Diagnostica molecolare della fibrosi cistica

Rivista Italiana di Genetica e Immunologia Pediatrica - Italian Journal of Genetic and Pediatric Immunology
Anno I numero 2 - luglio 2009 | direttore scientifico: Carmelo Salpietro - direttore responsabile: Giuseppe Micali
Diagnostica molecolare della fibrosi cistica
Vincenzo Procopio, Chiara Di Bella, Maria Amorini, Giuseppina Lo Giudice, Petronilla Romeo, Francesca Pugliatti, Basilia Piraino, Luciana Rigoli
Dipartimento di Scienze Pediatriche, UOC di Genetica e Immunologia Pediatrica, Università di Messina
Abstract
Cystic fibrosis (CF) is the most common autosomal recessively inherited disease in
the Caucasian population. Based upon the population frequency of approximately 1
in 2500 , the heterozygote frequency can be calculated to be 1 in 25. The genetic
basis for CF has been shown to be mutations in the gene coding for an epithelial
membrane chloride channel, the Cystic Fibrosis Transmembrane Conductance
Regulator (CFTR). To date over 1000 mutations have been characterized in this
gene. The frequency of specific mutations varies amongst different ethnic groups.
The cloning and molecular characterization of the CFTR gene has lead to a major
breakthrough in the understanding of the biochemical basis of CF pathogenesis.
Riassunto
Negli ultimi anni è cresciuto in modo esponenziale il numero di malattie genetiche
per le quali l’analisi molecolare consente di ottenere diagnosi rapide ed attendibili.
La sorprendente velocità con cui si sta verificando questo incremento è
essenzialmente legata a due fattori. Il primo è stato il progresso nella ricerca
scientifica di base, in particolare nella ricerca genomica che sta identificando, quasi
a ciclo continuo, nuovi geni coinvolti con lo sviluppo o la predisposizione a malattie.
Il secondo è il continuo evolversi di tecnologie avanzate che permettono di effettuare
analisi sempre più sensibili su serie sempre più ampie di pazienti. L’analisi
molecolare permette oggi di intervenire in tutte le fasi della malattia, qualche volta
anche prima: nella diagnosi di predisposizione e nella diagnosi presintomatica, nella
diagnosi -anche prenatale- di malattia, nel riconoscimento dei portatori, nella
formulazione prognostica, ed infine nel monitoraggio terapeutico.
Clinica
La fibrosi cistica è la più diffusa malattia genetica a prognosi sfavorevole della
razza bianca. In Italia la frequenza stimata è di 1 malato ogni 2.500 nati vivi, mentre i
portatori sani del gene sono di uno ogni 25 individui della popolazione. Il gene della
fibrosi cistica, situato sul braccio lungo del cromosoma 7, ed identificato nel
settembre dell'89, codifica una proteina complessa che ha le caratteristiche di una
proteina di membrana denominata "Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator"
(CFTR), coinvolta nella regolazione del flusso di ioni cloro attraverso gli epiteli. Un
difettoso flusso di ioni a livello di organi secernenti (epiteli bronchiali, intestinali,
pancreatici, biliari ecc.) comporta un difetto di idratazione delle secrezioni mucose,
da cui deriva disidratazione dei secreti, che perdono la loro normale fluidità e
scorrevolezza. Nell'epitelio del dotto sudorifero l'anormalità del trasporto del cloro e
quello conseguente del sodio determina una forte salinità del sudore, caratteristica
peculiare della malattia, sul cui dosaggio si basa il principale test diagnostico di
fibrosi cistica (Test del sudore).
Illustrazione 1: principali funzioni della proteina CFTR
Genetica
La clonazione del gene responsabile della fibrosi cistica ha portato
all'individuazione di numerose mutazioni che determinano la malattia. Ad oggi sono
state scoperte circa 1500 mutazioni che incidono a livelli diversi della struttura del
gene e a cui corrisponde una variabilità dell'espressione clinica della malattia. La
mutazione principale è rappresentata dalla ΔF508, presente in Italia in circa il 50%
dei malati. La scoperta del gene responsabile della fibrosi cistica ha aperto da un
lato nuove possibilità per una migliore conoscenza del difetto di base e quindi per
ricerche su eventuali terapie causali; dall'altro ha aperto la strada a criteri più
avanzati di diagnosi genetica ed in particolare di diagnosi del portatore. Lo studio del
DNA fetale è valido ausilio per la diagnosi prenatale nelle coppie con un precedente
figlio malato di fibrosi cistica.
