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La nostra storia raccontata da Alessandro Barbero e Sandro Carocci vol 2

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La
nostra
2 DALL’IMPERO
ROMANO
ALL’ANNO
MILLE
raccontata da
Alessandro
Barbero
Sandro
Carocci
e
Editori Laterza
raccontata da
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nostra
TO
RI
A
storia
La
2 DALL’IMPERO
ROMANO
ALL’ANNO
MILLE
Alessandro
Barbero
Sandro
Carocci
e
Editori Laterza
© 2012, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari
Prima edizione 2012
Le schede Geostoria
sono a cura di Laura Rizzo.
Gli Apparati didattici
sono a cura di Gianluca Bellini.
L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali
proprietari di diritti sulle immagini riprodotte,
nel caso non si fosse riusciti a reperirli
per chiedere debita autorizzazione.
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e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali,
Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano,
e-mail: [email protected],
sito web: www.clearedi.org.
Copertina e progetto grafico
a cura di Silvia Placidi / Grafica Punto Print s.r.l.
ISBN 978-88-421-1109-2
Editori Laterza
Piazza Umberto I, 54 70121 Bari
e-mail: [email protected]
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Indice del volume
PARTE V
L’impero greco-romano
Cap. 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. Il primo triumvirato
La disfatta dimenticata: Carre
2. La seconda guerra civile
e la dittatura di Cesare
3. La terza guerra civile e l’ascesa di Ottaviano,
il futuro Augusto
Il corpo di Cesare
4. Restaurazione e rivoluzione:
Augusto al potere
5. Parole importanti
4
6
7
9
10
12
15
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
6.
7.
8.
9.
Cesare e la conquista della Gallia
Il governo di Augusto
La politica estera di Augusto
Cultura, morale e propaganda politica
sotto Augusto
La voce del passato Le Res gestae di Augusto
10.Dare figli allo Stato
11. Matrimonio e sessualità
fra repubblica e impero
Cittadinanza Il mistero della dote
Sintesi
Esercizi
16
19
21
23
26
27
28
30
32
33
Cap. 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. Stabilità, pace e difficoltà
di successione
2. La dinastia giulio-claudia
3. La dinastia flavia
4. I cosiddetti Antonini
o imperatori adottivi
5. La romanizzazione
dell’impero
36
37
42
51
53
La data di nascita di Cristo
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
7. Impero e buongoverno
46
57
I liberti
58
8. Città e civiltà
59
9. Gli eserciti dell’imperatore
62
La voce del passato Le scritte sui muri
62
10.Ricchezza delle province, decadenza dell’Italia 65
48
66
43
Cittadinanza Romanizzazione antica
e colonialismo moderno
6. La nascita del cristianesimo
I ghiacciai della Groenlandia e il dibattito
sull’economia antica
Indice del volume
III
11. Panem et circenses:
come conquistare il popolo
I gladiatori
PARTE VI
Altri mondi Cina, India e Africa al tempo
67
68
dell’impero romano
Sintesi
Esercizi
70
72
73
La tarda Antichità
Cap. 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. Le cause della crisi
2. La dinastia dei Severi
Tutti uguali davanti alla legge?
3. L’anarchia militare
La voce del passato Un imperatore schiavo
4. La ripresa dell’impero e Diocleziano
80
81
82
84
86
90
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
5. Le persecuzioni dei cristiani
94
6. I problemi finanziari e monetari dell’impero 97
7. Le riforme di Diocleziano
98
Cittadinanza Le tasse
100
8. Diocleziano e la riforma dell’esercito
102
9. Diversità regionali
103
Le Mura aureliane
104
Sintesi
107
Esercizi
108
Le catacombe
93
Cap. 15 Il secolo di Costantino
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. L’età di Costantino
112
L’editto di Milano
113
2. Dai figli di Costantino a Valentiniano e Valente 116
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
3. Il cristianesimo non più perseguitato,
ma diviso
Cittadinanza I privilegi del clero
PARTE VII
118
120
4. La nascita del monachesimo
5. La moneta e il fisco
La voce del passato Le monete di Costantino
121
123
124
Sintesi
Esercizi
125
126
128
130
131
6. L’immigrazione verso l’impero
e la barbarizzazione dell’esercito
7. Il colonato
8. La provincializzazione dell’Italia
Il mondo romano-barbarico
Cap. 16 Le invasioni barbariche
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. L’invasione gotica del 376
e le sue conseguenze
2. L’età di Stilicone e Alarico
IV
Indice del volume
136
139
La voce del passato Il pericolo barbarico
3. Dalla nascita dei regni romano-barbarici
alla deposizione di Romolo Augustolo
142
143
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
4. Perché finì il mondo antico?
La tesi Pirenne
5. La Chiesa e le controversie religiose
Cittadinanza La religione di Stato
146
148
150
152
6. L’etnogenesi, ossia la nascita dei popoli
7. La testimonianza dell’archeologia
154
156
La voce del passato La tomba di un capo franco 156
Altri mondi India e Cina dal III al VI secolo
158
Sintesi
160
Esercizi
161
Cap. 17 I regni romano-barbarici
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. Dalla deposizione di Romolo Augustolo
alla morte di Teodorico
2. L’età di Giustiniano
Il Corpus Iuris Civilis
164
167
168
La “questione longobarda”
172
175
176
3. L’invasione longobarda dell’Italia
e il papato di Gregorio Magno
4. L’Occidente tra VII e VIII secolo
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
5. Da funzionari dell’imperatore
a re indipendenti
6. Fra civiltà romana e cultura barbarica
PARTE VIII
178
180
La moneta dei re barbari
7. Leggi etniche e diritto romano
La voce del passato Liutprando e la Romana
8. Un’economia stagnante
182
185
188
189
La voce del passato Gregorio di Tours
e il topos del declino
9. Una società vischiosa
Cittadinanza La disuguaglianza davanti alla legge
10.La barbarizzazione del cristianesimo
San Benedetto
Altri mondi America e Africa dal III al VII secolo
Sintesi
Esercizi
190
192
192
194
196
198
200
202
L’altra Roma
Cap. 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. Maometto e la nascita dell’islam
2. La lotta per imporre l’islam
e la nascita del jihad
Il jihad nel Corano
3. Le lotte per la successione
di Maometto e il califfato
4. Le grandi conquiste arabe
208
211
212
5. La fine delle conquiste arabe
e lo sgretolamento dell’impero
La legge coranica e le leggi romano-barbariche
8. La donna e la parentela
in epoca coranica
214
215
La voce del passato Il Corano e le donne
218
Cittadinanza Libertà di culto e luoghi di preghiera
Sintesi
Esercizi
La voce del passato Un cronista siriano
racconta la conquista araba
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
6. Islam e cristianesimo: un confronto
7. L’organizzazione dell’impero arabo
220
9. La civiltà araba
10.I cristiani nell’impero arabo
Indice del volume
V
223
225
228
231
232
234
236
238
241
243
Cap. 19 L’impero bizantino
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. Un impero mutilato e rinnovato
Bisanzio, “una civiltà inferiore”?
2. L’età dell’iconoclastia
246
250
251
La voce del passato Il ritratto degli imperatori
254
3. L’apogeo dell’impero: la dinastia macedone 256
Mutilare e accecare
257
iconoclasti nella storiografia di parte avversa
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
4. Un impero romano, greco e cristiano
PARTE IX
260
La voce del passato Maurizio imperatore
e i comandi militari
5. Un impero centralista e burocratico
6. Un’economia statalista
in lotta contro i ricchi
260
262
264
Cittadinanza Lo Stato deve ridistribuire
la ricchezza?
264
Sintesi
Esercizi
266
268
269
7. Un impero dilaniato
dai contrasti religiosi
Verso una nuova Europa
Cap. 20 L’impero di Carlo Magno
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. L’ascesa dei Carolingi e il papato
2. La conquista di un impero
e il ruolo del vassallaggio
Carlo: il nome, la nascita, gli amori
3. L’eredità di Carlo Magno
274
276
278
279
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
4. Spiegare la potenza dei Franchi:
strategia e politica
5. Spiegare la potenza dei Franchi:
la macchina militare
6. Spiegare la potenza dei Franchi:
la ricchezza
La voce del passato Campi e fiumi di ferro
7. L’organizzazione dell’impero carolingio
Cittadinanza Nascita dell’Europa?
8. Proprietari e contadini
Vivere in un manso
9. Commerci e monete
La famiglia aristocratica in età carolingia
10.La rinascita carolingia
11. Fu un governo efficiente?
284
285
286
288
290
291
292
295
297
281
Altri mondi Asia, Africa e America
fra VIII e X secolo
282
Sintesi
Esercizi
298
300
301
4. Gli Stati postcarolingi
e l’impero degli Ottoni
314
283
Cap. 21 L’età dei signori
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
1. Divisioni all’interno
e incursioni dall’esterno
2. Il potere si frammenta
3. La signoria
Feudalesimo e signoria
VI
Indice del volume
305
309
311
312
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
5. Il castello, centro di potere
Montarrenti
6. Nobili e cavalieri
318
318
320
Ordine o disordine signorile?
7. Ingabbiare i contadini
Le armi del debole
8. Papato, chiese e monasteri
nell’età dei signori
9. Donne e potere
320
322
324
La voce del passato Pornocrazia romana
325
327
Sintesi
Esercizi
340
L’uomo e il paesaggio
Lo sviluppo sostenibile
10.Alla periferia dell’Europa
La scoperta dell’America
Cittadinanza Gli ebrei da tollerati a perseguitati
328
330
332
333
335
336
geoSTORIA
I diritti umani
Verso quale futuro?
356
367
376
PARTE V
L’impero greco-romano
L
a mappa che rappresenta l’impero romano
al massimo della sua espansione, alla
fine del governo dell’imperatore
Traiano (98-117), è impressionante. Una città-stato ha
assoggettato un territorio immenso e diversissimo.
Alcune di queste conquiste in realtà
sono state di breve durata, ma nella gran parte degli
sterminati territori il dominio di Roma è durato secoli. Era
un impero di circa 6 milioni di chilometri quadrati (venti volte la superficie
dell’Italia), con estremità distanti oltre 5000 chilometri l’una dall’altra, popolato
da una sessantina di milioni di abitanti di tutte le etnie e le culture.
Nell’ultima parte del volume
precedente abbiamo seguito la principale fase
dell’espansione di Roma, che nel 60 a.C. era già
arrivata a controllare buona parte delle regioni
affacciate sul Mediterraneo. Tuttavia, man mano
che le conquiste si estendevano, il sistema politico
di Roma entrava in una crisi sempre più
profonda. Le istituzioni di una città-stato
repubblicana si rivelavano incapaci di
governare uno Stato vasto, impegnato in
continui conflitti esterni e dilaniato da
tensioni interne. Il ripetersi di guerre civili
laceranti stremò i Romani e preparò la via a
un nuovo regime politico, dove la
concentrazione del potere nelle mani di un solo
uomo finalmente portasse la pace e il buongoverno.
Le grandi famiglie romane, però, erano
tenacemente avverse all’idea di una monarchia e andavano fiere della
repubblica, il solo sistema politico che sembrava garantire loro libertà e potere. Anche il popolo
era restio ad abbandonare cinque secoli di regime repubblicano: Giulio Cesare pagò con la morte la
riluttanza collettiva a cambiare l’ordinamento statale. Il suo erede, Augusto, proseguì sulla via della
concentrazione dei poteri, ma con gradualità, senza mai pretendere titoli altisonanti e lasciando ai Romani
l’illusione di mantenere le antiche libertà di autogoverno. Così il potere imperiale si consolidò
con Augusto e i suoi successori. Nuovi territori furono conquistati e altri passarono dalla condizione
di Stati clienti a quella di province.
Con il nuovo regime e la duratura pace che seppe garantire, la condizione delle
province migliorò nettamente. Roma cessò di comportarsi come un rapinatore interessato solo al bottino.
Iniziò a curare buongoverno e prosperità dei territori sottoposti, dove aveva proprietà e da cui otteneva
imposte, beni e soldati. Nel II secolo l’impero raggiunse l’apogeo. Fu questa un’epoca di benessere
economico per i proprietari fondiari e gli abitanti delle città come mai era avvenuto in passato, e come in
seguito non sarà più per molti secoli.
Il dominio politico-militare di Roma fu rafforzato dalla sua grande capacità di
assimilazione. I popoli sottomessi ottennero molteplici concessioni, fra cui la cittadinanza romana, concessa
gradualmente a singole famiglie, città e intere regioni. Acquisirono i modi di vivere e di pensare di chi li
aveva conquistati, la lingua, l’arte, le tecniche di costruzione e tanto altro. Questo processo di romanizzazione
era destinato a influire per molti secoli sulla storia di quelle regioni. Va ricordato però che la civiltà che
l’impero diffondeva ovunque era romana, ma ancor di più greca. L’impero di Roma era un mondo bilingue,
dove si parlava greco quasi quanto latino. La cultura, i valori morali, le scienze e i modi di vivere
erano al tempo stesso romani e greci, perché derivavano dall’assimilazione della civiltà greca
compiuta dai Romani. Per questo possiamo parlare di un impero greco-romano.
Capitolo 12
Cesare e Augusto:
la nascita del principato
1. Il primo triumvirato
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Un accordo privato
Nel 62 a.C., di ritorno dalle campagne in Oriente, il generale Pompeo Magno, in segno
di rispetto per le istituzioni, aveva congedato i suoi soldati e avanzato al senato due sole richieste: la ratifica dei diversi provvedimenti presi in Oriente e l’assegnazione di terre ai
suoi veterani. I senatori ottimati però avevano ritardato di giorno in giorno l’approvazione
dei provvedimenti di Pompeo e la distribuzione di terre: pensavano così di riaffermare la
propria autorità sulle questioni di politica estera e di diminuire il prestigio del generale
presso i suoi soldati. L’accordo fra il senato e il personaggio politico più importante del momento dunque non si era concluso [cfr. vol. 1, cap. 11.7].
Fu Giulio Cesare a saper trarre il massimo vantaggio dallo stallo politico in cui si trovava
Roma a causa del contrasto fra il senato e Pompeo. Nel 60 a.C. Cesare fece a Pompeo una proposta allettante: se lo aiutava a vincere le elezioni alla carica di console, poi avrebbe fatto approvare tutte le sue richieste. Nel patto fu coinvolta anche la terza personalità eminente del momento, Crasso, interessata a ottenere migliori condizioni nei contratti di appalto relativi alle
province orientali. L’intesa è stata chiamata dagli storici “primo triumvirato” come se fosse
una di quelle magistrature composte di tre membri, tipiche delle istituzioni romane, ma in
realtà fu un accordo privato (e all’inizio segreto) fra i tre uomini più potenti di Roma, che
mettendo assieme clientele e relazioni politiche erano in grado di imporre la loro volontà.
Divenuto console nel 59 a.C., Cesare si affrettò a emanare le leggi volute da Pompeo e
Crasso. Inoltre impose al senato una riforma agraria così equilibrata che nessuno dei suoi avversari riuscì a trovare solide obiezioni. A differenza delle precedenti riforme agrarie, infatti,
la terra da distribuire ai nullatenenti non veniva reperita tramite sequestri, ma facendo acquistare terreni allo Stato con le entrate provenienti dall’Oriente. Oltre 20.000 padri di famiglia
con più di due figli e un numero imprecisato di altri plebei ottennero così un podere.
Il triumvirato esercitava un controllo quasi totale sullo Stato. Imponeva l’elezione di propri seguaci per gran parte delle magistrature, bloccando ogni possibile opposizione del senato. Cicerone, il più autorevole rivale dei triumviri, fu esiliato con l’accusa di avere violato le
leggi quando aveva giustiziato senza processo i seguaci di Catilina [cfr. vol. 1, cap. 11.7]. I senatori dovettero accettare una legge che assegnava a Cesare il governo della Gallia Cisalpina,
dell’Illirico e della Gallia Transalpina per i cinque anni successivi al consolato. La scelta di
queste province era strana, poiché di rado, al termine del suo mandato, un console sceglieva
di amministrare regioni povere e turbolente come la Gallia; tuttavia, l’obiettivo di Cesare non
erano i profitti immediati forniti da una ricca provincia, ma la possibilità di compiere conquiste che facessero giungere i confini dell’impero lontano dal Mediterraneo e mettessero per
sempre fine all’incubo delle invasioni da nord.
