La divisibilità dell’obbligazione presuppone una pluralità di creditori o di
debitori. Se l’obbligazione è divisibile e non vi è vincolo di solidarietà, pretesa creditoria od
obbligo debitorio si ripartiscono fra i vari soggetti: ciascun creditore può domandare
l’adempimento per la parte di sua spettanza e ciascun debitore è tenuto a adempiere soltanto per
la sua parte (art. 1314 c.c.).
Alle obbligazioni indivisibili si applicano le disposizioni sulle obbligazioni solidali, in quanto
compatibili (art. 1317 c.c.).
78
80. Obbligazioni fungibili e infungibili. L’obbligazione si dice fungibile, quando l’oggetto della
prestazione, in relazione all’interesse del creditore, può essere sostituito con un altro oggetto
identico o di equivalente valore. La fungibilità esprime equivalenza qualitativa fra due cose ed è
il frutto di una valutazione comparativa; è utilizzata come presupposto della compensazione
legale, del mutuo e del deposito irregolare. Discorso inverso vale per le obbligazioni infungibili.
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E. Situazioni di garanzia.
a. Situazioni di garanzia patrimoniali
81. Caratteri e funzioni della responsabilità patrimoniale. L’art. 2740 c.c., disponendo che il
debitore risponde all’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri,
delinea l’istituto della responsabilità patrimoniale, mediante il quale il creditore insoddisfatto,
a causa dell’inadempimento, può realizzare il suo interesse aggredendo in via esclusiva i beni del
debitore. Quindi, con la responsabilità patrimoniale, il debitore, se non adempie, si vede
aggredito nel suo patrimonio dal creditore.
La responsabilità patrimoniale risponde esclusivamente dell’inadempimento, anche se l’art. 2740
a volte è stato interpretato in modo da far diventare il punto di riferimento oggettivo del diritto
del creditore non la prestazione, ma il patrimonio del debitore.
Questa prospettiva non è da condividere. La responsabilità patrimoniale, pur potendosi
manifestare anche durante la fase fisiologica di esistenza del rapporto obbligatorio, è destinata ad
operare, per altro non sempre e non necessariamente, a seguito dell’inadempimento; attenendo
pertanto al momento patologico del rapporto obbligatorio, non costituisce aspetto caratterizzante
ed essenziale della sua struttura. Difatti, la responsabilità patrimoniale non è strumento
sostitutivo o alternativo dell’adempimento, perché il potere attribuito al creditore sul patrimonio
del debitore ha natura prettamente processuale.
La responsabilità patrimoniale non può essere considerata satisfattoria dell’interesse del
creditore: ad esempio, l’esecuzione generica o per espropriazioni sono soddisfacenti quando
l’oggetto della prestazione è una somma di denaro; in caso contrario sono viste come
l’equivalente pecuniario del danno, causato al creditore dall’inadempimento.
82. Responsabilità patrimoniale, responsabilità personale ed esecuzione forzata. La
responsabilità patrimoniale e personale operano entrambe in caso di inadempimento, ma sono
diverse tra di loro: la responsabilità personale determina l’obbligo di risarcire il danno causato
al creditore dall’inadempimento; la responsabilità patrimoniale comporta la soggezione, attuale
o potenziale, dei beni presenti o futuri del debitore all’azione esecutiva del creditore
insoddisfatto.
La responsabilità personale ha una funzione preparatoria a quella patrimoniale, perché quella
patrimoniale, che si ricava dall’espropriazione forzata dei beni del debitore, esige che
l’obbligazione abbia ad oggetto una somma di denaro. Tale presupposto è realizzato dalla
responsabilità personale che o sostituisce l’obbligazione inadempiuta con quella risarcitoria, o
aggiunge all’obbligazione inadempiuta quella risarcitoria.
La responsabilità patrimoniale presuppone oltre all’inadempimento dell’obbligazione originaria,
anche quella risarcitoria. Infatti, l’adempimento dell’obbligazione risarcitoria fa venir meno la
responsabilità patrimoniale. Tale responsabilità è diversa dall’esecuzione forzata perché ha
un’operatività più ristretta. L’esecuzione forzata in forma generica si ha quando la situazione
creditoria ha per oggetto la consegna di una somma di denaro; l’esecuzione forzata in forma
specifica è invocata in caso di inadempimento di crediti aventi oggetto diverso dal denaro.
Con l’esecuzione forzata per consegna o rilascio, il creditore ottiene lo stesso bene che il debitore
avrebbe dovuto fargli conseguire. Con l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare,
il creditore ottiene che un terzo incaricato dal giudice faccia o distrugga a spese del debitore ciò
che il debitore si era impegnato a fare (e non ha fatto) e a non fare (e invece ha fatto).
L’esecuzione forzata in forma specifica degli obblighi di fare presuppongono, comunque, una
fungibilità, ossia una sostituibilità in sede esecutiva del soggetto obbligato con un altro soggetto
nominato dal giudice. Suscettibile all’esecuzione forzata in forma specifica è l’obbligo di
contrarre: di fronte all’inadempimento il creditore può ottenere una sentenza che produce gli
stessi effetti del contratto non concluso. L’esecuzione in forma specifica è sempre satisfattoria ed
è strumento di realizzazione coattiva del debito.
83. Par condicio creditorum e divieto del patto commissorio. La regola della par condicio
creditorum comporta che se un soggetto ha più creditori questi hanno egual diritto di essere
soddisfatti sui beni del debitore (art. 2741 c.c.); una volta promossa l’espropriazione forzata, il
ricavato è ripartito in proporzione all’ammontare dei rispettivi crediti.
Il principio della parità di trattamento subisce alcune limitazioni derivanti dal divieto di
promuovere azioni esecutive individuali.
L’ordinamento per tutelare la par condicio creditorum, dichiara nullo il patto commissorio (art.
2744 c.c.), con il quale si accoda che, in mancanza del pagamento nel termine stabilito, la
proprietà della cosa dato in pegno passa al creditore. Tale patto poneva in una posizione
sfavorevole sia il debitore, perché la cosa ipotecata o data in pegno aveva un valore superiore
alla prestazione, sia gli altri creditori, perché si vedono sottrarre un bene del comune creditore
sul quale essi avrebbero potuto soddisfarsi.
La giurisprudenza ha dichiarato la nullità della vendita con patto di riscatto.
Tuttavia l’ordinamento ritiene lecito il patto marciano, con il quale il creditore, nelle ipotesi di
inadempimento, diventa proprietario della cosa ricevuta in garanzia previa corresponsione al
debitore della differenza tra l’ammontare del credito e l’eventuale maggior valore del bene.
84. Cause di prelazione e privilegi. La legge prevede delle eccezioni alla regola della par
condicio; è l’ipotesi del cause di prelazione, che comportano posizioni privilegiate caratterizzate
da un ordine di preferenza da seguire in sede di riparto delle somme ricavate dalla vendita
forzata. Le cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.) sono: i privilegi, il pegno e l’ipoteca. I
presupposti di tali cause sono: una pluralità dei creditori e la presenza di un patrimonio adeguato
a soddisfare le esigenze degli stessi.
Esistono anche altre norme che rafforzano la tutela di un creditore rispetto a quella riconosciuta
agli altri: un esempio è il diritto di ritenzione, che consente ad un determinato creditore di
trattenere la cosa data fino a che il debitore-proprietario non abbia estinto il proprio debito. Esso
ha natura eccezionale ed è opponibile erga omnes.
I privilegi sono una delle cause di prelazione ed hanno alcune caratteristiche comuni fra loro: la
fonte è rappresentata da una previsione legale, l’elemento giustificativo è nella causa del credito,
l’attribuzione del diritto di prelazione favorisce un determinato creditore.
L’art. 2745 prevede che nel rispetto della legalità il privilegio è subordinato ad una convenzione
tra le parti o ad una particolare pubblicità. Per la validità dei privilegi è necessaria la forma
scritta. I privilegi sono generali e speciali: quelli generali (art. 2751 ss c.c.) gravano su tutti i
beni mobili del debitore; quelli speciali (art. 2755 ss c.c.) gravano su determinati beni mobili e
immobili che hanno una particolare relazione con il credito del quale si intende rafforzare la
tutela.
I crediti assistiti da privilegio generale sono accomunati da un’esigenza di assicurare il
soddisfacimento prioritario di categorie professionali che dalla realizzazione del credito traggono
i mezzi di sostentamento, oppure dall’esigenza di prelievo fiscale dello stato.
I crediti assistiti da privilegio speciale hanno una posizione di preferenza rispetto a quelli
generali, ma questa relazione non è sempre valida.
I privilegi sono inerenti ad un rapporto di credito e lo seguono in tutti i suoi trasferimenti. Per i
privilegi speciali, la situazione è particolare, perché essi presuppongono che la cosa si trovi in un
determinato luogo o in una particolare relazione con il creditore; se mancano tali presupposti, il
privilegio viene meno.
Essendoci una specifica connessione tra il credito e la cosa, nel caso si ha un perimento totale del
bene, il privilegio si estingue; nel caso di un perimento parziale, il privilegio diminuisce
proporzionalmente al perimento. Il privilegio speciale può essere accostato alla categoria delle
garanzie reali dove troviamo il pegno e l’ipoteca. Il privilegio speciale dà al creditore anche il
diritto di seguito, consistente nel potere di aggredire il bene anche nei confronti dei terzi
acquirenti.
85. Mezzi di conservazione delle garanzie patrimoniali: generalità. La posizione del creditore è
tutelata con i mezzi di conservazione delle garanzie patrimoniali:
• il creditore può esperire l’azione revocatoria (art. 2901 c.c.), nel caso in cui il debitore
aliena i suoi beni a terzi;
• il creditore può esercitare l’azione surrogatoria (art. 2900 c.c.), nel caso in cui il
debitore, non esercitando il proprio diritto di credito nei confronti di terzi, impedisce
l’accrescimento del proprio (del debitore) patrimonio;
• il creditore può chiedere il sequestro conservativo (art. 2905 c.c.), nel caso in cui il
debitore dà atto al creditore di farlo dubitare sui suoi (del debitore) beni potendoli
dissipare.
Il creditore può anche evitare le diminuzioni fittizie del patrimonio del debitore come nel caso
della simulazione assoluta di vendita effettuata dal debitore per sottrarre alcuni suoi beni
all’azione esecutiva del creditore; l’azione di simulazione non è idonea per la simulazione
relativa di vendita (es: donazione).
Un altro strumento posto a disposizione del creditore, affinché conservi le garanzie patrimoniali,
è la decadenza del beneficio del termine (art. 1186 c.c.), con il quale il creditore può esigere
immediatamente la prestazione qualora il debitore abbia diminuito le garanzie prestate o non
abbia dato le garanzie in precedenza promesse.
86. Azione revocatoria (art. 2901 c.c.). Tornando alla fase intermedia fra il momento costitutivo
del rapporto obbligatorio e il tempo dell’adempimento, il creditore può valersi degli specifici
mezzi di conservazione della sua garanzia patrimoniale. Tra questi mezzi vi è l’azione
revocatoria, che ha la funzione di neutralizzare quegli atti di disposizione fatti dal debitore che,
diminuendo la garanzia patrimoniale, sono potenzialmente pregiudizievoli delle ragioni del
creditore. Il legislatore prevede che il creditore possa chiedere che gli atti del debitore siano
dichiarati inefficaci perché attentano al patrimonio. L’effetto dell’azione revocatoria è
l’invalidità dell’atto e di quest’effetto si avvantaggia solo il creditore che abbia proposto
l’azione.
Soggetti ad azione revocatoria sono: le alienazioni dei beni, la costituzione sui beni dei diritti
reali (di godimento o di garanzia), atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, il pagamento dei
debiti non ancora scaduti (non è soggetto ad azione revocatoria il pagamento di un debito
scaduto); sono revocabili anche gli atti estintivi delle obbligazioni diverse dall’adempimento,
come: la prestazione in luogo dell’adempimento, la novazione e la compensazione volontaria.
Affinché il creditore chieda l’atto revocatorio, vi è bisogno di alcuni requisiti:
• esistenza del credito, ma di un credito non necessariamente esigibile;
• periculum damni, non è necessario che l’atto di disposizione fatto dal debitore provochi
un effettivo pregiudizio al creditore (eventus damni), ma è sufficiente che l’atto di
disposizione fatto dal debitore sia idoneo a rendere l’esigibilità del credito più incerta o
difficile; un esempio è la vendita di un immobile da parte del debitore: anche se vi è un
aumento del patrimonio del debitore grazie al denaro ricevuto dalla vendita, il creditore
può promuovere azione revocatoria, in quanto il denaro è un bene occultabile;
• scientia fraudis (requisito di natura soggettiva), consapevolezza del debitore di ledere
con il suo atto di disposizione la garanzia patrimoniale del debitore; il legislatore ha
precisato che è sufficiente la conoscenza del pregiudizio e non si richiede la prova
dell’animus nocendi: in concreto, ogniqualvolta è riscontrabile il periculum damni, si
presume l’esistenza della scientia fraudis.
Se l’atto di disposizione fatto dal debitore è anteriore al sorgere del credito, al fine di espletare
l’azione revocatoria si richiede anche la sussistenza della dolosa preordinazione; in altre parole,
si deve dimostrare che l’atto è stato promosso dal debitore al solo scopo di diminuire la propria
consistenza patrimoniale in vista della futura assunzione dell’obbligazione.
L’azione revocatoria non colpisce solo la posizione del debitore, ma anche quella del terzo che è
stato parte dell’atto di disposizione; difatti, con l’azione revocatoria, il creditore può aggredire il
bene in via esecutiva anche presso il terzo acquirente a seguito dell’inadempimento del debitore
(art. 2902 c.c.).
Tuttavia, il legislatore, al fine di garantire la tutela anche del terzo, fa una divisione fra gli atti a
titolo oneroso da quelli a titolo gratuito; infatti, dispone che:
• per gli atti di disposizione a titolo oneroso, per l’esecuzione dell’azione revocatoria, sia
richiesta oltre alla scientia fraudis del debitore, anche la partecipatio fraudis del terzo,
cioè, che anche il terzo fosse consapevole del potenziale pregiudizio che l’atto di
disposizione era idoneo d arrecare al creditore del suo dante causa (il debitore); se il terzo
era in buona fede, l’azione revocatoria non può essere utilmente esperita;
• per gli atti di disposizione a titolo gratuito (es: donazione), per l’esecuzione dell’azione
revocatoria non è richiesta la partecipatio fraudis del terzo, in quanto è sufficiente la
scientia fraudis del debitore; il legislatore, anche se il terzo era in buona fede, tende a
tutelare le esigenze del creditore sul terzo, in quanto il terzo riceve un pregiudizio di gran
lunga inferiore a quello che può ricevere il creditore se l’azione revocatoria non fosse
esperita.
L’azione revocatoria si prescrive in 5 anni dalla data dell’atto (art. 2903 c.c.); se il debitore è un
imprenditore commerciale fallito, i creditori, a fronte della sua insolvenza, possono esperire
l’azione revocatoria fallimentare.
87. Azione surrogatoria (art. 2900 c.c.). Con l’azione surrogatoria, il creditore evita il
pregiudizio conseguente all’inerzia del debitore, il quale, non esercitando il proprio diritto di
credito, fa sì che non aumenti la sua garanzia patrimoniale. Il creditore è legittimato a sostituirsi
al debitore per esercitare il suo (del debitore) diritto di credito e incrementare il patrimonio del
debitore; si configura una rappresentanza legale con l’interesse dello stesso rappresentante.
L’effetto prodotto dall’azione surrogatoria è l’incremento del patrimonio del debitore e, quindi,
della sua (del creditore) garanzia patrimoniale. A differenza dell’azione revocatoria, nella
surrogatoria l’incremento del patrimonio del debitore non avvantaggia solo il creditore che si sia
surrogato, ma anche tutti gli altri creditori.
I presupposti dell’azione surrogatoria sono:
• esistenza del credito, anche se non liquido ed esigibile;
• effettiva inerzia del debitore, valutata oggettivamente;
• periculum damni, ossia che l’inerzia del debitore causi maggiori difficoltà o
l’impossibilità del creditore di soddisfarsi coattivamente.
I creditori possono surrogarsi al debitore nelle azioni che:
a) spettano verso i terzi e non azioni assolute o reali;
b) abbiano natura patrimoniale, cioè vi è l’impedimento del creditore di surrogarsi
nell’esercizio di diritti ed azioni attinenti ai diritti della personalità o ai rapporti familiari;
c) non debbono essere personalmente esercitati dal loro titolare, cioè non sono surrogabili
quegli esercizi che sono rimessi all’autonomia e all’insindacabile scelta del loro titolare.
88. Sequestro conservativo (art. 2905 c.c.). Il sequestro conservativo è una forma di tutela
preventiva della garanzia patrimoniale, che sottrae al debitore, sia materialmente che
giuridicamente, la disponibilità dei beni. Esso si attua mediante un processo cautelare e richiede
tali presupposti:
• la probabilità che il credito vantato esista;
• periculum in mora, ossia il pericolo di alienazione o di dissipazione dei propri beni da
parte del debitore, nelle more del giudizio.
Una volta concesso, il sequestro produce i seguenti effetti: la sottrazione dei beni del debitore
fino alla conclusione del processo e l’affidamento di tali beni ad un custode.
Una volta concluso il processo, se il giudice prova l’esistenza del credito, il sequestro è
convertito in pignoramento; se il credito è inesistente, il debitore, oltre a recuperare i beni
sequestrati, può richiedere il risarcimento del danno procuratogli dal sequestro.
b. Situazioni reali di garanzia
89. Pegno. Il pegno e l’ipoteca sono forme di garanzie reali; essi sono concessi dal debitore o da
un terzo al creditore insoddisfatto: nell’ipotesi di pegno, questa garanzia si configura nel
procedere alla vendita del bene (art. 2795 ss c.c.) o di richiederne l’assegnazione (art. 2798 c.c.);
nell’ipotesi di ipoteca di procedere all’espropriazione (art. 2891 c.c.). Sia il pegno che l’ipoteca
hanno queste caratteristiche:
• la realità, nel senso che sia il pegno che l’ipoteca sono opponibili erga omnes, ma il
potere immediato del creditore è instaurato solo sulla cosa data in pegno, perché
nell’ipoteca la cosa resta di godimento del concedente;
• l’accessorietà fa sì che il pegno sussista soltanto se esiste il debito da garantire,;
• l’indivisibilità (art. 2799 c.c.), per quanto riguarda il pegno, garantisce, salvo diversa
volontà delle parti, l’intero credito comprese le spese e gli interessi fino alla sua totale
realizzazione.
Il pegno si costituisce per accordo fra le parti, con un contratto reale al momento della consegna
della cosa o dei documenti o nelle forme prescritte; esso può essere costituito con un atto
unilaterale e la forma scritta è richiesta solo per consentire e garantire l’esercizio della
prelazione.
Il pegno può avere come oggetto beni mobili, universalità dei beni mobili, crediti e altri diritti
aventi a loro volta per oggetto beni mobili; sono esclusi i beni mobili registrati e i beni
immateriali. Possono essere dati in pegno anche i beni futuri e i beni indivisibili, logicamente è
impegnata la quota e lo spossessamento è possibile solo previo consenso dei consoci o
condomini.
Il bene gravato da pegno passa al creditore che, non solo è legittimato ad esercitare le normali
azioni possessorie, ma è legittimato ad esercitare anche l’azione di rivendica che eventualmente
spetta al debitore o al terzo datore di pegno (art. 2789 c.c.).
Il pegno è una solida tutela delle garanzie creditorie, e tale garanzia si attua mediante lo
spossessamento, un’azione che rende estremamente difficile a chi ha concesso il pegno di poter
disporre del proprio diritto e permette al creditore di realizzare compiutamente le proprie
aspettative. Esistono, comunque, casi particolari come i pegni anomali, dove non si verifica lo
spossessamento del bene dal debitore al creditore.
Nell’ipotesi di pegno sull’universalità di mobili, l’unitarietà di destinazione, propria
dell’universalità, incide sul creditore, il quale ha il potere-dovere di mantenere la cosa ed evitare
atti che potrebbero comprometterla.
Con lo spossessamento, la cosa passa al creditore, ma può darsi che venga consegnata ad un
terzo, o che venga custodita contemporaneamente dal concedente e dal creditore (art. 2786 c.c.).
Se il bene dato in pegno è una cosa fruttifera, il creditore, salvo patto contrario, può fare propri i
frutti imputandoli prima alle spese e agli interessi, e poi al capitale (art. 2792 c.c.). Inoltre, senza
il consenso del concedente, il creditore non può né godere del bene e né concederlo in godimento
o sub-pegno.
Un’eccezione a tale principio è data dal pegno irregolare, dove il creditore acquista la proprietà
del denaro, o delle merci, o dei titoli oggetto della garanzia.
Al momento dell’adempimento, il creditore deve restituire il bene datogli in pegno dal debitore;
se vi è stato inadempimento, il creditore deve restituire l’eccedenza del valore del bene dato in
pegno.
Un dovere del possessore-creditore è quello di custodire diligentemente la cosa data in pegno; in
caso contrario, il possessore-creditore deve rispondere per la perdita o per il deterioramento del
bene dato in pegno.
Il pegno si estingue (art. 2794 c.c.) per: rinunzia della garanzia, adempimento della prestazione,
perimento della cosa ed estinzione del diritto gravato dalla garanzia.
90. Ipoteca. L’ipoteca è uno strumento di garanzia reale; essa è molto simile al pegno, tranne che
per i beni che tratta e per la forma costitutiva; l’ipoteca è una garanzia specifica concessa al
creditore dal debitore o da un terzo ed è caratterizzata, come il pegno, da realità, accessorietà ed
indivisibilità. L’ipoteca ha una forma costitutiva che si delinea con l’iscrizione nei pubblici
registri immobiliari; sono ipotecabili, per l’appunto, i beni immobili e i beni mobili registrati e le
rendite dello stato. L’iscrizione rappresenta una pubblicità costitutiva e si distingue dalla
trascrizione che dà vita ad una pubblicità dichiarativa.
L’ipoteca può essere:
• legale, se deriva da previsione legislativa;
• giudiziale, se deriva da una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro;
• volontaria, se deriva da un atto negoziale; nell’ipotesi di ipoteca volontaria su cosa
altrui, tale ipoteca è registrata dopo l’acquisto della cosa da parte del concedente; mentre,
se ha per oggetto i beni futuri, l’iscrizione può avvenire quando è stata accertata la loro
esistenza.
Una volta costituita, l’ipoteca attribuisce al creditore il potere di espropriare i beni vincolati e dio
soddisfarsi sul ricavato della vendita. A volte ci possono essere più ipoteche e la prelazione è
fatta in base all’ordine cronologico. Se più creditori chiedono l’iscrizione contro la stessa
persona, o sopra gli stessi beni, il ricavato della vendita per espropriazione è ripartito secondo un
grado cronologico di ordine decrescente.
Il creditore può agire contro un terzo che è il datore ipotecario, ma non il debitore; il creditore
può agire anche contro il terzo che abbia acquistato il bene gravato dall’ipoteca. Il terzo non può
pretendere che il patrimonio del debitore originario sia escusso preventivamente, quindi può:
• evitare la vendita adempiendo i creditori; in seguito, il terzo si surroga ai creditori
soddisfatti, esercitando regresso nei confronti del debitore originario o nei confronti dei
suoi fideiussori;
• rilasciare il bene ai creditori ipotecari, nel caso in cui tale bene abbia un valore minore
di quello dei crediti; in seguito, il terzo si surroga a tali creditori ed esercita il regresso nei
confronti del debitore;
• purgare il bene dalle garanzie ipotecarie e tale è il procedimento: il terzo offre ai
creditori la somma versata per l’acquisto del bene (se il bene è stato acquistato a titolo
gratuito, la somma offerta è pari al valore commerciale del bene); essi possono:
o accettare e quindi ripartirsi l’offerta del terzo; quest’ultimo rimane in proprietà del
bene e si surrogherà nei diritti dei creditori nei confronti del debitore, esercitando
regresso;
o fare un’offerta di almeno un decimo superiore a quella fatta dal terzo e quindi
acquistare il bene.
L’ipoteca, su richiesta degli interessati, può essere ridotta, diminuendo il credito per il quale è
stata iscritta oppure restringendola su alcuni dei beni inizialmente gravati.
L’estinzione dell’ipoteca può avvenire per: venuta meno del credito garantito, scadenza del
termine di ipoteca (se è stata concessa per un tempo determinato), per il verificarsi della
condizione risolutiva, per mancata rinnovazione del termine ventennale, ecc….
L’ipoteca ha una durata di 20 anni; scaduto il termine, essa perde efficacia con l’estinzione. Al
fine di evitare l’estinzione, prima della scadenza si può effettuare la rinnovazione dell’iscrizione
che prolunga gli effetti della vecchia ipoteca; invece, se la rinnovazione è fatta dopo la scadenza,
si costituisce una nuova ipoteca con un nuovo grado.
Il termine ventennale non è di prescrizione e di conseguenza non si possono applicare la
sospensione e l’interruzione; la prescrizione è applicata a favore del terzo acquirente dopo che
siano trascorsi 20 anni dalla trascrizione del titolo di acquisto, salvo sospensioni o interruzioni.
Dopo l’estinzione dell’ipoteca, il proprietario del bene ipotecato può chiedere la cancellazione,
che è una forma di pubblicità e che ha la funzione di liberare i beni dall’ipoteca erga omnes; essa
è correlata dalla sentenza o dal provvedimento delle autorità competenti.
c. Situazioni personali di garanzia
91. Fideiussione. La fideiussione è una situazione personale di garanzia; è il contratto con il
quale una persona (fideiussore) garantisce, obbligandosi personalmente verso il creditore,
l’adempimento dell’obbligazione altrui (art. 1936 c.c.).
Si possono avere due tipi di fideiussioni:
• solidale (art. 1944¹ c.c.), consiste nel fatto che il creditore può rivolgersi o al debitore o al
fideiussore per la riscossione del credito; (ma il creditore si rivolgerà maggiormente al
fideiussore in quanto quest’ultimo garantisce una certa solvenza);
• con beneficio di escussione (art. 1944² c.c.), consiste nel fatto che l’obbligo del
fideiussore sorge dopo l’escussione del debitore principale e che il fideiussore indica i
beni del debitore da sottoporre ad escussione. Se non si avvale del beneficium
excussionis, si attua il beneficium ordinis, con il quale il creditore deve chiedere prima
l’adempimento al debitore principale e poi al fideiussore.
La fideiussione può avere come oggetto un’obbligazione condizionale o futura: si parla di
fideiussione omnibus, quando il fideiussore garantisce tutte le obbligazioni che un cliente
assumerà nei confronti di una banca; essa è valida solo se è previsto un importo massimo
garantito.
La fideiussione ha una caratteristica di accessorietà, ossia la tendenziale dipendenza del debito
fideiussorio da quello principale; infatti, il fideiussore diventa egli stesso debitore, però la sua
obbligazione è accessoria rispetto all’obbligazione garantita, cioè è valida solo se è valida
l’obbligazione principale (art. 1939 c.c.).
Se il debito altrui manca viene meno la causa della fideiussione; essa non può eccedere ciò che è
dovuto dal debitore (art. 1941 c.c.).
Il fideiussore che ha pagato il debito del debitore principale può surrogarsi al creditore ed
esercitare il regresso contro il debitore principale (art. 1949, 1950 e 1951 c.c.); in ipotesi
specificate dal legislatore, il fideiussore gode di una particolare tutela anche prima di effettuare il
pagamento avvalendosi del rilievo (art. 1953 c.c.), ottenendo la liberazione dal vincolo
obbligatorio nei confronti del debitore.
La fideiussione si estingue quando:
• il debitore principale adempie;
• il fideiussore adempie ed esercita successivamente regresso nei confronti del debitore;
• art. 1955 c.c., la fideiussione si estingue quando per fatto del creditore, in seguito
all’adempimento del fideiussore, quest’ultimo non può surrogarsi nei diritti del creditore
verso il debitore principale;
• art. 1956 c.c., la fideiussione si estingue quando il creditore, senza autorizzazione del
fideiussore, per quanto riguarda le obbligazioni future, concede al debitore principale
crediti anche sapendo che la sua (del debitore) condizione patrimoniale sia peggiorata;
• art. 1957 c.c., la fideiussione si estingue quando il creditore non si avvale dei suoi diritti
sul debitore principale entro un determinato termine; la norma protegge esclusivamente
l’interesse del fideiussore ad evitare che il mancato esercizio da parte del creditore nei
confronti del debitore principale possa prolungare illimitatamente il vincolo fideiussorio.
92. Promessa del fatto del terzo. Il contratto vincola le parti, ma per regola generale non produce
effetto rispetto ai terzi. Coerente con questo principio generale è la promessa del fatto o
dell’obbligazione del terzo. L’art. 1381 c.c. afferma che: colui (promittente) che promette fatto di
terzo, obbliga solo se stesso, ed è tenuto ad indennizzare l’altro contraente se il terzo rifiuta o
non compie il fatto dell’obbligazione promessa. (es: tizio vende la propria azienda e promette al
compratore che la banca continuerà a finanziarla).
Questa situazione crea una posizione creditoria di garanzia al promissorio.
F. Prescrizione e decadenza.
93. Influenza del tempo sull’acquisto o sull’estinzione dei diritti. Il decorso di un dato periodo
di tempo, combinato con altri elementi, può dar vita o all’acquisto (prescrizione acquisitiva o
usucapione) o all’estinzione (prescrizione estintiva e decadenza) di una situazione soggettiva.
Con il codice civile del 1865, le due discipline erano unite, poi con il codice vigente le due
discipline sono state separate: la prescrizione acquisitiva (usucapione) si trova nel libro delle
proprietà, in quanto modo di acquisto dei diritti reali; la prescrizione e la decadenza si trovano
del libro della tutela dei diritti.
94. Prescrizione: nozione e fondamento. La prescrizione produce l’estinzione della situazione
soggettiva per l’effetto dell’inerzia del suo titolare, che non la esercita o non ne usa per il tempo
determinato dalla legge (art. 2934 c.c.).
La prescrizione ha la sua funzione nell’esigenza dei rapporti giuridici, perché quando il titolare
non esercita quel diritto, egli lascia presumere che non ne sia più interessato e nella collettività si
fonda la convinzione dell’inesistenza.
95. Inderogabilità della disciplina e operatività della prescrizione. Carattere importante della
prescrizione è l’inderogabilità, infatti, anche nell’autonomia negoziale, le parti non possono
modificare i termini della prescrizione, o escluderla, o rinunziarvi (art. 2936 c.c.).
Nel caso di un credito andato in prescrizione, il soggetto avvantaggiato è il debitore e il
soggetto svantaggiato è il creditore.
Tuttavia il soggetto passivo (debitore) può rinunziare alla prescrizione già compiuta, e questa
rinunzia (successiva alla prescrizione) può essere espressa ma anche tacita (art 2937 c.c.).
La prescrizione però non opera automaticamente; il soggetto avvantaggiato deve farla valere di
fronte al giudice (che non può rilevarla d’ufficio, cioè di sua iniziativa, art. 2938 c.c.), oppure in
via d’azione o d’eccezione.
Qualora il debitore non faccia valere la prescrizione, il giudice lo condannerà al pagamento di
quanto dovuto, prima ancora che la prescrizione sia compiuta.
La prescrizione tuttavia può essere opposta anche dai creditori del soggetto avvantaggiato e da
ogni altro interessato, qualora il soggetto a favore del quale si è maturata non la faccia valere o vi
abbia rinunziato.
Se il soggetto avvantaggiato paga il debito, anziché opporre la prescrizione, estingue una
normale obbligazione civile; se, invece, il soggetto avvantaggiato paga il debito dopo aver fatto
valere la prescrizione, con conseguente estinzione dell’obbligazione, si realizza l’adempimento
di un’obbligazione naturale con conseguente irripetibilità di quanto pagato (art. 2940 c.c.).
96. Efficacia estintiva della prescrizione. Si è sempre attribuita alla prescrizione un’efficacia
estintiva del diritto, ma il problema dell’efficacia va attentamente considerato.
Se alla prescrizione conseguisse la pura e semplice estinzione del diritto, al debitore spetterebbe
l’azione di ripetizione di quanto dovuto, trovandosi in una situazione di un pagamento non
dovuto (indebito oggettivo). Quindi la prescrizione è da intendersi non come estinzione del
diritto, ma come una modificazione, che estinguerebbe l’azione.
La prescrizione sarebbe anche preclusiva perché comporterebbe il rigetto della domanda di
prescrizione sia nelle ipotesi che si è accertato la sussistenza del diritto, sia nelle ipotesi di
insussistenza.
97. Oggetto della prescrizione. La prescrizione è istituto di valenza generale: ogni diritto si
estingue per prescrizione; tuttavia, la regola della prescrittibilità dei diritti conosce alcune
eccezioni (art. 2934 c.c.).
Non si prescrivono:
• i diritti indisponibili;
• i diritti della personalità;
• i diritti attinenti ai rapporti di famiglia;
• le azioni di contestazione e di reclamo della legittimità, di impugnazione e di
dichiarazione giudiziale della paternità o della maternità;
• la qualità di erede e l’azione di petizione ereditaria;
• le azioni di nullità del contratto;
• le facoltà che formano il contenuto della situazioni giuridica, perché si prescrive l’azione
e non l’eccezione;
• i diritti di proprietà, perché è un diritto assoluto, cioè da far valere erga omnes. Esso non
si prescrive perché non esiste un controinteressato che si avvantaggia della prescrizione,
in quanto, con l’estinzione del diritto di proprietà per prescrizione, la cosa diverrebbe una
res nullius; qualora vi sia un controinteressato, non opera più la prescrizione, ma
l’usucapione.
Si prescrivono i diritti di credito e i diritti reali su cosa altrui: per effetto della prescrizione, il
debitore è liberato dall’obbligazione e il proprietario si libera dell’altrui diritto reale sulla propria
cosa (usufrutto, servitù, ecc…).
La prescrizione sarebbe come una moneta a due facce: da un lato vi è l’estinzione del diritto,
dall’altro la corrispondente liberazione del soggetto passivo; un soggetto perde il diritto per
prescrizione solo se vi è un corrispondente acquisto della liberazione da parte dell’altro.
98. Decorrenza della prescrizione: computo dei termini e termini di prescrizione. Il termine di
prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.).
Se il diritto è sottoposto a condizione, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno nel quale essa
si verifica; se il diritto è sottoposto a termine, la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui
scade il termine.
La prescrizione decorre anche se il titolare della situazione, non per sua colpa, ignori di essere
titolare della situazione, oppure che ignori l’identità del soggetto passivo. Se però il soggetto
passivo abbia occultato il debito, la prescrizione rimane sospesa fino a che il dolo non sia stato
scoperto (art 2941 c.c.).
La prescrizione del diritto di annullabilità del contratto decorre dal giorno della sua conclusione
e, se l’annullabilità dipende da vizio del consenso (errore o dolo) e dà incapacità legale
(interdizione, inabilitazione e minore età (art. 1442 c.c.)), il termine decorre dal giorno nel quale
è cessata la violenza.
La prescrizione del diritto al risarcimento del prodotto difettoso decorre dal giorno di scoperta
del difetto, del danno e dell’identità del responsabile.
La prescrizione inizia con la scadenza dell’ultimo istante dell’ultimo giorno. Se il giorno finale è
festivo, essa è prorogata al giorno successivo non festivo; se è a mesi, il termine scade nel giorno
corrispondente a quello del mese iniziale (es: 2 febbraio – 2 marzo); se nel mese di scadenza
manca il giorno corrispondente, il termine si compie con l’ultimo giorno del mese (art. 2963
c.c.).
Il termine ordinario (art. 2946 c.c.) di prescrizione è di 10 anni; per l’usucapione, per i diritti
reali di godimento (superficie, enfiteusi, usufrutto, servitù) e per l’ipoteca il termine è di 20 anni.
Per il risarcimento da atto illecito, il termine è di 5 anni; invece, è di 2 anni, se l’atto illecito è
causato dalla circolazione di veicoli (prescrizione breve).
Sempre in 5 anni si prescrivono i diritti che derivano da rapporti sociali. Termini ancora più
brevi sono fissati per i diritti derivanti da alcuni contratti (mediazione, spedizione, trasporto e
assicurazione).
Peraltro, i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di 10 anni, se riguardo
ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con il decorso di
10 anni. L’azione diretta all’esecuzione del giudicato si prescrive in 10 anni.
Infine, l’azione di annullamento e l’azione revocatoria si prescrivono in 5 anni; l’azione di
rescissione si prescrive in 1 anno o, se riguarda il contratto di divisione, in 2 anni.
99. Sospensione ed interruzione. Se l’inerzia è presupposto fondamentale della prescrizione, la
cessazione dell’inerzia (fatta dal creditore) è presupposto fondamentale della sospensione e
dell’interruzione.
La sospensione è dovuta alla condizione del titolare del diritto (art. 2942 c.c.), cioè quando il
titolare del diritto non può esercitarlo per condizione propria della titolarità: esempio, il minore
non emancipato, l’interdetto per infermità di mente privo di rappresentanza legale, militari in
servizio in tempo di guerra. La sospensione ha luogo solo nelle ipotesi tassative previste dalla
legge.
L’interruzione si ha quando il titolare esercita il diritto (art. 2943 c.c.) mediante notifica
dell’atto con il quale si inizia il giudizio: esempio, mediante atto di costituzione in mora del
debitore. L’interruzione si realizza anche quando il soggetto passivo riconosce l’esercizio del
diritto espressamente o tacitamente (art. 2944 c.c.). Dal momento dell’interruzione, inizia a
decorrere un nuovo periodo di prescrizione (art. 2945 c.c.).
100. Prescrizioni presuntive. Le prescrizioni presuntive sono una categoria particolare; esse
postulano che alcuni crediti si presumono estinti salvo prova contraria.
Un esempio è il caso dell’albergatore: trascorsi 6 mesi dall’alloggio, il conto si presume pagato.
Il debitore è esonerato dalla prova (art. 2697 c.c.) anche perché nella vita quotidiana il debitore
no conserva prove dell’effettivo pagamento.
Il creditore può dimostrare la prova contraria, ossia che il debitore non abbia pagato, ma la prova
è rilevante solo se il debitore giura di non aver pagato.
Questa prova è comunque di ardua dimostrazione perché il debitore, anche conoscendo
l’esistenza delle sanzioni sul falso giuramento, può giurare il falso.
101. Decadenza: nozione e fondamento. Distinzione tra prescrizione e decadenza. La
decadenza comporta l’estinzione di un diritto che non sia stato esercitato entro un dato termine:
l’inerzia del titolare e il decorso del tempo fanno sì che il diritto si estingue.
Il fondamento della decadenza è l’esigenza di certezza.
Tra prescrizione e decadenza vi sono delle differenze sia in relazione al fondamento, sia in
relazione alla disciplina.
Per quanto riguarda le differenze riguardo al fondamento, la decadenza interessa termini brevi
e brevissimi, e non tiene in considerazione le circostanze soggettive che hanno giustificato
l’inerzia; soltanto nella decadenza l’esigenza di certezza è assoluta, mentre nella prescrizione tale
esigenza si combina con le ragioni dell’inerzia.
Per quanto riguarda le differenze riguardo alla disciplina, la decadenza non ammette
interruzione e sospensione, salvo che per la sospensione sia disposto diversamente (art. 2964
c.c.); è il caso della sospensione dei termini nei periodi feriali.
La decadenza può essere impedita solo dal compimento dell’atto previsto (art. 2966 c.c.); nei
casi in cui la decadenza è impedita, il diritto rimane soggetto alle disposizioni che regolano la
prescrizione (art. 2967 c.c.).
Compito difficile del legislatore è quello di verificare se un caso si tratti di decadenza o di
prescrizione; in generale, egli si rifà alla brevità del termine.
Non tutti i diritti sono soggetti a decadenza, ma solo quelli individuati dal legislatore.
102. Decadenza in materia disponibile e no: decadenza legale, giudiziale e convenzionale. La
decadenza si differisce in ordine pubblico e ordine privato.
La decadenza di ordine privato ha questi caratteri:
• è consentita la rinunzia;
• non può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 2969 c.c.);
• le parti possono modificare la sua disciplina legale; essi possono stabilire termini di
decadenza, ma il patto è nullo quando questi termini rendono difficile ad una delle parti
l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.);
• il riconoscimento del diritto è causa impeditivi della decadenza.
La decadenza di ordine pubblico (interesse pubblico) ha questi caratteri:
• non è consentita la rinunzia;
• può essere rilevata d’ufficio dal giudice;
• le parti non ne possono modificare la disciplina legale e nemmeno i termini;
• il riconoscimento del diritto non è causa impeditiva della decadenza.
La decadenza è:
• legale, quando il termine è stabilito dalla legge;
• giudiziale, quando su richiesta di una delle parti la fissazione del termine è fatta dal
giudice;
• convenzionale, quando il termine è stabilito contrattualmente.
103. Immemorabile. Un altro istituto che comporta la perdita del diritto a seguito dell’inerzia del
titolare protratta nel tempo è la Verwirkung dell’ordinamento tedesco.
Tale istituto, basandosi sulla buona fede, afferma che il titolare di un diritto, non esercitato per
un tempo immemorabile, non può più esercitare tale diritto in quanto compie un abuso, un
comportamento scorretto e sleale, perché la sua immemorabile inerzia induce il soggetto passivo
a ritenere tale diritto non più attivo.
Questo istituto non è presente nel nostro ordinamento, ma la giurisprudenza ritiene che gli stessi
risultati si raggiungano con la rinunzia tacita del titolare del diritto a seguito dell’inerzia
prolungata nel tempo.
a, b, c, d, e, f, g, h, i, l.
Parte quarta: Autonomia negoziale
A. Autonomia negoziale e autonomia contrattuale.
a. Premessa.
1. Autonomia privata, eteronomia ed autotutela. L’autonomia privata è quel potere
riconosciuto o attribuito dall’ordinamento giuridico al privato, di autoregolare i propri interessi.
I due caratteri distintivi dell’autonomia privata sono:
ƒ eteronomia, creazione di regole da parte non del titolare degli interessi, ma di un soggetto
estraneo provvisto di un potere pubblico; atti di eteronomia sono la legge, il provvedimento
amministrativo, la sentenza. Il fenomeno dell’eteronomia è in espansione, prendendo il posto
dell’autodisciplina;
ƒ autotutela, consistente nel potere di tutelare da soli i propri interessi; esso è istituito
eccezionalmente e al soggetto è consentito ricorrervi solo nelle ipotesi previste dalla legge
(es.: diritto di ritenzione art. 1152 c.c., legittima difesa art. 2044 c.c.).
2. Autonomia individuale e collettiva, di scambio e associatività. Facendo riferimento
all’interesse autoregolato, si definisce la differenza tra autonomia individuale e collettiva.
La differenza va fatta sul tipo d’interesse da regolare:
ƒ l’autonomia individuale, riconosciuta al soggetto individuo, tende a regolare gli
interessi del singolo;
ƒ l’autonomia collettiva, riconosciuta non solo al soggetto individuo ma anche agli enti,
tende a regolare interessi della categoria professionale o sociale che essa rappresenta.
Abbiamo anche:
ƒ l’autonomia di scambio, dove gli interessi, mossi da posizioni opposte, sono tesi a
conseguire scopi non coincidenti;
ƒ l’autonomia associativa, dove gli interessi procedono parallelamente, mossi da uno
scopo comune.
3. Autonomia privata e pubblica amministrazione. Difficile è fare la distinzione fra autonomia
provata e pubblica, perché ormai è superata la tradizionale definizione di autonomia privata
come potere riconosciuto o attribuito dall’ordinamento giuridico al privato. Il problema sorge nel
fatto che anche il soggetto pubblico agisce da privato, non solo nei rapporti pubblico-privato, ma
anche nei rapporti pubblico-pubblico dove gli interessi sono regolati in autonomia privata.
Il diritto privato non è da intendere solo come diritto civile, ma anche come diritto comune.
4. Concetto di autonomia negoziale: dialettica negozio-contratto. L’autonomia negoziale è il
potere riconosciuto o attribuito dall’ordinamento, al soggetto di diritto privato o pubblico, di
regolare con proprie manifestazioni di volontà interessi privati o pubblici, comunque non
necessariamente propri. L’autonomia negoziale si manifesta (si estrinseca) con il compimento
di un negozio caratterizzato non solo da negozi bi o plurilaterali, ma anche da quelli unilaterali.
L’autonomia contrattuale si manifesta con il compimento del contratto caratterizzato dalla
pluralità delle parti e dalla patrimonialità del contenuto (art. 1321 c.c.).
5. Sulla rilevanza costituzionale dell’autonomia contrattuale. L’autonomia contrattuale ha una
rilevanza costituzionale da ricercare in un duplice profilo:
ƒ quello positivo della ricerca del fondamento e della tutela costituzionale della stessa;
ƒ quello negativo, ossia i limiti d’ordine costituzionale da essa imposti.
Facendo un confronto fra l’art. 1322 c.c e l’art. 41 Cost., si nota che l’iniziativa economica
individuale s’identifica con l’autonomia contrattuale d’impresa, con la sua particolare categoria
di contratti; se si confronta l’art. 1322 c.c. e l’art. 2 Cost., si denota un’autonomia contrattuale
83
associativa, perché proprio l’art. 2 Cost., tutela le formazioni sociali e il loro svolgimento, però
non tutela la personalità di scambio che identifica l’autonomia contrattuale.
6. Fondamenti costituzionali dell’autonomia negoziale. Importante è ricercare non il
fondamento costituzionale dell’autonomia contrattuale, ma i fondamenti costituzionali
dell’autonomia negoziale: infatti analizzandola si trovano le coordinate per la Costituzione.
Esempio sono gli art. 2,13,32 Cost. che riguardano l’autonomia per la cura della propria persona
e altrui; gli art. 2,29,30 Cost. riguardano l’autonomia a contenuto patrimoniale e non; l’art. 18
Cost. riguarda l’autonomia negoziale volta a creare organismi associativi a scopi ideali.
7. Limiti costituzionali all’autonomia negoziale. I limiti costituzionali sono delineati dalle stesse
norme nelle quali se ne individuano i fondamenti. Così l’art 41 Cost. tutela l’autonomia
contrattuale, ma pone limiti per assicurare libertà e utilità sociale; anche l’art 2 e 18 Cost.
tutelano il fenomeno associativo, ma denunciano le associazioni segrete a carattere militare; così
l’art 29-30 Cost. tutelano l’autonomia negoziale familiare, ma la limitano al rispetto
dell’uguaglianza e all’unità familiare; lo stesso discorso vale per i principi economici e di lavoro.
8. Autonomia contrattuale e diritto comunitario. La comunità europea cerca in tutti i modi di
non limitare, ma di modulare l’autonomia contrattuale, al fine di conseguire le finalità indicate.
Esempi sono la repressione della pubblicità ingannevole e l’imposizione di obblighi
d’informazione agli imprenditori oltre agli obblighi, ad esempio per le imprese di investimento,
di essere chiare e limpide, e d’informare costantemente il cliente, ecc….
La disciplina comunitaria tende anche a depurare i contratti dalle cosiddette clausole abusive o
vessatorie, cioè quelle pattuizioni che determinano a carico del consumatore uno squilibrio di
diritti e obblighi derivanti dal contratto.
La CE cerca anche di eliminare del tutto lo stato di abuso derivante da uno stato di dipendenza di
un’impresa cliente o fornitrice da parte delle imprese dominanti. Conclusioni:
a) il professionista deve informare per iscritto il consumatore-cliente;
b) scissione dell’autonomia contrattuale in autonomia del professionista e del consumatoreutente;
c) eliminazione dello stato di debolezza conseguente ad un eccessivo squilibrio degli
obblighi.
9. Itinerari recenti dell’autonomia contrattuale. L’autonomia contrattuale assistita indica una
duplice finalità: assecondare le esigenze di mercato e tutelare i ceti sociali più vulnerabili.
Essa postula che le parti dei contratti, aventi ad oggetto determinate categorie di beni, hanno il
potere di derogare a norme imperative solo se gli interessi sono assistiti dalle rispettive
associazioni di categoria le quali assicurano un’equilibrata protezione degli stessi interessi.
Si parla dei cosiddetti patti in deroga i quali sono stati poi sostituiti dai contratti regolamentati
o calmierati.
Si parla anche di autonomia contrattuale incentivata, quando il legislatore, per alcuni settori
trainanti, applica contributi monetari o sgravi fiscali al fine di facilitare la vendita e il commercio
a favore di consumatori-utenti.
10. Le classiche libertà contrattuali. Queste sono le libertà dell’autonomia contrattuale:
a) di contrarre, con la scelta di concludere o no il contratto (obblighi legali, patto
d’opzione);
b) di scegliere il contraente, con diverse modalità (negozio di fiducia, prelazione volontaria
e legale);
c) di determinare il contenuto contrattuale arricchendolo con elementi accidentali ecc…
(clausole d’uso);
d) apportare schemi contrattuali atipici, creando contratti misti (combinazioni di più
contratti tipici), o stabilire una connessione di più contratti;
e) di determinare nuove forme di contratti come le forme convenzionali o patrizie, e di
scegliere anche la forma: o scritta o elettronica.
84
11. Altre libertà contrattuali. Altra libertà contrattuale è la scelta della struttura negoziale che
si fonda sul principio dell’economia delle dichiarazioni. Questa libertà è intesa come il potere
riconosciuto ai soggetti di compiere una duplice opzione:
ƒ scegliere fra una struttura contrattuale ed una struttura negoziale unilaterale;
ƒ scegliere fra diverse strutture contrattuali.
Nella prima categoria si ricorre ad esempio nell’ipoteca, nella seconda si ricorre quando l’iter
formativo è diverso in quanto è anticipato il momento perfezionativo.
Altra libertà è la scelta di realizzare il risultato in via diretta o in via indiretta; in via indiretta
quando, mediante apposite clausole, si adattano strutture negoziale tipiche o atipiche, destinate a
realizzare altre funzioni, senza però eludere l’applicazione di una norma imperativa.
Figura di negozio indiretto, nulli per violazione di questo divieto e quindi in frode alla legge, è la
vendita con patto di riscatto.
La libertà di incidere sull’efficacia contrattuale è da intendere:
a) come possibilità di dissociare il momento perfezionativo della fattispecie contrattuale da
quello dell’efficacia stessa apponendo al contratto condizione sospensiva o termine
iniziale;
b) come libertà di deviare gli effetti del contratto dalla sfera giuridica dei contraenti.
La libertà cosiddetta sanzionatoria consiste nel potere di creare, a carico dei contraenti, pene
contrattuali dirette a sanzionare violazioni: regole, condotta, fonte negoziale (es.: sanzioni
disciplinari).
12. Autonomia negoziale nel diritto delle persone, della famiglia e delle successioni per causa
di morte. L’autonomia negoziale in relazione alla persona è molto ingarbugliata, perché al
legislatore spetta l’arduo compito di definire i limiti di disposizione del proprio corpo e di
definire la meritevolezza dell’autonomia nel campo della bioetica o del biodiritto.
Altro problema riguarda il collegamento tra l’autonomia negoziale e i rapporti familiari, dove è
posto al centro il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi.
Di autonomia testamentaria gode l’autore del testamento, il quale può scegliere fra tanti
strumenti negoziali idonei a disporre delle proprie sostanze anche dopo la morte.
b. Strumenti dell’autonomia negoziale: profilo strutturale
13. Contratti, accordi e convenzioni. La definizione del contratto è data dall’art. 1321 c.c.,
mentre gli accordi e le convenzioni non sono definiti dalla legge.
L’art 1321 c.c. afferma che: “il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o
estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.
Una differenza fra contratto e accordo sta proprio nel fatto che l’accordo può assumere contenuto
patrimoniale o non. Riguardo alla normativa applicabile, la disciplina del contratto, in virtù della
sua forza espansiva, è applicata alle convenzioni e agli accordi (art. 1323-1324 c.c.).
14. Contratti e negozi unilaterali: tra tipicità e atipicità. Contrapposti ai contratti, agli accordi e
alle convenzioni sono i negozi unilaterali, dove vi è la presenza di una sola parte, ossia di un
solo centro d’imputazione giuridica del regolamento d’interessi.
Tali negozi il codice li definisce atti e per alcuni detta una disciplina particolare, per altri regola
solo determinati aspetti; per tutti quelli operanti inter-vivos e a contenuto patrimoniale (art. 1324
c.c.) il codice detta la disciplina dei contratti in generale.
È stata rivisitata la tassatività dei negozi unilaterali riconoscendone molti altri, definiti atipici,
come quelli inter-vivos a carattere patrimoniale.
La validità dei contratti atipici è naturalmente subordinata all’esito positivo del controllo di
meritevolezza di tutela dell’interesse dedotto.
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c. “Elementi essenziali” del negozio e “requisiti” del contratto
15. La parte. Il negozio giuridico presuppone l’esistenza di un soggetto legittimato a porlo in
essere, che assuma la qualità di soggetto del negozio giuridico.
In tal senso, non è concepibile un atto giuridico in mancanza di un soggetto esistente e
determinato; questi è essenziale al perfezionamento della fattispecie negoziale.
La parte è intesa come centro di interessi, assumendo il ruolo di portatore degli interessi
negoziali e, di regola, di destinatario degli effetti negoziali.
La parte si identifica in un soggetto o in una pluralità di soggetti; tale pluralità, tuttavia, non
nuoce alla configurazione di un'unica parte, perché questa è individuabile in base all’unicità
dell’interesse perseguito.
Le funzioni di parte della fattispecie e di parte del regolamento d’interessi sono normalmente
svolte da un medesimo soggetto.
Non è escluso però che le diverse componenti della vicenda negoziale siano attribuite o riferite a
soggetti distinti; un esempio è la rappresentanza.
Sotto altro punto di vista, l’assunzione della qualifica di parte del regolamento d’interessi
costituisce il presupposto per l’attribuzione della titolarità degli effetti negoziali.
Tuttavia, questi ultimi possono essere attribuiti direttamente anche ad un soggetto diverso, come
ad esempio nel contratto a favore di terzi o nel contratto per persona da nominare.
La determinazione e l’esistenza del soggetto sono necessarie nella conclusione di negozi a
carattere personale (intuitu personae), mentre per altri negozi il soggetto può anche essere
indeterminato o determinabile in futuro.
I soggetti sono identificati mediante l’uso dei segni rappresentativi della soggettività e della
personalità.
Il problema sorge nel caso una delle parti usi un nome fittizio: in questo caso il contratto
conserva la sua efficacia e la sua validità. Problema diverso è se si usa il nome di un’altra
persona, usurpandolo.
Esistono delle sanzioni per coloro che utilizzano il nome altrui per scopi economici: il contratto
può essere dichiarato nullo o annullabile, se si voleva eludere un divieto normativo oppure si
voleva ingannare la controparte.
16. Rappresentanza. Il procedimento di formazione delle fattispecie negoziali, di norma, è
dovuto alla diretta e personale partecipazione del titolare degli interessi regolati.
Spesso l’interessato non può o non vuole partecipare personalmente alla conclusione degli atti e
ciò determina l’intervento di un soggetto in sostituzione nell’atto negoziale.
Tra gli schemi usati, un ruolo preminente è svolto dall’istituto della rappresentanza.
Nella rappresentanza (art. 1388 c.c.), un soggetto (rappresentante), allo scopo di curare un
interesse altrui, compie un atto (rappresentativo) destinato a produrre effetti nella sfera
giuridico-patrimoniale di un soggetto diverso (rappresentato).
La rappresentanza si può applicare per i negozi giuridici aventi contenuto patrimoniale, ed anche
per gli atti giuridici in senso stretto; non si può applicare per gli atti personalissimi come il
matrimonio.
La rappresentanza diretta è caratterizzata dalla presenza di un rappresentante che è
legittimato ad agire per nome del rappresentato (spendita del nome) e per interesse dello stesso,
perché gli effetti dell’atto si producono direttamente sulla sfera giuridica del rappresentato.
Nella rappresentanza indiretta, un soggetto mandatario si obbliga a compiere un atto
giuridico per conto di un soggetto diverso (mandante), senza, però, manifestare l’altruità
dell’affare (mandato senza rappresentanza; art. 1705, 1706, 1707 c.c.); il rappresentante compie
un negozio per conto dell’interessato, ma questo negozio è concluso a nome proprio, cioè senza
spendere il nome del rappresentato.
Nell’acquisto di beni immobili, il mandatario è obbligato a trasferire i beni al mandante;
nell’acquisto di beni mobili o nella costituzione di diritti di credito, il mandante può rivendicare i
beni ed esercitare i crediti.
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Quindi, la differenza principale sta nel fatto che nella rappresentanza diretta, il rappresentato è
parte del regolamento contrattuale; nella rappresentanza indiretta, il rappresentante è parte del
regolamento contrattuale e il rappresentato è soltanto termine di riferimento degli effetti scaturiti
dal mandato.
Il potere rappresentativo può essere conferito dall’interessato (rappresentanza volontaria) o dalla
legge (rappresentanza legale).
La rappresentanza legale consiste nel conferire, da parte dell’ufficio di diritto civile, ad
un soggetto idoneo, la rappresentanza di soggetti incapaci legalmente (minore età e interdizione
legale) al fine di curare i loro interessi.
La rappresentanza organica è il potere di rappresentanza esercitato dagli enti legittimati
a compiere atti in nome del soggetto collettivo.
La rappresentanza volontaria esprime la volontà di un soggetto (rappresentato) a
legittimare un altro soggetto (rappresentante), mediante procura, ad agire nei suoi (del
rappresentato) interessi.
La procura è atto unilaterale, in quanto esprime la volontà di un solo soggetto ed è recettizio, in
quanto è rivolto ad un destinatario determinato (rappresentante) e non alla generalità dei terzi.
La procura è un atto unilaterale astratto, ma il fondamento causale della procura risiede
nell’interesse del rappresentato alla cooperazione altrui.
A differenza della procura, il mandato ha struttura bilaterale, perché disciplina il rapporto tra
rappresentante e interessato, dove il rappresentante-mandatario ha l’obbligo di compiere un atto
per conto del rappresentato-mandante.
La forma della procura è determinata dal tipo di contratto che il rappresentante deve concludere
(art. 1392 c.c.). La procura può essere:
• speciale, quando conferisce il potere di compiere un determinato atto
• generale, quando riguarda tutti gli atti o determinate categorie di atti relativi al
patrimonio del soggetto. La procura generale conferisce il potere di adottare solo atti di
ordinaria amministrazione.
La procura può essere revocata con conseguente estinzione del potere rappresentativo; può
essere modificata dal rappresentato con atto unilaterale (art. 1396 c.c.).
La revocabilità della procura è esclusa soltanto quando il potere rappresentativo soddisfa sia
l’interesse del rappresentato che quello del rappresentante.
Il potere rappresentativo si estingue oltre che per revoca anche per morte, incapacità
sopravvenuta, o fallimento del rappresentato o del rappresentante.
Il rappresentante partecipa al negozio mediante una propria dichiarazione che concorre a formare
il contenuto del regolamento.
La procura è diversa dall’ambasceria, perché in quest’ultima il soggetto (messo o nuncius) si
limita a trasmettere le decisioni dell’interessato.
Carattere della procura è la spendita del nome, ossia il rappresentante agisce in nome del
rappresentato; può essere tacita, basta che sia chiara e univoca.
Tuttavia, nei negozi solenni, la contemplatio domini (spendita del nome) deve essere manifestata
esplicitamente nel documento.
La spendita del nome può essere anche in bianco, quando il rappresentante dichiari l’altruità
dell’affare e la propria estraneità al regolamento negoziale ma senza indicare, nello stesso tempo,
l’esatta identità del rappresentato (rappresentanza incertam personam); l’identità
dell’interessato sarà manifestata al contraente soltanto in un momento successivo dal
rappresentato o mediante la nomina effettuata dal rappresentante (art. 1762 c.c.).
Ai fini della validità dell’atto, al rappresentante è richiesta la capacità naturale, di intendere e di
volere; al rappresentato è richiesta, invece, la capacità legale di agire.
I vizi della volontà sono causa di annullabilità solo se riguarda non il rappresentante.
L’abuso di potere consiste in un esercizio della rappresentanza difforme dalla funzione che gli è
propria a danno del rappresentato.
Posta a tutela del rappresentato vi è l’annullabilità del negozio, la quale, però, non può essere
rilevata d’ufficio dal giudice.
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È annullabile il contratto che il rappresentante conclude con sé stesso (art. 1395 c.c.), cioè
quando vi è un contraente che ha la duplice qualità di rappresentante e contraente in proprio.
L’abuso del rappresentante è escluso qualora vi sia stata preventiva autorizzazione del
rappresentato.
L’eccesso di potere del rappresentante è causa di inefficacia; esso consiste nell’eseguire
un potere di cui non si è legittimati. Può accadere che qualcuno contratti come rappresentante
altrui senza averne i poteri: è il caso del falsus procuràtor.
Se il falsamente rappresentato giudica conveniente l’affare, egli può ratificarlo, legittimando il
falsus procuràtor e consentendo la produzione degli effetti negoziali nella sua sfera.
La ratifica è il negozio unilaterale recettizio con il quale il falsamente rappresentato sana
il difetto di potere del rappresentante; essa può essere espressa o tacita e, come la procura, è
sottoposta ai requisiti di forma imposti per l’atto da ratificare.
La ratifica ha effetto retroattivo.
Nel caso in cui non vi è ratifica, il falsus procuràtor deve risarcire i danni al terzo contraente,
purché egli dimostri di essere all’oscuro della carenza di legittimazione del rappresentante.
I danni da risarcire sono: le spese, il pregiudizio sofferto, il venir meno dell’opportunità di
concludere altri negozi di analoga natura, ecc….
Fattispecie particolare riguarda la rappresentanza apparente: in base ad elementi
obiettivi, i terzi sono indotti senza colpa a credere che il contraente sia titolare di un potere
rappresentativo in realtà inesistente a causa del comportamento colposo dell’interessato.
Un esempio è quando il rappresentato ha consapevolmente tollerato il comportamento del
rappresentante senza potere, astenendosi da ogni azione diretta ad impedirne il compimento.
I terzi ricevono tutela in applicazione del principio del legittimo affidamento.
Le conseguenze della carenza di legittimazione sono a carico del rappresentato apparente in virtù
del principio dell’autoresponsabilità, perché l’atto produce egualmente effetti nei confronti del
rappresentato apparente.
17. Contratto per persona da nominare. Il contratto per persona da nominare consiste in un
contratto dove uno dei contraenti (stipulante), al momento della conclusione, si riserva la facoltà
di nominare in seguito il soggetto (nominato) che diverrà titolare del rapporto contrattuale nei
confronti della controparte (promittente).
Con questa clausola il 3° nominato (electus) acquista i diritti e assume gli obblighi scaturiti dal
contratto con efficacia retroattiva, cioè come se fosse sin dall’inizio l’unico e diretto destinatario
degli effetti contrattuali (art. 1404).
La mancata adozione di una valida dichiarazione di nomina non pregiudica il buon esito
dell’affare, dal momento che in tale ipotesi il contratto produrrà i suoi effetti nei confronti dei
contraenti originari (art. 1405).
Questo contratto non può essere catalogato fra i tipi di rappresentanza, perché in caso di
mancata nomina o accettazione della titolarità dei diritti, lo stipulante non pagherà i danni come
il falsus procuràtor, ma ne diverrà il titolare; altra differenza con la rappresentanza sta nel fatto
che con la nomina di un terzo si consuma la titolarità dello stipulante, attribuendola in via
definitiva e retroattiva all’electus: non si ha quindi una traslazione.
La dichiarazione di nomina (electio amici) è negozio giuridico unilaterale e recettizio
mediante il quale si produce la vicenda modificativa del rapporto; essa è soggetta a decadenza e
il termine (che deve essere certo e determinato) se non è convenzionale, è legale ed è di 3 giorni.
Il termine entro il quale può essere effettuata la dichiarazione di nomina è termine di decadenza e
non è rilevabile d’ufficio: se non vi è la nomina, la titolarità passa allo stipulante.
Il terzo soggetto acconsente alla nomina tramite l’accettazione che è un negozio
giuridico recettizio che può essere o contemporaneo alla dichiarazione di nomina, o atto separato
e quindi successivo.
La dichiarazione e l’accettazione, come la procura, devono avere la stessa forma del
contratto: in materia tributaria la nomina deve avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura
privata autenticata.
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La clausola per persona da nominare è applicabile a tutti i negozi tranne per quelli non
patrimoniali, intuitu personae, negozi modificativi o estintivi; la clausola è maggiormente usata
nello schema dei patti d’opzione o di un contratto preliminare per sé o per persona da nominare.
Articolo 1325 del codice civile:
1. accordo delle parti (art. 1326 ss.);
2. causa (art. 1343 ss.);
3. oggetto (art. 1346 ss.);
4. forma (art. 1350 ss.).
18. Volontà e manifestazione. La volontà è uno degli elementi fondamentali dell’atto negoziale;
infatti, il codice civile indica nell’art. 1325 l’accordo tra le parti nei requisiti del contratto.
Nella valutazione dell’atto negoziale si sono avuti accesi dibattiti se tenere in considerazione la
teoria della volontà, con la quale si valorizza la volontà interna ossia ciò che il disponente
realmente voleva, oppure considerare la teoria della dichiarazione, con la quale si valorizza la
volontà esterna manifestata dal dichiarante.
Anche se l’autonomia non è sempre legata alla volontà, quest’ultima continua ad essere
considerata il momento dinamico delle relazione giuridiche e quindi necessariamente essenziale.
Infatti, la mancanza della volontà produce la nullità dell’atto, e quando la volontà non è espressa
liberamente (cioè è viziata), l’atto è annullabile.
La dichiarazione diretta ad uno o più soggetti determinati si dice recettizia quando, per
produrre effetti, deve essere conosciuta dal destinatario o conoscibile mediante l’uso
dell’ordinaria diligenza (artt. 1374-1375); si dice non recettizia quando non è diretta a
determinati destinatari e produce immediatamente i suoi effetti (es. accettazione dell’eredità).
La dichiarazione espressa consiste non solo nelle parole, ma anche nei gesti, in segni
espressivi che, secondo la valutazione nell’ambiente sociale, sono idonei ad esprimere
immediatamente e direttamente la volontà; anche il silenzio può assumere valore di
dichiarazione.
La dichiarazione tacita comprende quelle dichiarazioni e quei comportamenti che
lasciano desumere in modo univoco e immediato la propria volontà (comportamento
concludente).
19. Comportamento concludente e attuativo. Con il comportamento concludente, l’agente
(inteso come colui che agisce) fa desumere la propria volontà in modo univoco e immediato; un
esempio è l’agente che va ad un self-service e si avvicina alla cassa con il vassoio.
Con il comportamento attuativo la volontà è intrinseca nell’immediatezza dell’esecuzione e la
volontà si realizza senza dichiarazione.
Se da un determinato comportamento si può desumere una volontà diversa da quella dell’agente,
egli la può escludere manifestando espressamente la sua volontà contraria (protestatio).
Il ricorso alla dichiarazione tacita di volontà è naturalmente escluso per quegli atti per i quali la
legge richiede la forma scritta o l’atto pubblico.
20. Autoresponsabilità e affidamento. L’autoresponsabilità è una regola generale di
comportamento secondo buona fede; essa postula che chi manifesta una concreta determinazione
negoziale resti legato alle conseguenze che da questa discendono, tutte le volte che la sua
dichiarazione possa apparire.
L’autoresponsabilità è vincolante in quanto “regola”.
Ai fini della validità dell’atto d’autonomia, la legge non richiede che la volontà intima del
soggetto risponda a quanto dichiarato, perché ciò che pensa e ciò che vuole sono un qualcosa di
proprio (riserva mentale), e quindi resta vincolato alla sua dichiarazione.
La tutela dell’affidamento si ha quando un soggetto ha confidato nel contegno della
controparte e tale fiducia si fonda su circostanze oggettive ragionevoli.
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Il principio dell’apparenza giuridica tutela e protegge, a differenza dell’affidamento, lo stato di
fiducia dell’altro soggetto in buona fede.
21. Mancanza e vizi della volontà: rinvio. La volontà è un elemento essenziale dell’atto
d’autonomia e si traduce in una manifestazione che abbia il carattere di un serio impegno sul
piano sociale e che ad un tempo sia riconducibile da parte dei terzi.
Essa è un elemento essenziale, in quanto il legislatore dispone che in presenza di alcune
circostanze è possibile chiedere l’annullamento dell’atto negoziale.
22. Causa. La causa è uno degli elementi essenziali del contratto ed è tutelato dalla legge, in
quanto lecita e meritevole di tutela.
Nel caso la causa fosse illecita e immeritevole di tutela, l’ordinamento sanziona ciò con la nullità
del contratto.
Il vigente ordinamento ha accolto il principio della causalità negoziale che, dettato dalla legge
in sede contrattuale, opera anche per i negozi unilaterali.
La causa non è solo un elemento essenziale del contratto, ma è intesa anche come quid
(qualcosa) che illumina il contratto, un quid che svolge la funzione di regolamento di interessi.
Difatti, alla causa è ricondotta una pluralità di funzioni: una funzione economico-sociale, una
sintesi degli effetti essenziali, una funzione economica-individuale, giustificazione dello
spostamento patrimoniale, ecc….
Con il codice del 1865 si aveva una concezione soggettiva della causa; il contratto era visto
come un’obbligazione e la causa si risolveva nel raggiungimento degli interessi, cioè il contratto
era valutato dal punto di vista dei contraenti.
Con l’entrata in vigore del codice civile del 1942, il contratto non è visto più come una mera
obbligazione e la causa si risolveva prima nella ragione economica-giuridica del negozio, in
seguito nella ragione economico-sociale riguardante quegli atti negoziali che realizzano una
funzione di utilità sociale e la quale causa (tipica) è già disciplinata dall’ordinamento.
La causa aveva il ruolo di controllare che i fini perseguiti dai contraenti fossero coerenti con
quelli generali fissati dall’ordinamento.
Si ha quindi uno spostamento della valutazione del contratto dal punto di vista dei contraenti, a
quello dell’ordinamento (concezione oggettiva).
Un errore che è stato commesso da molti studiosi è quello di ritenere uguali la causa e il tipo, che
è lo schema astratto-regolamentare; per non incorrere in tale errore, nella causa si intravede
anche la funzione economico-individuale, cioè la reale partecipazione delle parti all’operazione.
L’ordinamento divide i contratti tipici da quelli atipici.
I contratti tipici sono quei contratti caratterizzati da una fattispecie disciplinata e da una causa
tipica con schemi previsti; bisogna distinguere la causa in astratto e la causa in concreto.
Per quanto riguarda la causa in astratto, se si tratta di contratto tipico non si pone un problema
di mancanza di causa che invece si pone per quanto riguarda la causa in concreto (es: nullità
della fideiussione per inesistenza del debito garantito).