Illustrazione 2: 1: mappa cromosomica; 2: struttura genica; 3: struttura
proteica
Le classi di mutazioni CFTR
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L'applicazione di tecniche che presentano una più alta risoluzione migliora
fortemente il tasso di rivelazione delle mutazioni, permettendo di assegnare i
genotipi ad una di cinque classi di mutazioni, sulla base dei risultati dell’analisi
molecolare.
Le mutazioni di Classe 1 compromettono la biosintesi della proteina. Ci si aspetta
che il 50% delle mutazioni CFTR impedisca una appropriata sintesi di proteina
normale: appartengono a questa classe le mutazioni “non senso” o “stop”, le
mutazioni “frameshift” o quelle che determinano un accoppiamento aberrante di RNA
messaggero (“missplicing”). Questa classe di mutazioni include i fenotipi più severi,
in causa dell’assenza di proteina sintetizzata. La più comune di queste mutazioni è
la G542X (nel Veneto e Trentino-Alto Adige è frequente la mutazione R1162X).
Le mutazioni di Classe 2 determinano un alterato sviluppo della proteina pur
sintetizzata che porta in definitiva ad una mancanza di proteina funzionante a livello
di membrana cellulare. Alcune mutazioni “missense” e la mutazione ΔF508 sono
incluse in questa classe. La mutazione ΔF508 determina un “misfolding” e pertanto
una errata collocazione nella cellula della proteina matura. Il “misfolding” di questa
proteina mutante porta alla sua degradazione selettiva ad opera del sistema di
controllo di qualità della cellula.
Le mutazioni di Classe 3 colpiscono la regolazione del canale del cloro. La proteina
è correttamente trasportata alla membrana cellulare ma poi non risponde alla
stimolazione da parte di AMP ciclico. Queste mutazioni, localizzate a livello delle
frazioni di proteina denominate “nucleotide binding fold” compromettono
probabilmente il legame dell’ATP per l’attivazione del canale. La G551D è il prototipo
di tali mutazioni.
La Classe 4 include mutazioni che consentono un corretto trasporto alla membrana
cellulare di una proteina CFTR che risponde agli stimoli di attivazione ma che genera
una ridotta corrente di cloro.
La Classe 5 comprende mutazioni di stabilità proteica, che comportano una
proteina mancante degli ultimi 70-98 aminoacidi nella regione terminale C. L’analisi
del processo di biosintesi ha dimostrato che gli ultimi 82 aminoacidi non sono
essenziali per lo sviluppo di conformazione della proteina ma l’emivita della CFTR
troncata è ridotta di 5-6 volte.
Illustrazione 3: classi di mutazioni
Modelli di analisi genetica per la fibrosi cistica
Strategie
La strategia più idonea per lo studio molecolare diretto della fibrosi cistica viene
definita sulla base delle sue caratteristiche molecolari e della popolazione in cui
viene condotto lo screening: le mutazioni variano al variare delle specifiche
popolazioni evidenziando un “effetto del fondatore” ed esistono specifiche
popolazioni in cui la malattia presenta una grande omogeneità genetica. E’
importante conoscere quindi oltre alla sequenza del gene responsabile, anche lo
spettro mutazionale in ogni singola popolazione. Nella popolazione generale o nei
collaterali di soggetti con fibrosi cistica ci si limita alla ricerca delle mutazioni più
frequenti compresa eventualmente quella familiare e si calcolano le percentuali di
rischio residuo che sono variabili a seconda del potere di risoluzione dei sistemi
utilizzati. Durante l’ultimo decennio sono stati sviluppati numerosi metodi di ricerca di
mutazioni, tutti basati sulla reazione polimerasica a catena o PCR Possiamo
distinguere vari livelli di analisi molecolare che si caratterizzano per diversi tempi di
esecuzione, tecnologie e costi. Il test viene proposto ai familiari di persone affette
con rischio di eterozigosi aumentato, a coppie che cercano una gravidanza con
tecniche di fecondazione assistita e, talora, a coppie della popolazione generale,
soprattutto quelle in attesa di un figlio. Nel caso in cui il test del sudore non è
eseguibile o risolutivo, possono essere indicate un’analisi genetica di I livello ed
eventualmente, dopo giudizio clinico, di II o III livello.
