Parigi, 17 ottobre 1961: una strage dimenticata. Di Piero Acquilino In: Progetto Comunista – Gennaio 2002. La data del 17 ottobre 1961, probabilmente dice poco o nulla anche a chi ha una buona conoscenza della storia del movimento operaio e ricorda i martiri di Chichago”, oppure le cannonate di Bava Beccaris contro i proletari milanesi. Eppure quel giorno, non lontanissimo, a Parigi, avvenne forse il più grave massacro di lavoratori del secondo dopoguerra in Europa occidentale. Perché non ce ne ricordiamo? La risposta è drammaticamente semplice: perché le vittime erano tutte algerine. Immigrati, insomma, per giunta, mussulmani e, quindi, appartenenti a quella parte del mondo che l’attuale Presidente del Consiglio (ma, non è il solo) sostiene essere irrimediabilmente inferiore alla “civiltà occidentale”. Oggi, in questo clima di caccia all’arabo e al mussulmano, inasprito dagli attentati dell’11 settembre è quindi utile ritornare su uno degli innumerevoli esempi che dimostrano quanto sangue e quanto dolore umani alimentino le “libertà” e le ricchezze dell’occidente capitalistico. Il contesto Nel 1954 una parte del movimento indipendentista algerino, stanca di aspettare le concessioni dei governi di Parigi — “I francesi preferiscono cambiare sei volte governo e una volta Repubblica, piuttosto che riconoscere la sovranità nazionale dell’Algeria”, disse un dirigente della rivolta — passarono all’azione diretta con attentati e sabotaggi. Era l’inizio di una lunga e sanguinosa guerra che vide da parte francese l’utilizzo d’ogni mezzo, compresi la tortura e lo sterminio di coloniale francese e, da parte algerina oltre che allo scontro durissimo contro le truppe d’occupazione, una guerra feroce tra le principali organizzazioni indipendentiste (FLN e MNA) per assicurarsi il controllo del movimento. Sotto la presidenza di De Gaulle, nel gennaio 1961, fu indetto un referendum tra i cittadini francesi che, stanchi della guerra, si pronunciano con il 75,2% a favore dell’autodeterminazione dell’Algeria. Tra i coloni francesi (i “pieds-noirs”) e nell’esercito si accende la rivolta: è fondata “L’Organisation de l’Arme Secrète” (OAS) che semina il terrore tra gli algerini e tra i francesi favorevoli all’autodeterminazione. Il governo intavola comunque trattative con il governo provvisorio della repubblica algerina (GPRA) ma, durante l’estate queste entrano in stallo sulla sorte del Sahara e lo statuto dei “pieds-noìrs Nell’autunno, ciascuno dei due contendenti ha la necessità di ripresentarsi al tavolo delle trattative da posizioni di forza: repressione e attentati si intensificano. I fatti In Francia gli immigrati algerini sono numerosi e concentrati soprattutto nelle zone industriali. Si tratta essenzialmente d’operai che vivono in condizioni di forte degrado nelle barracopoli delle periferie industriali, prima tra tutte quella di Parigi. Tra loro l’egemonia politica del Fronte di Liberazione Nazionale si è oramai consolidata. Su di loro si abbattono le feroci “cacce ai topi” (così sono chiamati per disprezzo) della polizia. Alla guida della polizia parigina c’è un eccezionale camaleonte politico, sulla biografia del quale è interessante soffermarsi: Maurice Papon. Inizia la sua carriera di zelante funzionario come radical-socialista, sotto i governi del “fronte popolare” negli anni ‘30. Scoppiata la guerra, passa al servizio, come segretario generale del distretto della Gironda, del governo di Vichy e ha un ruolo attivo nella deportazione di 1.690 ebrei verso i campi di sterminio. Per questo crimine sarà processato e condannato nel 1998, all’età di 88 anni a dieci anni di reclusione. Ma, fiutando