Il problema della causa in astratto si pone per i contratti atipici, cioè quei contratti che sono
caratterizzati da una fattispecie non disciplinata e da una causa atipica, dove il giudice dovrà
accertare se nel contratto ricorre il requisito della causa.
La causa è la funzione giuridica fissata dalla sintesi degli effetti giuridici diretti ed essenziali del
contratto; essa (la causa) è costituita dall’incontro del concreto interesse con gli effetti del
contratto.
Per sintesi si intende la relativizzazione degli effetti con riferimento al concreto negozio.
Questa funzione giuridica non si risolve in tutti gli effetti riconducibili alla fattispecie, ma solo
alla sintesi di quelli essenziali.
Ogni tipologia contrattuale non è possibile ricondurla ad una causa predeterminata, perché, ad
esempio, in una pluralità di compravendite è possibile riscontrare non un’identità di tipo
contrattuale, ma una pluralità di cause.
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Nel caso la causa fosse predeterminata per ogni tipo di contratto ad esempio una compravendita
non potrebbe mai presentarsi una causa illecita, che invece potrebbe manifestarsi per i contratti
atipici.
Il negozio indiretto, inteso come uno schema tipico per raggiungere uno scopo non
riconducibile a quel dato tipo negoziale, non rappresenta una situazione anomala, però è
sottoposto a controlli di liceità e meritevolezza.
Il negozio indiretto è una connessione di più negozi al fine di ottenere un risultato che è diverso
da quello che persegue ogni singolo negozio, senza eludere il divieto di una norma imperativa.
La causa nella compravendita è il trasferimento della cosa contro il corrispettivo del prezzo, il
motivo è tutto ciò che ha spinto i contraenti alla conclusione del contratto.
Il motivo quindi costituisce il concreto interesse di una o di entrambe le parti ed esso non è
dedotto nel regolamento da esse (le parti) predisposto; il motivo è rilevante solo se illecito e
comune ad entrambi le parti del contratto ed è rilevante non solo in chiave patologica.
L’atto ha meritevolezza soltanto qualora risponde ad una funzione giuridicamente e socialmente
utile, poiché la mancanza o l’illiceità della causa producono la nullità del contratto.
I negozi astratti, svincolati dalla causa (nel senso che se la causa manchi o sia illecita, ciò non
priverebbe al negozio di produrre gli effetti giuridici), sono meramente teorici, non esistendo
alcuna disposizione che discorre di astrattezza.
La natura causale di un negozio non viene meno per il semplice fatto che la causa non è
espressamente indicata, perché essa la si deduce mediante il processo di interpretazione e
qualificazione.
Tuttavia bisogna dividere il caso di astrattezza piena o assoluta dal caso di astrattezza semplice o
relativa, dove nel caso di astrattezza semplice o relativa ossia di negozi provvisti di causa, essi
producono gli effetti anche se non sorretti da una causa lecita e meritevole di tutela.
23. Oggetto. L’oggetto è tra i requisiti essenziali del contratto (art. 1325 c.c.); non è facile
definirlo in un modo specifico, in quanto, può essere considerato oggetto sia una cosa materiale
che una cosa immateriale, sia una prestazione che un diritto, ecc….
Innanzitutto bisogna distinguere l’oggetto del negozio dall’oggetto dell’obbligazione (o del
rapporto): il primo indica un elemento della fattispecie, la cui mancanza o patologia
(dell’elemento = oggetto) determina l’invalidità della fattispecie; il secondo, invece, indica un
elemento del rapporto che scaturisce dall’atto, la cui mancanza o patologia (dell’elemento =
oggetto) non determinano vizi genetici della fattispecie ma anomalie che sorgono al momento
della fase attuativa o esecutiva del contratto e possono (queste anomalie) essere causa di
risoluzione.
L’oggetto del contratto o del negozio individua una categoria logica e non un’entità materiale,
perché quest’ultima è estranea alla struttura dell’atto, in quanto, costituisce o l’effetto o il
termine di riferimento.
L’oggetto del contratto o del negozio è un requisito della fattispecie, la cosa sul quale si
manifesta la volontà e si forma il consenso.
I negozi su beni futuri hanno ad oggetto la vendita di beni futuri come, ad esempio, i frutti di un
raccolto e la proprietà passerà dal venditore al compratore nel momento in cui la cosa sarà venuta
ad esistenza; è, invece, vietato donare cose future.
Nei negozi l’oggetto può essere determinato in modo generico o da determinarsi per
relationem; quando è determinato per relationem, l’oggetto è valutato successivamente su
accordo delle parti da una fonte esterna.
Un esempio è la valutazione di una cosa su cui i due contraenti non riescono a trovare un valore
comune: essa è stimata a valore di mercato o può essere stimata da un terzo incaricato a valutarla
a valore di mercato o sulla base del suo insindacabile arbitrio (arbitraggio).
I requisiti dell’oggetto, indicati dall’articolo 1346 del codice civile, sono: la liceità, la possibilità
e la determinatezza o determinabilità.
• Possibilità: l’oggetto del contratto deve essere possibile. La possibilità può essere
materiale e giuridica: per quanto riguarda la possibilità materiale, l’oggetto è
impossibile quando si tratta di una cosa che non esiste oppure di una prestazione
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materialmente ineseguibile; per quanto riguarda la possibilità giuridica, l’oggetto è
impossibile quando esso non è per legge una cosa che può formare oggetto di diritto
(corpo umano). Sono giuridicamente impossibili anche i beni che la legge dichiara
inalienabili o fuori commercio (beni demaniali).
• Determinatezza o Determinabilità: l’oggetto è determinato quando è possibile ed è
certa la sua identificazione; l’oggetto è determinabile quando, con stime di mercato o
con metodi enunciati nel contratto, è possibile stimarlo e determinarlo.
• Liceità: l’oggetto è illecito quando la cosa dedotta in contratto è il prodotto o lo
strumento di attività contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon
costume, o quando la prestazione dedotta in contratto è attività vietata.
L’illiceità della causa è differente da quella dell’oggetto, perché quella della causa investe la
funzione del contratto: il contratto può avere un oggetto lecito e tuttavia una causa illecita.
Il contenuto è lo stesso atto nel suo complesso, l’insieme delle pattuizioni.
Nel contenuto bisogna discernere l’oggetto dalla causa: difatti, la medesima prestazione può
essere oggetto di contratti che hanno causa diversa, in quanto, la condotta dell’obbligato è la
stessa, ma le cause sono diverse.
24. Forma. La forma in senso lato, indica il veicolo mediante il quale le parti esteriorizzano le
loro manifestazioni di volontà, in senso stretto è il documento (atto pubblico o scrittura privata)
dal quale risulta la manifestazione di volontà.
Il nostro ordinamento è governato dal cosiddetto principio della libertà delle forme, dove le
parti possono scegliere qualsiasi forma desiderino per manifestare le loro volontà.
A tale principio fanno eccezione quei contratti dove la forma è prescritta dall’ordinamento pena
la nullità del contratto.
Questi contratti sono quelli immobiliari: contratti che trasferiscono la proprietà o altri diritti reali
su beni immobili.
Al principio della libertà delle forme non è immediatamente riconducibile la mancanza di una
norma che prescrive anticipatamente la forma richiesta, perché è più giusto parlare di una
contrapposizione tra i contratti senza forma, ossia contratti che hanno come requisiti l’accordo,
l’oggetto e la causa, e i contratti con la forma, ossia quei contratti che a questi tre requisiti
aggiungono quello della forma. In realtà, le previsioni di forma hanno natura regolare o
eccezionale e disciplinano concreti negozi, dove l’interprete deve individuare gli interessi che
giustificano la previsione e verificare la loro meritevolezza di tutela.
La forma sul piano giuridico assolve due funzioni:
• le forme ad substantiam condizionano la validità del negozio tanto da determinare la
nullità dell’atto nell’ipotesi di una sua (della forma) violazione;
• le forme ad probationem, dove il mancato rispetto della trascrizione incide sui limiti
dell’ammissibilità della prova, escludendo la prova testimoniale e quella per presunzione.
La forma può essere orale o scritta; la forma scritta può consistere in un atto pubblico o in una
scrittura privata. L’atto pubblico è redatto dal notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato.
La scrittura privata è redatta e scritta dalle stesse parti ed è perfettamente valida; essa può
essere anche autenticata dal notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato e l’autenticazione
è usata come mezzo di prova.
Per alcuni contratti è richiesta la forma solenne (art. 1350 c.c.), che può essere scrittura privata o
atto pubblico; in alcuni casi (donazione, s.p.a., s.r.l.) è richiesto necessariamente l’atto pubblico.
È riconosciuto come forma scritta legale anche il documento informatico.
Per i contratti solenni, la forma scritta è il presupposto della loro pubblicità (trascrizione o
iscrizione); essi devono, in ogni modo, rappresentare la diretta esternazione della volontà delle
parti.
A volte, la forma scritta è voluta dalla legge per la sola pubblicità, come nel contratto di vendita
di autoveicoli, che si può perfezionare anche con una stretta di mano.
Tuttavia, per la trascrizione nel P.R.A. occorre una dichiarazione autenticata del venditore.
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Altra funzione che svolge la forma è l’opponibilità ai terzi degli effetti del contratto (es: la
vendita mobiliare con riserva di proprietà non è opponibile ai creditori dell’acquirente se non
risulta da atto scritto anteriore al pignoramento, in quanto l’acquirente acquista la proprietà del
bene solo con il pagamento dell’ultima rata).
In alcune ipotesi la forma risolve un conflitto fra più terzi, come, per esempio, nel conflitto fra
più cessionari, dove prevale colui che ha trascritto la cessione del credito per primo.
Importante è il rapporto tra forma e contenuto: il contenuto minimo riguarda lo schema
predisposto dalla legge, il contenuto effettivo riguarda le determinazione contrattuali comprese
le clausole accessorie volute dalle parti.
La forma solenne investe solo il contenuto minimo, cioè ad esempio nella vendita di un bene
immobile, la forma riguarda l’intento dispositivo, l’oggetto e il prezzo; le altre clausole possono
essere redatte in altra forma.
Tra le forme si annoverano:
• il telegramma, che ha l’efficacia della scrittura privata quando è sottoscritto dal mittente
o con firma autenticata dal notaio;
• il telex è equiparato allo scritto di cui però non si può verificare la veridicità in quanto
non richiede l’intervento di un terzo;
• il telefax è una riproduzione meccanica di cui si conosce il responsabile ma non l’autore;
non può essere utilizzato per la conclusione di un contratto solenne.
Per quanto riguarda la relatio, il contenuto del negozio è completato da altri elementi, esterni
però al contenuto.
Nei casi di negozi senza forma, il problema non si pone, purché questi elementi non riguardino la
causa e l’oggetto; nei casi di negozi solenni, questi elementi non devono riguardare il contenuto
minimo.
Per la determinazione del tasso di interesse in misura superiore a quello legale, la legge esige la
forma scritta.
La forma dei cosiddetti negozi collegati deve essere uguale alla forma di quello principale;
esempi sono: la procura, la ratifica e il contratto preliminare.
La sottoscrizione ha la funzione di individuare gli autori; essa deve essere autografa e idonea ad
individuare il sottoscrittore.
La mancanza di una sottoscrizione di una scrittura privata può essere surrogata con la produzione
in giudizio della scrittura ad opera del soggetto che non l’ha sottoscritta.
La legge attribuisce alle parti il potere di determinare con patto scritto la forma del contratto,
qualora la forma sia libera; tuttavia la forma dell’atto negoziale richiede un controllo di
meritevolezza finalizzato ad assecondare i valori fondamentali dell’ordinamento.
L’art. 1352 del c.c. afferma che se le parti hanno preventivamente deciso per iscritto una
determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che quella determinata
forma sia richiesta per la validità dell’atto.
Tuttavia l’art. 1352 c.c. appare parziale e difettoso, in quanto alimenta incertezze e dubbi perché
manca la regolamentazione di importanti fattispecie.
La forma scritta non è richiesta solo per la validità, ma anche per la produzione di determinati
effetti nei casi di interpretazione e di revoca.
I patti dubbi sono quegli atti negoziali le cui parti hanno determinato le loro modalità future, ma
non la funzione che tali atti assolvono; in questo caso la giurisprudenza, per risolvere il
problema, utilizza le norme generali sull’interpretazione dei contratti (art. 1362 ss c.c.).
Nella pratica accade che le parti si obbligano a ripetere in atto pubblico un contratto solenne in
scrittura privata per permettere la trascrizione dell’atto; di fronte all’inadempimento del
contraente, l’altro non può agire con l’azione prevista per gli obblighi a contrarre, perché il
contratto concluso è definitivo. Tuttavia può chiedere l’azione di accertamento dell’autenticità
della sottoscrizione.
La rinnovazione si può avere per due ipotesi:
1. le parti eliminano il precedente negozio ex tunc (da allora) perché ad esempio affetto da
nullità, sostituendolo con uno successivo identico al primo con efficacia ex nunc
(d’adesso) creandosi uno spostamento temporale del negozio;
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2. le parti eliminano il precedente negozio ex tunc, sostituendolo con un nuovo negozio ex
nunc che però non ha continuità di effetti con il primo.
d. Strumenti dell’autonomia negoziale: profilo dinamico
25. Formazione dei contratti (art. 1326 ss.). La tecnica dello scambio dei consensi è un
procedimento idoneo a produrre regole contrattuali.
Esso postula che due o più persone si accordano sul contenuto del contratto che intendono
concludere. Se le parti sono persone presenti non sorgono problemi relativi ai tempi, ai modi, e al
luogo; se invece lo scambio avviene tra persone distanti, il contratto è concluso nel momento
dell’accettazione dell’altra parte e il luogo della conclusione del contratto è quello dove il
proponente ha conoscenza dell’accettazione.
La proposta è l’atto prenegoziale con il quale una parte prospetta (propone) all’altra il contenuto
del contratto; tale contenuto deve essere completo ed espresso nella forma richiesta per la
validità del contratto.
Quando la proposta è incompleta, l’altra parte sollecita il proponente a precisare un elemento
mancante, diventando così un invito a proporre.
La proposta è rilevante quando rappresenta la volontà definitiva del proponente ed è trasmessa
all’altra parte.
L’accettazione esprime la volontà di vincolarsi al programma contrattuale della proposta: in
caso di un’accettazione parziale o modificativa l’accordo si potrebbe considerare perfezionato.
L’accettazione non conforme vale come nuova proposta o controproposta e vale come
controproposta anche un’accettazione del contenuto del contratto, ma non espressa nella forma
richiesta dal proponente.
L’efficacia della proposta ha un termine che è stabilito o dalle parti in accordo oppure è
determinato secondo natura del contratto; il proponente può ritenere valida l’accettazione
tardiva salvo l’obbligo di darne immediatamente comunicazione all’accettante (oblato).
La proposta e l’accettazione sono revocabili fino a quando il contratto non sia concluso:
la revoca della proposta deve essere inviata all’oblato prima che la sua accettazione arrivi a
conoscenza del proponente; la revoca dell’accettazione deve giungere a conoscenza del
proponente prima che giunga l’accettazione.
L’art. 1328 c.c. dispone che se l’oblato, dopo l’accettazione e prima di venire a conoscenza della
revoca, ha iniziato in buona fede l’esecuzione, ha diritto ad essere indennizzato per le spese e
perdite subite.
L’art 1335 dispone una presunzione quella di conoscenza: la proposta, l’accettazione, la loro
revoca e ogni altra dichiarazione diretta ad una determinata persona, si reputano conosciute nel
momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario anche se questi per cause a lui non
imputabili prova di essere stato nell’impossibilità di averne notizia.
La proposta irrevocabile è atto unilaterale, preparatorio, che ha efficacia per un tempo
determinato e vincola immediatamente chi la compie; la sua finalità sta nel fatto che il
destinatario di tale offerta ha un determinato tempo in cui decidere, sapendo però che il
proponente non modificherà i termini della proposta, come ad esempio l’aumento del prezzo
oppure di non proporre ad altri l’affare.
La proposta e l’accettazione decadono per morte o incapacità sopravvenuta del proponente
prima della conclusione del contratto; non decadono però se vengono fatte dall’imprenditore
nell’esercizio dell’impresa.
Ci sono dei contratti che hanno un’esecuzione anticipata: sono quei contratti che su richiesta del
proponente o per la natura dell’affare non necessitano di una preventiva accettazione per iniziare
un’esecuzione.
Nel momento in cui l’oblato avvia l’esecuzione, il contratto s’intende concluso nel tempo e nel
luogo d’inizio dell’esecuzione e il proponente non può più avvalersi del diritto di revoca.
L’oblato può concludere il contratto senza attendere che l’accettazione giunga alla controparte,
ma ha l’obbligo di mettere a conoscenza il proponente dell’avviata esecuzione, pena il
risarcimento del danno.
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L’art 1336 dispone dell’offerta al pubblico; essa è un diverso procedimento di formazione del
contratto.
La proposta non ha un destinatario prestabilito ma è diretta a chiunque ne abbia conoscenza.
Ai fini della conclusione del contratto è sufficiente che chi abbia interesse all’acquisto lo
manifesti con l’accettazione.
Il proponente può revocare la proposta con gli stessi mezzi in cui ha manifestato l’offerta.
L’offerta al pubblico si differenzia dalla promessa al pubblico, perché la promessa è negozio
unilaterale immediatamente vincolante per chi lo compie, mentre l’offerta è soltanto una
proposta revocabile e priva di effetti negoziali che però si possono verificare con l’accettazione.
L’art 1333 disciplina la formazione del contratto con obbligazione a carico del solo
proponente; esso è per definizione a titolo gratuito, ma non è mosso necessariamente da spirito
di liberalità.
L’interesse del proponente può avere contenuto economico oppure un contenuto di aspettativa
come nel caso della pubblicità.
La proposta è irrevocabile anche in assenza di un termine ed il contratto si reputa concluso se
l’oblato non rifiuti nel termine richiesto dalla natura dell’affare o degli usi.
Il contratto con obbligazione a carico del solo proponente è detto anche contratto unilaterale.
Si tratta pur sempre di un negozio bilaterale, che si perfeziona mediante comportamenti riservati
ad entrambe le parti: l’unilateralità si riferisce non al numero delle parti, ma alla circostanza che
la prestazione è a carico di una sola di esse (del solo proponente) (tesi di bilateralità e
unilateralità).
Il contratto con sé stesso o l’autocontratto è sicuramente bilaterale, perché il regolamento di
interessi è riferito a due parti, al rappresentante e al rappresentato.
Molti problemi recano i contratti informatici; essi sono stipulati tramite macchine e rendono
difficile l’imputazione degli effetti del contratto, la valutazione della dichiarazione e la presenza
dei vizi della volontà. Quindi il contratto può essere concluso in due ipotesi:
1. mediante l’uso di tessere magnetiche con digitazione di un codice segreto; l’identificazione
dell’utente sta nel possesso della tessera e nella conoscenza del codice segreto.
2. L’utente ha l’onere di conservare la tessera e mantenere la segretezza del codice; nei casi in
cui l’utente smarrisce o si vede sottratta la scheda, deve tempestivamente comunicare alla
controparte il fatto. Per quanto riguarda i vizi di volontà, l’uso del calcolatore richiede che il
soggetto sia cosciente e ciò esclude l’ipotesi di incapacità naturale.
3. mediante l’uso di terminali; l’identificazione è fatta presupponendo la personalità del
terminale e i vizi possono essere riscontrati nella dichiarazione e nel suo contenuto.
La revoca è applicabile alla proposta e non all’accettazione.
In entrambi i casi, la dichiarazione è imputata direttamente al mandante in virtù dell’utilizzo
dell’elaboratore e senza la necessità di una sostituzione formale.
Altri problemi riguardano i contratti via internet, dove è richiesto un minimo di informazione
sull’oggetto o sul servizio offerto affinché il messaggio pubblicitario sia riconosciuto come
proposta.
Tuttavia se manca tale informazione, il contratto non è concluso anche se l’operatore accetta. I
contratti via internet hanno la medesima disciplina dell’offerta al pubblico.
Come ben sappiamo, il contratto si perfeziona con l’accordo delle parti; da quel momento esso
produce i suoi effetti.
Tuttavia ci sono casi in cui tale accordo è necessario ma non sufficiente, in quanto il contratto,
per perfezionarsi, necessita della consegna della cosa. Sono chiamati contratti consensuali quei
contratti che si perfezionano con il solo accordo delle parti; sono chiamati contratti reali quei
contratti che per perfezionarsi necessitano non solo dell’accordo delle parti ma anche della
consegna della cosa. Esempi di contratti reali sono il comodato, il deposito, ecc….
La categoria dei contratti reali è eterogenea.
Nei contratti standard, il regolamento contrattuale è integralmente disposto da uno dei
contraenti, di solito l’imprenditore.
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26. Trattative, buona fede e responsabilità cosiddetta precontrattuale. L’art. 1337 c.c. dispone
che le parti hanno il dovere di comportarsi secondo buona fede nelle trattative e nella
conclusione del contratto.
Le trattative, caratterizzate da una sequenza di proposte e contro-proposte, s’identificano in
inviti ad offrire, a loro volta preceduti da informazioni che illustrano alla controparte i vantaggi
connessi alla conclusione del contratto.
Circa il dovere di buona fede, un elemento essenziale è l’informazione o meglio del dovere del
contraente d’informare la controparte.
Esempio tangibile dell’importanza del dovere d’informazione lo si riscontra in alcuni casi
particolari come le prestazione mediche o i contratti finanziari.
Il paziente e il risparmiatore non sono normalmente in grado di valutare i propri interessi, perché
questi ultimi (gli interessi) sono rimessi a dati tecnici a loro sconosciuti.
Spetta al contraente (medico o promotore finanziario) tecnicamente consapevole di selezionare i
dati da fornire in modo comprensibile alla controparte.
Il dovere autonomo d’informazione non è un semplice momento della formazione del consenso
contrattuale, perché riguarda interessi costituzionalmente rilevanti, ed infatti alcuni doveri
d’informazione sono sanciti dalla legge, e di altri si auspica l’imposizione.
Di rilevante importanza non è soltanto il dovere d’informazione, ma anche la trattativa in sé, in
quanto considerata dato essenziale per la validità di clausole, altrimenti qualificate vessatorie.
La clausola opera nell’interesse di una sola delle parti, poiché l’altra parte è comunque vincolata.
L’obiettivo che si vuole raggiungere è un procedimento di formazione del contratto che
riequilibri i rapporti tra gli imprenditori e i consumatori, in quanto questi ultimi sono
fisiologicamente sbilanciati per la maggiore forza contrattuale dei primi.
Criterio generale per valutare la condotta delle parti è la buona fede intesa in senso oggettivo,
perché è indifferente parlare di buona fede o correttezza.
La responsabilità cosiddetta contrattuale o per culpa in contraendo è applicata nelle ipotesi di
recesso ingiustificato dalle trattative.
Oggetto di valutazione è il legittimo affidamento che una parte fa nell’altra tanto da rinunciare ad
altri affari o a fare spese in funzione della conclusione del contratto.
Eguale responsabilità grava alla parte che non abbia informato la controparte della conoscenza
delle cause d’invalidità del contratto oppure alla parte che abbia accettato tale contratto pur
riconoscendo un errore nella proposta del contraente.
La dottrina si mostra poco sensibile per quanto riguarda i doveri d’informazione delle cause che
non riguardano l’invalidità, in presenza di contratti validamente conclusi.
Il dovere di buona fede è fonte di responsabilità perché nel caso non venga rispettato esso
produce un risarcimento del danno; il problema è stabilire se il risarcimento del danno deriva da
una fonte contrattuale o extracontrattuale.
La dottrina prevalente afferma che il risarcimento del danno deriva da fonte extracontrattuale,
ossia da fatto illecito, che ha preceduto o accompagnato la formazione del contratto e quindi la
liquidazione del denaro è regolata dalle norme del fatto illecito; una tesi minoritaria afferma che
la responsabilità precontrattuale è da intendersi come responsabilità contrattuale e quindi il
risarcimento del danno è liquidato per l’inadempimento dell’obbligazione di comportarsi
secondo buona fede nelle trattative e nella formazione del contratto.
e. Vincoli nella formazione dei contratti
27. Vincoli alla libertà di contrarre. Nel trattare l’autonomia contrattuale si è fatto cenno ai
limiti delle singole libertà contrattuali; tra queste rilievo particolare assumono i vincoli che
limitano o regolano l’esercizio delle libertà nella fase delle formazione del contratto.
Queste libertà sono: la libertà di contrarre o no, la libertà di scegliere con chi concluderlo, la
libertà di determinare il contenuto.
La libertà di contrarre o no è tuttavia limitata nel caso di un obbligo alla conclusione del
contratto, che abbia la sua fonte o nella legge (obbligo legale a contrarre), o nella volontà delle
parti (obbligo negoziale a contrarre).
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28. Segue. Obblighi legali a contrarre. L’obbligo legale a contrarre non è incompatibile con la
natura contrattuale; esso non si costituisce per legge, cioè non si verifica una sostituzione della
legge alla volontà dei privati, ma è una limitazione della libertà contrattuale derivante
dall’esigenza di tutelare determinati interessi.
Con l’obbligo legale a contrarre si vuole tutelare il soggetto (es: consumatore) che o non ha la
possibilità di scegliere la controparte o è costretto a fare tale scelta tra imprese che non operano
in regime di concorrenza.
Al fine di evitare discriminazioni e favoritismi, la legge affianca all’obbligo legale a contrarre, la
parità di trattamento di tutti i contraenti; a tali obblighi sono tenuti quegli enti che operano
per legge in una situazione di monopolio legale (Enel) e quegli enti che esercitano servizi
pubblici (trasporti pubblici).
Nei casi di rifiuto a contrarre il contraente debole (es: consumatore) ha la possibilità di richiedere
oltre al risarcimento del danno anche l’esecuzione in forma specifica
29. Segue. Patto di opzione. L’opzione (art. 1331 c.c.), di natura convenzionale, crea un vincolo
unilaterale nella formazione del contratto; il patto d’opzione è il contratto con il quale una parte
(concedente) rimane vincolata alla propria dichiarazione e l’altra (opzionario) ha la facoltà di
accettare tale dichiarazione entro un certo termine.
È un obbligo convenzionale a contrarre. Se le parti non hanno fissato un termine, questo viene
stabilito dal giudice secondo la regola generale (art. 1183 c.c.).
Vi sono delle differenze tra il patto d’opzione e la proposta irrevocabile:
1. nell’opzione, il vincolo dell’irrevocabilità della proposta risulta non da un impegno
assunto unilateralmente, come nella proposta irrevocabile, ma da un accordo delle parti;
2. l’opzione può essere o un patto autonomo o un patto accessorio ad un contratto più
vasto (es: leasing) e può essere oneroso quando è previsto un corrispettivo (c.d. premio)
a carico dell’opzionario; la proposta irrevocabile, invece, non può avere carattere
oneroso, in quanto atto unilaterale del proponente.
3. l’opzione, a differenza della proposta forma o irrevocabile, può costituire oggetto di
cessione ad un terzo: tale cessione può avvenire a titolo oneroso e l’opzione viene
considerata come un bene sottoponibile a circolazione.
Vi è anche una differenza tra il patto d’opzione e il contratto preliminare: nel patto d’opzione,
l’opzionario può accettare oppure o no la dichiarazione del concedente e quindi ha la libertà di
stipulare o no il contratto definitivo; il contratto preliminare, invece, vincola le parti oppure una
sola di esse all’obbligo di stipulare il contratto definitivo.
Nel caso in cui l’esercizio d’opzione è impedito o reso impossibile ad esempio per distruzione
del bene, le conseguenze sono disciplinate dalla responsabilità precontrattuale, in quanto il
concedente è in una situazione di soggezione e non di obbligo.
L’opzione non è suscettibile a trascrizione.
30. Segue. Contratto preliminare. Il contratto preliminare è il contratto con il quale le parti, o
anche una sola di esse, si obbligano a concludere un successivo contratto; esso, di natura
convenzionale, è un contratto con effetti obbligatori che determina il contenuto essenziale del
contratto definitivo.
Il contratto preliminare è utilizzato maggiormente per i contratti reali ed un esempio classico è il
preliminare di vendita, dove non si trasferisce la proprietà della cosa, ma sorge l’obbligazione
per una parte di comprare e per l’altra di vendere.
Una volta adempiuto il preliminare, le parti concluderanno il contratto definitivo dove si avrà il
trasferimento della proprietà.
Il preliminare è considerato incompatibile con la donazione, in quanto, rendendola obbligatoria,
viene meno la liberalità propria della stessa.
Le ragioni che inducono le parti a stipulare un contratto preliminare sono varie: ad esempio, il
compratore non dispone ancora dell’intera somma necessaria per il pagamento del prezzo, altro
esempio è l’esigenza di precisare qualche oggetto accessorio del contratto, ecc….
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Qualora una delle parti non adempia il preliminare, l’altra parte può rivolgersi al giudice ed
ottenere, se il preliminare non lo esclude, l’esecuzione forzata dell’obbligazione di contrarre: il
giudice emetterà una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso.
Nel caso di un preliminare di vendita, la sentenza, cha ha natura costitutiva, trasferisce la
proprietà del bene dal promittente venditore al promittente compratore e attribuisce al
promittente venditore il diritto ad ottenere il pagamento del prezzo.
L’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre (art. 2932 c.c.) è una novità del vigente codice,
in quanto prima tale soluzione era reputata incompatibile con il principio di libertà di contrarre e
si riconosceva solo il risarcimento del danno.
Per quanto riguarda la forma, l’articolo 1351 disciplina che il contratto preliminare deve avere la
stessa forma del contratto definitivo, pena la nullità; il preliminare di vendita di beni immobili
deve essere fatto per iscritto, pena la nullità.
Al fine di tutelare gli interessi sottesi al contratto preliminare, il legislatore permetteva la
trascrizione della domanda giudiziale; questa forma di tutela era utilizzata perché non era
possibile trascrivere un contratto con effetti obbligatori (contratto preliminare).
In seguito, il legislatore ha introdotto una forma di tutela ulteriormente rafforzata, consentendo la
trascrizione dello stesso contratto preliminare, in quanto riconosciuto come segmento di un
procedimento che giunge alla nascita di un contratto ad effetti reali.
La trascrizione del preliminare viene cos’ a determinare una prenotazione da valere ai fini di
pubblicità.
In passato vigeva il cosiddetto principio dell’intangibilità del preliminare, il quale asseriva
che una sentenza costitutiva del giudice non poteva modificare il contenuto del contratto
preliminare; oggi, invece, è ammessa una riduzione del prezzo pattuito nel preliminare nei casi di
vizi o di difformità della cosa.
La differenza tra contratto preliminare e contratto preliminare improprio o compromesso è
che quest’ultimo contiene un accordo definitivo con l’impegno a documentarlo successivamente
nella forma prevista. In ipotesi di inadempimento, la sentenza del giudice non procede
all’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, ma mira ad accertare la paternità della
sottoscrizione al fine di rendere possibile la trascrizione.
Il contratto preliminare è unilaterale quando l’obbligo a concludere il definitivo è a carico di
una sola delle parti; il contratto preliminare unilaterale si differenzia dall’opzione, perché
quest’ultima non richiede una nuova manifestazione del consenso della parte obbligata.
Per accordo delle parti, alcuni effetti possono essere anticipati rispetto alla conclusione del
contratto definitivo, come, ad esempio, il pagamento del prezzo.
31. Segue. Negozio fiduciario e trust. Il negozio fiduciario è una combinazione di effetti reali e
obbligatori, e si ha quando un soggetto (fiduciante) trasferisce ad un altro (fiduciario) la
proprietà di un bene, imponendogli con apposito patto (pactum fiduciae) l’obbligo di
ritrasferirgli in futuro il diritto o di trasferirlo ad un terzo o di farne uso secondo le direttive
impartite.
Con questo negozio il fiduciario acquista la proprietà formale del bene e il fiduciante conserva la
proprietà sostanziale del bene in quanto l’effetto reale del trasferimento è limitato con patto
obbligatorio. Esempi di negozi fiduciari sono:
• fiducia cum amico, quando il fiduciario deve a sua volta investire un terzo per la fiducia
• fiducia cum creditore, quando il debitore (fiduciante) per garantire il suo creditore
(fiduciario), gli trasferisce la proprietà di un bene, con l’impegno che, al momento
dell’adempimento, il fiduciario gli ritrasferisca il bene. Tale patto è lecito se non
presenta gli estremi del patto commissorio;
• gestione fiduciaria, quando il proprietario di azioni o di altri valori mobiliari li
trasferisce fiduciariamente ad una società con l’incarico di provvedere alla loro
amministrazione.
Se il fiduciario non rispetta l’obbligo assunto, il fiduciante può agire giudizialmente: ad esempio,
nel caso in cui il fiduciario si rifiuti di ritrasferire il bene, il fiduciante può richiedere una
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sentenza costitutiva dell’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, oltre al risarcimento del
danno.
Nel caso in cui il fiduciario, violando il pactum fiduciae, trasferisce il bene a terzi, il fiduciante
non può opporre tale patto ai terzi, in quanto quest’ultimo non ha valore reale, ma obbligatorio,
però può ottenere comunque il risarcimento.
Al modello finora studiato, chiamato romanistico, si oppone quello germanistico: il primo si
configura nel trasferimento della proprietà e tutela la posizione del terzo nei confronti del
fiduciante; il secondo comporta non un trasferimento della proprietà, ma una forma di
“legittimazione”, conservando la proprietà al fiduciante, e tutela la posizione di quest’ultimo
rispetto ai terzi.
Una figura molto diffusa nel sistema giuridico anglosassone è la figura del trust (fiducia).
Il trust è l’insieme dei rapporti giuridici istituiti da una persona (costituente) posti sotto il
controllo di un trustee (fiduciario) nell’interesse di un beneficiario e per perseguire un fine
specifico.
I beni oggetto del trust sono intestati al trustee ma non fanno parte del suo patrimonio; infatti, il
trust è opponibile ai terzi e i creditori del trustee non possono soddisfarsi sui beni oggetto del
trust.
32. Segue. Divieti legali e convenzionali di contrarre. In materia di libertà di decidere se
concludere o no un contratto esistono limiti positivi, ossia l’obbligo a contrarre, e limiti
negativi, ossia il divieto a contrarre.
Per quanto riguarda i divieti di contrarre essi sono consentiti in misura limitata perché
impediscono l’attuazione del principio della libertà contrattuale e ostacolano la libera
circolazione dei beni. Esistono divieti di contrarre sia legali, dettati dalla legge, che divieti
convenzionali, la cui fonte è l’accordo fra le parti.
Un esempio del divieto legale di contrarre è il divieto di comprare i beni dati in gestione per gli
amministratori di beni altrui. Un esempio del divieto convenzionale di contrarre è il patto di
non alienare (art. 1379 c.c.). Tale patto ha effetto soltanto fra le parti e crea fra loro un rapporto
obbligatorio; se il contraente, violando il divieto aliena a terzi, questi ultimi acquistano
validamente, mentre l’alienante inadempiente è tenuto a risarcire il danno alla controparte.
33.Vincoli alla libertà di scelta del contraente. Prelazioni convenzionali e legali. In materia di
libertà di scegliere con chi concludere il contratto, esiste il cosiddetto diritto di prelazione; esso
può avere fonte convenzionale o fonte legale.
Il diritto di prelazione convenzionale o prelazione volontaria si configura o come clausola
contrattuale o come autonomo contratto e si ha quando un soggetto (promettente o concedente),
in sede di conclusione di un determinato contratto, si obbliga a dare ad un soggetto
(prelazionario) la preferenza rispetto ad altri a parità di condizioni.
Tale vincolo riguarda solo la scelta del contraente e non la decisione di concludere o no il
contratto e per questo motivo non è opportuno eguagliare la prelazione al contratto preliminare.
Il vincolo, quindi, consiste in due obblighi del concedente:
1. un obbligo positivo, ossia il concedente deve comunicare al prelazionario la sua
decisione di concludere con questi il contratto a determinate condizioni (denuntiatio)
consentendo al prelazionario di esercitare il diritto di prelazione;
2. un obbligo negativo, ossia il concedente si obbliga a non stipulare il contratto con terzi
prima o durante la fase della denuntiatio.
Il patto di prelazione convenzionale ha efficacia obbligatoria e quindi non è opponibile ai terzi
e nelle ipotesi di sua violazione, il prelazionario può richiedere solo il risarcimento del danno da
inadempimento.
Il diritto di prelazione legale è accordato dalla legge al fine di tutelare interessi particolarmente
meritevoli: esempio sono le prelazioni previste a favore dell’affittuario coltivatore diretto.
La prelazione legale, a differenza di quella convenzionale, ha efficacia reale ed è opponibile ai
terzi, cioè il prelazionario può esercitare il diritto di riscatto del bene acquistato dal terzo.
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34. Vincoli alla libertà del contenuto contrattuale: inserzione automatica di clausole, clausole
d’uso. La libertà di decidere il contenuto del contratto è un elemento essenziale delle libertà
contrattuali; a volte, però, quest’elemento trova delle limitazioni imposte dalla legge.
Infatti la legge prevede che determinate clausole, determinati prezzi di beni o servizi, già disposti
dalla legge, siano di diritto inseriti nel contratto e che vengano inseriti anche in sostituzione di
clausole difformi decise dalle parti.
Il legislatore prevede anche che le clausole d’uso si ritengano già automaticamente inserite nel
contratto, salvo nei casi in cui le parti abbiano disposto di non includerle.
35. Contrattazione standardizzata: condizioni generali di contratto. Moduli e formulari.
L’autonomia contrattuale incontra ulteriori limiti non solo al “se” o “con chi” concludere un
contratto, ma anche al “come” concluderlo. Infatti esistono alcuni modelli contrattuali in cui
risultano marginali la presenza di 2 parti, la loro trattazione, ecc…
Sul mercato si rilevano 2 soggetti:
• un soggetto forte (di norma imprenditore) il quale, muovendosi da una posizione di
supremazia, è capace d’imporre alla massa indifferenziata un regolamento contrattuale
predisposto;
• un soggetto debole (di norma massa dei consumatori) il quale non può modificare ed
incidere assolutamente sui termini del regolamento contrattuale predisposto.
Tali contratti sono rivolti ad una massa indifferenziata e, quindi, vengono chiamati contratti
standards, di massa o in serie; questi contratti sono chiamati standards proprio perché standard
è il loro contenuto, non essendo compatibile la trattativa con la loro natura di affari.
Il fine di tali modelli contrattuali predisposti è:
• dalla parte del soggetto forte di semplificare, razionalizzare e velocizzare l’economicità,
di limitare i poteri dei rappresentanti, di prevenire rischi, ecc…;
• dalla parte del soggetto debole di garantire l’omogeneità e l’uniformità di trattamento, la
trasparenza del mercato, la possibile riduzione del prezzo.
L’art. 1341¹ dispone che il regolamento contrattuale possa essere formulato anticipatamente da
una delle parti (predisponente, di regola l’imprenditore), mediante la formulazione di
condizione generale del contratto, le quali condizioni vincolano l’altra parte (aderente, di regola
il cliente-consumatore) se risulta che quest’ultima le ha conosciute oppure che le avrebbe dovuto
conoscere usando l’ordinaria diligenza.
Onere imposto dalla legge al proponente è quello di rendere conoscibile le condizioni del
contratto, senza, però, richiedere una manifestazione di vero consenso dell’aderente.
Ciò, tuttavia, ha configurato una scarsa tutela del soggetto debole (aderente).
Il legislatore, per risolvere tale problema ha previsto una specifica disciplina per le clausole
cosiddette vessatorie. Esse, appunto, perché prevedono particolari vantaggi per il predisponente
e particolari oneri per l’aderente, devono essere accettate con una sottoscrizione specifica e
quindi estranea e aggiuntiva alla sottoscrizione del contratto.
Le clausole c.d. vessatorie sono disciplinate dall’art. 1341² che presenta un elenco tassativo il
quale, però, è logicamente assoggettabile ad interpretazione.
La sottoscrizione è uno dei requisiti della forma ad substantiam e, in ipotesi di un suo difetto,
si verifica la nullità del contratto.
Spesso le condizioni generali del contratto sono contenute da moduli o formulari che l’aderente
è invitato a sottoscrivere; la sottoscrizione di tali condizioni generali è specifica come quella
delle clausole vessatorie. Se al modulo o al formulario sono inserite successivamente clausole
aggiunte, queste clausole aggiunte prevalgono su quelle predisposte nel caso in cui le clausole
predisposte siano incompatibili con quelle aggiunte, anche se le clausole aggiunte non sono state
cancellate.
Lo strumento della specifica sottoscrizione delle clausole vessatorie è purtroppo poco efficace in
quanto illusorio, perché il predisponente riesce sempre ad imporre una 2° firma su un documento
che l’aderente di solito non legge e che non può modificare.
100
Per dare una soluzione a questo problema, il legislatore ha orientato la tutela ad un maggiore
controllo di liceità e meritevolezza. Anche la comunità europea si è mossa su queste direttrici
emanando direttive comunitarie che vengono recepite dai paesi membri nella forma della
novellazione.
36.Contratti normativi. Il contratto normativo è concordato dalle parti per regolare loro futuri
rapporti; è un accordo con il quale le parti non dispongono immediatamente dei propri interessi,
ma fissano il contenuto di futuri contratti con l’obbligo di inserirvi quel determinato contenuto,
nel caso questi contratti vengano stipulati.
Nel contratto normativo non sorge l’obbligo di contrarre e quindi non è invocabile l’art. 2932,
ma sorge un obbligo di determinazione del contenuto, cioè bisogna inserire nel contratto quel
contenuto predeterminato nel contratto normativo.
37. Disciplina dei “contratti del consumatore”. Il consumatore è inteso come la persona fisica
e non giuridica che si procura per contratto i beni o i servizi per utilizzarli a fini personali ed
estranei alla propria attività imprenditoriale.
Il consumatore è sicuramente una delle figure cardini del campo contrattuale tanto da essere un
punto di riferimento di una serie di normative, che danno vita ad un “diritto del consumatore”.
Il sistema giuridico italiano, in riguardo a tale materia, ha colmato le sue lacune sulla base di
sollecitazioni comunitarie.
Un esempio è la legge antitrust, che, oltre a porsi come fine un corretto funzionamento del
mercato, vuole realizzare una migliore qualità dei beni e dei servizi e di un abbassamento del
loro prezzo.
Anche l’area del contratto richiede sempre più l’esigenza di proteggere la posizione del
consumatore, in quanto contraente debole. Un ruolo centrale in un corretto funzionamento della
contrattazione hanno l’informazione e la trasparenza, che sono a carico dell’imprenditore o
professionista.
Il professionista è la persona fisica o giuridica, privata o pubblica, che conclude contratti aventi
per oggetto beni o servizi ai fini della sua attività imprenditoriale o professionale.
Delle innovazioni sono state apportate al codice civile dagli art. 1469 bis – 1469 sexies: essi
introducono una forma di controllo rivolta a verificare l’equità e l’equilibrio sostanziale del
regolamento contrattuale.
Questo fatto è un’innovazione perché prima i principi codicistici rimettevano alle parti la
determinazione del “giusto” regolamento contrattuale e il legislatore poteva intervenire solo in
via eccezionale ed entro determinati limiti.
La disciplina introdotta da questi articoli ha un ambito d’applicazione sia soggettiva che
oggettiva:
• ambito di applicazione soggettiva, nel senso che questa nuova normativa è applicata
solo ai contratti tra consumatore e professionista escludendo, dalla figura del
consumatore le persone giuridiche e gli intermediari;
• ambito di applicazione oggettiva, la nuova disciplina ha introdotto un giudizio di
vessatorietà del contenuto contrattuale: questo giudizio di vessatorietà comprende un
elenco di clausole “sospette” che si presumono vessatorie salvo prova del professionista;
comprende un elenco di clausole assolutamente vessatorie e comprende una clausola
generale che definisce clausole vessatorie quelle clausole che determinano a carico del
consumatore un significativo squilibrio di diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Quando si parla di squilibrio il legislatore intende non uno squilibrio economico, ma uno
squilibrio dei diritti e degli obblighi.
Questa nuova normativa affianca alla tutela individuale una tutela collettiva:
• la tutela individuale ritiene inefficaci le clausole giudicate vessatorie, ma il contratto
conserva la sua efficacia. Essa è rilevabile d’ufficio dal giudice;
101
•
la tutela collettiva: le associazioni di consumatori o di professionisti o le Camere di
Commercio, una volta accertata la vessatorietà di una clausola, possono chiedere al
giudice di inibire anche con un provvedimento d’urgenza l’uso di quella clausola.
Tuttavia la posizione dell’intermediario è tutelata nei confronti dei produttori o dei fornitori, in
quanto l’intermediario ha diritto di regresso nei confronti di questi ultimi nel caso di danni subiti
dalla dichiarazione di vessatorietà delle clausole nei rapporti dell’intermediario col consumatore;
tutto ciò ha la funzione di evitare che gli intermediari possano di conseguenza aumentare il
prezzo.
Le clausole proposte al consumatore devono essere sempre redatte in modo chiaro e
comprensibile e, in caso di dubbi, queste clausole sono interpretate nel modo più favorevole al
consumatore.
La nuova normativa è applicabile nei contratti tra consumatore e professionista, mentre quella
preesistente disciplina i contratti che non siano riconducibili a quelli tra consumatore e
professionista.
Tuttavia le 2 normative possono coesistere e cooperare come nei casi del contratto standard.
38. Contratti tra imprese. L’ordinamento nel tutelare i soggetti deboli ha disciplinato anche i
rapporti fra imprese, vietando l’abuso, da parte di una o più imprese, dello stato di dipendenza
economica di un’altra impresa e ritiene nulli i patti con i quali una parte approfitti della propria
maggiore forza contrattuale per imporre condizioni ingiustificatamente gravose.
Un’ipotesi di dipendenza economica è la subfornitura, ossia l’affidamento, mediante contratto,
ad imprese esterne, di una fase del ciclo produttivo dell’impresa.
Il subfornitore è di solito un piccolo o medio imprenditore che non ha possibilità di accesso
diretto al mercato finale e opera per conto di un ristretto numero di imprese committenti.
Il committente, invece, è munito delle necessarie tecnologie produttive e dispone di un largo
numero di subfornitore.
La subfornitura non presuppone un contratto principale e non è un subcontratto; a volte il
committente stipula la subfornitura senza alcun accordo con i terzi.
Il contratto di subfornitura deve essere concluso in forma scritta, pena la nullità; la proposta
scritta del committente può essere accettata dal subfornitore iniziando un’esecuzione conforme.
Il termine per il pagamento dovuto del committente, non può superare i 60 gg. e nel caso esso
non avvenga nel termine stabilito, sono previsti interessi superiori oppure viene applicata una
penale.
f. Patologia nella fase genetica dei contratti
39. Invalidità negoziale. Considerazioni generali. L’invalidità comprende qualunque difetto
originario degli atti di autonomia negoziale e tale difetto può comportare a volte l’inidoneità a
produrre effetti; altre volte una precarietà degli stessi effetti.
Le difformità dell’atto negoziale possono assumere varia intensità: la forma più grave è la
nullità, quella meno grave è l’annullabilità.
L’ordinamento risponde con lo strumento radicale della nullità quando salvaguarda valori
superiori, essendo state violate norme poste a tutela di interessi generali; interviene, invece, con
l’annullabilità qualora gli interessi lesi si pongano su un piano subalterno rispetto ai primi,
trattandosi di violazione di regole poste a tutela di interessi individuali delle parti.
Di conseguenza si giustifica il diverso regime delle figure di invalidità in relazione agli effetti del
negozio viziato:
• il negozio nullo non produce effetti fin dall’origine;
• il negozio annullabile è efficace già dal momento della sua conclusione, ma questa
efficacia si rivela precaria, in quanto gli effetti o possono essere eliminati mediante
sentenza costitutiva avente efficacia ex tunc (dall’inizio) tra le parti oppure possono
essere stabilizzati qualora il legittimato all’impugnazione eserciti il potere di convalida
(art. 1444 c.c.) o lasci scadere il termine prescrizionale dell’azione (art. 1442¹).
Nella dottrina tradizionale la nozione di nullità coincide con quella d’inesistenza.
102
Per quanto riguarda l’inefficacia essa è da intendersi sia in senso lato che in senso stretto:
• in senso lato essa è calcolata sullo stesso piano dell’invalidità e riguarda ogni ipotesi
nella quale l’atto negoziale non produce effetti;
• in senso stretto, il negozio inefficace è negozio valido, ma per un fatto esterno non è
idoneo a produrre i suoi effetti (es: contratto con condizione sospensiva).
La dottrina traccia numerose distinzioni di inefficacia e si parla di:
• inefficacia pendente, o temporanea, o sospesa, quando l’atto negoziale differisce gli
effetti, ad esempio quando le parti hanno convenuto un termine iniziale;
• inefficacia definitiva, quando gli effetti sono impediti fra le parti;
• inefficacia assoluta, quando l’atto non produce alcun effetto né fra le parti, né fra i terzi;
• inefficacia relativa, quando il negozio produce effetti per alcuni soggetti e non per altri e
tali ipotesi confluiscono nell’impossibilità;
• inefficacia originaria, quando gli effetti sono impediti dell’inizio (es: condizione
sospensiva);
• inefficacia sopravvenuta, quando gli effetti sono impediti ad un contratto inizialmente
efficace (es: condizione risolutiva).
La nullità, a differenza dell’annullabilità, tutele interessi di portata superiore e quindi la
legittimazione a far valere il vizio è assoluta, cioè spetta a chiunque ne abbia interesse.
Ciò, però, non esclude l’esistenza di una nullità relativa dove la legittimazione è relativa, ed è
eccezionalmente limitata ad alcuni soggetti.
Per l’annullabilità, invece, la regola è la legittimazione relativa, in quanto essa può essere fatta
valere solo dalla parte prevista dalla legge; tuttavia sono previste ipotesi di legittimazione
assoluta (es: interdizione legale).
La nullità di un atto negoziale può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma non sono esclusi i casi
in cui è il diretto interessato a rilevarla al giudice; l’annullabilità, invece, non è rilevata d’ufficio
dal giudice.
Il carattere imprescrittibile dell’azione di nullità, si pone come una delle differenze più
significative rispetto all’azione di annullamento, sempre prescrittibile.
L’imprescrittibilità dell’azione di nullità non travolge gli effetti dell’usucapione e della
prescrizione delle azioni di ripetizione.
Nel negozio ad efficacia reale, seguito dall’immissione nel possesso, la dichiarazione di nullità
non preclude il maturarsi dell’usucapione.
Così nell’ipotesi di vendita immobiliare nulla per difetto di forma, se l’acquirente ha posseduto
lo stabile per 20 anni, può opporre alla sentenza di nullità del contratto l’avvenuto acquisto a
titolo originario della proprietà per usucapione.
In genere il termine di prescrizione dell’azione di annullamento è di 5 anni, tuttavia la legge
spesso stabilisce differentemente.
Il termine decorre dalla conclusione del contratto. A volte il termine si allunga per effetto dello
scivolamento del termine iniziale di prescrizione: per i vizi di volontà, ad esempio, il tempo
decorre dal giorno nel quale è cessata la violenza o è stato scoperto l’errore o il dolo; per
l’incapacità legale, dal giorno nel quale è cessato lo stato d’interdizione o d’inabilitazione; per il
minore, dal giorno nel quale ha raggiunto la maggiore età.
La prescrizione riguarda l’azione e non l’eccezione; l’annullamento non può essere chiesto se
sono trascorsi 5 anni, ma può essere opposto anche se sono trascorsi i 5 anni, se solo in quel
momento l’altra parte chiede l’esecuzione del contratto.
L’azione di nullità non modifica la situazione giuridica preesistente, ma è solo di accertamento
e si limita solo a dichiarare la nullità dell’atto; l’azione di annullamento modifica la situazione
giuridica preesistente in quanto ha carattere costitutivo.
40. Mancanza della volontà. L’accordo esprime il consenso delle parti e si raggiunge con la
volontà interna che è rilevante quando essa è manifestata all’esterno con una dichiarazione;
tuttavia, quando manca la volontà di produrre effetti giuridici, anche in presenza di una
dichiarazione contrattuale resa all’esterno, il contratto è nullo.
103
L’accordo è un elemento essenziale non solo per la conclusione del contratto, ma anche per il
suo scioglimento (es: il mutuo dissenso).
A volte capita che la volontà interna non coincide volutamente con la dichiarazione: è il caso
della simulazione dove la parte, agendo in questo modo, crea una situazione di apparenza
contrattuale ingannevole per i terzi.
41. Accordo simulatorio. L’accordo simulatorio (art. 1414 c.c.) si ha quando le parti stipulano
un contratto, ma in realtà non vogliono che siano prodotti gli effetti oppure vogliono la
produzione di effetti diversi. La simulazione è:
• assoluta, quando le parti concludono un contratto e con separato e segreto accordo
dichiarano di non volerne gli effetti; lo scopo è quello di creare ai terzi l’apparenza del
trasferimento di un diritto, ecc…
• relativa, quando le parti fingono di stipulare un contratto (contratto simulato), ma in
realtà vogliono che si producono gli effetti di un altro contratto (contratto dissimulato).
Un esempio è la simulazione di una vendita per realizzare una donazione.
La simulazione relativa può riguardare, oltre che l’oggetto o il titolo del contratto, anche i
soggetti dello stesso: si discorre allora di interposizione fittizia di persona.
Così, chi vuole acquistare un determinato bene, ma non vuole che agli occhi dei terzi tale bene
appaia suo, fa figurare come compratore un altro soggetto dando luogo ad una vendita simulata
(nella quale appare come compratore l’interposto) e ad una sottostante vendita dissimulata
(nella quale appare come compratore l’interponente, cioè il compratore effettivo).
L’effetto principale della simulazione assoluta è la nullità del contratto; tuttavia si dovrebbe
parlare di inefficacia, in quanto non c’è una vera e propria irregolarità del contratto, ma sono le
parti a stabilire la non produzione di effetti.
Nel caso, invece, della simulazione relativa, il contratto dissimulato è nullo solo se lo scopo
perseguito dalle parti è illecito; negli altri casi esso ha efficacia tra le parti se la dichiarazione
apparente contiene i requisiti di sostanza e di forma previsti dalla legge.
Circa la tutela dei terzi, l’ordinamento distingue 2 categorie di terzi interessati:
1. gli aventi causa o creditori del simulato acquirente, che hanno interesse a far valere la
situazione apparente in quanto, per esempio, in buona fede hanno sottoposto a
pignoramento il bene oggetto del contratto simulato;
2. gli aventi causa o creditori del simulato alienante, che hanno interesse, invece, a far
valere la situazione reale, in quanto la legge consente a questi creditori di dimostrare, con
ogni mezzo di prova, che il contratto era simulato e di procedere quindi all’esecuzione
forzata di quel bene.
42. Incapacità legale e incapacità naturale. Il contratto concluso da incapace legale di agire è
dichiarato annullabile; l’annullamento può essere demandato al giudice, da chi esercita la
potestà sul minore, sull’interdetto o sull’inabilitato, o anche dagli eredi o aventi causa del
minore.
Il contratto del minore non può essere annullato se questi ha occultato con raggiri la sua minore
età.
L’annullamento non può essere chiesto dal contraente capace, ma solo dall’altra parte (incapace);
questa disposizione mira a tutelare il contraente che, per effetto della sua incapacità, potrebbe
aver concluso un affare svantaggioso.
Il contratto concluso dal maggiorenne capace legalmente, ma affetto da una temporanea
alterazione delle proprie facoltà mentali, e quindi non interdetto o inabilitato, è annullabile a
condizione che si provi l’esistenza di un pregiudizio per l’incapace e si provi l’esistenza della
malafede dell’altro contraente; per malafede s’intende la conoscenza dello stato d’incapacità
della controparte o la possibilità di conoscerla con la normale diligenza.
Gli atti unilaterali sono annullabili su istanza dell’incapace, dei suoi eredi o dei suoi aventi
causa, solo se si prova che l’atto comporta un grave pregiudizio all’incapace.
104
43. I “vizi” della volontà. La volontà negoziale può essere viziata da errore, dolo o violenza.
L’errore è la falsa rappresentazione della realtà che induce un soggetto a negoziare: esempio
classico è l’acquisto di un quadro credendolo autentico, ma invece è una copia.
L’errore può essere motivo od ostativo:
• l’errore motivo incide sulla volontà prima che essa venga dichiarata all’esterno;
• l’errore ostativo si verifica quando la volontà di un soggetto ha una erronea
formulazione dell’esternazione; esso non è propriamente un vizio della volontà, ma
costituisce una divergenza tra dichiarazione e volontà.
L’errore per determinare l’annullabilità del contratto deve essere essenziale e riconoscibile:
• è essenziale quando:
1. cade sulla natura del contratto (si crede di concludere una compravendita, ma si
conclude una locazione) o sull’oggetto del contratto (si acquista un bene credendolo un
altro);
2. cade sulla natura o sulla qualità dell’oggetto (si acquista aceto credendo di acquistare
vino);
3. cade sull’identità e sulle qualità personali dell’altro contraente (assunzione di un
ingegnere straniero non autorizzato dalla normativa italiana).
L’errore può essere di fatto e di diritto:
• è di fatto, quando è determinato dalla falsa conoscenza dei fatti, delle persone o delle
cose;
• è di diritto, quando è determinato dalla falsa conoscenza delle norme giuridiche.
L’errore causa l’annullabilità del contratto quando, oltre ad essere essenziale, è anche
riconoscibile, cioè quando anche l’altra parte si è resa conto dell’errore commesso dall’altro.
Il dolo è un altro vizio della volontà e comprende tutti gli artifici, i raggiri o la semplice
menzogna che hanno indotto una parte a negoziare.
Il dolo può essere commissivo e omissivo.
Il dolo commissivo è:
• determinante, e quindi causa di annullamento del contratto, se il raggiro usato da uno dei
contraenti è così fondamentale che, nel caso non fosse stato utilizzato, l’altra parte non
avrebbe stipulato il contratto (es: l’imprenditore che vende un terreno con falsa
planimetria catastale dalla quale risulta edificabile, ma in realtà non lo è);
• incidente, non è causa di annullamento del contratto; si verifica quando il contraente,
vittima del dolo, avrebbe ugualmente concluso il contratto, ma a condizioni diverse (es: il
cliente avrebbe lo stesso acquistato il terreno anche se non edificabile ma ad un prezzo
minore).
I raggiri possono anche essere commessi da un terzo e, affinché siano causa di annullamento del
contratto, tali raggiri devono essere non solo riconoscibili, ma anche noti al contraente che ne
ha tratto vantaggio; nel caso contrario, cioè quando il contraente che ha tratto vantaggio
dall’affare era all’oscuro del raggiro del terzo, il contratto è ritenuto valido.
Il dolo, oltre ad essere commissivo, è anche omissivo (reticenza).
Il dolo omissivo si identifica nella mancata comunicazione alla controparte dell’esistenza di
circostanze che, se fossero state comunicate, lo avrebbero fatto desistere dalla conclusione del
contratto.
Il dolo omissivo è causa di annullamento del contratto solo se il contraente aveva l’obbligo
d’informare l’altra parte sulle circostanze che potevano essere determinanti per il consenso.
Il dolo consiste anche nella menzogna e si parla di dolus bonus e dolus malus.
Il dolus malus è quello finora descritto; con il dolus bonus si indica l’esagerata vanteria della
qualità di un bene o della propria abilità professionale ed esso non è causa di annullamento del
contratto in quanto il legislatore tiene conto del comportamento dell’uomo medio.
La violenza si differenzia in fisica e morale:
• la violenza fisica è l’azione materiale che esclude totalmente la volontà del contraente,
comportando la nullità del contratto per mancanza del requisito della volontà;
105
•
la violenza morale è l’azione psichica che agisce sulla volontà della vittima inducendola
a stipulare il contratto per sottrarsi al male minacciato; comporta l’annullamento del
contratto.
La violenza, intesa come vizio della volontà, è la violenza morale che consiste nella minaccia di
un male ingiusto e notevole che induce il soggetto a stipulare un contratto non voluto; il male
minacciato deve essere ingiusto e notevolmente lesivo.
La violenza è causa di annullamento del contratto anche quando la minaccia del male è rivolta,
non direttamente al contraente, ma al coniuge, ai suoi ascendenti o i suoi discendenti; la minaccia
rivolta agli amici o conoscenti del contraente è rimessa al giudizio prudente del giudice.
La violenza può provenire anche da un terzo è in questo caso, a differenza del dolo, per ottenere
l’annullamento, non è necessario che il soggetto avvantaggiato ne sia a conoscenza.
La minaccia di far valere un diritto non è causa di annullamento del contratto salvo che non
venga utilizzata per ricevere vantaggi ingiusti (es: se non pagherai il tuo debito agirò in
giudizio); anche il timore riverenziale, ossia stato di psicologica soggezione di un soggetto nei
confronti di un altro con maggior potere, non è causa di annullamento del contratto.
44. Illiceità ed immeritevolezza della causa. La causa è sottoposta dall’ordinamento non solo al
controllo di liceità, ma anche al controllo di meritevolezza:
• il controllo di liceità è uno strumento di controllo normativo diretto a negare tutela
giuridica a interessi in contrasto con i valori fondamentali;
• il controllo di meritevolezza è uno strumento che verifica l’idoneità della realizzazione
del concreto interesse.
Logicamente esistono alcuni atti negoziali dove la meritevolezza è in re ipsa (compresa) nella
liceità della causa: sono gli atti di valutazione costituzionale come ad esempio i negozi
associativi.
La causa del contratto è illecita quando è contraria a norme imperative (es: tangenti per appalto),
all’ordine pubblico e al buon costume (es: patto con la prostituta).
È illecita la causa dei contratti in frode alla legge; il contratto concluso in frode alla legge è un
mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa: le parti mirano a realizzare un
risultato che la legge vieta, ma, per non incorrere nell’applicazione della norma imperativa che
vieta di realizzarlo, essi utilizzano uno o più contratti in sé leciti, in modo da realizzare in
concreto un risultato equivalente a quello vietato.
Il codice civile ritiene illecito il contratto quando le parti lo hanno concluso per un motivo
illecito comune ad entrambe le parti; il motivo illecito, per rendere nullo il contratto, deve essere
esclusivo e comune ad entrambe le parti.
I contratti con motivo illecito sono nulli solo se entrambe le parti lo hanno concluso per trarre un
comune vantaggio e non basta che il motivo illecito di una parte sia semplicemente noto all’altro.
Il contratto è nullo quando è riscontrata la mancanza della causa, perché è sempre possibile
riscontrare un interesse, ma non è sempre possibile realizzarlo.
45. Mancanza dell’oggetto e difetto dei suoi requisiti. La mancanza o le patologie dell’oggetto
determinano la nullità del contratto; tuttavia bisogna distinguere l’illiceità dell’oggetto dalla
impossibilità o indeterminabilità dell’oggetto.
L’illiceità dell’oggetto configura l’esistenza di un oggetto che però è giudicato illecito
dall’ordinamento, in quanto è in contrasto con norme imperative, ordine pubblico e buon
costume.
L’impossibilità e l’indeterminabilità configurano difetti strutturali della fattispecie negoziale,
in quanto manca un requisito essenziale del contratto, cioè manca l’oggetto.
Bisogna distinguere il contratto illecito da quello illegale, perché il contratto illecito è
insanabile, mentre quello illegale è sanabile con una conversione, perché anche se è in contrasto
con norme imperative, esse (le norme imperative) non sono necessariamente inderogabili, purché
non rechino danno alla comunità.
106
46. Difetto di forma. L’ordinamento al difetto di forma non ricollega le stesse conseguenze; il
difetto di forma produce nullità del contratto solo nelle ipotesi previste dalla legge.
Quando la forma è requisito essenziale, la sua mancanza produce la nullità; il difetto è rilevabile
d’ufficio e da chiunque ne abbia interesse; le parti possono rinnovarlo ex nunc (da adesso), ma
non possono sanarlo con convalida.
La legislazione comunitaria, come rimedio al difetto di forma, ha proposto il rimedio della
nullità relativa con il quale il contraente protetto può decidere se conservare l’operazione
negoziale, eseguendo il contratto, oppure può far cadere l’operazione negoziale, esercitando
azione di nullità.
Tale principio è già noto nella giurisprudenza tedesca (BGB) la quale rimette la validità e
l’efficacia dell’operazione negoziale alla buona fede di una delle parti; tale principio, però, non è
accettato dalla nostra giurisprudenza, la quale ritiene che il difetto di forma deve essere noto alle
parti.
Si è posto un grosso problema se ritenere valido o invalido il contratto concluso in forma diversa;
una parte della dottrina ritiene che il contratto è valido perché la conclusione aformale ha
revocato il precedente accordo di forma; la maggior parte dei dottrinari ritiene che il contratto è
invalido in quanto presenta un vizio di forma.
47. Recupero del negozio invalido. L’art. 1423 c.c. afferma che: “Il contratto nullo non può
essere convalidato se la legge non dispone diversamente”.
Ai contraenti che vogliono recuperare l’effetto regolato mediante contratto nullo devono
ristipularlo ex novo con efficacia ex nunc (da adesso).
Ci sono comunque delle eccezioni al principio di insanabilità del contratto nullo e sono la
conferma di testamento e la conferma di donazione. Sono insanabili il testamento falso o
revocato, perché manca l’imputabilità al de cuius (all’autore).
La conferma di donazione non è da confondersi con la convalida, in quanto per quest’ultima è
necessario che il soggetto convalidante sia lo stesso che ha concluso il contratto invalido.
Un’altra ipotesi di recupero del negozio nullo è la trascrizione c.d. sanante, che tutela gli
interessi dei terzi. Esempio classico si verifica quando un soggetto A acquista un bene immobile
o mobile registrato dal soggetto B, il quale soggetto B ha acquistato lo stesso bene
precedentemente da un soggetto C con contratto nullo; il soggetto C non può far valere la nullità
del contratto al soggetto A solo se quest’ultimo ha acquistato e trascritto il bene in buona fede e
se sono trascorsi 5 o 3 anni (a seconda del bene) tra la data di trascrizione e la domanda di nullità
del contratto.
La nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole comporta la nullità dell’intero
contratto solo se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo
contenuto colpita da nullità. In base a questo principio, al fine di conservare il negozio, si hanno
due casi:
1. se la clausola colpita da nullità è essenziale per le parti, allora è dichiarato nullo l’intero
contratto; la dichiarazione di nullità è fatta solo dopo una rigorosa prova che spetta alla
parte che intende far valere la nullità totale dimostrando che vi sono gli estremi per
estendere tale nullità all’intero contratto;
2. se la clausola colpita da nullità non è essenziale per le parti, il contratto produrrà gli
effetti tenendo conto della loro (degli effetti) riduzione a causa dalla dichiarazione di
nullità della clausola.
L’art. 1420 c.c. afferma che nei contratti con più di due parti che operano per il raggiungimento
di uno scopo comune, la nullità del vincolo di una sola parte non provoca la nullità del contratto
salvo che la sua partecipazione debba considerarsi essenziale.
Un’altra applicazione del principio di conservazione del negozio è la conversione, che opera una
modifica o una riduzione del contratto.
Il contratto nullo può essere convertito se è nullo come un dato tipo di contratto, ma presenta
tuttavia i requisiti di forma e di sostanza di un altro tipo e se gli effetti che quest’altro tipo di
contratto produce sono lo stesso accettati dalle parti.
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I requisiti affinché operi la conversione del contratto nullo sono: che il contratto sia nullo, che le
parti erano all’oscuro della causa di nullità, che gli effetti prodotti dall’altro tipo di contratto sono
compatibili con gli interessi non di una ma di entrambe le parti, e, infine, che il contratto nullo
deve contenere i requisiti di forma e di sostanza del contratto diverso.
Alla conversione sostanziale si aggiunge la conversione formale, che opera automaticamente
quando il negozio, che può avere più vestimenti giuridici, sia nullo per difetto di forma ma
possiede i requisiti di altra forma valida; esempio è il testamento segreto il quale è ritenuto nullo
per mancanza di qualche requisito, ma vale comunque come olografo se presenta la firma, la data
e la sottoscrizione.
La nullità di singole clausole non provoca la nullità del contratto quando le clausole nulle sono
sostituite di diritto da norma imperative.
La convalida è il mezzo mediante il quale il legittimato all’impugnazione manifesta la volontà di
sanare il contratto invalido e quindi annullabile, rendendolo definitivamente efficacie e
impedendo l’annullabilità.
La convalida può essere:
• espressa, atto unilaterale redatto dal legittimato, non recettizio, accessorio al contratto,
che contiene il motivo di annullabilità e la dichiarazione di convalida;
• tacita, quando il legittimato all’azione, pur conoscendo il vizio di annullabilità, procede
volontariamente all’esecuzione del contratto; in questo caso, se il soggetto legittimato
vuole chiedere successivamente all’esecuzione l’annullamento del contratto, l’altra
parte può opporgli la sua (del soggetto legittimato) convalida tacita.
Non può essere convalidato il contratto nullo, perché la dichiarazione di convalida o la
volontaria esecuzione non impediscono l’azione di nullità.
Un istituto che si basa sul principio di buona fede e sul principio di conservazione del contratto
è la rettifica; essa opera per il contratto annullabile per errore.
La rettifica è un negozio accessorio unilaterale recettizio, redatto dalla parte non in errore la
quale offre all’altra parte in errore l’esecuzione della prestazione in modo conforme al
contenuto e alle modalità del contratto. La parte non in errore, offrendo all’altra parte in errore
l’esecuzione del contratto, perde sia il diritto di chiedere l’annullamento, sia il potere di
convalidare il contratto.
Il negozio nullo non produce effetti né fra le parti, né rispetto ai terzi; i contratti annullabili
producono effetti purchè non siano stati dichiarati annullati.
Tuttavia, per quanto riguarda i contratti annullabili, la sentenza di annullabilità non pregiudica i
terzi purchè abbiano acquistato i diritti a titolo oneroso e non gratuito, erano all’oscuro della
causa di invalidità e quindi in buona fede, e che non fossero incapaci legalmente.
48. Rescindibilità. La rescissione è una forma di scioglimento del contratto ben diversa
dall’invalidità e dalla risoluzione: a differenza dell’invalidità, la rescissione non riguarda la
struttura e gli elementi del contratto, a differenza della risoluzione, la rescissione riguarda un
vizio genetico sorto al momento della conclusione del contratto derivante da uno squilibrio
economico originario, mentre la risoluzione deriva da una difetto sopravvenuto dopo la
conclusione del contratto.
Di regola le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto, ma, in ipotesi ben
definite e per motivi di interesse generale o di determinati soggetti, l’ordinamento può imporre
le proprie leggi e quindi limitare l’autonomia contrattuale; è l’esempio della rescissione del
contratto quando vi sono squilibri delle condizioni che dipendono dallo stato di pericolo e di
bisogno di una parte e dell’approfittamento dell’altra.