Analisi di I livello: kit commerciale o preparato in laboratorio che includa l’analisi
delle mutazioni più frequenti nella regione di riferimento del laboratorio. Le tecniche
più utilizzate sono: Reverse Dot Blot, Amplification Refractory Mutation Systems,
Oligonucleotide Specific Allele e Oligonucleotide Ligation Assay.
Analisi di II livello: scanning di tutti gli esoni e delle regioni limitrofe, riconoscimento
di variazioni di sequenza, sequenziamento della specifica regione del gene. Le
tecniche più utilizzata è la Denaturing High Performance Liquid Cromatography. I
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test di II livello permettono una detection rate migliore, ma il significato fenotipico del
risultato molecolare può essere di difficile interpretazione.
Analisi di III livello: ricerca di delezioni e/o di inserzioni; si tratta di indagini molto
specialistiche ancora poco utilizzate. Si fa ricorso in questo caso alla Quantitative
Multiplex Polymerase Chain Reactions of Short Fluorescent Fragments.
La diagnosi prenatale si esegue tramite analisi molecolare su materiale fetale
quando entrambi i genitori sono portatori di una mutazione che causa malattia. Il
testing fetale è da scoraggiare in assenza di un’indicazione specifica, e va sostituito
con la ricerca di mutazioni nella coppia.
Il rischio riproduttivo di coppia può essere calcolato con un test di I livello, il cui
esito negativo è sufficiente a indicare un rischio significativamente ridotto.
L’approfondimento con test di II livello è opportuno solo se uno dei componenti della
coppia sia portatore o affetto e l’altro sia negativo al test di I livello; deve sempre
essere preventivamente discusso con la coppia durante la consulenza genetica. Il
Gruppo di studio per la fibrosi cistica della Società italiana di pediatria ha elaborato
nel 2001 le linee guida sull’uso del test genetico per fibrosi cistica, indicando in
dettaglio le categorie di possibili utenti. l’analisi genetica che si considera positiva
quando identifica due mutazioni che causano la malattia. Vale la pena sottolineare
che i test di I livello possono vantare una minore copertura ma consentono
l’identificazione di mutazioni note, mentre quelli di II livello hanno una maggiore
sensibilità, ma portano a risultati di più difficile interpretazione perché possono
individuare sia mutazioni che portano alla malattia sia varianti che non sono
patologiche.
Analisi di I livello
L’analisi genetica di I livello consiste nella ricerca delle mutazioni più frequenti nella
popolazione. Le tecniche utilizzate devono soddisfare criteri di sensibilità,
riproducibilità e rapidità, quest’ultima in funzione del numero sempre maggiore di
analisi richieste. Possono essere utilizzate tecniche prodotte in laboratorio o kit
commerciali. Le tecniche artigianali sono di solito meno costose, ma non
perfettamente riproducibili; viceversa i kit commerciali, a fronte di un costo più
elevato, consentono agli operatori di risparmiare tempo, danno luogo a esperimenti
riproducibili e permettono di analizzare un pannello di mutazioni uniforme nei diversi
laboratori. E’ essenziale che ogni laboratorio conosca la frequenza relativa delle
mutazioni della propria area di utenza, per poter scegliere un pannello di mutazioni
che consenta un buon tasso di individuazione (detection rate).
Reverse Dot Blot (RDB)
La tecnica prevede una reazione polimerasica a catena (PCR) multipla in grado di
amplificare differenti regioni del gene. A questa fa seguito una reazione di
ibridazione allele specifica tra i prodotti della PCR e le sonde molecolari
oligonucleotidiche complementari alla sequenza normale o a quella mutata. Le
sonde allele specifiche vengono fatte aderire stabilmente a una membrana di nylon
carica negativamente. Dopo l’ibridazione tra le sonde e il DNA amplificato si procede
alla visualizzazione. Il metodo è rapido, affidabile e non richiede strumentazioni
sofisticate. Il numero delle sonde oligonucleotidiche è variabile e rappresenta il
potere di risoluzione del test.
Amplification Refractory Mutation Systems (ARMS)
E’ una delle tecniche più utilizzate per la rapidità, l’affidabilità e l’uso di materiali
non radioattivi. Prevede una reazione polimerasica a catena in cui uno dei due
primer è costruito in modo che il nucleotide in posizione 3’ sia complementare alla
sequenza mutata del gene o a quella normale. Il DNA genomico non viene
amplificato quando si usa il primer non perfettamente complementare alla sequenza
in esame. La visualizzazione dei prodotti amplificati avviene con l’elettroforesi su gel
di agarosio. Il metodo, se ben standardizzato e se utilizzato con le opportune
precauzioni quali la coamplificazione di un frammento di DNA di controllo,
l’amplificazione contemporanea di controlli omozigoti normali e patologici e di una
miscela di tutti i reagenti escluso il DNA (Bianco), risulta estremamente economico
veloce ed affidabile.
