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Dal santerno al Panaro

Dal Santerno al Panaro
Bologna e i comuni della provincia
Cenni storici
La fondazione del castello
Del toponimo Crevalcore sono state fornite diverse e contrastanti spiegazioni etimologiche; la più
antica di cui si abbia notizia risale al XVI secolo ed è di Carlo Sigonio: "Castrum alterum
Crepacorium ad disrumpendum cor hostium munivere" (1). Con l'espressione "castrum alterum" il
Sigonio si riferisce alla costruzione di un secondo castello (Crevalcore attuale) compiuta dal
Comune di Bologna fra il 1226 e il 1231 dopo la completa distruzione del precedente ad opera delle
truppe dell'imperatore Federico II nel 1219. Sul versante letterario il Tassoni inventa una
spiegazione ancor più allettante e fantasiosa:
"Già vi fu morto Pansa e dal dolore
nominata dai suoi fu Grevalcore" (2)
riferendosi a un episodio delle guerre civili del 43 a. C., la cosiddetta "guerra di Modena".
Della diffusione di un'etimologia legata alla parola cuore fa fede anche lo stemma del paese (tre
cuori rossi in campo bianco) e ancor più il fatto che dopo la ricostruzione del 1231 il nome fu
mutato in quello beneaugurale di Allegralcore. Una spiegazione etimologica più fondata collega
invece il nome all'espressione latina crepa(tum) corium cioè pelle, scorza crepata, a designare una
zona, al limite delle valli, in cui il ritirarsi dell'acqua nei periodi estivi produceva le tipiche
screpolature dei terreni paludosi. La prima menzione certa del toponimo Crevalcore è in un
documento del 1130 pubblicato dal Tiraboschi dove si parla di "casamentum unum juris Sancti
Silvestri in castro Cravacuore" (3).
Il castrum non sorgeva però nel luogo attuale, ma a poca distanza dai ruderi del più antico castello
di Fultignano, già in rovina nel 1017, che si può ritenere facesse parte del sistema difensivo
bizantino lungo il confine del Panaro. In alcune mappe secentesche dell'Assunteria ai confini e alle
acque del Comune di Bologna (Bologna, Archivio di Stato) sono ancora indicate, in località Guisa,
le vestigia di Crevalcore vecchio. Nonostante residui margini di incertezza derivanti dalla mancanza
di recenti e approfonditi studi sull'argomento, l'origine di Crevalcore potrebbe così essere
ricostruita: nei pressi dei ruderi di Fultignano il Comune di Bologna, avviato alla conquista del
contado, intorno al 1130 costruì il primo castello in territorio appartenente all'Abbazia nonantolana
che proprio in quegli anni, essendo in conflitto con Modena, si era consegnata ai bolognesi; tale
castello fu diroccato nel 1219 nel corso delle guerre intraprese da Federico II per riaffermare
l'autorità imperiale.
I bolognesi lo ricostruirono (1231) 3 km a nord-ovest in posizione più prossima al Panaro (che
allora scorreva lungo l'attuale via Argini) in forma quadrata con un impianto urbanistico regolare.
Al nuovo castrum (chiamato "Crevalcore nuovo" in una carta del 1231 del Registro nuovo del
Comune di Bologna) (4) fu mutato il nome e si chiamò Allegralcore mentre il castello diroccato
venne chiamato Crevalcore vecchio. "Allegralcore" non riuscì però ad attecchire e a un secolo
di distanza si ritornò, anche nei documenti ufficiali, all'antica denominazione.
Il castello non ebbe vita facile; per richiamarvi gente dalle zone limitrofe allo scopo di disporre di
un maggior numero di braccia per la difesa furono concesse esenzioni fiscali che ne fecero un
"borgo franco", ma nel 1239 nuovamente fu investito dalle milizie di Federico II, occupato e
incendiato. Dopo un'ulteriore ricostruzione il Senato bolognese considerò l’opportunità di un più
rapido collegamento con Bologna che avrebbe permesso l'invio di rinforzi con maggiore celerità; tra
il 1245 e il 1250 fu tracciata la nuova strada che, congiungendo in linea retta Borgo Panigale con
Persiceto e Crevalcore, prese il nome di Persicetana. Alla fine del XIII secolo si fecero ulteriori
opere di fortificazione e venne rafforzata la guarnigione di stanza nel castello a causa delle lotte con
gli Estensi, insediatisi a Modena nel 1289. Il XIV secolo fu particolarmente ricco di scontri, assalti,
colpi di mano, sia nelle contingenze delle lotte tra Geremei e Lambertazzi sia a causa
dell'occupazione viscontea.
I Pepoli, cedendo il dominio di Bologna ai Visconti, si erano riservati i castelli di Persiceto e
Crevalcore, ma Giovanni da Oleggio; che governava a nome dell'Arcivescovo Giovanni Visconti,
imprigionò Jacopo Pepoli e si fece consegnare i due castelli. Deciso a recuperare Bologna, di cui
l'Oleggio si era proclamato signore nel 1359 dopo la morte dell'Arcivescovo, Bernabò Visconti,
giunto con un esercito, prese Crevalcore; Bologna era stata nel frattempo ceduta al Papa e il Legato
pontificio, cardinale Egidio Albornoz, si era attestato a Persiceto. Per alcuni anni si ebbe una
situazione di tensione con scaramucce e scontri finché, avendo la meglio le truppe pontificie, il
Visconti fu costretto a ritirarsi. A Crevalcore si svolsero nel 1364 le trattative di pace, concluse con
la cessione del castello al Legato.