È rescindibile il contratto concluso in stato di pericolo, ossia quando un soggetto ha assunto
obbligazioni a condizioni inique al fine di salvare sé stessi o altri (e non cose o beni) dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona.
Il requisito affinché il contratto concluso in stato di pericolo sia rescindibile è che il pericolo
deve essere attuale e non semplicemente temuto, deve corrispondere a un danno grave alla
persona e può essere causato anche volontariamente o per imprudenza.
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Tale requisito è rimesso alla valutazione del giudice, il quale deve anche valutare l’iniquità
della condizione; una volta che è stata pronunciata la rescissione, il giudice può anche
assegnare un compenso alla parte che ha prestato l’opera.
Più frequenti sono i contratti conclusi in stato di bisogno; in questi casi il codice prevede una
rescissione per lesione in quanto non è richiesta la presenza di situazioni gravi come per i
contratti conclusi in stato di pericolo.
I requisiti sono:
• l’esistenza di uno squilibrio delle prestazioni; è necessario che la parte lesa abbia
eseguito o promesso una prestazione che valga più del doppio di quella ottenuta come
corrispettivo;
• lo stato di bisogno di una parte; esso non è paragonabile allo stato di necessità, ma
comunque induce un soggetto ad accettare offerte svantaggiose;
• l’approfittamento dell’altra; affinché esso sussista non è richiesto necessariamente un
comportamento attivo, ma basta anche un comportamento passivo, ossia la
consapevolezza dell’iniquità delle prestazioni, dello stato di bisogno dell’altra parte e
dell’ingiustificato vantaggio che si consegue;
se manca uno di questi requisiti, la rescissione non può operare.
Non possono essere rescissi i contratti aleatori, perché il valore di una delle prestazioni non è
determinabile e di conseguenza non è determinabile nemmeno la lesione.
L’azione di rescissione spetta esclusivamente al contraente che ha stipulato in stato di bisogno o
di pericolo; essa è soggetta a prescrizione con un termine breve di 1 anno ed è soggetta a
prescrizione anche l’eccezione di rescissione.
Il contratto rescindibile non può essere convalidato, ma può essere modificato con riequilibrio
delle prestazioni.
La sentenza che pronuncia la rescissione ha natura costitutiva ed elimina il contratto con
efficacia retroattiva tra le parti, liberando dall’obbligo di adempimento e imponendo la
restituzione di quanto già adempiuto.
Una particolare disciplina è prevista per la rescissione del contratto di divisione, dove non sono
richiesti lo stato di bisogno e di approfittamento, e la lesione deve eccedere di un quarto.
g. Efficacia dei contratti.
49. Principio con sensualistico. Il contratto produce gli effetti grazie al consenso prestato dalle
parti e con tale consenso le parti, quindi, possono creare, modificare ed estinguere rapporti
giuridici.
Tuttavia nei contratti solenni il consenso non basta affinché il contratto produca gli effetti perché
è richiesta la forma prevista dalla legge.
I contratti reali sono un’eccezione al principio con sensualistico perché gli effetti si producono
non dopo il consenso, ma solo dopo la consegna della cosa.
I contratti possono avere effetto traslativo immediato o effetto traslativo differito.
L’effetto traslativo immediato è postulato dall’art. 1376 c.c. che afferma che la proprietà di una
cosa determinata o un diritto reale si trasferiscono e si acquistano per effetto del consenso delle
parti legittimamente manifestato.
Nei contratti ad effetto traslativo differito, il trasferimento non avviene dopo il consenso delle
parti, ma solo dopo un evento successivo; esempio sono i contratti che hanno per oggetto il
trasferimento di una cosa determinata solo nel genere.
50. Efficacia negoziale ed efficacia reale. Bisogna fare una distinzione tra gli atti con efficacia
finale, cioè quegli atti i cui effetti sono predeterminati dalla legge e che le parti possono solo
decidere se compierli o meno, e gli atti con efficacia negoziale, dove le parti possono incidere
anche sugli effetti.
Tuttavia la libertà negoziale è meritevole di tutela solo se persegue una finalità socialmente e
giuridicamente utile e questa valutazione è svolta dal sistema normativo.
109
Nella creazione di un contratto, l’autoregolamentazione può anche mancare, ciò che è costante è
il potere di iniziativa e di impulso che muove le parti a porre in essere gli atti.
Con queste limitazioni dell’autonomia negoziale delle parti si è indotto a parlare di “morte del
contratto” e tale principio si configura nell’intervento dello stato e del suo potere.
Difatti lo stato ha introdotto l’art. 1374 c.c. il quale afferma che il contratto obbliga le parti non
solo al suo contenuto, ma anche a tutte le conseguenze che da esso derivano secondo legge o, in
mancanza, secondo gli usi e le equità.
51. Il vincolo contrattuale. Il contratto vincola le parti a rispettare le regole che da esso
provengono; da questo vincolo le parti possono liberarsi per mutuo dissenso o per le cause
previste dalla legge.
Il mutuo dissenso è un nuovo atto di autonomia contrattuale che comporta non l’eliminazione
del precedente contratto, ma il venir meno dell’effetto del precedente contratto per volontà delle
parti.
Il mutuo dissenso opera solo per i contratti ad effetti obbligatori e per i contratti ad effetti reali
con effetti non ancora prodotti cioè ad esempio sottoposti a condizione sospensiva, perché il
mutuo dissenso opera per quei contratti i cui effetti non si sono ancora esauriti.
Il mutuo dissenso può avere forma scritta ad substantiam se essa è richiesta.
Il contratto, come sappiamo, vincola le parti ma è possibile che una di esse possa liberarsi da tale
vincolo esercitando il diritto di recesso (ius poenitendi); questo potere può essere previsto dalla
legge o dall’autonomia negoziale e può essere attribuito ad una o a tutte le parti.
Il diritto di recesso non agisce sul contratto, ma sui suoi effetti e quindi, come per il mutuo
dissenso, è necessario che tali effetti non siano ancora esauriti.
Il diritto di recesso è negozio unilaterale recettizio: se previsto dalla legge, la comunicazione
deve avvenire nei tempi predeterminati; se previsto dall’autonomia negoziale, la comunicazione
deve avvenire nei tempi concordati dalle parti.
La comunicazione può avvenire con ogni mezzo ed è sempre possibile dimostrare che il
destinatario ne era a conoscenza.
Di regola il recesso ha efficacia ex nunc (da adesso), ma le parti possono anche prevedere la
retroattività.
Il recesso opera anche per i contratti a esecuzione continuata o periodica (contratto che obbliga
una o entrambe le parti ad una prestazione continuativa o periodica nel tempo) anche se è
avvenuto un inizio di esecuzione, in quanto il recesso non pregiudicherà la prestazione già
eseguita o in corso di esecuzione; per i contratti a esecuzione istantanea (immediata) o a
esecuzione differita, il recesso può operare solo se il contratto non ha avuto ancora un inizio di
esecuzione.
Con il recesso può essere previsto un corrispettivo versato alla conclusione del contratto
chiamato caparra penitenziale: se a recedere è chi ha versato la caparra, egli la perde; se a
recedere è chi ha ricevuto la caparra, egli deve restituire il doppio di tale caparra.
A volte è prevista anche una multa penitenziale, ossia un corrispettivo che è versato dalla parte
che volesse esercitare il diritto di recesso.
Diverso dal recesso è il recesso determinativo che integra i contratti privi del termine finale:
infatti, la parte, comunicando il recesso, decide unilateralmente anche il termine non concordato
precedentemente.
52. Rafforzamento del vincolo mediante clausola penale e caparra: rinvio. Gli effetti del
contratto possono cessare solo se il contratto è annullato, rescisso o risolto, se le parti hanno
inserito clausole che privano il contratto dell’efficacia al verificarsi di determinati eventi o se le
parti hanno inserito un termine finale allo scadere del quale gli effetti del contratto cesseranno.
In caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il debitore è tenuto al risarcimento del
danno, ma le parti, al fine di evitare che il debitore sia inadempiente o tardivo nell’adempimento,
possono rafforzare il vincolo con la clausola penale.
110
La clausola penale è un patto accessorio che determina un risarcimento del danno in caso di
inadempimento o di adempimento tardivo.
Le parti, comunque, in caso di inadempimento o di adempimento tardivo, possono convenire
anche sulla costituzione del diritto di recesso, utilizzando l’istituto della caparra confirmatoria e
della caparra penitenziale.
53. C.d. relatività degli effetti contrattuali. A differenza di quanto si pensa, il principio della
relatività degli effetti non riguarda gli atti unilaterali che influenzano non solo la sfera giuridica
dell’autore, ma anche quella dei terzi.
Il principio della relatività degli effetti postula che il contratto vincola le parti e soltanto
eccezionalmente i terzi.
Tuttavia è stata avanzata una critica circa gli effetti verso i terzi: infatti, a riguardo degli atti
unilaterali, anche se gli effetti prodotti verso i terzi sono positivi, l’ordinamento, al fine di
tutelare le situazioni soggettive, subordina l’esecuzione degli effetti al consenso del destinatario.
Per quanto riguarda i contratti bilaterali, essi possono anche produrre effetti a volte in forma
unilaterale e a volte gli effetti prodotti possono interessare anche i terzi.
Per quanto riguarda l’opponibilità, essa è utilizzata per risolvere conflitti tra più aventi causa e
l’ordinamento dà preferenza a chi per primo ha non solo acquistato, ma ha anche reso l’acquisto
conoscibile ai terzi.
54. Stipulazione a favore dei terzi. Nel contratto a favore di terzo, le parti si accordano
affinché un altro soggetto (il terzo) acquisti il diritto contenuto nel contratto; quindi il terzo non
assume obbligazioni, ma acquista solo diritti.
Il contratto a favore di terzo è valido solo se lo stipulante abbia un proprio interesse, anche di
natura non patrimoniale, a procurare un beneficio ad un terzo.
Le parti di questo contratto sono:
• lo stipulante che è colui che contratta a favore di un terzo;
• il promettente che è colui che si obbliga verso lo stipulante ad eseguire la prestazione a
favore di un terzo.
Un esempio del contratto a favore di terzo è quando il soggetto A vende un bene al soggetto B, il
quale (soggetto B) si obbliga verso il soggetto A ad adempiere al soggetto C che è il terzo e che
non è parte del contratto.
In questa forma di contratto non è richiesta l’accettazione del terzo, perché, nel caso il terzo non
accetti, gli effetti del contratto si produrranno lo stesso a beneficio dello stipulante; nel caso,
invece, che il terzo accetti, la sua dichiarazione di accettazione non serve a perfezionare il
contratto, ma ad impedire la revoca da parte dello stipulante.
Nel caso la prestazione deve essere eseguita dopo la morte dello stipulante, la revoca può
avvenire con il testamento anche se il terzo ha dichiarato di voler accettare il beneficio; tale
diritto dello stipulante viene meno solo se egli (lo stipulante) vi abbia rinunziato per iscritto a tale
potere di revoca.
L’oggetto dei contratti a favore di terzo può essere sia un diritto di credito che un diritto reale,
perché, anche se i diritto reali comportano degli obblighi al terzo, egli è sempre libero di
rifiutare.
Con l’accettazione del contratto, il terzo rende irrevocabile, da parte dello stipulante, l’acquisto
della titolarità del diritto senza, però, subentrare nel rapporto contrattuale che, a differenza della
cessione del contratto, continua ad interessare lo stipulante ed il promettente.
Il contratto a favore di terzo è un’eccezione al principio della relatività degli effetti, perché non è
richiesta l’accettazione del terzo affinché si producano gli effetti; infatti, se il terzo non accetta la
prestazione rimane a beneficio dello stipulante.
Il contratto a favore del terzo, rispetto al contratto con obbligazioni a carico del solo
proponente, ha delle differenze e delle affinità:
• l’affinità è che in entrambi i contratti è riconosciuto all’oblato (chi riceve l’offerta) il
potere di accettare o meno, e l’accettazione nel contratto con obbligazioni a carico del
solo proponente si configura nel non rifiuto;
111
•
la differenza è che nel contratto con obbligazioni a carico del solo proponente lo
stipulante si obbliga verso il beneficiario, e tale beneficiario può essere revocato o
modificato fino a quando il terzo non abbia dichiarato di volerne profittare.
55. Scioglimento del vincolo contrattuale: rinvio. L’art 1372 afferma che il contratto vincola le
parti e riconosce alle stesse il potere di scioglierlo per mutuo consenso.
Altre ipotesi di scioglimento del contratto sono il recesso, la rescissione e la risoluzione.
56. Differimento ed eliminazione dell’efficacia. Il contratto, di regola, produce gli effetti dal
momento nel quale è stato concluso; tuttavia le parti possono disporre clausole che subordinano
gli effetti al verificarsi di un determinato evento, oppure stabiliscono un termine di decorrenza,
oppure possono stabilire che gli effetti durino solo per un determinato periodo.
Da qui la definizione di termine, evento futuro ma certo e di condizione, evento futuro ma
incerto.
La condizione e il termine non possono essere apposti ai negozi puri (non tollerano condizioni),
perché i loro effetti sfuggono alla disponibilità dei terzi; esempio di negozio puro è l’accettazione
o la rinunzia dell’eredità e l’atto di matrimonio.
57. Condizione. La condizione è un evento futuro e incerto, e può essere sospensivo o risolutivo:
• la condizione sospensiva si ha quando le parti subordinano l’efficacia degli effetti del
contratto al verificarsi della condizione;
• la condizione risolutiva si ha quando le parti subordinano l’eliminazione degli effetti del
contratto al verificarsi della condizione.
La condizione può essere apposta sia ai contratti ad effetti reali, sia a quelli ad effetti obbligatori.
Il periodo che va dalla conclusione del contratto al verificarsi dell’evento è chiamato periodo di
pendenza della condizione e in questo periodo il contratto non è privo di effetti, in quanto la
parte interessata può disporre di tale contratto, ma resta il fatto che gli effetti si verificheranno
solo dopo l’avveramento della condizione.
L’art 1359 c.c. (finzione d’avveramento) afferma che la condizione si considera avverata anche
quando non si è verificata per causa imputabile alla parte che aveva interesse affinché non si
avverasse la condizione.
La ratio di tale principio è quella di vietare alle parti di influenzare sia positivamente che
negativamente l’avveramento della condizione.
Le parti, utilizzando la condizione, danno rilevanza ad interessi soggettivi normalmente
irrilevanti, ma che in questo caso decidono la produzione o no degli effetti del contratto.
La presupposizione è una causa di risoluzione del contratto e si presenta come un evento non
dichiarato dalle parti nel contratto, ma considerato dalle stesse come evento necessario affinché il
contratto produca gli effetti; un esempio è quando un soggetto A prende in affitto dal soggetto B
una finestra per osservare una manifestazione; nel contratto gli effetti non sono subordinati al
verificarsi della manifestazione, ma nel caso essa non si svolge, il soggetto B (locatore) non
sarebbe in buona fede se chiedesse al soggetto A il corrispettivo.
L’istituto della presupposizione può riguardare sia eventi futuri, sia presenti o passati; essa non è
prevista dalla legge, ma è molto usata dalla giurisprudenza.
La condizione deve riguardare un interesse meritevole di tutela (giuridicamente e socialmente
utile): la condizione se interessa una sola parte, cioè quella che ne trae vantaggio, si chiama
condizione unilaterale, se interessa entrambe le parti si chiama condizione bilaterale.
La condizione deve avere come oggetto un evento:
• possibile, cioè realizzabile;
• lecito, cioè non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico, e al buon costume;
in caso di condizione illecita, il contratto è nullo, mentre in caso di condizione impossibile, se
la condizione era sospensiva il contratto è nullo, se la condizione era risolutiva si considera la
condizione come non apposta.
112
Questo problema di distinzione tra condizione impossibile o illecita non si ha nel testamento
perché la condizione viene considerata non apposta.
È nullo il contratto con condizione sospensiva meramente potestativa, perché essa dipende
dall’arbitrio di una delle parti: esempio “Ti vendo la mia casa si deciderò di venderla”;
la ragione della nullità sta nel fatto che non c’è la volontà di vendere un diritto o di assumere
un’obbligazione da una parte, mentre l’altra resta in balìa dell’arbitrio del suo contraente.
A differenza del contratto con condizione sospensiva meramente potestativa, il contratto con
condizione risolutiva meramente potestativa è ammissibile e un esempio calzante è la facoltà
di recedere.
La condizione può essere:
• casuale, se dipende dal caso;
• potestativa, se dipende da una delle parti;
• mista, se dipende dall’unione di quella casuale e quella potestativa.
La condizione volontaria è retroattiva, salvo la diversa volontà delle parti o per la natura del
rapporto.
Per quanto riguarda la retroattività della condizione sospensiva, essa consiste nel fatto che gli
effetti si considerano prodotti non dal giorno in cui si è verificata la condizione, ma dal giorno
della conclusione del contratto.
Per quanto riguarda la retroattività della condizione risolutiva, essa consiste nel fatto che gli
effetti si presumono eliminati non dal giorno in cui si verifica la condizione, ma dal giorno della
conclusione del contratto; tuttavia per i contratti ad esecuzione continuata o periodica con
condizione risolutiva, la condizione non ha efficacia retroattiva, cioè non colpisce e pregiudica le
prestazioni già eseguite.
Oltre alla condizione volontaria abbiamo anche la condizione legale quando è la legge a
subordinare l’efficacia del contratto al verificarsi di un evento futuro e incerto; essa non ha
effetto retroattivo.
58. Termine di efficacia e termine di adempimento. Il termine di efficacia è il momento a
partire dal quale (termine iniziale) o entro il quale (termine finale) il contratto produce gli
effetti; il termine non ha efficacia retroattiva, perché gli effetti si verificano o cessano al
momento della sua scadenza.
Il termine può consistere sia in una data che in un evento certo e futuro; tuttavia è anche possibile
che il termine conviva con la condizione.
Ci sono delle similitudini e delle differenze con la condizione:
• la similitudine è che entrambi hanno la funzione di circoscrivere l’efficacia temporale;
• la prima differenza è che il termine, al contrario della condizione, non rende incerta la
produzione degli effetti, perché esso (il termine) consiste in un fatto futuro ma certo;
altra differenza è che la condizione può essere apposta ai contratti con effetti sia reali
che obbligatori, mentre il termine non è opponibile ai contratti ad effetti reali, salvo
diversa disposizione legale, perché è impensabile che un contratto traslativo di proprietà
sia soggetto a termine iniziale o finale dando vita alla c.d. proprietà temporanea.
Accanto al termine di efficacia vi è il termine di adempimento che è il momento a partire dal
quale (termine iniziale) o entro il quale (termine finale) il debitore può o deve adempiere.
59. Requisiti legali di efficacia. Fino adesso abbiamo trattato la condizione volontaria; ora
parliamo della condizione legale.
La condizione legale si ha quando la legge subordina gli effetti del contratto al verificarsi di
effetti futuri e incerti; un esempio è il contratto concluso dal falsus procuràtor che produce gli
effetti per il dominus solo se quest’ultimo (dominus) lo ha ratificato.
La condizione legale, come quella volontaria, può incidere sull’efficacia del negozio senza però
pregiudicare gli effetti preliminari rispetto a quelli finali.
Una differenza tra la condizione legale e quella volontaria è che nei casi di condizione volontaria
i privati possono incidere nei limiti sull’efficacia negoziale.
113
Tuttavia, per la condizione legale, manca una specifica disciplina e la dottrina è contraria ad
applicare, per la condizione legale, la stessa disciplina della condizione volontaria, perché vi
sono delle sostanziali differenze:
1. la condizione legale, non è necessariamente retroattiva, ma, appunto perché manca una
specifica disciplina, si considera retroattiva.
2. non è estendibile alla condizione legale la norma della finzione di avveramento (art 1359
c.c. , vedi paragrafo 57 “la condizione”), perché il verificarsi dell’evento, di regola, non
dipende da chi è parte del negozio.
Alla condizione legale sono invece utilizzate le stesse norme applicate a tutela di chi acquista un
diritto sottoposto a condizione volontaria.
60. Interpretazione. Il contratto è soggetto ad interpretazione, che è trattata dagli art. 1362 ss.
L’art. 1362 c.c. afferma che nell’interpretare un contratto si deve indagare la comune intenzione
delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.
L’interpretazione, quindi, al pari di una prova, deve verificare la comune intenzione; tale
valutazione è fatta tenendo conto non solo della comune intenzione attuale, ma anche di quella
anteriore e posteriore alla conclusione del contratto.
La dottrina associa l’interpretazione alla qualificazione che è rivolta all’accertamento della veste
giuridica adeguata.
L’art 1362² c.c. afferma che l’interpretazione deve tener conto non solo del senso letterale delle
parole, ma anche di altri dati e di elementi del fatto.
Altro criterio d’interpretazione, c.d. criterio della totalità, è postulato dall’art. 1363 c.c. il quale
afferma che le clausole del contratto non devono essere valutate isolatamente, ma devono essere
valutate nell’insieme del contratto.
Alle norme d’interpretazione soggettiva finora analizzate, possiamo affiancare, le norme di
interpretazione oggettiva, le quali sono legate alla struttura e alla funzione del contratto, e alle
tecniche di contrattazione impiegate; tra queste norme vanno ricordate:
• l’art. 1369 c.c. dove in presenza di espressioni con più sensi, esse devono essere intese
nel senso più adeguato e conveniente alla natura e all’oggetto del contratto;
• l’art. 1367 c.c. dove nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono essere
interpretate nel senso in cui possono avere qualche effetto e non nel senso in cui non
avrebbero effetti;
• l’art. 1368 c.c. dove le clausole ambigue s’interpretano secondo gli usi che si praticano
nel luogo dove è stato concluso il contratto;
• l’art. 1370 c.c. dove le clausole delle condizioni generali di contratto nel dubbio
s’interpretano contro l’autore della clausola;
• l’art. 1371 c.c. dove nel momento in cui il contratto rimane dubbio anche dopo tali criteri
d’interpretazione, esso è interpretato secondo sia a titolo oneroso o gratuito:
o se è a titolo oneroso, il contratto è interpretato al fine di contemperare gli
interessi delle parti;
o se è a titolo gratuito, il contratto è interpretato nel senso meno gravoso per il
contraente obbligato.
Un altro criterio utilizzato nell’interpretazione del contratto è dettato dall’art. 1366 c.c. il quale
afferma che il contratto deve essere interpretato secondo buona fede; questo criterio è utilizzato
per risolvere i problemi riguardanti la lealtà e la correttezza delle parti anche se tale lealtà e
correttezza dovrebbero essere una prerogativa della conclusione del contratto.
La giurisprudenza considera tali criteri d’interpretazione del contratto ordinati secondo una scala
gerarchica dove al vertice troviamo i criteri d’interpretazione soggettiva e in seguito i criteri
d’interpretazione oggettiva.
114
61. Integrazione. L’art. 1374 c.c. afferma che le parti sono obbligate non solo al contenuto del
contratto, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza,
secondo usi ed equità; tale articolo è molto simile all’art. 1124 del codice civile del 1865 che
però era annoverato tra le regole sulla interpretazione.
L’integrazione si basa sul presupposto che le parti non regolano ogni aspetto del contratto, ma
solo quelli essenziali; in questi casi entra in funzione la legge che dispone un complesso di
regole, frutto di una lunga esperienza, che integrano i punti che le parti non hanno voluto o
potuto disciplinare.
Tali regole sono chiamate norme suppletive o dispositive, perché colmano le lacune del
regolamento contrattuale e disciplinano determinati rapporti; esse, tuttavia, non sono imperative
e quindi derogabili dalle parti che possono disporre diversamente.
La legge può intervenire con più incisione sul contratto dettando norme interpretative, con le
quali dispone l’inserimento automatico di clausole, anche in sostituzione di quelle contrarie
apposte dalle parti; la ratio di tali norme è quella di realizzare l’interesse generale o di
determinate categorie anche contro la volontà delle parti.
Un esempio classico sono i prezzi imposti finalizzati alla realizzazione di interessi generali; nel
caso tali prezzi non sono rispettati vi è un’automatica riduzione del prezzo.
Dall’intervento della legge sul regolamento contrattuale, mediante le norme interpretative,
emerge una nuova nozione di contratto: esso non è più visto come la realizzazione di interessi
individuali, ma come realizzazione di interessi generali o di categorie deboli.
Tuttavia, per salvaguardare l’autonomia contrattuale, si è affermato che l’intervento integrativo,
in questi casi, opera non sul contenuto, ma sugli effetti: quindi si distingue l’integrazione sul
contenuto (art. 1339-1340 c.c.) dall’integrazione sugli effetti (art. 1374 c.c.).
L’art. 1374 afferma che l’integrazione può avvenire non solo secondo la legge, ma anche
mediante gli usi: la dottrina afferma che l’art. 1374 c.c. fa riferimento agli usi normativi e l’art.
1340 c.c. fa riferimento agli usi negoziali o contrattuali.
La differenza fra usi normativi e usi negoziali o contrattuali è che: gli usi negoziali o
contrattuali fanno riferimento alle pattuizioni in uso in una certa zona e prevalgono sugli usi
normativi che, invece, riguardano le consuetudini; altra differenza è che gli usi normativi
possono essere provati con qualsiasi mezzo e sono rilevati d’ufficio dal giudice, mentre gli usi
contrattuali o negoziali possono essere rilevati solo con i mezzi previsti per la prova dei
contratti.
L’art. 1374 c.c. , oltre agli usi, richiama anche l’equità che è operata dal giudice: l’equità
integrativa, agisce solo in via sussidiaria su aspetti del contratto non regolati dalle parti e che
non sono disciplinati dalla legge.
L’art 1375 introduce come altro strumento integrativo del contratto la buona fede che ha,
logicamente, carattere inderogabile ed opera nel momento esecutivo del rapporto; essa consiste
in una serie di obblighi imposti alle parti come ad esempio l’obbligo di protezione, di sicurezza,
di avviso.
115
h. Cessione dei contratti e subcontrattazione
62. Cessione del contratto. La cessione del contratto è l’effetto giuridico che si ricollega alla
successione inter-vivos di un soggetto nella posizione contrattuale di uno dei contraenti originari:
l’effetto giuridico si realizza con il subingresso del nuovo soggetto nel rapporto al posto della
parte sostituita.
La cessione del contratto è ben diversa dalla cessione del credito, perché con la cessione del
contratto si ha un trasferimento, non di singole situazioni, ma della totalità delle situazioni
soggettive sia di carattere sostanziale (diritti potestativi, facoltà, ecc..) sia di carattere
processuale (azioni di nullità, risoluzione).
Nella cessione del contratto il consenso del contraente ceduto risulta un elemento costitutivo ed
essenziale: tale consenso può manifestarsi sia nello stesso momento dell’accordo, tra cedente e
cessionario, sia successivamente all’accordo, sia preventivamente e in quest’ultimo caso
l’efficacia della cessione è determinata dalla notificazione al ceduto dell’accordo.
Anche se l’interesse del contraente ceduto è essenziale, affinché avvenga la cessione, tale
interesse non fa parte di nessuno degli schemi negoziali tra cedente e cessionario.
Nella cessione del contratto si configurano due strutture negoziali:
1. una prima struttura che riguarda il rapporto fra cedente e ceduto;
2. una seconda struttura che riguarda il rapporto fra cedente e cessionario.
63. Presupposti, oggetto ed effetti della cessione del contratto. Affinché si realizzi la cessione
del contratto è necessario che ciò che è ceduto, ossia la totalità delle situazioni, resti immutato;
tuttavia, può accadere che, a cessione avvenuta, il cessionario e il ceduto possano accordarsi per
modificare il contenuto del contratto.
L’art. 1406 c.c. afferma che sono cedibili solo i contratti con prestazioni corrispettive non
ancora eseguite; tuttavia non è del tutto esclusa l’operatività della cessione del contratto per i
contratti unilaterali o per i contratti con prestazioni già eseguite ex uno latere.
Per quanto riguarda la cessione di contratti ad effetti reali bisogna verificare se questa cessione
sia sufficiente per produrre l’effetto traslativo della titolarità del diritto oppure è necessario, dopo
la cessione, un successivo negozio traslativo integrativo.
La cessione del contratto è ammissibile nei limiti della natura del contratto; per esempio non è
esclusa del tutto la possibilità di cedere un contratto caratterizzato dell’intutitu personae.
La disciplina della cessione del contratto è completata dagli articoli 1408-1409-1410 c.c. :
• l’art. 1408 c.c. afferma che il cedente è liberato dalla sua obbligazione verso il ceduto
solo nel momento in cui la cessione è divenuta efficace; tuttavia il ceduto, se non ha
liberato il cedente, può agire contro di lui (cedente), nel caso il cessionario sia
inadempiente (differenza con l’accollo: il cedente-accollato non è liberato, ma è
condebitore);
• l’art. 1409 c.c. disciplina il rapporto fra ceduto e cessionario: l’articolo afferma che il
ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto e non le
eccezioni derivanti da altri rapporti col cedente, salvo che il ceduto ne abbia fatto
espressa riserva al momento in cui ha accettato la cessione;
• l’art 1410 c.c. disciplina il rapporto tra cedente e cessionario: l’articolo afferma che il
cedente è tenuto a garantire la validità del contratto e, nel caso egli (cedente) si assume la
garanzia dell’adempimento del contratto ceduto al cessionario, il cedente risponde come
fideiussore per le obbligazioni (non adempiute) del ceduto.
116
64. Subcontratto e divieti di subcontrarre. Il subcontratto, a differenza della cessione del
contratto, è caratterizzato dalla dipendenza e dalla derivazione dello stesso subcontratto al
contratto principale; infatti nella sublocazione (art. 1594 c.c.) non vi è successione del terzo
nella posizione contrattuale di una delle parti originarie: il rapporto di locazione principale e
originario perdura tra le parti.
Nella sublocazione si definiscono la figura del subconduttore, che è colui che acquista in
sublocazione una posizione giuridica derivante dal sublocatore: si configura quindi un contratto
di sublocazione che dipende dalla locazione principale.
La sublocazione può essere esclusa preventivamente da un patto che le parti appongono al
contratto di locazione principale.
Tuttavia, è richiesto, nella sublocazione di locazioni urbane, il consenso autorizzativo del
locatore all’adempimento della sublocazione e questo consenso deroga i divieti di
subcontrattazione.
In riguardo alla sublocazione bisogna fare una differenza tra le locazione abitative e quelle non
abitative; per quelle abitative bisogna fare un’ulteriore distinzione:
• sublocazione totale: il consenso del locatore è funzionale ad una cessione di contratto ed
esclude l’utilizzo abitativo del sublocatore;
• sublocazione parziale: il consenso del locatore non esclude l’esigenza abitativa del
primo conduttore (sublocatore) che ha l’onere di comunicazione.
Secondo una disposizione, il consenso del locatore è necessario solo se la sublocazione non è
attuata nello stesso momento della locazione o della cessione dell’azienda.
117
i. Esecuzione dei contratti
65. Buonafede nell’esecuzione dei contratti. L’art 1375 postula che il contratto deve essere
eseguito secondo buona fede; la buona fede è una regola-principio che disciplina il
comportamento esatto ed adeguato delle parti. Essa è utilizzata anche per valutare l’esatto
adempimento, è utilizzata per escludere l’inadempimento di una parte, se l’altra parte ha avuto
un comportamento non previsto dal contratto, ecc…
In conclusione, la buona fede esprime l’esigenza di valutare e misurare gli interessi coinvolti
nell’esecuzione del contratto e tale dichiarazione è fatta secondo principi fondamentali
identificati, appunto dalla buona fede.
66. Risoluzione. Risoluzione, dal latino solvère, significa scioglimento; la risoluzione quindi
scioglie il contratto e fa venir meno gli effetti e il vincolo da esso (contratto) prodotti.
A differenza dell’invalidità, che opera in presenza di difetti originari e che elimina il contratto
dall’inizio come se non fosse mai esistito, la risoluzione opera in casi di difetti sopravvenuti
dopo la conclusione del contratto e tali difetti non toccano l’atto, ma il rapporto contrattuale.
Di conseguenza, gli effetti prodotti dal contratto fino al momento della risoluzione non sono
privi di causa.
Quindi l’efficacia retroattiva della risoluzione vale solo tra le parti (salvo per i contratti a
esecuzione continuata o periodica) e non nei confronti dei terzi (art. 1458 c.c.); difatti se un terzo
ha acquistato un diritto da una delle parti del contratto che poi è stato risolto, tale risoluzione non
pregiudica la sua (del terzo) situazione.
La risoluzione non è l’unico modo affinché operi lo scioglimento del contratto: difatti abbiamo il
mutuo dissenso, il recesso unilaterale e la condizione risolutiva.
La risoluzione opera quando vi è un difetto sopravvenuto che incide sul rapporto contrattuale e
che comporta un’alterazione del legame sinallagmatico tra le prestazioni corrispettive (rapporto
sinallagmatico = la prestazione di una parte ha la sua giustificazione nella controprestazione
dell’altra).
Le tre ipotesi di risoluzione disciplinate dalla legge sono:
a) per inadempimento;
b) per impossibilità sopravvenuta;
c) per eccessiva onerosità.
A) Risoluzione per inadempimento (art. 1453 ss c.c.). In caso di inadempimento di una parte,
l’altra ha la facoltà di scegliere tra la domanda di adempimento e la risoluzione. Se permane un
interesse ad un adempimento anche tardivo, essa può chiedere la condanna della controparte ad
eseguire la prestazione non ancora adempiuta (domanda di adempimento); se, invece, non ha
un interesse ad un adempimento tardivo, essa può chiedere la risoluzione del contratto: perde il
diritto a ricevere la prestazione, ma, comunque, non deve più eseguire la sua e, nel caso l’avesse
già eseguita, può richiedere la restituzione.
Se la parte non inadempiente sceglie l’adempimento tardivo, può sempre chiedere
successivamente la risoluzione del contratto; non è possibile il viceversa perché la parte
inadempiente non può essere pregiudicata ulteriormente.
La parte inadempiente non può bloccare la risoluzione del contratto con un’esecuzione tardiva,
salvo nel caso in cui la parte non inadempiente accetta l’adempimento tardivo e rinuncia alla
risoluzione.
La parte non inadempiente può chiedere il risarcimento del danno che è misurato in
risarcimento aggiuntivo, se ha chiesto l’adempimento tardivo, oppure è misurato in
risarcimento sostitutivo della prestazione, se ha chiesto la risoluzione.
La risoluzione per inadempimento è meglio qualificata come risoluzione giudiziale, in quanto,
su domanda della parte, essa è pronunziata dal giudice con sentenza costituiva; la risoluzione,
essendo un rimedio estremo, per essere chiesta è necessario che l’inadempimento non abbia
scarsa importanza ma, anzi, notevole importanza.
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La valutazione della gravità dell’inadempimento è rimessa al giudice, salvo previsione legale; il
giudice può anche accertare se l’inadempimento è imputabile o non alla parte inadempiente.
La risoluzione di diritto consiste nel fatto che in alcuni casi la risoluzione opera
automaticamente senza la necessità della sentenza del giudice; questi casi sono:
1) diffida ad adempiere;
2) clausola risolutiva espressa;
3) scadenza del termine essenziale.
1) Diffida ad adempiere (art. 1454 c.c.). Affinché possa operare l’adempimento tardivo
dell’inadempiente senza ricorrere all’azione giudiziale, la parte non inadempiente può
intimare per iscritto all’altra parte inadempiente ad adempiere entro un adeguato termine che,
di regola, è di 15 giorni; se entro tale termine la parte inadempiente non adempie, il contratto
si ritiene risolto di diritto senza la necessità dell’intervento del giudice. Tale avvertimento,
ossia che alla scadenza del termine il contratto si ritiene risolto, deve essere espressamente
dichiarato dalla parte non inadempiente, altrimenti l’intimazione vale solo come costituzione
in mora.
2) Clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.). I contraenti possono concordare espressamente
che il contratto si risolve nel caso una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le
modalità stabilite; in questo caso la risoluzione si verifica di diritto, cioè senza l’intervento
del giudice, quando la parte interessata dichiara all’altro di volersi avvalere della clausola
risolutiva. Affinché la clausola risolutiva espressa sia efficace non è richiesto che
l’inadempimento sia di grande importanza, ma è necessario che le parti abbiano indicato
esplicitamente le obbligazioni su cui agisce tale clausola.
3) Scadenza del termine essenziale (art. 1457 c.c.). Il contratto si ritiene risolto senza bisogno
di alcuna dichiarazione quando una parte non adempie in un termine essenziale stabilito
nell’interesse dell’altra parte; tuttavia, nel caso la parte non inadempiente abbia un interesse a
ricevere un adempimento anche tardivo, essa può esigere la prestazione rinunziando alla
risoluzione dando notizia di tale decisione all’altra parte entro 3 giorni dalla scadenza del
termine. È stato scelto questo termine breve di 3 giorni per non lasciare la parte inadempiente
in un lungo stato di incertezza. Il termine è riconosciuto essenziale quando la parte non
inadempiente non ha nessun interesse a ricevere un adempimento tardivo; il termine
essenziale può derivare o dalla natura della prestazione o dal contratto o dalla volontà dei
contraenti.
La risoluzione di diritto non esclude tassativamente l’intervento del giudice, il quale può essere
chiamato a risolvere controversie circa la risoluzione: la sua sentenza è dichiarativa e non
costitutiva, in quanto accerta solo la validità della risoluzione. Nel caso il giudice accerti che la
contestazione contro la parte che si è avvalsa della risoluzione sia fondata, questa parte (che si è
avvalsa della risoluzione) è condannata a risarcire il danno per aver impedito e non accettato la
prestazione dell’altra parte.
Nel caso di un contratto plurilaterale, l’inadempimento di una delle parti non provoca la
risoluzione, salvo nel caso in cui tale prestazione era da considerarsi essenziale (art. 1459 c.c.).
L’eccezione di inadempimento e la sospensione dell’esecuzione sono strumenti di autotutela:
● l’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) riguarda i contratti con prestazioni
corrispettive: le parti oltre a tenere un comportamento attivo (agendo per l’adempimento)
possono tenere un comportamento passivo e di attesa rifiutandosi di adempiere la
prestazione nel caso in cui l’altra parte non adempie o non offre di adempiere la
controprestazione contemporaneamente, salvo nei casi in cui sono previsti dalla parti o
dalla natura del contratto termini diversi per l’adempimento. Un rifiuto illegittimo è
contrario alla buona fede.
● la sospensione dell’esecuzione (art. 1461 c.c.): ciascun contraente può sospendere
l’esecuzione della prestazione da lui dovuta se le condizioni patrimoniali dell’altra fanno
sorgere pericoli pere il conseguimento della controprestazione; tuttavia, se sono offerte
idonee garanzie, la sospensione non ha più giustificazione.
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Le parti, affinché non sia impedita o ritardata l’esecuzione delle prestazioni, possono accordarsi
per apporre al contratto la c.d. clausola solve et repete (art. 1462 c.c.) (prima paghi e poi chiedi
la restituzione), la quale impedisce a una delle parti di opporre le eccezioni; tuttavia tale clausola
è inefficacie per l’eccezione di nullità, di annullabilità e di rescissione. Il giudice in presenza di
gravi motivi può sospendere la condanna all’adempimento imponendo una cauzione.
B) Risoluzione per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 ss c.c.). L’impossibilità sopravvenuta
per causa non imputabile al debitore provoca l’estinzione del contratto: se il contratto ha per
oggetto prestazioni corrispettive legate da un vincolo sinallagmatico, esso (contratto) è ritenuto
risolto.
La parte liberata dall’adempimento per impossibilità sopravvenuta della propria prestazione non
può chiedere la controprestazione e, nel caso avesse già ricevuto la controprestazione, egli deve
restituirla.
La risoluzione opera di diritto ma può essere richiesta anche una sentenza dichiarativa del
giudice che accerta la validità de4lla risoluzione. Se l’impossibilità è imputabile al debitore,
agiscono le norme della risoluzione per inadempimento.
L’art. 1465 c.c. dispone che nei contratti traslativi o costitutivi di diritti reali, l’acquirente
non è liberato dall’obbligo di eseguire la controprestazione se la cosa è perita per causa non
imputabile all’alienante, anche se non gli (all’acquirente) è stata consegnata la cosa; se l’oggetto
del trasferimento è una cosa determinata solo nel genere, l’acquirente non è liberato dall’obbligo
di eseguire la controprestazione se l’alienante gli ha consegnato la cosa o se la cosa è stata
individuata. Tuttavia l’acquirente è liberato dall’eseguire la controprestazione se il trasferimento
era sottoposto a condizione sospensiva e se l’impossibilità sopravvenuta si è verificata prima che
si verifichi la condizione; la ratio di tale articolo basa sul fondamento che i contratti traslativi o
costitutivi di diritti reali producono gli effetti già dal momento del consenso.
L’ art. 1464 c.c. dispone che nel caso la prestazione di una parte è divenuta parzialmente
impossibile, l’altra parte può o eseguire una controprestazione ridotta proporzionalmente oppure
può richiedere la risoluzione del contratto non avendo interesse ad un adempimento parziale;
anche l’impossibilità temporanea può comportare la risoluzione del contratto.
C) Risoluzione per eccessiva onerosità (art. 1467 ss c.c.). Essa opera per i contratti a
esecuzione o continuata o periodica o differita: la risoluzione per eccessiva onerosità si ha
quando a causa di eventi eccezionali ed imprevedibili verificatasi nel momento che va dalla
conclusione all’esecuzione del contratto una prestazione diventa eccessivamente onerosa rispetto
all’altra creando uno squilibrio. La parte che deve eseguire la prestazione divenuta
eccessivamente onerosa può richiedere la risoluzione del contratto.
La differenza tra rescissione e risoluzione è che lo squilibrio della rescissione è presente già al
momento della conclusione del contratto, mentre quello della risoluzione è generato da un evento
eccezionale ed imprevedibile.
Affinché possa operare la risoluzione è necessario che:
● l’onerosità di una prestazione sia realmente eccessiva e non insignificante: la valutazione
logicamente è rimessa al giudice;
● l’eccessiva onerosità non rientri nella casualità-rischio del contratto;
● l’eccessiva onerosità deve verificarsi nel momento che va dalla conclusione
all’esecuzione del contratto;
● l’eccessiva onerosità deve essere causata da avvenimento straordinari ed imprevedibili,
cioè non realizzabili dalla capacità dell’uomo.
La parte contro la quale è domandata la risoluzione del contratto può, tuttavia, evitarla offrendo
di modificare equamente le condizioni del contratto.
Nel caso di obbligazioni a carico di una sola parte, questa può richiedere una riduzione della sua
prestazione o una modifica delle modalità di esecuzione.
L’eccessiva onerosità richiede l’intervento del giudice, il quale valuta i vari parametri e decide
quali devono essere le riduzione o le modifiche: quindi per l’eccessiva onerosità non opera una
risoluzione di diritto.
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L’eccessiva onerosità non agisce per i contratti aleatori, perché il rischio di uno squilibrio delle
prestazioni è una sua caratteristica genetica.
La risoluzione del contratto scioglie il rapporto contrattuale e provoca la cessazione degli effetti;
essa è retroattiva tra le parti, ma tale retroattività non vale nei confronti con i terzi.
La retroattività trova un limite per i contratti a esecuzione continuata o periodica, perché essa
non pregiudica le prestazioni già eseguite.
l. Strumenti dell’autonomia negoziale: profilo sistematico.
67. Principali classificazioni dei negozi e dei contratti. Gli atti di autonomia negoziale sono
ordinati in categorie e tale suddivisione è fatta non per una mera finalità teorica ma per una
finalità pratica, perché gli atti facenti parte ad una stessa categoria sono assoggettati tutti a
specifiche norme e questo fatto rende più facile al giudice la risoluzione delle controversie.
Le categorie si dividono:
● per gratuità ed onerosità; la distinzione tra atti a titolo gratuito e quelli a titolo oneroso
fonda sulla diversa tutela che è offerta al terzo, fonda sui limiti di responsabilità e di
garanzia delle parti, ecc…
● per numero delle parti; la distinzione è fatta tra i negozi unilaterali , bilaterali e
plurilaterali;
● per qualità delle parti; la distinzione è fatta in base alle qualità e all’identità delle parti;
● per natura delle parti; la distinzione è fatta tra gli atti tra privati e quelli conclusi con la
Pubblica Amministrazione (P.A.);
● per tecniche di formazione; i negozi si distinguono in consensuali, dove si perfezionano
con il semplice consenso, e in reali, che richiedono per il perfezionamento oltre al
consenso anche la consegna;
● per attribuzioni patrimoniali; la differenza è fatta tra i contratti unilaterali (contratti
con prestazione a carico di una sola parte), dove vi è onerosità solo per la parte a cui la
prestazione è a carico, e i contratti corrispettivi, caratterizzati dalla corrispettività ossia
dall’equivalenza economica delle prestazioni e dal sinallagma, ossia dal nesso funzionale
ed essenziale delle prestazioni;
● per i contratti commutativi e aleatori; la distinzione è fatta tra i contratti commutativi,
i quali non dipendono da fattori casuali, e i contratti aleatori, dove è il caso a decidere il
vantaggio o lo svantaggio delle parti nel contratto (es: assicurazione);
● per forma; la distinzione è fatta tra i contratti a forma liberi e i contratti formali o solenni,
dove è la legge o la convenzione a dettare le forme da utilizzare;
● per efficacia; una prima distinzione è fatta tra i negozi unilaterali recettizi, dove l’atto
deve essere ricevuto dal destinatario (es: disdetta del contratto di assicurazione), e i negozi
unilaterali non recettizi, dove l’atto non deve essere ricevuto dal destinatario; altra
distinzione circa l’efficacia è fatta tra i negozi a effetti reali o traslativi, che producono il
trasferimento della proprietà o di un diritto, e i negozi a effetti obbligatori, che
comportano la nascita di un rapporto obbligatorio; l’ultima differenza è fatta tra i negozi
ad efficacia originaria, che producono immediatamente i loro effetti, e i negozi ad
efficacia sospesa o condizionata o a termine, dove gli effetti sono sottoposti a
sospensione o a condizione o a termine;
● per esecuzione; la distinzione è fatta tra gli atti negoziali ad esecuzione istantanea, dove
l’esecuzione si risolve in tempi brevi, e gli atti negoziali ad esecuzione continuata o
periodica, dove l’esecuzione si protrae nel tempo.
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B. Autonomia negoziale a contenuto non patrimoniale.
a. Atti a contenuto non patrimoniale.
68. Premessa. La dottrina ha dato scarsa importanza agli atti a contenuto non patrimoniale,
concentrandosi sugli atti con regolamentazione patrimoniale; tuttavia, i dottrinari stanno
cercando di superare queste tipicità.
69. Negoziabilità senza patrimonialità. Il nostro codice e il nostro ordinamento pongono come
obiettivo centrale la realizzazione e la tutela dell’uomo; quindi appunto perché vi è questa
centralità della persona umana è sbagliato dire che l’ordinamento tutela soprattutto i beni di
natura patrimoniale ed è sbagliato asserire che l’ordinamento tutela i beni di natura non
patrimoniale solo perché esiste un interesse patrimoniale, ossia si dimostri che quei beni sono
negoziabili.
La patrimonialità è un requisito mutevole utilizzato per definire l’obbligazione e il
contratto e per definire i limiti dell’operatività delle norme; la negoziabilità, invece, serve a
verificare l’idoneità di un bene ad essere oggetto di atti di autonomia; essa è strettamente legata
alla meritevolezza, in quanto l’economicità di un bene deve realizzare interessi meritevoli di
tutela.
Un errore che non bisogna commettere è quello di considerare gli atti a contenuto non
patrimoniale come atti con operazioni contrattuali, mutando così la natura non patrimoniale del
bene in natura patrimoniale.
In conclusione non bisogna confondere i negozi di natura patrimoniale con gli atti a contenuto
non patrimoniale.
70. Specificità degli atti a contenuto non patrimoniale. La dottrina afferma che è impensabile
utilizzare le stesse norme adoperate per gli atti a contenuto patrimoniale per quelli a contenuto
non patrimoniale; ad esempio il principio dell’affidamento, vigente in materia contrattuale,
risponde a esigenze di sicurezza nel traffico giuridico ed è applicabile solo quando si parla di
diritti patrimoniali.
71. Segue. Talune ipotesi. Esempi di atti con contenuto non patrimoniale li ritroviamo nel diritto
di famiglia (es: accordi coniugali), nel diritto della personalità (es: atti di disposizione del corpo)
e nel fenomeno associativo; in questo ultimo caso è molto discusso il contratto costitutivo
dell’associazione, perché tale contratto non può non avere un ruolo economico e quindi
patrimoniale.
b. Atti di disposizione del corpo.
72. Fondamenti e limiti degli atti di disposizione dell’integrità psicofisica. L’articolo 5 del
codice civile vieta gli atti di disposizione del corpo quando comportano una diminuzione
permanente dell’integrità fisica o quando sono contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon
costume.
Tale norma è molto controversa e non poche volte è stato oggetto di discussione a causa delle
continue scoperte in campo biologico come la biogenetica e i trapianti.
Venne introdotta nel codice civile per eliminare i dubbi della configurabilità di un diritto
sul proprio corpo e per conservare l’integrità fisica al fine di eseguire i doveri verso lo Stato e
verso la famiglia.
In seguito tale visione fu rivista e all’uomo venne riconosciuta una certa libertà di disporre del
proprio corpo entro logicamente il limite di assicurare la tutela dell’interesse individuale e
collettivo alla salute (art. 32 Cost.), ossia di un valore psichico oltre che fisico.
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73. Trattamenti sanitari. Problemi e discussioni tuttora accese riguardano i trattamenti sanitari:
● circa il trattamento medico – chirurgico - l’ordinamento afferma che tale trattamento
trova la ragione della sua liceità non nel consenso del paziente, ma nel raggiungimento di
un interesse alla salute del paziente: perciò l’interesse è elemento essenziale ma non
sufficiente della liceità del trattamento;
● circa la sperimentazione - la sperimentazione, per l’incertezza degli effetti, è sottoposta
ai limiti imposti dall’art. 5, cioè non deve comportare diminuzioni permanenti
all’integrità fisica e psichica;
● circa la sterilizzazione - vi sono due opposte fazioni: la prima si oppone a tale
trattamento in quanto comporterebbe un pregiudizio permanente alla funzione procreativa
e quindi ritengono illecita la sterilizzazione; l’altra invece lo ritiene lecito in base al
principio di libertà di autodeterminarsi;
● circa il rifiuto di cure - questo è un argomento molto discusso e vasto, difatti
l’ordinamento, sotto la spinta di ricorrenti rifiuti, ha limitato le terapie al solo caso di
necessità; negli altri casi il soggetto può rifiutare anche se tale scelta gli comporta una
diminuzione permanete. Altro problema riguarda l’eutanasia passiva, ossia il rifiuto di
curarsi, dove tale rifiuto è lecito solo se è diretto a perseguire l’interesse a morire
naturalmente salvaguardando la propria dignità.
Il principio di libertà di autodeterminarsi afferma che ogni soggetto è libero di disporre del
proprio corpo senza alcun limite dettato dall’integrità fisica o dalla salute; a tale principio si
oppongono molti dottrinari che affermano che la salute è non solo un diritto, ma un dovere, cioè
l’uomo ha il dovere inderogabile di provvedere alla conservazione della propria salute.
74. Natura degli atti di disposizione. Gli atti di disposizione del corpo non possono essere intesi
come atti di disposizione delle situazioni patrimoniali, perché dagli atti di disposizione del corpo
il soggetto può trarre solo la realizzazione ottimale della personalità.
Per gli atti di disposizione del corpo, il consenso ha un ruolo fondamentale: deve essere reale,
consapevole, revocabile e conferisce al destinatario la facoltà di compiere determinati atti che
senza il consenso sarebbero considerati illeciti.
75. Atti di disposizione e legislazione speciale. Tra gli atti di disposizione del corpo troviamo:
● disposizione del rene al fine di trapianto terapeutico; tale atto è consentito ai genitori, ai
figli, ai fratelli del paziente e, in assenza di questi, a donatori esterni, inoltre deve essere
tassativamente a titolo gratuito. Affinché si possa procedere al trapianto è necessaria
l’autorizzazione del giudice, che constata se il disponente è legalmente e naturalmente
capace di agire e se è consapevole delle conseguenze personali;
● prelievi di organi o tessuti da cadaveri; ultimamente tale materia è stata disciplinata con
il principio del consenso espresso dal soggetto e tale dichiarazione nega ai familiari di
opporsi all’espianto. Non possono essere espiantati l’encefalo e le ghiandole sessuali e il
consenso del soggetto può essere espresso o palesemente in vita, manifestando la propria
volontà all’espianto, oppure con dichiarazione all’ASL;
● donazione di sangue a fini trasfusionali; le donazioni di sangue e plasma devono essere a
titolo gratuito e fatte da persona legalmente capace; non devono, logicamente,
compromettere permanentemente l’integrità fisica;
● mutamento del sesso; l’adeguamento dei caratteri sessuali è fatto solo previa
autorizzazione del tribunale che verifica il reale mutamento psicologico e la capacità del
soggetto;
● interruzione della gravidanza; la gravidanza può essere interrotta se essa può comportare
un serio pericolo alla salute fisica o psichica della madre, previa autorizzazione del medico,
oppure volontariamente entro 90 giorni;
● attività sportiva; riguarda i controlli medici che vengono effettuati agli atleti delle attività
agonistiche.
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76. Atti di disposizione di parti staccate del corpo e maternità surrogata. Le parti staccate del
proprio corpo diventano, al momento del distacco, oggetto di proprietà della persona della quale
si distaccano, o se derelictae, appropriabili da terzi per occupazione.
Esse sono non solo i capelli e il sangue, ma anche gli organi, i tessuti, le cellule somatiche, il
DNA, gli zigoti e gli embrioni; tali parti non possono essere utilizzate dall’uomo come fonte di
profitto, infatti, la compravendita di parti del corpo è NULLA.
È dichiarato nullo anche il contratto con il quale una donna si lascia impiantare un embrione e
porta a termine una gravidanza rinunciando al diritto di madre; la nullità si ricerca nella illiceità
della causa (maternità surrogata).
Molti problemi sorgono soprattutto in merito alla fecondazione artificiale:
l’inseminazione artificiale è omologa quando il seme proviene dal marito, è eterologa se
proviene da un donatore.
Manca, tuttavia, per questa materia una determinata e specifica disciplina: difatti esempio
tangente di ambiguità è la possibilità del padre di disconoscere il figlio nato da inseminazione
eterologa, anche se il padre ne aveva dato il consenso: in questo caso il marito non è padre
biologico.
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C. Singoli Contratti.
77. Premessa. Esistono moltissimi tipi di contratti, ciascuno dotato di un peculiare regolamento;
bisogna fare la differenza tra contratti tipici e contratti atipici:
• per i contratti tipici è prevista dall’ordinamento una determinata e specifica disciplina;
• i
contratti
atipici,
invece,
sono
rimessi
all’espressione
creativa
dell’autoregolamentazione.
a. Contratti relativi al trasferimento di situazioni.
78. Compravendita. L’art. 1470 c.c. definisce la compravendita come “il contratto che ha per
oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il
corrispettivo di un prezzo”.
La compravendita realizza quindi un trasferimento di proprietà o di un altro diritto; essa, di
regola, è ad effetti reali, cioè la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per “effetto
del consenso legittimamente manifestato dalle parti”. È un contratto consensuale ad effetti reali.
Tuttavia, esistono situazioni che non permettono immediatamente il trasferimento della proprietà
o del diritto: si parla di vendita con effetti obbligatori quando il contratto di compravendita
genera a carico del venditore l’obbligo di fare acquistare la proprietà della cosa al compratore.
La vendita ad effetto obbligatorio si distingue dalla vendita con riserva di gradimento e dalla
vendita con riserva di proprietà, perché in questi ultimi 2 casi non sorge l’obbligo per il venditore
di fare acquistare la proprietà della cosa al compratore:
• nella vendita con riserva di gradimento, la vendita e il conseguente effetto traslativo si
perfezionano con il gradimento del compratore;
• nella vendita con riserva di proprietà, la vendita e il conseguente effetto traslativo si
perfezionano solo con il pagamento dell’ultima rata di prezzo del compratore.
Nella vendita alternativa (art. 1275 c.c.) il trasferimento dell’oggetto avviene solo quando tale
oggetto sia stato scelto tra due o più oggetti alternativi.
Nella vendita di cose generiche (art. 1378 c.c.) il trasferimento avviene solo dopo la
specificazione della quantità negoziata indipendentemente dalla consegna.
Nella vendita di cose future (art. 1472 c.c.) il trasferimento si realizza solo dopo che la cosa
futura è venuta in esistenza; tale vendita è un contratto ad effetti tipici parzialmente sospesi e
può produrre anche effetti preliminari oltre a quelli finali.
La vendita di cosa futura può avere sia una funzione commutativa che una funzione aleatoria:
• se assume una funzione commutativa, il compratore si assume il rischio, non della
mancata realizzazione della speranza, ma solo delle normali variazioni che possono
avvenire, cosicché, se la cosa non viene ad esistenza, il contratto è nullo;
• se assume una funzione aleatoria, il compratore si assume il rischio della speranza, cioè,
anche se la cosa non è venuta ad esistenza, parzialmente o totalmente, egli ha l’obbligo di
pagare il prezzo.
La vendita di cosa altrui produce l’obbligo per il venditore di acquistare la cosa dal proprietario
per trasmetterla al compratore: la trasmissione della proprietà opera automaticamente nel
momento in cui il venditore acquista il bene dal terzo
La vendita di cosa altrui si differenzia dal contratto preliminare, perché nel contratto
preliminare la proprietà sosta prima nel patrimonio del venditore ed è necessaria una nuova
dichiarazione di volontà del compratore.
Nella vendita di cosa altrui l’inadempimento del venditore comporta il risarcimento del danno; se
il venditore inadempiente ha dichiarato propria l’altrui cosa, il compratore può richiedere oltre
alla risoluzione del contratto anche il risarcimento del danno.
Nel caso di vendita di cosa parzialmente altrui il compratore può richiedere la risoluzione del
contratto e il risarcimento del danno solo se non ha conseguito l’intera proprietà della cosa,
altrimenti può ottenere solo una riduzione del prezzo.
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L’art. 1465 c.c. dispone che con la titolarità del diritto si trasferiscono anche i rischi derivanti da
perimento o deterioramento fortuito della cosa; tuttavia, tale regola è derogata qualora la vendita
è sottoposta a condizione sospensiva e l’impossibilità sopravvenuta si verifichi prima della
condizione. Regole particolari sono dettate per la vendita di cose viaggianti o da consegnare
all’arrivo.
Un elemento essenziale della compravendita è il prezzo, inteso come corrispettivo in denaro:
esso deve essere determinato o almeno determinabile. Esso può essere accordato dalle parti
oppure da un terzo arbitratore: se manca tale arbitratore, il tribunale può nominare un nuovo
arbitratore. Il prezzo è dichiarato indeterminato quando la determinazione del terzo è soggetta ad
approvazione delle parti oppure quando tale determinazione è rimessa ad una delle parti.
Appunto perché il prezzo è un elemento essenziale della compravendita, il codice detta una serie
di criteri legali utilizzati dal giudice:
● criterio del prezzo imposto, nel caso si parli di compravendita di cose il cui prezzo è
fissato dalle autorità;
● criterio del prezzo normalmente praticato dal venditore;
● criterio del prezzo di mercato o della quotazione di borsa.
Per quanto riguarda la forma e la pubblicità del contratto di compravendita, è richiesta la forma
scritta a pena di nullità solo per la vendita di immobili e beni mobili registrati. Oggi è possibile
trascrivere anche il contratto preliminare di compravendita e tale trascrizione ha solo un effetto
prenotativo limitato nel tempo.
79. Segue. Gli obblighi del venditore. Il venditore ha una serie di obblighi da rispettare: obbligo
inerente alla traslazione è quello di far acquistare al compratore la proprietà della cosa o del
diritto; obbligo inerente all’acquisto del possesso è quello di consegnare il bene venduto al
compratore.
Per quanto riguarda la consegna, la legge disciplina che la cosa deve essere consegnata nello
stato nel quale era al momento della vendita con gli accessori, i frutti e i documenti; obbligo del
venditore è quello di custodire la cosa fino al momento della consegna. La consegna deve
avvenire nel luogo in cui la cosa si trovava al tempo della vendita oppure nel luogo dove il
venditore ha domicilio oppure dove quest’ultimo (il venditore) ha impresa oppure, ancora, dallo
spedizioniere o vettore.
Il venditore ha l’obbligo di garantire al compratore che la cosa non è viziata da evizione, ossia
quando dopo la vendita un terzo rivendica con successo la proprietà della cosa e il compratore ne
perde la proprietà. L’evizione può essere totale, minore o parziale.
In caso di evizione totale, se il terzo ancora non ha iniziato il giudizio, il compratore può
sospendere il pagamento del prezzo; se il terzo ha rivendicato con successo la proprietà della
cosa sottraendola al compratore, quest’ultimo (il compratore), salvo nel caso in cui la vendita è
fatta a rischio e pericolo del compratore, può richiedere oltre alla risoluzione anche la
restituzione del prezzo e il risarcimento del danno indipendentemente da dolo o colpa del
venditore.
L’evizione è minore quando un terzo ha nei confronti della cosa diritti di godimento non
apparenti e non dichiarati che diminuiscono il libero godimento del compratore: in questi casi, il
compratore può richiedere o la risoluzione del contratto oppure una riduzione del prezzo con la
possibilità di chiedere il risarcimento del danno.
L’evizione parziale si ha quando un terzo rivendica con successo la proprietà di una porzione
del bene: anche in questo caso, il compratore può o risolvere il contratto o una chiedere una
diminuzione del prezzo con risarcimento del danno.
Il compratore, convenuto in giudizio da un terzo che pretende di avere diritti sulla cosa venduta,
ha l’obbligo di chiamare in causa il venditore; se non lo fa ed è condannato con sentenza passata
in giudicato, egli (il compratore) perde il diritto alla garanzia se il venditore dimostra che
esistono ragioni sufficienti per impedire l’evizione; il compratore perde lo stesso la garanzia se
riconosce il diritto del terzo e non prova che non esistono ragioni sufficienti per impedire
l’evizione.
126
Il venditore ha l’obbligo di garantire al compratore che la cosa non ha vizi occulti, cioè vizi
materiali, e che non ha vizi redibitori, ossia che la cosa è viziata al punto tale da non essere
idonea all’uso a cui è destinata. La garanzia non è dovuta quando i vizi occulti o erano a
conoscenza del compratore o il compratore poteva riconoscerli con la normale diligenza, oppure
quando il compratore ha alienato o trasformato la cosa.
Il compratore può fare denuncia di vizi entro 8 giorni pena la decadenza: il termine di decadenza
decorre dal giorno della consegna se si tratta di vizi apparenti, decorre dal giorno della scoperta
se si tratta di vizi occulti. Tale denuncia non è necessaria quando il venditore abbia riconosciuto
il vizio o l’abbia occultato.
L’azione di denuncia si prescrive entro 1 anno dalla consegna.
Il compratore, in sede di giudizio, può scegliere o l’azione redibitoria, con la quale chiede la
risoluzione del contratto e il rimborso del prezzo, o l’azione estimatoria, con la quale chiede la
riduzione del prezzo e, se lo ha già pagato, il suo parziale rimborso.
Il compratore può chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento nel caso in cui al
momento della consegna il venditore abbia scambiato la cosa (es: aceto invece di vino); tale
azione è soggetta a termini ordinari di decadenza e prescrizione.
Se, invece, vi è errore del compratore sulla qualità della cosa, egli (il compratore) può chiedere
l’azione di annullamento per errore e tale azione si prescrive in 5 anni.
80. Segue. Gli obblighi del compratore. L’obbligo del compratore è quello di pagare il prezzo
nel tempo e nel luogo fissato: il pagamento, in mancanza di accordi, va fatto al momento della
consegna nel luogo nel quale questa (la consegna) o per legge o per patto deve avvenire,
altrimenti al domicilio del venditore.
In caso il compratore non si presenti per ricevere la cosa o non paghi il prezzo nel termine
stabilito, il venditore può o esperire la vendita all’incanto in danno al compratore, incassando
il ricavato e domandando un risarcimento, oppure può richiedere la risoluzione del diritto di
vendita.
Il venditore per avvalersi della risoluzione deve comunicare la scelta al compratore entro 8 giorni
dalla scadenza del termine per il pagamento; in difetto vale la risoluzione per inadempimento.
A carico del compratore sono poste o per legge o per patto le spese della compravendita e le altre
spese accessorie.
81. Segue. Discipline particolari e patti particolari. Norme specifiche sono dettate per alcuni
tipi di compravendite con riferimento all’oggetto:
• vendita con riserva di gradimento: la vendita si perfeziona con la comunicazione del
gradimento del compratore al venditore;
• vendita a prova: la vendita è sottoposta a condizione sospensiva che consiste
nell’idoneità o meno della cosa;
• vendita su campione: la vendita è sottoposta a risoluzione se la cosa venduta è anche
lievemente difforme dal campione;
• vendita su tipo di campione: in questo caso la risoluzione è possibile solo se la
difformità della cosa venduta dal campione è notevole;
• vendita su documenti: tale vendita ha per oggetto cose mobili rappresentate da
documenti, i quali attribuiscono a chi li possiede il diritto di ottenere la consegna delle
cose dal detentore e il potere di disporne;
• vendita di cose viaggianti: tale vendita ha per oggetto cose viaggianti e tra i relativi
documenti trasmessi al compratore vi può essere anche la polizza di assicurazione contro
i rischi del trasporto che è in generale a carico dello stesso compratore;
• vendita fronte pagamento a mezzo banca: in questo caso il pagamento del prezzo del
compratore è fatto tramite banca incaricata dal venditore; se il compratore si rifiuta di
pagare il venditore si può rivolgere direttamente al compratore;
127
•
vendita cif: in questa vendita la somma da pagare dal compratore comprende il prezzo
della cosa venduta (cost), delle spese di assicurazione (insurance) e del trasporto
(freight);
• vendita fob: la somma da pagare dal compratore comprende oltre alle spese della
clausola cif anche le spese di caricamento nel trasporto.
La compravendita con patto di riscatto è il patto dove il venditore si riserva il diritto di riavere
la cosa venduta mediante la restituzione del prezzo e dei rimborsi stabiliti dalla legge (art. 1500
c.c.). Tale istituto è utilizzato da chi ha bisogno di liquidità e pensa di recuperare in seguito il
bene venduto; il diritto di riscatto non può essere ceduto dal venditore ad un terzo.
Il trasferimento avviene immediatamente e il riscatto opera con retroattività reale, cioè il
venditore ha diritto a ricevere la cosa esente da pesi o ipoteche, ma ha tuttavia il dovere di
rispettare le locazioni fatte senza frode, la cui durata non supera i 3 anni.
Il diritto di riscatto deve essere esercitato entro 2 anni dalla vendita per i beni mobili e entro 5
anni per i beni immobili; il codice dispone che il prezzo per il riscatto deve essere uguale al
prezzo della compravendita maggiorato dei rimborsi.
Il legislatore dichiara nullo la vendita con patto di riscatto a scopo di garanzia, perché è un
modo per eludere il divieto del patto commissorio, con il quale viene aggravata non solo la
situazione del venditore-debitore, ma anche quella degli altri creditori del venditore.
Con il patto commissorio il debitore-venditore si accorda con il creditore-compratore affinché,
in mancanza del pagamento, cioè del riscatto, la proprietà della cosa passa al creditorecompratore.
Il patto di riscatto è differente dal patto di retrovendita, perché il patto di retrovendita è ad
effetti obbligatori e quindi il compratore ha l’obbligo di rivendere il bene al venditore;
il trasferimento del bene dal compratore al venditore non è automatico, ma avviene con un
successivo atto e non valgono i limiti di tempo e di prezzo stabiliti dal patti di riscatto.
Nella vendita a rate il trasferimento della proprietà si ha con la conclusione del contratto e il
prezzo è dilazionato in rate; diversa, invece, è la vendita con riserva di proprietà.
La vendita con riserva di proprietà, a differenza della vendita a rate, è caratterizzata dal fatto
che il prezzo è dilazionato in rate, ma la proprietà della cosa passa al compratore solo con il
pagamento dell’ultima rata; infatti, fino a quel momento, egli (compratore) non può disporre
della cosa liberamente, e se aliena la cosa a terzi dovrà comunque pagare le rate ed il contratto
stipulato con i terzi è ritenuto valido se questi erano in buona fede.
Il compratore si assume tutti i rischi di perimento o altro pericolo derivante anche da terzi.
Se il compratore non paga le rate si verifica risoluzione del contratto; tuttavia il non pagamento
di una rata che non supera l’ottava parte del prezzo non provoca la risoluzione.
In caso di risoluzione, al compratore spetta il rimborso delle rate, e al venditore spetta un equo
compenso per l’uso della cosa e il risarcimento del danno.
Nella vendita fuori dai locali commerciali, se il compratore ha concluso un affare con il
venditore fuori dai locali commerciali, egli (compratore) entro 7 gg. può recedere dal contratto;
tale disposizione è estesa anche alle vendite aggressive come le vendite per corrispondenza,
mezzo TV, ecc….. La ratio del diritto del compratore di recedere dal contratto si basa sul
principio che il compratore ha diritto ad essere informato sui termini e sui dettagli del contratto.
Il recesso opera quando il venditore non adempie l’obbligo d’informazione e provoca lo
scioglimento del contratto con i rispettivi obblighi di restituzione della merce e della caparra o
del prezzo.
Le vendite internazionali sono disciplinate da convenzioni internazionali.
82. Cash and carry. Il cash and carry, che letteralmente vuol dire ”prendi e porta via”, è una
forma di vendita self-service fra un grossista e dei soggetti autorizzati all’acquisto; tale
fenomeno noto negli USA ora è molto diffuso anche in Europa.
Le caratteristiche del cash and carry sono: l’esistenza di un grossista e di un compratore
autorizzato, la vendita self-service, prelevamento e trasporto della merce del compratore,
pagamento in contanti.
128
Per la legge tale tipologia di vendita è autorizzata solo ai grossisti e ai soggetti autorizzati, e non
è possibile svolgere nello stesso punto vendita l’esercizio congiunto di vendita all’ingrosso e al
dettaglio. Il cash and carry ha dei vantaggi sia per il compratore che per il venditore perché
velocizza l’economia e riduce i costi.
83. Permuta. La permuta si differenzia dalla vendita perché è lo scambio non di cosa con
prezzo, ma di cosa con cosa; se ad una cosa scambiata è aggiunta una somma di denaro, ci
troviamo di fronte ad un contratto misto.
La cosa può essere scambiata per ottenere o un diritto di proprietà, o un diritto minore, o un
credito; la permuta può essere costituita anche tra una cosa presente e una cosa futura e si
realizzerà solo quando la cosa futura sarà venuta in esistenza.