l’aria, nel ‘44 prende contatto con la resistenza, salvando vita e carriera. Nel 1956 l’allora primo ministro, il socialista Guy Mollet, lo nomina ispettore generale a Costantina, una delle principali città dell’Algeria con ampi poteri su un vasto territorio. Sotto la sua supervisione, l’utilizzo della tortura è merce corrente e le cifre della repressione parlano da sole: 10.282 morti, 117.000 deportati. Forte di questa esperienza, nel marzo del 1958 è richiamato a Parigi dal ministro degli interni, il radical-socialista Bourgès-Maunoroy, per ricoprire la carica di prefetto. Com’è nel suo stile, non perde tempo. Fonda un centro d’identificazione a Vincennes e un campo d’internamento dove rinchiude 5.000 algerini Ma il suo capolavoro è la creazione degli Harkis, un corpo di polizia parallelo, reclutato tra gli algerini collaborazionisti e inquadrato da ufficiali francesi, al quale affidare i lavori più sporchi. Gli Harkis requisiscono due alberghi nel popolare quartiere della Goutte d’Or, trasformandoli in centri di tortura, d’assassinio e d’infiltrazione nella resistenza indipendentista. È l’uomo giusto al posto giusto per ridimensionare l’influenza del FLN in Francia. De Gaulle può giostrare tra GAS e trattative con il governo provvisorio, senza sporcarsi direttamente le mani. Prendendo a pretesto una serie d’attentati contro la polizia, che erano costati 11 vittime, il 5 ottobre 1961, Papon instaura il coprifuoco dalle 20.30 alle 5.30 per i “francesi mussulmani d’Algeria”. I bar tenuti o frequentati da loro dovranno chiudere alle 19.00. La Federazione di Francia dello FLN giudica che sia venuto il momento di scatenare il movimento di massa anche sul territorio metropolitano: il coprifuoco va boicottato. Il 17 ottobre, all’entrata in vigore del coprifuoco, gli algerini residenti nella regione parigina sono invitati a confluire verso i grandi boulevards del centro al grido di “Algeria algerina” e “Pace. Negoziati con il FLN”, per convergere poi verso la piazza de l’Opéra. La manifestazione dovrà essere assolutamente pacifica, non saranno tollerate armi - “neanche una spina” - né comportamenti violenti e parteciperanno anche donne e bambini. Papon li aspetta al varco: le stazioni del métro e delle ferrovie, i punti strategici sono occupati dai posti di blocco. Migliaia di poliziotti, di gendarmi, persino di vigili del fuoco, oltre che, naturalmente, i famigerati Harkis, sono mobilitati in assetto di guerra. Papon stesso ha visitato, nei giorni precedenti caserme e posti di polizia per diffondere il suo messaggio: “Regolate i vostri conti con gli algerini. Qualsiasi cosa accada, siete coperti!”. Gli algerini si avviano a migliaia verso i luoghi convenuti e la manifestazione indipendentista assume anche un aspetto sociale: gli invisibili abitanti delle periferie più squallide, che producono alla Renault e nelle altre fabbriche della Parigi operaia, invadono il centro della “ville lumière”, vetrina del benessere e della “grandeur” francesi. Nonostante la repressione, il fatto stesso che trentamila uomini e donne abbiano sfidato il governo francese nella sua capitale è un successo senza precedenti. Ma la repressione è tremenda. Alle 21.50 la polizia comincia a caricare, sparando. I manifestanti sono picchiati, arrestati e, poi, massacrati nei cortili delle caserme e nei campi di raccolta. Oppure uccisi a colpi d’arma da fuoco o annegati nella Senna. Papon ammette tre morti, 64 feriti e 11.538 arresti, ma la realtà è ben altra. Per giorni e giorni il fiume continua a restituire cadaveri con segni di violenza. Le prime autopsie rilevano "ferite alla testa, evirazione, colpi d’arma da fuoco nel