La minaccia viscontea si riaffacciò con maggior vigore nel 1385, dopo l'ascesa al potere di
Giangaleazzo: Crevalcore fu teatro di importanti fatti d'arme nel 1390, tra l’esercito del duca e
Alberigo da Barbiano, comandante delle truppe bolognesi. Nel 1389, in previsione di un attacco
visconteo, essendo il più esposto dei castelli bolognesi, era stato nuovamente fortificato, rinforzato
il palancato di travi che lo cingeva e rinsaldato il terrapieno.
Sono anni convulsi: nel 1403 si arriva alla pace seguita, a Crevalcore, da otto anni di dominio
estense. Dopo la cacciata del legato pontificio (1411) si accesero estremamente aspre le lotte tra le
fazioni dei Bentivoglio dei Canetoli i quali, avendo a Crevalcore folte schiere d partigiani, usarono
il castello come base operativa nel vano tentativo di impadronirsi del potere.
Solo al consolidarsi definitivo della signoria bentivolesca ebbe inizio un lungo periodo di pace.
Ciò rese possibile una serie di risistemazioni idrauliche chi sortirono l'effetto di ridurre l'estensione
delle valli e acquistare alla coltura nuovi terreni.
Fra le opere idrauliche di maggior rilievo va annoverato lo scavo del Cavamento Foscaglia,
gettantesi in Panaro all'altezza di Finale, per il quale si rese necessaria una trattativa con gli Estensi.
L'organizzazione del territorio
Tutto il territorio, nonostante fosse passato dal l130 sotto il dominio di Bologna, era rimasto di
proprietà dell'Abbazia nonantolana che lo gestiva concedendolo in enfiteusi ai terrazzani.
Nel Trecento però l'Abbazia è in decadenza e la concessione in enfiteusi serve ormai a mascherare
vere e proprie alienazioni. Si tratta di terreni in larga parte incolti; nel 1312 gli abitanti di
Crevalcore ottennero un'area a est del castello che diede origine a una partecipanza: ne resta il
ricordo nel toponimo Beni Comunali.
Anche i Pepoli ottennero dalla Badia una concessione enfiteutica, punto di partenza per la
formazione di un patrimonio terriero di entità notevolissima che comprendeva quasi per intero
l'estensione delle valli.
Nel 1578 il conte Giovanni Pepoli, complice il Consiglio della Comunità, usurpò una quota dei
beni della Partecipanza, che entrò in crisi. Come risulta da due volumi di cabrei conservati
nell'Archivio comunale, nel XVII sec. i Pepoli possiedono a Crevalcore oltre 3.000 ettari, per un
totale di circa 150 poderi coltivati da altrettante famiglie mezzadrili. I poderi sono organizzati in
cinque imprese facenti capo ad altrettante ville, attorno alle quali spesso si sviluppa un borgo con
artigiani, botteghe, chiesa, ecc. Le più antiche sono Galeazza, il cui nucleo primitivo e costituito
dalla poderosa torre trecentesca costruita da Galeazzo Pepoli, e Palata, dove si costruisce un
palazzo-castello che suscita, verso il 1540, l'entusiastica ammirazione di fra Leandro Alberti: "Et
più giù caminando, alla Palada, incontrasi nel principiato edificio del magnifico Conte Philippo de
Pepoli, il qual finito traa li nobili e radi edifici della Italia computare si potrà" (5).
Più modeste sono invece le ville della Filippina, Guisa, Ca' de Coppi. Ma anche altre nobili
famiglie si insediano nel Crevalcorese, grazie a concessioni enfiteutiche, nel XV secolo; fra queste
primeggiano i Bevilacqua, i Bolognini, i Caprara. Il territorio assume in tal modo una fisionomia
ben definita: a sud, nelle immediate vicinanze dei castello, entro le maglie ancora visibili della
centuriazione romana, una zona d proprietà frazionata e di poderi di piccole dimensioni; nord, una
zona in cui prevale la grande proprietà in mano a famiglie nobiliari bolognesi che investono in beni
immobili i patrimoni accumulati nel secolo precedente con le attività bancarie o mercantili. La
piccola proprietà è tuttavia sottoposta, specialmente nel Cinquecento, a una progressiva erosione a
vantaggio delle proprietà nobiliari, conservatesi sostanzialmente intatte fino al secolo scorso (i
Caprara vendettero le loro terre intorno al 1820; ai Pepoli subentrarono i Torlonia verso il 1870). Un
episodio bellico di rilievo si ebbe nel 1643 durante guerra per il ducato di Castro: ne restano due
incisioni che mostrano l'assalto dell'esercito della lega farnesiana e sono fra le immagini più antiche
dell'iconografia crevalcorese dopo il disegno del manoscritto Gozzadini (6). Il castello vi appare con
dovizia di particolari, suddivisi nei suoi 32 isolati, con quattro bastioni agli angoli, le porte, i ponti
levatoi, il largo fossato riempito con l'acqua del canal Torbido.