La permuta è un contratto a titolo oneroso e consensuale; è regolata da una specifica disciplina.
84. Contratto estimatorio. Il contratto estimatorio è quel contratto con il quale una parte
(tradens) consegna una o più cose mobili ad un'altra parte (accipiens) il quale si obbliga a
pagare il prezzo prefissato salvo la scelta di restituire le cose ricevute entro un termine stabilito
(art. 1556 c.c.). La finalità di tale contratto è quella di prevenire il rischio di insuccesso di
vendita; nel momento della consegna l’accipiens acquisisce il potere di disporre liberamente,
mentre il pagamento del prezzo è condizionato alla scelta di tenere o restituire la merce.
Il contratto estimatorio è contratto reale e con la consegna l’accipiens si carica il rischio del
perimento delle cose; tuttavia le cose non entrano a far parte del suo patrimonio e quindi i suoi
creditori non potranno soddisfarsi su queste cose.
85. Somministrazione. La somministrazione (art. 1559 c.c.) è il contratto con il quale una parte
(somministrante), periodicamente o continuatamene si obbliga a fornire delle cose, accordate
con l’altra parte (somministrato), previo pagamento del prezzo stabilito.
La somministrazione può essere:
• periodica, quando il prezzo è pagato a ogni singola fornitura,
• continuata, quando il pagamento avviene secondo determinate scadenze.
Le date di fornitura sono fissate dal somministrato e devono essere comunicate al somministrante
entro un adeguato termine.
Le parti posso anche decidere di inserire nella somministrazione la clausola d’esclusiva:
• se è a favore del somministrante, l’esclusiva impedisce al somministrato di ricevere la
fornitura da altri;
• se è a favore del somministrato, l’esclusiva impedisce al somministrante di fornire terzi
nella zona determinata.
La somministrazione si differenzia:
• dall’appalto, perché la somministrazione ha per oggetto un dare, l’appalto un fare;
• dalla vendita, perché la vendita è ad effetti reali, la somministrazione è ad effetti
obbligatori;
• dalla vendita obbligatoria, perché la vendita obbligatoria è un'unica prestazione, la
somministrazione è una pluralità di prestazioni;
• dalla vendita a consegne ripartite, perché in quest’ultima la ripartizione nel tempo della
cose vendute non configura una pluralità delle prestazioni.
La durata e il termine sono elementi essenziali della somministrazione: affinché si realizzi un
inadempimento, il ritardo deve essere importante e notevole; se il somministrato è lievemente
inadempiente, il somministrante non può sospendere l’esecuzione senza un adeguato preavviso.
Le parti possono recedere dal contratto solo dopo aver comunicato la scelta entro un adeguato
termine e le prestazioni già eseguite sono irripetibili.
86. Concessione di vendita. La concessione di vendita è il contratto con il quale una parte
(concessionario) s’impegna ad acquistare e poi rivendere i prodotti finiti da una determinata
impresa; è un contratto atipico molto utilizzato, ma è socialmente tipico.
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Con la concessione di vendita si configura per il concessionario il potere-dovere di utilizzare
determinati prodotti, e il potere-dovere di utilizzare, nella propria impresa, il marchio e l’insegna
del produttore-fornitore; tale fatto è finalizzato a reciproci vantaggi pubblicitari.
Il concessionario è anche obbligato a praticare i prezzi e le condizioni imposte dal produttore.
87. Mutuo. (art. 1813 c.c.) Il mutuo è il contratto con il quale una parte (mutuante) consegna ad
un’altra parte (mutuatario) una determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili con
l’obbligo del mutuatario di restituire cose delle stessa specie o della stessa qualità delle cose
ricevute. Il mutuo si configura come prestito, ma a differenza del comodato che è un prestito
d’uso, il mutuo è un prestito di consumo.
Una tipologia di mutuo molto frequente è il mutuo con funzione creditizia che ha per oggetto
una somma di denaro; in questo caso la maggior parte delle volte mutuante è la banca, però
questo fatto non configura il mutuo come un contratto bancario.
Il mutuo è un contratto reale che si perfeziona con la consegna della cosa; il mutuatario acquista
immediatamente la proprietà della cosa mutuata.
Le parti prima di accordare il mutuo possono concludere una promessa di mutuo; nel caso tale
promessa non è rispettata da una parte, l’altra parte non può chiedere l’esecuzione in forma
specifica, ma può chiedere solo un risarcimento. Tuttavia, il mutuante può legittimamente
rifiutarsi ad adempiere alla promessa di mutuo, nel caso le condizioni patrimoniali dell’altra
parte facciano presumere che la restituzione sia difficile.
Le parti possono concludere anche un mutuo consensuale e tale contratto è atipico.
Il mutuo generalmente è un contratto oneroso, in quanto il mutuatario è tenuto non solo alla
restituzione di cose della stessa qualità o specie della cosa ricevuta (tantundem), ma deve
corrispondere anche gli interessi che sono calcolati o con un tasso legale o con un tasso scelto
dalle parti; il tasso scelto dalle parti però non deve essere eccessivamente oneroso e quindi non
deve essere un tasso usurario. Il mutuo può essere anche a titolo gratuito.
Con il mutuo si configura un’obbligazione di restituire per il mutuatario: la restituzione deve
essere eseguita nei termini stabiliti nel contratto e tali termini possono essere scelti o dalle parti o
dal giudice; le parti possono anche scegliere la restituzione rateale della cosa mutuata e nel caso
il mutuatario non paga anche una sola rata, il mutuante può chiedere l’immediata restituzione
dell’intera cosa mutuata. Questo potere del mutuante è però sottoposto ad interpretazione del
giudice che valuta la gravità dell’inadempimento e delle circostanze.
La legge o le parti possono stabilire che le somme mutuate siano impiegate per una specifica
destinazione; è l’esempio dei mutui a tasso agevolato (mutuo di scopo).
88. Factoring. Il factoring è un contratto con il quale un’impresa cede, al fine di ottenere un
corrispettivo, i propri crediti presenti e futuri ad una società di factoring che può essere una
società di credito o altra società iscritta all’albo.
Il factor può svolgere diversi compiti rispetto ai crediti dell’imprenditore: può curarne la
riscossione come mandatario, può acquistare alcuni crediti, può garantire in prima persona tali
crediti oppure lascia il rischio all’imprenditore, ecc…..
Quando il factor diventa proprietario dei crediti cedutigli deve pagare un corrispettivo che di
solito è dilazionato nel tempo; tuttavia il factor può scegliere quali crediti acquistare e quali no,
oppure può anche solo occuparsi della gestione e riscossione.
Proprio perché il factor svolge molte funzioni è difficile configurare una precisa giustificazione
causale e una precisa natura del contratto: secondo alcuni il contratto è atipico, perché la
cessione dei crediti ha un ruolo marginale, secondo altri il contratto è preliminare unilaterale,
perché obbligato è il solo cedente che deve concludere i successivi contratti.
Il factor può acquistare non solo crediti presenti, ma anche crediti futuri.
Per quanto riguarda la solvenza dei crediti ceduti, essa (solvenza) può essere garantita
dall’imprenditore (pro-solvendo), oppure può essere a rischio del factor (pro-soluto).
Per quanto riguarda i conflitti fra più cessionari, se l’imprenditore cede tutti i crediti alla società
di factoring e cede un solo credito ad un terzo, tra la società di factoring e il terzo prevarrà chi
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per primo: notifica la cessione al debitore, riceve l’accettazione, o effettua il pagamento al
cedente.
Per agevolare l’opponibilità ai terzi, il factor può comunicare la cessione di tutti i crediti presenti
e futuri ai debitori, senza ripetere tale comunicazione ogni volta che si presenta un credito.
b. Contratti relativi al godimento e alla utilizzazione di beni
89. Locazione. La locazione è il contratto con il quale una parte (locatore) cede ad un'altra parte
(conduttore) il godimento di una cosa mobile o immobile, per un tempo determinato, contro il
corrispettivo di un prezzo denominato canone.
Il locatore gode indirettamente della cosa, perché riceve un corrispettivo, conservando la
titolarità sulla cosa locata; il conduttore consegue direttamente il godimento della cosa anche se
non è il proprietario.
La locazione è un contratto a titolo oneroso, perché se fosse gratuita sarebbe un comodato; è
un contratto consensuale, in quanto è necessario il consenso fra le parti e ad efficacia
obbligatoria, in quanto non c’è un effetto traslativo, ma solo un obbligo a lasciar godere.
Per quanto riguarda la forma, essa è libera, salvo per i contratti di locazione di cosa immobile
con durata ultranovennale dove la forma è scritta.
Il contratto di locazione può essere a tempo determinato o indeterminato:
• se è a tempo determinato, la locazione non può eccedere i 30 anni e alla scadenza cessa
automaticamente, senza la necessità di disdetta; nel caso sia scaduto il termine, e il
conduttore gode ancora della cosa locata con il consenso del locatore, la locazione si
ritiene rinnovata tacitamente e si ha una nuova locazione a tempo indeterminato;
• se è a tempo indeterminato, il tempo di durata della locazione è stabilito dalla legge
secondo il bene oggetto della locazione, e cessa solo se alla scadenza del termine legale,
il locatore ha comunicato la disdetta al conduttore, altrimenti la locazione si ritiene
rinnovata tacitamente e si ha una nuova locazione a tempo indeterminato.
I vari tipi di locazione si differenziano per l’oggetto dato in locazione:
• locazione di beni mobili registrati (automobili) e non registrati (libri): non va confusa
con il noleggio, perché in quest’ultimo caso il conduttore è obbligato ad utilizzare il bene
secondo le indicazioni fornite dal noleggiatore;
• locazione urbana, che ha per oggetto immobili urbani;
• affitto, locazione che ha per oggetto beni produttivi.
Gli obblighi del locatore sono:
1. far godere la cosa liberamente al conduttore;
2. consegnare la cosa in buono stato: il locatore deve anche occuparsi del suo
mantenimento, salvo per i beni mobili, dove la conservazione spetta al conduttore. Nel
caso il locatore non consegni la cosa in buono stato, e quindi la cosa è affetta da vizi
occulti che la rendono non idonea all’uso, il conduttore può chiedere oltre al risarcimento
del danno, o la risoluzione del contratto, o la riduzione del canone;
3. garantire il pacifico godimento: il locatore non deve disturbare il godimento del
conduttore e deve impedire che le molestie possano provenire da terzi. Se le molestie
sono di fatto (rumori), il conduttore può esercitare l’azione di manutenzione; se le
molestie sono di diritto (es.: pretesa del diritto di usufrutto da parte di un terzo), la
garanzia è offerta dal locatore che è chiamato in causa. Se l’azione del terzo ha successo,
il conduttore può chiedere o la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo.
Gli obblighi del conduttore sono:
1. prendere in consegna la cosa;
2. pagare il corrispettivo;
3. utilizzare la cosa secondo l’uso stabilito nel contratto: il conduttore deve usare la cosa
con la diligenza del buon padre di famiglia ed è responsabile dei danneggiamenti e della
131
distruzione della cosa, salvo la prova della sua estraneità; egli è responsabile anche del
danno provocato dal terzo al godimento della stessa cosa;
4. restituire la cosa al termine della locazione: se il conduttore non restituisce la cosa è
considerato in mora e deve pagare il canone fino alla consegna, oppure offre il
risarcimento;
5. obbligo strumentale di custodia;
6. oneri accessori a carico del conduttore: se si tratta di locazione abitativa, il conduttore
oltre al canone, deve pagare anche le spese di ordinaria gestione condominiale.
Se il conduttore apporta dei miglioramenti o delle addizioni alla cosa presa in locazione, egli non
ha diritto ad un indennizzo da parte del locatore, salvo patto diverso; il conduttore non può
staccare le addizioni apportate alla cosa presa in locazione se tale staccamento provoca danni
irreversibili alla cosa.
Per quanto riguarda la sublocazione, essa si differenzia in sublocazione parziale o totale;
• in caso di sublocazione parziale, il conduttore può sublocare la cosa, solo se non è
vietato nel contratto, con l’obbligo di avvisare il locatore;
• in caso di sublocazione totale, il conduttore non può sublocare senza il consenso del
locatore, perché la sublocazione si configura come una cessione di contratto.
Con la sublocazione s’instaurano rapporti tra il locatore e il subconduttore, in quanto il locatore
può chiedere il pagamento del canone al subconduttore.
La legge prevede che altre persone possano succedere al conduttore nel rapporto con il locatore e
queste persone sono: il coniuge, gli eredi, i parenti, e gli affini.
Le locazioni urbane hanno per oggetto edifici o appartamenti; tale disciplina è stata modificata
dall’inserimento di una nuova disciplina che, oltre ad imporre la forma scritta, ha dettato due
modelli di conclusione del contratto di locazione:
1. modello della conclusione del contratto caratterizzato dalla libera contrattazione:
tale modello prevede che il contratto non deve essere inferiore ai 4 anni, prevede la
rinnovazione automatica per il contratto alla prima scadenza, prevede che se il locatore
volesse vendere l’immobile, al conduttore spetta il diritto di prelazione.
2. modello della conclusione del contratto caratterizzato dall’operazione di contrattitipo: tale modello prevede che le parti possano determinare il contratto in base ad accordi
stabiliti a livello nazionale tra organizzazioni di locatori ed organizzazioni di conduttori;
prevede anche che il contratto, alla prima scadenza, è prorogato di 2 anni, salvo disdetta
del locatore.
Per quanto riguarda le locazioni non abitative, la disciplina prevede che le parti possano
concordare liberamente la misura del canone, aggiornandolo, di volta in volta, in base al costo
della vita: tale contratto ha durata di 6 anni ed è di 5 anni per le attività alberghiere, dove è
prevista una rinnovazione tacita se nessuna delle parti comunica all’altra la disdetta.
Per quanto riguarda la disdetta nelle locazioni non abitative, il conduttore può comunicare
disdetta, e quindi recedere dal contratto prima del termine, solo per gravi motivi, mentre il
locatore può comunicare disdetta, e recedere dal contratto prima della scadenza, solo per
determinate ragioni.
Nella locazione non abitativa, al conduttore è riconosciuto il diritto di sublocare l’immobile, o
di cedere il contratto a terzi, anche senza il consenso del locatore.
Al conduttore è riconosciuto anche il diritto di prelazione nel caso il locatore volesse vendere
l’immobile; il locatore ha l’obbligo di notifica al conduttore che può esercitare la prelazione
entro 60 gg. e se il locatore non ha notificato la sua scelta al conduttore, quest’ultimo
(conduttore) può riscattare l’immobile dall’acquirente (prelazione reale).
Nel caso di locazione ad uso commerciale, al conduttore, alla fine della locazione, spetta
un’indennità per la perdita di avviamento, cioè della clientela.
90. Affitto. (art. 1615 c.c.) L’affitto è la locazione di cose mobili o immobili produttive;
all’affittuario, cioè colui che riceve in consegna il bene produttivo, spettano di diritto i frutti e le
utilità della cosa.
L’affitto fa nascere degli obblighi e dei diritti per il locatore.
132
Gli obblighi sono: di consegnare la cosa con gli accessori che servono per l’uso e per la
produzione a cui è destinata, di pagare le spese di riparazione straordinaria;
i diritti sono: di controllare che il conduttore rispetti i suoi obblighi e di risolvere il contratto se
tali obblighi non sono rispettati.
L’affitto fa nascere anche degli obblighi e dei diritti per l’affittuario.
Gli obblighi sono: di pagare l’affitto, di non modificare la destinazione economica della cosa, di
osservare le regole della buona tecnica;
i diritti sono: migliorare la produttività della cosa, di subaffittare la cosa senza il consenso del
locatore.
Le parti possono recedere dal contratto dando il preavviso entro un adeguato termine; tuttavia il
contratto d’affitto si può sciogliere per interdizione, inabilitazione, o insolvenza dell’affittuario.
Nel caso l’affittuario muoia, i suoi eredi entro 6 mesi possono decidere di recedere dal contratto.
91. Affitto di fondo rustico. L’affitto di fondo rustico è il contratto con il quale il locatore si
obbliga a far godere all’affittuario di un fondo rustico, contro un corrispettivo in denaro.
L’affittuario, se è un coltivatore diretto, gode di una serie di agevolazioni come il pagamento di
un canone inferiore, il diritto di prelazione, ecc…..
Per fondo s’intende un terreno colto e produttivo senza tener conto delle dimensioni.
Gli obblighi del locatore sono:
1. consegnare il fondo rustico e tutti gli accessori in condizioni tali da essere utilizzati per
l’uso a cui è destinato;
2. garantire il fondo da vizi, da molestie, e garantire l’idoneità del fondo.
La durata minima dell’affitto di fondo rustico è di 15 anni e durata diversa è decisa per i
territori montani; la durata può anche essere decisa da patti stipulati a livello nazionale.
Le parti possono recedere dal contratto solo dopo un preavviso, comunicato almeno 1 anno
prima della scadenza.
Il locatore in presenza di inadempimento dell’affittuario può esercitare il suo diritto di ripresa,
e quindi estinguere il rapporto con la risoluzione per inadempimento; il conduttore può fermare
tale azione offrendo di sanare il suo inadempimento.
Gli obblighi dell’affittuario sono: curare e gestire con buona tecnica il fondo, pagare il canone,
restituire il fondo alla scadenza.
Il canone deve essere tassativamente un importo in denaro che può essere ridotto in caso di
calamità o avversità atmosferiche.
Per quanto riguarda i miglioramenti:
• se sono apportati dal locatore, comportano un aumento del canone;
• se sono apportati dall’affittuario, quest’ultimo, alla consegna del bene, avrà diritto ad
un’indennità a seguito dell’incremento di valore di mercato del fondo.
92. Leasing. Il leasing è il contratto con il quale una parte (concedente) si obbliga ad acquistare
su indicazione di un'altra parte (utilizzatore) un determinato bene per poi darlo in godimento
all’utilizzatore il quale, alla scadenza del termine, ha la possibilità di: acquistare il bene, di
rinnovare la sua utilizzazione o di restituirlo.
L’utilizzatore deve pagare un canone a rate al concedente e si assume tutti i rischi inerenti al
bene; alla scadenza del termine egli può acquistare la titolarità del bene pagando un corrispettivo
che di solito è simbolico.
Secondo che il bene sia suscettibile ad obsolescenza e a deterioramento, il leasing si differisce in:
• leasing di godimento che ha per oggetto un bene suscettibile ad obsolescenza e
deterioramento; in questo caso il leasing svolge una funzione di finanziamento ed è un
rapporto di durata, in quanto la possibilità dell’utilizzatore di acquistare il bene dipende
da una contrattazione marginale e accessoria;
133
•
leasing traslativo che ha per oggetto un bene non soggetto ad alterazione, obsolescenza o
deterioramento; la sua finalità è quella di far acquistare all’utilizzatore la proprietà della
cosa alla scadenza, in quanto si reputa che il pagamento del canone è già un pagamento
anticipato del prezzo.
Il leasing non ha per tutti la stessa giustificazione causale: infatti, secondo alcuni è un contratto
di affitto o locazione con il godimento del bene; secondo altri è una vendita con riserva di
proprietà, in quanto la titolarità del bene potrebbe essere acquistata con il pagamento dell’ultima
rata; secondo altri ancora è un contratto con mera funzione di finanziamento.
Per quanto riguarda la risoluzione:
• se il leasing è considerato come un contratto di durata, la risoluzione non pregiudica le
prestazione già eseguite e quindi sono irripetibili;
• se il leasing è considerato come una vendita, all’utilizzatore spetta una restituzione
parziale delle rate, mentre al concedente spetta un equo indennizzo per l’utilizzazione
del bene.
In caso di fallimento dell’utilizzatore, il problema del leasing è risolto secondo alcuni con la
disciplina fallimentare, secondo altri sono gli organi fallimentari a decidere se sciogliere o meno
il contratto di leasing.
Il leasing operativo si verifica quando il concedente è anche produttore del bene consegnato
all’utilizzatore.
Per quanto riguarda il leasing di beni immobili:
• si parla di locazione quando il prezzo finale è elevato e corrisponde al valore reale del
bene, e il canone versato è considerato come pagamento del solo godimento:
• si parla di vendita quando il prezzo finale è basso e non corrisponde al valore reale del
bene, ed il canone versato è considerato come pagamento rateizzato del valore del bene.
Altro problema riguarda la tutela del diritto dell’utilizzatore dell’acquisto finale, in quanto il
concedente, durante il contratto, potrebbe alienare il bene a terzi.
Una variazione del leasing è il sale and lease back: esso è il contratto con il quale un
imprenditore vende un suo bene al concedente che poi glielo concede in leasing; la funzione di
questo contratto è quella di fornire un’immediata liquidità all’imprenditore, senza perdere
l’utilizzazione del bene. Esso ha anche una funzione di garanzia e non elude il divieto del patto
commissorio, perché l’ammontare dei canoni è proporzionale al valore del bene, e non vi è
quindi quella sproporzione tra il bene offerto e il credito.
93. Comodato. (art. 1803 c.c.) Il comodato (quasi commodo datum) è il contratto con il quale
una parte (comodante) dà ad un’altra parte (comodatario) una cosa inconsumabile, mobile o
immobile, affinché possa servirsene per un determinato tempo, con l’obbligo per il comodatario
di restituire il bene alla scadenza.
Il comodato è un contratto reale, perché si perfeziona con la consegna della cosa ed è
essenzialmente gratuito, a differenza della locazione che è onerosa.
Il comodato è detto modale, quando a carico del comodatario ci sono gli oneri di manutenzione e
condominiali, pur conservando la gratuità del contratto.
Il comodato è un prestito d’uso, perché il comodatario è detentore della cosa e non può
disporne; invece il mutuo è un prestito di consumo, perché il mutuatario, alla consegna, diventa
proprietario del bene, con l’obbligo di restituire alla scadenza non la stessa cosa, ma una cosa di
eguale qualità e quantità.
Il comodato può avere ad oggetto solo beni inconsumabili, tuttavia può avere ad oggetto anche
una somma di denaro e si parla di comodato ad pompam.
Il comodatario può e deve utilizzare la cosa, a differenza del depositario cui è vietato l’uso.
Il comodato è visto anche come un contratto bilaterale imperfetto, perché sorgono
obbligazioni solo a carico del comodatario; esse sono: obbligo di custodire la cosa con la
diligenza del buon padre di famiglia, obbligo di utilizzare la cosa entro le funzioni e gli usi
determinati dal contratto, obbligo di non concedere l’utilizzo della cosa comodata a terzi.
134
La violazione di tali obblighi determina la possibilità per il comodante di chiedere la restituzione
immediata della cosa, oltre il risarcimento del danno.
La restituzione può essere chiesta quando c’è bisogno urgente e imprevisto del comodante, o
quando il comodato è stipulato a tempo indeterminato (comodato precario).
Se il comodatario muore, il comodante può richiedere la risoluzione del contratto con la
restituzione del bene.
Gli obblighi del comodante sono quelli di consegnare la cosa senza vizi, in quanto, se tali vizi
recano danno al comodatario ignaro, il comodante è tenuto al risarcimento del danno subito.
c. Contratti relativi ad esecuzione di opera e servizi.
94. Appalto. L’appalto è il contratto con il quale un soggetto (appaltatore), mediante la sua
organizzazione di mezzi necessari e a proprio rischio, assume l’obbligazione di compiere per un
altro soggetto (committente) un’opera o un servizio contro un corrispettivo di denaro.
L’appaltatore dispone di un’organizzazione di mezzi e assume a proprio rischio la gestione e
l’eventuale inefficienza di tale organizzazione.
L’appalto si differenzia dalla vendita perché ha per oggetto un’obbligazione di fare, mentre la
vendita ha per oggetto un’obbligazione di dare.
Gli appalti possono essere privati, se il committente è un privato, e pubblico, se il committente
è lo Stato o un ente pubblico.
L’appalto è un contratto a intuitu personae, in quanto si fonda sulla fiducia che il committente
ripone nell’appaltatore per la sua professionalità: ne consegue che il subappalto può essere fatto
dall’appaltatore solo previa autorizzazione del committente. Il subappalto è il contratto con il
quale l’appaltatore cede ad un terzo il suo appalto.
L’appaltatore deve eseguire l’opera o il servizio secondo le modalità pattuite.
L’appalto ha forma libera, ma nella pratica esso è fatto per iscritto.
L’appalto essendo un rapporto di durata è sottoponibile a modifiche; il codice disciplina tre
ipotesi di modifica: 1) variazioni concordate tra le parti; 2) variazioni necessarie per l’esecuzione
dell’opera a regola d’arte; 3) variazioni ordinate dal committente.
Il committente, al fine di tutelare il suo interesse a ricevere un ottimo risultato, può verificare
l’operato dell’appaltatore sia durante i lavori, mediante un tecnico che controlla lo svolgimento
dei lavori, sia alla fine dei lavori con il collaudo che verifica se il risultato è conforme al
progetto. Il collaudo deve essere fatto prima di ricevere la consegna dell’opera, perché, nel
momento in cui il committente riceve la consegna, si ritiene che l’opera sia stata accettata.
Durante l’esecuzione si possono verificare degli eventi che pregiudicano l’esecuzione: se tali
eventi non sono imputabili a nessuno, il rischio è distribuito equamente tra le parti.
Le parti possono sciogliere anticipatamente il contratto: se a recedere è il committente,
all’appaltatore spetta un indennizzo per le spese e i lavori eseguiti. Nel caso l’appaltatore muore,
il committente può decidere di recedere dal contratto se egli non nutre fiducia per gli eredi.
Il corrispettivo per l’appalto è calcolato o rispetto all’opera o rispetto alla misura; il prezzo è
suscettibile a modifiche se si verificano circostanze imprevedibili o in base alla sorpresa
geologica. Tuttavia le parti possono convenire o che il prezzo resti fisso e invariato per l’intera
esecuzione oppure possono decidere che il prezzo sia adeguato automaticamente secondo la
clausola Istat.
Il corrispettivo deve essere versato, di regola, solo dopo l’accettazione dell’opera; tuttavia, non è
escluso che può essere pagato man mano secondo gli stati di avanzamento dei lavori.
L’appaltatore deve garantire che l’opera non sia viziata e nel caso lo fosse, è onere del
committente denunciare il vizio entro 60 gg dalla scoperta; il termine di prescrizione dell’azione
di denuncia è di 2 anni.
Garanzia più ampia è offerta per gli edifici a lunga durata: i vizi possono essere denunciati entro
10 anni dall’esecuzione e al committente spetta un risarcimento del danno.
135
95. Contratto di opera. Il contratto di opera è il contratto con il quale un soggetto, contro un
corrispettivo, si obbliga a compiere un’opera o un servizio per un altro soggetto con mezzi
propri, caricandosi del rischio e senza vincolo di subordinazione.
Il contratto di opera ha delle affinità e delle differenze con l’appalto: le differenze sono che nel
contratto di opera, il soggetto, la maggior parte delle volte artigiano, esegue la prestazione in
prima persona senza usufruire di lavoro subordinato, invece, nell’appalto, l’appaltatore per
seguire l’opera utilizza il lavoro subordinato di altre persone; le affinità sono che in entrambi i
contratti vi è un’indipendenza tra commissionario e committente e viene applicata la stessa
disciplina per l’esecuzione del rischio.
96. Contratto di prestazione di opera intellettuale. Il contratto di prestazione di opera
intellettuale è un contratto di opera che ha per oggetto l’esercizio di una professione
intellettuale, che richiede l’iscrizione in appositi albi o elenchi (avvocato, medico, ecc…).
É un contratto ad intuitu personae, cioè deve essere svolto personalmente dal professionista il
quale non può avvalersi di collaboratori, salvo se è consentito dal contratto o dagli usi: se si
avvale dei collaboratori, il professionista è responsabile dell’operato di questi.
Un requisito fondamentale è che il professionista deve essere iscritto nell’albo o nell’elenco
relativo alla sua professione.
Al professionista spetta un compenso (c.d. onorario) che comprende non solo il pagamento della
prestazione offerta, ma anche le spese sostenute; tale compenso è determinato o dall’accordo
delle parti o, in mancanza dei tariffari, dal giudice.
Il professionista può ricevere anche un palmario, che è un ulteriore confuso per l’opera svolta;
egli può anche esercitare il diritto di ritenzione delle cose e dei documenti ricevuti dal cliente,
purché tale diritto sia esercitato solo nel periodo dell’esecuzione della prestazione.
Il cliente può sempre recedere dal contratto, ma al professionista spetta comunque il pagamento
del compenso e il rimborso delle spese; il professionista può recedere dal contratto solo se esiste
una giusta causa e solo se tale recesso non pregiudichi la situazione del cliente.
Il professionista è responsabile solo per dolo o colpa grave; tale responsabilità per il medico e il
chirurgo riguarda il dolo o colpa grave causati dalla loro impreparazione professionale.
97. Mandato. Il mandato (art. 1703 c.c.) è il contratto con il quale un soggetto (mandatario) si
obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto di un altro soggetto (mandante).
Nel mandato si ravvisa, in generale, solo un interesse del mandante. Tuttavia nell’esecuzione del
mandato si può intravedere anche un interesse del mandatario; è l’esempio di un mandato per
una riscossione di un credito: se il mandatario è un creditore del mandante, è anche suo (del
mandatario) interesse che l’esecuzione vada a buon fine (mandato in rem propriam).
Il mandato può essere:
● speciale; quando riguarda il compimento di uno o più atti specifici;
● generale; quando riguarda il compimento di tutti gli atti del mandante, non
comprendendo però quelli di straordinaria amministrazione;
● con rappresentanza; il mandatario agisce non solo per conto ma anche per nome del
mandante e l’atto produrrà gli effetti direttamente nella sfera giuridica del mandante;
● senza rappresentanza; il mandatario agisce solo per conto del mandante e l’atto
produrrà gli effetti nella sfera giuridica del mandatario: quest’ultimo poi ha l’obbligo di
trasmettere gli effetti al mandante con un successivo e distinto atto. In questo caso non si
creano rapporti diretti tra mandante e terzo perché l’atto produrrà gli effetti prima per il
mandatario e solo dopo per il mandante.
Il mandato è un contratto consensuale ad effetti obbligatori; esso è un contratto non formale.
Tuttavia, per i mandati con rappresentanza, la procura deve avere la stessa forma richiesta per
l’atto da compiere; è, comunque, richiesta la forma scritta anche per il mandato senza
rappresentanza, perché il mandato svolge la stessa funzione del contratto preliminare, in quanto
consiste in un obbligo a ritrasferire.
Il mandato è un contratto per lo più oneroso: il compenso del mandatario è stabilito o dalle parti
o dalle tariffe prestabilite o dal giudice; non si esclude, comunque, un mandato gratuito.
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Il mandato produce obbligazione per entrambi le parti; esso si differenzia dalla procura perché
nel mandato vi è l’obbligo per il mandatario di compiere atti per conto del mandante, mentre,
nella procura, che è atto unilaterale, non ci sono obblighi per il procuratore di agire per conto del
rappresentato.
Gli obblighi del mandatario sono di: eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di
famiglia, di attenersi alle istruzioni ricevute, di non eccedere dai limiti del mandato, di informare
il mandante, di custodire le cose ricevute dal mandante, di consegnare al mandante le cose
ricevute da terzi.
Gli obblighi del mandante sono di fornire al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del
mandato, di rimborsare al mandatario le spese e le anticipazioni, di risarcirgli i danni subiti, di
pagargli il compenso.
Il mandatario ha il diritto di soddisfarsi sui crediti pecuniari sorti dagli affari che ha concluso con
precedenza sul mandante e sui suoi creditori.
Il mandato pluripersonale si ha quando il mandato è conferito a più persone: esse possono
agire disgiuntamente oppure congiuntamente, ma per il mandato congiunto è richiesto il
consenso di tutti i mandatari.
Il mandato collettivo è il mandato conferito da più mandanti ad un solo mandatario, ad esempio
quando più comproprietari di un immobile conferiscono il mandato a vendere il bene ad un
soggetto: la revoca del mandato ha efficacia solo se fatta da tutti i mandati o se ricorre una giusta
causa.
Il mandato si estingue per: scadenza del termine, compimento dell’affare, rinunzia del
mandatario, revoca del mandante per giusta causa salvo che le parti abbiano stipulato una
clausola di irrevocabilità.
Il mandato per volontà delle parti può anche non estinguersi nel caso il mandante muoia; è il c.d.
mandato post mortem.
98. Commissione. La commissione è un sottotipo di mandato e più precisamente di mandato
senza rappresentanza; essa è il contratto con il quale il commissionario si obbliga, con nome
proprio, a stipulare contratti di acquisto o di vendita per conto del committente.
Tale contratto è molto utilizzato nella pratica degli affari: esso ha lo stesso schema del mandato
senza rappresentanza.
La commissione è un contratto generalmente oneroso; difatti, al commissionario spetta un
compenso (provvigione) che è determinato o dalle parti o secondo gli usi del luogo dove è
concluso l’affare o dal giudice. Tale compenso può aumentare ulteriormente quando il
commissionario si sia obbligato allo “star del credere”, ossia quando garantisce personalmente
l’esecuzione del terzo contraente.
Nel caso il commissionario entri nel contratto, ossia quando acquisti i beni che doveva vendere
oppure fornisce i beni che doveva acquistare, il suo (del commissionario) diritto alla provvigione
è conservato.
Il committente può revocare la commissione prima che il commissionario concluda l’affare che
gli è stato conferito; tuttavia, al commissionario spetta una parte della provvigione, calcolata in
base alle spese sostenute e all’opera prestata.
99. Agenzia. L’agenzia è il contratto con il quale un soggetto (agente), contro un corrispettivo,
si assume lo stabile incarico di promuovere la conclusione di contratti in una determinata zona
per conto di un altro soggetto (preponente). Tale materia è stata più volte rivista e una radicale
modifica è stata quella di ritenere necessaria l’iscrizione in appositi registri per coloro che
volessero praticare tale professione.
L’agenzia è un contratto con attività materiale e non giuridica come il mandato: l’agente deve
solo promuovere i contratti per il preponente e non concluderli. Tuttavia all’agente può essere
conferita sia la rappresentanza che il mandato e in questi casi viene applicata la specifica
disciplina della rappresentanza o del mandato.
Un diritto del preponente è quello di avere l’esclusiva verso un agente, cioè quest’ultimo
(l’agente) si obbliga a promuovere in una determinata zona solo quel preponente (diritto di
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esclusiva); tuttavia, anche l’agente può avvalersi del diritto di esclusiva, dove il preponente si
obbliga a farsi promuovere in quella determinata zona solo da quell’agente.
A differenza del mediatore, l’agente è legato al preponente da un rapporto di collaborazione e,
quindi, l’agente, nel compiere la promozione, deve attenersi alle istruzioni del preponente.
L’agente non è un lavoratore subordinato anche se è sindacalmente organizzato: difatti, il
contratto di agenzia si uniforma a quelli stipulati dai rappresentanti di categoria.
L’agenzia è un contratto oneroso; all’agente spetta una provvigione che è calcolata in
percentuale sugli affari da lui promossi o conclusi dal preponente. Affinché l’agente possa
ricevere la provvigione, egli deve essere iscritto in appositi registri; l’agente ha diritto alla
provvigione anche quando l’affare è concluso direttamente dal preponente nella sua zona (salvo
patto contrario); quando l’affare non è stato concluso per causa imputabile al preponente;
quando, dopo lo scioglimento dell’agenzia, l’affare è stato concluso dal preponente solo in
conseguenza all’attività svolta dall’agente.
Gli obblighi dell’agente, oltre quelli di rispettare l’esclusiva e le istruzioni ricevute, sono di
informare il preponente sulle condizioni del mercato della zona assegnatagli; di valutare la
convenienza dei singoli affari; di comunicare al preponente la sua non possibilità a eseguire
l’incarico.
Gli obblighi del preponente sono quelli di agire con lealtà e buona fede; di rispettare
l’esclusiva; di pagare il corrispettivo.
La forma scritta è necessaria affinché entrambe le parti abbiano una copia del contratto.
Il contratto è di durata e può essere a tempo determinato o indeterminato; il recesso è consentito
solo dopo un adeguato preavviso. Quando il contratto si è estinto per causa non imputabile
all’agente, il preponente è obbligato a pagare all’agente un’indennità.
100. Mediazione. La mediazione è il contratto con il quale un soggetto (mediatore) mette in
relazione due o più soggetti per la conclusione di un affare, senza essere legato ai soggetti da
vincoli o rapporti di collaborazione; se il contratto è concluso, al mediatore spetta una
provvigio0ne da ciascuna delle parti.
Affinché il mediatore possa percepire la provvigione, è necessario che egli sia iscritto in un
apposito registro pena la restituzione di tutto ciò che ha ricevuto come pagamento della
mediazione.
A differenza dell’agenzia, la mediazione è caratterizzata dall’imparzialità e dall’autonomia che
configurano la totale assenza di dipendenza, di rappresentanza o di collaborazione del mediatore
con una delle parti; la mediazione, appunto perché è imparziale, è inconciliabile con la
rappresentanza.
Il contratto di mediazione è consensuale e può essere concluso anche con il conferimento
dell’incarico da parte di una sola delle parti; quest’ultima (cioè quella parte che ha incaricato il
mediatore) è obbligata a rimborsare le spese al mediatore anche se il contratto non si è concluso,
salvo patto contrario. Se anche l’altra parte conferisce l’incarico al mediatore, non sorge un altro
vincolo contrattuale, in quanto quest’ultima diviene parte del contratto di mediazione già
stipulato dall’altra parte con il mediatore.
Molti discussioni sono state avanzate circa il ruolo della mediazione nella conclusione del
contratto: una parte della dottrina ritiene che la conclusione del contratto dipende dalla
mediazione in base anche da alcuni effetti che la mediazione produce indipendentemente dalla
conclusione o meno del contratto; altri, invece, ritengono che la mediazione è un elemento
costitutivo di una fattispecie più complessa.
Affinché il mediatore abbia diritto alla provvigione, è necessario che ci sia un rapporto di
casualità tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare. Per affare si intende qualsiasi
operazione economica giuridicamente vincolante; non è da ritenersi affare, per esempio, il
matrimonio.
La provvigione, che deve essere versata da entrambe le parti al mediatore, è calcolata o in base a
degli accordi o dalla Camera di Commercio; se vi sono più mediatori, essi hanno diritto ad una
quota della provvigione.
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L’obbligo del mediatore è quello di informare costantemente le parti circa la validità e la
sicurezza dell’affare, pena il pagamento di un’ammenda. Nel caso il mediatore nella conclusione
del contratto non comunichi ad una parte il nome dell’altra, egli (il mediatore) ne risponde
dell’esecuzione, subentrando nei diritti della parte non nominata.
101. Brokeraggio. Nel campo della distribuzione dei prodotti di assicurazione si è affermata da
un po’ di tempo la figura del broker o mediatore finanziario.
Il broker è quel soggetto che mette in relazione quei soggetti che intendono assicurarsi contro
rischi con le imprese di assicurazione o di riassicurazione con le quali il broker non alcun
rapporto di collaborazione e di dipendenza.
Il broker non è da paragonarsi al mediatore, in quanto egli (il broker) agisce per conto del cliente
ricercandogli la migliore copertura assicurativa al minor costo: viene a mancare cos’ il
presupposto dell’imparzialità tipico della mediazione.
L’atipicità del contratto di brokeraggio è confermata dal fatto che il broker ha diritto ad un
compenso, calcolato in percentuale sul premio assicurativo, versato non dal cliente ma
dall’assicuratore.
102. Deposito. Il deposito è un contratto con il quale un soggetto (depositario) riceve da un latro
soggetto (depositante) una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura (cioè
nello stesso stato in cui la cosa si è ricevuta). È un contratto reale.
Il deposito è un contratto che si perfeziona con la consegna; tuttavia, può essere anche
consensuale. Esso può essere sia a titolo oneroso che a titolo gratuito: se è a titolo gratuito, il
deposito è visto come un contratto unilaterale in quanto obbliga solo il depositario; se è a titolo
oneroso, esso è considerato come un contratto a prestazioni corrispettive in quanto esiste un
nesso sinallagmatico tra l’obbligazione del depositario di restituire e l’obbligo del depositante un
compenso e viene applicata la specifica disciplina.
Il deposito può avere come oggetto beni mobili o l’universalità di mobili.
Il deposito è detto irregolare quando ha per oggetto denaro o cose fungibili e il depositario può
disporre del bene anche con il consenso implicito del depositante: un esempio è il deposito
bancario.
Gli obblighi del depositario sono di custodire la cosa con la diligenza del buon padre di
famiglia, di non usarla o darla in deposito senza il consenso del depositante, di restituire la cosa
insieme ai frutti che ha prodotto; gli obblighi del depositante sono di rimborsare le spese di
custodia, di pagare il compenso al depositario se il deposito è a titolo oneroso.
Se il depositario perde la detenzione della cosa per fatto a lui non imputabile è liberato ma deve
denunciare immediatamente il fatto al depositante, pena risarcimento del danno.
Una particolare disciplina è applicata al deposito nei magazzini generali: una prima
caratteristica è che questi magazzini sono delle imprese che svolgono un servizio pubblico e
quindi devono applicare tariffe predeterminate dal Ministero dell’Industria e da leggi speciali;
altra caratteristica è la facoltà del depositante di richiedere il rilascio della fede di deposito e
della nota di pegno: essi sono documenti che danno a chi li possiede il potere di disporre delle
merci.
Il legislatore ha disciplinato anche il deposito alberghiero, disponendo che gli alberghi devono
fornire un’adeguata protezione da furti e danneggiamenti alle cose del cliente; tuttavia, il
risarcimento del danno è ripartito fra le parti nel caso l’esercente (l’albergatore) non è da
considerarsi in colpa. L’albergatore, nel momento in cui è stato concluso il contratto di deposito,
risponde illimitatamente per le cose consegnate; nel caso in cui non è stato concluso alcun
contratto di deposito con il cliente, l’albergatore ne rispende limitatamente per il deterioramento,
furto e distruzione.
Per quanto riguarda l’attività del ristorante, l’esercente (il ristoratore) garantisce solo per le cose
che sono di intralcio al cliente; la responsabilità è illimitata se il danno è reputabile all’esercente
o ad uno dei suoi ausiliari. L’esercente non risponde se il cliente denunci il danno con
ingiustificato ritardo o quando il danno è imputabile al cliente, imputabile a forza maggiore o alla
natura della cosa.
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Ulteriore atipicità è presente nel contratto di deposito di parcheggio, dove gli obblighi di
consegna e di restituzione si estendono anche alle cose di pertinenza del mezzo (es: autoradio),
salvo patto contrario.
103. Trasporto. Il trasporto (art. 1678 c.c.) è il contratto con il quale un soggetto (vettore) si
obbliga, contro un corrispettivo, a trasferire persone o cose da un luogo ad un altro.
Il trasporto è un contratto consensuale, perché si perfeziona con l’accordo delle parti, è non
formale, in quanto non prescritta alcuna forma, è a prestazioni corrispettive ed è inquadrato tra i
contratti di risultato, dove il soggetto obbligato garantisce non solo l’adempimento della
prestazione ma anche la buona riuscita dell’opera.
Al trasporto sono applicate le norme del codice civile, salvo deroghe dettate dal codice della
navigazione e da leggi speciali. Tuttavia, le norme si distinguono in base all’oggetto, alle
modalità e ai mezzi di trasporto: quanto all’oggetto, il trasporto può essere di cose, dove il
vettore prende in custodia le cose da trasportare, e di persone, dove il vettore deve garantire
l’incolumità del passeggero durante il trasporto; quanto alle modalità, il trasporto può essere
terrestre, marittimo ed aereo; quanto ai mezzi, il trasporto può avvenire su gomma, su ferrovia o
per fune.
Il contratto di trasporto di cose per ferrovia è un contratto reale che si perfeziona con la
restituzione della ricevuta di spedizione dell’agente.
Nel trasporto di persone, il vettore è obbligato a trasferire da un luogo all’altro il viaggiatore,
garantendogli l’incolumità durante il viaggio e garantendogli l’esatta esecuzione del trasporto.
Nel caso si verificano sinistri durante il viaggio, il viaggiatore, per ottenere il risarcimento, deve
dimostrare l’esistenza di un contratto di trasporto, l’esistenza del danno e l’esistenza di un nesso
di casualità tra il danno e il trasporto; il vettore, per superare tale presunzione e quindi per
scagionarsi dal risarcire il danno, deve dimostrare che ha adottato tutte le misure idonee per
evitare il danno e deve dimostrare che il danno non è imputabile a lui, ma a forza maggiore o a
caso fortuito o a terzi.
Il contratto di trasporto, oltre che oneroso, può essere gratuito, ed è applicata la stessa disciplina
del contratto oneroso, e può essere amichevole, quando è dettato da un dovere sociale; il
contratto amichevole è sottoposto alla disciplina della responsabilità extracontrattuale.
Nel trasporto di cose, il vettore si obbliga a trasferire da un luogo all’altro delle cose,
garantendo di custodirle: infatti, il vettore è responsabile nel caso di perdita o avaria, salvo il
caso in cui perdita o avaria sono collegate al caso fortuito.
La giurisprudenza per caso fortuito intende il furto commesso con violenza o minaccia, l’evento
naturale e l’incendio.
Tuttavia, il mittente, per ottenere il risarcimento, deve provare di avere un contratto di trasporto e
che esiste un nesso di casualità tra il danno e il trasporto.
Nel contratto di subtrasporto, un vettore si assume l’obbligazione dell’intero trasporto ma ne
esegue sono una parte del percorso, mentre la restante parte è eseguita da altri vettori.
A differenza del contratto di subtrasporto, nel trasporto con rispedizione di merce, il vettore si
qualifica tale solo per la parte di percorso da lui eseguita, mentre per la restante parte si qualifica
come spedizioniere mandatario.
Con il trasporto cumulativo, più vettori si obbligano al trasporto solo per la parte di percorso da
loro eseguita; circa la responsabilità: se il trasporto cumulativo ha ad oggetto trasporto di
persone, ciascun vettore è responsabile solo per i danni verificatisi nel suo percorso; se il
trasporto cumulativo ha per oggetto trasporto di cose, è prevista una responsabilità solidale per
tutti i vettori.
Per quanto riguarda i trasporti internazionali, essi sono disciplinati dalla Convenzione di Ginevra
e da altri trattati che sono stati stipulati dall’UE.
104. Noleggio; rimorchio. Con il noleggio, un soggetto (noleggiante) si assume l’obbligo di
compiere con una determinata nave uno o più viaggi prestabiliti, entro un determinato periodo di
tempo e contro un corrispettivo (nolo).
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La differenza tra noleggio e trasporto sta nel fatto che nel trasporto, il vettore si obbliga a
trasportare cose o persone; nel noleggio, il noleggiante si obbliga solo di fare viaggi.
Il rimorchio-trasporto è un trasporto per acqua finalizzato a spostare elementi rimorchiati da
consegnare al rimorchiatore. Se l’elemento da rimorchiare è privo di equipaggio, tale elemento
deve essere necessariamente consegnato al rimorchiatore; se sull’elemento vi è l’equipaggio, il
rimorchiatore deve garantire non solo il trasporto, ma anche la custodia delle cose trasportate e
degli elementi rimorchiati.
Nel rimorchio-manovra, il rimorchiatore fornisce solo l’energia per effettuare la manovra e non
vi è la consegna della cosa da rimorchiare al rimorchiatore.
Al fine di disciplinare questa materia, è stato introdotto il contratto di logistica che regolamenta
tutte le attività di movimento e di trasporto dei prodotti.
105. Spedizione. (art. 1737 c.c.) Il contratto di spedizione è un mandato senza rappresentanza
che consiste nella conclusione, per conto del mandante, di un contratto di trasporto con le
operazioni accessorie.
L’ordine di spedizione evita al mittente la ricerca di vettori disposti a fare il trasporto e le
operazioni accessorie; tale ordine è revocabile fino a quando lo spedizioniere non ha concluso il
contratto di trasporto.
Lo spedizioniere, quindi, conclude contratti di trasporto per conto del mittente ma in nome
proprio; allo spedizioniere spetta una retribuzione calcolata in accordo fra le parti, o in base a
tariffari, o in base agli usi del luogo.
Allo spedizioniere è applicata la stessa disciplina del mandato; egli è responsabile solo per colpa
commessa nella scelta del vettore e nella trasmissione dei dati a questi, ma non è responsabile
dell’operato dell’impresa di trasporto.
La figura dello spedizioniere-vettore si ha quando lo spedizioniere, dopo la conclusione del
contratto di trasporto, se ne assume l’esecuzione sia direttamente, sia utilizzando altri soggetti.
Questo tipo di contratto per alcuni è da considerarsi un contratto di trasporto, per altri si tratta di
un ingresso dello spedizioniere nel contratto di trasporto.
La figura dello spedizioniere, con l’avvento di nuove tecniche di trasporto (containers, pallets),
ha subito moltissime modifiche, soprattutto in campo internazionale; infatti, è scomparsa la
figura del semplice spedizioniere, lasciando il posto ad un operatore che è dotato di grandi poteri
decisionali e di controllo.
Altra innovazione è che la conclusione del solo contratto di trasporto, senza le operazioni
accessorie da parte dello spedizioniere, è un’eccezione, perché le operazioni accessorie non sono
più considerate tali, ma anzi, sono operazioni strettamente legate, e quindi necessarie
all’esecuzione del trasporto.
106. Contratti di crociera turistica e di viaggio. Il contratto di crociera turistica è il contratto
con il quale l’organizzatore si assume l’obbligo di trasportare i croceristi per un viaggio con
ritorno al punto di partenza, fornendo altre prestazioni accessorie a bordo come il vitto e
l’alloggio; tale contratto si colloca nel trasporto, a differenza del contratto di viaggio turistico,
dove l’organizzatore si assume l’obbligo di fornire prestazioni diverse dal trasporto: la differenza
sta nel fatto che nel contratto di crociera sono inglobate anche le prestazioni accessorie, mentre
nel contratto di viaggio le prestazioni accessorie non sono inglobate nel contratto.
La convenzione di Bruxelles, sul contratto di viaggio, distingue 2 diverse fattispecie:
● contratto ad organizzazione di viaggio; è il contratto con il quale l’organizzatore si
assume, contro un corrispettivo, l’obbligo di procurare al cliente un insieme di prestazioni
comprendenti il trasporto, il soggiorno e tutte le altre prestazioni accessorie;
● contratto di intermediazione di viaggio; è il mandato con il quale l’organizzatore si
assume, contro un corrispettivo, l’obbligo di procurare al mandante un contratto di
organizzazione di viaggio (il contratto sopra-analizzato).
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107. Altri contratti turistici. Esistono molteplici contratti turistici:
1. contratto d’albergo: è un contratto consensuale ad effetti obbligatori; con esso
l’albergatore si obbliga, dietro un corrispettivo, a fornire al cliente molteplici prestazioni
come il vitto, l’alloggio, la pulizia, ecc…, al fine di rendere confortevole il soggiorno.
È un contratto oneroso e nel caso il cliente non paghi, l’albergatore ha il privilegio di
soddisfarsi sulle cose portate dal cliente in albergo; egli, però, risponde illimitatamente
per le cose che gli sono state consegnate.
2. pacchetto turistico: è la combinazione di prestazioni eterogenee (non collegate fra di
loro), come l’alloggio, il trasporto e i servizi. Il consumatore-turista paga un prezzo
forfetario corrispondente alla combinazione di tutte le prestazioni. Il turista ha diritto ad
un’ampia tutela: infatti, egli deve essere informato, mediante documentazione scritta
(opuscolo, il quale vincola l’organizzatore ed il venditore), del costo del viaggio, dei
costi accessori, orari, itinerari, pasti forniti, caratteristiche dell’alloggio, ecc… Il contratto
deve essere in forma scritta in termini chiari e precisi, e al cliente deve essere rilasciata
una copia sottoscritta e timbrata dall’organizzatore e dal venditore. Nell’ipotesi di
mancato o inesatto adempimento dell’organizzatore e del venditore, questi due sono
tenuti al risarcimento del danno, salvo che riescano a provare la loro non imputabilità
dell’inadempimento.
3. contratto di ormeggio: è il contratto con il quale un soggetto, concessionario di un’area
demaniale e dello specchio d’acqua antistante, concede ad un altro soggetto, contro un
corrispettivo, il diritto ad occupare con un’imbarcazione una determinata porzione dello
specchio d’acqua, fornendogli anche i servizi accessori necessari all’imbarcazione, come
l’uso di catene, boe, ecc… Questo è un contratto misto e il concessionario ha anche
l’obbligo di custodia dell’imbarcazione e di quanto in essa contenuto, come nel deposito.
108. Merchandising. Il merchandising è il contratto con il quale il titolare di un marchio,
contro un corrispettivo, concede ad altri, in esclusiva oppure no, l’uso del suo marchio, affinché
questi ultimi (concessionari) possono utilizzarlo, per contraddistinguere i propri prodotti che
sono diversi da quelli del concedente, per un determinato periodo e per una determinata zona.
Il concedente ha il diritto di controllare la commercializzazione dei prodotti che hanno il suo
marchio, affinché il marchio non venga sminuito da prodotti scadenti e non conformi.
Il licenziatario (colui che usa il marchio), deve corrispondere un canone e rispettare lo standard
qualitativo; Nel caso egli abusi del marchio il concedente può espletare l’azione inibitoria o di
rimozione.
109. Contratto di utilizzazione del computer. Per quanto riguarda i contratti di utilizzazione
del computer, essi sono riconducibili ai tipi noti di contratti, e la particolarità sta nel fatto che
oggetto di tali contratti è un bene informatico come l’hardware (elaboratore) o il software
(programma), o entrambi; tali contratti possono avere come prestazioni un servizio di assistenza,
lo sviluppo di un software, l’addestramento personale.
110. Franchising. Il franchising è il contratto con il quale un’impresa affiliante (franchisor)
concede ad un’altra impresa affiliata (franchisee) il diritto di commercializzare determinati beni
o servizi contro un corrispettivo finanziario diretto o indiretto.
Gli obblighi del franchisor sono:
• di trasmettere le sue conoscenze scientifiche e tecniche al franchisee;
• di fornire attività di assistenza e di consulenza di gestione, sia durante la fase
dell’apertura che durante la fase di amministrazione;
• di rifornire l’affiliato dei prodotti destinati alla rivendita.
Gli obblighi del franchisee sono:
• di comprare determinati quantitativi di merce;
• di accettare l’imposizione del prezzo di vendita;
• di accettare ispezioni e controlli sull’attività anche amministrativa;
142
•
a volte può succedere che il franchisee deve pagare, oltre ad un prezzo iniziale forfetario
(front fee), anche un pagamento periodico (royalties) calcolato in percentuale sul
fatturato.
Il contratto ha una durata determinata che può essere rinnovata, salvo rifiuto del franchisor;
dopo la scadenza, il contratto di franchising può anche prevedere una clausola che vieta al
franchisee di svolgere un’attività di concorrenza al franchisor.
Per quanto riguarda lo scioglimento del franchising, in molti contratti è previsto l’obbligo per il
franchisor di riacquistare le scorte del franchisee; questo avviene nel caso in cui lo scioglimento
è imputabile al franchisor.
La natura del contratto di franchising è ampiamente discussa: per alcuni è una concessione di
vendita, per la maggior parte dei dottrinari è un contratto atipico.
111. Sponsorizzazione. La sponsorizzazione è il contratto con il quale una parte (sponsee,
personaggio famoso e conosciuto, oppure i responsabili di un evento pubblico) si obbliga dietro
un corrispettivo a pubblicizzare il prodotto e il marchio dell’imprenditore (sponsor).
Talvolta lo sponsee può anche obbligarsi a pubblicizzare il prodotto con una comunicazione
pubblicitaria, utilizzando ora le sue competenze professionali, ora la sua notorietà.
La sponsorizzazione è un contratto atipico, a titolo oneroso; esso deve contenere la possibile
clausola d’esclusiva, il pagamento e le sue modalità, la durata del vincolo, gli adeguamenti in
base agli accrescimenti di vendita e di prestigio apportati dallo sponsee.
112. Catering. Il catering è il contratto con il quale un’organizzazione si obbliga a fornire un
insieme necessario di servizi al fine di soddisfare esigenze alimentari di una comunità: esempio
classico è il servizio di ristorazione nei treni, aerei e navi da crociera.
Il contratto di catering è visto come:
• un contratto di appalto di servizi, se viene fornita una complessità di servizi;
• un contratto di somministrazione, se si limita a fornire solo i pasti e non si occupa anche
della loro distribuzione.
113. Know-How. Per know-how s’intendono tutte le particolari conoscenze tecniche acquisite
sulla base di studi e ricerca che sono di norma segreti. Tuttavia, tali know-how possono essere
ceduti da un licenziante (concedente) ad un licenziatario (concessionario) anche se tali
conoscenze non sono brevettate; possono essere comunque applicate le norme penali sulla
concorrenza sleale e sulla rivelazione di segreti industriali.
Gli obblighi del licenziante sono:
• di far conoscere al licenziatario il bagaglio tecnico-scientifico da lui elaborato per
agevolare i processi produttivi;
• di fornire assistenza tecnica nella formazione del licenziatario.
Gli obblighi del licenziatario sono:
• di non divulgare le conoscenze ricevute;
• di pagare o un corrispettivo globale, o un pagamento di royalties calcolato in percentuale
sui prodotti.
Il contratto può essere a tempo determinato e alla sua scadenza il licenziatario deve restituire le
macchine al licenziante.
114. Contratto di ricerca. Il contratto di ricerca è quel contratto con il quale un finanziatore
commissiona a ricercatori l’acquisizione di nuove conoscenze scientifiche.
Il rapporto tra ricercatore e committente può avere diversa natura:
• se tale rapporto deriva da un contratto di lavoro subordinato del ricercatore, i risultati
della ricerca spettano al committente-datore di lavoro, mentre al ricercatore spetta il
diritto morale alla paternità dell’opera;
• se tale rapporto non deriva da un contratto di lavoro subordinato, al ricercatore spetta un
corrispettivo.
143
L’obbligo del ricercatore è quello di comunicare, in via esclusiva al committente, le sue
conoscenze acquisite; tuttavia il ricercatore ha diritto, oltre al corrispettivo, anche ad una licenza
gratuita.
115. Engineering. L’engineering è quel contratto con il quale l’engineer si obbliga verso il
committente o ad elaborare progetti, o ad assistere il committente nell’elaborazione del progetto,
o ad eseguire direttamente il progetto elaborato.
Con tale contratto viene offerto al committente non solo il sapere e le conoscenze di tecnici
specializzati, ma anche l’elaborazione del prodotto per cui sono state utilizzate tali conoscenze.
L’engineer garantisce al committente l’eseguibilità dei progetti elaborati e, nel caso egli abbia
assunto anche l’obbligo di eseguire il progetto, garantisce anche la funzionalità del prodotto.
d. Contratti a titolo gratuito e di liberalità.
116. Premessa. Gli atti di liberalità, sono quegli atti che producono un determinato effetto
economico consistente nell’arricchimento del patrimonio altrui, senza corrispettivo e per spirito
di liberalità.
Questi atti di liberalità realizzati in via tipica sono contratti di donazione; se sono realizzati in
via atipica sono contratti di donazione indiretta (piantagioni, costruzioni, opere fatte su suolo
altrui da un terzo a spese proprie).
La liberalità non va confusa con la gratuità, perché la liberalità incide sulla funzione del
rapporto, la gratuità incide, invece, sulla disciplina del rapporto.
Con spirito di liberalità s’intende una spontaneità dell’attribuzione e un perseguimento di un
interesse non patrimoniale del disponente.
117. Donazioni. (art. 769 c.c.) La donazione è il contratto con il quale una parte (donante)
arricchisce un’altra parte (donatario) di un diritto, o assume verso il donatario un’obbligazione
con uno spirito di liberalità.
La donazione, pur essendo un contratto fatto tra vivi, è disciplinato dalle norme che riguardano le
successioni per causa di morte, perché ci sono molte analogie come il comune carattere di
liberalità, e la possibilità di interferenze tra la donazione e la successione mortis causa.
Per spirito di liberalità la giurisprudenza intende la volontà di donare (animus donandi), ossia
di conferire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi costretto, e la volontà di soddisfare
un proprio interesse non patrimoniale.
Lo spirito di liberalità non s’identifica con il motivo, ma è spinto, animato dallo stesso; il motivo
è eccezionalmente rilevante nei casi di motivo illecito e di errore di motivo. Un particolare
motivo ricorre nelle donazioni fatte per riconoscenza, per speciale rimunerazione, o
considerando i meriti del donatario; tali donazioni non possono essere revocate né per causa
d’ingratitudine, né per sopravvenienza di figli.
La donazione non va confusa con la liberalità d’uso (mance), perché nelle liberalità d’uso, non
vi è spirito di liberalità, ma una volontà di conformarsi agli usi.
La donazione obnuziale (favor matrimonii) è fatta dal donante in caso di matrimonio, sia a
favore del donatario, che a favore di entrambi gli sposi. Tale donazione si perfeziona senza
l’accettazione del donatario e i suoi effetti sono subordinati alla celebrazione del matrimonio,
perché nel caso il matrimonio fosse annullato, la donazione si ritiene nulla; anche questa
donazione non può essere revocata.
Requisito necessario e fondamentale per la validità della donazione è la capacità del donante di
disporre dei propri beni: infatti i minori, gli inabilitati e gli interdetti non hanno la capacità di
donare; tuttavia sono valide le donazioni fatte dal minore o dall’inabilitato nel contratto di
matrimonio.
144
Il legislatore prevede una maggiore tutela per il donante incapace naturalmente, in quanto, ai fini
dell’annullamento dell’atto, è richiesta solo la prova dell’incapacità di intendere e di volere.
È logicamente vietato al rappresentante legale dell’incapace di fare donazioni in nome della
persona rappresentata, perché la donazione è atto personale e, proprio per questo, è nullo il
mandato a donare, con il quale un soggetto attribuisce ad un altro la facoltà di determinare il
donatario o l’oggetto della donazione; tale mandato è valido solo se il donante ha
preventivamente determinato questi caratteri fondamentali.
La donazione a favore dei nascituri è quel contratto di donazione fatto dal donante al figlio
concepito o non di una determinata persona vivente al tempo della donazione; al genitore del
donatario spetta il potere di accettazione, ma l’amministrazione dei beni oggetto della donazione
spetta al donante, fino alla nascita del donatario.
La donazione con efficacia reale consiste nell’arricchimento del donatario mediante il
trasferimento a questi di un diritto di proprietà, di un altro diritto reale, di un diritto di credito,
della costituzione di un diritto reale di godimento, oppure di una nuda proprietà con riserva
dell’usufrutto a favore del donante.
Non possono essere oggetto di donazione i beni futuri e quindi questa donazione è nulla.
La donazione può avere anche efficacia obbligatoria: è l’esempio dell’assunzione del donante di
un’obbligazione verso il donatario che può essere anche a carattere periodico.
Nel caso di una semplice obbligazione, il diritto di credito del donatario sorge immediatamente
con la stipulazione; nel caso di una donazione con oggetto un’obbligazione periodica, l’obbligo
delle prestazioni periodiche del donante si estingue con la morte dello stesso (rendita vitalizia).
La donazione ad efficacia obbligatoria può avere come oggetto un obbligo di dare, ma anche di
fare.
La forma richiesta per la donazione è quella dell’atto pubblico, in presenza di 2 testimoni; altro
requisito per i beni mobili, è che devono essere specificati e stimati nello stesso atto o in una nota
separata.
Il requisito formale dell’atto pubblico riguarda anche l’accettazione del donatario che può essere
fatta con atto pubblico posteriore alla donazione: gli effetti si produrranno solo dopo la notifica
del donante e le parti, fino a quel momento, possono revocare la loro dichiarazione.
L’atto pubblico non è richiesto per le donazioni di beni mobili di modico valore, in quanto basta
la semplice consegna della cosa (donazione manuale).
La donazione si dice modale quando è gravata da un onere per il donatario; egli è tenuto ad
adempiere l’onere nei limiti del valore della donazione e, nel caso è inadempiente, il donante o i
suoi eredi, possono chiedere la risoluzione per inadempimento se è prevista nel contratto di
donazione. L’onere si ritiene non apposto se è illecito o impossibile.
Il modo (onere) obbliga ma non sospende, la condizione sospensiva sospende ma non obbliga, la
condizione risolutiva agisce automaticamente, a differenza della risoluzione per inadempimento
dell’onere che deve essere prevista nel contratto.
Il donante può riservarsi la facoltà di disporre di qualche oggetto o di una determinata somma
che sono compresi nella donazione.
La donazione si praemoriar è sottoposta alla condizione della morte del donante: nel momento
in cui si verifica tale evento, la donazione produce i suoi effetti.
Il donante, in caso d’inadempimento o di ritardo nell’eseguire la donazione, è responsabile solo
per dolo o colpa grave: egli deve garantire che l’oggetto della donazione sia privo di vizi,
rispondendo dell’evizione solo quando ha promesso la garanzia espressamente e il dolo o colpa
grave sono a lui imputabili; nelle donazioni modali e rimuneratorie egli è responsabile in
proporzione all’onere.
La donazione può essere revocata per ingratitudine o per sopravvenienza di figli; sono
irrevocabili la donazione rimuneratoria e quell’obnuziale.
La revocazione per ingratitudine è chiesta se il donatario ha commesso: omicidio (tentato o
concluso) del donante, del coniuge o di un suo erede; calunnia, falsa testimonianza e ingiuria
grave nei confronti del donante.
Tale revocazione può essere chiesta dal donante, o dai suoi eredi, contro il donatario e suoi eredi,
entro un termine di decadenza di 1 anno dal fatto commesso o della sua conoscenza.
145
Affinché la donazione sia revocata per sopravvenienza di figli, sono necessari 2 presupposti:
1. la mancanza di figli o discendenti legittimi, o l’ignoranza di averne al tempo della
donazione;
2. la sopravvenienza o l’apprendere l’esistenza di un figlio o di un discendente legittimo.
Un altro caso possibile per la revoca della donazione è il riconoscimento del figlio naturale
effettuato entro 2 anni dalla donazione.
L’azione di revoca della donazione per sopravvenienza di figli decade dopo 5 anni, dal giorno
della nascita dell’ultimo figlio o discendente legittimo.
Questa azione non può essere esperita dal donante dopo la morte del figlio o del discendente
legittimo.
La sentenza costitutiva di revoca fa sorgere l’obbligo al donatario di restituire i beni in natura e i
frutti maturati dal giorno della domanda al donante; nel caso i beni sono stati alienati, il
donatario deve restituire il valore che la cosa aveva al tempo della domanda.
118. Divisione. La divisione è il contratto con il quale si scioglie la comunione attribuendo ad
ognuno dei condividenti una parte di beni, di valore corrispondente o quello delle relative quote.
La divisione può avere luogo in natura e, al fine di compensare le ineguaglianze tra le quote
ereditarie, sono previsti dei conguagli in denaro.
Alla divisione prendono parte tutti i comunisti, pena la nullità dell’atto, e quindi esso si configura
come un contratto bilaterale o plurilaterale.
La divisione è un contratto a titolo oneroso e non comporta alcun trasferimento di diritti, in
quanto ha efficacia retroattiva: infatti, ciascun condividente si considera come se fosse stato
proprietario esclusivo dei beni corrispondenti alla propria quota, sin dalla conclusione della
comunione.
La divisione è un negozio dichiarativo in quanto non modifica la realtà preesistente; tuttavia, la
giurisprudenza la considera:
• o un contratto modificativo, perché provoca l’estinzione della comunione;
• o un contratto costitutivo, perché produce la nascita di molteplici diritti di proprietà.
Per quanto riguarda la forma, se ha ad oggetto beni immobili è richiesta la forma scritta, pena la
nullità dell’atto, e la trascrizione del contratto.
La divisione può essere rescissa quando uno dei condividenti prova di essere stato leso oltre ¼;
tale azione si prescrive in 2 anni dalla divisione. L’azione di rescissione della divisione può
essere troncata, se il condividente contro il quale è stata promossa l’azione, versa un
supplemento della sua porzione all’attore ed agli altri condividenti.
La divisione può essere annullata solo per violenza o dolo, e non per errore; questo perché:
• nel caso di errore di omissione di bene, opera il rimedio del supplemento;
• nel caso di errore sulla stima di beni, opera la rescissione per lesione;
• nel caso di errore sui presupposti della divisione (numero dei condividenti), la
divisione si ritiene nulla e non annullabile;
• nel caso di errore derivante da evizione, operano le norme di quest’ultima.
Per la divisione ereditaria e per la divisione di cose comuni sono applicate le stesse norme
fornite dal codice in modo dettagliato.
e. Contratti aleatori
119. Gioco e scommessa. Il gioco e la scommessa, nei casi non previsti dalla legge, non sono
considerati come un rapporto obbligatorio, ma come un’obbligazione naturale; infatti, il
venditore non può agire contro il debitore inadempiente, e il debitore non può ripetere quanto
versato, salvo nei casi di frode.
La ratio di tale principio è la futilità della causa del guadagno.
146
In ipotesi tassativamente indicate (giochi e scommesse riguardanti competizioni sportive e
lotterie), il vincitore è legittimato ad agire in giudizio per ottenere l’adempimento della
prestazione dal debitore: si parla dei contratti aleatori, dove l’alea (caso) consiste
nell’incertezza della vincita. Questi tipi di gioco e scommessa, previsti dalla legge, sono tutelati
perché incentivano indirettamente le attività sportive oppure gli obiettivi di utilità sociale.
I giochi d’azzardo (fondati sulla fortuna, più che sulla bravura del giocatore) e le scommesse
illecite sono proibiti e sanzionati penalmente dalla legge; tuttavia, quando questi tipi di gioco
sono esercitati nelle forme autorizzate (casinò), non è prevista la sanzione penale, ma permane
l’impossibilità del vincitore di agire contro il debitore inadempiente, e permane l’impossibilità di
ripetere ciò che si è versato.
120. Assicurazione. (art. 1882 c.c.) L’assicurazione è il contratto con il quale l’assicuratore,
contro il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere (coprire monetariamente) l’assicurato,
del danno procuratogli da un sinistro, e si obbliga anche a pagare un capitale o una rendita, nel
caso si verifichi un evento attinente alla vita umana dell’assicurato.
Il contratto di assicurazione si è diffuso particolarmente nel settore delle responsabilità civili e
soprattutto nel settore delle responsabilità sociali (malattia, infortuni, ecc…) che sono regolate da
leggi speciali.
Il settore delle assicurazioni è stato disciplinato anche a livello comunitario, e, infatti, le
compagnie assicurative aventi sede nei paesi dell’U.E. possono liberamente operare in tutti i
parsi dell’Unione, previa autorizzazione del paese membro in cui vanno ad agire.