4
Parte V L’impero greco-romano
Verso lo scontro fra Cesare e Pompeo
Cesare partì per la Gallia lasciando Roma
nelle mani di uomini di sua fiducia, fra cui il
tribuno della plebe Publio Clodio, grande avversario degli ottimati. La conquista della
Gallia durò dal 58 fino al 52 a.C., quando fu
domata la grande ribellione capitanata dal re
degli Arverni, Vercingetorige; i due anni successivi furono occupati ad assicurare per sempre la sottomissione della regione, sterminando o riducendo in schiavitù intere popolazioni
[cfr. par. 6]. Lo sviluppo della civiltà celtica fu
brutalmente interrotto, e venne sostituito da
una graduale ma profonda romanizzazione.
Così, con la violenza e il genocidio, il mondo
celtico fu immesso nel circuito della “civiltà”
romana (mai come in questo caso le virgolette
sono indispensabili, visti i massacri dei civilizzatori). Fu un evento
cruciale, del quale vedremo tutta l’importanza nel processo di formazione dell’Europa medievale e poi moderna.
Durante la conquista della Gallia, nelle strade di Roma divampavano continui disordini politici. Publio Clodio aveva allestito squadre
di picchiatori che terrorizzavano gli avversari dei popolari, scioglievano le assemblee a loro sfavorevoli e in mille modi rendevano la violenza fisica il principale modo di fare politica. L’ottimate Milone gli
aveva contrapposto una milizia di gladiatori, con l’effetto di moltiplicare gli scontri. Più che di questa anarchia, Pompeo era però preoccu-
Bassorilievo con scena di battaglia
30 a.C.
Mausoleo dei Giulii, Saint Remy de Provence, Francia
Questo bassorilievo è parte del ciclo decorativo di un
monumento funerario gallo-romano situato nell’antica
città di Glanum, oggi Saint Remy de Provence, in
Francia. Viene ricordato come “Mausoleo dei Giulii”
perché onora la morte di Galli i cui antenati avevano
ottenuto la cittadinanza romana combattendo
nell’esercito romano di Giulio Cesare. La base del
monumento ospita quattro scene di battaglia: questa
in figura ricorda molto probabilmente uno dei
sanguinosi combattimenti tra la cavalleria gallica e
quella romana avvenuti nella violenta campagna
guidata da Cesare per conquistare la Gallia.
La conquista
delle Gallie
BRITANNIA
(55-54 a.C.)
Svevi
i
an
Belgi
rm
Ge
OCEANO
ATLANTICO
(56 a.C.)
(52
Alesia (52 a.C.)
GALLIA
Bibracte (58 a.C.)
a.C CELTICA
.)
i Elvezi
an
qu (53 a.C
e
S
.) GALLIA
(52 a.C.)
CISALPINA
AQUITANIA
GALLIA
NARBONENSE
SPAGNA
CITERIORE
Roma ITALIA
SPAGNA
ULTERIORE
ui i
Eq ern
Av
DACIA
MAR NERO
MACEDONIA
FRIGIA
ASIA
ACAIA
MAURETANIA
LICIA
A
NI
TI
BI
IA
IC
L
CI
SIRIA
Province di Cesare
Province di Crasso
AFRICA
Province di Pompeo
MAR MEDITERRANEO
Domìni di Roma (60 a.C.)
Conquiste di Cesare
Spedizione di Cesare
in Gallia (58-52 a.C.)
Battaglie
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
5
La disfatta dimenticata: Carre
Il 9 giugno del 53 a.C. nelle assolate pianure vicino alla città di
Carre (oggi Harran, nell’Alta Mesopotamia turca) l’esercito romano andò incontro alla catastrofe. I cavalieri iranici al comando
di un generale dei Parti, Surena, uccisero migliaia di legionari e fecero prigionieri i sopravvissuti. Massima vergogna, i nemici si impossessarono delle insegne delle legioni, e ci vollero anni di trattative perché le restituissero. Il comandante della spedizione, Marco Licinio Crasso, fu ucciso poco dopo la battaglia.
A lungo, Carre non è stata considerata dagli storici una battaglia
importante. Gli stessi Romani si affrettarono a presentarla come
un esempio da non seguire, senza dedicarle molta attenzione. In
genere, gli scrittori romani interpretavano le grandi sconfitte come sciagure collettive, utili come esempio da ricordare e da meditare per evitare gli sbagli che le avevano provocate. Per Carre,
invece, tutta la responsabilità della disfatta fu attribuita all’errore
di un singolo. La colpa era per intero di Crasso, dipinto come un
affarista e un comandante incapace, che per brama d’oro e di potere aveva coinvolto migliaia di soldati in un disastro. È probabile che questo giudizio sia troppo negativo, e gli storici stanno iniziando a cambiarlo.
Fin d’ora sono comunque chiare le cause tecniche della sconfitta
e la sua importanza, troppo a lungo sottovalutata. I Romani furono spiazzati dal modo di combattere dei Parti, basato, invece che
sulla fanteria, su due tipi di cavalieri. Addetti a sfondare le linee
nemiche erano i cavalieri “catafratti”: ricoperti di pesanti armature montavano cavalli di particolare forza, anch’essi corazzati. Altri cavalieri, armati di arco, erano addestrati a scagliare frecce anche al galoppo. Eccellevano in una tecnica nota ancora oggi come
“freccia del Parto”, che consisteva nel fingere la fuga, voltarsi indietro e colpire l’avversario con mirabile precisione. Il loro attacco era reso più micidiale dagli archi composti, fatti di legno, corno e colla, che riuscivano a scoccare frecce a una distanza almeno
doppia rispetto agli archi conosciuti dai guerrieri mediterranei.
I legionari romani erano equipaggiati con le armi tradizionali,
cioè la spada corta (gladio) e il giavellotto. Ma queste armi potevano ben poco contro i rapidi movimenti degli arcieri a cavallo e le pesanti armature dei catafratti. Inoltre la tipica armatura
del legionario, una tunica corta in maglia di ferro, non riusciva a
frenare l’urto delle frecce nemiche. All’inizio della battaglia i
Parti tentarono di sfondare le linee romane con i cavalieri catafratti, ma i Romani risposero con la “testuggine”, una formazione difensiva di grande efficacia, in cui le coorti formavano un
quadrato reso impenetrabile da una barriera di scudi. Allora Surena ordinò agli arcieri a cavallo di correre intorno alle legioni,
bersagliandole di frecce per ore. Solo alla fine della giornata,
quando i fanti romani erano spossati dal caldo e dalla stanchezza, scagliò la cavalleria pesante. Le legioni esauste non ressero
l’urto, e iniziò il massacro.
I Romani appresero la lezione. Si dotarono di armi più efficaci per
il combattimento contro i catafratti, migliorando la qualità delle
corazze e rendendo più pesanti i giavellotti. E capirono anche che
per il loro esercito, composto da fanti appesantiti da armi e corazze, era difficile spingere le conquiste in profondità nei territori desertici e contro nemici resi molto mobili dalla diffusione massiccia di cavalli e cammelli. Ma ufficialmente continuarono ad attribuire tutta la responsabilità della disfatta a Crasso, preferendo parlare il meno possibile della battaglia.
6
Parte V L’impero greco-romano
Guerriero parto a cavallo
British Museum, Londra
La statuetta raffigura un cavaliere parto ripreso nell’atto di scoccare una
freccia al nemico.
La formazione “a testuggine”
113 d.C.
Particolare del rilievo della Colonna Traiana, Roma
Il rilievo raffigura l’esercito romano in battaglia, schierato nella
formazione difensiva detta “a testuggine”.
pato dell’ascesa di Cesare, e iniziava a prestare ascolto alle lusinghe dei senatori ottimati
che volevano staccarlo dal condottiero. Per evitare la rottura del triumvirato, nel 56 a.C.
Cesare promosse un incontro a Lucca con i due alleati, rinnovando i patti: Pompeo e Crasso avrebbero avuto il consolato, e poi Pompeo avrebbe amministrato le ricche province della penisola iberica e Crasso l’altrettanto ricca Siria; Cesare otteneva altri cinque anni per
terminare la conquista della Gallia.
L’accordo non fu tuttavia sufficiente a ridare forza al triumvirato. Crasso partì per la Siria,
ma nel 53 a.C. trovò la morte nel tentativo di attaccare il regno dei Parti. A Carre, nella Mesopotamia occidentale, l’esercito romano subì una delle sue più gravi sconfitte, e Crasso venne ucciso. Contravvenendo ai patti, Pompeo preferì invece restare a Roma per seguire da vicino la situazione politica. Era il solo personaggio potente presente nella città, e il senato lo
corteggiava per allontanarlo da Cesare. Quando nel 52 a.C. le violenze politiche divamparono
forti come mai prima, in seguito all’uccisione di Publio Clodio in un ennesimo scontro di piazza, il senato diede i pieni poteri a Pompeo per ristabilire l’ordine. Nel frattempo si avvicinava
la scadenza del secondo quinquennio di governo delle Gallie concesso a Cesare. Il generale sarebbe dunque dovuto rientrare a Roma come privato cittadino, esposto ai tribunali, alle vendette del senato e al potere di Pompeo. Cesare chiese allora di venire nominato console, ma il
senato e Pompeo si opposero. A questo punto il primo triumvirato era finito.
1. Per quale motivo Cesare decise di farsi assegnare il governo della Gallia e dell’Illirico? 2. Che cosa fu
sancito dai triumviri nell’incontro di Lucca?
2. La seconda guerra civile
e la dittatura di Cesare
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Cleopatra
Fine I sec. a.C. ca.
Antikenmuseum, Berlino
Questo ritratto postumo
proveniente dalla
Mauretania (regione storica
del Nordafrica) raffigura
Cleopatra, l’ultima sovrana
della dinastia tolemaica che
governò l’Egitto.
«I dadi sono lanciati»
Cesare si trovava a Ravenna, cioè nella città della Gallia Cisalpina – una delle regioni sotto il suo governo – più vicina al confine con l’Italia, segnato in quell’epoca dal piccolo fiume Rubicone, vicino a Rimini. Fece un ultimo tentativo di compromesso, dichiarandosi disposto a congedare l’esercito se anche Pompeo scioglieva le sue legioni. Al rifiuto del senato, decise di iniziare la guerra civile. Nel
gennaio del 49 a.C. oltrepassò il Rubicone alla testa dei suoi soldati, contravvenendo alla regola che vietava ai condottieri di entrare in armi in Italia. Compiendo questo gesto di rottura pronunciò la celebre frase alea iacta est, «i dadi
sono lanciati», per dire che aveva ormai preso la sua decisione ed era pronto ad affrontare il rischio. La guerra civile tornava a scoppiare.
Cesare, amatissimo dai soldati e dalla maggioranza della popolazione, in nemmeno due
mesi conquistò l’Italia. Pompeo fuggì in Grecia con molti senatori, contando sui sostenitori che aveva in Oriente. Senza inseguire il nemico, con grande intelligenza
strategica Cesare puntò sulla Spagna allo scopo di annientare le legioni fedeli che
Pompeo aveva creato negli ultimi cinque anni di governo in quella provincia. Ciò fatto, poté puntare verso la Grecia senza più temere di venire aggredito alle spalle. Nel
48 a.C. a Farsàlo Pompeo fu sconfitto, e i suoi soldati si arresero. Pompeo scappò in
Egitto, dove contava sull’appoggio del giovane faraone Tolomeo XIII. Ma aveva sbagliato
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
7
i suoi calcoli. Sperando di ottenere l’aiuto di Cesare nella contesa per il trono che lo contrapponeva alla sorella Cleopatra, il sovrano fece uccidere Pompeo a tradimento.
Sembra che Cesare reagisse indignato all’idea che un senatore romano fosse impunemente ucciso in terra straniera. Probabilmente il suo sdegno era un calcolo politico, per giustificare un intervento militare romano in Egitto; è noto, inoltre, che divenne amante della
affascinante Cleopatra, da cui ebbe un figlio (Cesarione, cioè in greco ‘piccolo Cesare’).
L’esercito romano sconfisse e uccise Tolomeo, e Cleopatra ottenne il trono egiziano. Il controllo romano sull’Egitto e sulla sua enorme produzione di grano divenne così fortissimo,
dando a Cesare ulteriori risorse per portare avanti la guerra contro i seguaci di Pompeo. La
guerra civile proseguì soprattutto in Africa e poi in Spagna, terminando infine con la battaglia di Munda, nel 45 a.C., in cui le ultime forze pompeiane vennero distrutte. L’impero di Roma aveva ormai il suo primo sovrano.
Cesare dittatore a vita
Moneta con l’effigie di
Giulio Cesare
44 a.C.
Tra i privilegi di cui Cesare
si fregiò vi fu quello di
coniare monete con il
proprio ritratto, pratica
successivamente spettata
unicamente al princeps.
Questa moneta in argento
ritrae Cesare coronato
d’alloro, pianta con i cui
ramoscelli i Romani
usavano realizzare corone
da porgere sul capo di poeti
e generali vincitori: l’alloro
era difatti la pianta simbolo
del trionfo e della vittoria.
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Cesare era convinto che la repubblica avesse già chiaramente dimostrato di non funzionare e che il senato fosse lo strumento della cieca ostinazione della nobiltà: dunque occorreva cambiare regime. Gli storici discutono se davvero intendesse creare una vera e propria
monarchia, ma è chiaro che, come minimo, Cesare immaginava un regime politico basato
sull’assoluta concentrazione dei poteri in un’unica persona. Oltre alla carica di pontefice massimo che occupava da quasi un ventennio, ottenne molte volte il consolato, i poteri
concessi ai tribuni, quelli dei censori e, soprattutto, la dittatura, assegnatagli nel 48 a.C.
a tempo indeterminato, e poi nel 44 a.C. confermata a vita. A queste cariche che gli
conferivano i poteri di un re, aggiunse tutta una serie di comportamenti, di prerogative e di simboli tipici dei sovrani. Ottenne di portare la corona di alloro, di ostentare in permanenza il titolo di imperator fino allora concesso ai
generali solo nel giorno del trionfo, di sedere in senato su di un seggio dorato, di collocare sue statue nei templi, di cambiare il nome del mese Quintile in Iulius (da cui deriva l’italiano luglio); cosa mai immaginata a Roma,
predispose poi di venire divinizzato dopo la morte.
Nel frattempo portava avanti una serie impressionante di riforme. Cercò
di rinnovare la classe dirigente, accrescendo i membri del senato da 600 a
900 e scegliendo i nuovi senatori fra i cavalieri, gli ufficiali dell’esercito e le
aristocrazie provinciali. La cittadinanza romana fu estesa alla Gallia Cisalpina
e il sistema di governo delle province fu migliorato. Rimanendo fedele al suo
schieramento a favore dei popolari, Cesare razionalizzò il sistema di distribuzioni
pubbliche di grano, pose rimedio alla disoccupazione avviando una serie di imponenti opere pubbliche, come la bonifica delle Paludi Pontine, fece condonare molti debiti e, soprattutto, fondò un gran numero di colonie fuori d’Italia, dove si stanziarono almeno 80.000
cittadini. Il carattere più sorprendente della sua politica fu l’atteggiamento verso gli avversari nella guerra civile. Le sue vittorie non furono accompagnate da omicidi di massa, proscrizioni e confische. Chi sperava di guadagnare dall’eliminazione dei nemici politici e dalla depredazione dei loro beni rimase deluso, ma la maggioranza apprezzò la sua volontà di
rendere minimi i costi sociali del conflitto fratricida.
Tutto questo fu però insufficiente a placare l’ostilità degli ottimati. Anzi, la diffidenza
verso Cesare si diffuse anche presso alcuni sinceri sostenitori dei valori repubblicani, che
guardavano con terrore l’inaudita novità costituita dai poteri di Cesare e dai suoi comportamenti sempre più sprezzanti verso le sacre tradizioni della repubblica. Non era forse ri-
Parte V L’impero greco-romano
masto seduto di fronte al senato che lo omaggiava? Che
dire poi della sua relazione
con Cleopatra, che sedeva sul
più antico dei troni?
Arrivarono così le idi (il
giorno 15) di marzo del 44
a.C. Raggiungendo i senatori
in un’aula del grande teatro di
Pompeo, costruito dieci anni
prima, Cesare fu pugnalato da
una sessantina di congiurati.
Fra i capi della congiura,
mossi soprattutto dal desiderio di restaurare la libertà repubblicana eliminando il dittatore, vi erano Cassio e Bruto, il figlio adottivo al quale Cesare avrebbe rivolto l’ultima delle sue frasi famose: «Anche tu, Bruto, figlio mio!» (Tu quoque, Brute, fili mi!).
Porticato del Foro di
Cesare
I sec. a.C.