Fu probabilmente in questa circostanza che venne demolita la chiesa di S. Martino in Cozzano,
citata già nei documenti dell'XI secolo. È forse l'ultima volta che la struttura difensiva castrense
viene messa alla prova. Nel secolo seguente il fossato, senza più manutenzione, si interra e diventa
luogo dove si scaricano i rifiuti, tanto che nel 1855 il medico Federico Rossi, attestandone
l’insalubrità, ne raccomanda il riempimento.
Gli ultimi due secoli
Se nel '700 la vita crevalcorese appare consumarsi nella tranquillità del quotidiano, scandita quasi
ossessivamente dal ritmico succedersi delle processioni religiose (tale almeno è l'immagine
consegnataci da una cronaca di Stefano Maria Setti) (7) e non toccata che marginalmente da un
episodio militare della guerra di successione d'Austria (battaglia di Camposanto, 8 febbraio 1743),
gli avvenimenti del 1796 le conferiranno un'impronta decisamente più dinamica.
Con la creazione della Repubblica Cispadana il paese è incluso nel dipartimento dell'Alta Padusa
che ha per capoluogo Cento, ma i cambiamenti di maggior rilievo sotto il profilo economico sono
dati dalla soppressione delle Compagnie religiose (dei Battuti, dei Poveri, del Rosario, del
Sacramento, dell'Immacolata Concezione), quasi tutte titolari di un patrimonio immobiliare di una
certa entità, con le inevitabili conseguenze che ciò comporta per la dinamica sociale.
Si forma un ceto di proprietari terrieri locali dai connotati decisamente borghesi e si instaura un
clima nuovo che non verrà meno neppure dopo la Restaurazione. La creazione di una scuola
pubblica (1824) e l'erezione dell'Ospedale Barberini sono tra gli eventi più importanti della prima
metà dell'Ottocento; è tuttavia l'edilizia privata che riceve particolare impulso in tale periodo con il
rinnovo di molti palazzetti prospettanti sul corso principale.
Meno sporadiche si fanno, intorno alla metà del secolo, le notizie riguardanti professionisti
particolarmente attenti ai problemi sociali o culturali; il citato Federico Rossi è autore di un
"Abbozzo di Topografia medica del comune di Crevalcore", mentre il centese Gaetano Atti fonda
una "Scuola di Umanità e Rettorica" (8).
Questi gruppi emergenti, sospetti di liberalismo alla polizia papalina, offrono il loro contributo alla
causa dell'unità nazionale e dopo i plebisciti del '59 si affacciano alla gestione della cosa pubblica
con energie nuove.
Il paese, che ha ripreso a chiamarsi Crevalcore dopo che un decreto papale del l857 gli aveva
inopinatamente imposto il nome di Buonocore, è per un breve periodo (dicembre '59 gennaio '61)
aggregato alla provincia di Ferrara.
Mentre è sindaco Antonio Michelini (1863-72) vengono costruiti il nuovo municipio e il cimitero,
poco più tardi il Teatro Comunale e l'asilo infantile (1881, con un lascito dell'ing. Camillo Stagni).
Tra il 1870 e il 1874, sia per motivi igienici sia per ragioni di decoro ambientale, vengono riempite
le antiche fosse e spianati i terrapieni difensivi. Ciò permette di dar lavoro a un grande numero di
braccianti allentando momentaneamente le tensioni sociali.
Scarsità di lavoro e aumento della popolazione provocano nell'ultimo trentennio del secolo
l'emigrazione di un buon numero di famiglie verso il continente americano, intanto nascono forme
di solidarietà collettiva come la Società Cooperativa di Consumo (1874) e la Società di Mutuo
Soccorso fra Artigiani ed Operai (1883). Il partito Socialista ottiene subito una nutrita schiera di
adesioni, tali da portarlo, nel 1906, alla conquista del Municipio. Il clima politico si surriscalda: nel
1909-10 una catena di scioperi decisi dalle organizzazioni socialiste, in accordo con la Lega dei
Barrocciai, per il rifiuto della classe padronale di concedere aumenti salariali, portò all'erezione di
barricate nelle vie cittadine e all'intervento di una compagnia di cavalleria che per una settimana
tenne Crevalcore in stato d'assedio.
Il progetto di bonifica delle valli elaborato nel 1911 con la creazione del Consorzio di Bonifica
Cavamento Palata avrebbe dovuto servire a creare nuove occasioni lavorative, ma non decollò che
nel 1918, in una situazione ben presto resa esplosiva per gli scioperi e la reazione del padronato che
aveva preso a finanziare le prime bande fasciste.
L'amministrazione socialista era stata particolarmente attiva nel settore dei servizi: al 1912 risale
l'impianto della prima cabina elettrica; al 1913-14 risale la costruzione dell'acquedotto; nel '15-'16
vennero edificate le scuole elementari, che servirono come ospedale militare dopo la ritirata di
Caporetto.