L’elemento costitutivo del contratto di assicurazione è il rischio. Infatti, la funzione del
contratto di assicurazione è quella di trasferire il rischio dall’assicurato all’assicuratore, il quale
entro i limiti consentiti, deve pagare l’assicurato del danno provocatogli da un sinistro
(assicurazione contro i danni = funzione indennitaria), oppure deve pagare un capitale o una
rendita nel momento in cui si verifica un evento attinente alla vita umana dell’assicurato
(assicurazione sulla vita = funzione previdenziale).
Il contratto di assicurazione è:
• un contratto a prestazioni corrispettive, perché esistono 2 prestazioni:
o una che è certa e determinata, ossia il pagamento del premio assicurativo;
o l’altra, invece, che è subordinata al verificarsi del sinistro o dell’evento attinente
alla vita umana;
• un contratto commutativo, perché le 2 prestazioni sono scambiate in base ad un nesso di
reciprocità;
• un contratto aleatorio, perché l’assicurato rischia di pagare il premio a fondo perduto
qualora il sinistro o l’evento attinente alla vita umana non si verifichi, e l’assicuratore,
rischia di pagare ingenti somme nel caso il sinistro o l’evento si verifichi: l’alea è
appunto il verificarsi del rischio.
L’attività assicurativa presuppone un’organizzazione in forma d’impresa che deve essere
esercitata da un istituto di diritto pubblico o da una s.p.a. e con l’osservanza delle norme stabilite
dalle leggi speciali; l’attività può essere esercitata anche da cooperative a responsabilità limitata.
L’attività assicurativa è controllata, su autorizzazione del Ministero dell’Industria, da un ente
dotato di personalità giuridica come l’ISVAP e la CONSOB.
Le imprese di assicurazione si avvalgono di soggetti che concludono i contratti di assicurazione
per nome e per conto delle compagnie in virtù di un rapporto di agenzia: tali soggetti gli agenti
di assicurazione, autorizzati a svolgere l’attività.
Nel contratto di assicurazione sono definiti 3 soggetti:
• il contraente, colui che stipula il contratto di assicurazione;
• l’assicurato, colui su cui grava il rischio che si verifichi il sinistro e l’evento attinente
alla vita umana;
• il beneficiario, colui che beneficia del pagamento dell’assicuratore.
Non sempre queste 3 figure sono riunite nella stessa persona:
147
•
nel contratto di assicurazione per conto altrui o per conto di chi spetta, la figura del
contraente è diversa da quella dell’assicuratore-beneficiario;
• nel contratto di assicurazione sulla propria vita a beneficio di un terzo, la figura del
contraente coincide con quella dell’assicurato, ma il beneficiario è in terzo soggetto.
Quando l’assicurazione in nome altrui è stipulata da un rappresentante senza poteri, questi è
tenuto al pagamento del premio fino a quando l’assicuratore non ricevi la notizia della notifica o
del rifiuto della rappresentanza da parte dell’interessato-rappresentante.
Il contratto di assicurazione è consensuale, in quanto si perfeziona con il consenso delle parti e
cioè, quando il proponente ha notizia dell’accettazione da parte dell’oblato.
La proposta del proponente è irrevocabile fino allo scadere del 15° giorno per le assicurazioni
contro i danni; è revocabile per le assicurazioni sulla vita e all’assicurato spetta il rimborso dei
premi versati dedotte le spese.
La nota di copertura è il contratto con il quale le parti, nelle more, coprono il rischio fino
all’eventuale conclusione delle trattative.
Il contratto di assicurazione è efficace solo dal momento del pagamento del premio da parte
dell’assicurato; nel caso l’assicurato non paghi alla scadenza, l’assicurazione è sospesa per 24
ore e, se tale situazione perdura, l’assicuratore può agire per il recupero dei premi non pagati e il
contratto si risolve automaticamente.
La forma richiesta per il contratto di assicurazione è quella scritta e prende il nome di polizza;
essa (polizza) è importante soprattutto per la funzione probatoria.
Nei casi di assicurazioni sulla vita, le imprese hanno l’obbligo di comunicare al contraente,
prima e durante il rapporto, una serie di informazioni relative all’operazione contrattuale; nei casi
di assicurazione contro i danni, le imprese hanno solo l’obbligo d’indicare al contraente la
legislazione applicabile al contratto.
Il rischio si può atteggiare in modo diverso:
• se è inesistente dall’origine, il contratto di assicurazione è nullo;
• se cessa di esistere dopo la conclusione del contratto, il contratto si risolve, ma
l’assicuratore ha diritto al premio fin quando la cessazione del rischio non gli viene
comunicata o non è da lui conosciuta.
Il premio può essere ridotto nel caso si abbia una proporzionale riduzione del rischio e può
aumentare nel caso contrario.
Il contratto di assicurazione è annullabile se l’assicuratore valuta le dichiarazioni dell’assicurato
reticenti o inesatte, tanto che se l’assicuratore la avesse conosciute non avrebbe stipulato il
contratto.
121. Segue. Assicurazione contro i danni. L’assicurazione contro i danni trasferisce
all’assicuratore il rischio connesso al danno che potrebbero subire cose o diritti patrimoniali
dell’assicurato.
La ratio di questo contratto è l’interesse dell’assicurato di essere indennizzato nel caso si
verifichi il danno che rientra nel rischio dell’assicurato; se tale interesse manca al momento della
conclusione del contratto, esso (contratto) è nullo, se tale interesse viene meno durante il
rapporto, il contratto viene sciolto.
Si delinea così il principio indennitario, secondo il quale l’assicuratore è obbligato ad
indennizzare il danno sofferto dall’assicurato in conseguenza al sinistro, e tale indennizzo non
può mai essere superiore al danno subito dall’assicurato.
Le parti possono anche introdurre clausole con le quali delimitano l’oggetto e la misura del
rischio assicurato; esempi sono:
• la franchigia semplice, con la quale si escludono i danni inferiori ad una certa cifra;
• la franchigia assoluta, con la quale si prevede un abbattimento alla base sull’indennizzo
(riduzione);
• massimale o tetto massimo, con il quale le parti determinano il valore massimo che
l’assicuratore deve coprire, fermo restando che l’indennizzo non deve superare il valore
che la cosa aveva al tempo del sinistro.
148
L’assicuratore non risponde dei danni dovuti ad un vizio intrinseco delle cose e non risponde dei
danni legati a fatti eccezionali come il terremoto, le insurrezioni, ecc…
La sovrassicurazione si verifica quando l’indennizzo supera il valore che la cosa aveva al tempo
del sinistro; essa comporta nullità del contratto se dipende da dolo dell’assicurato.
La sottoassicurazione si verifica quando l’indennizzo dovuto all’assicurato è inferiore al valore
che la cosa aveva al tempo del sinistro: essa può essere determinata dalle parti o da una
svalutazione monetaria; tuttavia le parti possono accordare la clausola assicurazione a primo
rischio, con la quale si obbliga l’assicuratore ad indennizzare l’integrale copertura del danno.
L’assicurazione plurima è il contratto con il quale un soggetto, per il medesimo rischio, contrae
più assicurazioni presso diversi assicuratori, previo avviso a ciascuno di essi; al beneficiario,
nell’ipotesi di sinistro, spetta l’indennizzo secondo i rispettivi contratti, purché, la loro somma,
non superi l’importo massimo dell’ammontare del danno. Il beneficiario, comunque, può
rivolgersi indifferentemente ad uno qualsiasi degli assicuratori per riscuotere l’indennizzo, e
l’assicuratore che ha pagato l’intero importo ha diritto di regresso verso gli altri.
La coassicurazione è un unico contratto con il quale più assicuratori, in accordo fra di loro, si
obbligano a rispondere all’indennità del rischio in proporzione alla propria quota; il contratto è
unico e su questo sono riportate le quote di rischio e, mediante la clausola delega, un
assicuratore può gestire il rapporto in qualità di mandatario.
L’assicuratore, dopo aver pagato l’indennità, può surrogarsi nei diritti dell’assicurato verso gli
eventuali terzi responsabili per l’ammontare dell’indennità versata.
L’assicurato, per ottenere il pagamento dell’indennità, è obbligato ad informare l’assicuratore del
sinistro entro 3 gg.; inoltre, egli è tenuto all’obbligo di salvataggio facendo tutto il possibile per
evitare o diminuire il danno. Se viola tali obblighi:
• nell’ipotesi di dolo, l’assicurato perde il diritto all’indennità;
• nell’ipotesi di colpa, vi è la risoluzione del contratto.
Se l’assicurato vende la cosa assicurata, il contratto di assicurazione non è risolto, se si tratti di
una polizza al portatore; l’assicurato è tenuto ad informare l’assicuratore e l’acquirente,
altrimenti egli (assicurato) resta obbligato a pagare il premio. Una volta ricevuta la
comunicazione, l’acquirente è libero anche di rifiutare l’assicurazione e l’assicuratore può
recedere dal contratto.
L’assicurazione della responsabilità civile, mediante il trasferimento del rischio
all’assicuratore, tiene indenne l’assicurato dalla somma che questi dovrebbe pagare ad un terzo
per responsabilità derivante da illeciti contrattuali o extracontrattuali, salvo i casi di fatto doloso
dell’assicurato.
Tale assicurazione prevede un rimborso dell’assicuratore verso l’assicurato per la somma che
quest’ultimo ha dovuto versare al terzo danneggiato.
L’assicuratore ha la facoltà di pagare direttamente il danneggiato, previa comunicazione
all’assicurato; tuttavia, se l’assicurato richiede che l’assicuratore paghi direttamente il
danneggiato, egli (assicuratore) non può rifiutarsi.
L’assicurazione per la responsabilità civile è diventata obbligatoria per determinati settori come
la caccia, la gestione di impianti nucleari, e soprattutto per i proprietari di veicoli a motore e
natanti. In quest’ultimo caso, quello dei veicoli e dei natanti, si parla di R.C.A. (responsabilità
civile automobilistica). La finalità di questa assicurazione non è tanto tutelare il danneggiante,
ma di tutelare il terzo danneggiato. Il terzo danneggiato può agire in modo diretto nei confronti
dell’assicuratore del danneggiante per ottenere l’indennizzo; l’assicuratore non può opporre al
terzo danneggiato le eccezioni che può opporre al danneggiante-assicurato. Il terzo danneggiato è
tenuto ad effettuare una richiesta di indennizzo in forma scritta ed attendere 60 gg.
Per terzo danneggiato non s’intende il guidatore danneggiante, il coniuge e tutti i soggetti legati
da parentela fino ad un certo grado.
La legge, per tutelare ulteriormente il terzo danneggiato, ha istituito:
• un fondo di garanzia per le vittime della strada in ipotesi di infortunio causato da
veicolo non identificato, sprovvisto di assicurazione, ecc…;
149
•
obbligo legale a contrarre, per le compagnie assicurative, pena la revoca
dell’autorizzazione all’esercizio per il ramo R.C.A. ;
• estensione della copertura nell’ipotesi di circolazione di veicolo avvenuta prohibente
domino (senza il consenso del proprietario).
Nell’ipotesi di trasferimento dell’autoveicolo si verifica anche la cessione del diritto del contratto
ad esse inerente; tuttavia l’assicurato, previa tempestiva comunicazione all’assicuratore, può
richiedere il trasferimento del contratto relativo all’autoveicolo alienato ad altro di sua proprietà
che ne sia sprovvisto.
122. Segue. Assicurazione sulla vita. Mentre l’assicurazione contro i danni svolge una funzione
tipicamente indennitaria, l’assicurazione sulla vita svolge una funzione di natura previdenziale
o altruistica; l’assicurazione sulla vita è il contratto con il quale l’assicuratore, contro un
versamento di un premio, si obbliga a pagare un capitale o una rendita all’assicurato nel
momento in cui si verifica l’evento preso in considerazione della vita umana dell’assicurato.
Tale tipologia di assicurazione si è sviluppata in un modo così enorme tanto da richiedere una
maggiore tutela per il contraente: difatti, il contraente ha diritto a ricevere tutte le informazioni
che riguardano l’operazione contrattuale e ha diritto a recedere dal contratto entro 30 giorni
mediante una comunicazione che obbliga l’assicuratore a restituire i premi trattenendo le spese,
salvo che il contratto non abbia durata pari o inferiore a 6 mesi.
L’assicurazione sulla vita si differenzia in:
● assicurazione per la morte, se l’evento preso in considerazione è il raggiungimento di
una determinata età (morte) da parte dell’assicurato;
● assicurazione per la vita, se l’evento preso in considerazione è il superamento di una
determinata età (sopravvivenza) da parte dell’assicurato.
L’assicurazione per la morte propria è un contratto a favore di un terzo beneficiario che
acquista i vantaggi derivanti dall’assicurazione; l’assicuratore può revocare il beneficiario solo se
egli (l’assicurato) non abbia rinunciato al diritto di revoca.
Si ha decadenza del beneficio quando il beneficiario attenti alla vita dell’assicurato e, inoltre, se
l’assicurazione è fatta a titolo di liberalità, essa (assicurazione) può essere revocata per
ingratitudine o per sopravvenienza di figli.
L’indennizzo che l’assicuratore deve versare al beneficiario è sottratto alle azioni esecutive e
cautelari dei creditori in base al principio della funzione previdenziale che svolge.
L’assicurato può esercitare il diritto di riscatto che risolve anticipatamente il contratto, purchè
abbia una durata minima e che siano stati versati un certo numero di premi; l’assicurato può
esercitare il diritto di risoluzione della somma assicurata cessando il pagamento dei premi.
L’assicurato ha l’obbligo di pagare i premi all’assicuratore; se il contraente non paga i premi
successivi ai 20 giorni di tolleranza dalla scadenza, il contratto si risolve di diritto e i premi sono
acquisiti dall’assicuratore. L’assicurato, tuttavia, può con la clausola di riattivazione sospendere
la risoluzione di diritto pagando i premi scaduti maggiorati degli interessi e dalle spese, sempre
che nel frattempo non si sia verificato il sinistro.
Il cambiamento di professione o di attività dell’assicurato può essere la causa della risoluzione
del contratto o della riduzione del pagamento della somma assicurata, se la nuova professione o
attività può aggravare il rischio di sua morte. Nel momento in cui l’assicurato da notizia
all’assicuratore di tali cambiamenti, quest’ultimo (l’assicuratore) deve entro 15 giorni dichiarare
se intende risolvere il contratto o ridurre la somma assicurata o aumentare il premio; nel caso in
cui l’assicuratore dichiari di voler o ridurre la somma assicurata o di aumentare il premio,
l’assicurato deve dichiarare se accetta ( basta anche il silenzio) oppure no e, nel caso non accetti,
il contratto si risolve.
Nel caso in cui si verifichi il suicidio dell’assicurato, l’assicuratore non è tenuto al pagamento
dall’indennizzo se non sono passati 2 anni dalla conclusione del contratto o dalla cessazione
della sospensione del contratto; nel caso contrario, l’assicuratore è obbligato a versare
l’indennizzo indipendentemente da un suicidio volontario o meno, perché il suicidio viene
equiparato al caso fortuito.
150
123. Riassicurazione. La riassicurazione è il contratto con il quale l’assicuratore si garantisce
dal rischio assunto verso l’originario assicurato assumendo a sua volte la veste di assicurato
presso un secondo assicuratore (riassicuratore). Questo contratto viene stipulato
dall’assicuratore quando valuta che i premi raccolti sono insufficienti a pagare le indennità
dovute.
Il riassicuratore può anche lui assicurarsi stipulando un altro contratto di chiamato retrocessione.
Assicurazione, riassicurazione e retrocessione sono tre contratti autonomi ma collegati.
I contratti di riassicurazione possono essere generali o per singoli rischi ed è richiesta la forma
scritta a fini probatori.
I contratti di riassicurazione generali sono chiamati anche trattati e si differenziano in:
● trattati di quota pura, quando i rischi di un determinato settore sono riassicurati per
una quota prestabilita;
● trattati di eccedenza, quando sono riassicurati i rischi che eccedono una certa quota;
● trattati per eccesso di danno o di perdita, quando sono riassicurati i rischi che
eccedono una certa quota o che eccedono i premi incassati in 1 anno.
Nei casi di riassicurazione, il rapporto di assicurazione originario sussiste sempre tra assicuratore
e assicurato originario e non sussiste tra assicurato originario e riassicuratore, perché non è il
caso della coassicurazione. Tuttavia, l’assicurato originario può surrogarsi all’assicuratore
inadempiente nei confronti del riassicuratore; quest’ultimo (il riassicuratore) può opporre
all’assicurato originario l’eccezione che avrebbe potuto opporre all’assicuratore-assicurato.
124. Rendita vitalizia perpetua. La rendita perpetua e la rendita vitalizia sono due contratti
consensuali ed è richiesta per entrambi la forma scritta, pena la nullità; tuttavia, solo la rendita
vitalizia è da considerarsi un contratto aleatorio, mentre la rendita perpetua è un contratto
commutativo.
Con la rendita perpetua, un soggetto si obbliga verso un altro soggetto a pagargli in perpetua
una periodica somma di denaro o una determinata quantità di cose fungibili come corrispettivo
per l’acquisto di un bene immobile (rendita fondiaria) o per la cessione di un capitale (rendita
semplice); in entrambe le ipotesi di rendita, fondiaria e semplice, il debitore garantisce la sua
obbligazione mediante ipoteca.
La rendita perpetua può essere costituita come onere a carico di colui verso il quale è stata
effettuata l’alienazione di un immobile a titolo gratuito o la cessione gratuita di un capitale
(donazione modale).
Visto che la giurisprudenza non tollera un debito perpetuo, il debitore ha il diritto al riscatto che
comporta l’estinzione del rapporto mediante il pagamento di una somma di denaro pari alla
capitalizzazione della rendita annua. Tuttavia, il debitore può anche essere costretto al riscatto
(riscatto forzoso) in tre ipotesi:
1. nel caso non ha pagato due annualità di rendita;
2. quando non ha fornito al creditore le garanzie promesse;
3. nel caso il debitore abbia venduto o diviso il fondo tra più di tre persone.
Il debitore, nel caso il creditore ne faccia richiesta e nel caso che la rendita deve durare per oltre i
10 anni, è obbligato a rilasciare la ricognizione, un nuovo documento che assolve a finalità
probatorie.
Con la rendita vitalizia, un soggetto (vitaliziante) si obbliga verso un altro (vitaliziato) a
pagargli fino alla sua (del vitaliziato) morte una periodica somma di denaro o una determinata
quantità di cose fungibili, come corrispettivo per l’acquisto di un bene mobile o immobile o per
la cessione di un capitale; la rendita vitalizia termina alla morte del vitaliziato, a differenza della
rendita perpetua che è dovuta anche a suoi eredi.
La rendita vitalizia è un contratto aleatorio e l’alea sta proprio nel fatto che non è possibile
determinare la data precisa della morte del vitaliziato e quindi è incerta la determinazione dei
vantaggi e degli svantaggi.
Essa può essere costituita o a titolo gratuito, per donazione o testamento, o a titolo oneroso; la
sua durata può essere rapportata alla durata della vita del beneficiario, di una terza persona o di
più persone.
151
Il debitore non può esercitare il diritto al riscatto e non è ammessa neanche la risoluzione per
inadempimento nel pagamento delle rate, perché il creditore-vitaliziato può soltanto far
sequestrare e vendere i beni del debitore al fine di assicurarsi il pagamento della rendita.
La risoluzione è ammessa solo se il debitore non fornisce o diminuisce le garanzie pattuite.
Il vitalizio alimentare o contratto di mantenimento è il contratto con il quale un soggetto si
obbliga, come corrispettivo all’acquisto di un immobile o di altri beni e utilità, a fornire al
soggetto alienante vitto, alloggio, assistenza; è un contratto aleatorio a intuitu personae che ha
per oggetto una prestazione di fare e non di dare come la rendita.
f. Contratti di garanzia e di finanziamento.
125. Fideiussione, mandato di credito, anticresi. La fideiussione è una situazione personale di
garanzia; è il contratto con il quale una persona (fideiussore) garantisce, obbligandosi
personalmente verso il creditore, l’adempimento dell’obbligazione altrui.
Il negozio fideiussorio è preso in considerazione solo quando la volontà del fideiussore di
obbligarsi è direttamente espressa; tale volontà deve essere precisa ed univoca perché non basta
una semplice dichiarazione come “per i miei clienti rispondo io” per fare sorgere il vincolo
fideiussorio. Ancora, per le fideiussioni a favore di un istituto di credito è richiesta, oltre la forma
scritta, anche la consegna di un “esemplare” del documento contrattuale del cliente.
Alla fideiussione a volte può essere apposta la c.d. clausola limitativa, che afferma che “ogni
eccezione di qualsiasi natura potrà essere fatta valere soltanto dopo l’integrale soddisfacimento
della richiesta del creditore”. La funzione di questa clausola è quella di assicurare al creditore
una rapida realizzazione del suo interesse: il fideiussore, infatti, per opporre le proprie eccezioni
deve prima adempiere al creditore.
Le parti possono anche decidere di apporre alla fideiussione la clausola solve et repete al fine di
non evitare e di non ritardare la prestazione dovuta.
Il mandato di credito è il contratto con il quale un soggetto si obbliga verso un soggetto a far
credito ad un terzo soggetto; il soggetto che si obbliga assume responsabilità come fideiussore di
un debito futuro.
L’anticresi è il contratto con il quale il debitore si obbliga a consegnare un immobile al creditore
a scopo di garanzia e il creditore può percepire i frutti imputandoli prima agli interessi e poi al
capitale; è, però, vietato che la proprietà dell’immobile passi al creditore nell’ipotesi di debitore
inadempiente, secondo il divieto del patto commissorio.
126. Contratti autonomi di garanzia. L’interesse del creditore non è tutelato nella sua immediata
realizzazione soltanto con la fideiussione con clausola solve et repete: difatti, esiste anche il
contratto di garanzia autonomo a prima richiesta.
Il contratto di garanzia autonomo a prima richiesta è il contratto con il quale un soggetto A
garantisce ad un soggetto B il pagamento di una somma di denaro al creditore del soggetto B; di
solito il soggetto A, cioè quello che si obbliga, è un operatore professionale (banca, compagnia di
assicurazione, ecc…) che si assume il rischio dell’insolvenza del debitore.
La differenza di tale contratto con la fideiussione è che il contratto di garanzia a prima richiesta
non ha il carattere dell’accessorietà tipica della fideiussione e il garante non può far valere le
eccezioni fondate sul rapporto garantito.
127. Ipoteca e pegno: rinvio. Il pegno è una forma di garanzia reale: esso è concesso dal
debitore o da un terzo al creditore insoddisfatto il quale può procedere o alla vendita del bene o
alla richiesta di espropriazione.
Il titolo costitutivo del pegno è non solo il contratto, ma l’atto unilaterale e il testamento.
Il modo di costituzione, anche se è un contratto consensuale, si identifica nella consegna del
bene gravato dal pegno: la consegna produce lo spossessamento del bene dal debitore al
creditore, realizzando l’indisponibilità dello stesso bene al debitore.
152
Tuttavia, non sempre avviene lo spossessamento, anche se la funzione di garanzia produce lo
stesso i suoi effetti: si parla di pegno anomalo quando il bene resta in possesso del debitore; si
parla di pegno su merci in lavorazione quando la garanzia grava su beni che vengono
contrassegnati.
Per i pegni di credito o di altri diritti, il modo di costituzione è rappresentato dalla notifica o
dall’annotazione su appositi registri.
Per quanto riguarda l’oggetto, il pegno non può gravare su beni futuri salvo che questi siano
determinabili sulla base del rapporto obbligatorio già esistente; è ammesso, comunque, il pegno
omnibus che attribuisce alla banca la garanzia pignoratizia su tutti i beni del correntista, non solo
su quelli che sono detenuti dalla banca, ma anche quelli che successivamente vengono da essa
detenuti.
La forma del pegno è libera e la forma scritta è richiesta solo per l’esercizio della prelazione e
non per la validità.
L’ipoteca è una forma di garanzia reale; essa è concessa dal debitore o da un terzo al creditore
insoddisfatto che può procedere all’espropriazione.
Il titolo costitutivo si differenzia in base al fatto che l’ipoteca sia volontaria, legale o giudiziale:
● nell’ipotesi di ipoteca volontaria, titolo costitutivo è non solo il contratto ma anche
l’atto unilaterale;
● nell’ipotesi di ipoteca legale, titolo costitutivo è la pretesa del legislatore all’iscrizione
ipotecaria, che avviene anche d’ufficio;
● nell’ipotesi di ipoteca giudiziale, il titolo costitutivo è un provvedimento giudiziale,
come la sentenza di una condanna di pagamento; l’iscrizione spetta alla parte.
Il modo di costituzione è l’iscrizione dell’ipoteca bei pubblici registri immobiliari: l’iscrizione
rappresenta una pubblicità costitutiva (perché fa nascere l’ipoteca) a differenza della trascrizione
che è una pubblicità dichiarativa.
La forma richiesta per l’ipoteca è l’atto pubblico o una scrittura privata; l’ipoteca può essere
concessa anche da un terzo soggetto diverso dal debitore.
Per quanto riguarda l’oggetto, l’ipoteca può gravare anche su beni altrui e su beni futuri:
● l’ipoteca su beni altrui è concessa da chi non è proprietario della cosa e l’iscrizione è
valida solo quando la cosa è stata acquistata dal concedente;
● l’ipoteca su beni futuri può essere validamente iscritta solo quando la cosa è venuta in
esistenza.
128. Contratti bancari. L’attività creditizia consiste nell’esercizio di due operazioni tra loro
collegate: un’operazione passiva, che è la raccolta del risparmio e un’operazione attiva, che è
l’erogazione del credito.
L’attività creditizia è un’attività di impresa in quanto professionalmente organizzata per la
produzione e lo scambio di beni e di servizi. Tale impresa deve avere uno statuto caratterizzato:
da un’autorizzazione per l’esercizio dell’attività; dall’esercizio di vigilanza da parte dell’autorità
creditorie come la Banca d’Italia; da una particolare disciplina; dalla garanzia di uno stato sano e
di una gestione prudente.
Per quanto riguarda i contratti, è stata introdotta nella disciplina la riproduzione nei contratti
delle clausole contenute nelle Norme Bancarie Uniformi (Nbu); è stata introdotta anche un tasso
concordemente indicato dalle banche.
La normativa prevede innanzitutto che le banche assolvano un obbligo di informazione,
pubblicizzando i tassi di interessi, i prezzi, le spese, le clausole, ecc….
La forma richiesta per i contratti bancari è quella scritta.
Circa il contenuto, nel contratto devono essere specificare le spese, il tasso di interesse e ogni
altro prezzo. Per quanto riguarda il tasso di interesse, esso può subire una variazione sfavorevole
per il cliente solo se tale possibilità è stata prevista nel contratto; la variazione deve essere
comunicata al cliente, pena la nullità, e quest’ultimo ha, entro 15 giorni, il diritto di recedere a di
ricevere una liquidazione.
Le imprese creditizie hanno l’obbligo a contrarre, con il conseguente obbligo di specificare in
modo esatto il motivo del rifiuto di contrarre con un cliente.
153
129. Segue. Operazioni passive. Il deposito bancario è un’operazione passiva consistente nella
raccolta di risparmi per creare la necessaria provvista per l’erogazione di crediti.
Al cliente è applicato un tasso che è basso, se la banca è tenuta a restituire la somma su semplice
richiesta (rispettando comunque un adeguato preavviso), oppure è alto, quando le parti hanno
accordato un termine per la restituzione.
Il deposito bancario è visto sia come un deposito irregolare che come un mutuo (dove il
mutuante è il cliente e il mutuato è la banca); tale deposito svolge una duplice funzione: una
funzione di custodia per il cliente e una funzione di prestito per la banca. Alla scadenza, la banca
è tenuta a restituire la somma “ricevuta in prestito” maggiorata dagli interessi.
Il deposito bancario è un contratto oneroso e reale: può essere regolato con conto corrente, con
un certificato di deposito o con un libretto di risparmio.
Sul libretto di risparmio vanno annotati tutti i prelievi e i versamenti e tali annotazioni
prevalgono anche sui documenti contabili interni della banca.
Il libretto può essere nominativo o al portatore; se è nominativo, esso è un documento di
legittimazione in quanto colui a cui è intestato è l’unico avente diritto alla prestazione;
se è al portatore, esso è considerato un titolo di credito perché chiunque la possegga può
esercitare il diritto.
130. Segue. Operazioni attive. Tra le operazioni attive, il codice disciplina il credito al consumo,
il mutuo (di cui abbiamo già parlato nel paragrafo 87), i crediti speciali, l’aperture di credito,
l’anticipazione bancaria, lo sconto.
Per quanto riguarda il credito al consumo, esso è il contratto con il quale un soggetto
professionalmente qualificato ed espressamente individuato dalla legge concede un credito sotto
forma di finanziamento, dilazione di pagamento, o altra facilitazione finanziaria a favore di un
consumatore che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale e professionale.
La ratio di tale contratto è quella di tutelare il consumatore da operazioni finanziarie gravose. È
prescritta la pubblicità del contenuto del contratto e le informazioni sul Taeg (tasso annuo
effettivo globale), il quale indica il costo totale del credito compresi gli interessi e gli oneri da
sostenere.
La forma prevista è quella scritta, pena la nullità; il contratto deve contenere, oltre al Taeg,
anche tutti gli altri termini della contrattazione.
Il consumatore ha il diritto di adempiere anticipatamente ma anche di recedere; egli può opporre
le accezioni relative all’inadempimento del venditore.
Per quanto riguarda i crediti speciali, essi sono caratterizzati da una peculiare disciplina in base
alla particolare destinazione del finanziamento o in base alla qualità del soggetto finanziato;
esempi sono: un finanziamento a medio e lungo termine garantiti da ipoteca su immobili, credito
alle opere pubbliche, ecc….
Per quanto riguarda l’apertura di credito, è il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere
a disposizione del cliente una somma di denaro per un dato periodo di tempo o tempo
indeterminato; la funzione di tale contratto è quella di permettere al cliente di disporre della
somma anche con molteplici prelievi fino all’ammontare di un determinato importo.
La somma messa a disposizione è di proprietà della banca fino a quando non è utilizzata dal
cliente e da quel momento vengono calcolati gli interessi da rendere poi alla banca.
La forma prevista è quella scritta: tuttavia, tale contratto può essere già previsto al momento
dell’apertura di un semplice conto corrente bancario.
L’apertura di credito può essere sia assistita da garanzia, sia non assistita e in quest’ultimo caso
l’apertura di credito è detta allo scoperto.
Quando l’apertura di credito è assistita da garanzia, essa non si estingue quando il cliente non è
più debitore della banca prima della scadenza del termine, perché egli può sempre disporre di
tale somma fino alla scadenza.
Al termine del rapporto il cliente deve restituire la somma alla banca e tale operazione è
chiamata rientro di fido.
154
La banca può recedere dal contratto di apertura di credito se sono diminuite le condizioni
economiche dell’accreditato o se le sue garanzie sono insufficienti; il recesso provoca la
sospensione immediata dell’utilizzo del credito, ma la banca deve concedere almeno 15 giorni al
cliente per la restituzione. Se il contratto è a tempo indeterminato, le parti possono recedere solo
dopo un adeguato preavviso stabilito o dal contratto o dagli usi e, in mancanza, in quello di 15
giorni.
Per quanto riguarda l’anticipazione bancaria, è il contratto con il quale il produttore dà in
pegno alla banca merci o titoli al fine di farsi anticipare la somma di denaro che deve riscuotere
dai compratori; esso è un finanziamento su merci.
L’elemento essenziale dell’anticipazione bancaria è la costituzione della garanzia: se tale
garanzia diminuisce, la banca può richiedere un supplemento di garanzia oppure può procedere
alla vendita delle merci o dei titoli soddisfacendosi sul ricavato.
La garanzia si configura nel pegno, il quale può essere:
● pegno regolare; la banca rilascia al cliente un documento nel quale sono individuati le
merci o i titoli; la banca non può disporre delle cose ricevute in pegno, deve custodirle a
spese del cliente e può anche restituirle parzialmente, trattenendo proporzionalmente un
rimborso e le spese;
● pegno irregolare; quando le merci o i titoli non sono stati individuati oppure quando la
banca può disporre di tali cose; la banca acquista la proprietà di tali cose, però è obbligata
a restituire l’eccedenza;
● pegno su crediti; quando l’oggetto della garanzia sono crediti che devono essere riscossi;
in questo caso la banca riscuote alla scadenza i crediti e, una volta trattenuti il rimborso e
le spese, deve restituire l’eccedenza.
Per quanto riguarda lo sconto, è il contratto con il quale il cliente cede alla banca un suo credito
non ancora scaduto, al fine di farsi anticipare l’importo: in questo caso, la banca acquista il
credito e percepisce come prezzo della cessione la differenza tra il valore nominale del credito e
la somma anticipata. La banca può disporre liberamente del credito e può anche darlo in risconto
ad altre banche.
Lo sconto è eseguito con la clausola “salvo buon fine”, cioè è una cessione pro solvendo dove il
debitore-cliente deve garantire alla banca l’esistenza del credito e deve rispondere
dell’insolvenza del debitore ceduto.
Lo sconto può avvenire anche tramite girata di cambiali o di assegni; ancora, è molto frequente
lo sconto delle ricevute bancarie, cioè lo sconto che avviene sulle quietanze emesse
anticipatamente alla riscossione dal creditore e affidate alla banca per l’incasso.
131. Conto corrente di corrispondenza e crediti documentari. Il conto corrente bancario è il
contratto con il quale la banca e il cliente regolano futuri rapporti; esso può contenere molte
operazioni come il deposito, l’apertura di credito, ecc….
Il correntista può disporre normalmente delle somme a suo credito rispettando, comunque, un
termine di preavviso.
Il conto corrente ordinario è il contratto con il quale le parti si obbligano ad annotare in un
conto i crediti derivanti da reciproche rimesse (prestazioni) considerate inesigibili e indisponibili
fino alla chiusura del conto e, solo in quel momento e una volta eseguita la compensazione, il
saldo diviene esigibile.
La differenza tra il conto corrente bancario e il conto corrente ordinario è che il primo è
caratterizzato dall’immediata esigibilità del credito da parte del cliente.
Il conto corrente di corrispondenza è il contratto con il quale la banca, dietro un corrispettivo
(commissione), si obbliga a eseguire incarichi ricevuti dal correntista come ad esempio incassi,
acquisti di titoli, pagamenti, conversione di assegni emessi dal cliente su apposito libretto
rilasciato dalla banca, ecc….
Nel caso in cui tra cliente e banca esistono più conti o più rapporti, i saldi attivi e passivi si
compensano reciprocamente, salvo patto contrario; nell’ipotesi di conto intestato a più persone,
ciascuna di esse è considerata creditore o debitore in via solidale del saldo del conto, salvo patto
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contrario, e ciascuna di esse può recedere da contratto dandone preavviso nel termine stabilito o
dal contratto o dagli usi o entro 15 giorni.
Nel caso di un credito vantato verso un terzo soggetto, tale credito è incluso nel conto con la
clausola “salvo incasso”: difatti, se il terzo è inadempiente, il credito è eliminato dal conto.
Un obbligo molto importante della banca è quello di inviare annualmente o, su richiesta,
periodicamente l’estratto conto, un documento che fornisce una descrizione completa e chiara
dello svolgimento del rapporto; nel caso il cliente non mandi una contestazione scritta, tale
documento si ritiene accettato.
Il credito documentario è un contratto con il quale il correntista-compratore incarica la banca
ad effettuare il pagamento delle merci acquistate dietro consegna di documenti; in questo caso la
banca anticipa al compratore l’importo necessario al pagamento e può trattenere i titoli fino a
quando il cliente non effettui il rimborso. Il credito documentario è anche il contratto con il
quale la banca anticipa al venditore l’importo del prezzo su richiesta di quest’ultimo e l’anticipo
può avvenire anche su sconto delle cambiali del venditore sul compratore.
In questi casi la banca, oltre che agire come mandataria del proprio cliente, agisce come
finanziatrice.
132. Cassette di sicurezza e deposito di titoli in amministrazione. Il contratto relativo al
servizio delle cassette di sicurezza è il contratto con il quale la banca, contro il pagamento di un
canone, si obbliga a mettere a disposizione del cliente locali dove è possibile usufruire delle
cassette di sicurezza e si obbliga a provvedere alla custodia dei locali e delle cassette. Esso è un
contratto a prestazioni corrispettive, tipico, dove si combinano elementi della locazione e del
deposito; la banca risponde verso il cliente per la sicurezza e la custodia della cassetta, salvo caso
fortuito.
Se la cassetta è intestata a più persone, l’apertura è consentita a ciascuna di esse
disgiuntamente, salvo caso contrario;: nel caso uno dei cointestatari muore, l’apertura può essere
fatta o con accordo dei restanti cointestatari o su modalità dell’autorità giudiziaria.
L’apertura forzata della casetta è prevista: nell’ipotesi di fallimento; nell’ipotesi di morte del
cliente; in casi di espropriazione mobiliare o sequestro; nei casi di inadempimento del canone;
per ordine del magistrato. Normalmente la cassetta è aperta alla scadenza del contratto.
Il deposito di titoli in amministrazione è il contratto con il quale la banca si obbliga, oltre che a
custodire i titoli, a provvedere alla tutela dei diritti legati ai titoli, ad esigerne gli interessi, a
curare le riscossioni, ecc…; alla banca spetta un compenso, oltre al rimborso delle spese.
La banca è obbligata ad agire con diligenza professionale e può anche procedere al sub deposito
presso la Monte Titoli s.p.a. .
133. Swap. Il contratto di swap (scambio, baratto) ha la funzione di controllare l’incidenza dei
rischi derivanti dalla variazione di cambio delle valute; nella pratica sono ci sono tre tipi di
contratti swap:
1. currency swap; con questo contratto le parti si obbligano a versare l’una all’altra il
vantaggio ottenuto per effetto di un cambio favorevole;
2. interest rate swap; la sua funzione è quella di controllare il rischio derivante dalla
variazione del tasso di interessi;
3. cross currency swap; è un contratto di assunzione di crediti o debiti in relazione ai
cambi favorevoli o sfavorevoli delle valute.
Questi tre contratti hanno delle caratteristiche comuni: si protraggono nel tempo; sono
caratterizzati dall’aleatorietà; sono stipulati dal creditore o debitore con un terzo; non modificano
il rapporto originario; determinano la costituzione di un nuovo rapporto obbligatorio di una delle
parti con un terzo; in tutti e tre agisce una compensazione volontaria tra i reciproci rapporti.
g. Contratti di investimento in borsa.
156
134. Premessa. I contratti in borsa sono contratti di compravendita che hanno per oggetto
valori mobiliari (titoli e divise) e che sono sottoposti ad una particolare disciplina.
Per “borsa” si intende un mercato istituito, disciplinato ed organizzato secondo delle apposite
norme e nel quale sono trattati determinati beni da soggetti con determinati requisiti; essa si
differenzia in borsa merci e borsa valori.
Per quanto riguarda la borsa valori, essa è un mercato dove sono negoziati azioni, titoli di
capitali, obbligazioni, titoli di stato, titoli di credito, contratti futures, ecc….
Per concludere contratti di borsa non sono richiesti particolari requisiti; tuttavia, è prevista una
tassa da pagare mediante appositi foglietti bollati sui quali risultano i dati essenziali del contratto
come la data, le parti, il quantitativo, ecc….
135. Contratti a pronti e a termine. I contratti di borsa si differenziano in contratti a pronti e
contratti a termine; tutti e due sono contratti a mercato fermo.
I contratti a pronti si dividono in:
● contratti per contante; contratto dove la consegna e il pagamento dei titoli devono
avvenire il terzo giorno di borsa aperta successivo al giorno della contrattazione;
● contratti per contante a giorni; contratto dove la compravendita deve avvenire entro il
termine massimo di 10 giorni di borsa aperta successivi al giorno della contrattazione.
Il contratto a termine è la compravendita di titoli caratterizzata per la sua periodicità mensile e
per il fatto che tale scadenza è fissata in modo uniforme per tutte le compravendite concluse in
un certo periodo al fine di permettere la compensazione.
Il contratto differenziale è diverso dal contratto a termine per il fatto che le parti alla scadenza
del termine consegnano la differenza tra il prezzo pattuito e il prezzo corrente dei titoli; il saldo
sarà a favore del venditore o del compratore a seconda del fatto che il prezzo del titolo è
aumentato o diminuito.
136. Contratti a mercato libero o a premio. Ai contratti a mercato fermo, come i contratti a
pronti e a termine, si oppongono i contratti a mercato libero o a premi, caratterizzati dal fatto
che il contraente mediante il pagamento di un premio può o non dare esecuzione del contratto o
modificarne il contenuto.
I contratti a mercato libero sono di natura speculativa; l’elemento che li caratterizza è il
pagamento di un premio e tale premio è il corrispettivo della parte che resta vincolata alla scelta
dell’altra.
Il termine entro il quale la parte può utilizzare tale facoltà, quindi pagando il premio, è detto
risposta premi.
I contratti a mercato libero o a premi si dividono in:
● contratti a premio con facoltà semplice: dont e put;
● contratti a premio con facoltà multiple: stellaggio, strip e strap.
137. Riporto. Il riporto è il contratto con il quale un soggetto (riportato) trasferisce la proprietà
di titoli di una determinata specie ad un altro soggetto (riportatore) dietro il pagamento di un
prezzo e con la conseguenza che il riportatore si assume l’obbligo di trasferire al riportato, allo
scadere di un termine, la proprietà di titoli della stessa specie di quelli precedenti contro un
corrispettivo aumentato o diminuito.
Esso è un contratto reale, non consensuale, in quanto si perfeziona con la consegna dei titoli; è
caratterizzato da un doppio sinallagma (legame) dei due trasferimenti.
La funzione è quella di un prestito garantito; si parla di:
● riporto, ossia di un incremento del prezzo, quando questo contratto è fatto nell’interesse
del riportato che ha bisogno di liquidi e quindi per riacquistarli deve versare un prezzo
maggiorato del riporto;
● deporto, ossia di una diminuzione del prezzo, quando questo contratto è fatto
nell’interesse del riportatore che ha bisogno di disporre di quei titoli e che quindi li
rivenderà al riportato per un prezzo minore su cui è stato detratto il deporto.
157
Nel caso le parti sono inadempienti, si applicano le norme per l’inadempimento; nel caso non
adempiano entrambe nel termine stabilito, ognuno conserva ciò che ha ricevuto.
Con il riporto proroga, le parti prorogano il termine di un contratto di borsa, pagando una
somma corrispondente alla differenza del titolo al tempo della contrattazione con il prezzo dello
stesso titolo nel giorno della scadenza.
h. Contratti associativi.
138. Società e associazioni in partecipazione: cenni e rinvio. I contratti associativi presentano
elementi comuni quali il perseguimento di uno scopo comune e il fatto che le prestazioni delle
parti possono risultare di entità diverse fra loro.
139. Joint venture. Le joint venture sono forme contrattuali derivanti dai sistemi giuridici angloamericani. Per joint venture si indica un rapporto contrattuale che ha per oggetto lo svolgimento
da parte di più imprese di un unico affare, senza che tra le stesse imprese si formi un vincolo
societario; nel nostro ordinamento, a tale figura, si avvicina molto l’associazione temporanea
d’impresa. Ci sono 2 tipi di joint venture:
● contractual joint venture, forma contrattuale caratterizzata da una flessibilità
organizzativa e dalla carenza di una propria soggettività; queste caratteristiche
differenziano tale forma contrattuale dal corporate joint venture. La contractual joint
venture trova difficoltà nel nostro ordinamento a causa dell’esistenza del principio di
tipicità contrapposto alla flessibilità della forma contrattuale prima analizzata;
● corporated joint venture, forma contrattuale delle società di capitali costituita fra più
imprenditori (covertures); i covertures stipulano tra di loro accordi separati chiamati
patti parasociali.
Il joint venture è molto utilizzato nella cooperazione internazionale.
140. Consorzi: cenni e rinvio. Il consorzio è un’associazione con la quale gli imprenditori
perseguono uno scopo comune mediante una comune organizzazione; questa forma associativa
ha 2 finalità:
1. di regolamentare le fasi delle imprese;
2. di organizzare le fasi delle imprese.
141. Contratti agrari associativi. Il contratto agrario può assumere 2 distinte strutture e
funzioni; assume la struttura e la funzione di:
1. contratto di scambio, se il fondo è dato in godimento dietro corrispettivo determinato;
2. contratto associativo, se il fondo è gestito in comune dal concedente e dal
concessionario; esempi sono la mezzadrìa, la colonia parziaria e la soccida.
Per quanto riguarda i contratti agrari associativi, la loro disciplina è stata modificata
radicalmente; infatti, il legislatore ha disposto che tutti i contratti agrari, stipulati dopo la
pubblicazione della legge n. 203 del 3/5/82, sono convertiti in contratti d’affitto con durata
massima di 10 anni.
La mezzadrìa è il contratto associativo con il quale il concedente e il mezzadro (in proprio, o
come capo di una famiglia colonica) si associano per la coltivazione di un podere e per
l’esercizio delle attività connesse al fine di divederne il prodotto e gli utili. Per quanto riguarda la
divisione del prodotto e degli utili la legge stabilisce che al mezzadro spetta una parte non
inferiore al 58%, salvo patto contrario. Il mezzadro, anche se coopera con il concedente, non
perde la qualità di lavoratore subordinato.
La colonia parziaria è il contratto associativo con il quale il concedente o, uno o più coloni, si
associano per la coltivazione di un fondo e l’esercizio delle attività connesse, al fine di dividerne
il prodotto e gli utili. La colonia parziaria si differenzia dalla mezzadrìa:
158
●
da un punto di vista soggettivo, perché la colonia parziaria può essere concessa a uno o
più coloni e non alla famiglia colonica come nella mezzadrìa;
● da un punto di vista oggettivo, perché nella colonia parziaria non è necessario che il
fondo sia fornito di casa colonica.
La soccida è il contratto associativo con il quale il soccidante (concedente) e il soccidario
(concessionario) si associano per l’allevamento e lo sfruttamento del bestiame, e per l’esercizio
delle attività connesse al fine di ripartire l’accrescimento del bestiame e gli altri prodotti e utili
che ne derivano; ci sono 2 tipi di soccida:
● nella soccida semplice, l’obbligo del soccidante è quello di mettere a disposizione il
bestiame pur conservando la sua proprietà, mentre l’obbligo del soccidario è quello di
adempiere a prestazione di opera.
● Nella soccida parziaria, il bestiame è messo a disposizione da entrambi i contraenti.
i. Contratti di lavoro subordinato
142. Modello tradizionale e modelli emergenti. Il modello tradizionale dei contratti di lavoro
subordinato ha subito moltissime modifiche negli ultimi anni grazie all’evento di nuove forme e
modelli di contratti di lavoro subordinato.
Accanto al modello tradizionale a tempo pieno e a tempo indeterminato sono stati introdotti
nuovi schemi contrattuali come il contratto di formazione.
Questi nuovi contratti sono definiti atipici, non per la mancanza dei corrispondenti schemi
contrattuali nel codice, ma per la presenza di una o più deviazioni della disciplina; un esempio
tangibile è il lavoro ad interim che è finalizzato sia alla creazione di nuova occupazione, sia
all’incentivazione part-time, sia al miglioramento dell’apprendistato, ecc…
143. Contratto di lavoro cosiddetto tipico. Il contratto di lavoro tipico si configura nello
scambio tra messa a disposizione delle energie lavorative e retribuzione; è un contratto oneroso
di durata, dove il recesso da parte del datore di lavoro (licenziamento) trova notevoli
limitazioni. La forma è vincolata solo per le clausole di speciale rilevanza o per patti aggiunti, o
per atti modificativi o estintivi del rapporto; tuttavia, il legislatore ha previsto che il datore di
lavoro deve rilasciare al prestatore una dichiarazione sottoscritta contenente i dati registrati nel
libro matricola, pena pagamento di una sanzione.
Il contenuto è quasi completamente determinato dalla legge e dal contratto collettivo
applicabile. La subordinazione è la sottoposizione alle direttive del datore di lavoro: la
mancanza di questa prerogativa configura il lavoro autonomo; non è facile comunque identificare
la subordinazione nei rapporti societari, perché il socio può essere anche un lavoratore.
Il lavoro a domicilio è anch’esso un lavoro subordinato, dove il datore di lavoro non è un
imprenditore; tale lavoro è corredato di speciali garanzie e da speciale normativa.
Un aspetto specifico di questo rapporto è la determinazione della retribuzione che è erogata
secondo tariffe di cottimo pieno, risultanti dai contratti collettivi di categoria.
Lavoro subordinato è qualificato anche la prestazione a titolo oneroso dell’atleta a vantaggio
di società sportive; è prescritta una forma vincolata, pena la nullità del contratto.
Una forma di lavoro che si è sviluppata ulteriormente è il lavoro interinale o in affitto; è un
lavoro subordinato caratterizzato dal particolare rapporto di subordinazione che lega il
dipendente con l’impresa fornitrice di lavoro.
144. Contratto a tempo determinato. Una forma di contratto molto frequente è il contratto a
tempo determinato; questa forma contrattuale è caratterizzata da una deviazione della figura
contrattuale tipica: infatti, questo contratto è usato per i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità e
non deve avere durata superiore a 12 mesi.
Il contratto a tempo determinato ha queste caratteristiche:
● è previsto l’obbligo della forma scritta per la clausola sul termine;
159
●
●
la proroga di tale termine è ammessa in via eccezionale;
sono vietate pratiche elusive e il rapporto non può proseguire di fatto dopo la scadenza
del termine.
Un esempio del contratto a tempo determinato è il contratto di formazione e lavoro con il quale
si vuole dare impulso all’occupazione giovanile; affini a tale contratto sono:
● il tirocinio o apprendistato, dove il datore di lavoro cura l’istruzione professionale
dell’apprendista;
● il praticantato, che è un’attività finalizzata all’apprendimento, per poi conseguire un
esame per accedere all’abilitazione.
La differenza fra apprendistato e praticantato è che l’apprendistato è oneroso, il praticantato è
gratuito. Il contratto di formazione, l’apprendistato e il praticantato sono contratti con causa
mista, in quanto c’è uno scambio fra prestazione lavorativa e retribuzione-formazione.
145. Lavoro volontario e socialmente utile. L’attività di volontariato è quell’attività prestata in
modo personale, spontaneo e gratuito tramite associazioni di volontariato che perseguono scopi
di solidarietà e non di lucro; tale attività può essere svolta anche in forma sociale ed è
caratterizzata dalla gratuità.
A differenza dell’attività di volontariato, il lavoro socialmente utile è quel lavoro rivolto a
settori innovativi come i beni culturali, la conservazione dell’ambiente, ecc…; il lavoro
socialmente utile è caratterizzato dal fatto che coloro che lo prestano hanno diritto ad un sussidio
al loro reddito.
l. Contratti diretti a comporre e prevenire liti.
146. Transazione. Le parti hanno la possibilità di superare le possibili liti o di salvaguardarsi da
possibili liti con atti di autonomia, senza ricorrere all’autorità giudiziaria: infatti le parti possono
utilizzare la transazione, il compromesso, la cessione dei beni ai creditori e il sequestro
convenzionale.
La transazione (art. 1965 c.c.) è il contratto con il quale le parti, con reciproche concessioni,
pongono fine ad una lite già sorta o che sta per sorgere; l’elemento fondamentale e
caratterizzante della transazione è la reciprocità delle prestazioni, ossia che entrambe le parti
sopportano un sacrificio per mettere fine alla lite sorta o che stava per sorgere.
La transazione può riguardare anche la costituzione, modificazione o estinzione di rapporti
diversi da quello oggetto della lite.
L’oggetto della transazione sono diritti che devono avere necessariamente natura patrimoniale,
pena la nullità, e tali diritti devono essere nella disponibilità delle parti; può avere ad oggetto
anche controversie relative alla falsità di documenti esibiti in giudizio, salvo che siano stati
omologati dal tribunale.
La transazione è un contratto a prestazioni corrispettive e si differenzia dal negozio di
accertamento, perché nella transazione, la funzione di accertamento è esclusa alle parti, le quali
possono solo disporre dei propri diritti.
Nel caso alle parti viene un dubbio, lo possono eliminare con efficacia retroattiva.
La forma scritta è richiesta solo a fini probatori; tuttavia se la transazione riguarda controversie
su beni immobili o diritti reali immobiliari, è richiesta la forma scritta, pena la nullità.
I presupposti della transazione sono: l’esistenza attuale o potenziale di una lite processuale,
l’incertezza nell’esito del giudizio.
La transazione mista si ha quando le parti creano, modificano o estinguono rapporti diversi da
quello litigioso; la transazione novativa è utilizzata per modificare il rapporto preesistente.
L’effetto della transazione è quello di far cessare una lite ed impedire ad esse di ricorrere
all’autorità giudiziaria per mettere di nuovo in discussione il rapporto.
160
Le parti non possono rescindere la transazione per lesione, ma la transazione è annullabile
quando una parte è stata indotta con falsità sui documenti, oppure agisce su una lite già decisa
con sentenza passata in giudicato, o si prova che una delle parti non aveva alcun diritto.
La transazione può essere risolta per eccessiva onerosità sopravvenuta o per mutuo dissenso.
147. Compromesso arbitrale. Le parti, oltre che utilizzare la transazione, possono risolvere
(compromettere) la controversia affidando la decisione agli arbitri, cioè a giudici privati in
numero dispari scelti o nel modo prestabilito o secondo la disciplina: questo è chiamato
compromesso arbitrale.
L’arbitrato si distingue dalla transazione perché in quest’ultima il potere decisionale resta nelle
mani dei privati, mentre nell’arbitrato la decisione è rimessa ad un collegio privato.
L’arbitrato si differenzia anche dalla clausola compromissoria per il fatto che quest’ultima può
essere prevista già anticipatamente nel contratto dalle parti e la nullità del contratto non comporta
la nullità della clausola in quanto essa è autonoma rispetto al contratto. Tuttavia, sia per il
compromesso arbitrale che per la clausola compromissoria è necessario che l’oggetto sia
precisamente individuato, pena la nullità.
148. Cessione dei beni ai creditori. La cessione dei beni ai creditori è il contratto con il quale il
debitore incarica i suoi creditori o alcuni di essi a liquidare tutte o alcune sue attività affinché
possano ripartirsi il ricavato; esso dà vita ad un mandato irrevocabile ed è prevista la forma
scritta.
Per effetto della cessione, il debitore perde la disponibilità dei beni ceduti, ma conserva il diritto
di controllare la gestione, di avere il rendiconto della liquidazione e di ottenere l’eventuale
residuo.
I creditori devono soddisfarsi proporzionalmente alle proprie quote di credito e possono chiedere
l’annullamento della cessione se ilo debitore ha simulato passività inesistenti.
Il debitore è libero solo quando i creditori hanno ricevuto la loro quota di liquidazione; tuttavia,
egli ha diritto a recedere dal contratto offrendo ai cessionari il capitale, gli interessi e le spese.
149. Sequestro convenzionale. Il sequestro convenzionale è il contratto con il quale due o più
parti (sequestranti) affidando ad un terzo (sequestratario) una o più cose oggetto di
controversia affinché le custodisca e le restituisca al soggetto cui spettano nel momento in cui la
controversia è finita; esso è un contratto oneroso e reale in quanto si perfeziona con la consegna
della cosa.
Il sequestro convenzionale si differenzia dalla transazione e dalla cessione dei beni ai creditori,
perché con il sequestro convenzionale non si vuole porre fine a una controversia, ma si vuole
solo custodire la cosa oggetto della controversia per poi restituirla al legittimo proprietario alla
fine della controversia.
Il sequestratario è obbligato a custodire la cosa e, qualora la natura della cosa lo richieda, è
obbligato anche ad amministrarla; egli può essere liberato dalla custodia della cosa anche prima
della risoluzione della controversia solo per giusti motivi o per volontà delle parti.
Il sequestro convenzionale si estingue per perimento della cosa e per morte del sequestratario.
Il sequestro convenzionale si differenzia dal sequestro conservativo e dal sequestro giudiziario,
perché quest’ultimi due discendono da un provvedimento dell’autorità giudiziaria sulla richiesta
della parte interessata.
Il sequestro conservativo è un mezzo di conservazione delle garanzie patrimoniali in quanto
rende inefficaci gli atti di disposizione sui beni sequestrati; il sequestro giudiziario presuppone
una controversia su determinati beni e la loro consequenziale custodia.
161
D. Promesse unilaterali e titoli di credito.
a. Promesse unilaterali.
150. Tipicità o atipicità delle promesse unilaterali. La disciplina degli atti e dei fatti diversi dal
contratto comprende: le promesse unilaterali, titoli di credito, la gestione di affari altrui, i
pagamento dell’indebito, l’arricchimento senza causa e i fatti illeciti.
La promessa unilaterale è un atto negoziale nel quale la manifestazione di volontà di colui che
promette è idonea a far nascere un’obbligazione a suo carico; esempi di promesse unilaterali
sono: la promessa al pubblico, i titoli di credito, la donazione obnuziale, ecc….
La promessa unilaterale si differenzia dall’obbligazione a carico del solo proponente perché in
quest’ultimo il sorgere dell’obbligazione è condizionato dalla volontà del destinatario.
La promessa unilaterale è tipica in quando produce effetti obbligatori solo nei casi previsti dalla
legge; alle promesse unilaterali è applicata la disciplina dei contratti in quanto compatibile.
151. Promessa al pubblico. La promessa al pubblico si ha quando un promittente,
rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata
situazione o a chi compie una determinata azione: esempi sono la promessa di una somma di
denaro alle famiglie delle vittime del terremoto.
La promessa al pubblico è a titolo gratuito, quando si promette una prestazione a favore di chi si
trovi in una determinata situazione, in quanto il destinatario della promessa ne beneficia senza
svolgere alcuna attività e senza l’obbligo di prestazione; la promessa al pubblico è a titolo
oneroso quando si promette una prestazione a favore di chi compie una determinata azione, in
quanto il destinatario della promessa per beneficiarne deve attivarsi e la promessa si configura
come un corrispettivo per l’attività svolta.
Nel caso di promessa al pubblico a titolo gratuito, la legge non richiede la forma dell’atto
pubblico, richiesta, invece, per la donazione.
La promessa al pubblico è vincolante quando è resa pubblica, ossia quando è resa
conoscibile a tutti mediante mezzi idonei come la tv, il giornale.
La caratteristica della promessa al pubblico è che il soggetto creditore della promessa resta
indeterminato fino al verificarsi della condizione prevista nella promessa; nel caso più persone
abbiano svolto l’attività richiesta oppure si trovino nella stessa situazione richiesta nella
promessa, tra loro prevale chi per primo ne ha dato comunicazione al promittente.
Se il termine non è stato fissato oppure non è possibile determinarlo, la promessa
conserva l’efficacia vincolante per 1 anno.
La promessa può anche essere revocata dal promittente, ma solo per giusta causa e deve essere
resa pubblica nello stesso modo in cui è stata comunicata la promessa.
La promessa al pubblico si differenzia dall’offerta al pubblico, perché nella promessa, negozio
unilaterale perfetto, l’obbligazione a carico del promittente sorge nel momento in cui è resa
pubblica, mentre nell’offerta, proposta contrattuale, l’obbligazione sorge solo dopo
l’accettazione del destinatario indeterminato.
152. Ricognizione di debito e promessa di pagamento. La ricognizione (o riconoscimento) del
debito è la dichiarazione del debitore al creditore con la quale egli (il debitore) riconosce un
proprio debito: “riconosco di doverti pagare 1000 €”; la ricognizione non fa nascere un nuovo
rapporto obbligatorio, ma riconosce l’esistenza di un rapporto obbligatorio preesistente.
La promessa di pagamento è la dichiarazione con la quale un soggetto promette ad altri di
effettuare una prestazione: “prometto di pagarti 1000 €”; essa ha valore negoziale.
Sia la ricognizione del debito che la promessa di pagamento possono essere: pura (o astratta),
se manca l’indicazione del titolo; titolata (o causale), quando è indicato il titolo.
Una caratteristica fondamentale è che in entrambe vi è l’inversione dell’onere della prova: il
debitore che ha riconosciuto o promesso deve sopportare l’onere della prova, mentre il creditore
ne è dispensato. Quindi, il debito si presume fino a prova contraria (astrazione processuale).
162
153. Gestione di affari altrui. Ogni soggetto ha il potere di curare i propri interessi e i propri
affari personalmente, salvo casi di incapacità; deroga a tale principio è la gestione di affari altrui.
La gestione di affari altrui si ha quando un soggetto (gestore) interviene spontaneamente per
gestire un affare altrui nell’interesse del titolare (interessato o dominus). In questo caso il
gestore interviene per evitare un danno o per procurare un vantaggio all’interessato il quale non è
tenuto a dare alcun compenso od onorario al gestore.
I presupposti della gestione di affari altrui sono:
● l’utilità iniziale; l’atto o l’attività del gestore deve essere utile per l’interessato;
● l’assenza di un vincolo che leghi il gestore ad intervenire;
● la consapevolezza del gestore di curare un interesse altrui;
● l’alienità dell’affare stesso;
● l’impedimento oggettivo o soggettivo dell’interessato.
Nel caso manchi un di questi presupposti, la gestione è detta irregolare o impropria e rimane
tale finché l’interessato non ratifichi l’operato della gestione.
L’oggetto della gestione è sia un’attività, sia singoli atti negoziali che singoli atti giuridici.
Nel momento in cui il gestore inizi la gestione, egli è tenuto a continuare l’affare intrapreso fino
a quando l’interessato non sia in condizione di provvedere personalmente; il gestore è obbligato
ad adempiere con l’ordinaria diligenza.
La gestione rappresentativa si ha quando il gestore compie atti che producono i loro effetti nei
confronti di terzi; essa può essere:
1. gestione rappresentativa diretta: in questo caso il gestore agisce in nome
dell’interessato e quest’ultimo è obbligato ad adempiere le obbligazioni assunte in suo
(dell’interessato) nome dal gestore e a risarcirgli le spese;
2. gestione rappresentativa indiretta: in questo caso il gestore agisce in nome proprio ma
nell’interesse del dominus; l’interessato è obbligato a tenere indenne il gestore dalle
obbligazioni assunte a suo (del gestore) nome ma per conto dell’interessato.
La gestione termina quando interviene l’interessato o un suo erede, quando l’affare è concluso
oppure per la morte del gestore.
Nel caso in cui la gestione sia svolta in presenza di un esplicito divieto dell’interessato, gli atti
prodotti sono ritenuti inefficaci.
b. Titoli di credito in generale.
154. Premessa. Fra le promesse unilaterali troviamo: i titoli di credito.
Il titolo di credito contiene la promessa di adempimento di una determinata prestazione a favore
del soggetto che alla scadenza risulti creditore della somma indicata sul titolo.
Il titolo di credito è un documento contenente una dichiarazione con la quale un soggetto si
obbliga verso un altro che è possessore del documento.
155. Funzione e struttura. I titoli di credito sono strumenti di circolazione della ricchezza e il
loro trasferimento è molto più veloce e sicuro rispetto alla cessione dei crediti.
L’elemento che caratterizza i titoli di credito è l’incorporazione, ossia il collegamento tra diritto
e documento; l’effetto dell’incorporazione è che la titolarità del diritto di credito dipende dalla
proprietà del documento: infatti, chi acquista il documento, acquista il diritto.
Tuttavia, per esercitare tale diritto non è necessario questo collegamento, in quanto il
diritto cartolare (incorporazione) si trasferisce anche con la registrazione contabile, mediante il
sistema dell’addebito e dell’accredito dal conto dell’alienante a quello dell’acquirente.
I titoli di credito sono trasferiti secondo le norme del trasferimento di cose mobili e non secondo
le norme della cessione del credito.
163
L’acquirente acquista il diritto a titolo originario e, nel caso acquisti da un soggetto che non è
proprietario, tale acquisto è valido se l’acquirente era in buona fede ed abbia rispettato le leggi
sulla circolazione di quel preciso titolo; l’acquirente può esigere la prestazione dal debitore
presentandogli il titolo senza provare di essere titolare del diritto.
La legittimazione attiva è l’idoneità del soggetto legittimato possessore, e quindi
proprietario e titolare del diritto, ad esercitare il diritto cartolare.
La legittimazione passiva è il potere del debitore di liberarsi pagando a che appare
legittimato a ricevere; tuttavia il debitore non è liberato, se adempie conoscendo il difetto di
titolarità e se il difetto era conoscibile con l’ordinaria diligenza.
156. Caratteristiche del diritto cartolare. Le caratteristiche del diritto cartolare sono la letteralità
e l’autonomia:
• per quanto riguarda la letteralità, essa indica la qualità del diritto esercitatile, impedendo al
creditore di esigere prestazioni non indicate nel titolo: il principio della letteralità tutela il
debitore in quanto gli consente di rifiutare l’adempimento di prestazioni estranee;
• per quanto riguarda l’autonomia, ogni possessore del titolo ha una posizione diversa dal
possessore precedente: il principio di autonomia impedisce al debitore di opporre, al
possessore del titolo, le eccezioni fondate su rapporti con i precedenti possessori.
157. Regime delle eccezioni. Le eccezioni che il debitore può opporre al creditore nel rapporto
cartolare possono essere sia reali (assolute) che personali.
Le eccezioni reali sono quelle che il debitore può opporre a chiunque entri nel rapporto
cartolare; esse sono:
1. l’eccezione della falsità della firma;
2. l’eccezione del difetto di forma;
3. l’eccezione del difetto di capacità o del potere di rappresentanza nel momento dell’emissione
del titolo;
4. le eccezioni fondate sulla letteralità del titolo;
5. le eccezioni concernenti la mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione;
6. l’eccezione della prescrizione decennale; essa è proponibile solo se sul titolo appare una
scadenza o un’omissione.
Le eccezioni personali sono quelle opponibili al possessore attuale e che derivano da rapporti
personali del debitore con precedenti possessori; esempio: l’eccezione della mancanza di
titolarità. Le eccezioni personali possono essere opposte solo se il possessore, nell’acquistare il
titolo, ha agito intenzionalmente a danno del debitore; un esempio è quando il possessore
acquista il titolo per sottrarre al debitore la possibilità di esperire l’eccezione di compensazione.
158. Vicende del rapporto cartolare. Ci sono 2 teorie circa il perfezionamento dell’obbligazione
cartolare:
1. la teoria della creazione afferma che il titolo esiste nel momento stesso della sua
redazione e sottoscrizione, e la circolazione produce gli effetti cartolari;
2. la teoria dell’emissione afferma che il titolo fino alla consegna è solo una promessa di
pagamento e la circolazione non produce effetti.
La teoria più accolta è sicuramente la teoria della creazione, in quanto è sufficiente la
sottoscrizione per l’esistenza del titolo.
La fonte dell’obbligazione cartolare sta nella dichiarazione stessa e non nel rapporto che ne
costituisce la giustificazione economica.
La circolazione può essere:
• regolare, se il titolo circola secondo la sua disciplina; esempi:
o i titoli al portatore si trasferiscono con la consegna del documento;
o i titoli all’ordine richiedono oltre alla consegna, anche l’annotazione;
o i titoli nominativi richiedono per il trasferimento la consegna, l’annotazione e
un’ulteriore annotazione del nome dell’acquirente sul registro del soggetto che ha
emesso il titolo;
164
•
•
impropria, se il titolo circola secondo le regole del diritto comune;
irregolare, (o involontaria, o autonoma), se il titolo circola contro o senza la volontà
dell’emittente.
Colui che ha perso involontariamente il possesso del documento è reintegrato nell’esercizio del
diritto cartolare; per i titoli di credito deteriorati o distrutti, è possibile ottenere il rilascio di un
duplicato o di un titolo equivalente.
La legittimazione cartolare per il possessore di un titolo nominativo è ricostruita con la
procedura di ammortamento; è autorizzato all’azione di rivendicazione, per ricostruire la
legittimazione cartolare, il possessore di un titolo al portatore, purché conosca il detentore.
159. Classificazione dei titoli di credito. I titoli possono essere classificati in:
1. titoli astratti, dove non è menzionato il rapporto fondamentale, e titoli causali, dove,
invece, il rapporto fondamentale è menzionato;
2. titoli semplici, che attribuiscono il diritto ad ottenere una determinata prestazione, e titoli
complessi, che conferiscono un insieme di poteri;
3. titoli di credito in senso stretto, che hanno per oggetto il diritto ad ottenere una somma
di denaro, e titoli di credito rappresentativi di merci, che hanno per oggetto il diritto
alla riconsegna delle merci menzionate;
4. titoli individuali, che sono connessi ad uno o più soggetti determinati, e titoli di massa,
che sono connessi al pubblico dei risparmiatori;
5. titoli privati, emessi da un privato e il potere di emissione è limitato solo per i titoli al
portatore, e titoli pubblici, emessi dallo Stato,
Le cambiali finanziarie e le accettazioni bancarie sono strumenti di finanziamento per le
imprese.
160. Altri documenti. I documenti di legittimazione (es: biglietto di un concerto) si
differenziano dai titoli di credito, perché non posseggono le caratteristiche dell’autonomia e della
letteralità.
I titoli impropri circolano come i titoli di credito, ma la circolazione produce gli effetti della
cessione. Con la carta di credito s’instaurano 2 rapporti:
1. di provvista tra l’istituto di credito emittente e il cliente titolare della carta;
2. di valuta tra l’istituto di credito e i fornitori di beni e servizi.
c. Titoli cambiari.
161. Struttura della cambiale tratta. La cambiale tratta è l’ordine incondizionato di un
soggetto di pagare una determinata somma, ad un determinato prenditore, ad una determinata
scadenza.
Essa è strutturata come una delegazione di pagamento: l’emittente ordina al trattario, che è
un suo debitore, di pagare una data somma ad un terzo portatore del titolo cambiario che è
creditore dell’emittente; il pagamento del trattario estingue sia il rapporto di valuta fra traente
e prenditore, sia il rapporto di provvista fra traente e trattario.
Il portatore, o beneficiario della cambiale, deve richiedere l’adempimento della stessa prima agli
obbligati principali (come il trattario), e poi agli altri obbligati in via di regresso come traenti,
giranti e avallanti.
Ogni obbligato assume un proprio grado e quindi è impossibile che si realizzi la solidarietà
passiva.
La cambiale è titolo astratto, in quanto non è menzionato il rapporto fondamentale; tuttavia non
è possibile definire titolo astratto la cambiale agraria, in quanto in essa è presente il rapporto di
provvista tra il traente ed il trattario.
La cambiale può consistere anche in una convenzione di favore che ha lo scopo di procurare
credito ad un soggetto mediante la spendita del nome di un altro soggetto: si parla di cambiale di
favore.
165
La cambiale può costituire un titolo esecutivo, cioè il portatore può soddisfarsi immediatamente
sui beni del debitore, se sono rispettate le norme sull’imposta di bollo.