Roma
Progettato per accogliere
spazi dedicati alla vita
politica, amministrativa e
religiosa della città, e
contemporaneamente
celebrare il grande
condottiero, il Foro di
Cesare fu abbellito con
splendidi monumenti, tra i
quali spicca il tempio
dedicato a Venere. I lavori,
iniziati presumibilmente tra
il 51 e il 48 a.C., e ancora
in corso alla morte del
dittatore, furono completati
sotto Augusto.
1. Quale strategia adottò Cesare per indebolire e sconfiggere Pompeo? 2. Per quale motivo la figura di
Cesare era assimilabile a quella di un sovrano?
3. La terza guerra civile e l’ascesa di Ottaviano,
il futuro Augusto
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I Testa di Marco Antonio
Musei Capitolini, Roma
Il testamento di Cesare
Gli assassini di Cesare (e anche molti dei senatori che non avevano partecipato alla congiura) speravano che, eliminato il dittatore, la repubblica fosse per sempre
salva, e tutto potesse tornare alla normalità. Ottennero invece il risultato opposto. La scomparsa di Cesare aprì la strada a un sanguinoso conflitto civile (il
terzo nella storia romana, dopo quelli combattuti fra Silla e i seguaci di Mario e fra Cesare e Pompeo) e, da ultimo, alla fine della repubblica.
Per un paio di giorni, in verità, i congiurati poterono illudersi di avere avuto almeno in parte successo. Certo, il popolo che amava il dittatore ucciso non
li acclamò come liberatori, mentre l’esercito rimase fedele ai generali di Cesare.
Fra essi primeggiava Marco Antonio, che al momento della congiura ricopriva la
carica di console. Antonio si mosse con cautela per evitare spargimenti di sangue
e, soprattutto, per porsi come nuovo centro della politica romana. Propose al senato
e al partito degli ottimati un accordo di compromesso: era prevista la salvezza dei
congiurati ma anche un solenne funerale di Cesare, la conferma di tutte le sue leggi e
di quanto indicato nel suo testamento, che tutti pensavano avrebbe designato erede
proprio Antonio. La lettura del testamento, tre giorni dopo l’assassinio, smentì ogni
previsione: erede di Cesare era un ragazzo di diciannove anni, Gaio Ottavio.
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
9
Così si chiamava, a quell’epoca, il personaggio passato alla storia come l’imperatore Augusto. Suo padre era un homo novus, cioè il primo membro di una famiglia di cavalieri ad entrare nel senato; la madre era invece di famiglia importantissima, perché era figlia della sorella di Cesare. Il dittatore aveva apprezzato il giovane pronipote e nel testamento, oltre a nominarlo erede, lo adottava come figlio.
Secondo l’uso romano, il ragazzo adottato cambiò nome, divenendo Gaio Giulio
Cesare Ottaviano, e fu per l’appunto con il nome di Ottaviano che conquistò il potere. Infine nel 27 a.C., per sancire il suo assoluto predominio su Roma e l’impero, ottenne il cognomen di Augusto (sul significato di questo nome torneremo dopo: cfr. par. 5).
La scelta dell’erede rivelava ancora una volta l’intelligenza di Cesare. Per il momento Ottaviano era lontano in Oriente, dove il padre adottivo lo aveva mandato a preparare una spedizione militare. Saputo dell’assassinio e del testamento si precipitò sulla strada del ritorno. Nel
frattempo i congiurati erano dovuti fuggire da Roma: ai solenni funerali di Cesare la vista del cadavere martoriato aveva indotto il popolo
a pretendere la morte degli assassini. Bruto era andato in Macedonia e
Cassio in Asia, prendendone il controllo.
Busto di Ottaviano
35-29 a.C.
Musei Capitolini, Roma
Ancora lontano
dall’autorevolezza dei
ritratti ufficiali e di
propaganda diffusi in tutto
l’impero di lì a poco,
Ottaviano mostra in questo
busto il volto di un giovane
romano.
Il secondo triumvirato
Giunto a Roma, Ottaviano mostrò una grande abilità politica. Visto che Antonio si rifiutava di consegnargli il tesoro di Cesare, vendette i beni della propria famiglia per pagare il lascito di 75 denari che il padre adottivo aveva destinato a ognuno dei 250.000 membri della plebe romana. Pochi nella storia hanno fatto un investimento così buono. Questa
inaudita generosità e la magia del nome di Cesare che ormai era passato a lui resero Gaio
Giulio Cesare Ottaviano il beniamino del popolo e dei veterani. Allo stesso tempo il giovane erede fu anche abile nello stabilire rapporti con i senatori. Sfruttò il timore suscitato
dalle ambizioni di Antonio che, finito il suo consolato, tentava con la forza di imporsi come governatore della Gallia Cisalpina, la provincia più vicina a Roma e dalla quale era facile condizionare la capitale. Cicerone, sulla scena politica fin dagli anni dell’ascesa di
Il corpo di Cesare
Cesare, possiamo dire, vinse una battaglia anche
da morto. I cadaveri degli uomini celebri sono
omaggiati con grandi cerimonie; quello di Cesare
divenne lo strumento per assicurare ai suoi assassini la sconfitta e la morte. Nei giorni successivi alle fatali idi di marzo, Cassio e Bruto restarono liberi e temuti. Ma possiamo dire che avevano già
perso la partita lasciando a terra il corpo del dittatore anziché gettarlo nel Tevere come avevano
progettato, per impedire di recuperarlo. Proprio
con il cadavere di Cesare Antonio organizzò infatti una formidabile operazione di propaganda, che
spostò a suo favore gli equilibri di potere.
Il 20 marzo, giorno dei funerali, fu preparata una
messinscena di sicuro effetto. Nel Foro venne innalzato un tempietto dorato con un catafalco, una
10
Parte V L’impero greco-romano
base su cui poggiare il cadavere, tutto d’avorio, coperto di porpora e d’oro (i colori del comando). In
bella vista fu messa la veste di Cesare, insanguinata e trapassata da una ventina di pugnalate. Antonio, mentre pronunciava l’elogio funebre, mostrò al pubblico commosso gli squarci prodotti dai
pugnali. Per eccitare ancor di più gli animi sarebbe stato necessario mostrare proprio il corpo trafitto, ma questo era disteso sul catafalco. Si ricorse allora a un trucco di teatro. Con una macchina
apposita fu fatto muovere in tutte le direzioni un
fantoccio di cera con le fattezze di Cesare, trafitto
dalle pugnalate e orrendamente sfigurato. La folla
insorse e, presi i tizzoni ardenti del rogo dove il
corpo del dittatore veniva cremato, corse a incendiare le case dei suoi assassini.
Pompeo e Crasso e della congiura di Catilina (contro cui scrisse le Catilinarie: cfr. vol. 1,
cap. 11.7), attaccò Antonio con energia nelle celebri orazioni dette Filippiche e il senato gli
mandò contro un esercito al quale partecipava anche Ottaviano.
Antonio fu sconfitto nella battaglia di Modena (43 a.C.) subendo lievi perdite, e si ritirò oltre le Alpi, in Gallia Transalpina. Qui ottenne il sostegno di un altro potente ex ufficiale di Cesare, Lepido, con il quale mosse verso l’Italia. Anche Ottaviano nel frattempo si
era mosso con l’esercito verso Roma per strappare al senato la nomina a console. I soldati
dei diversi eserciti, tutti seguaci di Cesare, non intendevano combattersi, e ai tre generali
conveniva l’accordo: così Ottaviano, Antonio e Lepido stabilirono un’alleanza, chiamata “secondo triumvirato”.
A differenza del primo triumvirato, che era stato un patto privato fra Cesare, Pompeo e
Crasso, in questo caso i triumviri vollero che il loro accordo si trasformasse in una vera e
propria magistratura straordinaria, istituita per cinque anni con una legge votata dalle
assemblee. I suoi obiettivi erano quelli di riformare lo Stato e di punire gli assassini di Cesare. Furono redatte liste di proscrizione che avevano un duplice scopo: da un lato, colpire i sostenitori della congiura e eliminare ogni avversario politico; dall’altro, impadronirsi
dei patrimoni delle vittime per finanziare le future lotte. Nel bagno di sangue morirono migliaia di cavalieri e centinaia di senatori, fra i quali Cicerone, colpevole di avere attaccato
Antonio. Nel 42 a.C. l’esercito del triumvirato raggiunse e sconfisse in Macedonia, a Filippi, quello di Cassio e Bruto, che si suicidarono. Cesare era vendicato.
Eliminati i nemici comuni, i vincitori si spartirono il potere. Antonio ebbe la Gallia Transalpina e l’intero Oriente, verso il quale si affrettò a partire; Lepido, il meno importante dei
triumviri, ottenne soltanto il governo della provincia dell’Africa, che del resto in seguito
gli fu tolta. Ottaviano ricevette la Spagna e il compito difficile di trovare in Italia la terra
promessa agli oltre centocinquantamila veterani di Cesare. Per reperire i terreni da assegnare bisognò sequestrare i beni dei vinti e quelli di molti cittadini senza colpa. Il malcon-
Germani
no
Re
MAR
CASPIO
GALLIA
TRANSALPINA
DACIA
GALLIA
CISALPINA
LI
RI
ARMENIA
Danubio
PONTO
CO
Roma
Brindisi
MACEDONIA
Filippi
(42 a.C.)
Azio
(31 a.C.)
ACAIA
O
SPAGNA
CITERIORE
Cartagine
MAURETANIA
IL
IR
EP
SPAGNA
ULTERIORE
MAR NERO
Modena
GALLIA
NARBONENSE
Il secondo
triumvirato
e la guerra
tra Ottaviano
e Antonio
Nauloco
36 a.C.
CAPPADOCIA
BITINIA
ASIA
SIRIA
MEDIA
REGNO
DEI PARTI
CIPRO
NUMIDIA
CRETA
MAR MEDITERRANEO
Alessandria
CIRENAICA
EGITTO
Territori di Lepido
Territori di Ottaviano
Territori di Antonio
Stati vassalli fino al 31 a.C.
Principali scontri
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
11
Cammeo con la vittoria di
Ottaviano ad Azio
I sec. a.C.
Kunsthistorisches Museum,
Vienna
Realizzato in sardonica, una
pietra dura di valore, questo
prezioso cammeo celebra la
vittoria di Ottaviano ad
Azio in una simbolica
raffigurazione trionfante.
tento fu fortissimo e provocò una vera e propria ribellione, alimentata dai parenti di
Antonio, desiderosi di mettere in difficoltà il giovane triumviro. Come al solito
la scelta di restare a Roma, nel cuore della vita politica, si rivelò vincente. Con una buona amministrazione dell’Italia e della Spagna
Ottaviano riuscì a guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica
e a ottenere molti consensi anche nel senato. Nel frattempo
portava avanti con successo una propaganda volta a screditare il rivale, Antonio.
Antonio in effetti sembrava fare di tutto per favorire
questa propaganda sfavorevole. Dopo avere affermato il
suo incontrastato potere sull’Oriente, aveva iniziato una
relazione sentimentale con la regina Cleopatra. Il suo
progetto era quello di consolidare il dominio romano in
Oriente attraverso l’alleanza con l’Egitto e la creazione di
regni subordinati a Roma, affidati ai figli nati dall’unione
con Cleopatra. Ma questa politica e il tipo di vita che conduceva in Egitto permettevano a Ottaviano di affermare che
ormai Antonio si era trasformato in un despota orientale,
amante del potere assoluto e del lusso più esagerato, come un re
ellenistico e un faraone. Addirittura, si faceva adorare come una divinità. Il legame fra Antonio e Cleopatra finì per essere visto a Roma
come un tradimento. In contrasto, sempre più cresceva il consenso per Ottaviano, che mostrava rispetto per la repubblica e le tradizioni romane.
Così l’inevitabile resa dei conti fra i due generali venne presentata non come una guerra civile, ma come una lotta contro una potenza straniera, l’Egitto, alla quale Antonio per
le sue debolezze si era asservito. Si giunse nel 31 a.C. alla battaglia navale di Azio, vinta
da Ottaviano dopo la sorprendente decisione di Antonio di allontanarsi nel mezzo dello
scontro per ragioni poco chiare (la paura della sconfitta? un tradimento egiziano? il desiderio di raggiungere Cleopatra che si stava allontanando?). Abbandonati dal loro comandante, la flotta e l’esercito passarono dalla parte del nemico. Un anno dopo Antonio e Cleopatra, assediati ad Alessandria, si suicidarono. Il figlio che Giulio Cesare aveva avuto da
Cleopatra, Cesarione, venne eliminato. Ottaviano non voleva concorrenti.
1. Quale accordo fu proposto da Marco Antonio al senato e agli ottimati? 2. In che modo si spartirono il
potere Antonio, Ottaviano e Lepido?
4. Restaurazione e rivoluzione:
Augusto al potere
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
I poteri di Ottaviano Augusto
Quando Ottaviano tornò a Roma nel 29 a.C. fu accolto come il salvatore della patria
dalla minaccia del dispotismo orientale. Il giovane di appena trentaquattro anni era l’unico
signore dell’impero. Visse altri quarantatre anni, fino al 14 d.C. Questo lunghissimo pote-
12
Parte V L’impero greco-romano
Statua di Augusto detta
Augusto di Prima Porta
12-8 a.C.
Musei Vaticani, Roma
Statua togata di Augusto
detta Augusto
di via Labicana
I sec. d.C.
Museo Nazionale Romano,
Roma
La posizione ufficiale di
Augusto non era definita da
una singola carica, ma si
basava sull’accumulo di più
magistrature repubblicane e
di cariche tradizionali. Era
dunque impossibile realizzare
una statua che rappresentasse
nella sua complessità la
nuova funzione rivestita da
Augusto. Di conseguenza,
nelle innumerevoli statue
destinate a celebrarlo (solo a
Roma ne furono erette
almeno ottanta) la sua
immagine cambia: talvolta è
quella di generale trionfatore,
incoronato e vestito della
toga purpurea, altre volte è
celebrato come comandante
militare, con indosso una
sontuosa corazza (a sinistra);
altre ancora veste gli abiti del
pontefice massimo, intento a
compiere una cerimonia
religiosa (a destra), oppure
quelli del console, con la
toga bordata di fasce rosse.
re fu la sua carta decisiva, quella che gli diede ciò che era mancato a Cesare: il tempo necessario per creare un regime fortissimo, che dopo la sua morte sarebbe durato molti secoli. La repubblica terminò, sostituita da una monarchia che noi oggi chiamiamo impero ma
che per i primi due secoli i Romani definirono invece “principato”.
Al ritorno di Ottaviano, la situazione politica di Roma era paradossale. La maggioranza
della popolazione, cioè la plebe, i soldati, molti cavalieri e una parte dei senatori, voleva il
governo forte di una singola persona, e Ottaviano era il candidato predestinato per questo
ruolo. Le lunghe lotte civili, con il loro seguito di violenze brutali, città distrutte, massacri,
saccheggi, confische e esecuzioni sommarie, avevano reso fortissimo il desiderio di stabilità e di pace. Tutti si rendevano conto che le istituzioni della repubblica avevano fallito,
che da decenni erano incapaci di assicurare, se non la buona amministrazione, almeno la
più elementare delle funzioni di un governo, cioè il mantenimento della pace interna. La
monarchia appariva la soluzione migliore. Ma (questo è il paradosso) l’ideologia romana
rendeva la monarchia impossibile. Da secoli i Romani aborrivano la forma monarchica di
governo: era la peggiore di tutte, pensavano, perché era sinonimo di tirannia e usurpazione
e inevitabilmente trasformava i liberi cittadini in sudditi. Parlare di regnum era impossibile. Per un capo politico l’accusa di “aspirare al regno” era la più temibile: lo presentava come il peggiore traditore dei concittadini e apriva la strada alla sua fine. La stessa congiura
contro Cesare era nata da questo tenacissimo attaccamento ai valori repubblicani.
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
13
Ottaviano si rese conto che per compiere la sua rivoluzione, per imporsi cioè come unico e stabile potere alla testa dello Stato romano, doveva presentarsi come il restauratore
dell’antica repubblica. Doveva apparire come colui che riportava Roma alle antiche istituzioni e alle buone vecchie leggi, restaurando un ordine che il caos delle guerre civili aveva
turbato. Dunque non proclamò nessuna monarchia, né creò cariche nuove. Scelse una strada diversa per giungere allo stesso risultato: utilizzò le antiche istituzioni repubblicane per
accumulare sulla sua persona un potere sempre più smisurato. Dopo la vittoria di Azio
già aveva dalla sua la forza delle armi, le enormi ricchezze della famiglia e il prestigio di
figlio del grande Cesare. Negli anni successivi gradualmente, per tappe, riuscì a fare sì che
questo potere venisse riconosciuto e potesse continuare ad accrescersi attraverso le leggi e
le istituzioni esistenti.