Il 28 aprile 1921 una banda di squadristi attaccò il Municipio per intimidire l'amministrazione e
nel maggio 1922 questa fu definitivamente costretta a dimettersi. Nello stesso periodo i fascisti
occuparono la Casa del Popolo (costruita di fronte al Teatro Comunale nel 1908 mediante azioni
acquistate dai soci) e la destinarono a sede del fascio.
Con la liquidazione del movimento cooperativo fu completato lo smantellamento dei centri di
aggregazione operaia e l'opposizione al regime soffocata.
Durante il ventennio viene pressoché completata la bonifica delle valli e si intraprende qualche
tentativo di edilizia popolare, ma complessivamente l'amministrazione podestarile non sembra
andare oltre una gestione sostanzialmente conservativa.
Il dopoguerra è caratterizzato dal ritorno all'amministrazione di sinistra e dal riesplodere delle lotte
bracciantili che, almeno per tutti gli anni '50, segnano il lento cammino di un'economia ancora
sostanzialmente agricola verso forme di organizzazione produttiva più moderne.
Note
1) Carlo Sigonio, De rebus bononiensibus, Francfurti 1604, I. 5.
a
2) Alessandro Tassoni, La secchia rapita, c. Il, 15 ottava
3) Girolamo Tiraboschi, Storia dell'Augusta Badia di S. Silvestro di Nonantola, Modena 1784, T l, p.
249.
4) Registro nuovo del Comune di Bologna, ms. presso l'Arch. di Stato di Bologna, c. 200.
5) Leandro Alberti, Libro primo della deca prima delle Historie di Bologna, Bologna, 1541, c. 21.
6) Ms. Gozzadini 171 della Bibl. Comunale dell'Archiginnasio, edito da Mario Fanti, Ville castelli e chiese
bolognesi da un libro di disegni del Cinquecento, Bologna 1967.
7) Stefano Maria Setti: Memorie di Crevalcore..., ms. della Biblioteca Comunale di Crevalcore.
8) Lia Montanari, La Topografia medica di Federico Rossi, in: Notiziario di Crevalcore n. 3/4, Dic. 1985,
pp. 20-21; Paolo Cassoli, La scuola di "Umanità e Rettorica" di Gaetano Atti, in: Notiziario di Crevalcore
N 2, Maggio 1985, pp. 12-14.
Itinerario storico-artistico
Il centro
Caratteristica peculiare di Crevalcore è la struttura urbana a reticolo dovuta al piano urbanistico
coerente degli agrimensori bolognesi del XIII secolo. L’assenza di preesistenze consentì una pianta
quadrata senza irregolarità, impostata su un decumano della centuriazione romana. Tale impianto si
è conservato essenzialmente intatto poiché le espansioni (tutte novecentesche) si sono adeguate
all’antico reticolo.
Ciò è accaduto anche per l'intervento edilizio di maggior rilievo compiuto all'inizio del Novecento
nel centro storico: la ricostruzione della chiesa di S. Silvestro, il cui asse venne spostato di 90 gradi.
La vecchia chiesa silvestrina, risalente al XIV sec., era orientata in direzione est-ovest, quindi
parallela alla via principale, e non concedeva adeguato respiro alla grande mole del palazzo
comunale. Non esisteva una vera e propria piazza e la funzione "spaziosa" era assolta unicamente
dal corso principale. Una mancanza che si fece ancor più sentire quando venne eretto il monumento
a Marcello Malpighi (scultura in bronzo di Enrico Barbieri, 1897) consigliando l'amministrazione
dell'epoca di cogliere l'occasione della ricostruzione della chiesa per fornire allo spazio urbano una
piazza di adeguata ampiezza e decoro.
Il tempio di S. Silvestro venne edificato in forme neogotiche su progetto dell'ing. Luigi Gulli con
la facciata fronteggiante il palazzo comunale, ma in posizione più arretrata. All'interno esso
conserva in parte dipinti e arredi del precedente edificio di culto: un frammento di Incoronazione
della Vergine, affresco trecentesco trasportato su tela, attribuito a Simone dei Crocifissi, un
crocifisso ligneo del XV-XVI sec. e il S. Silvestro di Giovanni Maria Viani, mentre il S. Francesco
stimmatizzato di Giacomo Cavedoni (1630-35) proviene dalla soppressa chiesa di S. Maria dei
Poveri e l'Adorazione dei Magi, splendida opera di Orazio Samacchini (1565 circa), dalla chiesa di
S. Croce.
Della vecchia parrocchiale resta il campanile di forme gotiche (recentemente restaurato) il quale
ha sul fianco meridionale una lapide che reca la seguente iscrizione: "Campanile istud quod
fabricari fecit Ugucio Ugonis de Zamcharis inceptum fuit per comune Crevalcorii anno Domini
1421 et finitum 1424". Da una pergamena conservata presso la Biblioteca comunale sembra però
che la torre campanaria esistesse già nel 1386.
Di fronte alla chiesa sorge il palazzo comunale, costruito negli anni 1867-68 su progetto di Luigi
Ceschi; alcuni ambienti furono decorati nel 1869 da Gaetano Lodi, ma oggi poche, e ritoccate in
maniera approssimativa, sono le decorazioni superstiti.