Illustrazione 4: metodica ARMS
Oligonucleotide Specific Allele (ASO)
I prodotti di una reazione polimerasica a catena multipla vengono denaturati,
applicati su una membrana di nitrocellulosa e ibridati con oligonucleotidi marcati
complementari alla sequenza normale o a quella mutata. E’ una tecnica da costruire
in laboratorio, non esistono infatti kit commerciali che utilizzino tale principio.
Illustrazione 5: metodica ASO
Oligonucleotide Ligation Assay (OLA)
Si basa sull’uso di sonde fluorescenti specifiche e della ligasi termostabile rTth, un
enzima che ripara il DNA. La reazione polimerasica a catena utilizza oligonucleotidi
complementari all’allele mutato e normale, legati in posizione 5’ a modificatori della
mobilità di diversa lunghezza che permettono la separazione dei prodotti della
reazione durante l’elettroforesi; viene inoltre incorporata una sonda legata a una
molecola fluorescente in 3’ complementare alla sequenza adiacente alla mutazione
in esame. La ligasi unisce gli oligonucleotidi complementari all’allele con le sonde
fluorescenti, discriminando tra quelli con complementarità completa e incompleta. La
visualizzazione dei risultati avviene con elettroforesi capillare su sequenziatore
automatico dotato di un programma che riporta il grafico della corsa elettroforetica e
di un programma che interpreta i risultati e restituisce la genotipizzazione del
campione. Il metodo è efficiente e rapido, ma prevede una strumentazione
sofisticata.
Illustrazione 6: metodica OLA
Tabella 1. Analisi di I livello: kit in commercio
Analisi di II livello
L’analisi genetica di II livello utilizza sistemi di scanning del gene che permettono il
riconoscimento di variazioni di sequenza in definite porzioni codificanti e nelle regioni
di splicing del gene CFTR. Tali alterazioni di sequenza vengono successivamente
caratterizzate dal punto di vista molecolare mediante reazioni di sequenziamento
della regione genica interessata.
Denaturing High Performance Liquid Cromatography (DHPLC)
Procedura automatica che permette l’identificazione di varianti nucleotidiche in
brevissimo tempo. Si tratta di una cromatografia ionica in fase inversa che sfrutta, in
condizioni di parziale denaturazione, la diversa ritenzione delle molecole di DNA in
assenza/presenza di variazioni di sequenza. L’apparecchiatura dispone di una
colonna di separazione riempita con una matrice di particelle non porose uniformi e
di piccole dimensioni che le conferiscono una estesa superficie di interazione e allo
stesso tempo piccoli spazi per la diffusione delle molecole di DNA. Grazie al fatto
che la fase stazionaria è elettricamente neutra e idrofobica, le molecole di DNA
cariche negativamente non vengono assorbite dalla matrice. Il trietil-ammonioacetato (TEAA) agisce da ponte tra i due perché da un lato le sue cariche positive
formano un legame ionico con i gruppi fosfato del DNA (carichi negativamente) e
dall’altro i gruppi alchilici interagiscono con la matrice idrofobica della resina. Il
fattore eluente è l’acetonitrile (ACN) che rompe il legame tra il DNA e il TEAA,
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consentendo l’eluizione. Maggiore è la lunghezza del frammento da analizzare,
maggiore sarà la forza con cui viene assorbito dalla fase stazionaria perché è più
alto il numero di legami ionici tra i gruppi fosfato del DNA e gli ioni TEAA. Il tempo di
ritenzione dipende anche dalla composizione in basi nucleotidiche del frammento in
esame. Tutti questi fattori contribuiscono alla differenziazione dei frammenti di DNA
differenti per composizione e numero di basi. Per monitorare le separazioni ottenute
in colonna, l’eluato passa attraverso uno spettrofotometro che ne legge
l’assorbimento a 260 nm, la lunghezza d’onda assorbita dal DNA. Il risultato si
ottiene nel giro di 6-7 minuti, viene registrato da un apposito programma e riportato
sotto forma grafica: si riconosce la presenza di un frammento con sostituzione
nucleotidica quando il cromatogramma mostra più di un picco di assorbimento. il
campione da esaminare e un controllo vengono amplificati mediante PCR e
successivamente miscelati, denaturati e lentamente rinaturati in modo da formare gli