Per i primi otto anni, fino al 23 a.C., ricoperse senza interruzioni la carica di console.
Gli venne nel frattempo riconosciuta la funzione di princeps senatus, ‘primo del senato’:
in quanto primo fra i senatori aveva diritto di convocare il senato, di presiedere le riunioni
e di esprimere per primo il proprio voto, condizionando così gli altri senatori. Aveva inoltre la carica di censore straordinario, che gli dava la possibilità di cambiare la lista dei membri del senato e altre magistrature.
Nel 23 rinunciò alla carica di console e si attribuì i due poteri che furono alla base del
suo governo per il resto del regno: la potestà tribunizia e l’imperio proconsolare. La tribunicia potestas conferiva ad Augusto i poteri dei tribuni della plebe anche senza ricoprire tale carica. Era il modo migliore per legittimare il potere di intervento sulle assemblee e
la vita politica di Roma: come quella dei tribuni, la persona di Augusto diveniva inviolabile e, sempre come i tribuni, poteva bloccare con il veto le deliberazioni del senato, convocare le assemblee popolari e far votare dei plebisciti. L’imperio proconsolare lo poneva
alla guida delle province e degli eserciti stanziati in esse: Augusto riceveva tutti i poteri di
comando militare e di governo civile che spettavano ai governatori delle province. Anzi,
era un imperio proconsolare speciale, superiore al normale, che non aveva limiti di tempo
e spazio, ma vigeva per sempre e in qualsiasi parte dell’impero si trovasse il suo titolare.
Un’altra carica importante fu infine quella di pontefice massimo, il sacerdote supremo, che
Augusto ottenne nel 12 a.C. alla morte del pontefice precedente, l’ex triumviro Lepido.
Una monarchia militare camuffata da repubblica
Formalmente, dunque, sotto Augusto continuarono a vivere e operare tutte le istituzioni
della repubblica: il senato, le tante magistrature, le assemblee popolari. La costituzione dello Stato romano restava, in apparenza, intatta. Il senato continuava a riunirsi e a discutere
di politica; e Augusto non mancava mai di ostentare il massimo rispetto verso l’istituzione
che era stata al cuore della repubblica. Fu anzi proprio il principe a introdurre la celebre
formula senatus populusque romanus (‘il senato e il popolo romano’, in sigla SPQR), che
collocava il senato prima del popolo. Ma la realtà dei fatti era tutta diversa. Ogni cosa ruotava intorno ad Augusto, ai suoi desideri e alle sue scelte. Augusto riuscì a fare scendere i
senatori da 1000 a 600 e condizionava, sebbene solo in modo indiretto, l’accesso di nuovi
membri nel senato. L’antica assemblea senatoria non era più il posto in cui venivano prese
le decisioni fondamentali, e i senatori erano dunque poco disposti a discutere e manifestare il proprio pensiero: Augusto talvolta si irritava per questo, e con toni bruschi invitava
questo o quel senatore a svegliarsi e dare la sua opinione. Ma il responsabile di questa partecipazione apatica era lui stesso, che si era posto al centro del potere.
14
Parte V L’impero greco-romano
Solo l’elezione ad alcune magistrature restava almeno in parte indipendente. Per il resto
tutto quello che avveniva doveva essere deciso da Augusto. Le vittorie dei generali, per
esempio, venivano attribuite ad Augusto stesso: così per ben ventuno volte ottenne il
trionfo, anche nei casi in cui in realtà non si era mai mosso da Roma. Talvolta i contemporanei tardarono a capire come, sotto l’immutata vernice di uno Stato repubblicano, ormai
vi fosse un organismo nuovo, in tutto simile a una monarchia militare. Nei primi anni del
governo augusteo accadde per esempio che i generali che avevano ottenuto importanti vittorie in terre lontane celebrassero i propri successi con iscrizioni e statue. Ma Augusto si
inquietò, revocò le onorificenze e ne bloccò la carriera; il prefetto di Egitto Cornelio Gallo, un uomo di fiducia di Augusto, fu addirittura indotto a suicidarsi per avere osato celebrare una sua vittoria sugli Etiopi. Mascherata come una restaurazione dell’ordine repubblicano, era dunque avvenuta una rivoluzione.
1. In che modo Augusto riuscì a prendere il totale controllo di Roma senza proclamare la monarchia? 2.
Quali prerogative dava ad Augusto l’imperio proconsolare?
5. Parole importanti
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Augustus e princeps
Alcune parole spiegano bene la natura del nuovo regime. La prima è Augustus, ‘Augusto’. Il senato concesse questo nome a Ottaviano nel 27 a.C. in segno di gratitudine, dopo
avere scartato l’idea iniziale di dargli il nome di Romolo per onorarlo come secondo fondatore di Roma. Oltre che il fondatore, Romolo era stato il primo re di Roma, e dunque questo nome ricordava troppo il periodo monarchico. Meglio allora Augusto, che era un nome
di significato religioso, qualcosa come ‘accresciuto dalla potenza divina’ e ‘degno di venerazione’. Inoltre, poiché sembra derivare dal verbo augeo
(accresco), la propaganda poteva affermare che volesse dire ‘chi accresce la prosperità dello Stato’. È appunto con
il nome di Augusto che, da allora, venne chiamato Ottaviano, e dopo di lui gli altri imperatori.
La seconda parola è ‘principe’, princeps. All’inizio
era riferita al ruolo di ‘primo del senato’ attribuito a Ottaviano, ma poi venne intesa in senso più generale, come ‘primo fra tutti’, ‘primo cittadino dello Stato’. Fu
appunto a partire dalla nozione di princeps che venne risolto il problema di dare un nome al nuovo regime. Di regno non si poteva assolutamente parlare,
come si è detto, ma tutti si rendevano conto che le
cose erano cambiate. Si affermò così l’idea di definire principato questa nuova realtà caratterizzata
dall’enorme autorità di un uomo che, dal punto di vista teorico, era solo il primo fra i cittadini, e non un
sovrano che il diritto di nascita e il volere degli dèi ren-
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
Gemma Augustea
10 d.C.
Kunsthistorisches Museum,
Vienna
Questo prezioso cammeo è
tra gli esempi più
significativi dell’arte di età
augustea, perché celebra il
potere di Augusto e proclama
la discendenza divina della
sua autorità: nel registro
superiore, Augusto, assiso in
trono accanto alla dea Roma,
viene incoronato da
Oikoumène, personificazione
divina di tutta la terra abitata;
nel registro inferiore,
legionari romani innalzano
un trofeo con le armi dei
barbari vinti, che vengono
tratti in schiavitù.
15
devano diverso e superiore a tutti gli altri uomini, suoi sudditi. Per questo, quando vogliono indicare con esattezza il tipo di regime politico iniziato da Augusto, anche gli storici moderni preferiscono parlare di principato. Soprattutto con i suoi successori è però divenuto
consueto, come faremo noi, usare il termine impero.
Imperator e imperium
La terza parola è, ovviamente, ‘imperatore’, imperator. Questo titolo veniva attribuito
ai generali vittoriosi solo il giorno del trionfo. Invece Augusto, riprendendo quanto già aveva fatto Cesare, lo assunse come un titolo fisso che faceva parte del suo nome. Stava a significare che egli era per sempre un capo militare supremo e vittorioso. Dopo l’adozione da parte di Giulio Cesare aveva già cambiato i nomi in Gaio Giulio Cesare Ottaviano, e
adesso li cambiò ancora, divenendo Imperator Caesar Augustus divi Iulii filius: ‘Imperatore Cesare Augusto figlio del divino Giulio Cesare’. I suoi successori assunsero questi nomi come titoli fissi, aggiungendovi in mezzo il loro nome proprio: Traiano si presentava ad
esempio come Imperator Caesar Traianus Augustus.
Veniamo infine alla quarta parola, ‘impero’. Deriva dal latino imperium che indicava il
potere dei più importanti magistrati della repubblica romana. Oggi ha un significato tutto
diverso: indica in primo luogo i domìni politici molto vasti, che si estendono sopra più popolazioni. Dunque, come abbiamo fatto, è possibile parlare di impero anche per i domìni di
Atene o della repubblica romana. Ma la locuzione “impero romano” ha anche un significato più preciso e serve per indicare lo Stato romano a partire dall’ascesa al potere di Augusto e fino all’epoca di Giustiniano (527-565 d.C.), cioè per tutto il periodo durante il quale è esistito in Occidente un imperatore.
1. Che significato aveva la parola Augustus? 2. Qual è il significato moderno della parola “impero”?
6. Cesare e la conquista
della Gallia
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
La campagna di conquista più narrata dell’Antichità
Fra le tante campagne militari dell’Antichità, la conquista dei territori degli attuali Belgio e Francia compiuta da Cesare fra 58 e 50 a.C. è quella più ampiamente descritta dalle
fonti. Ne parlarono i contemporanei e i grandi storici romani e greci del secolo successivo,
come Svetonio e Plutarco; ma, soprattutto, ne parlò lo stesso Cesare. Durante le fasi della
conquista dettò infatti ai propri luogotenenti quelli che si chiamavano allora Commentarii
ma che poi sono diventati famosi con il nome De bello gallico, La guerra gallica. È un diario di guerra redatto in terza persona che aveva sia lo scopo di fare propaganda ai successi
militari, sia soprattutto di difendere Cesare dalle accuse che gli venivano mosse a Roma per
la conduzione troppo spregiudicata del conflitto. Si tratta dunque di una fonte preziosa, ricchissima di dettagli, anche se ovviamente tutt’altro che neutrale.
La civiltà dei Celti (che i Romani chiamavano Galli) era cambiata da quando, nel 390
a.C., Roma aveva patito l’onta del saccheggio gallico. Una parte delle popolazioni celtiche
era già da tempo entrata a far parte del dominio romano con la conquista della Gallia Ci-
16
Parte V L’impero greco-romano
salpina dapprima, e più tardi della Gallia Narbonense.
Per vita sociale e politica, queste regioni erano ormai
molto influenzate da Roma. Il resto della Gallia restava invece in un’orgogliosa indipendenza. La popolazione e l’economia si erano molto sviluppate anche se
le città rimanevano rare; villaggi e fattorie erano la residenza della grande maggioranza degli abitanti. Come
in passato, la regione era divisa in numerosi popoli
(forse una settantina) spesso in conflitto fra loro. Ogni
popolo era guidato da un gruppo di aristocratici, ma importantissimo era anche il ruolo dei capi religiosi, i
druidi. Questi specialisti della religione erano scelti fra
i nobili e apprendevano riti, canti epici del loro popolo,
formule magiche e altre pratiche religiose attraverso
una lunga preparazione, che durava anche venti anni.
La principale differenza rispetto ai secoli precedenti dipendeva dall’aumento delle differenze sociali, che costituiva per Roma un vantaggio: se la società celtica del
passato, abbastanza egualitaria, aveva un esercito costituito da squadre di fanti molto pericolosi e addestrati, adesso i nobili combattevano solo a cavallo e in modo indisciplinato, mentre la fanteria, costituita solo dai
più poveri, era poco addestrata e di scarsa efficienza.
All’epoca di Cesare, il mondo celtico si trovava
stretto in una micidiale tenaglia. Da sud premevano le
ambizioni di Roma; ma era da oriente che veniva la minaccia più terrorizzante. Le selvagge popolazioni germaniche mettevano in fuga i Celti. Quando Cesare iniziò la sua campagna, i Celti, che in passato erano stanziati anche in Germania e Austria, erano stati tutti cacciati oltre il fiume Reno. Fu proprio il loro bisogno di
sfuggire a questi selvaggi che diede a Cesare il pretesto per iniziare la guerra. Nel 58 a.C. quando gli Elvezi, stanziati nell’attuale Svizzera occidentale, furono
costretti dai germanici Svevi ad abbandonare le loro
terre e a penetrare con la violenza in Gallia meridionale, Cesare senza aspettare il permesso del senato si dichiarò protettore delle Gallie. Subito attaccò e vinse i
profughi nella battaglia di Bibracte [cfr. carta, p. 5] massacrando 200.000 Elvezi. Fu il primo di tanti genocidi.
Da quel momento Cesare proseguì i suoi interventi,
attaccando e ricacciando i Germani del re Ariovisto
che erano penetrati al di qua del Reno, e poi sconfiggendo i Belgi e altre popolazioni celtiche del Nord-Est.
I popoli delle attuali Normandia, Bretagna e altre regioni si arresero spontaneamente: non solo avevano visto la potenza e la ferocia di Roma contro i nemici, ma
Mano su una testa umana decollata
III sec. a.C.-I sec. d.C.
Musée Granet, Aix-en-Provence
Teste decollate
III sec. a.C.-I sec. d.C.
Musée Granet, Aix-en-Provence
Per conquistarsi la benevolenza degli dèi e placare la loro ira, i Celti
eseguivano cerimoniali sacri in cui si compivano sacrifici umani che
prevedevano, tra le altre pratiche, il taglio della testa. La prima immagine
mostra un frammento lapideo proveniente dall’oppidum di Entremont in cui
è riprodotta la mano dell’officiante poggiata sulla testa decollata della
vittima sacrificale. La seconda immagine è un rilievo con due teste umane
decollate.
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
17
anche pensavano, non a torto, che l’egemonia politica dei civili Romani fosse in fin dei
conti meglio che venire massacrati o fatti schiavi dai selvaggi Germani.
Nel 55 e 54 a.C. Cesare fece anche delle spedizioni oltre la Manica, nell’attuale Inghilterra meridionale (Britannia). La ragione di queste spedizioni, che
non portarono a una occupazione dell’isola, è poco chiara: alcuni storici antichi le attribuiscono alla ricerca di inesistenti ricchezze (in particolare, Cesare
sarebbe stato attratto da alcune grandi perle provenienti dall’isola), mentre il
De bello gallico sostiene che attaccare l’isola era necessario per interrompere gli aiuti che i Britanni inviavano alle popolazioni celtiche della Gallia.
Molto dovette comunque contare anche il desiderio di gloria: a Roma la notizia dello sbarco delle legioni in quella grande e remota isola suscitò infatti molto entusiasmo.
Nel 53 a.C. i Celti fecero un ultimo, temibilissimo tentativo per sottrarsi al dominio romano. Il re degli Arverni, Vercingetorige, si mise a capo di una ribellione, alla
quale l’anno successivo si unirono tutte le popolazioni celtiche. Le truppe romane subirono sconfitte persino quando alla loro testa vi era Cesare in persona. Alla fine Cesare riuscì
a costringere Vercingetorige a ripiegare nella città fortificata di Alesia, dove il re affrontò
l’assedio romano sapendo che in suo soccorso stava muovendo un esercito disordinato ma
di cui si diceva che fosse forte di ben 250.000 guerrieri. Le truppe celtiche chiuse in Alesia e quelle romane che l’assediavano si aggiravano entrambe sui 50.000 uomini, e sembrava impossibile che i Romani potessero resistere al doppio attacco mosso dagli assediati e dall’esercito che stava giungendo. Cesare fece allora costruire sui colli circostanti la
città un sistema di fortificazioni doppio, che dal lato interno garantiva l’assedio e la protezione da eventuali sortite degli assediati, dal lato esterno proteggeva dai soccorsi celtici in
arrivo. La battaglia volse così a favore dei Romani.
Statere in oro
con la legenda
di Vercingeto(rix)
I sec. a.C.
Collection Danicourt
Veduta aerea del sito dell’antica Alesia
La fotografia mostra la zona in cui un tempo sorgeva Alesia; l’area è non
lontana dal Monte Auxois in Borgogna.
Ricostruzione dell’assedio di Alesia
Il disegno riproduce la doppia fortificazione ideata ad Alesia da Cesare per
assicurarsi la vittoria contro Vercingetorige.
18
Parte V L’impero greco-romano
Vercingetorige scelse di evitare il massacro dei suoi. Indossata una splendente armatura,
uscì da solo da Alesia a cavallo, si recò di fronte a Cesare, smontò da cavallo, si privò dell’armatura, sedette a terra e porse le mani per venire legato. Il suo destino personale fu atroce. Rimase in prigione per sei anni, in attesa del trionfo che Cesare riuscì a celebrare solo
nel 46 a.C.; dopo avere sfilato prigioniero per le vie di Roma fu strangolato, come prevedeva il feroce rituale militare romano, nel momento in cui il carro del trionfatore arrivava al
Campidoglio.