ventre”. Storici autorevoli come Pierre Vidal-Naquet o ricercatori coraggiosi come Jean-Luc Einaudi parlano di un bilancio che va dai due ai trecento morti. Le stesse fonti ufficiali, dopo aver steso una colata di silenzio e d’omertà sull’accaduto per quasi quarant’anni, sono costrette ad ammettere che le vittime furono svariate decine (48, secondo il rapporto dell’avvocato della corte di Cassazione, Geronimi). De Gaulle, dopo aver definito l’accaduto “inammissibile, ma secondario” coprirà Papon che, con l’ennesima mutazione, diventerà gollista, concludendo la sua carriera nel 1981 come ministro delle finanze nel governo di Giscard d’Estaign. Ci vorrà la denuncia di un settimanale, “Le Canard enchainé” per mettere un luce il suo ruolo nella deportazione degli ebrei e condurlo davanti ai giudici. L’entità del massacro apre contrasti anche in seno alla stessa polizia. Da un lato si vedono i risultati del lavorio del “réseau Dides”, organizzazione clandestina di poliziotti d’estrema destra, finalizzata all’anticomunismo e formalmente disciolta. Dall’altro, un gruppo di sinistra, animato da Emile Potzer che, sotto l’occupazione nazista aveva creato al “Front national de la police”, esce allo scoperto con un volantino, firmato “Poliziotti repubblicani” in cui si dichiara di non poter: “tacere più a lungo la loro disapprovazione davanti agli atti odiosi che rischiano di diventare moneta corrente e di ripercuotersi sull’onore dell’intero corpo di polizia”. Nei giorni seguenti la manifestazione, la Senna continua a restituire corpi, mentre, ancora il 27 ottobre la polizia arresta, strangola e getta nel fiume un militante algerino. La repressione, per quanto dura, non riesce a fermare la lotta. Il 18 ottobre entrano in sciopero generale i commercianti algerini. Il 20 è la volta delle donne, che manifestano contro la repressione, così come faranno il 9 novembre, davanti alle carceri, mentre era in corso uno sciopero della fame dei detenuti. La sinistra In diverse località della Francia scioperano e manifestano i lavoratori algerini, ma la reazione dei lavoratori francesi è scarsa. Solo alla Renault un migliaio di operai si riuniscono in assemblea. Alla Sorbona e al quartiere latino si svolgono manifestazioni di solidarietà di studenti e insegnanti. Ma, in generale, tra i lavoratori prevale la paura. Non solo: anche l’atteggiamento colonialista della sinistra aumenta il disorientamento. La partecipazione dei socialisti al governo non ha rappresentato alcuna soluzione di continuità rispetto alla politica coloniale della destra, ma, come abbiamo già visto, ha persino favorito l’ascesa di personaggi come Papon. Il PCF, pur non partecipando al governo, ancora nel 1958 sosteneva che l’Algeria doveva restare nell’Unione francese. Il suo segretario, Maurice Thorez, spiegava così il rifiuto del partito ad applicare il diritto d’autodeterminazione all’Algeria: “Il diritto al divorzio non comporta l’obbligo di divorziare”. Da buoni opportunisti, i dirigenti del PCF erano pronti a contrastare tutti gli imperialismi, salvo quello del proprio paese. Anzi, presentavano la difesa degli interessi francesi nell’Africa settentrionale, come un aspetto della lotta contro gli imperialismi italiano e spagnolo durante la guerra e americano nel dopoguerra. Solo nel 1957 il partito si pronuncerà per l’indipendenza, non immediata, dell’Algeria, evitando però qualsiasi bilancio critico delle posizioni assunte in passato. Tutto questo è tanto più grave quando si considera che, l’atteggiamento del PCF, ebbe un’influenza decisiva nell’involuzione nazionalista della sinistra algerina Solo la sinistra del partito raccolta attorno