162. Requisiti formali. La cambiale deve essere redatta per iscritto e deve contenere tali
requisiti:
1. la denominazione stabilita della legge;
2. un ordine di pagamento inequivocabile e incondizionato e deve avere come oggetto una
somma determinata nell’ammontare; non è possibile inserire clausola di interessi salvo
per le cambiali a certo tempo vista;
3. il nome del trattario;
4. il nome del portatore;
5. la data dell’emissione;
6. la sottoscrizione autografata del traente;
7. il luogo di pagamento;
8. il luogo di emissione;
9. la data di scadenza.
Nel caso manchi uno di questi requisiti nel momento del pagamento, la cambiale è inesistente;
tuttavia, essa vale come promessa di pagamento tra emittente e primo portatore.
Nel caso manchi uno di questi requisiti nel momento dell’emissione, la cambiale è detta in
bianco; essa deve comunque avere un contenuto minimo e le parti devono aver stabilito un patto
di riempimento, ossia le modalità per riempire la cambiale. Il termine di riempimento è di 3
anni dalla data di emissione.
Nel caso siano violate le modalità del patto di riempimento o nel caso di riempimento tardivo o
abusivo, il prestatore è obbligato a risarcire i danni all’emittente.
163. Requisiti sostanziali. La cambiale per essere valida deve essere fatta da persona capace
legalmente: in mancanza, l’obbligazione cambiaria è invalida.
I soggetti legalmente incapaci (il minore emancipato non autorizzato all’esercizio dell’impresa e
l’inabilitato) possono sottoscrivere una cambiale purché la loro firma sia affiancata da quello del
curatore, previa autorizzazione del giudice tutelare; il curatore deve inserire sulla cambiale la
clausola “per assicurare” o altra equivalente per dimostrare la sua qualifica, altrimenti resta
obbligato direttamente.
Gli incapaci assoluti (il minore non emancipato e l’interdetto) non possono assumere
alcuna obbligazione cambiaria: per il minore non emancipato possono obbligarsi i rappresentanti
legali, genitori o tutori, autorizzati dal giudice tutelare; per l’interdetto possono obbligarsi i
rappresentanti legali, genitori o tutori, autorizzati dal tribunale.
Anche qui il rappresentante legale deve specificare la sua veste giuridica sulla cambiale,
altrimenti resta obbligato direttamente.
La cambiale può essere assunta volontariamente da un rappresentante, se il rappresentato è un
commerciante.
164. Circolazione. Il trattario diventa obbligato principale al pagamento mediante una
dichiarazione di accettazione: l’accettazione deve essere indicata sul titolo con la parola
“accetto” o altra parola simile e può essere omessa se la sottoscrizione compare sulla faccia
anteriore del titolo.
L’accettazione deve essere incondizionata, pena l’invalidità; essa può essere anche parziale e in
tale ipotesi il portatore può richiedere la somma restante agli obbligati di regresso.
La cambiale non accettata può egualmente circolare ma solo se con essa circoli anche il credito
di provvista, ossia il credito che il traente ha con il trattario.
Una tipica garanzia cambiaria è l’avallo, dichiarazione unilaterale recettezia con la quale
un soggetto (avallante) garantisce il pagamento della cambiale di uno degli obbligati cartolari
(avallato).
La firma dell’avallante va apposta sulla cambiale o sul foglio di allungamento e deve essere
accompagnata dalla formula “per avallo” o altra simile.
166
L’avallo può essere anche parziale, quando l’avallante si obbliga solo per una parte del credito
cambiario.
L’avallo può essere dato da più persone congiuntamente e si parla di coavallo; in questa ipotesi il
solvens (coavallante) cha ha adempiuto può esercitare regresso non verso gli altri coavallanti, ma
verso gli avallati.
L’avallo è diverso dalla fideiussione perché il primo è autonomo dal contratto principale, mentre
la seconda è accessoria al contratto principale.
Altre forme di garanzia sono la cambiale ipotecaria, dove l’ipoteca circola con la
cambiale ed è annotata sul titolo, e la tratta documentale, dove la cambiale è garantita con il
pegno e i documenti devono essere restituiti al momento del pagamento.
La cambiale circola anche mediante girata che è la dichiarazione con la quale il girante
ordina al debitore di effettuare la prestazione ad un altro soggetto, il giratario. La girata può
avere funzione di garanzia; va scritta dietro la cambiale o sul foglio di allungamento ed è nulla se
è parziale.
La girata di ritorno è una sospensione della cambiale in quanto il giratario corrisponde proprio
con la figura del trattario; non si parla di confusione.
La girata in bianco si ha quando manca il nome del giratario; è equiparata alla girata al
portatore.
La girata impropria si ha quando la legittimazione è attribuita ad un altro soggetto affinché
assolva scopi particolari, come la riscossione in nome e per conto del girante.
Il portatore della cambiale, che può presentare molteplici girate, può pretendere il pagamento
presentando il titolo al debitore nel luogo di pagamento prestabilito.
Quando il creditore omette di presentare la cambiale, il debitore ha diritto a liberarsi
depositando alla Banca di Italia la somma dovuta.
Il debitore ha l’onere di verificare la legittimazione del solvens; egli (il debitore) è, comunque,
liberato se paga al giratario legittimato, salvo se il debitore conosceva il difetto di titolarità del
portatore.
Il portatore non può rifiutare il pagamento parziale, pena la perdita del regresso verso gli
altri obbligati; il trattario ha diritto all’indicazione sulla cambiale del suo pagamento parziale.
Il debitore non è obbligato a pagare prima della scadenza e se lo fa è “a suo rischio e pericolo”,
in quanto rischia di non essere liberato per difetto di titolarità del solvens.
165. Processo cambiario. Quando il trattario non accetta l’obbligazione cambiaria, oppure si
rifiuta di pagare, il portatore può esperire l’azione diretta nei confronti degli obbligati principali,
o l’azione di regresso nei confronti degli altri obbligati.
L’azione di regresso a differenza di quella diretta presenta una disciplina più complessa, in
quanto essa è esperibile solo alla scadenza, salvo si verifichino determinati casi come il
fallimento del trattario, il suo rifiuto.
Affinché l’azione di regresso possa essere espletata, il portatore deve promuovere il
protesto: esso è un atto solenne con il quale si accerta la mancata accettazione o il mancato
pagamento.
Il protesto è levato dal notaio, dall’ufficiale giudiziario e dal segretario comunale, e nel caso non
sia levato nel termine stabilito, l’azione di regresso decade.
Il protesto non è necessario quando il traente, il girante o i loro avallanti abbiano apposto la
clausola senza spese o senza protesto.
Oltre le azioni cambiarie, il portatore può espletare anche rimedi extracartolari, al fine di
soddisfarsi; queste azioni sono:
o l’azione causale; affinché il portatore possa esperire questa azione, egli deve non solo levare
il protesto, ma deve anche depositare la cambiale nella cancelleria del tribunale in modo da
evitare che tale cambiale non ritorni in circolazione;
o l’azione di arricchimento; questa azione può essere esperita quando non esiste più alcun
rimedio per il portatore di essere compensato per un omesso pagamento; esso (pagamento) è
basato non sulla cambiale, ma sul rapporto fondamentale.
167
d. Titoli bancari.
166. Assegno bancario. L’assegno bancario è un titolo di credito che contiene l’ordine del
traente (emittente) alla banca trattaria di pagare a vista, al portatore legittimato, l’importo
menzionato sul titolo. Esso si configura come una delegazione di pagamento; infatti, il traente
(debitore del portatore) delega la banca a pagare il suo (del traente) debito.
La differenza fra l’assegno e la cambiale tratta è che nell’assegno la banca non può rifiutarsi di
pagare, perché l’assegno non può essere accettato; infatti, il visto bancario è solo uno strumento
che accerta l’esistenza di fondi e impedisce al traente di ritirarli prima del pagamento.
Più frequente è il benefondi che la dottrina configura come una semplice richiesta
d’informazione sull’esistenza della provvista da parte del traente.
Per quanto riguarda la revoca, l’emittente non può emettere un contrordine, se non dopo lo
spirare del termine di presentazione per il pagamento.
L’assegno bancario è pagabile a vista e non è tollerata l’applicazione di scadenze per il
pagamento, in quanto termini brevi sono previsti dalla legge.
I requisiti necessari affinché possa esservi l’emissione di assegni sono:
• l’esistenza di fondi disponibili presso la banca (c.d. provvista);
• l’esistenza di una convenzione fra banca e traente (es.: c.c. bancario);
nel caso manchi uno di questi presupposti, sono previste sanzioni penali e civili per i trasgressori.
I requisiti formali sono gli stessi della cambiale tratta, salvo per il fatto che nell’assegno bancario
non è necessario il nome del portatore.
L’assegno bancario, essendo un titolo all’ordine, circola mediante girata; tuttavia, tale
circolazione può essere esclusa con l’apposizione della clausola non trasferibile, la quale
clausola comporta che il pagamento deve essere effettuato solo al prenditore (primo e unico
portatore); questa clausola è obbligatoria per importi pari o superiori ai 20 milioni.
Un’altra limitazione alla circolazione è lo sbarramento; esistono 2 tipi di sbarramento:
• sbarramento generale, quando sono presenti solo 2 sbarre, oppure quando è presente la
figura del banchiere;
• sbarramento speciale, quando è presente il nome preciso del banchiere.
Tale sbarramento ha la funzione di circoscrivere i soggetti abilitati all’incasso che sono o un
banchiere, o un suo cliente.
Per quanto riguarda l’assegno da accreditare, il traente vieta che l’assegno sia pagato in
contanti e ordina l’accreditamento sul conto corrente del portatore-correntista.
Disciplina particolare riguardano gli assegni turistici, dove è richiesta una doppia firma
del prenditore.
167. Assegno circolare. L’assegno circolare è titolo di credito all’ordine, pagabile a vista,
emesso da un istituto di credito autorizzato dalla Banca d’Italia; presupposto fondamentale è che
il richiedente deve versare in contanti la somma per la quale l’assegno è emesso.
Sono applicate le stesse norme del vaglia cambiario.
e. Valori mobiliari.
168. Nozione e rinvio. I valori mobiliari sono titoli di credito emessi in quantità notevoli e
caratterizzati dalla omogeneità e dalla fungibilità; essi sono strumenti d’investimento, di raccolta
di risparmio, di mobilizzazione della ricchezza.
168
E. Pubblicità e trascrizione.
169. Pubblicità dei fatti giuridici in generale. La pubblicità è il procedimento predisposto dalla
legge per rendere conoscibili ai terzi alcuni fatti, atti, negozi giuridici o provvedimenti dell’autorità
giudiziaria; la finalità è quella di informare i terzi su fatti o atti giuridici particolarmente rilevanti.
L’ordinamento predispone di molteplici strumenti per attuare il sistema pubblicitario; tra questi
ricordiamo:
● Registri dello stato civile, dove si registrano le situazioni personali;
● Registro delle persone giuridiche, dove si pubblicizzano gli atti relativi a associazioni e
fondazioni riconosciute;
● Registro delle imprese; dove si pubblicizzano gli atti relativi alle imprese;
● Registro immobiliare; dove si pubblicizzano i fatti costitutivi, estintivi e traslativi della
proprietà e di altri diritti su beni immobili;
● Registri dei beni mobili registrati; come il Pra (Pubblico registro automobilistico);
● Registro delle tutele e delle curatele, delle adozioni, delle successioni, dei falliti.
Sicuramente uno dei mezzi per la pubblicità più utilizzato e noto è la Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana.
Per la cessione dei crediti, la pubblicità si attua con la notificazione; per i beni mobili, la pubblicità
si attua mediante il possesso, difatti, la situazione possessoria fa presumere anche la situazione di
diritto.
170. Diverse funzioni della pubblicità. La pubblicità può avere diverse funzioni e secondo la
funzione che svolge si può qualificare in:
● pubblicità notizia; ha solo la funzione di rendere conoscibile ai terzi situazioni o vicende
rilevanti; essa è un obbligo, ma la sua omissione pur potendo dar luogo a sanzioni
pecuniarie o penali, non incide sulla validità e sull’opponibilità ai terzi del fatto che ne
costituisce oggetto;
● pubblicità dichiarativa; ha la funzione di rendere opponibile ai terzi un fatto giuridico,
indipendentemente dalla circostanza che ne siano a conoscenza; esso è un onere (e non un
obbligo) a carico della parte che ha interesse a rendere l’atto opponibile ai terzi. A volte
tale pubblicità può essere sufficiente ma non necessaria: nel caso di pubblicità nel registro
delle persone giuridiche, se il fatto è iscritto, ciò basta a renderlo opponibile, se invece non
è trascritto, è cmq opponibile verso i terzi che ne erano a conoscenza;
● pubblicità costitutiva; si ha quando la pubblicità è requisito necessario per la costituzione
di un rapporto giuridico; l’iscrizione è fondamentale, perché se il fatto giuridico non fosse
iscritto non produrrebbe alcun effetto (es: ipoteca);
● pubblicità di fatto; è basata sul semplice fatto della conoscenza che il terzo abbia avuto
del negozio o dell’atto giuridico;
● pubblicità sanante; aggiunge la funzione di eliminare i vizi dell’atto dopo un determinato
periodo di tempo.
171. Transazione immobiliare: sua funzione dichiarativa. La trascrizione riguarda gli atti che
indicano la titolarità di beni immobili e beni mobili registrati e consiste nella riproduzione del
contenuto di determinati atti in appositi registri di pubblica consultazione.
La sua funzione si ricollega direttamente ad una precisa esigenza di mercato, che è quella della
circolazione di beni nell’ambito di una società organizzata, e della conoscibilità di tale
circolazione, per cui si possa sapere in qualsiasi momento a chi appartiene un determinato bene.
Il documento, che mediante la trascrizione è reso conoscibile ai terzi, può essere un
contratto, una dichiarazione unilaterale, un provvedimento dell’autorità giudiziaria o
amministrativa.
169
La trascrizione ha natura dichiarativa ed è a base personale: difatti, gli atti sono trascritti
sotto il cognome e il nome delle persone interessate.
La funzione tipica della trascrizione è quella di risolvere i conflitti tra più acquirenti dello stesso
bene dallo stesso alienante: difatti, la norma (art. 2644) prevede due effetti:
1. effetto negativo; tale effetto postula che la trascrizione degli atti relativi a beni immobili
non ha effetto sui terzi che hanno acquistato un diritto sullo stesso immobile e che
anticipatamente hanno trascritto l’atto;
2. effetto positivo; tale effetto postula che tra due acquirenti dello stesso bene dallo stesso
alienante prevale colui che ha trascritto l’atto per primo.
Tale norma si basa sul principio consensualistico: esso pone in una situazione favorevole colui
che, anche se non poteva acquistare, ha trascritto per primo la vendita.
Esempio - A e B acquistano lo stesso bene dal soggetto C: A lo acquista il 1 gennaio e lo trascrive
il 7, mentre B lo acquista il 3 gennaio ma lo trascrive il 5.
Tra i due prevale B, perché ha trascritto l’atto per primo. Il secondo acquirente (cioè B che ha
prevalso) ha acquistato il diritto a titolo derivativo dal soggetto C, mentre l’acquisto di A è ritenuto
come se non fosse mai esistito.
CONSEGUENZE:
1. ad A spetta un risarcimento del danno per inadempimento contrattuale;
2. B, invece, è scagionato da un risarcimento a titolo di Resp. extracontrattuale solo se dimostra
di aver acquistato il bene in buona fede, cioè ignorando un precedente acquisto di A.
In conclusione, la giurisprudenza, in caso di conflitto fra più aventi causa dallo stesso alienante,
dà la priorità alla pubblicità anziché all’anteriorità del titolo.
172. Eccezionalità della trascrizione con efficacia costitutiva. La trascrizione è una pubblicità con
natura dichiarativa; tuttavia, in alcuni casi può avere natura costitutiva, ossia diviene elemento
necessario affinché l’atto giuridico produca i suoi effetti.
Esempio è l’usucapione abbreviata: l’usucapione è un modo di acquisto della proprietà a titolo
originario e in alcuni casi la legge prevede tempi abbreviati (es: per usucapire i beni mobili
registrati devono decorrere 3 anni).
Affinché possa operare l’usucapione abbreviata sono necessari: la buona fede al momento
dell’acquisto, un titolo idoneo in astratto a trasferire la proprietà e la trascrizione del titolo.
Il termine di usucapione inizia a decorrere dal giorno in cui avviene la trascrizione (ex nunc).
173. Principio di continuità delle trascrizioni. Il sistema della trascrizione immobiliare si fonda
sul principio della continuità delle trascrizioni; infatti, la trascrizione di un acquisto produce i
suoi effetti solo se è stato trascritto l’anteriore atto d’acquisto.
Questo principio implica che ad ogni trascrizione contro un soggetto, corrisponda una
trascrizione a favore dello stesso soggetto; esempio:
• “Tizio ha venduto a Caio un immobile”, è la trascrizione contro Tizio;
• “Tizio ha acquistato l’immobile da Sempronio”, è la trascrizione a favore di Tizio.
Nel caso manchi la continuità delle trascrizioni, la trascrizione attuale non è annullata, ma è
sospesa fin quando la catena dei trasferimenti non venga completata; quando avviene la
trascrizione dell’atto precedente, le successive trascrizioni hanno efficacia ex tunc.
Esempio della continuità delle trascrizioni: se Caio acquista un immobile da Tizio, il
quale lo ha acquistato da Sempronio, affinché Caio possa rendere opponibile ai terzi il suo
acquisto, deve non solo trascriverlo contro Tizio (suo alienante), ma deve accertarsi che sia stata
curata la trascrizione a favore di Tizio contro Sempronio (alienante di Tizio); Caio può anche
personalmente provvedere alla trascrizione a favore di Tizio contro Sempronio.
Una deroga al principio della continuità delle trascrizioni è rappresentata dall’ipoteca
legale a favore dell’alienante e del condividente.
170
In conclusione, si può acquistare un immobile con tutta sicurezza solo se dai registri immobiliari
risulta una serie continua di trascrizioni, che parte dal dante causa e va a ritroso fino al primo
proprietario.
174. Atti soggetti a trascrizione e relativa efficacia. L’elenco degli atti che devono essere trascritti
è presente nel codice; la caratteristica è che per grandi linee devono essere trascritti tutti quegli atti
che richiedono la forma scritta ad substantiam, pena la nullità.
Tra questi atti figurano:
• atti o provvedimenti che costituiscono, modificano, o trasformano la proprietà, oppure altri
diritti reali immobiliari;
• il contratto preliminare: la sua trascrizione ha solo un effetto prenotativo;
• i contratti condizionati o a termine;
• gli atti, aventi ad oggetto beni immobili, di permuta, di locazione, di donazione, di transazione;
• l’accettazione dell’eredità;
• le convenzioni matrimoniali: tale trascrizione ha solo una mera funzione di pubblicità notizia;
• la cessione dei beni ai creditori.
175. Trascrizione delle domande giudiziali. La trascrizione delle domande giudiziali ha lo
scopo di rendere opponibile la sentenza ai terzi che abbiano acquistato il diritto durante lo
svolgimento del processo.
La trascrizione ha una funzione preliminare di prenotazione, in quanto, dopo che la domanda è
stata accettata, le trascrizioni successive a quelle della domanda giudiziale non avranno effetti
contro colui che ha trascritto la domanda giudiziale.
176. Modalità della trascrizione. La trascrizione si può chiedere esclusivamente in forza di un
titolo prescritto dalla legge, come una sentenza, un atto pubblico, una scrittura privata autenticata o
accertata giudizialmente.
La trascrizione è un onere per la parte e un obbligo per il pubblico ufficiale che redige
l’atto.
I registri immobiliari sono affidati al conservatore; la parte per ottenere la trascrizione deve
presentare una copia autentica del titolo e una nota in doppio originale nella quale sono contenute
le indicazioni prescritte dalla legge.
Se l’immobile si estende su due circoscrizioni, la domanda deve essere presentata presso entrambe
e l’atto trascritto presso entrambi gli uffici.
Il conservatore può rifiutare di ricevere le note e i titoli solo se tali documenti non
presentano i requisiti previsti dalla legge; egli non può rifiutarsi pena la sua responsabilità.
Nel caso ci sono dubbi gravi e fondati sulla trascrivibilità di un atto, il conservatore può operare
una trascrizione con riserva e la parte controinteressata può proporre reclamo entro 30 giorni.
La domanda di trascrizione può essere presentata solo negli orari d’ufficio (allo scopo di
evitare abusi) e il pubblico ufficiale è obbligato a curare la richiesta nel più breve termine
possibile, pena la sua responsabilità.
La domanda di trascrizione è annotata dal conservatore sul Registro generale d’ordine; in
questo registro non esiste un’elencazione dei beni perché la trascrizione è fatta sotto il cognome e
il nome dell’interessato, in base ad un criterio personale e non reale.
171
177. Altre forme di pubblicità: intavolazione mobiliare e iscrizione costitutiva. Nel sistema
giuridico tedesco e in alcune regioni come il Trentino e il Friuli, un istituto giuridico molto simile
alla trascrizione è l’intavolazione. Differenze:
1. mentre la trascrizione ha effetto dichiarativo, l’intavolazione ha effetto costitutivo, in quanto
solo con essa il soggetto interessato acquista la titolarità del diritto;
2. mentre la trascrizione si basa su un criterio personale, l’intavolazione si basa su un criterio
reale, in quanto è attuata con riferimento ai beni e non alle persone.
Anche i beni mobili registrati seguono il criterio reale e non il criterio personale utilizzato dal
sistema italiano della trascrizione.
Altra forma di pubblicità è l’iscrizione, che ha efficacia costitutiva: le società di capitali si
costituiscono solo con l’iscrizione del relativo atto costitutivo nel Registro delle imprese.
172
Parte quinta: Responsabilità civile e illecito
a. Responsabilità da fatto illecito.
1. Nozione. Nell’ordinamento ci sono situazioni giuridiche come l’integrità della persona, il suo
onore, la proprietà sulle cose, che sono tutelate; l’interesse a queste situazioni è tutelato non
mediante una prestazione da parte di altri, ma è tutelato dal semplice fatto che la persona possa
continuare a godere della situazione.
Queste situazioni hanno una tutela erga omnes, nel senso che tutti i consociati devono astenersi
dal lederle.
Se una di queste situazioni è violata, si parla di fatto illecito: il codice lo disciplina come
“Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che l’ha
commesso (danneggiante) a risarcire il danno a colui che l’ha ricevuto (danneggiato) (2043)”.
Il fatto illecito, quindi, si ha quando vengono lesi l’altrui integrità, reputazione, diritto di proprietà
o altra situazione soggettiva tutelata.
La responsabilità che consegue dalla violazione di tali precetti è chiamata responsabilità
aquiliana (dal codice romanistico), o extracontrattuale (a differenza della responsabilità
contrattuale gravante sul debitore), o responsabilità da atto o fatto illecito o, più recentemente,
responsabilità civile.
Con il termine responsabilità civile, il legislatore vuole far prevalere la funzione riparatoria
dell’istituto, su quella sanzionatoria.
Per illecito civile s’intende quel fatto che lede un diritto altrui; l’illecito civile riunisce in un
unico concetto il fatto illecito e l’inadempimento dell’obbligazione.
Si parla di concorso di responsabilità quando un medesimo comportamento consiste a un
tempo nell’inadempimento di un’obbligazione e nella lesione di un diritto assoluto della persona.
Ad es. Tizio resta ferito in un incidente mentre viene trasportato in vettura da Caio, col quale aveva
stipulato un contratto di trasporto.
2. Imputazione del fatto. Affinché il fatto illecito sia causa di responsabilità per chi lo ha
commesso, sono necessari alcuni presupposti chiamati elementi del fatto illecito; essi sono:
1. il profilo materiale o oggettivo riguarda il nesso di causalità fra la condotta della persona e
l’evento lesivo.
Il nesso causale sussiste allorché il danno si verifica. In dipendenza del fatto umano, secondo
l’ordine naturale delle cose e non rappresenta il prodotto di circostanze eccezionali (principio
di causalità adeguata). Esempio: se Caio, ferito da Tizio, viene trasportato al pronto soccorso e
quivi muore per un incendio, tizio non risponde delle conseguenze di tale ulteriore incidente,
benché Caio non ne sarebbe stato vittima se non fosse stato ferito.
Il comportamento dannoso può consistere sia in un atto positivo (commissivo), dal quale il
soggetto avrebbe dovuto astenersi, sia in un comportamento omissivo: questo è rilevante solo
quando chi ne è l’autore aveva il dovere giuridico di agire e no l’ha fatto.
2. il profilo morale o soggettivo riguarda la colpa, che consiste nel comportamento della persona
difforme da quello legale previsto, cioè sconsiderato, improvvido e imprevidente.
La colpa si qualifica dolo quando il soggetto che lo ha commesso ha agito con la coscienza e la
volontà di cagionare l’evento dannoso.
La colpa con previsione si ha quando un soggetto è consapevole che il suo comportamento può
produrre l’evento lesivo, ma manca comunque la volontà di produrre tale danno.
La colpa lieve si ha nei casi di violazione delle regole dell’ordinaria diligenza; la colpa lievissima
si ha nei casi di violazione per una negligenza minima.
La colpa in senso stretto comprende la negligenza, l’imprudenza, l’imperizia, l’inosservanza delle
leggi o dei regolamenti o di ordini o di discipline; la colpa in senso lato comprende sia il dolo che
la colpa in senso stretto.
173
Perché il fatto dannoso possa essere imputato all’agente, l’art. 2046 richiede che questi sia capace
di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso; nel caso in cui tali capacità manchino,
il soggetto non risponde delle conseguenze del fatto dannoso, salvo che lo stato di incapacità sia
dovuto per propria colpa (ad es. per essersi ubriacato) o sia stato dolosamente determinato.
L’imputazione del fatto illecito è regolato dalla disciplina della responsabilità civile, la
quale ha l’intento di svolgere due funzioni: una funzione sanzionatoria, con l’intento di far
rispondere del fatto dannoso colui che lo ha commesso; una funzione preventiva, mediante la
minaccia del risarcimento e la maturità delle persone.
3. Imputazione del fatto e fattispecie c.d. speciali di responsabilità. Di regola l’obbligo di risarcire
il danno incombe su colui che ha commesso il fatto. Non mancano però ipotesi in cui, soprattutto
allo scopo di rafforzare la tutela dei danneggiati, è prevista la responsabilità di un soggetto diverso
dall’autore del fatto dannoso, accanto, eventualmente alla responsabilità di quest’ultimo.
Perciò ai criteri di imputazione del fatto sono stati affiancati altri criteri come la responsabilità
indiretta o per fatto altrui.
Il disegno del legislatore era quello di ricondurre ogni ipotesi di responsabilità ad un
comportamento. Quindi si individua nel fatto proprio dell’agente la fonte della responsabilità: per
fatto proprio si intende sia quello immediatamente riferibile alla persona, sia quello che è reputato
tale in virtù di fattispecie espressamente disciplinate dalla legge (esempio: è considerato fatto
proprio del committente il fatto illecito del dipendente commesso nell’esercizio delle sue
mansioni).
Queste norme erano già presenti nel codice del 1865, che ha preso spunto dalla traduzione
del Codice Napoleonico; con l’avvento del nuovo codice sono stati introdotti nuovi criteri come le
presunzioni di colpa e le presunzioni di causalità, al fine di configurare al meglio l’imputabilità
del soggetto.
Non sono reputati come criteri di imputazione il rischio-profitto, il rischio di impresa e
l’esposizione al pericolo.
4. Lesione dell’altrui situazione. Affinché il danno sia fonte di responsabilità per chi lo ha
causato, è necessario che sia ingiusto, ossia che si configuri una lesione della situazione giuridica
soggettiva tutelata erga omnes dalla legge.
Se non vi è lesione, il danno è “giusto”, cioè va sopportato da chi lo subisce, come ad esempio
nell’ipotesi di un atto di concorrenza leale e non può essere trasferito su altri, cioè sul danneggiante
o su altra persona indicata quale responsabile.
Secondo la dottrina tradizionale, il danno è ingiusto (e quindi risarcibile) solo quando
consiste nella lesione di un diritto soggettivo assoluto: infatti, solo tali diritti si fanno valere erga
omnes, per cui chiunque è in condizione di violarli; i diritti relativi (diritti di credito), invece,
possono essere violati solo dal debitore che non esegue la prestazione.
In questi ultimi tempi, tuttavia, si è assistito ad un progressivo allargamento delle situazioni
considerate meritevoli di tutela, che ha indotto ad elaborare nuovi modelli di risarcimento ispirati
ai principi costituzionali di solidarietà, di eguaglianza e sicurezza sociale nei rapporti tra i privati.
Così l’interprete ha disciplinato alcune fattispecie in cui la lesione può provocare risarcimento: a)
il danno per l’uccisione di un soggetto, attribuisce il diritto al risarcimento ai congiunti che
ricevevano un sostentamento di tipo economico dal soggetto ucciso; b) la lesione di un diritto di
credito ad opera di un soggetto diverso dal debitore, dà luogo ad una responsabilità aquiliana,
quando abbia impedito l’adempimento (es.: uccisione del debitore in un incidente d’auto).
Il problema tuttavia sta nell’identificare quale situazione è giuridicamente rilevante.
Tale qualificazione può avvenire solo con l’interpretazione, che può dare una risposta equilibrata
che sappia anche limitare l’area tutelata, in modo da non paralizzare le attività del soggetto che ha
diritto di sapere di quali lesioni di diritti altrui può essere chiamato a rispondere.
Il nostro codice discorre di danno ingiusto anziché di fatto ingiusto per differenziarsi dal
codice tedesco e dal codice inglese che discorrono di atti illeciti tipici, cioè di fattispecie specifiche
di illecito strutturate nello stesso modo dei reati.
174
Del resto, non è rilevante rendere tipico o atipico il comportamento delle persone, in quanto tale
comportamento è ritenuto illecito solo se produce lesione all’altrui situazione giuridicamente
tutelata dalla legge.
5. Cause di giustificazione. La responsabilità dell’autore del fatto può essere limitata o esclusa
quando ricorrano circostanze indicate come cause di giustificazione (o cause di esclusione di
antigiuridicità): esse sono lo stato di necessità e la legittima difesa.
1. Lo stato di necessità (2045) si ha quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto
dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, e il
pericolo non è stato da lui volontariamente causato (es. Tizio vede che Caio sta per far fuoco
contro di lui e per salvarsi si nasconde dietro un passante); al danneggiato spetta però
un’indennità calcolata dal giudice.
Presupposti:
• Il comportamento dell’autore deve essere cosciente, volontario e contrario a norme di
legge, alla comune prudenza, alla diligenza e a norme tecniche;
• il pericolo deve esistere e non deve essere putativo, cioè non deve provenire da una
convinzione, ma deve essere reale;
• ci deve essere una proporzione fra il fatto dannoso e il pericolo che si vuole evitare;
• il danno incombente deve essere inevitabile, cioè non deve sussistere altra via per sfuggire
al danno;
L’indennità che spetta al danneggiato è misurata dal giudice su criteri rigidi e predeterminati:
egli può tener conto del pericolo, delle condizioni economiche delle parti, della gravità del
danno; la funzione dell’indennità è quella di ripristinare la situazione del soggetto leso.
Lo stato di pericolo può anche essere causato dal fatto colposo di un terzo: in questo
caso si verifica un concorso alternativo tra la responsabilità del terzo e quella del
danneggiante.
Se il danneggiato non sia integralmente risarcito dal terzo, potrà rivalersi su colui che ha agito
in stato di necessità (danneggiante): quest’ultimo, qualora abbia risarcito l’equa indennità,
potrà rivalersi su che abbia creato la situazione di pericolo.
2. La legittima difesa (2044), in cui non è responsabile che ha commesso il fatto per esservi
stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale
di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa.
I presupposti sono:
• il verificarsi di un’aggressione di un diritto proprio o altrui: per diritto s’intende non solo
quello di natura personale, ma anche di natura patrimoniale;
• la proporzionalità fra difesa ed offesa: se la difesa è superiore all’offesa ricevuta, l’offesa
originaria dell’aggressore-danneggiato conserva la sua rilevanza ai fini di una riduzione del
risarcimento.
Se un soggetto, per difendere sé stesso o altri da un danno incombente proveniente da un
aggressore, provoca un danno a terzo, è applicata la disciplina dello stato di necessità.
Alla categoria delle cause di giustificazione appartiene anche l’esercizio di un diritto:
quando il soggetto è autorizzato dalla legge a tenere un comportamento lesivo per altri, in capo a
lui non sorge nessuna responsabilità. Tuttavia in alcuni casi la legge prevede un’indennità per i
danni cagionati dall’agente al fine di contemperare i confliggenti interessi dei soggetti coinvolti.
Tale esercizio va comunque distinto dall’abuso di diritto.
Alcuni esercizi di diritto sono:
• tutela della salute e dell’ambiente, che esonera da responsabilità colui che agisce per tutelare
la salute dell’uomo e dell’ambiente;
• diritto di cronaca, che esonera da responsabilità colui che divulga notizie che possono
incidere sul prestigio e sulla reputazione di singole persone, purché tali notizie siano vere e
provenienti da fonti attendibili.
175
Altra causa di esclusione della responsabilità è il consenso dell’avente diritto, il quale
consenso autorizza un altro soggetto a provocare un fatto lesivo al proprio diritto; tale causa trova
però non poche limitazioni, soprattutto nel campo dei diritti indisponibili della persona.
La giurisprudenza ha qualificato illecito il comportamento di chi ha usato l’immagine
altrui, senza il consenso della persona ritratta ed ha considerato illecita la copiatura di software
per PC, senza il consenso del titolare del diritto di autore.
6. Distribuzione dell’onere della prova. La legge prevede che chi volesse agire per la riparazione
del danno subito deve provare il fatto illecito altrui in tutti i suoi elementi (art. 2697).
Tale legge, comunque, trova delle eccezioni dettate dalla giurisprudenza, come ad esempio per la
capacità di intendere e di volere; essa non deve essere provata dal danneggiato in quanto è presunta
in chi abbia raggiunto la maggiore età o sia in prossimità di raggiungerla.
L’onere di provare che al momento del fatto ci fosse incapacità di intendere e di volere
spetta al diretto interessato, ossia al danneggiante.
La legge ha previsto delle presunzioni sia di capacità, sia di colpa: le presunzioni di
causalità postulano che in determinate circostanze la lesione dell’altrui situazione è imputabile a
determinate persone più che ad altre o alla causalità; le presunzioni di colpa postulano che il
comportamento delle persone che hanno commesso il fatto è strettamente legato alla colpa, cioè
tali soggetti non hanno tenuto un comportamento idoneo ad evitare il fatto lesivo.
- Presunzioni di causalità: l’onere della prova spetta al danneggiato che deve provare un
collegamento tra l’evento lesivo e il comportamento del soggetto su cui grava la responsabilità
di un determinato soggetto.
- Presunzioni di colpa: l’onere spetta al danneggiante e si parla di prova liberatoria perché il
questi deve provare di aver tenuto un comportamento idoneo ad evitare l’evento.
Il danneggiante può provare la sua innocenza con varie prove liberatorie, come ad esempio la
“prova di non aver potuto impedire il fatto” o la “prova di aver fatto tutto il possibile per impedire
il danno” o la “prova di caso fortuito”.
In conclusione, la legge crea modelli di comportamento a cui le persone devono attenersi
per non vedersi imputare gli eventi dannosi verificatesi in connessione con la loro attività o
posizione.
Le presunzioni di causalità e di colpa sono determinate su criteri probabilistici – statistici, su criteri
tecnici.
7. Il principio della colpa. Il principio personale della responsabilità è stato di recente duramente
criticato: difatti, la dottrina prevalente presuppone la responsabilità anche in mancanza di colpa,
perché il danneggiante, anche se dimostra di aver preso tutte le possibili misure idonee ad evitare il
danno, sicuramente non ha adottato una misura ulteriore oltre a quelle in concreto adottate.
Altri esempi di responsabilità in assenza di colpa sono i danni anonimi, dove è difficile trovare chi
è l’autore dell’evento lesivo.
Quindi, al principio generale della responsabilità del fatto illecito (art. 2043) si oppone il principio
della responsabilità oggettiva, dove il soggetto risponde di un fatto lesivo anche se lo ha
commesso senza dolo o colpa.
La responsabilità oggettiva si configura in molte eccezioni previste e disciplinate dal
codice; essa si basa sulla sola esistenza di un rapporto di causalità tra il fatto e l’evento lesivo.
Il soggetto, a cui è imputato il fatto dannoso e sui cui grava la responsabilità oggettiva, può
liberarsi da tale responsabilità provando l’imprevedibilità o l’inevitabilità dell’evento dannoso,
cioè deve provare la mancanza del nesso di causalità tra il suo comportamento e l’evento lesivo.
Con questa nuova ottica di responsabilità, anche il risarcimento ha subìto delle modifiche:
difatti il risarcimento, sotto questa nuova prospettiva, ha una funzione non sanzionatoria, ma
riparatoria, ossia restitutoria della situazione lesa.
176
b. Responsabilità c.d. speciali.
8. Responsabilità per danno cagionato dall’incapace. In caso di danno cagionato da persona
incapace di intendere e di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza
dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.
Il dovere di sorveglianza dell’incapace si fonda non solo su un vincolo giuridico, come
l’obbligo che grava sui genitori e sui tutori, ma si fonda anche su una relazione di fatto come la
coabitazione, la convivenza o da una libera scelta, come ad esempio la responsabilità del minore
che grava sui nonni con i quali egli convive.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 2047 è indifferente che l’incapace sia di maggiore o
minore età, in quanto ne rispondono i genitori che con lui convivono e coabitano.
Nel caso di un fatto lesivo commesso da infermo di mente, ne risponde l’azienda sanitaria che
aveva l’obbligo di sorvegliarlo.
L’accertamento dello stato di incapacità di intendere e di volere non è fatto tramite precisi indici
normativi, ma tramite criteri di comune esperienza e nozioni della scienza.
Affinché il soggetto tenuto alla sorveglianza possa dimostrare la sua non responsabilità,
egli può esperire la prova liberatoria con la quale dimostra che l’evento dannoso si è verificato
improvvisamente mentre egli stava tenendo un normale e diligente esercizio della sorveglianza.
Nel caso in cui il danneggiato non consegue il risarcimento da parte del sorvegliante, egli
può ottenere un’equa indennità dallo stesso incapace, autore materiale del fatto lesivo; l’indennità
è misurata dal giudice tenendo conto delle condizioni economiche delle parti.
9. Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori, dei maestri d’arte. L’art. 2048 dispone
che per il fatto illecito commesso da minori d’età non emancipati, capaci d’intendere e di volere,
ne rispondono i genitori e i tutori che non abbiano fatto quanto necessario per impedire il fatto
illecito del minore; responsabili, quindi, non sono solo i genitori e i tutori, ma anche gli adottanti, i
precettori, i maestri d’arte che sono responsabili per il fatto illecito dell’allievo o dell’apprendista.
La responsabilità di questi concorre con quella del minore, ma è autonoma da questa.
Il danneggiato può proporre azione contro i genitori, tutori, precettori, e anche contro il
minore; in seguito il genitore, che ha risarcito il danno provocato dal minore, può agire in via di
regresso nei confronti del figlio.
Per precettore la giurisprudenza intende sia insegnanti di scuole pubbliche e private, sia
istruttori, escludendo però i direttori didattici.
I genitori, se volessero dimostrare la loro non responsabilità, possono esperire la prova
liberatoria che richiede sia una prova negativa, ossia la non possibilità di impedire il fatto, che
una prova positiva, ossia occorre provare di aver svolto con adeguatezza una giusta vigilanza sul
minore e di avergli impartito un’idonea educazione.
Ai fini della prova liberatoria ha molta rilevanza l’educazione impartita e non vengono
tenuti in considerazione i giudizi scolastici, in quanto il minore può avere comportamenti diversi
fuori e dentro la scuola.
Per quanto riguarda, invece, la prova liberatoria dei precettori, ci sono 2 orientamenti:
• il primo ritiene necessario che il fatto illecito dell’allievo sia stato repentino ed
imprevedibile;
• il secondo postula che la vigilanza del precettore non deve essere assoluta, ma relativa,
cioè deve essere proporzionata alla maturazione e all’età dell’allievo.
Non sono responsabili del fatto illecito, commesso dall’allievo durante l’intervallo, gli insegnanti
che stavano operando il cambio; se il fatto illecito dell’allievo, avviene durante l’ora di lezione,
l’insegnate è responsabile se era assente per motivi non giustificati.
Per quanto riguarda i maestri d’arte, ossia coloro che insegnano un mestiere o un’arte,
sono ritenuti responsabili dei danni causati dal minore durante l’apprendimento di una professione.
177
10. Responsabilità dei padroni e dei committenti. L’art. 2049 dispone che per il fatto illecito di
commesso o domestico, nell’esercizio delle loro incombenze, ne rispondono i padroni e i
committenti. I presupposti di tale responsabilità sono:
• il fatto illecito deve essere causato dal commesso o domestico;
• un rapporto di preposizione tra il padrone o i committenti e i suoi commessi o domestici; tale
rapporto si può configurare in un lavoro subordinato, o in un mandato. È sufficiente che ci sia
una relazione tra il commesso che agisce in una posizione di subordinazione, e il committente
che ha un potere di direzione, di controllo e di sorveglianza sulla condotta e sull’operato del
commesso; è escluso tra i rapporti di preposizione, che rendono applicabile l’art 2049, quello
d’agenzia e quello d’appalto, perché l’agente e l’appaltatore agiscono in propria autonomia
assumendosi il rischio dell’opera;
• un nesso di dipendenza tra il danno e le incombenze da svolgere; è sufficiente un nesso di
occasionalità necessaria, cioè se le mansioni svolte dal commesso sono state tali da agevolare
o favorire la produzione dell’evento dannoso. Affinché il nesso di dipendenza sia valido, è
richiesto che le mansioni che si stavano svolgendo al momento del fatto, rientrino nell’attività
che è stata affidata: se all’operaio, recatosi in una casa per montare delle tende, viene chiesto
il piacere di aggiustare un televisore, se nell’operazione questo viene danneggiato, del fatto
non ne risponde il titolare della ditta.
• Per quanto riguarda l’onere della prova, se il committente o padrone vuole dimostrare la sua
non responsabilità del fatto, deve provare che non vi sia un nesso fra le mansioni affidate e
l’illecito commesso dal dipendente.
Il committente, che ha risarcito il danno provocato dal commesso, può esperire azione di rivalsa
contro il dipendente stesso per l’intera somma.
Ratio: trattasi di resp. oggettiva per fatto altrui (o indiretta) fondato sulla sussistenza di un rapporto di preposizione e di
un nesso di occasionalità.
La Resp. oggettiva si basa su un principio di equità che impone di trasferire l’obbligo di risarcimento del danno dai
dipendenti ai datori di lavoro, che è il soggetto economicamente più forte, così da assicurare al danneggiato una
completa riparazione del danno subìto.
11. Responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa. L’art. 2050 dispone che chiunque cagioni
danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa per sua natura o per natura dei mezzi
adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il
danno.
Affinché un’attività sia ritenuta pericolosa per sua natura o per natura dei mezzi adoperati,
è richiesta l’esistenza di una rilevante probabilità di danno derivante da tale attività, oppure che
tale attività abbia una spiccata pericolosità offensiva; un’attività è valutata pericolosa prima che
accada l’evento e l’accertamento è fatto su criteri di esperienza e su nozioni di scienza.
L’attività pericolosa si distingue dalla condotta pericolosa in quanto la condotta pericolosa
è caratterizzata da un’attività innocua, ma divenuta pericolosa a seguito della condotta negligente
di chi la esercita.
Per le attività pericolose non è necessario dimostrare il nesso di causalità, in quanto è sufficiente
l’esistenza di un nesso intrinseco (eziologico) tra l’attività e il danno.
Nel caso il soggetto che esercita l’attività pericolosa voglia liberarsi dalla responsabilità,
deve dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, comprendendo anche
quelle ancora non obbligatorie al momento del sinistro.
Il soggetto che esercita l’attività pericolosa è liberato dalla responsabilità, se la
partecipazione del terzo è rilevante al punto tale da escludere il nesso causale tra l’attività
pericolosa e l’evento.
Dalla disciplina ex art. 2050 restano escluse quelle attività che, pur se pericolose in sé o per
definizione legislativa, siano tuttavia regolate, quanto alla responsabilità, da norme particolari
contenute nello stesso codice civile.
178
12. Responsabilità per danno cagionato da cose in custodia. L’art. 2051 dispone che ciascuno è
responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.
L’articolo riguarda i danni cagionati dalla cosa autonomamente, cioè senza che questa sia
azionata o manovrata dall’uomo: se il danno è prodotto a causa di un uso errato o maldestro della
cosa, si rientra nell’ipotesi generale dell’art. 2043. Esempio: il gestore di un bar è responsabile dei danni
cagionati ai clienti dalla improvvisa esplosione di alcune bottiglie contenenti una bevanda gassata.
Per custode la giurisprudenza intende, il proprietario, l’usufruttuario, l’enfiteuta, il
conduttore, il possessore, ossia colui che esercita un effettivo e non occasionale potere materiale
sulla cosa.
L’onere della prova spetta al danneggiato che deve provare non solo l’esistenza di un
effettivo potere fisico sulla cosa, ma anche un nesso di causalità tra il danno e la custodia
inadeguata del custode. Il custode può liberarsi dalla responsabilità, provando il caso fortuito; per
caso fortuito non s’intende solo il fatto imprevedibile ed inevitabile, ma anche il fatto del
danneggiato e il fatto del terzo: il custode è liberato quando il terzo o il danneggiato abbia fatto un
utilizzo della cosa difforme dagli usi previsti.
La natura della responsabilità si fonda sul dovere di custodia degli oggetti che incombe sul
custode.
13. Responsabilità per danno cagionato da animale. L’art. 2052 dispone che del danno cagionato
da animale ne risponde il proprietario o chi ne fa uso, sia che l’animale fosse sotto la sua custodia,
sia che fosse fuggito o smarrito, salvo che si provi il caso fortuito.
Sono danni cagionati da animali quelli prodotti da un fatto autonomo dell’animale a prescindere,
quindi, dalla guida o da un comando dell’uomo; sono esclusi dalla responsabilità per esempio il
contagio di malattie infettive o il caso in cui un soggetto inciampa su un animale accovacciato.
L’art. 2052 è applicabile per ogni specie di animale: domestico, randagio, feroce,
addomesticato; anche la selvaggina rientra nel campo di applicazione del 2052 e del danno
cagionato ne risponde lo Stato, in quanto la selvaggina rientra nella categoria dei beni patrimoniali
indisponibili dello Stato.
I soggetti responsabili sono sia il proprietario che si serve dell’animale per un determinato
tempo e rispondono non solo per la custodia dell’animale, ma anche se esso fugga o venga
smarrito; tali soggetti possono esperire la prova liberatoria dimostrando il caso fortuito.
Per quanto riguarda la responsabilità, parte della dottrina la configura come una
responsabilità soggettiva, in quanto derivata dalla non adeguata custodia dell’animale; altra parte
la configura, invece, come una responsabilità oggettiva, perché anche un’adeguata custodia non
può impedire all’animale di avere un comportamento istintivo e convulso proprio della sua natura.
14. Responsabilità per rovina di edificio. L’art. 2053 dispone che per il danno cagionato dalla
rovina di un edificio o di un’altra costruzione ne risponde il proprietario, salvo che provi che tale
rovina non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione.
Il soggetto responsabile è il proprietario, salvo nel caso in cui l’edificio era in custodia di
un altro soggetto perché in questo caso il proprietario che ha risarcito il danneggiato può esperire
azione di regresso nei confronti del custode (responsabilità solidale).
Soggetto responsabile è anche il proprietario di un immobile dato in locazione perché egli
ha il dovere di vigilare sull’efficienza del fabbricato; tuttavia, il conduttore non solo ha l’obbligo di
avvertire il locatore sulla necessità di riparazioni, ma risponde anche dei danni causati dalle piante
poste nel giardino dell’immobile.
Nel caso di un diritto reale di godimento sull’immobile, ne rispondono solidalmente il
proprietario e il titolare del diritto.
La giurisprudenza intende per edificio qualsiasi immobile o altra costruzione fabbricata con
materiale edilizio ed incorporata al suolo; con il termine rovina la giurisprudenza indica la
disgregazione e il distacco non solo di parti dell’edificio, ma anche di accessori e manufatti
incorporati allo stesso (tegole e cornicioni).
179
Il proprietario responsabile può esperire la prova liberatoria dimostrando che la rovina è
stata causata non da un difetto di manutenzione o da un vizio di costruzione, ma dal caso fortuito
(es: infiltrazione per piogge abbondanti).
Seconda la dottrina si tratta di responsabilità oggettiva, mentre la giurisprudenza ricorre alla
nozione di presunzione di responsabilità.
15. Responsabilità per danni da circolazione di veicoli. L’art. 2054 dispone che il conducente di
un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla
circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno;
Nel caso di scontro fra più veicoli, vige la presunzione della pari colpevolezza dei
conducenti, se non sia possibile accertare che il fatto è imputabile ad uno dei due conducenti (art.
20542).
Solidalmente col conducente rispondono del danno anche il proprietario o l’usufruttuario o
l’acquirente con patto di riservato dominio, e il conduttore può liberarsi solo se dimostri di aver
adottato tulle le specifiche misure per impedire la circolazione del veicolo e non basta che egli
provi che il veicolo ha circolato anche senza la sua autorizzazione (art. 20543).
Se il conducente volesse liberarsi dalla responsabilità deve dimostrare di aver tenuto la
massima diligenza nella circolazione; tuttavia, è responsabile, nonostante la massima diligenza
tenuta, anche se il vizio di costruzione o il difetto di manutenzione non erano a lui imputabili o da
lui conosciuti, in quanto vige la responsabilità oggettiva (art. 20544).
La giurisprudenza intende per veicolo qualsiasi mezzo di trasporto di persone o di cose
guidato dall’uomo e che può circolare liberamente, escludendo quindi i veicoli a rotaie che non
possono circolare liberamente; per circolazione la giurisprudenza intende il movimento del
veicolo su via pubblica o aperta al pubblico, comprendendo nel movimento anche la sosta e la
fermata.
In conclusione, tale norma sulla circolazione è, comunque, coadiuvata dal codice della strada.
16. Responsabilità per danni da prodotti difettosi. Il legislatore dispone che per il danno cagionato
da prodotto difettoso ne risponde il produttore, ossia il fabbricante del prodotto finito.
Per produttore si intende colui che ha fabbricato il prodotto finito, colui che ha apposto il proprio
nome, marchio o qualsiasi segno distintivo; se il produttore non è individuabile, il responsabile del
danno è il fornitore del prodotto.
Tale disciplina è applicabile solo se il fornitore non abbia fornito al danneggiato, entro tre mesi
dalla sua richiesta, l’identità e il domicilio del produttore.
Per prodotto si intende ogni bene mobile inclusa l’elettricità ed esclusi i prodotti agricoli.
I difetti si differenziano in:
● difetti di fabbricazione, se riguardano i singoli esemplari e ricorrono quando il prodotto non
offre la stessa sicurezza normalmente offerta dagli altri esemplari della stessa serie;
● difetti di progettazione e di informazione, se riguardano l’intera serie dei prodotti e ricorrono
quando il prodotto non offre la stessa sicurezza che si può legittimamente attendere tenuto
conto di alcune circostanze, come la pubblicità del prodotto e il tempo impiegato per la sua
produzione.
L’onere della prova spetta al danneggiato, che deve provare l’esistenza del nesso di
causalità fra il danno e il difetto; il danneggiante-produttore può, tuttavia, liberarsi dalla
responsabilità dimostrando l’inesistenza di tale nesso eziologico (di causalità) e può avvalersi delle
cause di esclusione della responsabilità dettate dalla legge (es: il produttore non è responsabile se
non ha messo in circolazione il prodotto).
Per danno risarcibile la legge intende quello cagionato dalla morte o da lesioni personali e
deve superare la misura di £ 750.000 (∼387€).
180
17. Responsabilità dei magistrati. Il legislatore ha disciplinato il risarcimento dei danni cagionati
al cittadino dal giudice nell’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Tali norme sono applicate ai magistrati ordinari, amministrativi, militari, contabili, speciali,
onorari e a coloro che partecipano all’esercizio della funzione giuridica in qualità di esperti; questi
soggetti rispondono dei danni cagionati al cittadino sia che esercitino la funzione giuridica come
giudice unico, sia in modo collegiale.
Fonte di responsabilità è un qualsiasi comportamento, atto o provvedimento deciso dal
giudice con dolo o colpa grave; esempio di comportamento gravemente colposo è la violazione
della legge, l’affermazione o negazione di un fatto, la cui esistenza o inesistenza risulta
incontrastabilmente dagli atti del giudizio.
L’azione di risarcimento decade entro 2 anni, che decorrono dal momento in cui è possibile
esperirla.
L’azione di risarcimento, e quindi di responsabilità, è sottoposta ad un giudizio
preliminare di ammissibilità: se la domanda appare infondata, è rigettata dal tribunale.
Il cittadino che vuole essere risarcito, deve esperire l’azione contro lo Stato (nella persona del
Presidente del Consiglio dei Ministri), il quale, dopo aver risarcito il danno, può effettuare rivalsa
di 1/3 della somma risarcita sullo stipendio percepito in un anno dal magistrato.
Il magistrato è responsabile solidalmente con lo Stato nel caso in cui l’illecito, integri gli
estremi del reato: solo in questo caso il danneggiato può agire direttamente nei confronti del
magistrato. Se a risarcire il danno ha provveduto lo Stato, questi ha azione di rivalsa nei confronti
del magistrato per l’intera somma.
18. Responsabilità per il c.d. danno ambientale. Il legislatore ha disciplinato il risarcimento per
danno ambientale.
Con il termine ambiente, la giurisprudenza non intende solo un insieme comprendente beni e
valori, ma anche una realtà priva di consistenza materiale che è espressione di un autonomo valore
giuridicamente rilevante; esempi classici di ambiente sono il paesaggio urbano e rurale.
I soggetti legittimati ad esperire l’azione di risarcimento sono lo Stato, gli Enti territoriali,
ma anche il singolo che dimostri di aver subìto un danno in seguito all’evento lesivo.
Per danno ambientale la giurisprudenza intende effetti lesivi istantanei e permanenti,
immediati e mediati sull’ambiente; comprende inoltre la compromissione dell’ambiente o la rottura
degli equilibri fra le varie componenti dell’ambiente stesso.
La misura del risarcimento è determinata da criteri come la gravità della colpa, il costo
necessario per il ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore.
181
c. Illecito e danno.
19. Prevenzione dell’illecito riparazione del danno. Nei confronti del fatto illecito, la legge
persegue 2 obiettivi:
• il primo è quello di evitare il danno;
• il secondo è quello di riparare effetti negativi prodotti dal danno.
Per quanto riguarda all’obiettivo di evitare il danno, il nostro ordinamento è da sempre poco
efficace: infatti, a difesa delle situazioni soggettive, la legge civile non prevede una generale
azione inibitoria, cioè un potere del soggetto di agire in giudizio per impedire il compimento di
atti che possono lederlo.
La legittima difesa non ha una funzione inibitoria, ma ha l’effetto di scoraggiare la commissione
dell’illecito e di assicurare al danneggiato un risarcimento.
Il legislatore ha disciplinato solo poche fattispecie specificate di prevenzione come la tutela
del diritto di autore, la denuncia di nuova opera e di danno temuto:
1. la denuncia di nuova opera mira ad impedire i pericoli che possono derivare dalla costruzione
di nuova opera o di nuova attività;
2. la denuncia di danno temuto mira a prevenire il pericolo di un danno grave ed imminente
causato da una qualsiasi cosa già esistente.
Per quanto riguarda l’obiettivo di riparazione degli effetti negativi prodotti dal danno, si
configurano 2 tipi di risarcimento:
1. risarcimento generale o risarcimento per equivalente, che mira a riparare l’effetto negativo
prodotto dall’illecito, o a compensare le perdite; inoltre, mira ad eliminare gli altri effetti negativi
riconducibili ad una valutazione economica.
2. risarcimento in forma specifica, che mira ad eliminare l’effetto materiale della lesione, ad
eliminare il danno e a ristabilire la situazione precedente. Può incidere sia su una situazione
materiale (la cosa danneggiata viene riparata), sia su un interesse morale (una notizia falsa viene
rettificata)
Anche se il danneggiato può scegliere fra i 2 risarcimenti, il giudice respingerà la scelta di
risarcimento in forma specifica se non è del tutto in parte possibile, o se è troppo onerosa per il
danneggiante (per questo è un metodo poco usato). In conclusione queste 2 forme di risarcimento
possono anche concorrere.
20. Concetto e tipi di danno. Il danno è l’alterazione di una situazione giuridica di un soggetto
provocata dall’illecito di un altro soggetto.
Esso presuppone la riparazione e viene accertato con questo procedimento: viene paragonata la
situazione esistente (es: la cosa è rotta), con la situazione precedente (es: la cosa è integra), e viene
determinato il peggioramento. Il danno si distingue in:
1. patrimoniale che consiste nelle conseguenze economiche sfavorevoli provocate da una
determinata lesione. È indifferente se il bene o l’interesse leso sia patrimoniale o meno, poiché
conseguenze economiche (patrimoniali) sfavorevoli possono derivare sia dalla lesione di un
bene di natura patrimoniale, sia dalla lesione di un bene di natura non patrimoniale;
2. non patrimoniale che consiste nel dolore, nella sofferenza, fisica o spirituale, che un soggetto
subisce per effetto dell’evento lesivo. Vengono annoverati in questa categoria anche la lesione
della persona e dei diritti della personalità.
Entrambe le specie di danno sono riparabili con risarcimento sia generale, che in forma specifica.
Negli ultimi tempi è stato definito anche un nuovo genus di danno, il c.d. danno biologico:
esso consiste nella lesione provocata al benessere psico – fisico dell’individuo a prescindere da una
perdita patrimoniale o meno. Esempi di danno biologico sono il danno estetico, il danno da stress,
il danno alla sfera sessuale.
182
21. Risarcibilità del danno e regole del risarcimento. La legge dispone che il danno non
patrimoniale è risarcibile solo nei casi previsti dalla legge (art. 2059); da questo fatto ne consegue
che il risarcimento del danno non patrimoniale avviene solo quando l’illecito è allo stesso tempo
reato (es: danno morale).
Il risarcimento del danno comprende sia l’effettiva perdita (danno emergente), sia il
mancato guadagno (lucro cessante); logicamente, per il risarcimento del danno non patrimoniale
è escluso il lucro cessante.
I danni possono essere imprevedibili e prevedibili, ma in entrambi i casi vengono risarciti.
Il legislatore dispone che il danno va risarcito per intero; nel caso in cui non sia possibile
misurare il risarcimento con parametri tecnici, la misurazione dell’ammontare è rimessa al giudice
che liquida secondo equità.
L’erogazione del risarcimento può avvenire anche tramite rendita vitalizia, quando il
danno ha carattere permanente.
22. Responsabilità civile, tutela assicurativa, sicurezza sociale. La responsabilità civile spesso
non è idonea a risarcire il danno ricevuto, in quanto, a volte, il danneggiante non è in condizione di
riparare il danno cagionato.
Un mezzo per debellare tale rischio è l’assicurazione: essa è uno strumento che indennizza il
danneggiato dalla lesione da ricevuta a prescindere dal fatto che la lesione sia imputabile ad altri o
al caso.
L’assicurazione può essere anche imposta dalla legge per l’esercizio di determinate attività:
esempi sono la circolazione, la navigazione aerea.
Con l’assicurazione obbligatoria vi è una distribuzione del rischio su tutti gli assicurati, che
contribuiscono alla riparazione del danno cagionato da alcuni pagando un premio.
La limitazione di questa misura ad alcune attività è dovuta sia al fatto che l’assicurazione ha un
costa elevato, sia perché un’eccessiva estensione di questo esercizio farebbe calare il livello di
diligenza del singolo nello svolgimento della propria attività.
Per determinati danni è prevista una sicurezza sociale, fondata sull’obbligo di tutti i
consociati di contribuire al risarcimento per i soggetti che sono colpiti da tali danni.
183
Famiglia e rapporti parentali
Parentela e affinità. La parentela, invece, costituisce un vincolo di discendenza da uno stesso
capostipite; può essere in linea retta, quando le persone discendono una dall’altra (es: padre-figlio),
o in linea collaterale, quando non discendono l’una dall’altra pur avendo un capostipite comune
(es: fratelli, zio-nipote).
La parentela si misura in gradi e non è rilevante oltre il 6° grado: il grado si calcola contando le
persone fino allo stipite comune, senza contare il capostipite (es: fratello, padre, fratello).
I fratelli sono bilaterali (o germani) se discendono dagli stessi genitori, unilaterali se hanno lo
stesso padre (consanguinei) o la stessa madre (uterini); i fratelli germani hanno un trattamento
differente in materia di successione e alimenti rispetto ai fratelli unilaterali.
L’affinità, effetto legale del matrimonio, designa il rapporto tra un coniuge e i parenti
dell’altro (suocero-nuora); l’affinità non si estende però al rapporto tra affini (es: le mogli di due
fratelli non sono cognate fra loro, ma solo l’una del marito dell’altra).
L’affinità si estingue per annullamento del matrimonio e non per il suo scioglimento dovuto alla
morte del coniuge dal quale derivi l’affinità, salvo diversa previsione.
Solidarietà familiare: mantenimento e alimenti. Il mantenimento è un obbligo di assistenza
economica in favore del coniuge separato a cui non sia addebitata la separazione e che sia
sprovvisto di adeguati redditi propri; al mantenimento ha diritto anche il figlio non riconoscibile.
Il mantenimento prescinde dallo stato di bisogno e comprende ciò che è necessario ad assicurare a
chi ne è titolare il medesimo tenore di vita della famiglia della quale è parte.
I presupposti sono che il coniuge mantenuto sia incapace di provvedere alle più elementari
necessità per una vita dignitosa e la misura è proporzionale alle condizioni economiche
dell’alimentante: infatti egli deve adempiere o mantenendo l’alimentando nella propria abitazione,
o con un assegno periodico anticipato, salvo diversa disposizione del giudice.
L’assegno, una volta corrisposto, non può essere nuovamente richiesto e nulla è dovuto per
il periodo anteriore alla richiesta formale di mantenimento, in quanto è dovuto dal giorno della
domanda giudiziale; la misura del mantenimento è comunque soggetta a modifiche da parte del
giudice. L’obbligo cessa con la morte dell’obbligato.
L’obbligazione degli alimenti sopra affrontata è legale, ma può essere costituita anche per contratto
(rendita vitalizia), o per disposizione testamentaria (legato di alimenti).
Famiglia di fatto. La famiglia di fatto o convivenza more uxorio è un’unione stabile tra uomo e
donna, anche in assenza di matrimonio.
L’ordinamento ha dei problemi nel definire la famiglia di fatto, perché la Costituzione riconosce
come famiglia naturale solo quella fondata sul matrimonio e che abbia un rapporto di filiazione
naturale.
Quindi la famiglia di fatto non deve essere equiparata al rapporto coniugale che è vincolato dai
valori dell’ordinamento, perché la famiglia di fatto è vincolata dall’arbitrio delle persone non
escludendo, però, l’applicazione dei principi inderogabili dell’ordinamento.
Per l’ordinamento la convivenza more uxorio è idonea a svolgere le stesse funzioni di cura e
allevamento della prole prestate dalla famiglia legittima.
Nozione di matrimonio e sistema matrimoniale italiano. Con il matrimonio s’indica non solo
l’atto posto a fondamento della famiglia, ma anche il rapporto ordinato sull’eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi.
Il matrimonio come atto giuridico può essere regolato dal diritto civile ovvero dal diritto
canonico: infatti nel nostro ordinamento il sistema introdotto dal Concordato del 1929 tra Stato e
Chiesa consente ai cittadini di scegliere tra:
- il matrimonio civile, celebrato davanti all’Ufficiale di stato civile;
- il matrimonio concordatario (o canonico), celebrato davanti al Ministro del culto cattolico,
secondo la disciplina del diritto canonico e regolarmente trascritto nel registro dello stato civile.
184
Il matrimonio come rapporto, invece, è regolato unicamente dal diritto civile: una volta scelta
liberamente la forma di celebrazione, la società coniugale (il m. come rapporto) rimane disciplinata
esclusivamente dalle leggi civili. La disciplina del rapporto matrimoniale è, cioè, unica.
Il matrimonio come atto di autonomia e la libertà matrimoniale. Il matrimonio è atto
personalissimo, infatti, non è consentito ai nubendi la libertà di farsi sostituire.
Il matrimonio è un atto tipico e legittimo, in quanto non si possono apporre termini o condizioni; le
parti non possono modificare lo schema legale in virtù dell’inderogabilità degli effetti
espressamente sancita.
Promessa di matrimonio. La libertà matrimoniale si manifesta espressamente nella non
vincolatività della promessa di matrimonio, che non obbliga a contrarre matrimonio, anche in
caso di non adempimento.
La rottura della promessa si può fare entro un anno dal giorno del rifiuto di celebrare il
matrimonio, o dal giorno della morte di uno dei promettenti: in tutti e due i casi si ha l’obbligo di
restituire i doni, escluse le donazioni obnuziali e per affetto e amicizia.
Se la rottura è ingiustificata, l’autore è tenuto a risarcire i danni per le spese fatte e le obbligazioni
contratte a causa della promessa, tenendo conto delle condizioni economiche delle parti.
Matrimonio civile: requisiti e impedimenti alla celebrazione. Il matrimonio è impedito nei casi di:
• minore età: la regola non è assoluta, perché il tribunale, sentiti il p.m., i genitori ed il tutore,
può autorizzare il matrimonio in presenza di chiari motivi;
• infermità di mente, per cui l’interdetto giudiziale non può contrarre matrimonio;
• mancanza della libertà di stato: la libertà di stato può anche derivare da morte del coniuge, da
nullità e scioglimento del matrimonio.
Questi impedimenti, se non osservati, producono o invalidità del matrimonio (impedimenti –
dirimenti), o una sanzione pecuniaria (impedimenti – impedienti).
In presenza dei dirimenti il matrimonio è invalido. I casi sono: esistenza di vincoli di parentela,
affinità, adozione e affiliazione, salvo dispense del tribunale; altra causa d’impedimento che non
prevede dispensa è l’impedimentum criminis, per cui è vietato il matrimonio tra chi è stato
condannato per omicidio, tentato o consumato ed il coniuge della persona offesa dal delitto.
Nel gruppo degli impedienti rientra il divieto temporaneo di nuove nozze e la sua violazione
dà luogo soltanto ad una sanzione pecuniaria.
Formalità preliminari: pubblicazioni e opposizioni. Il matrimonio celebrato senza che sia stato
preceduto dalle prescritte pubblicazioni è comunque valido.
L’omissione comporta sanzioni pecuniarie, salvo nei casi di esonero concesso dal Tribunale per
motivi gravissimi o di matrimonio celebrato in imminente pericolo di vita.
La pubblicazione su richiesta delle parti è curata dall’ufficiale di stato civile e contiene le
generalità degli sposi, la data e il luogo della celebrazione; essa rimane affissa sulla porta della casa
comunale per 8 gg. comprendenti 2 domeniche successive.
La pubblicazione è un onere non solo per il matrimonio concordatario, ma anche per quello
degli acattolici: la sua funzione è di portare a conoscenza di tutti (pubblicità notizia) l’intenzione
dei nubendi di contrarre matrimonio, affinché chiunque vi abbia interesse possa fare opposizione
ove sussistano impedimenti.
L’ufficiale giudiziario può rifiutarsi di procedere alla pubblicazione nel caso venga a conoscenza di
un impedimento e tale opposizione sospende la celebrazione del matrimonio fino alla sentenza del
giudice.
185
Celebrazione e formazione dell’atto di stato civile. La celebrazione del matrimonio è ordinata in
una sequenza cronologica di atti; nel giorno fissato dalle parti, l’ufficiale di stato civile, in presenza
di 2 testimoni, compie le seguenti azioni:
1. legge agli sposi gli articoli 143-144-147 del codice civile;
2. riceve da ciascuna delle parti personalmente il consenso;
3. dichiara che le parti sono unite in matrimonio.
Il matrimonio è valido anche quando uno dei nubendi, nella dichiarazione del matrimonio, abbia
assunto falso nome, in quanto non si considera rilevante l’eventuale inganno nei riguardi
dell’ufficiale di stato civile; è valido anche se il matrimonio è celebrato davanti ad un pubblico
ufficiale apparente, purché vi sia un effettivo esercizio pubblico delle funzioni e almeno uno degli
sposi sia in buona fede.
Subito dopo la celebrazione deve seguire l’atto dello stato civile che costituisce la prova
documentale dell’avvenuto matrimonio e su cui è annotata anche un’eventuale separazione dei
beni; esso è iscritto nei registri dello stato civile ed ha valore probatorio, in quanto nessuno
potrebbe reclamare di essere coniuge se non presenta tale atto.
È ammessa la celebrazione per procura se uno degli sposi risiede all’estero, in tempo di guerra, per
i militari; il procurator non è rappresentante del nubendo, ma è solo un nuncius, cioè semplice
portavoce di questi.
Matrimonio concordatario canonico ad efficacia civile. Il matrimonio concordatario ha gli stessi
effetti del matrimonio civile; affinché al matrimonio concordatario siano riconosciuti gli effetti
civili è prevista una serie di adempimenti:
• le pubblicazioni sulla porta della casa comunale, dove l’ufficiale di stato civile, in mancanza
di impedimenti, rilascia un certificato che garantisce alle parti la certezza sulla trascrizione del
matrimonio; è prevista la lettura degli articoli del codice;
• la redazione dell’atto di matrimonio in doppio originale da parte del parroco; nell’atto è
compresa anche la scelta del regime patrimoniale di separazione;
• richiesta scritta di trascrizione, da inoltrare entro 5 gg. dalla celebrazione del matrimonio, da
parte del parroco all’ufficiale di stato civile che effettuerà la trascrizione dell’atto di matrimonio
nei registri dello stato civile entro 24 ore. È prevista anche la trascrizione tardiva che è
richiesta non dal parroco, ma dai coniugi o da uno solo, se l’altro ne è a conoscenza e non si
oppone. È necessario però che i coniugi abbiano mantenuto la loro libertà di stato
ininterrottamente fino al momento della richiesta di trascrizione.
Le cause d’impedimento della trascrizione sono:
- quando le parti non rispondono ai requisiti di età;
- uno dei contraenti è interdetto per infermità di mente;
- tra gli sposi sussiste un altro matrimonio valido agli effetti civili;
- impedimenti derivanti ad delitto o da affinità in linea retta.
La trascrizione è ammessa quando, secondo la legge civile, l’azione di nullità o di annullabilità non
potrebbe essere più proposta.