La nomea di Cesare come condottiero
Durante tutta la campagna il comportamento di Cesare suscitò l’ammirazione dei suoi
soldati. Sapeva condividere con la truppa il cibo più rozzo e le condizioni di vita più dure,
resisteva alla fatica, dormiva il meno possibile, ma al tempo stesso mai perdeva di lucidità;
almeno, questo è quello che racconta lui stesso nel De bello gallico. Mentre cavalcava dettava lettere e diari, tenendo occupati contemporaneamente due o più scrivani. In battaglia
– è sempre lui a dirlo – non esitava a esporsi in prima persona per risolvere le situazioni
difficili. Le sue scelte militari, tuttavia, suscitarono anche feroci critiche. A Roma gli ottimati gli rimproveravano di agire senza ascoltare il senato e, per di più, rompendo ogni convenzione internazionale e ogni regola che rendeva una guerra legale (iustum bellum). In
realtà Cesare non era certo il primo generale romano che attaccava all’improvviso senza dichiarare guerra, o che provocava in mille modi una popolazione alleata al fine di avere un
pretesto per annientarla. Ma gli argomenti dei suoi avversari erano rafforzati dalla brutalità usata per piegare i nemici. Talmente efferato fu lo sterminio dei popoli degli Usipeti e
Tencterii che in senato Catone Uticense lo definì un «delitto contro il genere umano», proponendo di consegnare Cesare nelle mani dei superstiti. Catone, acerrimo avversario politico di Cesare, era mosso dall’odio di fazione, e non certo dalla sensibilità umanitaria. E
tuttavia i contemporanei restarono colpiti dall’entità dei massacri, sospettando inoltre Cesare di averne occultati molti. Gli storici antichi più compiacenti parlano di “solo” 400.000
morti, ma quelli più importanti danno cifre diverse: Plutarco fornisce la cifra tonda di un
milione di vittime e altrettanti schiavi, Plinio il Vecchio parla di 1.200.000 massacrati.
1. A che scopo Cesare scrisse il De bello gallico? 2. Quali minacce gravavano sulle popolazioni
celtiche? 3. Che cosa rimproveravano a Cesare i suoi avversari politici?
7. Il governo di Augusto
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Roma e l’Italia
Il principale problema da risolvere dopo la presa del potere fu per Augusto la riforma
dell’amministrazione di Roma e del suo impero. Anche in questo caso procedette con misure graduali, senza rompere in modo brusco con il sistema ereditato dal passato ma finendo per modificarlo in profondità. Perlopiù le nuove cariche presero il nome di prefettura e
furono poste sotto la guida di magistrati chiamati prefetti.
Nella città di Roma, alla fine del regno di Augusto fra queste nuove magistrature le più
importanti erano quattro. La prima era il prefetto dell’Urbe, che doveva provvedere alla
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
19
Soldati romani della
guardia pretoriana
51-52
Musée du Louvre, Parigi
Questo altorilievo,
proveniente molto
probabilmente dal Foro di
Traiano, mostra
dettagliatamente
l’equipaggiamento militare
del corpo dei pretoriani.
20
amministrazione della città e a garantire l’ordine pubblico con l’aiuto del prefetto dei vigili, la seconda magistratura di rilievo. Il prefetto dei vigili era a capo di
un corpo speciale di intervento costituito dapprima da
600 e poi da circa 4000 vigili scelti soprattutto fra i liberti e gli schiavi. Oltre a svolgere il servizio antincendi, indispensabile in una città enorme e densamente popolata, sorvegliavano la tranquillità (si fa per dire) delle notti romane e svolgevano funzioni di polizia.
I vigili non erano le sole truppe stanziate in città: ben
più importanti erano i pretoriani, sotto il comando del prefetto del pretorio. In passato i pretoriani erano le guardie del corpo dei generali (il pretorio, in origine, è il nome dato alla tenda del comandante dell’accampamento); ma con Augusto
divennero un vero e proprio esercito, costituito da
nove coorti, tre delle quali stazionavano a Roma e
le altre nei suoi dintorni. Erano truppe scelte e fidatissime, incaricate della difesa personale dell’imperatore e di impedire qualsiasi rivolta. Ma ovviamente in una città popolosa come Roma nessuna sicurezza era possibile senza la presenza di cibo
in abbondanza e a buon mercato: a questo problema Augusto dedicò molte energie, giungendo anche ad acquistare e trasportare a proprie spese del
grano a Roma; verso la fine del suo regno creò il
prefetto dell’annona, con il compito di provvedere all’approvvigionamento della città e alle distribuzioni gratuite di grano al popolo.
L’Italia fu estesa fino alle Alpi inglobando la provincia della Gallia Cisalpina, e per risolvere con maggiore rapidità tutti i problemi locali fu suddivisa in dodici distretti.
La compagine imperiale
Nei domìni fuori d’Italia Augusto attuò una politica differente, di accentramento del potere. L’impero venne diviso fra province del popolo, amministrate come in passato da governatori nominati dal senato, e province imperiali, sotto il controllo diretto del principe
che vi metteva a capo un legato. Questa suddivisione cambiò col tempo poiché era dettata
da ragioni pratiche: di solito le province del popolo erano lontane dai confini dell’impero
e abitate da popolazioni stabilmente sottomesse, mentre Augusto conservava il governo diretto delle province che avevano bisogno della presenza di forti eserciti. Va detto peraltro
che il principe si intrometteva nell’amministrazione delle province del popolo romano non
meno che in quella delle proprie. L’Egitto godeva poi di uno statuto speciale: causa ai tempi di Cleopatra di tanti pericoli per la saldezza dei domìni orientali e fonte importantissima
di grano e di tasse, la più ricca e popolosa provincia dell’impero veniva considerata un possedimento personale del principe. Augusto la sorvegliava gelosamente, al punto che i senatori e i cavalieri più in vista avevano bisogno del suo permesso per visitarla.
Le diverse cariche erano distribuite fra senatori e cavalieri, le due più importanti classi
dello Stato. Ai senatori spettavano la prefettura dell’Urbe, la guida dei dodici distretti itali-
Parte V L’impero greco-romano
ci e il governo delle province; i cavalieri ricoprivano le altre magistrature e il governo dell’Egitto. Questa distribuzione attesta una certa preferenza di Augusto per i cavalieri, bene
spiegabile ricordando che la sua famiglia di origine proveniva da questa classe. Ma questo
non impedì al principe di accordare nel suo governo un grande rilievo al senato. In questa
direzione lo spingevano non soltanto il rispetto della tradizione romana, ma la coscienza che
l’accordo con l’élite più potente, dotata di relazioni in ogni angolo dell’impero, era fondamentale per ridurre i conflitti interni e per garantire i rapporti fra la capitale e le province.
1. In che modo fu cambiata la geografia politica dell’Italia? 2. Quale differenza c’era tra province del
popolo e province imperiali?
8. La politica estera
di Augusto
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
La pace armata
Reno
La politica estera fu per Augusto una questione a lui riservata, su cui non poteva intervenire alcun’altra istituzione politica. Le sue azioni di politica estera erano guidate da due obiettivi, solo apparentemente contraddittori: la grandezza dell’impero e la pace, su cui occorre
però intendersi. Il governo di Augusto fu presentato dalla sua propaganda come Pax Augusta, come il governo della pace. Ma questa era solo la pace dalle guerre civili. O meglio, era
una pace armata, pronta a reprimere
duramente dentro e fuori l’impero Le conquiste territoriali di Augusto
Territori dell’impero prima di Augusto
chi turbava l’ordine e chi impediva
Regni indipendenti legati a Roma
di gestire al meglio i domìni romani.
Conquiste di Augusto (25-9 a.C.)
Nel suo testamento politico Augusto
Daci Popolazioni nemiche
MARE DEL
scrisse una frase feroce proprio per20 a.C. Anno dei combattimenti
NORD
Battaglie
ché voleva apparire clemente: «Ho
preferito lasciar vivere le genti straTeutoburgo
9 d.C.
niere alle quali si poteva perdonare
Germani
OCEANO
in tutta sicurezza, piuttosto che anREZIA
ATLANTICO
nientarle». È il tono di un capo roGALLIA
mano, sicuro del suo diritto di vita e
NORICO
Salassi
i
Cantabri
di morte collettiva su qualsiasi po25 a.C.
PANNONIA
un
Asturiani
m
Pannoni
Ca
26-19 a.C.
polo che non fosse il suo.
12-9 a.C.
Daci
Baschi
Da
bio
Danu
lm
Le guerre di Augusto
Durante il regno di Augusto vennero combattuti numerosi conflitti.
Dapprima si svolse una campagna
per sottomettere alcune popolazioni
che nel Nord della penisola iberica
da oltre un secolo si opponevano
strenuamente all’occupazione roma-
at
i
IT
AL
SPAGNA
MESIA
IA
MAR NERO
TRACIA
MACEDONIA
ASIA
ACAIA
NUMIDIA
MAR MEDITERRANEO
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
21
Maschera di cavaliere
romano
I sec. d.C.
Varusschlacht
Museum,
Kalkriese,
Germania
La foresta di
Teutoburgo, così
come molte aree
circostanti, hanno
conservato per secoli
una grande quantità
di reperti di epoca
romana: resti umani e
animali, numerose
monete, residui di un
terrapieno e soprattutto
cospicui reperti bellici come
parti di spade, di elmi e di
scudi, frammenti di lance e
parti di bardature per cavalli.
Tra i reperti spicca questa
maschera da parata
realizzata in ferro e ricoperta
d’argento, appartenuta a un
cavaliere romano.
Il re dei Parti restituisce
le insegne romane
8 a.C.
Particolare della corazza
dell’Augusto di Prima Porta
Musei Vaticani, Roma
La splendida corazza del
generale Augusto riporta in
rilievo l’episodio della
consegna a Tiberio, figlio
adottivo d’Augusto, delle
insegne romane che il re dei
Parti aveva sottratto a
Crasso con la battaglia di
Carre. Perdere le insegne
delle legioni, a forma di
aquila, per mano nemica era
per i Romani un grande
disonore. La decorazione
della corazza celebra
dunque il ristabilimento
dell’ordine romano: il Sole,
l’Aurora, Apollo, Diana e
Tellus, la terra generatrice di
frutti, assistono al gesto
ponendolo sotto buoni
auspici. Tiberio è raffigurato
tra le personificazioni della
Germania e della Pannonia,
regioni da lui pacificate.
22
na. Poi venne intrapresa la sottomissione dei popoli che
vivevano sulle Alpi; pur trovandosi al confine dell’Italia, fino a quel momento erano stati protetti
dai rilievi e dall’intricata orografia alpina. Sterminati nel 25 a.C. i Salassi della Val d’Aosta e
ottenuto così il controllo del valico del piccolo
San Bernardo, fu fondata la colonia di Aosta (Augusta Praetoria). Seguì la conquista di tutta la catena alpina e anche dei territori più a nord, nelle
attuali Svizzera e Austria.
A partire dal 16 a.C. l’espansione si diresse verso l’Europa centrale. Le operazioni furono guidate
dai due figli che la moglie di Augusto, Livia, aveva
avuto dal suo primo marito. Il maggiore, Druso, morì
per una caduta da cavallo il 9 a.C., ma le conquiste vennero portate avanti dal fratello Tiberio. Sottomesse le popolazioni dei Pannoni, Dalmati e Norici che vivevano nei
Balcani e nel medio bacino del Danubio, l’offensiva fu spostata in Germania. In un primo tempo, il successo fu completo.
Nel 5 d.C. il dominio di Roma comprendeva i territori tra i fiumi Reno e Elba, nei quali venne creata la provincia della Germania. Fu però una conquista di breve durata. Le diverse popolazioni germaniche misero da parte le loro rivalità e stabilirono
un’alleanza antiromana sotto la guida di Arminio, un germano che aveva militato a lungo come ufficiale nell’esercito romano, ottenendo come premio anche la cittadinanza. Fu forse l’unica ribellione di successo alle pretese di
Roma. Il 9 d.C. nella foresta di Teutoburgo i ribelli massacrarono tre legioni
romane al comando del legato Quintilio
Varo, liberando poi tutto il territorio fino
al Reno.
Roma rinunciò per sempre a espandersi ad oriente del fiume, abbandonando il
progetto di Augusto di spingere i domìni
imperiali addirittura oltre l’Elba (che
avrebbe significato spingere le legioni fino all’attuale Polonia). In queste aree nei
secoli successivi i confini dell’impero restarono più o meno dove Augusto li aveva
lasciati: sul Reno e sul Danubio. Si interruppe così il processo, iniziato da Cesare
con la conquista della Gallia, che mirava a
rendere Roma signora, oltre che del Mediterraneo, anche dell’Europa. Il continente
restò diviso fra una parte interna e una
esterna ai domìni romani. Nel lungo periodo questo fu per Roma fatale, poiché
proprio dalla parte non romanizzata del-
Parte V L’impero greco-romano
l’Europa vennero gli attacchi dei barbari che quattro-cinque secoli dopo determinarono la fine dell’impero romano in Occidente. Va anche detto, però, che in questo modo il nostro continente ha conservato una varietà di società, di sistemi politici e di culture che, se ha causato
molti contrasti, è stata anche un fattore di complessità e di ricchezza: insomma, la diversità a
conti fatti ha dato all’Europa molte delle energie che le hanno consentito in età moderna di imporsi al mondo intero.
Per via diplomatica invece si risolse il problema dei Parti, lungo il confine orientale. I Parti erano una potenza minacciosa e ai Romani contendevano il controllo dell’Armenia e della Siria. La soluzione diplomatica permise ad Augusto di ottenere le insegne romane sottratte a Crasso dopo la disfatta di Carre.
1. Che cosa si intende con l’espressione “pace armata”? 2. Quali erano i confini
dell’impero nell’Europa orientale?
9. Cultura, morale e propaganda politica
sotto Augusto
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Potere e cultura
Un manuale di storia può dedicare poco spazio alla letteratura e all’arte. Nel caso di Augusto, però, è bene fare una (piccola) eccezione, perché una parte integrante della sua attività politica e del suo successo
furono legati a una sapiente utilizzazione di letteratura, arte e
architettura, per farsi propaganda e sostenere la riforma dei costumi morali delle classi dirigenti. Naturalmente Augusto
non fu né il primo né l’ultimo:
tutti gli uomini di potere, a partire almeno dai sovrani sumeri e
dai faraoni egizi, avevano sfruttato arte e cultura per autocelebrarsi e sostenere la propria politica; anche i successori di Augusto continuarono a farlo. Nel
caso di Augusto, però, l’utilizzazione propagandistica della
cultura fu particolarmente intensa e, possiamo dire, raffinata.
Poeti, storici, artisti e altri uomini di cultura non furono asserviti con la forza e le minacce,
ma accettarono spontaneamente
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
Il ninfeo dei giardini di
Mecenate
I sec. d.C.
Roma
Questo piccolo ninfeo,
chiamato anche Auditorium,
fu fatto edificare da
Mecenate nei giardini della
sua villa. È probabile che
qui il ministro di Augusto
ospitasse i suoi amici poeti
e letterati per recitare in
forma privata le loro opere.
23
Resti del Tempio di Marte
Ultore
2 a.C.
Foro di Augusto, Roma
Al tempo della vittoria
conseguita a Filippi, in cui
Augusto aveva vendicato la
morte di Cesare (42 a.C.), il
princeps promise a Marte,
potente dio della guerra cui
aveva chiesto sostegno
prima della battaglia, un
grande santuario per
rendergli omaggio. Eretto
molto più tardi,
probabilmente in
contemporanea al foro, il
Tempio di Marte Ultore
(ovvero ‘vendicatore’) ne
chiudeva scenograficamente
il percorso.
di farsi portavoce degli ideali cari al principe. Servire le idee dei potenti è sempre conveniente, e sembra del resto che molti intellettuali condividessero davvero gli ideali conservatori e tradizionalmente aristocratici di Augusto.
Per far in modo che il rapporto fra potere e cultura divenisse così intenso, Augusto seppe stabilire rapporti personali, anche di amicizia, con molti intellettuali. In questo campo
fu molto aiutato da Mecenate, il raffinato membro di un’antica famiglia di origine etrusca
che per oltre trent’anni, fino alla morte nell’8 a.C., fu un consigliere fidato e un amico personale del principe, pur senza mai rivestire cariche ufficiali. Oltre ad Augusto, Mecenate
amava poesia e letteratura: impiegò quindi il patrimonio accumulato acquistando a buon
prezzo i beni dei proscritti durante le guerre civili per sostenere la politica culturale del
principe. Intorno a lui si raccolsero i maggiori poeti del tempo e altri rappresentanti dell’arte e della letteratura. Mecenate li sosteneva con doni e aiuti finanziari tratti dal suo grande patrimonio; li aiutava a incontrarsi e a discutere; li spronava e offriva loro la possibilità
di produrre le loro opere. Dal suo nome derivano i termini moderni di mecenate e mecenatismo, che indicano appunto le attività di sostegno alle arti e, soprattutto, agli artisti.