La precedente "casa del comune", assai antica e di più modeste dimensioni, era affiancata dalla
chiesa dei Battuti, soppressa in epoca napoleonica, nella quale era l'Adorazione dei Magi di
Lodovico Carracci, ora conservata a Brera.
Il corso (già via Malpighi, ora via Matteotti) sul quale si affacciano palazzetti in massima parte
settecenteschi, di linee semplici e tutti con portico, è lungo 350 mt. e, chiuso alle due estremità dalle
Porte, crea uno spazio di notevole effetto scenografico.
Porta Bologna, ad est, è ricavata nel corpo dell'Ospedale Barberini, costruito nel 1820-24 grazie
a un lascito del capitano Antonio Barberini sull'area della soppressa chiesa di S. Maria dei Poveri,
sede di una più antica istituzione ospedaliera. Durante la costruzione dell’ospedale fu atterrata
l'antica rocca che sorgeva sul lato settentrionale della porta; alcuni muri poderosi sono in parte
visibili all'interno del fabbricato.
Porta Modena, a occidente, è sormontata da un campanile a vela. In gran parte frutto di
rimaneggiamenti ottocenteschi, lascia trapelare, grazie a due archi gotici, un'origine tardo
medievale.
Sotto il cassero della porta, a una parte del quale è fissata una lapide terragna del 1392, si apre
l'ingresso principale della Chiesa dell'Immacolata Concezione, chiamata anche "cisa da sìra".
Iniziata nel 1696, venne completata nel 1724-25. Sia la fastosa decorazione plastica dell'altar
maggiore, con le statue di Noè e Mosè, sia quella più semplice dei due altari laterali, è opera dello
scultore bolognese Giuseppe Maria Mazza e dell'ornatista Giuseppe Borelli. La pala dell'altare di
destra, raffigurante S. Anna con le Ss. Lucia e Liberata, è opera di Giuseppe Marchesi, detto il
Sansone (firmata e datata: 1736); quella dell'altare di sinistra, con il Martirio di S. Bartolomeo,
spetta ad Antonio Rossi. Ai quattro pilastri della volta vi sono 4 tele raffiguranti i dottori della
Chiesa: S. Ambrogio di Ercole Graziani, S. Gregorio di Giuseppe Pedretti, S. Girolamo di
Cristoforo Terzi, S. Agostino di Gio. Batt. Grati.
Da un andito laterale si accede all'attiguo Oratorio della Pietà, che risale al XVI sec. e prende
nome da una tela di scuola dossesca raffigurante la Pietà con i Ss. Giovanni, Nicola e Silvestro
(1530 ca.). L'oratorio è ornato da un fregio ad affresco del primo Seicento con Storie della Vergine
e conserva l'originale coro ligneo di sobria fattura. Otto tele di anonimo secentesco con la vita di S.
Lorenzo e i quattro evangelisti completano l'arredamento dell'ambiente creando il suggestivo
effetto di un interno del XVII sec. perfettamente integro.
La casa adiacente l'oratorio fu abitata dai monaci benedettini di Nonantola; nel 1830 vi nacque
Gaetano Lodi, ora e sede dell'Accademia Indifferenti Risoluti.
In via Roma si trova la chiesa del Crocifisso (o S.ta Croce), costruita negli anni 1768-72. La
decorazione plastica e di Filippo Scandellari; sull'altar maggiore si trova un Crocifisso in stucco
opera di Sebastiano Sarti, mentre sull'altare di destra vi è un'Addolorata di Giuseppe Varotti. A
metà strada tra Porta Bologna e la chiesa di S. Silvestro sorge il teatro Comunale, edificato su
progetto dell'ing. Antonio Giordani e inaugurato nel 1881. L'interno è stato decorato dal pittore
crevalcorese Gaetano Lodi (1830-1886), ornatista di corte dei Savoia, con motivi floreali; è
soprattutto notevole il plafond della sala. Nell'atrio sono visibili un busto del Lodi e gli stemmi di
alcune antiche famiglie crevalcoresi. Il sipario è opera del pittore e scenografo bolognese Raffaele
Faccioli: rappresenta Marcello Malpighi alla corte del Granduca Leopoldo II di Toscana; intorno, i
ritratti a medaglione monocromi di crevalcoresi illustri.
I dintorni
Nella campagna crevalcorese, sulla quale ancor oggi aleggia quel senso di silenziosa e sconfinata
vastità che e il retaggio dello spleenetico umore delle valli, completamente prosciugate da non più
di quarant'anni, ci sono cinque antiche ville di rilevante interesse benché ancora scarsamente note.
La prima è la villa Caprara in località Ronchi, un complesso imponente acquisito di recente dal
Comune di Crevalcore di cui fanno parte un palazzo padronale (XVI sec.?) con ambienti affrescati,
due massicci torrioni (XVIII sec.) e una elegante chiesa settecentesca a pianta ellittica.
In una parte del complesso (ora in via di restauro) ha sede una comunità terapeutica per la cura
delle tossicodipendenze gestita dalla comunità "Il Pettirosso".