al giornale interno “L’Étincelle” e al periodico “Voies nouvelles” e animata da Victor Leduc e, Jean-Pierre Vernant, si oppone alla deriva sciovinista del partito esprimendo il suo dissenso in occasione della condanna degli attentati del FLN nel 1954, del voto favorevole ai poteri speciali nel 1956, e contro l’esclusione dei comunisti che sostenevano il FLN. Fuori della sinistra “ufficiale”, a denunciare i crimini dell’imperialismo francese e, spesso, ad aiutare il resistenti algerini sono soltanto le organizzazioni della sinistra anti-stalinista (trotskisti, anarchici, ecc.), una rivista come “Les Temps modernes” ed intellettuali come Sarte e VidalNaquet. Gli accordi di Evian Nel febbraio 1962 un attentato dell’OAS uccide una bambina di quattro anni. La manifestazione di protesta dei lavoratori è proibita dalla polizia e, negli scontri alla stazione del métro “Charonne” sono uccisi otto manifestanti, tutti iscritti al PCF, mentre un nono morirà in seguito alle ferite. I funerali saranno seguiti da cinquecentomila persone ma, al cimitero del Père Lachaise solo il rappresentante della CFTC ricorderà quanto avvenuto il 17 ottobre, citando una frase di Marx. La Francia oramai ha fretta di chiudere la partita algerina. I negoziati con il governo provvisorio sono ripresi e, il 18 marzo a Evian, sarà firmato l’accordo di indipendenza. Ma il governo intende chiudere anche la questione dei crimini di guerra: dal 1962, quattro amnistie, cancelleranno tutto e una legge particolarmente restrittiva, metterà pesanti lucchetti alle porte degli archivi. “Se un giorno si rifacesse un processo di Norimberga” — scriveva un caporale della Legione straniera — “saremmo tutti condannati: degli Oradour, noi ne facciamo ogni giorno”. (Oradour è la Marzabotto francese) Oggi A partire dagli anni ‘80, nonostante la difficoltà di consultate gli archivi dello Stato (che, in alcuni casi, possono rimanere chiusi per 100 anni!) hanno cominciato ad essere pubblicati alcuni libri sugli avvenimenti dell’ottobre ‘61. Nel 1989 è fondata l’associazione “Au nom de la mémoire”, composta di figli di immigrati (i “beurs”) che, nell’ottobre 1991, organizza una manifestazione per ricordare il massacro. Nello stesso periodo, il processo a Papon e la causa intentata - e persa - da quest’ultimo contro Jean-Luc Einaudi per il contenuto del libro “La bataille de Paris, 17 octobre 1961”, ravvivano l’interesse dell’opinione pubblica francese. Da allora sono stati pubblicati libri, svolte inchieste e realizzati alcuni film su questo episodio. Il lavoro di ricerca ha portato anche al reperimento di prove concrete: due giornalisti de “L’Humanité Hebdo” hanno trovato fosse comuni a Créreil, nella periferia parigina con i resti di alcune delle vittime. Quest’anno si è costituita l’associazione “17 octobre 1961: contre l’oubli” che ha messo in cantiere due mesi di mostre, dibattiti, conferenze e manifestazioni. Decine di associazioni politiche e sindacali, tra le quali il PCF, la LCR, Lutte Ouvriere, i Verdi, Alternative Libertaire, hanno sotto-scritto un appello al governo in cui chiedono: • Il riconoscimento degli avvenimenti del 17 ottobre come crimine contro l’umanità; • Il libero accesso agli archivi per quanto concerne la storia della guerra d’Algeria; • L’inserimento dei fatti del 17 ottobre nei manuali scolastici di storia. Diffondere la conoscenza di questi crimini, e di quelli commessi dall’imperialismo italiano, tedesco, spagnolo, belga, olandese, inglese ecc. un modo per rispondere, a chi ci parla di “civiltà superiore” o ci addita esotici nemici che, soprattutto oggi, nella nuove e grande casa Europa, “il nemico è in casa nostra.