Avvenne così che poesie e opere dei letterati divennero strumenti molto efficaci per diffondere nell’opinione pubblica i temi indicati da Augusto come valori fondamentali della società.
Una parte importante della politica del principe fu infatti un vasto programma di risanamento morale in senso conservatore. In campo religioso, oltre a promuovere il restauro o la
ricostruzione di molti templi (nella sola città di Roma almeno ottanta), il principe cercò di richiamare culti antichi caduti in disuso. Nel contempo, intraprese una politica volta a imporre alle classi elevate di comportarsi rispettando la tradizione e i buoni costumi sia in pubblico, sia soprattutto nella vita privata. La propaganda augustea affermava che i mali di Roma
erano nati dall’abbandono delle antiche virtù e dalla decadenza dei valori familiari.
In questo contesto era importante che i poeti lodassero i costumi austeri e modesti degli
antichi, e che li additassero come il solo esempio da seguire. Nel raccontare la storia di Ro-
24
Parte V L’impero greco-romano
ma, occorreva insistere sulla religiosità, l’onore, la disciplina, lo spirito di sacrificio per
la patria e tutte le virtù dei grandi Romani
del passato. Le antiche matrone dovevano
essere esempi di fedeltà, dedizione alla casa
e ai figli, spirito di sacrificio. Oppure bisognava cantare la bellezza della vita dell’agricoltore, presentata come la buona vecchia
condizione dei Romani che avevano fatto
grande Roma. Chi propugnava valori diversi correva dei rischi. In materia letteraria Augusto era talvolta tollerante, e accettò il dissenso se veniva espresso con moderazione.
Per esempio non levò mai il favore allo storico Tito Livio anche se nella sua storia di
Roma lasciava chiaramente capire il rimpianto per la repubblica; del resto, formalmente anche il principe si dichiarava sostenitore dei valori repubblicani. Invece Ovidio, il mondano e brillante poeta di corte che
cantava le gioie dell’amore e della seduzione, venne all’improvviso mandato in esilio
in una lontana cittadina del Mar Nero. La sua
colpa esatta non è in realtà nota, ma Ovidio
stesso dice che la condanna fu provocata fra
le altre cose da un carmen, una poesia.
Ara Pacis Augustae
13-9 a.C.
Museo dell’Ara Pacis, Roma
La processione dedicatoria
Particolare dall’Ara Pacis
L’Ara, edificata per celebrare le vittorie di Augusto in Spagna e in Gallia e magnificarne
l’opera di pacificazione del mondo romano, è costituita da un recinto marmoreo al cui
interno è collocato l’altare vero e proprio. Sia l’interno che l’esterno sono riccamente
decorati da rilievi scultorei; qui è riportato il particolare del pannello sul lato meridionale
in cui compare il corteo della domus Augusta (tra cui Augusto, Tiberio e altri membri della
famiglia imperiale) che presenziano alla consacrazione dell’ara.
Celebrare e adorare Augusto
Oltre a questa propaganda indiretta, vi furono celebrazioni esplicite di Augusto, da lui
stesso direttamente promosse. L’Eneide, capolavoro di Virgilio, non solo indicava ai
contemporanei i valori morali propugnati dal
principe e impersonati nel poema dal protagonista, Enea, ma esplicitamente preannunciava il ritorno agli antichi splendori con il
nuovo eroe, «Cesare Augusto, di stirpe divina, che fa rinascere il secolo d’oro». Un’opera intensa di propaganda fu poi affidata
agli interventi artistici ed edilizi. Statue di
ogni tipo raffiguranti il principe vennero elevate nei luoghi pubblici, mentre nel cuore di
Roma i lavori per terminare il Foro di Cesare e costruire il vicino Foro di Augusto fornivano l’occasione per esaltare la stirpe Giulia, cioè la famiglia di Cesare e di Augusto,
e i suoi membri. Furono eretti edifici di va-
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
25
rio tipo, compreso un immenso mausoleo circolare, con un diametro di quasi novanta metri, destinato ad accogliere il corpo del principe e dei suoi familiari. Forse il risultato più
noto di questa attività artistica di propaganda è l’Ara Pacis (‘Altare della Pace’). Fra il 13
e il 9 a.C., per celebrare le vittorie in Spagna e sulle Alpi, venne costruito su un podio un
recinto rettangolare in marmo, con al centro il vero e proprio altare. Sulle pareti esterne
splendide sculture in bassorilievo, oltre a illustrare vari miti relativi alla nascita di Roma,
Le Res gestae di Augusto
[Res gestae divi Augusti, 1-2, trad. a cura degli autori]
La
voce
PA
SSA
TO
del
Qualche tempo prima di morire Augusto dettò
un’opera intitolata Index rerum gestarum (‘Elenco
delle imprese’) o Res gestae divi Augusti (‘Imprese
del divino Augusto’). È un testo inusuale, che non
appartiene a un genere letterario preciso: un po’ è
un testamento politico, un po’ un’autobiografia, un
po’ un’iscrizione sepolcrale. In uno stile volutamente
secco, senza abbellimenti letterari, Augusto racconta
in prima persona le gesta compiute in guerra e in
pace a partire da quando, appena diciannovenne,
venne chiamato ad assumere l’eredità del padre
adottivo Cesare e a vendicarne l’assassinio. Augusto
ordinò che l’intero testo venisse inciso sul bronzo e
posto all’ingresso del grande mausoleo che si era
fatto costruire nel Campo Marzio, una zona
pianeggiante di Roma dove andavano sorgendo
importanti monumenti.
L’iscrizione di Roma è andata persa, ma conosciamo
egualmente gran parte delle Res gestae perché esse
vennero scolpite su lastre di marmo e sulle pareti dei
templi di numerose città dell’impero. Il testo era scritto
sia in latino che in greco, per poter essere letto da tutti
i cittadini anche nelle province orientali. L’esemplare
meglio conservato fu scoperto nel XVI secolo da un
ambasciatore europeo in Turchia: era scolpito sulla
parete di un tempio di Ancyra (l’odierna Ankara)
dedicato alla dea Roma e allo stesso Augusto.
Vediamo come suona la parte iniziale del testo, nella
sua apparente, fredda oggettività:
A 19 anni, di mia sola iniziativa e a mie sole spese,
misi insieme un esercito, con il quale restaurai la
libertà della Repubblica, oppressa dalla tirannia di
una fazione. Per questa ragione durante il consolato
di Gaio Vibio Pansa e Aulo Irzio il Senato mi incluse
Parte V L’impero greco-romano
nel suo ordine per decreto onorifico, dandomi sia il
rango consolare che l’imperium militare. Quando ero
propretore, la Repubblica mi ordinò di provvedere
insieme ai consoli che nessuno potesse recarle danno.
Nello stesso anno il Popolo mi elesse console, poiché
entrambi i consoli erano stati uccisi in guerra, e
triumviro per riordinare la Repubblica. Mandai in
esilio quelli che trucidarono mio padre punendo il
loro delitto con procedimenti legali; e poi, quando
essi mossero guerra alla Repubblica, li vinsi due volte
in battaglia.
L’iscrizione contiene un elenco assai più lungo delle
attività pubbliche che Augusto stesso desiderava
ricordare, ma già queste poche righe suscitano molti
commenti. Si tratta in realtà di un’opera di
propaganda, non di un’esposizione di dati storici
oggettivi. Non possiamo usarla per stabilire che cosa
esattamente accadde, ma piuttosto per vedere cosa il
princeps voleva sottolineare, cosa tacere, cosa
esporre in una versione di parte. Augusto racconta di
avere costituito un esercito di sua iniziativa ma per il
bene dello Stato, di avere esiliato gli assassini di
Cesare, che chiama senz’altro suo padre – era in
realtà il padre adottivo – in base alla legge e di averli
combattuti. Il primo intervento di Augusto nella
politica romana è presentato come avvenuto solo in
difesa e per conto del senato e dello Stato, e non
invece come un’iniziativa di parte; dei provvedimenti
contro gli uccisori di Cesare sottolinea il carattere
legale. Inoltre Augusto si guarda bene dal dire che la
sua elezione a console era stata imposta al senato
marciando in armi su Roma. Infine, non c’è alcuna
menzione di Antonio, con cui Ottaviano aveva
collaborato per sconfiggere i cesaricidi e con cui si era
spartito il potere nel secondo triumvirato, prima di
attaccarlo e sconfiggerlo: di lui, non era necessario
che i Romani si ricordassero.
raffigurano Augusto e tutti i suoi parenti, ritratti mentre partecipano a una processione religiosa.
Il principe introdusse anche il culto religioso della sua persona. La tradizione romana
permetteva di divinizzare soltanto i morti: Augusto fece proclamare divus, cioè divino, il padre adottivo ucciso. Il culto di una persona vivente, invece, non era proprio preso in considerazione. Di conseguenza il principe venne adorato come un vero e proprio dio solo in
Oriente, dove era tradizione attribuire uno statuto di divinità viventi ai sovrani. A Roma e
in Occidente il suo culto assunse forme indirette. Venivano adorati non Augusto e la sua persona, ma le sue divinità protettrici familiari e personali, cioè i suoi Lari e il suo Genio; inoltre il calendario cominciò a riempirsi di festività nelle quali i sacerdoti ringraziavano gli dèi
per i compleanni, gli anniversari delle vittorie, e le altre tappe della carriera di Augusto. Da
allora, celebrare e adorare in cerimonie religiose l’imperatore divenne una pratica che unificava gli abitanti del vasto impero: nelle numerose province ogni popolo, e talvolta ogni
piccolo gruppo, aveva le proprie divinità, ma il culto dell’imperatore era comune e obbligatorio per tutti.
1. A quale scopo Augusto si servì delle opere artistiche e letterarie? 2. Quali differenti caratteri assunse
il culto religioso ispirato ad Augusto?
10. Dare figli allo Stato
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Sposati per legge
Alcune leggi a favore del matrimonio e contro l’adulterio erano parte integrante della politica augustea di moralizzazione dei costumi. Il matrimonio costituiva un problema di antica data, perché ai Romani non piaceva sposarsi. Almeno, questo è quanto raccontano fonti
diverse lungo l’arco di ben tre secoli, dal II a.C. fino al I secolo d.C. Nelle classi alte ci si
sposava per ragioni di alleanza politica, perché nulla come un matrimonio può unire due famiglie. Oppure ci si sposava per ragioni economiche, attirati da una buona dote. Sposarsi voleva dire infine rispettare il comportamento del buon cittadino, che doveva dare figli alla repubblica. Ma tutte queste ragioni spesso non erano sufficienti, con grande preoccupazione
delle autorità. Così alla metà del II secolo a.C. cominciano iniziative politiche e vere e proprie leggi volte a convincere i Romani a sposarsi e fare figli (e non soltanto ad adottarli, pratica molto diffusa). Ma fu Augusto a stabilire le norme più complete e più severe.
Tra il 18 e il 9 a.C. una serie di leggi ordinarono che tutti gli uomini tra i venticinque e
i sessant’anni e tutte le donne tra i venti e i cinquanta dovessero contrarre matrimonio. Chi
non lo faceva, oppure chi si sposava ma evitava di mettere al mondo figli, era punito perdendo in tutto o in parte il diritto a ereditare beni da parenti e amici. Per chi aveva figli erano invece previsti dei premi, sia in denaro sia soprattutto per accedere alle magistrature pubbliche e per promozioni più rapide.
Adultere per legge
Né poteva mancare, in questa situazione, un tentativo di controllare la sessualità extra coniugale della donna, non utile alla procreazione e pericolosa per i matrimoni. Il problema era
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
27
sicuramente meno grave di come lo presentava la legge, e forse era più che altro un pretesto per
attaccare non tanto un’inesistente libertà sessuale, quanto i nuovi comportamenti più indipendenti che andavano diffondendosi fra le donne della più alta aristocrazia. In una società così dominata dai maschi, cosa di meglio poteva fare Augusto per apparire come il moralizzatore e il
vero restauratore delle buone tradizioni antiche? La legge definì “adulterio” ogni rapporto
extra matrimoniale della donna: non soltanto quello della moglie con un uomo diverso dal
marito, ma anche qualsiasi rapporto sessuale di una vedova e di una ragazza nubile onesta (le
prostitute e le concubine erano eccettuate dalla legge). Per secoli questi comportamenti erano
stati puniti dai parenti come meglio credevano, anche uccidendo la donna e il suo amante; oppure accordando il perdono. Adesso invece l’adulterio diveniva un reato pubblico: non solo la
punizione spettava allo Stato (la pena prevista era l’esilio in una piccola isola), ma per non incorrere in gravi pene il marito e il padre della donna colpevole erano obbligati a denunciarla.
La legge fu una pacchia per i ricattatori, ma non sembra che avesse molto successo. I casi in cui venne applicata furono pochi, anche se fra le sue prime vittime vi fu la figlia stessa
di Augusto, Giulia, che il padre dovette mandare in esilio: intorno alla figlia e al suo disinvolto comportamento sessuale si erano raggruppati i contestatori della sua legislazione morale, e dunque l’esilio della figlia (e l’obbligo di suicidarsi imposto a uno dei suoi amanti) mostrava a tutti la serietà delle intenzioni del principe.
Gratidius Libanus e sua
moglie Gratidia Chrite
30 a.C.
Musei Vaticani, Roma
Questo gruppo statuario
ritrae una coppia di sposi: è
evidente la volontà di
rappresentare la dignità
dell’uomo nella sua veste di
paterfamilias, con la mano
sinistra che regge la toga
e lo sguardo fiero, e
la posizione
subalterna della
donna che a lui si
appoggia con
atteggiamento
affettuoso e
riverente insieme.
28
1. Quali punizioni toccavano a coloro che non si sposavano? 2. Quali relazioni rientravano nel delitto di
adulterio?
11. Matrimonio e sessualità
fra repubblica e impero
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Il potere del maschio
Le leggi di Augusto su morale e matrimonio intervenivano in un terreno che si stava trasformando. Da tempo, infatti, sia l’atteggiamento
dei Romani verso il matrimonio, sia le relazioni fra marito e moglie andavano lentamente modificandosi. Questo processo plurisecolare di
cambiamento era iniziato nel IV secolo a.C. e giunse a termine solo nel
II secolo d.C. Ricostruiamone le tappe principali.
Per i primi secoli della storia di Roma con il matrimonio la donna passava dalla sottomissione al proprio paterfamilias alla sottomissione al
potere del marito, chiamato manus. In quanto paterfamilias della sua
casa il marito aveva un’autorità assoluta sulla moglie come su tutta la
famiglia. Il tipo di sessualità tradizionale rispecchiava questi
rapporti di potere così diseguali. In quanto capo incontrastato di
un gruppo familiare su cui poteva liberamente esercitare la massima
autorità, il cittadino romano praticava una sessualità spesso violenta e prepotente, che potremmo dire “di stupro”: senza problemi e
senza esitazioni, sottometteva alle sue voglie la moglie, le schiave
e i giovani schiavi della casa.
Il cambiamento iniziò nel IV secolo a.C. e riguardò dapprima non la sfera
Parte V L’impero greco-romano
degli affetti e del sesso, ma quella del
patrimonio. Il tipo di matrimonio più
antico sottoponeva al marito non solo
la donna, ma anche i suoi beni. E questo per le famiglie ricche costituiva un
problema, perché metteva nelle mani
del marito i beni che la moglie riceveva in dote ed ereditava dalla famiglia
paterna. Dapprima nelle classi sociali
alte e poi un po’ in tutti i gruppi sociali si diffuse quindi un tipo di matrimonio diverso, senza manus, senza
cioè prevedere il passaggio né della
sposa, né soprattutto dei suoi beni sotto l’autorità del marito. Già nel II secolo a.C. era il matrimonio più comune. La donna restava libera di fare testamento e di amministrare la sua dote e i beni ereditati; così spesso li faceva gestire dai fratelli e li lasciava
loro in eredità. Pur se originato dalla
convenienza economica dei parenti
maschi, il nuovo tipo di matrimonio avvantaggiò anche la donna: se è esagerato dire che
le dava la libertà, è però sicuro che se non altro limitava il controllo assoluto in passato
esercitato dal marito.