In asse prospettico con la villa e distante poco meno di 2 km. da essa, c'è l'oratorio privato, detto
"la Rotonda" per la sua forma circolare, che fu voluto dalla contessa Maria Vittoria Caprara nel
1765 come ex-voto per lo scampato annegamento del marito, il conte Niccolò; Interamente decorata
all’interno in modo da simulare un parato di damasco a fiori, e l'espressione di un momento di
delicato e instabile, ma prezioso equilibrio tra il Rococò e il Neoclassico. L'architetto fu Petronio
Fancelli; le otto bellissime tele autografe di Nicola Bertuzzi (rappresentanti i momenti della vita
della Vergine – cui la Rotonda e dedicata – e i santi Francesco, Martino, Luigi Gonzaga,
Francesco di Paola) che ne costituiscono l'arredo pittorico sono conservate nella parrocchiale di S.
Silvestro e vengono esposte nell'oratorio durante la festa della Natività di Maria (8 settembre).
Alla Rotonda si può arrivare direttamente prendendo la via del Papa; prima di giungervi si
incontreranno a mano destra, oltre il cimitero (arch. Luigi Ceschi e Giuseppe Ceri 1866;
monumento sepolcrale a Gaetano Lodi), la casa dove visse nel quarto decennio del Seicento
Marcello Malpighi e, poco oltre, la casa natale di Francesco Ippolito Albertini, allievo del
Malpighi e pioniere nello studio dei disturbi cardiaci. Arrivati a Caselle, prendendo a destra per via
Provanone si incontra la Palazzina Pepoli, elegante costruzione del Seicento, immersa nel rigoglio
verde di un boschetto, e più avanti il castello di Palata. Costruito dal conte Filippo Pepoli intorno
al 1540, segna un momento in cui l'architettura delle residenze nobiliari di campagna abbandona le
forme del fortilizio per assumere quelle della villa: ne risulta un edificio dall'aspetto massiccio che
all'interno, nel cortile porticato, presenta ritmi di severa eleganza che lo apparentano in maniera
stretta ai contemporanei palazzi di città bolognesi e ferraresi.
I Pepoli possedevano nel crevalcorese vastissime estensioni di terra; tutte le loro proprietà,
compreso il castello, vennero cedute ai principi Torlonia intorno alla metà del secolo scorso.
Smembratasi poi la proprietà nell'ultimo dopoguerra, il castello perdette la ricchissima suppellettile,
finita sul mercato antiquariale.
Anche la chiesa parrocchiale di Palata, dedicata a S. Giovanni Battista, fu fondata nel '500 dai
Pepoli; il tempio fu tuttavia ricostruito nel 1883. Notevoli i dipinti: la Nascita di S. Giovanni
Battista è di Sebastiano Ricci (proveniente dall'Oratorio dei Fiorentini in Bologna), il S. Francesco
d'Assisi, di Francesco Gessi, lo Sposalizio mistico di S. Caterina del Tiarini, il Crocifisso con la
Madonna, S. Giovanni, la Maddalena e altri santi spetta probabilmente a Giovan Battista
Ramenghi. Vi sono inoltre un S. Antonio di Ercole Graziani, un Battesimo di Cristo di
Bartolomeo Passerotti e un'Adorazione dei Magi del XVII sec.
Il feudo dei Pepoli comprendeva anche Galeazza, borgata che prende nome da una poderosa torre
fatta costruire da Galeazzo Pepoli nella seconda metà del XIV sec. Attorno alla torre sorse nel
Cinquecento una villa che verso il 1870 fu rimaneggiata, dai successivi proprietari, i Falzoni
Gallerani, in stile neo-medievale con una scenografica facciata a coronamento merlato.
Procedendo per via Riga si raggiunge infine Bevilacqua, dove si trova il palazzo con due
avancorpi a foggia di torre agli angoli, costruito dal conte Onofrio Bevilacqua nella seconda metà
del Cinquecento.
Istituzioni, feste, tradizioni
L'Accademia degli indifferenti risoluti
Come molti centri della provincia anche Crevalcore ebbe, nella seconda metà del Seicento, una
sua Accademia.
Si trattava di un'istituzione dedita soprattutto al teatro e allo spettacolo; la sua presenza fu
determinante per lo sviluppo di una tradizione teatrale crevalcorese.
Nel 1726 fu costruito, in una sala della residenza comunale, un piccolo teatro a palchetti su
progetto di Ferdinando Bibiena; la realizzazione e la decorazione del teatro vennero però seguiti dal
suo allievo Giacomo Monari (1684-1769). L'Accademia, avendo sostenuto la maggior parte delle
spese per la costruzione, lo ebbe in gestione. Di questo periodo ci sono pervenute notizie relative
alla composizione e all'organizzazione dell'Accademia: circa la metà dei suoi rappresentanti sono
ecclesiastici; gli altri affiliati, laici, appartengono a famiglie facoltose del paese, in totale una
ventina di soci. L'Accademia è retta da un "Principe" eletto annualmente; alle occasioni solenni,
quali ad esempio le processioni religiose, gli accademici presenziano indossando la cappa. L'ultima
notizia documentata dall'antica accademia risale al 1° Pratile 1798; entro brevissimo tempo sarebbe
scomparsa con le soppressioni napoleoniche. Ci sono indizi che intorno al 1820 si fecero tentativi di
ridarle vita ma senza successo. Il piccolo teatro bibienesco stava intanto cadendo in rovina. Negli
anni '50-'60 furono fatti diversi progetti per un nuovo e più grande teatro all'interno del Municipio
ma fu solamente nel 1876 che iniziò la costruzione del Teatro Comunale attuale.