Matrimonio degli acattolici. Anche ai cittadini non cattolici è ammesso celebrare, dinanzi ai
ministri dei culti ammessi nello Stato, il matrimonio che rispetti le tradizioni e produca gli effetti
civili. Affinché il matrimonio sia valido occorre che il ministro del culto sia nominato e approvato
dall’autorità governativa: ciò non basta, perché anche questo ministro del culto è tenuto a leggere
gli articoli del codice, redigere l’atto di matrimonio, trasmetterlo entro 5 gg. all’ufficiale di stato
civile che lo trascriverà entro 24 ore; nel caso non ci sia l’approvazione dell’autorità governativa, il
matrimonio celebrato è nullo.
Ci sono anche rappresentanti di alcune professioni religiose che hanno stipulato intese con
lo Stato italiano, tradotte in leggi speciali.
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Invalidità del matrimonio. La nullità non impedisce la validità del matrimonio, salvo la possibilità
di una pronunzia giudiziale; inoltre non c’è la rilevabilità d’ufficio. La dottrina classifica nullo:
• il matrimonio contratto senza lo stato libero ed il matrimonio contratto dal coniuge del
presunto morto, qualora si accerti che esso sia vivo;
• il matrimonio contratto in presenza d’impedimenti per i quali non è concessa dispensa
(parentela, affinità, adozione e affiliazione);
• il matrimonio contratto in violazione dell’impedimento da omicidio tentato o consumato.
La dottrina differenzia l’invalidità dall’inesistenza. Le cause dell’inesistenza sono:
• quando vi è l’identità di sesso, la mancanza di celebrazione, la mancanza assoluta del consenso.
Ipotesi di annullabilità sono:
- violazione dei limiti di età minima prevista dalla legge;
- interdizione;
- incapacità di intendere e di volere.
Disciplina dell’impugnazione. La legittimazione attiva all’impugnazione del matrimonio è dei
coniugi, degli ascendenti prossimi, del p.m. e di ogni altro soggetto che abbia un interesse legittimo
per impugnarlo. L’impugnazione è:
• imprescrittibile nei casi di violazione dei principi fondamentali,che rende inidoneo il
matrimonio a realizzare la sua funzione;
• prescrittibile dopo 10 anni per vizi del consenso.
L’azione di impugnazione è sottoposta a decadenza con termine di 1 anno dalla celebrazione del
matrimonio contratto senza autorizzazione o dal raggiungimento della maggiore età.
La decadenza dipende dal concorso di due circostanze:
1. il venir meno della causa di invalidità (es: recupero delle facoltà mentali per l’incapace);
2. la coabitazione per almeno 1 anno quale forma di convalida tacita.
Effetti della sentenza d’invalidità: il matrimonio putativo. Il matrimonio putativo è il matrimonio
che i coniugi reputano valido anche se non è tale.
Quando si verificano o sussistono alcune circostanze come la buona fede di entrambi i coniugi, la
presenza di figli, o la buona fede unilaterale, il legislatore può qualificare giuridicamente valido il
matrimonio, che però sarebbe invalido, perché l’atto su cui si basa è invalido.
Tale matrimonio è il c.d. matrimonio putativo.
Gli effetti della sentenza di nullità sono irretroattivi. Il matrimonio putativo, fino alla
sentenza che produce nullità, produce gli stessi effetti del matrimonio valido.
Principio di eguaglianza dei coniugi e diritti e doveri reciproci. L’uguaglianza dei coniugi si
identifica anche nell’attuazione di una serie di obblighi inderogabili reciproci:
● fedeltà: impone ai coniugi di astenersi da relazioni sentimentali e rapporti sessuali con persone
diverse dal coniuge; l’infrazione di questo obbligo non produce più rilevanza penale, ma può
rilevare solo come elemento di imputazione della responsabilità per la separazione ad uno dei
coniugi;
● assistenza reciproca: è l’aiuto morale e materiale che ciascun coniuge deve prestare per il
soddisfacimento dei bisogni affettivi ed economici dell’altro. L’assistenza comunque è sospesa
nei confronti del coniuge che si allontana senza giusta causa dalla residenza familiare rifiutando
di ritornarvi;
● coabitazione: non è solo il dovere di vivere sotto lo stesso tetto, ma è anche il dovere di attuare
la convivenza tra moglie e marito. Quest’obbligo viene meno per giusta causa, cioè per
separazione, annullamento o divorzio;
● collaborazione: entrambi i coniugi devono soddisfare le esigenze reciproche e quelle dei figli
ed hanno il dovere-potere di mantenere, educare e istruire i figli. La collaborazione è anche
economica dove i coniugi in relazione alle proprie sostanze e capacità di lavoro professionale o
casalingo devono collaborare. Alla collaborazione partecipano tutti i membri della famiglia.
187
Cognome e cittadinanza dei coniugi. Con il matrimonio la moglie aggiunge al proprio, il cognome
del marito: quest’ultimo conserva il suo cognome e lo trasmette ai figli.
Il cittadino italiano, uomo o donna, che sposa uno straniero mantiene la sua cittadinanza italiana; il
matrimonio per il coniuge straniero costituisce il presupposto per l’acquisto della cittadinanza
italiana. È necessario però che abbia la residenza per almeno 6 mesi o che siano trascorsi 3 anni
dalla celebrazione del matrimonio; l’acquisto non è automatico, avvenendo su istanza con decreto al
Ministero dell’Interno.
Regola dell’accordo nelle decisioni familiari e intervento del giudice. La scelta sull’indirizzo della
vita familiare è rimessa all’autonomia dei coniugi ed è fatta con la fissazione della residenza.
Per l’attuazione degli accordi c’è bisogno della cooperazione di entrambi i coniugi.
Il disaccordo paralizza la famiglia e la rende vulnerabile; qualora il disaccordo non si supera, si può
chiedere anche disgiuntamente l’intervento del giudice il quale, ascoltate le parti e, a volte, anche i
figli sedicenni, cerca di conciliare per raggiungere ad una soluzione (intervento conciliativo).
L’intervento del giudice è autoritativo, cioè vincolante e non è impugnabile, nel caso in cui
non sia stata fissata la residenza della famiglia: egli può proporre la soluzione che ritiene più
adeguata alle esigenze dell’unità e della vita familiare.
Tipologie dei regimi patrimoniali. Il regime patrimoniale legale è quello della comunione dei
beni: in opposizione alla comunione vi sono la separazione dei beni e la comunione convenzionale.
La separazione dei beni esclude l’operatività della comunione dei beni e può essere adottata sia
prima del matrimonio, sia al momento della sua celebrazione e sia dopo tale celebrazione.
Convenzioni matrimoniali. Le convenzioni matrimoniali sono regimi atipici di patrimonialità e
sono regolate dalle norme in materia di contratto.
Esse modificano il regime di comunione dei beni, cioè possono restringere il regime a determinati
beni o allargarlo ad altri.
Le convenzioni sono stipulate sotto forma di atto pubblico sotto pena di nullità e, in caso di
interdizione del coniuge, mediante il rappresentante legale; sono sempre modificabili in qualsiasi
momento, perché vi sia il consenso di tutte le parti o dei loro eredi.
È prevista una forma di pubblicità dichiarativa per la stipula e la modifica delle convenzioni,
attraverso la loro annotazione a margine dell’atto di matrimonio a cura del notaio rogante, pena la
inopponibilità ai terzi.
Qualora le convenzioni abbiano ad oggetto beni immobili o mobili registrati è richiesta
anche la trascrizione nei rispettivi registri.
Regime legale della comunione dei beni. La comunione legale è diversa da quella ordinaria o
ereditaria. Il singolo coniuge non può scioglierla unilateralmente, né può disporre della propria
quota di beni; questa comunione si estende a tutti i beni acquisiti anche separatamente dai coniugi
dopo il matrimonio, ad esclusione dei beni personali: vi sono anche beni che non entrano in
comunione immediatamente, ma si considerano oggetto della comunione se sussistono al momento
del suo scioglimento.
Dunque, la comunione legale è distinta in comunione attuale o immediata e comunione differita
o de residuo.
Entrano a far parte della comunione le aziende gestite da entrambi i coniugi e i frutti dei beni propri
e i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge, dove per attività separata si intende
qualunque attività lavorativa, subordinata o autonoma, anche se svolta saltuariamente o per mero
diletto.
188
Beni esclusi dalla comunione legale (art. 179). I beni esclusi dalla comunione legale sono:
a) i beni del quale il coniuge era titolare prima del matrimonio o prima della comunione legale;
b) i beni acquistati per effetto di donazione o successione;
c) i beni di uso strettamente personale e i relativi accessori;
d) i beni strumentali all’esercizio della professione, tranne quelli destinati all’azienda facente parte
della comunione;
I beni immobili o mobili registrati sono esclusi dalla comunione legale, se tale esclusione è
espressamente dichiarata nell’atto di acquisto e l’altro coniuge abbia partecipato alla redazione
dell’atto; questi beni devono essere trascritti nei rispettivi registri.
Essi sono considerati come beni personali: per i mobili non registrati, tale dichiarazione non è
sufficiente.
Separazione: nozione e funzione. La separazione non scioglie il vincolo, ma pone i diritti e i doveri
del matrimonio in uno stato di quiescenza (di riposo).
La separazione personale è comunque un metodo per recuperare il rapporto entrato in crisi, infatti
per avere il divorzio ci vogliono 3 anni di separazione; cessa qualora i coniugi si riappacifichino.
Oltre alla separazione giudiziale e consensuale, abbiamo:
• la separazione temporanea ordinata dal giudice nel caso di giudizio di invalidità dal
matrimonio, di separazione, o di divorzio;
• la separazione di fatto che produce effetti molto limitati.
Separazione giudiziale. Si ha quando si verificano fatti che rendono intollerabile la continuazione
della convivenza, in modo da recare grave pregiudizio all’educazione della prole.
Importante è la rilevanza dell’addebito della separazione deciso dal giudice per il coniuge che ha
avuto un comportamento contrario ai doveri del matrimonio; l’addebito influisce unicamente sulle
conseguenze patrimoniali della separazione e può anche essere pronunciato a carico di entrambi i
coniugi.
La separazione giudiziale può essere richiesta da entrambi o da uno dei coniugi al giudice del
tribunale del luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto: il giudice come prima fase
cerca di conciliarli e nel caso sia fallito tale tentativo, il presidente del tribunale dispone i
provvedimenti temporanei ed urgenti nell’interesse dei figli e dei coniugi.
Separazione consensuale. Quando entrambi i coniugi di comune accordo pervengono alla
separazione si ha la separazione consensuale. Il consenso non è sufficiente alla produzione degli
effetti, ma occorre il decreto di omologazione emesso dal tribunale su richiesta di uno o entrambi i
coniugi; il presidente del tribunale prima cerca di conciliare le parti, poi, in caso di fallimento,
concede l’omologazione non valutando le motivazioni della separazione.
L’omologazione può essere anche rifiutata qualora negli accordi presi preventivamente tra i
coniugi ci siano contenuti pregiudizievoli all’interesse della prole.
Carattere importante della separazione consensuale è l’accordo preso preventivamente dai coniugi
sul mantenimento (e non solo sugli alimenti) del coniuge e della prole.
Separazione temporanea. Nei casi di giudizio di invalidità del matrimonio o di divorzio, il
tribunale può disporre la separazione temporanea. Effetto della separazione temporanea è la
sospensione dell’obbligo di coabitazione e l’emanazione di conseguenti provvedimenti necessari a
regolare i rapporti tra i coniugi con i figli.
La separazione temporanea, comunque, ha effetti molto ridotti: essa, difatti, non determina
lo scioglimento della comunione legale né la sospensione dei doveri coniugali.
189
Separazione di fatto. La separazione di fatto, invece, è una stabile interruzione della convivenza
attuata al di fuori delle ipotesi previste dalla legge. A differenza dell’allontanamento, con la
separazione di fatto il coniuge manifesta all’altro la volontà di interrompere la convivenza e l’altro
coniuge tollera tale decisione: questa separazione non sospende i doveri coniugali che possono
essere sospesi solo con la separazione legale.
Comunque, al coniuge “tollerante” spetta di diritto la richiesta di separazione giudiziale con
addebito.
Effetti della separazione per i coniugi. Mutamento del titolo della separazione. La separazione
legale sancisce l’interruzione della convivenza coniugale senza, però, comportare lo scioglimento
del matrimonio.
Effetti personali: la separazione non esonera i coniugi dal dovere di fedeltà, dal dovere di assistenza
morale e non priva la moglie del diritto di continuare ad usare il cognome del marito salvo diversa
disposizione del giudice, cioè quando comporti un grave pregiudizio per il marito o per la stessa
moglie.
La separazione produce però, la sospensione del dovere di convivenza e di coabitazione dei coniugi.
Effetti patrimoniali: la separazione modifica il dovere reciproco di assistenza materiale; il coniuge
al quale non sia stata addebitata la separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di
mantenimento non solo per se stesso, ma anche per la prole.
L’assegno di mantenimento è calcolato in base non solo al reddito, ma anche alle sostanze
patrimoniali non produttive di reddito. Se il coniuge a cui spetta il mantenimento teme che vi sia un
inadempimento da parte dell’altro coniuge, il giudice può imporre la garanzia: difatti, la sentenza di
condanna di pagamento dell’assegno di mantenimento è titolo per l’iscrizione dell’ipoteca
giudiziale.
In caso di inadempimento, il coniuge beneficiario dell’assegno può procedere al sequestro dei beni
oppure ottenere l’attribuzione diretta di una parte delle somme che il coniuge obbligato riceve da
terzi (datori di lavoro, pensione).
La determinazione dell’assegno di mantenimento è suscettibile a revoca o modificazione.
Per quanto riguarda l’abitazione, essa si preferisce lasciarla al coniuge a cui vengono affidati i figli,
affinché questi non subiscano ulteriori traumi; questo provvedimento di assegnazione della casa
deve essere trascritto ai fini dell’opponibilità ai terzi.
Con la separazione legale, comunque, permane l’obbligo da parte dei coniugi di agire e provvedere
all’interesse della famiglia, anche se viene sciolta la comunione legale.
La separazione giudiziale o consensuale senza addebito può essere mutata in separazione
giudiziale o consensuale con addebito per comportamenti contrari ai doveri coniugali.
Affidamento dei figli. La separazione lascia inalterati i diritti e i doveri dei coniugi nei confronti dei
figli, ma rende necessario decidere a chi dei genitori essi devono essere affidati.
Nella separazione consensuale la decisione spetta ai coniugi ma il giudice, in sede di
omologazione, valuta se l’accordo preso rispetti l’interesse dei figli.
Nella separazione giudiziale è il giudice che decide a chi affidare la prole, logicamente
nell’interesse dei minori.
L’affidamento può essere congiunto, cioè ad entrambi in coniugi, o alternativo, cioè un periodo a
un coniuge e un altro periodo all’altro coniuge.
Il giudice nello stabilire l’affidamento può anche sentire l’opinione dei minori, nel caso essi
siano in grado di esprimere un giudizio; il giudice, comunque, può decidere per gravi motivi
l’affidamento ad altre persone o ad un istituto di educazione.
Dopo aver deciso l’affidamento, il giudice stabilisce i modi di svolgimento dei rapporti patrimoniali
(mantenimento) e personali del genitore non affidatario con i figli: dispone un versamento periodico
di una somma di denaro per l’educazione, per il mantenimento e l’istruzione; tale versamento gode
delle stesse garanzie di cui gode l’assegno di mantenimento del coniuge.
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Per i rapporti personali, il giudice regola il diritto di visita ai figli e i periodi nei quali costoro
possono essere tenuti presso l’altro genitore, salvo che il contatto con quel genitore sia considerato
dannoso per costoro.
La potestà dei genitori non cessa con la separazione, ma spetta in via esclusiva al coniuge
affidatario; l’altro coniuge ha il compito di controllare che le decisioni prese dal coniuge affidatario
non siano pregiudizievoli per la prole.
Le decisioni più importanti spettano ad entrambi i coniugi e, in caso di disaccordo, la decisione è
presa dal giudice.
Tutti i provvedimenti riguardanti la prole sono soggetti a revoca o modifica da parte del tribunale
ordinario. Nel caso di separazione o di divorzio dei coniugi di diversa nazionalità, vengono
applicate le convenzioni internazionali, tenendo conto sempre di scegliere la soluzione migliore per
la prole e per i loro interessi.
Riconciliazione. La riconciliazione si può avere mediante dichiarazione espressa oppure tacita.
La riconciliazione espressa ha natura negoziale ed è revocabile nel caso in cui il proponente
non abbia avuto notizie dell’accettazione del destinatario.
Con la riconciliazione, vengono meno gli effetti della separazione: una nuova separazione può
essere proponibile, ma deve basarsi su situazioni successive alla precedente separazione.
La riconciliazione può avvenire anche mediante l’abbandono della domanda di separazione.
La riconciliazione non determina automaticamente il ripristino della comunione legale, in quanto è
richiesta la stipula di un’apposita convenzione.
Annullamento e scioglimento del matrimonio. Il divorzio è stato introdotto, dopo tanti contrasti, il
1° dicembre 1970 e produce lo scioglimento del rapporto.
Il matrimonio si definisce nullo quando si accerta l’originaria inidoneità alla produzione
degli effetti giuridici.
L’invalidità, come il divorzio, non estingue gli effetti già prodotti, né cancella l’esigenza di tutelare
il coniuge in difficoltà economica.
La differenza è che il divorzio offre una tutela più ampia al coniuge economicamente svantaggiato.
Divorzio: presupposti e procedimento. Lo scioglimento del matrimonio può avvenire o con la
morte di uno dei coniugi, o con il divorzio.
Il divorzio può avvenire solo giudizialmente: è un rimedio all’irreparabile rottura di matrimonio
(c.d. divorzio-rimedio) e non una sanzione alla violazione di gravi doveri coniugali (c.d. divorziosanzione).
Ciò è confermato dal fatto che il divorzio può derivare anche da fatti incolpevoli, ma soprattutto che
l’azione di divorzio può essere presentata anche dal coniuge responsabile del fallimento del
matrimonio. Cause di divorzio sono:
• la condanna subita da un coniuge dopo il matrimonio anche per reati commessi prima;
• la condanna per alcuni delitti contro la libertà sessuale, la moralità e il buon costume;
• la condanna per omicidio volontario di un figlio o del coniuge, tentato o consumato;
• la condanna per lesioni personali aggravate, violazione degli obblighi di assistenza,
circonvenzione d’incapace (trarre in inganno) in danno del coniuge o di un figlio;
• la sentenza di assoluzione o proscioglimento del reato d’incesto per mancanza di pubblico
scandalo.
La causa più importante di divorzio è la separazione legale dei coniugi; per la separazione
giudiziale, la sentenza deve passare in giudicato. Mentre per la separazione consensuale essa deve
essere stata omologata.
La separazione deve necessariamente protrarsi ininterrottamente per 3 anni e per la separazione
legale il tempo comincia a decorrere con la presentazione dei coniugi dinanzi al presidente del
tribunale.
Legittimati a fare la domanda di divorzio sono entrambi i coniugi.
191
Il divorzio può anche avvenire quando l’altro coniuge straniero abbia ottenuto all’estero
l’annullamento o lo scioglimento, oppure abbia contratto nuovo matrimonio all’estero; in
quest’ultimo caso legittimato è il coniuge cittadino italiano.
Altra causa può essere la mancata consumazione del matrimonio causata dall’impotenza;
altra causa può essere la rettifica di attribuzione del sesso, dove il divorzio appare necessario.
La domanda di divorzio si propone con ricorso al tribunale del luogo di residenza o
domicilio del coniuge convenuto o, in mancanza, al tribunale di residenza o domicilio, o di
residenza all’estero del coniuge ricorrente.
L’azione di divorzio è limitata ai coniugi, cioè non possono farsi sostituire da
rappresentanti essendo azione personale.
Il procedimento si apre con la fase preliminare, dove il presidente del tribunale tenta la
riconciliazione; fallito il tentativo, oppure il coniuge convenuto non compare, e sentiti i figli minori,
il presidente del tribunale emette anche d’ufficio con ordinanza:
• i provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei figli e dei coniugi;
• nomina il giudice istruttore;
• fissa l’udienza di comparizione delle parti (fase istruttoria).
La sentenza è emessa dal collegio (fase collegiale).
La sentenza per divenire definitiva e opponibile ai terzi deve essere annotata, cioè
trasmessa all’ufficio di stato civile del luogo dove fu trascritto il matrimonio.
L’annotazione è importante per l’opponibilità del divorzio a terzi, ma gli effetti per le parti si
producono con il passaggio in giudicato della sentenza.
Effetti del divorzio. Con il divorzio, il matrimonio si scioglie e i coniugi riacquistano lo stato libero
e possono risposarsi.
Per il coniuge economicamente svantaggiato vi è l’assegno di divorzio che ha funzione
assistenziale ed è dovuto solo quando il beneficiario non è in grado di provvedere a se stesso.
La quantificazione è fatta in base a:
• le condizioni dei coniugi;
• il reddito dei coniugi;
• il criterio risarcitorio, ossia le ragioni della decisione;
• il criterio compensativo, ossia il contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge o
alla condizione familiare, o al fondo comune, o all’altro coniuge.
La corresponsione dell’assegno può avvenire in un’unica soluzione su accordo delle parti.
Il diritto di assegno si estingue con il passaggio del beneficiario a nuove nozze o con la morte
dell’obbligato; al coniuge divorziato, come per quello separato, può spettare l’abitazione.
Il divorzio lascia inalterati i doveri dei genitori nei confronti dei figli e quindi gli obblighi di
mantenimento, istruzione e educazione permangono anche nelle ipotesi di passaggio a nuove nozze.
Diritti e doveri da rapporto di procreazione e stato di figlio. I figli legittimi sono i figli nati da
genitori uniti in matrimonio, i figli naturali sono i figli nati da genitori non uniti in matrimonio, i
figli adottivi sono i figli adottati con provvedimento giudiziario, i figli incestuosi sono coloro nati
da persone che tra loro sono parenti o affini.
Tuttavia l’interprete cerca di uniformare la condizione giuridica della filiazione, infatti anche al
figlio naturale devono essere assicurati il mantenimento, l’istruzione e l’educazione: si ha quindi il
principio d’eguaglianza.
Il riconoscimento fino al 1975 non era possibile per i figli adulterini; dopo il 1975, con una
riforma, sono dichiarati irriconoscibili i figli incestuosi, salvo che il genitore era in buona fede o che
il matrimonio sia stato annullato.
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Atto di nascita: caratteri e funzioni. L’atto di nascita, redatto dall’ufficiale di stato civile negli
appositi registri, è l’atto che accerta la filiazione ed ha funzione probatoria.
La dichiarazione può essere effettuata entro i 10 gg. successivi alla nascita, altrimenti il
tribunale dovrà pronunciare l’efficacia dell’atto dopo la rettificazione; in sua mancanza, la
formazione del relativo atto dovrà essere decisa dal Tribunale.
La dichiarazione è resa indistintamente da uno dei genitori, o da un loro procuratore speciale; in
loro mancanza può essere fatta dal medico, dall’ostetrica o da chi abbia assistito al parto.
Il nome è scelto di comune accordo e i figli legittimi prendono solo il cognome del padre,
mentre quelli naturali assumono il cognome del genitore che per primo li ha riconosciuti.
In caso di genitori sconosciuti il nome e il cognome sono imposti dall’ufficiale di stato civile.
Se l’atto di nascita dichiara cosa diversa dalla realtà, esso può essere modificato mediante azioni
giuridiche di stato, oppure, in caso di discrasìa (alterazione) dipendente da errore materiale
dell’ufficiale di stato civile, esso può essere modificato mediante l’azione di rettificazione.
Il rapporto di filiazione ha fonte nel fatto della procreazione e l’atto di nascita ha una
funzione di pubblicità dichiarativa e non soltanto di mera pubblicità notizia.
Accertamento della filiazione legittima: presunzioni, atto di nascita e possesso di stato.
L’accertamento della filiazione legittima avviene mediante 2 presunzioni:
1. il marito è padre del figlio concepito in costanza di matrimonio (p. di paternità);
2. si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato dopo 180 gg. dalla celebrazione del
matrimonio, o quando non siano trascorsi 300 gg. dalla data di annullamento, scioglimento o
cessazione degli effetti civili del matrimonio (p. di legittimità).
Se il figlio è nato dopo 300 gg. dalla data di annullamento, scioglimento o cessazione del
matrimonio, non si presume legittimo, ma la sua legittimità può essere dimostrata con ogni mezzo.
Diritto della madre è quello di non essere nominata all’atto di nascita; pertanto
l’accertamento è automatico solo per il padre, mentre la madre deve sempre acconsentire ad essere
indicata nell’atto di nascita.
Il figlio nato dopo 300 gg. dallo scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili
del matrimonio è riconosciuto come figlio naturale e non come figlio legittimo, poiché non opera
la presunzione di paternità.
La filiazione legittima può essere provata anche con il possesso di stato che deve risultare
da una serie di fatti utili a dimostrare la relazione di filiazione; ad esempio:
• l’interessato ha sempre portato il cognome del padre;
• è stato sempre trattato e ritenuto da costui come figlio;
• è stato sempre considerato come parte della famiglia dai suoi componenti.
Azioni di stato di figlio legittimo e rettificazione degli atti di stato civile. L’ordinamento prevede
per la filiazione legittima delle azioni di stato: l’azione di disconoscimento della paternità,
l’azione di contestazione della legittimità, l’azione di reclamo della legittimità.
Per la filiazione naturale l’ordinamento prevede l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o
maternità e l’impugnativa di riconoscimento.
Disconoscimento della paternità. Con l’azione di disconoscimento della paternità si mira a far
cadere la presunzione di paternità.
La presunzione di paternità per il figlio nato prima dei 180 giorni dal matrimonio è meno forte di
quella del figlio concepito in costanza di matrimonio; in questo caso il disconoscimento è consentito
quando:
• i coniugi non abbiano coabitato nel periodo compreso tra il 300° e il 180° giorno prima della
nascita;
• sia dimostrato che nello stesso periodo il marito fosse affetto di impotenza, anche solo di
fecondare;
193
•
quando la moglie ammette che nello stesso periodo abbia commesso adulterio o abbia nascosto
la gravidanza e la nascita del figlio.
Dopo la riforma del 1975, l’azione spetta anche alla madre, al figlio maggiorenne e al figlio
sedicenne tramite il curatore speciale nominato dal giudice. Legittimati ad agire sono:
- il padre, entro 1 anno dalla nascita;
- la madre, entro 6 mesi dalla nascita;
- il figlio, entro 1 anno dal compimento della maggiore età o dal momento della conoscenza dei
fatti che rendono ammissibile il disconoscimento, se è avvenuta dopo la maggiore età.
In caso di accoglimento dell’azione, il figlio risulta figlio naturale riconosciuto dalla madre.
La legittimazione passiva spetta al padre, alla madre e al figlio: se uno dei legittimati è
minore o interdetto, si procede alla nomina di un curatore speciale.
Contestazione della legittimità. L’azione di contestazione della legittimità è diretta a rimuovere
lo stato di legittimità risultante dall’atto di nascita mediante impugnazione di un elemento diverso
dalla presunzione di paternità.
Nel caso manchi la prova del matrimonio, l’azione non è consentita se i genitori sono
entrambi morti e hanno pubblicamente convissuto come coniugi e il figlio abbia goduto di un
possesso di stato conforme all’atto di nascita.
La legittimazione attiva spetta ai genitori e a chiunque vi abbia interesse; legittimati passivi
sono entrambi i genitori e, nel caso non sia promossa da lui stesso, il figlio.
Se l’azione di contestazione è promossa nei confronti di persone premorte, minori o incapaci si
procede alla nomina di un curatore speciale, come per il disconoscimento.
L’azione di contestazione della legittimità è imprescrittibile.
Reclamo della legittimità. Qualora manchi l’atto di nascita o il possesso di stato si può esperire
l’azione di reclamo della legittimità: spetta al figlio che mira ad ottenere l’accertamento dello
stato di figlio legittimo.
Lo stato di figlio legittimo può risultare alterato nell’atto di nascita in diversi modi: 1) quando il
figlio è dichiarato figlio di genitori ignoti, 2) oppure figlio naturale riconosciuto da uno o entrambi i
genitori, 3) oppure figlio legittimo di genitori diversi da quelli reali.
Legittimato attivo è il figlio; legittimati passivi sono i genitori o i rispettivi eredi; l’azione è
imprescrittibile.
Accertamento della filiazione naturale mediante riconoscimento. Il riconoscimento del figlio
naturale fatto nell’atto di nascita è integrato o dalla dichiarazione di nascita resa dal genitore
personalmente, o dall’atto pubblico dal quale risulta il consenso dei genitori ad essere nominati.
Se il figlio non è riconosciuto da nessun genitore, è indicato come figlio di genitori ignoti ed è
segnalato entro 10 giorni dall’ufficiale di stato civile al giudice tutelare che provvederà all’apertura
della tutela del minore. Il riconoscimento è un atto giuridico:
- formale, in quanto può essere fatto solo nelle forme previste dalla legge, pena la nullità;
- irrevocabile, anche se contenuto in un testamento poi revocato;
- puro, in quanto non ammette né condizione né termine;
- impugnabile solo per difetto di veridicità, violenza o interdizione giudiziale;
- personale, in quanto può essere fatto solo dal genitore e non dai suoi eredi, né dal suo
rappresentante.
Il riconoscimento può essere realizzato da uno o da entrambi i genitori: il riconoscimento congiunto
ha conseguenze sull’assunzione del cognome da parte del figlio.
Il riconoscimento è vietato per il genitore che non ha compiuto 16 anni: qualora l’atto fosse
posto in essere, non è nullo ma annullabile.
Il riconoscimento tardivo (di figlio ultrasedicenne) è sottoposto a controlli rigidi perché
potrebbe avere ripercussioni sociali sul figlio: difatti, l’assenso del figlio sedicenne è indispensabile
per l’efficacia del riconoscimento.
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Se il figlio è < di 16 anni, il riconoscimento non può avvenire senza il consenso del genitore
che lo ha riconosciuto per primo; un rifiuto ingiustificato del genitore può essere superato da una
sentenza del tribunale per i minori.
È consentito il riconoscimento del figlio premorto: tuttavia, per tutelare la sua eredità da un
presunto interesse egoistico dei genitori, questi sono esclusi dall’eredità che va interamente a favore
dei discendenti legittimi del figlio premorto.
La funzione del riconoscimento è quella di rendere certa nei confronti del suo autore un
rapporto di filiazione con una determinata persona.
Il riconoscimento retroagisce fino alla nascita del figlio, salvo nei casi di conseguenze irretroattive
(acquisto del cognome).
Con il riconoscimento, i diritti e i doveri inerenti alla filiazione naturale sono gli stessi
previsti per la filiazione legittima.
Comunque, il figlio ha il diritto di ottenere l’accertamento giudiziale del rapporto di filiazione
anche contro il volere del genitore.
Impugnazioni del riconoscimento. La violazione dei requisiti formali del riconoscimento lo rende
nullo. Il riconoscimento può essere impugnato per:
● difetto di veridicità; esso è proponibile quando il riconoscimento non risponde alla verità o
anche quando l’autore del riconoscimento fosse consapevole della falsità della sua
dichiarazione.
Esso è imprescrittibile e può essere promosso dall’autore del riconoscimento, da colui che è
riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse. La non veridicità è provata con ogni mezzo.
● violenza; essa è proposta dall’autore del riconoscimento entro 1 anno dalla cessazione della
violenza e, se il riconoscimento è fatto da un minore, entro 1 anno dal compimento della
maggiore età;
● interdizione giudiziale; il riconoscimento può essere impugnato dal rappresentante
dell’interdetto e, dopo la revoca dell’interdizione, dall’autore del riconoscimento entro 1 anno
dalla revoca. Tale disciplina si applica in via estensiva anche all’impugnazione per difetto di
età dell’autore. I termini sopra elencati sono considerati di decadenza.
Accertamento giudiziale della paternità e della maternità del figlio naturale riconoscibile. Il figlio
può ottenere il riconoscimento di figlio naturale anche contro la volontà dei genitori, mediante
l’azione giudiziale di paternità o di maternità che, se accolta, produce gli stessi effetti del
riconoscimento.
L’accertamento giudiziale è escluso quando è vietato il riconoscimento dei figli incestuosi.
L’atto di nascita impedisce che si possa fare accertare giudizialmente un rapporto di
filiazione diverso, legittimo o naturale, formalmente attribuito; occorre prima rimuovere le
risultanze dell’atto di nascita che sono incompatibili con l’accertamento giudiziale richiesto.
Legittimato ad agire è il figlio e nei suoi riguardi l’azione è imprescrittibile; se egli morisse
prima di averla esercitata, i legittimati all’azione sono i suoi discendenti, che però possono
promuoverla entro 2 anni dalla morte.
Se il figlio è minore d’età, l’azione può essere promossa dal genitore che esercita la potestà o dal
tutore; essa, comunque, non può essere espletata senza il consenso del figlio 16enne.
Nell’ipotesi di interdizione del figlio, può agire il tutore previa autorizzazione del giudice.
Legittimato passivo è il presunto genitore o, se deceduto, i suoi eredi.
Quando il figlio è maggiorenne, la competenza è del tribunale ordinario del luogo di residenza del
genitore convenuto in giudizio; qualora il figlio fosse minorenne, è competente il tribunale per i
minorenni.
Una volta che l’azione è giudicata ammissibile, si apre la fase di merito dinanzi al tribunale:
con essa la paternità e la maternità possono essere provate con ogni mezzo.
La maternità è dimostrata provando l’identità di chi si pretende essere figlio; qualora la
funzione procreativa si sia avvalsa di donne diverse, la madre in senso giuridico è la donna che ha
partorito e non quella che ha donato l’ovulo.
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Più problematico è provare la paternità, perché nella maggior parte dei casi è in via
presuntiva; tuttavia maggiore sicurezza è offerta dalla prova ematologica e da quella genetica: il
genitore convenuto può rifiutarsi, ma il giudice può trarre argomenti di prova dall’ingiustificato
rifiuto.
Accertamento incidentale della filiazione irriconoscibile. Il figlio irriconoscibile non può agire
per far accertare giudizialmente la maternità o la paternità.
Tuttavia, in questa ipotesi, al rapporto di procreazione sono collegati una serie di diritti e doveri:
• il figlio naturale minorenne può agire per ottenere il mantenimento, l’educazione e
l’istruzione: l’azione è proposta nell’interesse del figlio da un curatore speciale nominato dal
giudice, su richiesta del p.m. o del genitore che esercita la potestà;
• se il figlio è maggiorenne e in stato di bisogno, può chiedere gli alimenti.
In entrambe le ipotesi occorre il previo giudizio di ammissibilità dell’azione; tale azione è di
riconoscimento e non di stato (e quindi non di accertamento), perché vengono riconosciuti dei
diritti limitati al figlio non riconoscibile.
L’accoglimento del giudizio di ammissibilità dell’azione implica che sia fornita
incidentalmente la prova del vincolo di derivazione biologica.
I figli non riconoscibili, tuttavia, hanno diritto, in sede successoria, ad un assegno vitalizio.
La legittimazione della filiazione naturale. La legittimazione consente al figlio naturale
riconosciuto la possibilità di conseguire la qualità di figlio legittimo; essa può conseguirsi
automaticamente al matrimonio dei genitori che lo hanno entrambi riconosciuto.
Gli effetti decorrono dal giorno del matrimonio se il rapporto di filiazione è accertato
anteriormente o al momento del matrimonio, altrimenti dal giorno in cui è avvenuto l’accertamento
formale della filiazione, ad es. per riconoscimento (legittimazione di diritto).
In presenza di cause che ostacolano la legittimazione del figlio per susseguente matrimonio
(perché ad esempio i genitori naturali rifiutano di sposarsi), la legittimazione può avvenire
giudizialmente per provvedimento del giudice, purché corrisponda all’interesse del figlio
(legittimazione giudiziale).
Per effettuare la legittimazione i genitori devono avere almeno 16 anni e la domanda di
legittimazione può essere fatta sia da uno che da entrambi i genitori; può essere fatta anche dal
figlio naturale dopo la morte del genitore, qualora questi abbia espresso tale volontà nel testamento
o in un atto pubblico.
La legittimazione produce effetti solo per il genitore al quale è stata concessa e tali effetti decorrono
dalla data del provvedimento; se la legittimazione è successiva alla morte del genitore, gli effetti
retroagiscono alla data della morte, solo se la domanda è stata presentata entro un anno da tale data.
Gli effetti del provvedimento di legittimazione possono essere caducati (eliminati)
dall’azione ordinaria di contestazione dello stato di figlio legittimo.
Inoltre, sia la legittimazione di diritto che quella giudiziale, possono essere impugnate per difetto
di veridicità.
Potestà dei genitori. La potestà, quando i genitori sono conviventi, spetta di regola ad entrambi.
Essi possono decidere disgiuntamente per gli atti di ordinaria amministrazione; per gli atti di
straordinaria amministrazione è richiesta non solo una decisione comune, ma anche la
preventiva autorizzazione del giudice tutelare.
Su determinati disaccordi il genitore può rivolgersi al giudice il quale, sentiti i genitori e il
figlio 14enne, indica le soluzioni più utili nell’interesse del figlio, oppure può scegliere tra i coniugi
quello che è più idoneo a curare l’interesse del figlio.
L’esercizio della potestà è attribuito a uno dei genitori quando:
• l’altro genitore è impedito;
• nei casi di affidamento a seguito di separazione, scioglimento o annullamento del matrimonio;
• nei casi di convivenza con il genitore naturale che lo ha riconosciuto.
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L’altro genitore ha il diritto e il dovere di vigilare sull’istruzione e l’educazione del figlio e
deve concorrere nelle decisioni di maggiore interesse: nei casi che egli reputa pregiudizievoli per il
figlio, può rivolgersi al giudice.
Il genitore ha anche un potere di rappresentanza conferito dalla legge per gli atti
patrimoniali, salvo quelli personalissimi o quelli a cui il minore è autorizzato a compiere
direttamente.
I genitori non si possono rendere acquirenti dei beni o dei diritti del figlio minore; gli atti compiuti
in violazione di tali disposizioni sono annullabili.
I genitori hanno l’usufrutto legale sui beni del figlio, ma questi beni sono caratterizzati da
un vincolo di destinazione, cioè sono destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione dei
figli. L’usufrutto legale non cessa con il passaggio a nuove nozze del genitore; inoltre non può
formare oggetto di alienazione, pegno o ipoteca.
In caso di cattiva amministrazione, il giudice può privare i genitori del tutto o in parte
dell’usufrutto legale.
La potestà si estingue:
• per compimento della maggiore età del figlio o per sua emancipazione;
• morte del figlio o del genitore;
• per effetto della pronunzia giudiziale di decadenza;
• condanna penale del genitore.
La potestà decade quando il genitore trascuri o abusi dei diritti e dei doveri, causando grave
pregiudizio al figlio; il giudice può allontanare il figlio dalla residenza familiare.
Cessate le cause di decadenza, il genitore può essere reintegrato nella potestà.
Nel caso la condotta dei genitori non sia dannosa al punto da determinare la decadenza, il
giudice adotta la sospensione, al fine di realizzare interventi a favore del minore: tali provvedimenti
sono sempre revocabili.
Doveri dei figli. Il dovere dei figli è quello di rispettare i genitori, affinché possano esercitare al
meglio la loro potestà; il figlio minore deve convivere con il genitore che esercita la potestà.
Altro dovere del figlio è quello di contribuire al mantenimento della famiglia in relazione
alle proprie possibilità e al proprio reddito, finché convive con essa.
Affidamento familiare. Può aversi affidamento quando il minore, nonostante gli interventi di
sostegno e di aiuto alla famiglie previsti dalla legge, sia temporaneamente privo di un ambiente
familiare idoneo ad assicurargli un’esistenza serena.
L’affidamento familiare costituisce, quindi, un intervento temporaneo di assistenza, che ha
fondamento nel principio di solidarietà e tende al reinserimento del minore nel nucleo originario.
L’affidamento è disposto dai servizi sociali locali, previo consenso dei genitori o del
genitore che esercita la potestà o del tutore; deve essere sentito anche il minore di dodici anni ed
anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento. Il
provvedimento è reso esecutivo dal giudice tutelare con decreto.
In mancanza del consenso dei genitori o del tutore, l’affidamento è disposto dal Tribunale per i
minorenni: tale provvedimento è disposto in situazioni di abuso e trascuratezza pregiudizievoli per
il figlio.
Nel provvedimento devono essere indicati i motivi per cui è stato disposto, la durata, nonché i tempi
e i modi di esercizio dei poteri riconosciuti agli affidatari; inoltre deve essere indicato il servizio
sociale locale al quale è affidata la responsabilità del programma di assistenza e il dovere di
vigilanza.
Gli affidatari devono provvedere al mantenimento, all’educazione e all’istruzione del
minore nel rispetto delle prescrizioni sia dei genitori che dell’autorità affidante; durante
l’affidamento devono essere agevolati, anche grazie al servizio sociale, i rapporti con la famiglia di
provenienza del minore e il suo rientro nella stessa.
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L’affidamento termina con un provvedimento della autorità che lo ha disposto, previo accertamento
che la situazione di difficoltà del minore e che i problemi familiari siano stati del tutto superati.
Tuttavia la potestà affidataria è servente rispetto a quella genitoria perché riguarda solo le
decisioni inerenti la convivenza i problemi della vita quotidiana.
Adozione legittimante. Quando il minore è privato in via definitiva ed irreversibile di un’adeguata
assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, si procede alla
sua adozione: egli diventa figlio legittimo degli adottanti, dei quali assume e trasmette il cognome e
cessano tutti i suoi rapporti con la famiglia di origine, salvo i divieti matrimoniali.
La funzione dell’adozione è quella di essere un rimedio a situazioni di abbandono particolarmente
gravi che possono avere ricadute significative sull’esistenza e sul futuro del minore.
Lo stato di abbandono del minore costituisce il presupposto, il fondamento e la ragione
della dichiarazione di adottabilità; esso è valutato non in riferimento alla posizione soggettiva dei
genitori, ma in relazione alla situazione oggettiva del fanciullo e al pregiudizio che egli riceve nello
sviluppo della sua personalità.
La situazione di abbandono non si configura solo con un comportamento omissivo, ma
anche con un comportamento commissivo consistente nell’inadempimento o nel non esatto
adempimento degli obblighi ricollegabili alla potestà genitoriale.
Il procedimento che decide sull’adottabilità è instaurato di ufficio dal giudice sulla base di una
denunzia della situazione di abbandono.
Il tribunale, sentiti i coniugi, i parenti entro il 4° grado e, in loro mancanza, il minore, decide se
sussistono i presupposti per l’adottabilità.
Qualora non sussistono tali presupposti, dichiara che non vi è luogo a provvedere; se sussistono,
dichiara lo stato di adottabilità, con sentenza impugnabile e revocabile.
Tale sentenza deve essere trascritta nell’apposito registro del tribunale competente.
I genitori del minore possono anche sospendere il procedimento di dichiarazione dello stato di
adottabilità, provvedendo al riconoscimento; se non si avvalgono di tale facoltà o se decorre il
termine di decadenza, il tribunale dichiara lo stato di adottabilità.
Lo stato di adottabilità è disposto mediante decreto motivato e può essere impugnato dai
soggetti destinatari della notificazione che sono i genitori, i parenti entro il 4° grado e il tutore.
Lo stato di adottabilità è una posizione giuridica provvisoria e cessa con l’adozione, con il
raggiungimento della maggiore età dell’adottato e con la revoca per gravi motivi e inadempimenti
dei genitori adottanti.
Possono essere adottanti i coniugi uniti in matrimonio o che abbiano vissuto in modo stabile
e continuativo per 3 anni dal matrimonio. Presupposti richiesti sono:
1. capacità di fornire assistenza materiale, spirituale e morale al minore assicurandogli educazione,
istruzione e mantenimento;
2. gli adottanti devono avere nei confronti dell’adottato un’età superiore di 18 fino ai 45 anni,
salvo diverse disposizioni.
Ai medesimi coniugi sono consentite più adozioni e sono facilitate le adozioni di fratelli e di
portatori di handicap.
La domanda di adozione è presentata al Tribunale per i minorenni, che dopo una ricerca
oculata in base ai presupposti sopra elencati, sceglie la coppia più idonea e dispone, con ordinanza,
l’affidamento preadottivo; se in seguito sorgono difficoltà di convivenza non superabili, il
tribunale dispone la revoca dell’affidamento.
L’affidamento preadottivo è la seconda fase del procedimento di adozione: è disposto
mediante un decreto motivato e trascritto nell’apposito registro del tribunale competente.
Durante questa fase viene eseguito un rigido e attento controllo sull’operato dei genitori adottanti.
Dopo 1 anno, se l’affidamento preadottivo ha dato buon esito, il tribunale dispone
l’adozione con sentenza impugnabile. Il tribunale, per emanare il decreto di adozione, sente
preventivamente i coniugi, l’adottato che ha compiuto 14 anni (il quale deve manifestare espresso
consenso), il tutore e i servizi sociali locali incaricati della vigilanza.
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Tale decreto può essere impugnato entro 30 giorni dalla comunicazione dagli adottanti e dal tutore.
Il provvedimento definitivo di adozione deve essere trascritto entro 10 giorni dalla comunicazione
nell’apposito registro del tribunale competente e deve essere trasmesso all’ufficiale di stato civile
che provvederà alla sua annotazione a margine dell’atto di nascita dell’adottato.
L’adottato acquista il cognome degli adottanti e diviene il figlio legittimo.
All’età di 25 anni egli può chiedere informazioni circa le proprie origini per conoscere il vecchio
cognome e i genitori biologici; il termine di 25 anni è spostato a 18 nei casi previsti dalla legge.
Adozione in fattispecie particolari. In circostanze particolari, l’adozione legittimante non è
esplicabile anche in presenza dello stato di adottabilità: esempio è il minore, orfano di padre e
madre, che può essere adottato da un parente entro il 6° grado.
L’adozione particolare è preferita a quella legittimante in quanto consente al fanciullo di rimanere
nella famiglia parentale; è consentita sia ad una coppia di coniugi uniti in matrimonio, sia alla
persona singola coniugata o separata.
L’adottato acquista il cognome dell’adottante e i suoi (del minore) diritti e doveri sussistono solo
nei confronti dei genitori adottanti.
La potestà adottiva, tuttavia, è differente dalla potestà genitoria, in quanto gli adottanti
hanno il potere di rappresentanza legale e di amministrazione del patrimonio del minore, ma non
l’usufrutto legale.
Obbligo degli adottanti in sede di amministrazione del patrimonio del minore è quello di redigere
l’inventario dei beni dell’adottato e trasmetterlo entro 1 mese dall’adozione al giudice tutelare, pena
la perdita del potere di amministrazione.
Ai fini dell’adozione è richiesto il consenso degli adottanti, dell’adottato quattordicenne o,
in caso di età inferiore ai 14 anni, del tutore e dei genitori dell’adottato.
Gli obblighi degli adottanti sono quelli di mantenimento, educazione ed istruzione del fanciullo.
Adozione di persone maggiori di età. L’adozione di persone maggiori di età ha la funzione di
dare discendenti legittimi all’adottante qualora questi non ne abbia.
L’adottato prende il cognome dell’adottante, ma non estingue il rapporto con la sua famiglia
d’origine; tale adozione è permessa anche a persone che abbiano discendenti legittimi o legittimati,
previo loro consenso. Presupposti importanti sono:
• il consenso dell’adottante e dell’adottando;
• l’assenso dei genitori dell’adottando e del coniugi dell’adottante e dell’adottando;
• l’assenso dei discendenti legittimi e legittimati dell’adottante;
• età dell’adottante maggiore di 35 anni e superiore a quella dell’adottato di 18.
La domanda di adozione dell’adottante è presentata al tribunale competente che, assunte
le opportune informazioni e sentito il p.m., emana un decreto motivato.
Il decreto di adozione deve essere poi trascritto dal cancelliere del tribunale competente su un
apposito registro; successivamente viene comunicato all’ufficiale di stato civile che provvederà alla
annotazione di tale provvedimento al margine dell’atto di nascita dell’adottato.
Gli effetti dell’adozione si producono dalla data del decreto che può essere impugnato entro 30 gg.
dalla comunicazione; l’adottante e l’adottato possono revocare il loro consenso prima
dell’emanazione del decreto.
L’adozione è disposta con sentenza impugnabile del tribunale competente; l’adottato aggiunge il
cognome dell’adottante al suo anteponendolo; se gli adottanti sono dei coniugi, l’adottato prende il
cognome del marito. L’adottato conserva i diritti e i doveri verso la sua famiglia d’origine.
L’adottato succede mortis causa all’adottante nei suoi diritti, al pari dei figli legittimi e dei
legittimati dell’adottante; viceversa l’adozione non attribuisce all’adottante la possibilità di
succedere all’adottato. L’adozione di persona maggiori d’età può essere revocata per indegnità sia
dell’adottato che dell’adottante. È vietato ai genitori adottare i loro figli nati fuori dal matrimonio.
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SUCCESSIONI
1. Nozione, fondamento e oggetto del diritto ereditario. La successione determina il subingresso di
un soggetto (successore o avente causa) ad un altro soggetto (autore o dante causa) nella titolarità
di una o più situazioni giuridiche attive o passive, o di fatto.
La successione mortis causa è necessariamente a titolo universale, dove sono trasferite la totalità
delle situazioni attive o passive.
La successione inter vivos, è a titolo particolare, dove sono trasmesse singole situazioni (es:
cessione del contratto).
Il fondamento della successione è quello di impedire che un patrimonio resti privo di
titolare: infatti, il subingresso del successore retroagisce fino alla morte de cuius, perché se così
non fosse, i beni diventerebbero una res nullius e quindi proprietà dello Stato.
La legge tutela la famiglia in materia di successione:
 se l'autore non ha stilato il testamento, l'eredità si presume destinata alla famiglia in senso
lato (parenti entro il 6° grado);
 se ha fatto il testamento, la famiglia in senso stretto (coniuge, discendenti e ascendenti) ha,
comunque, diritto ad una parte del patrimonio, anche contro la volontà dell'autore.
Se mancano i soggetti legittimati alla successione, lo Stato può succedere all'autore; comunque,
di regola, lo Stato effettua prelievi fiscali sull'eredità.
Oggetto delle successioni mortis causa sono le situazioni a contenuto patrimoniale:
 sono trasmissibili gli atti precontrattuali irrevocabili (es: proposta irrevocabile) e gli atti posti in
essere dall'imprenditore nell'esercizio dell'impresa.
 Sono non trasmissibili i diritti legati all'identità della persona del titolare, tra cui: i diritti della
personalità; il diritto morale d'autore; i diritti reali di godimento connessi alla vita del titolare
(usufrutto, uso e abitazione); l'assegno di mantenimento; la rendita vitalizia; i rapporti intuitu
personae (appalto, mandato, procura).
2. Successione per testamento e per legge, a titolo universale e a titolo particolare. La fonte della
successione mortis causa è necessariamente la legge o il testamento.
Le situazioni trasmissibili non disciplinate da nessun testamento sono regolate da norme
aventi funzione suppletiva, che determinano la successione a titolo universale del coniuge e dei
parenti, o dello Stato.
Il testamento è l'unico atto con cui si dispone dei propri beni dopo la morte: può
comprendere disposizioni di successione universale o particolare o a contenuto non patrimoniale.
Le disposizioni a titolo particolare determinano la successione di una o più determinate
situazioni patrimoniali e colui che succede è qualificato legatario: questi diviene titolare mortis
causa di una situazione già facente capo al de cuius, o a lui riconducibile, ma senza succedergli
nell'asse ereditario.
Le disposizioni a titolo universale determinano la successione della totalità delle situazioni
che hanno ad oggetto l'asse ereditario o una quota di esso (erede ex certis rebus) e colui che
succede è qualificato erede.
Tale disposizione si estende a rapporti facenti capo al defunto ancor prima che questi non ne fosse a
conoscenza; l'erede inoltre risponde illimitatamente per i debiti e i pesi ereditari.
4. Divieto dei patti successori. Il legislatore ha disciplinato il divieto dei patti successori; infatti, è
vietato il patto successorio istitutivo, ossia l'accordo tra l'ereditando (colui che è titolare dei beni) e
il futuro chiamato all'eredità con cui il primo si obbliga a chiamare l'altro, perché tale patto
contrasta con l'assoluta libertà testamentaria. Sono NULLI:
1. il patto dispositivo, con cui il disponente (de cuius) trasferisce ad un terzo l'eredità che non ha
ancora conseguito, essendo ancora in vita il de cuius;
200
2. il negozio rinunziativo, che ha ad oggetto la rinunzia dei diritti derivanti da successione non
ancora aperta;
3. la donatio mortis causa, perché rappresenta un patto successorio istitutivo; sono valide, invece,
le donazioni dove la morte del donante è termine iniziale (donatio cum moriar) o condizione
sospensiva (donatio si premoriar);
4. il mandato mortis causa, con cui il mandante, a mezzo del mandatario, effettua un'attribuzione
d'eredità allo stesso mandatario o a terzi;
5. il mandato post mortem, con cui il mandante conferisce al mandatario l'incarico di trasmettere
ad altri, dopo la morte del mandante, i beni di quest'ultimo.
È valido solo il mandato post mortem exequendum, con cui il mandatario si obbliga nei confronti
del de cuius a ritrasferire, dopo la morte del mandante, il bene che gli è stato trasferito prima della
morte dell'autore-mandante.
Valida è la vendita dei beni dell'ereditando effettuata dal designato all'eredità, considerata una
vendita di cosa altrui, anche se l’efficacia traslativa è sospesa fino alla morte del de cuius.
5. Apertura della successione ed eredità giacente. La morte è la cessazione irreversibile di tutte le
funzioni dell'encefalo; è l'evento giuridico che determina l'apertura della successione nel momento
stesso in cui si verifica e nel luogo dell'ultimo domicilio del defunto.
Il procedimento successorio inizia con la morte del de cuius e determina l'acquisto o
dell'eredità o del legato: è composto da 3 fasi: vocazione, delazione e acquisto.
Nella s. a titolo particolare le 3 fasi coincidono; in quella a titolo universale non coincidono
temporalmente e quindi sono più facilmente identificabili: all’apertura della successione si ha
necessariamente la vacanza o la giacenza dell'eredità.
La vacanza dell’eredità si caratterizza per l'incertezza sull'acquisto a favore del chiamato, o perché
questi non ha ancora accettato, o perché la vocazione è condizionata, indiretta o differita.
Nella prima ipotesi l’incertezza può cessare con l'actio interrogatoria, con la quale chiunque
abbia interesse può chiedere al giudice la fissazione di un termine entro il quale il chiamato deve
dichiarare se accetta l'eredità.
Se il chiamato ha il possesso anche di un solo bene ereditario è considerato erede puro e
semplice, ma dovrà redigere l'inventario entro tre mesi dall'apertura della successione e nei 40
giorni successivi al suo compimento dovrà dichiarare di accettare con beneficio d'inventario.
Se non possiede nessun bene ereditario, viene nominato un curatore dell'eredità giacente, il
quale prima provvede alla redazione dell'inventario e poi cura il patrimonio con scopo conservativo:
- se l'eredità viene accettata, il curatore interrompe l'attività e rende il conto dell'amministrazione;
- se i soggetti successibili mancano o non accettano l'eredità, subentra lo Stato quale erede
residuale e necessario e l'acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione.
6. Vocazione, delazione e acquisto. La vocazione (il titolo in base a cui si succede) è la chiamata
all'eredità del/i successore/i effettuata con il testamento o, in mancanza, con la legge: se l'autore ha
redatto il testamento, il successore è già designato anche prima dell'apertura della successione; se
non è stato stilato il testamento, la designazione dei successori avviene per legge.
1) La vocazione si verifica nel momento dell'apertura della successione: con essa nasce in
capo al designato il diritto alla successione.
Controversa è l'ammissibilità della clausola di diseredazione, con cui il testatore esclude dalla
successione un erede legittimo: è ammissibile però la clausola di diseredazione implicita (es:
istituisco mio nipote Tizio come mio erede solo se conseguirà la laurea – c. sospensiva potestativa).
I vocati si distinguono in chiamato di grado poziore, ossia chiamato di 1° grado che ha
diritto concreto ed immediato all'acquisto del diritto successorio e chiamato di grado ulteriore.
2) La delazione è l'attribuzione al primo vocato del diritto alla successione e ha ad oggetto
l'eredità (titolo universale) o il legato (titolo particolare).
Nella maggior parte dei casi delazione e vocazione coincidono nel momento dell'apertura della
successione nella persona del primo chiamato; in alcuni casi però non coincidono e si può avere:
201
-
delazione condizionale, quando l’istituzione del chiamato all'eredità è sottoposta a condizione
sospensiva (es: istituzione del nascituro);
delazione successiva, quando è consequenziale ad una delazione immediata (è il fenomeno che
si ha nella sostituzione fedecommissaria);
delazione indiretta, quando si succede ex lege per rappresentazione del delato che non vuole o
non può accettare.
3) L’ultima fase è l'acquisto dell'eredità da parte del successore: l'efficacia retroattiva o
istantanea dell'acquisto fa subentrare il successore al defunto senza che la morte di questi determini
la mancanza del titolare dei beni.
7. Capacità di succedere e indegnità. La capacità di succedere (che prescinde dalla capacità
d’agire) può essere attribuita a chi all'apertura della successione sia già nato vivo, a chi sia soltanto
concepito o ritenuto tale e anche al nascituro non concepito purché figlio di persona viva al
momento dell'apertura della successione.
La commorienza e la scomparsa del chiamato all'eredità determina incapacità a succedere in
quanto è impossibile fornire la prova della sopravvivenza del successore al de cuius.
Le persone fisiche possono succedere sia per testamento che per legge; le persone giuridiche
invece possono essere chiamate soltanto per testamento e la loro accettazione deve avvenire
necessariamente con beneficio di inventario.
Per gli enti non riconosciuti, l'accettazione è subordinata al riconoscimento della personalità
giuridica, che deve avvenire entro 1 anno dall'apertura della successione, pena la decadenza del
diritto.
L'indegnità determina l'esclusione dalla successione e può essere decisa con sentenza
costitutiva contro chi abbia tenuto volontariamente comportamenti contro la persona del de cuius,
contro il suo patrimonio, contro i suoi congiunti, contro il testamento o contro la libertà
testamentaria. L'indegnità è:
- personale, perché il rapporto non si estende ai discendenti dell'indegno;
- relativa, perché opera solo tra il de cuius e quel determinato successore;
- retroattiva, perché l'esclusione dell'indegno determina la delazione del chiamato ulteriore, ossia
del successivo vocato.
Se l'indegno ha in possesso un bene oggetto della successione ha l'obbligo di restituirlo
insieme con i frutti maturati dopo l'apertura della successione.
8. Rappresentazione. Qualora il primo chiamato-delato non possa o non voglia conseguire l'eredità
o il legato, gli subentrano i c.d. rappresentanti, cioè i suoi discendenti legittimi o legittimati,
naturali riconosciuti o dichiarati e gli adottivi.
I rappresentanti succedono al de cuius non in qualità di eredi del rappresentato, ma iure proprio.
I presupposti sono:
1. che il chiamato-delato non possa o non voglia conseguire l'eredità o il legato, ad esempio per
indegnità o rinunzia alla successione.
Si può avere rappresentazione anche quando il chiamato-delato perde il diritto di accettare
l'eredità per scadenza del termine di decadenza fissato dal giudice;
2. che tra il de cuius e il rappresentato vi sia uno stretto rapporto di parentela; ad esempio il
rappresentato deve essere figlio legittimo o legittimato del de cuius.
3. che il rappresentante abbia la capacità di succedere e pertanto deve essere, al momento
dell'apertura della successione, nato o almeno concepito: egli succede al de cuius nella stessa
posizione in cui sarebbe successo il rappresentato.
Nella rappresentazione hanno rilievo solo i rapporti tra rappresentante e il de cuius.
9. Diritto di accettare l'eredità. Il diritto di accettare l'eredità spetta al solo chiamato-delato per
testamento o per legge: egli può rinunciare o accettare l'eredità.
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Se il delato muore dopo l'esercizio del diritto, la sua scelta non preclude il diritto esercitabile
dal suo successore: se il delato aveva accettato, al suo successore spetta non solo l'eredità trasmessa
dal de cuius, ma anche l'eredità del delato; se il delato aveva rinunziato all'eredità del de cuius, il
suo erede può anche accettarla, salvo che non sia stata già accettata da chiamati di grado ulteriore.
Se invece il delato non vuole accettare l'eredità o non può perché morto prima del de cuius,
potrebbe verificarsi la rappresentazione a favore dei suoi discendenti in linea retta, salvo che il de
cuius non abbia previsto le sostituzioni.
Se il delato muore prima dell'esercizio e dopo l’apertura della successione, il diritto di
accettare l'eredità del de cuius è trasmesso insieme con l'eredità del delato ai soggetti chiamati per
testamento (redatto dal delato) o per legge.
Se l'erede del trasmittente accetta l'eredità di questi, può accettare o rifiutare l'eredità dell'originario
de cuius; se non accetta l’eredità, non può nemmeno accettare l'eredità dell'originario de cuius.
10. Accettazione dell'eredità. L'acquisto dell'eredità può avvenire con accettazione espressa,
tacita o presunta; quella espressa e quella tacita sono negozi irrevocabili, unilaterali e non recettizi.
1) ESPRESSA quando il delato assume il titolo di erede o dichiari di accettare l'eredità; può essere:
 pura e semplice, se è fatta con dichiarazione in atto pubblico o in scrittura privata;
 con il beneficio d'inventario, quando il delato fa la dichiarazione davanti al notaio o al
cancelliere del tribunale competente.
2) TACITA quando il delato compie un atto che presuppone la volontà di accettare l'eredità e tale
atto poteva essere effettuato solo se si era in possesso della qualità di erede (es: atti di disposizione
dei beni ereditari); può essere soltanto pura e semplice.
3) PRESUNTA quando il delato diventa erede per aver posseduto beni ereditari per un determinato
periodo di tempo senza aver compiuto il procedimento di accettazione con beneficio d’inventario.
All'accettazione non si possono apporre termini o condizioni e non può essere parziale.
L'accettazione non è un atto personalissimo in quanto può essere fatta anche dal
rappresentante legale o dal rappresentante volontario muniti di autorizzazione.
Gli effetti dell'accettazione pura e semplice sono:

la confusione tra il patrimonio del defunto e quello dell'erede;

la responsabilità illimitata dell'erede per i debiti e per i pesi ereditari, cioè risponde anche se
superano il patrimonio ereditato.
Tuttavia l'erede può accettare l'eredità col beneficio d'inventario escludendo così la confusione dei
patrimoni e limitando la sua responsabilità.
Gli effetti dell'accettazione retroagiscono fino al momento dell'apertura della successione e, quindi,
non vi è mancanza della titolarità dei beni ereditari: es. è il possesso che dal de cuius continua
nell'erede (art. 1146).
La trascrizione è necessaria se l'accettazione ha la forma dell'atto pubblico o della scrittura
privata; è facoltativa se l'accettazione è tacita.
Per esercitare il diritto di accettazione occorre la capacità di agire, intesa sia come generale
capacità d’agire, sia come capacità naturale; i soggetti non pienamente capaci di agire sono
rappresentati dai curatori o dai rappresentanti legali e l'accettazione deve essere necessariamente
con il beneficio d'inventario.
L'accettazione espressa e quella tacita possono essere annullate se risultano viziate; possono
anche essere dichiarate invalide se vi è errore ostativo.
Se viene scoperto un nuovo testamento dopo che è avvenuta l'accettazione, l'erede obbligato a
soddisfare i legati scritti nel nuovo testamento nei limiti dell'eredità ricevuta.
Il diritto di accettare l'eredità si prescrive in 10 anni salvo i casi di delazione sottoposta a
condizione sospensiva e nel caso di avvenuta accettazione del chiamato.
Se il delato-chiamato accetta con il beneficio d'inventario e non compie l'inventario nei successivi 3
mesi, è considerato erede semplice e puro; se, invece, effettua l'inventario senza accettare l'eredità
entro i 40 giorni successivi, il diritto di accettare decade.
203
La funzione dell'accettazione con beneficio d'inventario è di evitare la confusione del
patrimonio ereditario con quello dell'erede, limitando la responsabilità dell'erede.
Il beneficio d'inventario è redatto con dichiarazione ricevuta dal notaio o dal cancelliere del
tribunale competente; può cessare per rinunzia o per decadenza e, in questi casi, si produce
l'accettazione pura e semplice con la responsabilità illimitata per l'erede dei debiti del defunto.
Affinché il beneficio d'inventario perduri nel tempo devono essere rispettati le forme, i termini e le
modalità di liquidazione dell'eredità.
Liquidazione: se l'erede non ha ricevuto opposizione dai creditori e dai legatari, può
assolvere i debiti e i legati man mano che sia richiesto l'adempimento; tuttavia, l'erede deve
rispettare le eventuali cause di prelazione.
Se vi è opposizione entro 1 mese dei creditori e dei legatari, opera la liquidazione
concorsuale: saranno pagati prima i creditori privilegiati, poi quelli chirografi e infine i legatari;
tutti questi, che sono i creditori del de cuius, prevalgono sui creditori dell'erede, che si
soddisferanno sul patrimonio dell'erede solo alla fine.
I beni residui della liquidazione non sono più considerati ereditari ma beni personali dell'erede e si
confondono nel suo patrimonio.
Rilascio: l'erede può liberarsi dall'onere della liquidazione rilasciando i beni ai creditori e ai
legatari: opererà, comunque, una liquidazione controllata da un curatore nominato dal tribunale.
Anche i creditori e i legatari possono richiedere la separazione dei beni del defunto,
andando però a specificare i beni che soddisferanno determinati crediti; se ci sono conflitti fra i
creditori-legatari separatisti e quelli non separatisti, prevalgono i separatisti solo se il patrimonio è
insufficiente alla soddisfazione di tutti.
Anche la separazione evita la confusione dei patrimoni dell’erede e del cuius: una volta esercitata
può venir meno solo con la rinunzia di chi se ne è avvalso.
11. Rinunzia all'eredità. La rinunzia è un negozio unilaterale non recettizio espresso e formale
con dichiarazione ricevuta dal notaio o dal cancelliere: comporta la dismissione abdicativa del
diritto di accettare l'eredità, senza corrispettivo.
La rinunzia effettuata dietro corrispettivo o a favore di uno dei chiamati genera l'effetto contrario a
quello voluto, ossia comporta l'accettazione dell'eredità del rinunziante.
La rinunzia è nulla se sottoposta a termine, condizione o se è parziale; può essere effettuata
validamente solo dal titolare del diritto di accettare l'eredità.
È necessario che il chiamato sia capace di agire: l’incapace deve essere rappresentato o dal
tutore o dai genitori che esercitano la potestà; se parzialmente capace (inabilitato), deve essere
rappresentato dal curatore.
La rinunzia all'eredità non si estende al legato e alle donazioni, in quanto il rinunziante può
richiedere il legato e le donazioni a lui fatte dal de cuius.
La pubblicità della rinunzia va effettuata con l'iscrizione nel registro delle successioni
presso il tribunale del luogo dell'apertura della successione: il diritto alla rinunzia si prescrive in 10
anni.
La rinunzia ha efficacia retroattiva perché il rinunziante si considera come mai chiamato
all'eredità; se la chiamata di 1° grado è testamentaria, al rinunziante subentra il sostituto ordinario
previsto dal testatore o il discendente del rinunziante per rappresentazione; nel caso non ci sia né
rappresentazione né accrescimento, i successori sono nominati dalla legge.
La rinunzia non è un atto definitivo, in quanto il rinunziante può sempre accettare l'eredità
purché l'accettazione non sia stata già effettuata dal chiamato ulteriore o sia già avvenuto
accrescimento.
La rinunzia è annullabile se viziata da dolo o da violenza; l'errore-vizio è irrilevante, mentre
l'errore ostativo è causa di nullità.
La rinunzia è nulla anche quando è effettuata prima dell'apertura della successione (divieto dei patti
successori) e non può impedire l'acquisto dell'eredità nel caso di accettazione presunta.
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I creditori del rinunziante possono esercitare l'azione surrogatoria con cui sostituiscono la
rinunzia con l'accettazione, per poi soddisfarsi sui beni ereditari del debitore-rinunziante, fino al
soddisfacimento del credito.
205
12. Petizione di eredità ed eredità apparente. L'erede può esperire l'azione di petizione di eredità,
con cui ottiene il riconoscimento della qualità di erede erga omnes e la restituzione dei beni
ereditari posseduti da altri soggetti. L'azione di petizione d'eredità è:
 universale e non particolare, in quanto mira alla restituzione di tutti i beni ereditati;
 assoluta, perché l'attore può rivolgersi contro chiunque possieda i beni ereditari.
Legittimazione attiva: l'azione spetta all'erede, al chiamato-delato, all'acquirente dell'eredità
e, in via surrogatoria, ai creditori e al curatore fallimentare; legittimazione passiva: l'azione è
rivolta verso i possessori o i detentori di beni ereditari, con o senza titolo di erede.
L'azione è imprescrittibile, salvo nei casi di usucapione; comporta il riconoscimento del
convenuto come possessore dei beni ereditari, al fine di applicare le norme sul possesso che sono
la restituzione dei frutti, delle spese e dei miglioramenti apportati sulla cosa dal possessore.
Rilevante è la buona fede del possessore, infatti solo in questo caso dovrà restituire i frutti
dei beni posseduti, con decorrenza dal momento della domanda giudiziale; se è in malafede la
restituzione decorrerà dal giorno in cui ha cominciato a goderne.
L'erede apparente è colui che, non essendo erede, si comporta in un modo tale da risultare
obiettivamente verso i terzi come il vero erede; affinché il terzo venga tutelato, è necessario:

che abbia acquistato il bene ereditario con un contratto a titolo oneroso;

che fosse in buona fede, cioè ignorava che il dante causa non fosse il legittimo erede;

l'anteriorità della trascrizione dell'acquisto a titolo di erede e dell'acquisto dall'erede
apparente nei confronti dell'acquisto da parte dell'erede effettivo, oppure della domanda
giudiziale proposta contro l'erede apparente nell'ipotesi in cui l'acquisto del terzo riguardi
beni immobili o mobili registrati.
13. Successione cosiddetta necessaria e categorie di legittimari. La successione necessaria
rappresenta un limite non solo per la successione legittima ma anche per quella testamentaria.
La presenza dei legittimari (o riservatari) impone al de cuius di riservare una quota (c.d.
indisponibile) da attribuire a costoro mediante donazione o testamento: se alla morte del de cuius, si
accerta che egli abbia pretermesso (volontariamente non nominato), o leso i legittimari, questi
potranno esperire l'azione di riduzione delle disposizioni lesive, determinando l'inefficacia degli
atti a titolo di liberalità posti in essere dal de cuius.