Come in molte civiltà del passato, il matrimonio continuava a non aver nulla a che vedere con l’amore. Di solito veniva stabilito dai parenti in base ai loro progetti politici e economici; anche quando erano gli sposi a prendere la decisione, lo facevano in base a una
scelta razionale, non sentimentale. Per la riuscita dell’unione contavano non l’amore o la
sessualità, ma altri valori, come la concordia e la solidarietà. Se queste condizioni venivano a mancare era abbastanza facile divorziare: bastava che uno dei coniugi comunicasse
all’altro la volontà di ripudiarlo. Di fatto l’iniziativa era presa soprattutto dagli uomini,
tranne che nel caso delle donne di altissimo rango, che divorziavano con tranquillità, sostenute dalla famiglia di origine.
Scena di matrimonio
II sec. d.C.
Museo Archeologico,
Arlon, Belgio
Un cambiamento di mentalità
Proprio a partire dalla metà del I secolo a.C. nella mentalità dei mariti romani inizia a
comparire un modo diverso di considerare il matrimonio. I comportamenti sopraffattori certo non cessarono, ma adesso venivano considerati come qualcosa di negativo, da praticare
di nascosto. Sempre di più si andava infatti diffondendo l’idea che il marito dovesse essere fedele e rispettare la moglie, e che fra gli sposi dovesse esistere un rapporto di affetto,
stima e complicità. I primi storici che hanno individuato questo cambiamento di mentalità
pensavano fosse avvenuto solo tardi, a partire dal II secolo d.C., e lo attribuivano alla diffusione del cristianesimo, che in effetti dava importanza alla fedeltà e al rapporto paritario
fra i coniugi. Ma in realtà il nuovo modo di pensare inizia molto prima, già nell’età di Augusto. La morale cristiana del matrimonio dunque non c’entra, e nemmeno le leggi del principe in materia di matrimonio e adulterio. Le cause del cambiamento di morale vanno piut-
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
29
tosto cercate nella diffusione di comportamenti suggeriti dai filosofi greci, che invitavano
l’uomo a controllare il desiderio sessuale per raggiungere un livello di conoscenza superiore; come pure contarono le teorie mediche sui danni che un’eccessiva attività sessuale
causava al fisico dell’uomo. Per quanto possa sembrare strano, gli storici pensano però che
la causa principale della nuova morale sia stata di tipo politico. Nella nuova realtà del principato e dell’impero tutti i cittadini divenivano sudditi e funzionari del principe. Come
potevano questi uomini continuare a sentirsi in casa propria patresfamilias arroganti e do-
cittadinanza
Il mistero della dote
I Romani d’età repubblicana e imperiale come i Greci dell’età classica
seguivano il sistema dotale: in occasione del matrimonio la famiglia
della donna dava allo sposo e alla sua famiglia una dote. La composizione e l’ammontare della dote cambiavano a seconda della condizione sociale degli sposi e di altri fattori. La dote poteva essere costituita
da una somma in denaro, oppure da terre, bestiame, vestiti, gioielli e
altri beni. La sua natura giuridica era particolare, nel senso che lo sposo di solito non ne poteva disporre a piacimento, ma doveva in qualche modo tenere conto dei diritti della donna e dei suoi parenti. I Romani prevedevano per esempio che in caso di divorzio il marito dovesse restituire la dote alla moglie, ad eccezione dei divorzi causati dall’adulterio della donna. La dote serviva per aiutare la nuova famiglia a
vivere e lavorare. Sposarsi senza dote era molto difficile. Un padre che
mancava di provvedere alla dote si disonorava agli occhi di tutti. Per la
mentalità dei Romani, un matrimonio non era una vera unione senza
beni dotali; ad Atene, addirittura, un matrimonio non era considerato
legittimo se mancava la dote.
Anche in tempi a noi vicini la dote è stata diffusa e importante. In tutti gli Stati europei di età moderna i matrimoni comportavano il pagamento di una dote. In certi periodi l’ammontare delle doti tendeva a salire, e molti padri si rovinavano per dotare le figlie; oppure decidevano che era meglio risparmiare e non farle mai sposare. Nei
paesi cattolici in questi casi si preferiva abbandonassero il mondo dei
laici, e divenissero religiose fin da piccole: in un convento l’onore di
una donna nubile era al sicuro (o quasi al sicuro: ricordiamo il caso
della monaca di Monza, Gertrude, una delle bambine destinate al
30
Parte V L’impero greco-romano
convento allo scopo di risparmiare la loro dote, raccontato da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi; la monaca era diventata l’amante di un nobile, e ne era nato un grande scandalo).
La dote si accompagnava spesso a una situazione di diseguaglianza nei
diritti ereditari delle figlie femmine rispetto ai fratelli. Di solito veniva
considerata come un’eredità anticipata, e si sosteneva che le figlie dotate perdevano ogni diritto sull’eredità paterna. Così avveniva nell’Atene classica e in molti Stati europei d’età moderna; i Romani erano più
generosi, e permettevano alla figlia sposata di rivendicare in eredità altri beni alla morte del padre. In Italia la dote è sopravvissuta fino a tempi recenti: solo nel 1975 è stata vietata.
Tipica del mondo occidentale fin dall’Antichità e di alcune altre civiltà,
come quella dell’India, la dote è apparsa a lungo come qualcosa di normale. Ma non lo è. Poiché nella maggior parte dei casi è la donna a lasciare la famiglia di origine per andare a vivere con il marito, in termini economici è strano che la famiglia che cede una donna ad un’altra
debba in aggiunta pagare anche qualcosa. Più normale è piuttosto che
sia la famiglia dello sposo a cedere beni a quella della donna. E così, in
effetti, è: un etnologo ha calcolato che al livello mondiale solo in una
piccola minoranza delle civiltà (a suo dire il 4%, ma nelle scienze umane è sempre bene evitare numeri così precisi) a pagare è la famiglia
che cede la donna, e non quella che la riceve.
Della peculiarità della dote erano coscienti già gli antichi. Per Aristotele, essa era la prova di un superiore livello di civiltà raggiunto dai Greci, che avevano abbandonato le pratiche “primitive” come il ratto o l’acquisto di donne seguite dai barbari dei suoi tempi e dagli stessi Greci
dei tempi di Omero. Per gli storici, la dote è un rompicapo. La sua vi-
tati di un dominio assoluto? L’ottica con cui guardavano il sesso e la moglie finì per adeguarsi a questa nuova realtà.
1. Che cosa era un matrimonio senza manus? 2. Quale causa di natura politica, secondo gli storici,
portò a un cambiamento di mentalità?
La dote di una
contadina di Lucerna
1830 ca.
Litografia
Swiss National Museum,
Zurigo
cenda è millenaria, e quanto mai complessa e controversa. Ma difficile da spiegare è in primo luogo la sua stessa esistenza. Nel caso della
dote tutti i doni (la ragazza e i beni) sono effettuati da una parte sola.
Le civiltà che adottano il sistema dotale sembrano quasi considerare la
ragazza come un peso per la famiglia d’origine, di cui ci si libera affibbiandola a una nuova famiglia, che però va pagata per il disturbo.
Molto più comprensibile appare invece la pratica più comune fra le
civiltà, dove il pagamento viene effettuato dalla famiglia del marito.
Dai Greci fino ai giorni nostri, noi occidentali ci siamo scandalizzati per
questo sistema in cui la donna sembra quasi una merce da comprare.
Talvolta era davvero così, e i doni fatti dal marito al suocero erano il “prezzo della sposa” nel senso più scontato del termine. Gli antropologi sottolineano però che questi doni avevano anche lo scopo di stringere meglio l’alleanza fra le due famiglie attraverso un sistema di dono e controdono: un gruppo familiare donava una ragazza, e l’altro contraccambiava donando denaro o beni. Scambiare doni non è forse anche per noi il
modo più comune per dichiarare un’amicizia o un affetto?
Non dobbiamo certo decidere quale delle due concezioni è più normale o ci piace di più. Per entrambe la ragazza non è un soggetto che
sceglie e decide, ma qualcosa da scambiare o da cedere. Capiamo
così bene che una vera uguaglianza fra i sessi è possibile solo dove il
matrimonio non comporta un peso economico obbligatorio né per
l’una né per l’altra famiglia. E, più in generale, capiamo quanto sia
grande la distanza con il nostro modo di considerare i diritti di ogni
individuo e in particolare della donna. La civiltà occidentale contemporanea considera i diritti dell’individuo come l’elemento fondamentale, al quale tutto va subordinato; in passato, viceversa, i diritti
di un individuo venivano dopo quelli della sua famiglia. Nella morale del tempo sembrava una cosa normalissima e giusta che fosse la
famiglia, e soprattutto il padre, a decidere cosa i giovani dovessero
fare in ogni occasione, e dunque anche nel matrimonio. Questa subordinazione dell’individuo alla famiglia gravava anche sui maschi,
ma finiva per danneggiare soprattutto i soggetti più deboli del gruppo familiare, le femmine.
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
31
SINTESI
1. Il primo triumvirato
Di ritorno dall’Oriente, Pompeo aveva congedato le legioni, ma le richieste da lui avanzate tardavano a essere approvate dal senato, per motivazioni politiche. Di questa situazione di stallo approfittò Giulio Cesare, che strinse un patto segreto con Pompeo e Crasso per
farsi eleggere console nel 59 a.C. e portare avanti progetti comuni. Questo triumvirato esercitò, di fatto, un controllo quasi totale sullo Stato. Al termine del consolato Cesare si fece assegnare il governo della Gallia per due quinquenni e, tra il 58 e il 52 a.C., la conquistò, mentre a Roma dilagava il caos politico. Morto Crasso in battaglia contro i Parti, Pompeo restava l’unico personaggio potente presente a Roma
e appoggiato dal senato, mentre a Cesare, il cui mandato in Gallia stava scadendo, veniva rifiutato un secondo mandato di console.
2. La seconda guerra civile e la dittatura di Cesare
Venuta meno ogni possibile mediazione, nel 49 a.C. Cesare entrò in Italia con le sue truppe e la conquistò. Ottenuta la dittatura, nel 48, a Farsàlo, sconfisse Pompeo, che, rifugiatosi in Egitto, fu ucciso da Tolomeo XIII. Questo atto giustificò l’intervento militare di Roma, che prese il controllo dell’Egitto e della sua produzione di grano. Sconfitte le ultime sacche di resistenza pompeiana e riconfermato dittatore a vita, Cesare concentrò tutti i poteri nella sua persona, assumendo comportamenti e simboli di un sovrano, e portò
avanti un gran numero di riforme politiche e sociali. Ma l’ostilità continuò e, nel 44 a.C., fu assassinato in una congiura ordita da senatori che volevano, così, restaurare la libertà repubblicana.
3. La terza guerra civile e l’ascesa di Ottaviano, il futuro Augusto
La morte di Cesare diede vita a nuove turbolenze. Figure di spicco nel panorama romano erano Antonio e Lepido, fedeli generali di Cesare, e Gaio Ottaviano, erede di Cesare. Ottaviano si rivelò un abile politico, si guadagnò il favore del popolo e dei veterani,
riuscendo a sfruttare i timori che il senato provava per le ambizioni di Antonio. Riuscì a dar vita a un secondo triumvirato con Lepido e
Antonio, questa volta ratificato dal senato e della durata di cinque anni. Furono divise le aree di influenza: a Lepido andò l’Africa, ad
Antonio l’Oriente e la Gallia Transalpina, e Ottaviano rimase in Italia ed ebbe il controllo della Spagna. Lepido uscì rapidamente di scena, mentre Ottaviano ebbe buon gioco a screditare i comportamenti di Antonio, che in Oriente si atteggiava a despota. Lo scontro fu inevitabile e nel 31 a.C. la flotta di Ottaviano sconfisse quella di Antonio, che si suicidò ad Alessandria un anno dopo.
4. Restaurazione e rivoluzione: Augusto al potere
Una volta al potere, Ottaviano, che aveva ottenuto anche il cognomen Augusto, riuscì a compiere una vera e propria rivoluzione politica, mascherandola come una restaurazione dell’ordine repubblicano. Infatti, egli utilizzò le antiche istituzioni repubblicane per
accumulare sulla sua persona uno smisurato potere. Dopo essersi fatto riconoscere come princeps senatus e aver ricoperto la carica di
console per otto anni, ottenne la potestà tribunizia, l’imperio proconsolare e la carica di pontefice massimo. Sotto Augusto continuarono a vivere e operare tutte le istituzioni della repubblica, ma in realtà ogni cosa ruotava intorno alla sua persona e alle sue scelte. Senza
imporre direttamente ai Romani la monarchia, Augusto, era di fatto il monarca.
5. Parole importanti
La comprensione del regime politico instauratosi a Roma passa attraverso la spiegazione di alcuni termini. Innanzitutto il termine Augustus, concesso a Ottaviano dal senato per onorarlo, che aveva un significato religioso. Poi, il termine princeps, che significava ‘primo fra i cittadini’ e da cui deriva il termine “principato”, che ben descrive il regime politico da quel momento instaurato a Roma.
Quindi i termini “imperatore”, che si riferiva al capo militare supremo e vittorioso, e “impero”, che indicava il potere dei più importanti magistrati repubblicani, ma che nella locuzione “impero romano” passò a indicare lo Stato romano.
6. Cesare e la conquista della Gallia
Una delle campagne militari più narrate dell’Antichità è stata quella per la conquista della Gallia, grazie soprattutto al De bello gallico, il diario di guerra redatto da Cesare che descrive le operazioni militari e fornisce molti dati sulle popolazioni celtiche. Cesare riuscì a piegare, anche brutalmente, i Celti e a respingere oltre il Reno le popolazioni germaniche, e nel 52 a.C. sconfisse la grande ribellione capitanata da Vercingetorige, re degli Arverni. Tuttavia, le azioni brutali di Cesare erano duramente contestate dai suoi avversari politici, che gli rimproveravano anche di agire al di fuori di ogni regola e convenzione.
7. Il governo di Augusto
Augusto apportò delle graduali riforme amministrative. Le nuove cariche presero il nome di prefettura e furono assegnate a magistrati chiamati prefetti. L’Italia fu estesa fino alle Alpi e suddivisa in dodici distretti. I domìni esterni furono divisi in province del popolo, governate da funzionari eletti dal senato, e province imperiali, poste sotto il controllo diretto del principe che nominava un legato.
Le diverse cariche erano distribuite tra le due più importanti classi dello Stato, i senatori e i cavalieri.
32
Parte V L’impero greco-romano
8. La politica estera di Augusto
La politica estera di Augusto, a lui esclusivamente riservata, era guidata da due obiettivi principali: la grandezza dell’impero e la pace. La “pace augustea” è meglio definibile come “pace armata”, ovvero atta a reprimere dentro e fuori l’impero chi turbava l’ordine romano. In epoca augustea fu rafforzato il controllo della penisola iberica e delle Alpi, si tentò di arrivare oltre il fiume Elba, nell’attuale Germania, ma infine i confini in Europa orientale si attestarono sul Reno e sul Danubio. I problemi con i Parti, invece, furono temporaneamente risolti per via diplomatica.
9. Cultura, morale e propaganda politica sotto Augusto
Augusto seppe sfruttare abilmente arte, letteratura e architettura per creare consenso attorno alla sua azione politica, per
diffondere nell’opinione pubblica i valori fondamentali della società e per portare avanti un vasto programma di risanamento morale in senso conservatore. Augusto introdusse il culto religioso della sua persona, che assunse, però, diverse modalità nei domìni
di Roma. In Oriente il principe era adorato come un vero e proprio dio, mentre a Roma e in Occidente erano adorate le sue divinità protettrici familiari e personali.
10. Dare figli allo Stato
Nella politica di moralizzazione dei costumi promossa da Augusto erano parte integrante le leggi che regolamentavano e
punivano aspetti dei rapporti quotidiani come il matrimonio o le relazioni adulterine. Il matrimonio fu imposto a tutti i cittadini
adulti, pena la perdita del diritto a ereditare, mentre il mettere al mondo figli era premiato. La legge, inoltre, considerava adulterio
qualsiasi rapporto extra matrimoniale della donna.
11. Matrimonio e sessualità fra repubblica e impero
La mentalità e la morale della società romana, comunque, andavano trasformandosi. Già dal IV secolo a.C., infatti, le relazioni matrimoniali stavano mutando. Alla sottomissione totale della donna prevista negli antichi contratti di matrimonio, cominciarono a subentrare unioni nelle quali non era previsto il passaggio della sposa e dei suoi beni sotto l’autorità del marito. A questi
cambiamenti concorsero certamente la diffusione del pensiero dei filosofi greci; inoltre, con il principato, divenne sempre più chiaro l’anacronismo della formula sociale incentrata sulla figura del paterfamilias.
ESERCIZI
Gli eventi
1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette:
❏ a) Cesare appoggiò Tolomeo XIII nel conflitto con sua sorella Cleopatra.