L'Accademia era nel frattempo caduta nel dimenticatoio. Intorno al 1965 nacque a Crevalcore un
gruppo culturale che, riappropriatosi dell'antico nome, iniziò una notevole opera di sensibilizzazione
per la salvaguardia del patrimonio storico-artistico locale, in qualche caso impegnandosi anche
manualmente negli interventi di recupero: venne così salvato l'Oratorio della Pietà, uno dei più bei
monumenti del paese. In vent'anni di attività la nuova Accademia ha allestito un buon numero di
mostre, organizzato concerti e, soprattutto, ha raccolto un cospicuo patrimonio di documenti di ogni
genere riguardanti la storia locale. Dietro un nome ammantato di pomposità si affacciano esigenze
nuove e vitali per la società contemporanea.
La Fiera del Carmine
Le fiere erano in passato momenti di incontro atti a favorire il commercio periodico e gli scambi a
distanza; tale funzione veniva riconosciuta e protetta dalle autorità mediante franchigie e altri
provvedimenti.
Quasi sempre l'occasione per la nascita di una fiera era fornita da una festività religiosa; è questo
anche il casa della Fiera del Carmine che si teneva, e si tiene ancor oggi, la terza domenica di luglio.
Nell'antica chiesa dei Battuti, che si affacciava sulla piazza all'angolo dell'attuale via Cairoli, si
venerava infatti, nell'altare di destra, a partire dal 1614, la B. Vergine del Carmine, la cui ricorrenza
cade il 16 luglio.
La confraternita dei Battuti celebrava la solennità con una funzione religiosa diventata sempre più
importante negli anni.
A Crevalcore si tenevano in quel periodo due fiere: la fiera di Settembre e quella di S. Martino,
collegata alla festa del patrono della chiesa di S. Martino in Cozzano (11 novembre). Essendo stata
però questa chiesa distrutta intorno al 1643, la fiera di Novembre in breve arco di tempo decadde,
lasciando inappagate le necessita di incontro e di scambi tanto più sentite allora in quanto essi erano
meno facili e frequenti di oggi.
La compagnia dei Battuti, intuendo le potenzialità che il ripristino della fiera in concomitanza con
la festa del Carmine avrebbe avuto in termini di concorso di folla (e di devozioni e di offerte),
esercitò probabilmente qualche pressione sugli amministratori; la "comunità", con partito del 21
aprile 1679, ne richiese il permesso all'autorità superiore, il senato bolognese, permesso accordato
con una notificazione emanata il 5 luglio dello stesso anno.
Queste le caratteristiche della manifestazione: sulla piazza, retto da pali fissati in apposite cavità,
si tendeva un telone "per comodità del popolo" sotto il quale si affollavano i banchi e i carretti dei
venditori; non di rado si chiamavano suonatori e musici anche di qualche levatura, spendendo
parecchio denaro (cosa che dispiaceva all'Abate di Nonantola), venivano organizzate corse di
cavalli, si estraeva una grande tombola, si esplodevano fuochi d'artificio.
Non erano infrequenti i disordini, specialmente nei periodi di incertezza politica: gli
amministratori si premunivano richiedendo l'intervento di un reparto militare. Nel 1808 per motivi
di ordine pubblico la fiera fu addirittura vietata dal Prefetto del Reno.
In diverse occasioni fu invece sospesa per motivi sanitari: ad esempio nel 1855 perché incombeva
l'epidemia di colera, e nel 1913 a causa dell'afta epizootica.
Il mercato del bestiame era evidentemente una componente fondamentale della Fiera del Carmine;
anzi, proprio le trasformazioni zootecniche, la riduzione e la modificazione del commercio bovino
sono fra i principali motivi della decadenza della fiera negli ultimi decenni.
L'attuale ripresa è all'insegna di un cambiamento delle sue caratteristiche, lo scambio materiale
delle merci cedendo il posto alla funzione campionario-espositiva e folclorica.
La fiera di settembre
Risale al 1795 l'istituzione della fiera di settembre, chiamata "firô", quasi si trattasse della
controparte coniugale della "fîra" di luglio, ma una più antica fiera settembrina pare si tenesse già
nel XVII secolo.
Nata per scopi puramente commerciali, non è legata ad alcuna ricorrenza religiosa, quindi la data
in cui si svolgeva è sempre stata oscillante tra il 4-5 e il 20-22 settembre, per non farla coincidere
con le fiere analoghe di Cento, Persiceto, S. Felice; la durata era di quattro giorni.
Il privilegio pontificio che ne permise l'istituzione prevedeva che anche in giorno festivo si
potessero "tenere aperte botteghe e fondachi ove si potranno vender merci e grascie e contrattare
anche durante i divini uffici".
Un elemento portante della fiera era ovviamente il mercato del bestiame che si svolgeva nel prato
delle fosse all'angolo nord-ovest del paese. Sul bastione del terrapieno si innalzava un pennone con
bandiera ed il segnale di apertura veniva dato con tre colpi di mortaio. Nelle bancarelle della piazza
si vendevano le merci al dettaglio.