Il legittimario può impugnare tali atti solo dopo l'apertura della successione; non sono
impugnabili gli atti che il de cuius ha fatto quando era ancora in vita.
La quota riservata varia da un minimo di ¼ ad un massimo di 2/3: i legittimari sono:
 il coniuge (che è la categoria più tutelata) a cui spetta la metà del patrimonio, 1/3 se c'è un
figlio, o 1/4 se ci sono 2 o più figli;
 il coniuge separato, a cui spetta un assegno vitalizio calcolato sugli alimenti dovuti;
 i figli legittimi e naturali, a cui spetta da un minimo di ½ ad un massimo di 2/3 del patrimonio
se non concorrono con altre categorie di legittimari. Unica differenza fra figli legittimi e
naturali è il diritto di commutazione per i primi: consiste nella possibilità di soddisfare in danaro
o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano.
 gli ascendenti legittimi, a cui spetta 1/3 se manca il coniuge, ¼ se c'è il coniuge; la loro
partecipazione è esclusa se ci sono i figli.
14. Principio di intangibilità della legittima. La legittima è quella parte del patrimonio di cui non
si può disporre per testamento perché riservata agli eredi legittimari.
L'erede legittimario, all'apertura della successione, può procedere da solo, o con gli altri legittimari,
alla riunione fittizia, al fine di valutare e accertare il valore dell'asse ereditario netto.
La legittima è tutelata in senso quantitativo, cioè sulla quantità indisponibile; è caratterizzata
dall'intangibilità, intesa nel senso che:
- il testatore non può gravare la quota con pesi o condizioni;
- il de cuius o altri soggetti non possono liberamente disporre della legittima, salvo nelle ipotesi
della cautela sociniana e del legato in sostituzione di legittima.
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Cautela sociniana – quando il testatore dispone di un usufrutto o di una rendita vitalizia a
favore di altri (legatario) il cui reddito eccede quello della quota disponibile, i legittimari a cui è
stata assegnata la nuda proprietà della disponibile, in quanto lesi, possono scegliere o di eseguire
tale disposizione o di abbandonare la nuda proprietà (in quest’ultimo caso il legatario non acquista
la qualità di erede).
La cautela sociniana (art. 550) è quindi una deroga al principio d'intangibilità della legittima
perché quest'ultimo subisce una compressione sotto il profilo qualitativo.
15. Segue. Legato in “sostituzione” di legittima. Il legato in sostituzione di legittima ha la
funzione di evitare il frazionamento di cespiti ereditari (fonti di guadagno), attribuendoli a
determinati legittimari ed escludendo la comunione ereditaria.
Il de cuius quindi dispone che a un determinato legittimario sia attribuito un legato in
sostituzione della legittima: il testatore può attribuire per intero l’azienda a quel legittimario che, a
suo giudizio, è in grado di gestirla.
Il legittimario in questione può scegliere tra l'acquisto o la rinunzia del legato:
- se sceglie l’acquisto del legato, perde la sua qualifica di erede, perde il diritto di chiedere la
riduzione per avere l'intera legittima; può chiedere il supplemento se il legato ha un valore
inferiore alla legittima solo, ma solo se tale diritto sia stato previsto dal testatore;
- se rinuncia al legato, risulta legittimario pretermesso e può esperire l'azione di riduzione.
Questo tipo di legato non va confuso con il legato in conto di legittima, perché questo è
considerato come una donazione o una disposizione testamentaria.
Il legittimario può anche rinunziare all'eredità richiedendo, comunque, i legati e le
donazioni che gli spettano in base a disposizioni testamentarie.
16. Tutela: azioni di riduzione e di restituzione. Dopo la riunione fittizia, il legittimario leso o
pretermesso può esercitare l'azione di riduzione, che si divide in:
- azione di riduzione vera e propria, con cui i legittimari rendono inefficaci le disposizioni del
de cuius che ledono i loro diritti;
- azione di restituzione, con cui l'attore recupera i beni ereditari posseduti da eredi apparenti o
altri soggetti.
La riunione fittizia determina il valore netto dell'asse ereditario, mediante:
1. la formazione dell'attivo relitto, comprendendo tutti i beni e i diritti appartenenti al de cuius al
momento dell'apertura della successione;
2. la determinazione del passivo e sua sottrazione dal relitto: per passivo si intende l'insieme
dei debiti trasmissibili del de cuius e liquidati alla sua morte.
Se il passivo supera il relitto, il legittimario pretermesso o leso può soddisfarsi sulle donazioni,
mentre il creditore del de cuius può soddisfarsi sui resti del relitto e sul patrimonio dell'erede
puro e semplice o sul patrimonio dell'erede che ha accettato l'eredità senza il beneficio
d'inventario;
3. la determinazione dell'attivo donato; valutazione di tutti i beni e diritti attribuiti dal de cuius
ad altri.
Una volta determinata la quota riservata a ciascun legittimario, si procede alla riduzione
delle disposizioni lesive della legittima nell'ordine fissato dalla legge: 1 – sono ridotte le quote dei
successori nominati dalla legge; 2 – sono ridotte le disposizioni testamentarie; 3 – infine, se i
legittimari non sono stati ancora soddisfatti, vengono ridotte le donazioni lesive della quota
indisponibile cominciando dall'ultima che ha provocato la lesione e risalendo a quelle precedenti.
Se la separazione riguarda beni immobili non separabili e il legittimario ha nell’immobile
un’eccedenza maggiore del quarto della quota disponibile, l’immobile si deve lasciare per intero
nell’eredità, salvo il diritto di conseguire il valore della quota disponibile.
Se l’eccedenza non supera il quarto, il legittimario può ritenere tutto l’immobile
compensando in danaro i legittimari.
207
I soggetti legittimati ad esercitare l'azione di riduzione sono:
 il legittimario leso;
 l'erede del legittimario, qualora gli subentri;
 l'avente causa del legittimario, ad esempio il compratore dell'eredità;
 il legittimario pretermesso dal testatore.
L'azione è soggetta alla prescrizione ordinaria di 10 anni, decorrente dall'apertura della
successione.
Legittimazione passiva: l'azione di riduzione può essere promossa soltanto contro i soggetti
che beneficiano della quota indisponibile e contro i loro eredi; l'azione di restituzione è promossa
contro la totalità dei soggetti che detengono o posseggono i beni ereditari.
I presupposti per l'azione di restituzione sono:
1. l'accettazione dell'eredità con beneficio d'inventario, al fine di assicurare la tutela dei legatari
e donatari estranei;
2. che il legittimario deduca dalla legittima il valore di quanto abbia ricevuto a titolo di liberalità
dal de cuius, salvo che questi lo abbia dispensato.
In conclusione:
- con l'azione di riduzione, il legittimario-attore riconosce e accerta un suo diritto sui beni
attribuiti dal de cuius ai beneficiari delle disposizioni lesive;
- nel caso i beneficiari abbiano donato o alienato i beni ereditati a terzi, il legittimario-attore
dovrà esperire l'azione di restituzione, che mira alla reintegrazione dei beni ereditari.
Il legittimario – attore ha l'onere di promuovere l'escussione preventiva dei beni del donatario o del
beneficiario; i terzi subacquirenti possono, comunque, liberarsi dall'onere di restituzione
corrispondendo al legittimario leso l'equivalente in denaro.
17. Nozione e fondamento. La successione legittima è la successione per volontà di legge; i
presupposti sono:
 morte del de cuius senza testamento;
 l'esistenza di un testamento privo di disposizioni patrimoniali, o nullo, o annullato, o revocato;
 esistenza di un testamento che dispone solo per alcuni beni del de cuius: in questo caso, si la
coesistenza di successione testamentaria e legittima.
La successione necessaria è diversa perché si applica sia in presenza che in mancanza di
testamento e stabilisce le persone a cui dovrà essere necessariamente attribuita una quota del
patrimonio anche contro il testamento.
La successione legittima è regolata dal principio generale “il parente prossimo esclude il
remoto”: comunque non ha luogo tra i parenti oltre il 6° grado.
Le categorie di successibili ex lege (secondo legge) sono:
 coniuge – categoria particolare perché è l’unica formata da un solo soggetto che non è neanche
parente del de cuius.
 coniuge separato o divorziato;
 i figli legittimi e naturali – concorrono in parti uguali;
 i figli da adozione legittimante (adozione di < di età) – concorrono alla successione in parti
uguali ai figli legittimi e naturali. Se il minore ha acquistato lo stato di figlio legittimo, succede
non solo ai genitori adottivi, ma anche ai legittimi;
 i figli da adozione ordinaria (adozione di > di età) – questi succede solo al genitore o ai
genitori adottanti e non anche ai loro parenti;
 i figli non riconoscibili e non riconosciuti (ma riconoscibili) – ai figli non riconoscibili e non
riconosciuti la legge attribuisce un assegno vitalizio calcolato sulla quota che avrebbero
percepito se fossero stati riconosciuti;
 gli ascendenti legittimi – la successione degli ascendenti legittimi avviene per capi, ossia
secondo il numero dei partecipanti, se si tratta dei genitori del de cuius e per stirpi, ossia
secondo le singole discendenze, se si tratta di ulteriori ascendenti.
208

genitore naturale – al figlio naturale che non lasci prole né coniuge, succede il genitore
naturale; se il de cuius risulta figlio naturale di entrambi i genitori essi concorrono tra loro per
metà ciascuno.
 fratelli e sorelle germani (nati dagli stessi genitori) – non succedono al de cuius qualora vi sia
uno o più figli del defunto;
fratelli e sorelle unilaterali;
 fratelli naturali – entrano in concorso nella successione se mancano parenti entro il 6° grado;
 altri parenti – in mancanza di prole, coniuge, ascendenti, fratelli e loro rappresentanti, al de
cuius succedono i parenti in linea collaterale più remoti (parenti in linea laterale);
 lo Stato – è l'ultimo soggetto che può succedere e non risponde dei debiti e dei legati oltre il
valore dell'eredità.
La successione legittima avviene, di regola, per classi o categorie; tuttavia deroga a tale principio
sono i concorsi:
- il coniuge concorre con i figli legittimi e naturali;
- i figli concorrono in parti uguali sia che siano naturali, legittimi o adottivi;
- per i fratelli e le sorelle, germani e unilaterali, il codice ha previsto una divisione delle quote
in base a criteri di fatto e non di diritto, cioè ai germani spetta il doppio della quota che è
attribuita ai fratelli unilaterali;
- per i parenti collaterali, il concorso è regolato in base al principio secondo cui il parente
prossimo esclude quello remoto.
18. Il testamento. Il testamento è un negozio:
- unilaterale e non recettizio: è valido indipendentemente dall'accettazione dei successori;
- mortis causa, in quanto disciplina situazioni che sorgono per effetto della morte della persona;
- solenne, in quanto è richiesta la forma scritta sotto pena la nullità;
- necessariamente unipersonale, cioè solo una persona può essere l'autore e non può essere
redatto tramite rappresentante;
- sempre revocabile ad opera del suo autore fino al momento della morte.
Il testamento è la massima espressione dell'autonomia negoziale: infatti può avere come
oggetto sia disposizione tipiche, come l'istituzione di una fondazione, sia atipiche come le
disposizioni per le esequie, o il riconoscimento di un figlio naturale.
Requisito necessario per redigere e revocare il testamento è la capacità di testare, che
comprende sia la semplice capacità d'agire che la capacità d'intendere e di volere.
Sono incapaci di testare: il minore, l'interdetto per infermità di mente e l’incapace naturale
al momento della redazione del testamento; possono, invece, testare l'interdetto per sordomutismo o
cecità dalla nascita e l'interdetto legale (condannato all'ergastolo).
Nei casi di incapacità, l'atto è annullabile su richiesta di chiunque vi abbia interesse e
l'onere di fornire la prova dell'incapacità grava su colui che impugni il testamento.
È nullo il testamento a favore di determinati soggetti che hanno stretto particolari rapporti con il de
cuius (tutore e protutore).
19. Forme di testamento. La legge distingue testamenti in:
A) testamenti ordinari, che si dividono loro volta in: testamento olografo; testamento per atto di
notaio, che può essere pubblico o segreto.
B) testamenti speciali: sono forme particolari di testamento pubblico riconosciute solo per
determinate situazioni o circostanze eccezionali, come malattie contagiose, calamità pubbliche,
testamenti dei militari o assimilati in tempo di guerra.
Hanno un’efficacia limitata nel tempo infatti la perdono dopo tre mesi dal ritorno della situazione
normale; se il testatore muore nel periodo dei 3 mesi, il testamento speciale viene pubblicato.
Il testamento olografo è interamente scritto, datato e sottoscritto di pugno dal testatore.
Per scrittura s'intende qualsiasi segno intelligibile che può essere interpretato: sono validi anche i
testamenti in lingua straniera e sotto forma epistolare.
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Il testamento olografo è scrittura privata con efficacia probatoria e qualunque intromissione di
scrittura di terzi può inficiarne la validità, salvo che la scrittura esterna sia stata apposta
successivamente alla redazione del testamento e all'insaputa del testatore.
La sottoscrizione ha la funzione di individuare il testatore e deve seguire e non precedere le
disposizioni: la sua mancanza è causa di nullità.
La data è apposta all'inizio o alla fine del testamento e consta del giorno, mese ed anno di
redazione: la sua funzione è quella di accertare la capacità del testatore e l'anteriorità del
testamento rispetto ad altri; la sua mancanza non dà luogo ad invalidità e se non è completa o è
errata si considera mancante.
Se i sono due o più testamenti con data uguale, i testamenti si integrano per le disposizioni
compatibili, mentre vengono rese inefficaci quelle incompatibili.
Il testamento olografo presenta, però, numerosi inconvenienti: infatti la mancanza di tecnica
e la sua struttura rendono possibile l’alterazione, la sottoscrizione, la distruzione e lo smarrimento.
Tuttavia il testatore potrebbe anche depositare il testamento dal notaio che, mediante un verbale, ne
accerta la validità formale provvedendo alla custodia.
Il testamento pubblico è redatto interamente dal notaio dopo che il testatore gli ha esposto le sue
ultime volontà davanti a due testimoni: tale forma ricorre soprattutto quando il testatore non può o
non sa né scrivere né leggere.
Il ruolo del notaio non è solo quello di adeguare la volontà del testatore alla legge, ma anche
quello di consigliargli le soluzioni tecniche più adeguate alla realizzazione delle sue ultime volontà.
Il testamento diviene pubblico dopo la lettura che il notaio fa in presenza dei 2 testimoni al
testatore: il testamento deve essere sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio; quest'ultimo
deve trasmettere, entro 10 gg., una copia autentica del testamento all'archivio notarile distrettuale: la
pubblicità è attuata con l'iscrizione nel registro generale dei testamenti.
Il testamento pubblico è nullo quando manca la redazione delle dichiarazioni del testatore ad
opera del notaio e quando manca la sottoscrizione del notaio; per gli altri vizi di forma il testamento
pubblico è annullabile su richiesta dell'interessato.
Il testamento segreto si realizza in 2 fasi:
- la prima riguarda la redazione della scheda testamentaria, che è fatta dal solo testatore ed è
simile alla redazione del testamento olografo;
- la seconda è la redazione dell'atto di ricevimento del testamento ad opera del notaio in presenza
di due testimoni.
Se al testamento sono annessi altri fogli, devono essere sottoscritti come per il testamento, pena la
nullità.
Il testamento segreto viene poi chiuso, sigillato e vigilato dal notaio che deve redigere il verbale di
ricevimento della scheda.
Il testamento segreto è nullo quando manca la redazione delle dichiarazioni del testatore ad
opera del notaio o quando manchi la sottoscrizione del notaio; per gli altri vizi di forma il
testamento segreto è annullabile su richiesta di chiunque vi abbia interesse.
Il testamento segreto anche se invalido può valere come olografo qualora contenga i
requisiti di quest’ultimo (c.d. conversione formale): il testatore, mediante un nunzio, può ritirare il
testamento segreto od olografo dal notaio.
Infine vi è il testamento internazionale, che ha la funzione di creare un modello unico per
gli Stati aderenti alla convenzione.
Tale testamento è caratterizzato da scrittura a mano, o con altro procedimento, ad opera del testatore
o di altri soggetti, in qualsiasi lingua; è presentato all'ufficiale ricevente in presenza di 2 testimoni.
Requisito necessario è la sottoscrizione del testatore, dei testimoni e del pubblico ufficiale;
tuttavia la sottoscrizione del testatore può anche mancare, purché ne sia indicata la causa.
Al testatore è rilasciato un attestato che accerta la validità del testamento.
Secondo il principio dell'insanabilità della nullità delle disposizioni, i legittimati perdono il
diritto all'azione di nullità se, dopo la morte del de cuius, hanno confermato le disposizioni
volontariamente ne hanno dato esercizio pur conoscendone le cause di nullità.
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20. Pubblicazione del testamento. Dopo la morte del testatore occorre che il testamento sia reso
conoscibile a tutti i potenziali interessati mediante la pubblicazione.
Chi detiene il testamento di un defunto deve chiedere la pubblicazione a un notaio che, alla
presenza di due testimoni, redige un verbale procedendo all’apertura e alla pubblicazione del
testamento.
La pubblicazione ha la forma della pubblicità-notizia e rende eseguibili gli effetti del testamento.
21. Volontà testamentaria ed elementi “accidentali”. Affinché il testamento sia valido occorre che
la volontà del testatore sia stata manifestata liberamente; difatti, qualsiasi vizio della volontà è
causa di annullabilità assoluta. Essi sono:
 il dolo, sia determinante che incidente;
 la violenza morale e anche il semplice timore reverenziale;
 l’errore sul motivo; qualora tale motivo fosse illecito il testamento è nullo;
 la captazione, ossia i raggiri che tendono ad accattivarsi la benevolenza del testatore deviandone
la volontà;
 l’errore ostativo non rende annullabile il testamento se è possibile accertare a quale oggetto o
soggetto il testatore intendeva riferirsi.
Sono nulle le disposizioni che attribuiscono l’individuazione dell’oggetto o del soggetto
rimesse alla volontà di un terzo: in tal caso infatti viene meno la personalità dell’atto.
Sono valide le disposizioni dell’anima e quelle a favore dei poveri, purché ne sia stato
determinato l’oggetto.
Elementi accidentali: le condizioni impossibili o illecite si considerano come non apposte;
il termine nelle disposizioni a titolo universale si reputa come non apposto, mentre può essere
apposto alle disposizioni a titolo particolare.
Altro elemento accidentale è l’onere: è un peso imposto per volontà del disponente al beneficiario e
ai suoi eredi.
L’onere illecito e impossibile si considera come non apposto, a meno che non costituisca l'unico
motivo determinante della disposizione perché in tale ipotesi è invalida l’intera disposizione.
Differenza tra onere e legato:
- nell’onere il beneficiario può essere un soggetto sia determinato che indeterminato;
- nel legato, il beneficiario deve essere un soggetto determinato o almeno determinabile.
Differenza tra onere e condizione:
- la condizione incide sugli effetti della disposizione, sospendendoli o facendoli cessare con
efficacia reale retroattiva fino al verificarsi di un determinato evento;
- l’onere fa nascere un obbligo senza influenzare l’efficacia della disposizione: difatti, l’onerato
acquista il legato o l’eredità indipendentemente dall’adempimento dell’onere.
[Onorato del legato è colui che acquista il legato, ossia il legatario o sublegatario; onerato è,
l’erede o il legatario, su cui grava un onere imposto dalla volontà del testatore].
L’onere può essere un obbligo e quindi può consistere in un’attività a vantaggio di un
soggetto determinato o determinabile, o un’obbligazione: se ha contenuto patrimonialmente
valutabile, ai fini dell'adempimento si applica la disciplina sull'obbligazione.
Se il testatore ha disposto che l’inadempimento dell’onere è causa risolutiva della
disposizione o qualora l'onere rappresenti il solo motivo determinante della disposizione, i
legittimati ad agire per la risoluzione sono, oltre i portatori di un interesse patrimoniale, anche gli
eredi del testatore.
22. Legati: nozione e tipologie. Il legato è una disposizione mortis causa a titolo particolare in base
alla quale il legatario succede in uno o più determinati diritti reali, o in più rapporti determinati che
non vengono considerati come quota dell’intero patrimonio.
Il legato può avere fonte legale (ex lege) o testamentaria (ex testamento): in questo caso deve avere
natura patrimoniale.
Il legato si acquista al momento dell’apertura della successione e non è richiesta l’accettazione del
beneficiario; se il legato ha ad oggetto:
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1) un diritto reale su un bene determinato appartenente al testatore, il trasferimento si realizza fin
dall’apertura della successione;
2) un immobile, il legatario ha l’onere di trascrivere l'acquisto a suo favore e a carico del defunto
esibendo, quale titolo, l'estratto autentico del testamento;
3) un bene altrui, il legato è valido se il testatore era a conoscenza dell’altruità della cosa.
Tuttavia l’acquisto del diritto sulla cosa legata è differito, infatti se il legato:
a) ha ad oggetto una cosa generica, l’acquisto avviene nel momento dell’individuazione;
b) è alternativo, si realizza al momento della scelta;
c) appartiene da un terzo, si realizza al momento dell’acquisto della cosa da parte dell’onerato.
Il legatario acquista il diritto al legato automaticamente e risponde dei debiti ereditari solo nei limiti
del valore del legato (responsabilità limitata).
Il legatario può sempre rinunciare al legato finché non ha accettato e chiunque abbia
interesse all’attribuzione del legato può esperire l’actio interrogatoria, facendo fissare un termine di
decadenza dal tribunale, entro il quale il soggetto deve dichiarare se accetta o meno il legato.
Tuttavia, il silenzio del legatario rende definitivo l’acquisto del legato, che si ritiene presunto.
L’onerato del legato è l’erede o il legatario su cui grava un onere imposto dal testatore; se
l’onerato viene meno (es: per rinuncia, incapacità) l’onere passa a colui che gli subentra.
Il sublegato è un legato a carico di altro legatario, che è tenuto all’adempimento entro i
limiti del valore del legato principale. Il sublegato non è un legato derivato: infatti è valido anche se
è invalido il legato principale ed è efficace anche se è stato revocato o rifiutato il legato principale.
L’onorato del legato è colui che acquista il legato, ossia il legatario o sublegatario.
Il diritto dell’onorato presuppone l'efficacia del legato: se la cosa oggetto del legato è perita, il
legato è inefficace.
Il legato deve gravare solo sulla quota disponibile del patrimonio, perché quella indisponibile è
riservata ai legittimari: tuttavia il legato disposto a favore di quest'ultimi può gravare sulla quota
indisponibile (es. legati in sostituzione e in conto di legittima).
Il legato comporta il trasferimento del possesso del bene al legatario; si verifica, quindi,
l’accessione nel possesso, ossia il legatario ha la facoltà di unire il nuovo periodo di possesso a
quello del de cuius.
In tale ipotesi il possesso del legatario è qualificato di buona o malafede in relazione al solo stato
soggettivo del legatario all'inizio del suo possesso, indipendentemente da quello del de cuius.
Il prelegato è il legato a carico di tutti gli eredi e beneficiario è uno di questi (fra gli eredi vi
è anche il prelegatario).
Il prelegatario può anche rinunciare al diritto all’eredità fermo restando il diritto al prelegato: la
funzione del prelegato è quella di ridurre l’asse ereditario. Abbiamo vari tipi di legato:
- di credito, ha per oggetto la cessione di un credito che il testatore vantava nei confronti di un
terzo al momento dell'apertura della successione;
- di liberazione del debito, è la remissione di un debito contratto dal legatario con il testatore;
- a favore del creditore, il testatore menziona la volontà di estinguere un debito con il legato;
- di cosa altrui, è valido solo se il testatore era a conoscenza dell’altruità della cosa, oppure la
cosa, anche se altrui, apparteneva al testatore al momento dell’apertura della successione;
- di alimenti, il testatore impone all’erede di corrispondere al legatario in stato di bisogno le
somme necessarie per soddisfare le esigenze elementari di vita; rientrano nella categoria il
legato:
 di mantenimento, quando il legatario ha diritto ad un assegno periodico variabile a
prescindere dal suo stato di bisogno;
 di rendita vitalizia, quando il legatario ha diritto ad un assegno periodico costante a
prescindere dal suo stato di bisogno.
- di contratto, il legatario acquista un diritto di credito a ottenere che l’onerato stipuli con lui un
contratto, con le eventuali clausole imposte dal testatore.
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23. Sostituzioni e accrescimento. La rappresentazione, la sostituzione e l’accrescimento sono
rimedi all’eventualità che il chiamato o il legatario non possano o non vogliano conseguire l’eredità
o il legato.
La sostituzione ordinaria (o volgare) prevale sulla rappresentazione e questa prevale
sull’accrescimento.
La sostituzione realizza la piena volontà del testatore, infatti, se il primo chiamato ex testamento
(c.d. istituito) non possa o non voglia succedere, gli subentrano i c.d. sostituiti, chiamati in
subordine.
È plurima quando ad un istituito subentrano più sostituiti o quando a più istituiti subentra un solo
sostituito.
È reciproca quando il testatore ha previsto che gli istituiti possano sostituirsi reciprocamente l’uno
agli altri.
Mentre la chiamata dell’istituito è immediata e diretta, quella del sostituito è sottoposta alla
condizione dell'impossibilità e/o della volontà negativa dell'istituito di conseguire l'eredità o il
legato.
Quando si verifica la sostituzione, il sostituito subentra all’istituito nella delazione e inizia
a decorrere un nuovo tempo di prescrizione decennale dell’accettazione.
Nel periodo che va dalla sostituzione all’accettazione (periodo di pendenza), l’eredità è
amministrata dal sostituito, che al momento dell’accettazione subentra all’istituito nella stessa
posizione rispetto al de cuius.
La sostituzione fedecommissaria (art. 692) è l’istituto con cui il testatore impone all’erede o
al legatario (istituiti) l’obbligo di conservare i beni, affinché alla sua morte tali beni siano
consegnati ad un’altra persona (sostituito) indicato dal testatore stesso.
Limitazione apportata dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, è che:
- istituito può essere solo un interdetto necessariamente figlio, discendente o coniuge del
testatore,
- sostituito può essere solo la persona o l'ente che, sotto la vigilanza del tutore, ha avuto cura
dell'interdetto medesimo.
L’istituito non può disporre liberamente dei beni, ma può soltanto goderne: si realizza quasi un
usufrutto.
Il fedecommesso de residuo è un fedecommesso parziale, dove il testatore dispone che
l’istituito può disporre liberamente dei beni ma soltanto inter vivos, cioè alla sua morte gli succede
il sostituito, ma solo per ciò che è rimasto nel patrimonio dell’istituito.
È inoltre imposto il divieto di costituire per testamento un usufrutto a favore di più soggetti, in
modo che ne godano uno dopo l'altro.
L’accrescimento ha luogo solo quando non possono operare né la sostituzione, nè la
rappresentazione e se non è stato escluso a priori dal testatore.
Si ha accrescimento quando sono chiamate alla successione più persone congiuntamente ed una di
esse non voglia o non possa accettare.
In tal caso, se ricorrono determinati presupposti, la quota di ciascun chiamato si accresce
automaticamente abbracciando anche quella del chiamato che non ha accettato e gli eredi o i
legatari subentrano anche nei suoi obblighi, salvo quelli personali.
Nel legato di usufrutto congiuntivo, disposto verso più contitolari, l'accrescimento opera
anche quando viene a mancare uno dei legatari: in questo caso l’usufrutto permane interamente a
favore dei rimanenti usufruttuari, per cui solo alla morte dell'ultimo di questi si avrà la
consolidazione dell'usufrutto con la nuda proprietà dell’onerato.
L’accrescimento opera anche nella successione legittima, dove al mancato acquisto di uno
dei successori istituito per legge, la sua quota va ad accrescere le quote dei restanti successori.
213
24. Caducità e revoca delle disposizioni testamentarie. Il testamento è sempre revocabile fin
quando il testatore è in vita; è esclusa qualsiasi forma di rinunzia alla revoca.
Con la revoca, il testatore ritratta la volontà precedentemente espressa.
Presupposto per esercitare la revoca è la capacità di testare, intesa anche come capacità d’agire e
di intendere e di volere; la revoca può essere:
 totale, se è revocato tutto il testamento;
 parziale, se è revocato solo un parte del testamento;
 espressa, attuabile mediante la redazione di un altro testamento, o mediante un atto pubblico
ricevuto dal notaio, in presenza di due testimoni;
 tacita, se attuata con la redazione di un testamento posteriore incompatibile, del tutto o in parte,
col precedente; anche con la lacerazione o distruzione del testamento olografo, con il ritiro del
testamento segreto oppure con l’alienazione o trasformazione della cosa legata, si ha la revoca
tacita.
La revoca può avere ad oggetto anche una o più precedenti revoche e l’effetto sarà la reviviscenza
delle disposizioni precedentemente revocate: infatti, può essere revocato l’atto che contiene la
revoca della revoca.
Le disposizione testamentarie, fatte da colui che ignorava l’esistenza di figli o discendenti
legittimi, sono revocate di diritto (revoca legale).
25. Esecutore testamentario. Il testatore può nominare uno o più esecutori testamentari.
L’esecutore testamentario è tenuto a curare le disposizioni testamentarie; egli è titolare di un
ufficio di diritto civile e il suo compito di curare le volontà del testatore si configura come un
potere-dovere. L’esecutore testamentario per accettare (o rinunziare) deve presentare un atto di
accettazione (o di rinunzia) presso la cancelleria dove si è aperta la successione e tale atto verrà
annotato nel registro delle successioni.
Requisito necessario per esercitare la funzione di esecutore è la capacità di agire e la piena
capacità di obbligarsi; possono essere esecutori anche l’erede o il legatario.
Nel caso l’esecutore non rispetti le volontà del testatore, la sua funzione può anche cessare per un
provvedimento del presidente del tribunale (es: gravi irregolarità, inidoneità all’ufficio).
Un atto compiuto dall’esecutore, che produce effetti nei riguardi delle situazioni giuridiche
soggettive del de cuius, è la divisione, che ha effetti reali immediati ed è impugnabile solo se ci
sono iniquità, oppure se è contraria alle disposizioni del de cuius.
L’esecutore ha il compito fondamentale di curare l’esatta realizzazione della volontà
testamentaria; può inoltre amministrare i beni ereditari prendendone possesso per 1 anno, salvo
proroga per un altro anno e alienare i beni ereditari solo previa autorizzazione dell’autorità
giudiziaria.
In ogni caso l’esecutore è tenuto a non arrecare danni ai beni dell’eredità ed è obbligato a fornire il
rendimento del conto.
L’ufficio dell’esecutore è normalmente gratuito e le spese sono a carico dell’eredità; tuttavia
il testatore può prevedere una retribuzione per l’esecutore a carico dell’eredità.
26. Disciplina. La comunione ereditaria si ha quando più eredi succedono al medesimo de cuius:
presupposto è che ci siano più eredi titolari di una quota del patrimonio; sono esclusi dalla
comunione i legatari perché sono successori a titolo particolare nei singoli diritti.
Non tutte le situazioni giuridiche del de cuius possono far parte della comunione ereditaria:
 i debiti sono divisi automaticamente fra gli eredi che sono quindi obbligati per la loro pro quota
ricevuta, salvo diversa disposizione del de cuius;
 i crediti sono ripartiti proporzionalmente fra gli eredi, salvo per i crediti indivisibili, dove gli
eredi diventano contitolari.
La comunione ereditaria è disciplinata con le norme della comunione ordinaria, con alcune varianti:
ogni coerede può cedere la propria quota, ma deve notificare la proposta di alienazione e il
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prezzo agli altri coeredi, che hanno il diritto di prelazione; tale diritto non sussiste quando il
coerede aliena ad estranei i singoli beni relitti.
Se entro 2 mesi il titolare del diritto di prelazione non accetta la proposta del coerede
alienante, questi può alienare la sua quota al terzo, secondo le sue condizioni.
Se il coerede aliena a terzi senza rispettare la prelazione degli altri coeredi, questi possono
riscattare il bene dal terzo, che non può opporsi.
Il diritto di riscatto può essere esercitato nei confronti del primo acquirente della quota o nei
riguardi dei successivi aventi causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria.
La divisione è lo scioglimento della comunione: con essa ogni contitolare diviene titolare
esclusivo di determinate situazioni giuridiche soggettive; può essere:
 amichevole, se si raggiunge contrattualmente;
 giudiziale, quando manca il consenso di tutti i condividenti.
La divisione può essere chiesta da ciascuno dei coeredi in ogni momento; tuttavia ci sono deroghe:
- il testatore può imporre che la divisione si attui non prima che sia trascorso un anno dalla
maggiore età dell’ultimo nato, qualora gli eredi o alcuni di essi siano minori di età.
- la legge può imporre l’indivisibilità come per i fondi rustici, al fine di evitare che ne vengano
diminuite le capacità produttive;
- l’autorità giudiziaria può sospendere la divisione per un periodo non superiore ai cinque anni,
qualora ne faccia richiesta uno dei coeredi o l'immediata divisione possa arrecare un notevole
pregiudizio al patrimonio ereditario.
I contitolari, comunque, possono pattuire di rimanere in comunione per un tempo non
maggiore ai 10 anni (patto di indivisibilità); tuttavia questo patto può essere sciolto dall’autorità
giudiziaria nel caso di grave pregiudizio al patrimonio ereditario.
Nel caso uno o più coeredi siano nascituri, concepiti o non, la divisione può procedere solo
previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
Quando i nascituri sono istituiti con determinazione delle quote, l’autorità giudiziaria si limita ad
autorizzare la divisione assicurandosi che i nascituri non abbiano un diverso trattamento; quando i
nascituri sono istituiti senza determinazione delle quote, l’autorità giudiziaria può escludere i
nascituri dalla comunione e non solo dalla divisione.
Affinché la divisione sia valida, è necessario che essa sia attuata tra tutti i comunisti; se uno
di questi ha alienato la sua quota ad un terzo, solo questi ha il diritto di partecipare alla divisione e
non anche il coerede alienante.
La divisione può avere ad oggetto sia tutti i beni dell’eredità che una parte di questi: in quest’ultimo
caso è chiamata divisione per stralcio.
Ciascun coerede può chiedere la propria quota in natura, cioè con una certa quantità di beni
ereditari, senza procedere alla liquidazione; tuttavia questa regola è derogabile.
Se i coeredi che hanno diritto a più della metà dell’asse concordano la vendita al fine di pagare i
debiti e i pesi, si procede alla vendita all'incanto dei beni mobili e quelli immobili.
Se vi sono immobili non comodamente divisibili, questi vengono compresi per intero nella quota di
uno dei coeredi che ha diritto alla quota maggiore; se nessuno è disposto a ciò si procede alla
vendita all’incanto degli immobili.
Una volta fatta la liquidazione, i condividenti devono procedere alla resa dei conti,
accertando il ricavato dalle alienazioni e considerando le spese sopravvenute per la liquidazione.
Il valore dei beni è accertato con una stima che agisce considerando il valore dei beni: solo dopo di
essa si procede alla formazione delle porzioni ai condividenti, che devono essere qualitativamente
omogenee tra loro.
Ultima fase della divisione è l’assegnazione delle porzioni ai condividenti:
 se le porzioni sono uguali si procede ad estrazione;
 se sono diverse si procede all’attribuzione.
La divisione può essere anche prevista dal testatore che dispone non solo delle quote, ma può
anche nominare un soggetto, purché non sia erede o legatario, che faccia la stima dei beni.
La divisione fatta dal testatore è vincolante per i coeredi che vogliono attuarla, salvo nei casi di
iniquità.
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Il testatore può dividere direttamente i suoi beni fra gli eredi e l’effetto si produce al momento
dell’apertura della successione.
È nulla la divisione fatta dal testatore che non riesce a formare la quota per uno dei
legittimari o degli eredi istituiti, nel caso non abbia lasciato beni a sufficienza.
27. Collazione. La collazione ereditaria è l’istituto per il quale i figli legittimi e naturali, i loro
eredi e il coniuge superstite che hanno ricevuto donazioni dal defunto devono riammetterle
nell’asse ereditario, salvo dispensa del de cuius.
La funzione della collazione è quella di realizzare un equilibrio e una parità di trattamento
fra i coeredi.
La collazione si basa sul concetto secondo cui il de cuius, nel donare ad uno dei figli o al coniuge
un bene, abbia voluto anticipargli la porzione che gli sarebbe spettata alla sua morte, sia nel caso di
successione legittima che testamentaria.
La collazione si differenzia dall’azione di riduzione, perché questa può essere esperita da
tutti i legittimari lesi o pretermessi e mira a garantire la quota di riserva.
La collazione invece può essere esperita solo dai figli legittimi e naturali, dai loro eredi e dal
coniuge superstite e al solo scopo di assicurare la parità di trattamento fra i coeredi.
La collazione si differenzia dall’imputazione ex se, che serve per l’esercizio dell’azione di
riduzione, in quanto con essa il legittimario leso o pretermesso imputa le donazioni ricevute dagli
altri legittimari alle loro quote, quindi le riduce.
La collazione si differenzia dalla riunione fittizia, perché in essa non c’è uno spostamento
di beni.
La collazione opera mediante un prelegato che è anomalo, perché è a favore e a carico di
tutti i coeredi prima indicati, ed è ex lege, perché disposto dalla legge.
La collazione si costituisce con un’obbligazione e può farsi in due modi:
1. in natura, conferendo i beni ricevuti dal de cuius all’asse ereditario;
2. per imputazione, sottraendo dalla porzione il valore dei beni ricevuti in donazione.
- Beni immobili: la collazione opera sia in natura che per imputazione; per i beni mobili, invece,
solo per imputazione.
- Beni deteriorabili o consumabili: la collazione opera sul valore o sul prezzo corrente del bene.
- Denaro: la collazione è effettuata tenendo presente il valore nominale, ossia il valore riportato
sul titolo.
Ai soggetti che rimettono le donazioni per collazione spetta un riconoscimento per le spese e i
miglioramenti.
Oggetto sono tutte le donazioni dirette e indirette, salvo le donazioni modiche fatte al
coniuge, le spese di mantenimento e di educazione dei figli, le spese di abbigliamento o per le
nozze, le spese per l’istruzione artistica, ecc.
La collazione può essere anche imposta e prevista dal donante.
Le donazioni, tuttavia, possono essere anche liberate dalla collazione mediante la dispensa
del donante – testatore, che può essere espressa o desumibile da circostanze inequivocabili.
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Parte nona: Tutela giurisdizionale e prove
A. Tutela giurisdizionale.
1. Diritto essenziale e norme processuali. L’autotutela, ossia la difesa di un diritto fatta dal titolare,
è ammessa dall’ordinamento solo in ipotesi eccezionali, perché nessuno può farsi giustizia da sé, ma
può agire in giudizio per difendere i propri diritti e i propri interessi legittimi.
Le norme sostanziali regolano i comportamenti dei consociati e tutelano i loro diritti e
interessi; nel caso le norme sostanziali siano violate operano le norme strutturali, che disciplinano
l’attività del giudice e delle parti durante il processo.
Le situazioni non sempre sono tutelate dal processo, ma a volte sono previste dal diritto sostanziale.
La tutela giurisdizionale ha come principio la tutela dei diritti e degli interessi dei
consociati, applicando imparzialmente le norme vigenti durante il processo; il suo esercizio è svolto
dalla magistratura.
Il processo è una sequenza di atti rivolti all’attuazione delle norme sostanziali.
Il diritto processuale è un insieme di norme che disciplina l’attività del giudice e delle parti nel
processo; il diritto processuale è:
• civile, se le controversie hanno natura civilistica;
• amministrativo, se le controversie interessano i consociati e la pubblica amministrazione.
2. Giurisdizione e codice civile. Il libro sesto del codice civile disciplina gli istituti che devono
garantire la tutela dei rapporti giuridici; tale giurisdizione ha preso spunto dalla “Relazione al Re”.
3. Riforme della giustizia civile. La giurisdizione civile italiana è disciplinata da numerose fonti tra
cui troviamo al vertice la costituzione, e il codice di procedura civile che è legge ordinaria.
L’originario disegno processuale prevedeva un processo tendenzialmente orale, poi, con la riforma
del 1950, è stato introdotto un processo svolto totalmente mediante scambio di documenti scritti.
La riforma del 1990 ha cercato di alleggerire e quindi di velocizzare la giustizia civile
introducendo ad esempio il giudice di pace, che si occupa delle controversie di minor rilievo.
I tempi processuali restano, comunque, troppo lunghi, intollerabili e dispendiosi: questi motivi hanno
portato i consociati a diffidare della tutela giurisdizionale e ad autotutelarsi mediante clausole di
autotutela o mediante clausole arbitrali, ossia con l’intervento di un arbitro nel caso sorgono presunte
controversie.
4. Regole generali del processo civile. L’azione è il diritto di rivolgersi al giudice per ottenere il
riconoscimento e/o l’attuazione della situazione giuridica soggettiva di cui si è titolari; chi esercita
l’azione è detto attore, mentre colui contro il quale l’azione è rivolta è detto convenuto.
Il processo civile è un mezzo di tutela degli interessi privati e si sviluppa solo su impulso
della parte, cioè il giudice può procedere solo su domanda dell’attore, attenendosi a quanto gli è
chiesto; tuttavia, solo in ipotesi eccezionali, l’autorità giudiziaria può agire d’ufficio.
In ipotesi previste dalla legge, legittimato ad agire e ad intervenire è anche il pubblico ministero
(p.m.), quale organo che opera nell’interesse della collettività.
Il giudice non può decidere sulla domanda dell’attore, se il soggetto passivo (convenuto) non
ha avuto la possibilità di presentare le proprie ragioni (contraddittorio).
216
5. La competenza. La competenza giurisdizionale è l’idoneità di un organo giudiziario di decidere
una specifica controversia.
La ripartizione della competenza tra i diversi tipi di giudice può essere fatta:
• in base al valore economico dell’oggetto della controversia;
• in base alla natura del rapporto controverso;
• in base alle funzioni attribuite dalla legge all’organo giudiziario.
Per quanto riguarda le Corti, per decidere a quale corte spetta la decisione della specifica
controversia, è utilizzato il criterio territoriale.
6. Tutela cognitiva. Il processo di cognizione è il procedimento di individuazione della norma di
diritto sostanziale da applicare al caso concreto; questo procedimento ha come carattere esenziale la
funzione di accertamento e si conclude con una sentenza che può essere dichiarativa, costitutiva, o
di condanna.
La sentenza dichiarativa (o di mero accertamento) ha la funzione di accertare la situazione
giuridica (es.: la pronuncia di nullità del contratto); gli effetti prodotti dalla sentenza dichiarativa
retroagiscono ex tunc, ossia dall’inizio.
La sentenza costitutiva ha la funzione di costituire, modificare o estinguere dei rapporti
giuridici (es.: la pronuncia di annullamento del contratto); i suoi effetti si producono ex nunc, ossia
dal momento della pronuncia. La sentenza costitutiva è detta:
• necessaria (giurisdizione costitutiva necessaria), quando è richiesta la decisione dell’autorità
giudiziaria per la costituzione, modificazione o estinzione di determinate situazioni giuridiche
sottratte alla disponibilità dei singoli, in quanto la sola dichiarazione di volontà delle parti è
insufficiente per la produzione degli effetti;
• non necessaria (giurisdizione costitutiva non necessaria), quando la costituzione, modificazione
o estinzione di una situazione giuridica è rimessa alla disponibilità delle parti e più precisamente
al consenso o rifiuto del soggetto passivo.
La sentenza di condanna ha come effetto il comando fatto dal giudice, alla parte
soccombente, di tenere un determinato comportamento per l’attuazione di un diritto dell’altra parte
vincente; il comportamento comandato può avere ad oggetto un dare, un fare o un non fare. La
sentenza di condanna è esecutiva e costituisce titolo per l’esecuzione forzata sia in forma generica
che in forma specifica.
7. Gradi di giurisdizione. Il giudicato. L’ordinamento consente alla parte soccombente di far
riesaminare la controversia al giudice di grado superiore; tuttavia, tale riesame ha dei limiti, come
l’incontrovertibilità espressa dalla formula cosa giudicata che indica che la pronunzia
giurisdizionale di un determinato rapporto non è più impugnabile.
Nel nostro sistema i gradi di giurisdizione sono due: giudizio di primo grado e giudizio di
secondo grado o di appello: ogni grado di giudizio si conclude con una sentenza.
Con il riesame, la parte soccombente può promuovere un ulteriore grado di giudizio ed ottenere una
nuova pronunzia; è previsto anche un grado ulteriore di riesame che il giudizio di Cassazione.
La sentenza si considera passata in giudicato quando ha esaurito i possibili riesami e, di
conseguenza, non può più essere oggetto di altro giudizio, nemmeno tra le parti.
L’incontrovertibilità processuale della sentenza, espressa con la formula “cosa giudicata”,
implica il carattere definitivo e immutabile di una sentenza, la quale non può essere oggetto di
riesame.
217
8. Svolgimento del processo ordinario di cognizione di primo grado. Il processo ordinario di
cognizione di primo grado inizia con la domanda giudiziale proposta mediante l’atto di citazione.
L’atto di citazione è l’atto con il quale l’attore esercita l’azione chiamando in giudizio il
convenuto; esso contiene le richieste dell’attore e i mezzi di prova dei quali lui vuole avvalersi.
La comparsa di risposta è l’atto scritto mediante il quale il convenuto prende conoscenza
dell’atto di citazione, pone le proprie ragioni, indica le prove di cui vuole avvalersi, chiede
l’autorizzazione della chiamata in causa di un terzo e formula le proprie conclusioni.
Il convenuto per ottenere il rigetto della domanda contro di lui proposta può:
● negare i fatti vantati dall’attore;
● presentare fatti impeditivi, modificativi o estintivi;
● sostenere una diversa interpretazione delle norme da applicare;
● proporre una domanda riconvenzionale esercitando a sua volta azione; questa nuova azione
deve essere inerente all’azione originaria proposta dall’attore e può essere sia autonoma che
inserita nel processo precedente.
L’attore e il convenuto devono costituirsi depositando ognuno di loro in cancelleria un
fascicolo che presenta l’atto di citazione per il fascicolo dell’attore e la comparsa di risposta per il
fascicolo del convenuto, le prove di cui vogliono avvalersi, le proprie conclusioni.
Di regola, è l’attore a costituirsi per primo: se nessuno si costituisce, il processo si estingue; se una
sola delle parti si costituisce, l’altra è dichiarata contumace (colui che non si presenta in giudizio).
L’attività delle parti in giudizio si esplica mediante l’attività dei rispettivi avvocati.
La fase successiva è quella istruttoria, dove il giudice istruttore raccoglie le prove presentate
dalle parti e può anche emettere provvedimenti anticipativi della sentenza come l’ordinanza che è
titolo esecutivo modificabile e revocabile.
Dopo la raccolta delle prove, vi è la fase decisoria, dove il giudice istruttore si costituisce
come giudice unico. Egli consente alle parti di scambiarsi le comparse conclusionali, ossia atti dove
sono riproposte le proprie tesi, le proprie conclusioni e le proprie richieste; questo scambio deve
avvenire entro 60 giorni.
La sentenza è resa pubblica mediante il suo deposito in cancelleria da parte del giudice che
l’ha pronunziata. Dal momento della notifica della sentenza fatta dall’interessato al convenuto,
iniziano a decorrere i termini di impugnazione.
9. Impugnazione. La sentenza di I grado è immediatamente esecutiva; tuttavia, la parte
soccombente, parzialmente o totalmente, può impugnare la sentenza dinanzi al giudice di II grado.
Con la riforma del ’90, l’impugnazione, che deve essere fatta entro 10 o 30 giorni a seconda della
sentenza, produce un giudizio di merito che riesamina la ricostruzione del fatto, la sua valutazione e
l’applicazione delle norme.
Contro la sentenza di secondo grado, la parte soccombente può impugnare tale sentenza di
fronte alla Corte di Cassazione che valuta i possibili errori di interpretazione o errori
nell’applicazione delle norme.
La Corte di Cassazione è unica e ha sede a Roma; la sua funzione è quella di uniformare
l’interpretazione della legge.
Qualora la Corte di Cassazione accolga il ricorso può anche rinviare la causa ad un altro giudice di
pari grado a quello precedente e questo giudice, anche se ha poteri autonomi, deve attenersi ai
principi dettati dalla Corte. Gli istituti di impugnazione sono:
● la revocazione è un’impugnazione proposta dalla parte soccombente che denuncia il vizio di
volontà del giudice che ha pronunciato la sentenza.
La r. ordinaria è proponibile entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza, pena la non
possibilità di impugnare; la r. straordinaria può essere chiesta anche dopo i 30 giorni nel caso
in cui vengono scoperti dolo o falsità o recuperati documenti occultati o dispersi;
● l’opposizione di terzo è un’impugnazione straordinaria in quanto ha per oggetto sentenze
passate in giudicato. I soggetti legittimati all’opposizione della sentenza del giudice sono sia tutti
coloro che sono titolari di un diritto incompatibile con quello trattato nella sentenza (opposizione
ordinaria), sia i creditori o gli aventi causa del soccombente danneggiati dalla sentenza
(opposizione revocatoria).
218
10. Procedimenti speciali di cognizione. Oltre al procedimento ordinario di cognizione, la legge
prevede forme abbreviate chiamate procedimenti speciali di cognizione.
Il procedimento per ingiunzione è applicabile solo per crediti che hanno ad oggetto una
determinata somma di denaro o una determinata cosa fungibile o un determinato mobile.
Il decreto ingiuntivo è l’atto con il quale il giudice, una volta esperita una cognizione
sommaria e senza contraddittorio (cioè senza aver sentito l’altra parte), ingiunge (ordina) al debitore
di adempiere entro 40 giorni dalla notifica della sentenza.
Il debitore, una volta ricevuta la notifica, può proporre opposizione al decreto ingiuntivo e si apre un
processo ordinario di cognizione.
Nel caso manca l’impugnazione, il decreto ingiuntivo passa in giudicato a titolo esecutivo,
consentendo l’esecuzione forzata.
Per quanto riguarda il procedimento per convalida di sfratto, esso è chiesto dal locatore o
affittante i quali, senza ricorrere al procedimento ordinario di cognizione, possono ottenere il titolo
esecutivo per la consegna o il rilascio della cosa mediante intimazione al conduttore.
Nel caso l’intimato non si oppone o non compare, il titolo acquista efficacia esecutiva; se vi è
opposizione, si verifica risoluzione del rapporto e il rilascio della cosa.
L’opposizione è ammessa anche dopo la convalida del titolo nel caso l’intimato dimostri di non
essere venuto a conoscenza dell’intimazione o non ha potuto comparire all’udienza.
11. Processo del lavoro. La disciplina della controversia in materia di lavoro è stata profondamente
innovata e tale riforma ha ripristinato i principi di oralità, concentrazione e speditezza.
L’azione non si esercita con citazione, ma con ricorso diretto al giudice competente per materia; il
proponente deve presentare la domanda indicando i fatti e le prove.
Il tribunale fissa l’udienza dove vengono assunte le prove e discussa la causa; il giudice, poi,
pronuncia oralmente la sentenza motivandola.
Alla fine, lo stesso giudice che ha pronunziato la sentenza deposita quest’ultima in cancelleria.
12. Tutela esecutiva. Nel caso in cui il comando contenuto in una sentenza non è rispettato dal
convenuto, l’attore può esercitare l’azione esecutiva.
L’esecuzione forzata è l’impiego effettivo o potenziale della forza dello Stato nei confronti del
convenuto che non ha rispettato l’ordine; la sua funzione è quella di soddisfare l’interesse dell’attore.
Infatti, se Tizio, anche se obbligato, si rifiuta di consegnare una cosa a Caio, con l’esecuzione forzata
lo Stato prende materialmente il bene da Tizio e lo consegna a Caio; si ha quindi una sostituzione
dello Stato nella posizione dell’obbligato, affinché venga soddisfatto l’interesse dell’attore.
Nel caso di prestazioni infungibili, l’attore non può chiedere l’esecuzione coattiva, ma può
pretendere il risarcimento del danno.
13. Titolo esecutivo. Per procedere all’esecuzione forzata è necessario un titolo esecutivo accertato
da sentenza; sono titoli esecutivi: le cambiali, gli assegni, le condanne e i decreti ingiuntivi passati
in giudicato.
Il titolo esecutivo deve essere notificato al debitore insieme al precetto, che è un'intimazione ad
adempiere entro il termine stabilito, pena l’esecuzione coattiva.
Il soggetto contro il quale è stato promosso il processo esecutivo può opporsi all’esecuzione con un
processo di cognizione, indicando l’inesistenza del titolo o la non pignorabilità del bene.
Se il convenuto si oppone agli atti esecutivi, egli contesta la regolarità del precetto, della
notificazione del titolo esecutivo.
Anche il terzo che vanta un diritto verso i beni oggetto del pignoramento forzato può opporsi
all’esecuzione dinanzi al giudice.
219
14. Esecuzione forzata in forma specifica. L’esecuzione coattiva diretta o in forma specifica è
applicata solo per le prestazioni che non hanno ad oggetto il pagamento di una somma di denaro.
Nel caso d’inadempimento di un obbligo di consegna o di rilascio, il creditore, munito del
titolo esecutivo, ricorre al pubblico ufficiale che procede alla spossessamento coattivo dell’obbligato
inadempiente; se la cosa è stata alienata a terzi, l’avente diritto si deve accontentare di un
risarcimento del danno.
Nel caso di inadempimento di un obbligo di fare, il creditore può ottenere che la
prestazione sia eseguita da un terzo a spese dell’obbligato, previa presentazione a quest’ultimo del
titolo esecutivo e del precetto.
Nel caso di inadempimento di un obbligo di fare infungibile, l’avente causa ha diritto
soltanto al risarcimento del danno, in quanto la prestazione è ad intuitu personae.
Nel caso di inadempimento di un obbligo di non fare, l’avente diritto può ottenere la
distruzione dell’opera illecita dell’obbligato e il ripristino della situazione preesistente, con spese a
carico dell’obbligato inadempiente; nel caso l’opera illecita dell’obbligato inadempiente fa parte
dell’economia nazionale, all’avente causa spetta solo un risarcimento del danno.
15. Tutela del diritto al consenso. Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie
l’obbligazione, l’altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una
sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso (art. 2932 c.c.).
Il procedimento e la relativa sentenza presentano i caratteri della tutela cognitiva, cioè non occorre
un titolo esecutivo, la domanda è proposta con citazione, la sentenza è impugnabile fino al passaggio
i n giudicato.
La tutela cognitiva non opera per i contratti reali come il mutuo, il comodato, il deposito,
perché il soddisfacimento degli interessi presuppone il materiale trasferimento della cosa oggetto del
contratto.
16. Esecuzione forzata per espropriazione. L’esecuzione coattiva in forma generica o
espropriazione forzata ha la funzione di convertire in denaro determinati beni del debitore per
soddisfare il creditore: essa opera quando il debito inadempiuto ha per oggetto il pagamento di una
somma di denaro.
I beni espropriati al debitore sono quelli che formano la garanzia patrimoniale generica; essi sono
venduti mediante asta pubblica ed il ricavato va a soddisfare non solo il titolo esecutivo del
creditore, ma anche gli interessi e le spese processuali.
L’espropriazione si realizza in 3 fasi:
1. pignoramento; il creditore insoddisfatto, previa notifica del titolo esecutivo e del precetto, da
inizio al pignoramento dei beni del debitore inadempiente, mediante l’ufficiale giudiziario. Se i
beni sono immobili, il pignoramento deve essere iscritto nei registri immobiliari.
Il pignoramento non priva il debitore del suo diritto di proprietà, ma rende inefficace tutti i
possibili atti dispositivi dello stesso; il pignoramento colpisce anche beni alienati a terzi, fatti
salvi i beni acquistati in buona fede.
2. vendita forzata; il pignoramento è seguito dalla vendita forzata dei beni e, sul ricavato, il
creditore si soddisfa del credito vantato. Si ha quindi una trasformazione in denaro
(liquidazione) dei beni del debitore inadempiente. L’acquirente dei beni sottoposti a
pignoramento è scelto mediante pubblico incanto (vendita al miglior offerente).
3. attribuzione del ricavato al creditore o assegnazione del bene al creditore; con il ricavato
della vendita forzata dei beni pignorati vengono soddisfatti i creditori:
• se il ricavato è superiore ai crediti da soddisfare, ciò che resta viene restituito al debitore;
• se il ricavato è insufficiente per soddisfare i creditori, questi ultimi dividono il ricavato in
proporzione al credito, salvo per i creditori muniti di prelazioni, i quali vengono soddisfatti
per intero.
Il creditore può anche richiedere l’assegnazione dei beni pignorati ad un determinato prezzo.
220
17. Tutela cautelare. Tra la promozione della domanda di cognizione (processo di cognizione), o
dalla domanda di esecuzione e l’emanazione del provvedimento richiesto trascorre un periodo di
tempo nel quale possono accadere eventi o fatti che possono ledere l’azione promossa dall’attore.
Per scongiurare tale pericolo l’attore può richiedere un provvedimento provvisorio cautelare che
tuteli l’azione promossa.
I presupposti affinché il giudice emetta il provvedimento cautelare sono: l’esistenza di un
diritto e il possibile verificarsi di un danno durante lo svolgimento del processo.
Questo provvedimento ha natura provvisoria, perché perde efficacia con l’emanazione o la
negazione del provvedimento richiesto.
L’emanazione del provvedimento provvisorio cautelare si svolge in tre fasi:
• prima fase: il giudice, previo accertamento dei presupposti richiesti, autorizza o nega il
provvedimento;
• seconda fase: il giudice attua il provvedimento promosso;
• terza fase: vi è l’impugnazione di tale provvedimento da parte del convenuto dinanzi ad un
giudice diverso da quello che ha emanato il provvedimento provvisorio cautelare.
Tutte le fasi si svolgono in contraddittorio, cioè il giudice sente le ragioni del convenuto; la
pronunzia con decreto senza contraddittorio ha natura eccezionale.
Esempi di provvedimenti provvisori cautelari sono:
- sequestro giudiziario: custodia della cosa della cui proprietà o possesso è controversa la
titolarità;
- sequestro conservativo: custodia dei beni del debitore che fanno parte della garanzia generica,
contro il pericolo di sottrazione o alienazione;
- procedimenti di istruzione preventiva: a questi provvedimenti si ricorre quando un mezzo
istruttorio deve essere assunto prima dell’inizio del giudizio di merito (es: assunzione preventiva
di testimoni, i quali si teme che non possano in futuro deporre);
- provvedimenti d’urgenza: impediscono che la durata del processo leda l’attore che ha ragione e
assicurano provvisoriamente gli effetti della successiva decisione sul merito;
- provvedimenti possessori: hanno ad oggetto la reintegrazione o la manutenzione del possesso.
18. Giurisdizione volontaria. La giurisdizione volontaria è costituita da un insieme di
provvedimenti che hanno ad oggetto rapporti di diritto privato e che sono affidati ad organi
giurisdizionali.
La giurisdizione volontaria si differenzia dalla giurisdizione contenziosa, perché la prima non
risolve controversie, ma integra, assiste e controlla l’attività dei privati nei loro interessi e
nell’interesse generale.
Questi provvedimenti sul piano strutturale hanno caratteri comuni; difatti, l’atto deve avere la forma
del ricorso, la decisione è fatta in camera di collegio.
Esempi sono la dichiarazione di assenza o morte presunta, l’interdizione o l’inabilitazione.
19. Tutela arbitrale. Le parti possono rimettere ad arbitri privati la decisione delle loro controversie
sottraendole alla cognizione dei giudici statali.
L’arbitrato presuppone un accordo negoziale che può essere di due tipi:
1. compromesso: è un atto negoziale con cui le parti decidono di far risolvere una controversia già
sorta tra di loro ad arbitri;
2. clausola compromissoria: è la clausola con la quale le parti decidono di sottoporre ad arbitri
tutte le future controversie che potrebbero sorgere nell’ambito di quel determinato contratto.
Per tutte e due è richiesta la forma scritta pena la nullità.
I soggetti legittimati alla stipula dell’accordo arbitrale sono le parti del contratto; essi
vincolano che la decisione della controversia sia rimessa ad un arbitro e non possono, quindi,
proporre domanda dinanzi a un giudice naturale (statale).
Gli arbitri possono giudicare sia secondo diritto che secondo equità; essi possono rilevare d’ufficio la
nullità del contratto, ma tale nullità non colpisce la clausola compromissoria che è autonoma.
221
La Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’arbitrato obbligatorio ex
lege, cioè non fondato sulla volontà delle parti.
L’arbitrato vero e proprio è detto arbitrato rituale e si differenzia dall’arbitrato irrituale o
libero, perché l’arbitrato rituale è disciplinato minuziosamente dal codice di procedura civile e le sue
sentenze hanno la stessa efficacia delle sentenze del giudice naturale (statale), mentre l’arbitrato
irrituale o libero produce effetti solo sul piano negoziale e può essere attribuito dalle parti agli arbitri
anche con foglio bianco (biancosegno).
Diverso dall’arbitrato è l’arbitraggio, dove l’arbitratore non risolve le controversie del
rapporto, ma integra un contratto concluso ma incompleto.
Altra figura diversa sia dall’arbitrato che dall’arbitraggio è la perizia contrattuale con la quale le
parti rimettono a terzi qualificati le valutazioni di carattere tecnico e non giuridico che le parti si
impegnano ad accettare.
Gli arbitri possono essere uno o più di uno, ma sempre in numero dispari e possono essere sia
cittadini italiani che stranieri; sono esclusi dalla facoltà di essere arbitri i minori, gli interdetti, gli
inabilitati e i falliti.
L’ufficio arbitrale si perfeziona mediante l’accettazione scritta da parte dei soggetti designati;
nel caso questi ultimi non adempiano oppure vi rinunziano, essi sono tenuti al risarcimento dei danni
recati e possono essere anche sostituiti.
Gli arbitri hanno diritto sia al rimborso delle spese che all’onorario, salvo non vi abbiano
espressamente rinunziato.
Non sono rimesse alle decisioni degli arbitri le cause di stato e quelle di separazione dei
coniugi; per quanto riguarda le controversie in materia di lavoro, esse possono essere rimesse
all’ufficio arbitrale solo se tale metodo è previsto dai contratti o accordi collettivi e se non è preclusa
la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria competente.
Non sono rimesse all’ufficio arbitrale le controversie in materia di previdenza e di assistenza
obbligatorie e le controversie assegnate al giudice amministrativo.
L’arbitrato si instaura quando una parte notifica l’atto di manifestazione di volontà di
ricorrere agli arbitri e, quindi, propone la domanda.
L’arbitrato è disciplinato dalla convenzione arbitrale o dalla disciplina pattizia; in mancanza
di tali norme, gli arbitri possono agire come ritengono più opportuno.
Gli arbitri possono anche assumere le prove, ma non possono disporre sequestri o altri
provvedimenti cautelari; essi, comunque, possono sempre rimettere gli atti alla Corte Costituzionale.
La decisione degli arbitri è detta lodo; esso è ammesso nel termine stabilito dalle parti o, in
mancanza, entro 180 giorni e la scadenza del termine rende nullo il lodo. Il lodo è deliberato a
maggioranza, redatto per iscritto e consegnato a ciascuna delle parti; con l’ultima sottoscrizione, il
lodo acquista efficacia vincolante per le parti.
Ciascuna delle parti può depositare il lodo presso la cancelleria del tribunale, il quale conferisce al
lodo con decreto efficacia esecutiva (omologazione del lodo).
Il lodo può essere impugnato dinanzi alla Corte d’appello e può essere proposta
l’impugnazione per nullità se il lodo è stato pronunciato da chi non ne aveva potere, se non è stata
rispettata la convenzione arbitrale, se non è stato rispettato il contraddittorio, se manca una
motivazione valida.
Il lodo può essere revocato per dolo di una delle parti o dell’arbitro oppure se le prove erano
false; ci può essere opposizione al lodo anche da parte dei creditori di una delle parti quando il lodo
arreca loro danno.
L’arbitrato internazionale si applica quando una delle parti ha residenza o sede all’estero o
la controversia riguarda un rapporto da eseguirsi tutto o in gran parte all’estero.
Mentre il lodo nazionale è sottoposto ad omologazione del tribunale, il lodo estero è soggetto a
riconoscimento o della Corte d’appello o della Corte di Roma.
222
B. Prove.
20. Principio dispositivo e onere della prova. Per decidere una controversia, il giudice deve
risolvere sia la questione di fatto, ossia deve accertare se le affermazioni delle parti sono
fondate, sia la questione di diritto, ossia ricercare e individuare le norme applicabili.
L’individuazione, l’interpretazione e l’applicazione delle norme sono compiti del giudice,
mentre l’allegazione dei fatti è un compito delle parti.
Le parti devono provare i fatti allegati assolvendo all’onere della prova. Esempio, per far
valere il suo diritto al risarcimento, il danneggiato deve provare che il convenuto è l’autore
del fatto dannoso, che il fatto è stato compiuto con dolo o colpa, che dal fatto deriva un
danno, deve provare l’entità del danno.
L’onere di allegare i fatti e l’onere della prova fanno parte del principio dispositivo.
Il giudice non può assumere di sua iniziativa prove non proposte dalle parti, salvo nei casi di
interessi indispensabili.
Nel caso di interessi disponibili, le parti possono decidere anche l’inversione della prova,
ossia l’onere della prova spetta non più al convenuto ma all’attore; tale inversione può essere
disposta anche per legge.
21. Nozione e caratteri. Le prove sono gli strumenti mediante il quale il giudice accerta la
validità dei fatti allegati dalle parti. I mezzi di prova sono solo quelli previsti
dall’ordinamento e sono l’esibizione di cose e di documenti e l’interrogazione delle parti e
dei terzi.
Le prove si distinguono in:
● prove documentali; sono prove formate prima del processo e, quindi, precostituite;
● prove semplici; si costituiscono durante la fase istruttoria del processo;
● prove legali; esempio è l’atto pubblico;
● prove liberamente apprezzabili; esempio è la testimonianza;
● prove dirette o storiche; quando consistono nella rappresentazione o esposizione del
fatto;
● prove indirette o logiche; quando il fatto è desunto mediante congetture.
22. Singoli mezzi di prova: prove documentali. Il documento è qualunque mezzo materiale
idoneo a rappresentare un fatto; i più importanti sono:
● atto pubblico, è l’atto redatto dal notaio o da altro pubblico ufficiale. Esso vincola il
giudice nella valutazione dello stesso in quanto l’atto pubblico fa piena prova, salvo
querela di falso, cioè se viene dimostrata la falsità del documento;
● scrittura privata, è l’atto redatto per iscritto e sottoscritto dalle parti con firma
autografa. Essa a differenza dell’atto pubblico non fa piena prova, perché è necessario
che il sottoscrittore riconosca la sottoscrizione;
● scrittura privata autenticata, è l’atto redatto dalle parti e sottoscritto davanti ad un
pubblico ufficiale, il quale attesta l’autenticità della firma. Essa è valida se l’autore non
la disconosce entro la prima udienza;
● telegramma e telefax, la loro validità è provata, come per la scrittura privata, se
l’originale è stato sottoscritto dal mittente;
● riproduzioni meccaniche (fotografie), la legge afferma che sono valide solo se colui
che le utilizza non ne disconosce la conformità.
Particolare importanza ha la data di scrittura:
● se non è stata apposta sul documento, essa può essere provata dalle parti con
presunzioni;
● se, invece, è stata apposta, la data vale fino a prova contraria.
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Se la data risulta da atto pubblico, o da scrittura privata autenticata, essa è opponibile senza
riserve; se, invece, essa risulta da scrittura privata non autenticata, è opponibile solo se è
certa, ossia se c’è l’autorizzazione della scrittura e la sua registrazione.
Per quanto riguarda le copie degli atti pubblici e delle scritture private depositate, esse
valgono ai fini probatori, se la loro conformità all’originale è attestata da un pubblico
ufficiale.
23. Altri mezzi di prova: confessione. La confessione è la dichiarazione che una parte fa
circa la verità di fatti che sono ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte.
La confessione può essere:
• giudiziale (o confessione resa in giudizio); fa piena prova contro colui che l’ha fatta;
• stragiudiziale (o confessione resa fuori dal giudizio); fa piena prova solo se
dimostrata o se contenuta in un testamento.
La confessione è ritenuta un atto giuridico in senso stretto. A volte può accadere che nella
confessione sono menzionati altri fatti che possono inficiare l’efficacia del fatto confessato, o
che possono confessarlo: questi fatti fanno piena prova se l’altra non li contesta; se, invece,
l’altra parte li contesta, il giudice può decidere o meno la loro validità.
24. Segue. Giuramento. Il giuramento è una dichiarazione compiuta da una delle parti circa
la verità dei fatti dedotti in causa ed ha efficacia solo se reso in giudizio.
Quando una parte non ha prove sufficienti per confermare le proprie dichiarazioni, può
deferire (rimettere in giudizio) l’altra parte e dal giuramento di quest’altra parte dipende la
decisione della causa.
L’altra parte se giura vince; se rigira il giuramento alla prima parte e questa giura, l’altra
parte perde.
Nel caso una parte si rifiuta di giurare o non si presenta senza giustificato motivo, la sua
versione del fatto non è considerata vera.
Il giuramento attesta la veridicità della versione dei fatti e non ammette prova contraria; chi
fa falso giuramento è tenuto al risarcimento del danno.
Il giuramento non è deferito per la decisione di cause relative ai diritti indisponibili.
Il giuramento è suppletorio quando è il giudice ad invitare la parte a giurare.
25. Segue. Testimonianza. La testimonianza è una prova orale, ossia è la narrazione dei
fatti della causa compiuta davanti ai giudici e sotto giuramento da parte di soggetti che sono
estranei agli interessi in conflitto; tale prova non è particolarmente significativa, in quanto è
difficile determinare se un terzo sia o meno estraneo all’interesse in conflitto e di
conseguenza la sua ammissibilità è rimessa al giudice.
La testimonianza non è ammessa:
• quando per quel dato fatto è richiesta la forma scritta non bastando una prova orale;
• quando il valore dell’oggetto del contratto è superiore a lire 5000;
• quando ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento.
La testimonianza è ammessa:
• quando esiste un qualsiasi scritto che attesti quanto testimoniato;
• quando il contraente è impossibilitato moralmente o materialmente a procurarsi una
prova scritta;
• quando il contraente, non per sua colpa, ha perso il documento che gli forniva la
prova.
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26. Segue. Presunzioni. La presunzione è un metodo logico che permette al giudice di
risalire da un fatto noto ad uno ignoto, quando è sprovvisto di una prova diretta; esse sono:
• presunzioni semplici, quando il giudice reputa provato un fatto del quale mancano
prove dirette;
• presunzioni legali; quando è la legge che ritiene presunto un fatto, cioè che ha valore
di prova in relazione ad un altro fatto; esse si distinguono in:
o assolute, perché non ammettono prova contraria;
o relative, quando ammettono prova contraria.
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