eteroduplex in caso di mutazione. L’analisi viene eseguita a temperature
sufficientemente elevate da mantenere le molecole parzialmente denaturate. Un
frammento che contiene una variante nucleotidica si distinguerà dal controllo
negativo perché darà luogo alla formazione di un eteroduplex che produrrà picchi
cromatografici aggiuntivi, dal momento che si comporta cromatograficamente in
modo diverso dall’omoduplex non mutato, che ha tempi di ritenzione maggiori. Lo
strumento infatti rileva la differenza tra la molecola omoduplex, che a una
determinata temperatura è ancora sotto forma di doppia elica, e quella
dell’eteroduplex, che alla stessa temperatura mostra una parziale denaturazione in
corrispondenza del nucleotide non appaiato. Tale temperatura è detta di «quasi
denaturazione». E’ importante inserire in tutte le corse cromatografiche controlli
positivi e negativi per la verifica delle condizioni operative. La combinazione di
un’analisi di I livello e di un’analisi di II livello eseguita con la tecnica della DHPLC ha
un detection rate del 90% circa.
Sequenziamento diretto del DNA
Le tecniche precedentemente descritte permettono all’operatore di riconoscere
variazioni di sequenza del DNA la cui caratterizzazione molecolare avviene in
seguito per sequenziamento della specifica regione del gene. L’analisi di sequenza
prevede l’impiego di apparecchiature automatiche che, presentano caratteristiche di
rapidità, robustezza del sistema e sicurezza per l’operatore. La marcatura
attualmente più utilizzata è quella che si avvale di terminatori di catena (big dye
terminator) che consistono nei quattro didesossinucleotidi marcati con molecole
fluorescenti. I prodotti della reazione di marcatura vengono sottoposti a elettroforesi
su sequenziatore, man mano che i frammenti di DNA di diversa lunghezza
raggiungono la posizione del detector, vengono rilevati e identificati grazie
all’emissione di luce alle lunghezze d’onda specifiche dei diversi fluorocromi, eccitati
dal laser dello strumento. Le emissioni vengono raccolte e analizzate da una
fotocamera digitale CCD (Coupled Charge Device) che riporta la sequenza delle
emissioni in un grafico chiamato elettroferogramma, caratterizzato da una
successione di picchi di 4 colori differenti che corrispondono alle emissioni
fluorescenti dei diversi fluorocromi. L'analisi della sequenza nucleotidica della
regione di DNA dove è stata evidenziata una variazione di sequenza consente poi di
definire il difetto molecolare. Si esaminano inizialmente le regioni del gene più
importanti per una sua corretta espressione: sequenze esoniche, siti di splicing e
sequenze necessarie per una corretta maturazione dell’RNA, sequenze promotrici,
etc. Le regioni introniche sono molto estese e generalmente non informative.
Illustrazione 7: DHPLC e sequenziamento automatico
Analisi di III livello
Nel 10-15% dei soggetti affetti non si riesce a identificare la o le mutazioni
responsabili della malattia nonostante l’analisi di tutte le porzioni codificanti e le
regioni di splicing del gene. Poiché a questo tipo di analisi sfuggono i riarrangiamenti
genomici che coinvolgono delezioni di più esoni in uno stesso gene, è ragionevole
supporre che la presenza di inserzioni o delezioni nel gene CFTR sia sottostimata e
possa rendere conto di almeno una parte di quel 10-15% di alleli non caratterizzati.
A conferma di questa ipotesi, è stato di recente segnalato che una estesa ricerca dei
riarrangiamenti in una popolazione selezionata ha consentito di individuare un 16%
di alleli precedentemente non identificati.
La tecnica di ultima generazione utilizzata è la Quantitative Multiplex Polymerase
Chain Reactions of Short Fluorescent Fragments (QMPSF) che consiste
nell’amplificazione simultanea di piccoli frammenti di DNA seguita dalla
quantificazione della fluorescenza di ciascun frammento amplificato
Illustrazione 8: Multiplex Polymerase Chain Reactions of Short Fluorescent
Fragments
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Trimestrale di divulgazione scientifica dell'Associazione Pediatrica di Immunologia e Genetica
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