Non ebbe fortuna altrettanto stabile quanto la fiera di luglio; parecchie volte fu abbandonata e
ripresa.
Il carnevale
La maschera di Crevalcore è Tarnên. D'aspetto impettito, ha una folta barba bianca e indossa il
frac con relativa tuba. Si racconta che fosse un sarto che viveva poveramente, oppresso dalla moglie
autoritaria e dall'appetito insaziabile.
Prese un giorno la risoluzione di cercar fortuna in Sudamerica, ma la nave sulla quale era
imbarcato naufragò sulle coste della Terra del Fuoco e Tarnên, dopo aver rischiato di essere
divorato dai selvaggi, venne accolto benevolmente e in seguito proclamato re di Patagonia.
La maschera crevalcorese nacque in quel clima di ricerca di migliori condizioni di vita che anche
dalle nostre terre determinò una notevole emigrazione verso il continente americano negli ultimi
decenni del secolo scorso. Le circostanze di tale nascita purtroppo non sono note; non si sa se fu
ispirata da un personaggio particolare o da un avvenimento ben definito; il viaggio però vien fatto
risalire ad una data esatta, il 1872, che dunque è l'anno di nascita del carnevale crevalcorese.
Dopo aver vissuto una particolare fioritura negli anni '30, la tradizione si interruppe nel
dopoguerra e fu definitivamente ripristinata nel 1969 ad opera di nuove società carnevalesche, come
"i stramnèe", "i amigh ad tótt", "i ultum arrivèe", "i 'gnû da gnint"... ciascuna delle quali presenta
alla sfilata un carro e una zirudèla, composizione poetica dialettale tipica del carnevale.
Quella di Tarnên è naturalmente la più attesa: il re, affacciandosi al balcone del municipio con la
consorte, la "Varmizlèra" (da marmizî o varmizî - spaghetti), parla della prosperità che è riuscito a
donare ai suoi sudditi, commenta gli avvenimenti dell'anno, parla chiaro e tondo delle cose che non
funzionano, insinua suggerimenti paradossali per il bene dei crevalcoresi e trincia giudizi
sull'operato dell'Amministrazione comunale.
La tradizione del Venerdì Santo
La Funzione del Cristo morto la sera del Venerdì Santo è l'evento religioso più importante
dell'anno. Si svolge in due momenti fondamentali; il primo in chiesa, dove, nel presbiterio, è
allestito un ponte di legno che rappresenta il Calvario, sul quale si colloca il Cristo in croce, una
scultura in cartapesta a grandezza naturale. Dopo una lettura a più voci dei passi evangelici relativi
alla Passione, il Cristo viene schiodato e deposto su un catafalco, mentre ogni operazione è ritmata
dal rullo dei tamburi. Il secondo momento è rappresentato dalla processione che, uscendo dalla
chiesa, si snoda a forma di croce per le vie del paese. Fino a cinquant'anni or sono il corso
principale era illuminato da circa duecento pulécc’, portatorce in assi d'abete a sagoma umana che
dovevano creare un effetto di alta suggestione. Si tratta quindi di una processione drammatica, la
quale ha verosimilmente origine dalle sacre rappresentazioni relative alla settimana santa
documentate, in epoca medievale, nell'area nonantolana. Al momento sacro è strettamente collegato
un momento profano: una sorta di gara di abbondanza fra le botteghe del paese le cui vetrine sono
fastosamente allestite con gran varietà di soluzioni fantasiose, forse retaggio di antichi riti
primaverili aventi lo scopo di promuovere una buona annata.
Gastronomia
Anche rispetto alla tradizione gastronomica Crevalcore appartiene all'area bolognese: bolognesi ad
esempio sono la salumeria e i tortellini.
Vi sono tuttavia alcuni dolci che, non ignoti in un'area più ampia, hanno nel crevalcorese
caratteristiche strettamente locali. Fra questi sono da ricordare i sabàj, e il pan mòc. I sabàj sono
ravioli con un ripieno composto da farina di castagne, savór, mandorle, cioccolato in polvere e uva
passa; dopo la cottura in padella sono messi a bagno nella saba e prima del consumo debbono
essere conservati in una terrina per almeno una settimana. Il pan mòc è un dolce natalizio con uva
passa e mandorle che le massaie preparavano in un certo numero di esemplari nell'imminenza delle
feste e poteva essere consumato anche ad alcune settimane di distanza.
Va infine ricordata la torta di tagliatelle la quale ha, come ingredienti, mandorle e canditi.
Prima della scomparsa delle valli alcuni pesci d'acqua dolce e specialmente le rane erano cibi
consumati comunemente e con ogni probabilità erano legati a modalità di preparazione tipicamente
locali. Con le rane è certo che si preparava un brodo delicato e gustosissimo che veniva servito
soprattutto agli ammalati e alle puerpere.
Per quanto riguarda il vino l'influenza era decisamente modenese. La vicinanza di Bomporto e
Sorbara imponeva anche sulle nostre tavole il lambrusco più qualificato, quello che tocca profumo
di viola.