❏ b) Con Cesare al potere, la cittadinanza romana fu estesa alla Gallia Cisalpina.
❏ c) Il secondo triumvirato fu il risultato di un patto segreto stipulato tra Antonio, Lepido e Ottaviano.
❏ d) I popoli gallici erano federati tra loro e governati da un unico sovrano.
❏ e) La potestà tribunizia conferiva perpetuamente ad Augusto i poteri dei tribuni della plebe.
❏ f) Il prefetto dell’annona era incaricato di mantenere l’ordine pubblico a Roma.
❏ g) Ai senatori spettava la guida dei dodici distretti italici e il governo delle province.
❏ h) Con Augusto i confini dell’impero in Europa orientale si attestarono sulle rive del Reno e del Danubio.
❏ i) A Roma e in tutto l’Occidente Augusto fu venerato come un vero e proprio dio.
❏ j) Secondo le leggi fatte approvare da Augusto ogni rapporto extra matrimoniale della donna era considerato adulterio.
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
33
Le coordinate spazio-temporali
2. Collega correttamente le date agli eventi elencati:
Date
Eventi
a) 59 a.C.
1) Pompeo viene sconfitto a Farsàlo e Cesare si fa nominare dittatore.
b) 58-50 a.C.
2) Augusto ottiene la potestà tribunizia e l’imperio proconsolare a vita.
c) 49 a.C.
3) Cesare viene eletto console.
d) 48 a.C.
4) Ottaviano sconfigge Antonio ad Azio, mettendo fine alla terza guerra civile.
e) 44 a.C.
5) Augusto viene eletto pontefice massimo.
f) 43 a.C.
6) Conquista della Gallia.
g) 31 a.C.
7) Cesare viene abbattuto da una congiura.
h) 27 a.C.
8) Antonio, Lepido e Ottaviano danno vita al secondo triumvirato.
i) 23 a.C.
9) Inizio della seconda guerra civile, tra Cesare e Pompeo.
j) 12 a.C.
10) Ottaviano ottiene dal senato il titolo di Augustus.
Il confronto
3. Completa la seguente tabella inserendo le informazioni richieste, quindi rispondi alle domande:
Primo triumvirato
Da chi era composto?
Qual era la natura giuridica
di questo accordo?
In che modo fu spartito
il potere fra i triumviri?
a) Quali erano gli obiettivi politici di questi accordi?
b) In che modo terminarono i due triumvirati?
34
Parte V L’impero greco-romano
Secondo triumvirato
I concetti
4. Definisci i seguenti termini ed espressioni:
Termine
Definizione
Augustus:
Princeps:
Imperator:
Tribunicia potestas:
Imperio proconsolare:
L’elaborazione scritta
5. Descrivi in un breve testo (max 20 righe) l’azione di governo di Augusto, sviluppando i seguenti concetti:
a) Pace armata;
b) Risanamento morale della società.
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Quali furono le cause che portarono allo scontro tra Cesare e Pompeo?
2) Quali furono le riforme promosse da Cesare una volta ottenuta la dittatura?
3) In che modo Ottaviano riuscì a concentrare nelle proprie mani tutti i poteri senza intaccare apertamente le istituzioni repubblicane?
4) Quali riforme promosse Augusto riguardo all’amministrazione di Roma e dell’impero?
5) In che modo Augusto si servì degli artisti e degli intellettuali per propagandare la propria azione politica? Come gestì il dissenso?
6) Quali differenti forme assunse il culto della persona che Augusto favorì?
7) Quali trasformazioni segnarono la società romana nel passaggio dalla repubblica al principato?
Capitolo 12 Cesare e Augusto: la nascita del principato
35
Capitolo 13
Il consolidamento
e l’apogeo dell’impero
1. Stabilità, pace e difficoltà
di successione
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Un quadro positivo
Per quasi duecento anni dopo la morte di Augusto la nuova realtà politica che egli aveva creato, l’impero, andò rafforzandosi. Nel II secolo d.C. raggiunse il suo apogeo, cioè il
punto più alto di sviluppo (da questo capitolo ometteremo di precisare che siamo ormai nell’età “dopo Cristo”). Fu un periodo di prosperità, di amministrazione efficace e soprattutto
di pace interna e lungo i confini. Certo, non era questo il modo in cui la vedevano molte
famiglie della grande aristocrazia, vittime delle repressioni compiute a più riprese dagli imperatori, soprattutto nel I secolo, per vincere l’opposizione di senatori e cavalieri, nostalgici delle libertà repubblicane. Ma per la maggioranza della popolazione il quadro fu positivo. Le ribellioni e i conflitti civili così comuni nelle ultime generazioni della repubblica
divennero eventi eccezionali, mentre sul fronte esterno si registrò una novità ancora più
inaudita: finì la continua aggressività che per quattro secoli aveva caratterizzato il rapporto di Roma con il mondo. Tranne che in pochi periodi, e con l’eccezione delle truppe concentrate sui confini, la popolazione dell’impero conosceva le guerre e le rivoluzioni solo
dai racconti e dalle letture, e lo spargimento di sangue dagli spettacoli dei gladiatori. Anche il sistema delle istituzioni restò abbastanza stabile.
Tutto ciò ha delle conseguenze sugli argomenti trattati in questo capitolo. Per due secoli il racconto della storia del vasto Stato che comprendeva l’intero Mediterraneo, l’Europa
occidentale e i Balcani non si incentra più sulle guerre e le conquiste, le rivolte, i conflitti
sociali e politici, ma sul sistema amministrativo, sulle vicende della società e sull’economia. La storia politica vera e propria consiste solo di pochissime guerre, e in buona misura finisce per coincidere con il racconto delle biografie dei singoli imperatori, della loro vita privata, del loro carattere, dei loro rapporti con il senato. Ne parleremo con rapidità perché si tratta di questioni che ebbero un’influenza minima sul funzionamento della macchina statale e sulla vita della stragrande maggioranza degli abitanti dell’impero. Ben più importanti furono i fenomeni sociali, economici e di mentalità. Due fra tutti ebbero un’importanza davvero particolare, condizionando in profondità la storia successiva: la romanizzazione delle province e la nascita e la diffusione del cristianesimo.
Successione o eredità?
Prima di parlare dei successori di Augusto, va detto che il punto più debole del sistema
politico da lui creato era per l’appunto la successione, cioè la trasmissione del potere da un
imperatore all’altro. Questa debolezza nasceva da una contraddizione strutturale. Formal-
36
Parte V L’impero greco-romano
mente il principato non era una monarchia ereditaria, ma una repubblica dove erano il senato e il popolo a concedere a un imperatore i suoi grandi poteri. In teoria qualsiasi membro della nobiltà senatoria poteva essere nominato imperatore. Tuttavia i Romani (ecco la
contraddizione) condividevano da tempo con molti altri popoli l’idea che i beni e i poteri
di un uomo passassero in eredità ai figli o ai familiari stretti.
La casta dominante dei senatori propugnava con forza la teoria che il principato non fosse una monarchia, e che dunque il potere non dovesse trasmettersi per via ereditaria, ma solo attraverso la libera scelta del senato. Invece nella massa della popolazione e, quel che
più contava, nell’esercito prevaleva l’idea dinastica, cioè l’idea che il titolo di imperatore
e di Augusto dovesse restare nella stessa famiglia, trasmettendosi in eredità come se fosse
una proprietà. Gli imperatori, ovviamente, tendevano a condividere la visione dinastica,
perché desideravano lasciare il potere ai propri eredi, ma dovevano evitare di sostenerla
troppo esplicitamente per non suscitare l’ostilità del senato.
L’incertezza su come regolare la successione fu causa di gravi contrasti, e nel III secolo divenne un fattore di profonda crisi. Per i primi due secoli di storia dell’impero il problema della successione venne risolto in tre diversi modi. Il primo modo era quello dinastico, che si realizzava quando un imperatore in carica designava un figlio o un altro parente come successore, e riusciva a fare sì che alla sua morte la successione andasse a buon
fine. Il secondo modo di scegliere l’imperatore nasceva dal potere assunto dall’esercito nel
sistema politico romano: in una minoranza dei casi la successione fu decisa dalle legioni,
che proclamarono un principe e ne imposero la ratifica al senato. Il terzo modo era quello
che veniva un po’ enfaticamente presentato come la scelta del migliore: l’imperatore individuava il successore non solo fra i parenti ma anche fra gli uomini più in vista dell’impero, di solito apprezzati generali dell’esercito; quindi lo adottava come figlio.
Questo terzo principio era caro ai senatori, perché garantiva le prerogative del senato
meglio della successione ereditaria e della proclamazione ad opera delle legioni. Inoltre si
accordava con gli ideali propugnati dalla filosofia stoica, largamente diffusa fra le classi
dirigenti dell’impero, secondo la quale l’imperatore doveva operare al servizio del bene comune e venire dunque scelto in base alle capacità politiche e alle virtù morali. In questa visione, comunque, c’è molta ideologia, perché tutto indica che nella mentalità romana era
radicata soprattutto la concezione dinastica dell’autorità. Non è un caso se la supposta
“scelta del migliore” fu praticata soltanto dagli imperatori privi di figli naturali: e anche in
quel caso il prescelto doveva venire legittimato creando con l’adozione un legame di parentela, sia pure fittizia, con l’imperatore uscente.
1. Quali furono le principali vittime delle repressioni compiute dai vari imperatori nel I secolo? 2. Quale
grande contraddizione rendeva debole il meccanismo di successione al potere?
2. La dinastia giulio-claudia
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Tiberio
Fra i tre modi di regolare la successione imperiale, Augusto aveva seguito il terzo, quello dell’adozione. La sua scelta però non derivava dal rifiuto dell’idea dinastica, ma dal banale fatto che non aveva figli; e del resto i candidati prediletti erano sempre parenti. Il lon-
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
37
gevo principe ebbe la sfortuna di veder morire in giovane età tre degli eredi designati e adottati come figli. A questo punto la sua scelta cadde sul figliastro Tiberio, che sua moglie Livia aveva avuto da un precedente marito. Tiberio venne fatto sposare con la figlia di Augusto, Giulia, e poi adottato. Era dunque allo stesso tempo figliastro, genero e figlio adottivo di Augusto: una relazione di parentela per noi sorprendente, ma che il gran numero di
divorzi e di adozioni rendeva del tutto normale nelle classi alte di Roma.
Il nuovo imperatore apparteneva a un’antica famiglia patrizia, la gens Claudia: dopo
l’adozione era dunque membro sia della gens Giulia (tramite Giulio Cesare, padre adottivo di Augusto), sia della gens Claudia. Per indicare Tiberio e i suoi tre successori, tutti fra
loro imparentati, gli storici moderni hanno quindi coniato l’etichetta di “dinastia giulioclaudia”.
Imperatore dal 14 al 37, Tiberio condusse una politica prudente ma efficace. Consolidò
le frontiere e curò molto l’amministrazione, rafforzò il potere centrale, ridusse gli sprechi
e risanò le finanze. Tuttavia il successore di Augusto è stato dipinto da Tacito e Svetonio,
i grandi storici della generazione successiva, come un principe crudele e, in aggiunta, ipocrita, poiché a loro parere fu solo per ipocrisia che in un primo momento rifiutò l’offerta
del senato di assumere le cariche appartenute ad Augusto.
Occorre però diffidare del racconto dei due storici. Tacito e Svetonio rimpiangevano la
repubblica, e hanno quindi cercato di tracciare un ritratto negativo di Tiberio e di tutti i
primi imperatori, tacendo i successi, sottolineando le debolezze di carattere e compiacendosi nel raccontare congiure e scandali. Queste immagini negative talvolta erano giustifi-
Busto di Tiberio
14
Musée du Louvre, Parigi
L’imperatore Tiberio
viene qui
rappresentato con una
corona composta con
serti di quercia detta
“corona civica”,
un’importante
onorificenza romana
concessa, sia in epoca
repubblicana sia imperiale,
a chi avesse avuto il merito
di salvare la vita a uno o più
cittadini romani uccidendo un
nemico.
Cammeo di Francia
IGran
sec. a.C.
Bibliothèque Nationale,
Parigi
Tiberio è assiso in
trono, circondato
dalla madre Livia e
da altri membri
della corte. Al di
sopra dell’imperatore è
rappresentata l’apoteosi
di Augusto e di due
principi; nel registro
inferiore sono raffigurati i
barbari prostrati e ridotti in
schiavitù.
38
Parte V L’impero greco-romano
cate; altre volte invece erano esagerazioni o invenzioni che nascevano dall’odio di parte.
Non è per esempio necessario vedere solo subdola ipocrisia nell’iniziale esitazione di Tiberio ad assumere i poteri; è probabile piuttosto che fosse un mezzo per aumentare il consenso generale e, anche, per sottolineare il suo desiderio di rispettare le prerogative del senato. L’imperatore proveniva da una gens, i Claudii, che fin dall’origine della repubblica
aveva fatto parte del senato. È comprensibile che abbia voluto omaggiare e avere buone
relazioni con l’antica assemblea, tanto più che essa era l’unica forza politica in grado di
ostacolare il consolidamento del principato. Né lui, né i suoi immediati successori però vi
riuscirono. Tutto il I secolo d.C. fu contraddistinto dalla competizione fra gli imperatori e
il senato.
La popolarità di Tiberio fu sempre modesta, e peggiorò radicalmente dopo il 19, quando voci insistenti gli attribuirono l’avvelenamento del figlio di suo fratello Druso, l’amatissimo generale Germanico. Il tutto era poi aggravato dal pullulare, nella corte e negli ambienti del palazzo imperiale, di un’ininterrotta serie di congiure, trame, complotti, corruzioni. Questi comportamenti, in realtà, sono stati diffusi in tutte le corti dei sovrani di ogni
tempo; in quella degli imperatori romani appaiono però particolarmente frequenti sia a causa delle enormi risorse in gioco, sia soprattutto perché l’oggetto della contesa erano
non soltanto le cariche e i beni del sovrano, ma anche la successione stessa al potere. L’assenza di un chiaro principio ereditario favoriva le lotte e le congiure,
coinvolgendo generali, grandi funzionari, mogli e parenti del sovrano. Tiberio represse duramente alcuni complotti, talvolta reali, altre volte
solo supposti. Anziano e disgustato dai molti intrighi della corte, nel 26 decise di ritirarsi a vivere a Capri, in una splendida villa da cui continuò a governare l’impero per il
tramite del prefetto del pretorio Seiano. Dopo la scoperta di un complotto di Seiano per ottenere il trono,
gli ultimi anni del suo regno furono contrassegnati da
repressioni durissime contro ogni opposizione.
Cammeo con l’imperatore
Claudio
I sec.
Musei Vaticani, Roma
L’imperatore Claudio è
ritratto con lo scettro del
potere. Questo imperatore
incentivò l’avvio di alcune
opere pubbliche importanti:
la costruzione del porto di
Roma presso Ostia e quella
dell’acquedotto Claudio,
l’ampliamento della rete
viaria connessa alla capitale,
specialmente in direzione
nord, con la via Claudia
Augusta che attraversa il
passo del Brennero.
Caligola e Claudio
Tiberio aveva indicato come eredi due nipoti, ma
il senato scelse di dare i poteri solo ad uno di essi,
Caligola (37-41), figlio del compianto generale Germanico. Fu una scelta infelice. Il giovane principe
umiliò il senato (la leggenda vuole addirittura che
avrebbe nominato senatore il proprio cavallo), fece
giustiziare senza processo gli oppositori, instaurò un
clima di terrore, aumentò le tasse e pretese di venire
riverito come una divinità. Gli antichi attribuirono
questa politica dissennata a un carattere minato dalla
pazzia. Quale che sia la spiegazione, va detto comunque che il comportamento del giovane sovrano metteva in luce il pericolo, sempre in agguato nel sistema del
principato, che un imperatore cercasse di trasformarsi in
un sovrano assoluto di tipo orientale. Il malcontento divenne enorme e portò infine all’assassinio di Caligola ad
opera della guardia pretoriana.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
39
Se Caligola era il primo dei numerosi imperatori uccisi in congiure militari, il suo successore Claudio (41-54) dette inizio a una serie ancora più nutrita, quella degli imperatori
proclamati da un colpo di mano militare. Mentre infatti il senato discuteva per scegliere chi
far subentrare all’ucciso, i pretoriani acclamarono principe suo zio Claudio. Era una scelta
tutta di tipo dinastico, motivata solo dalla parentela del nuovo imperatore con quelli precedenti, perché per il resto Claudio non aveva buona fama. Era un personaggio schivo, in
disparte dalla vita politica e dedito agli studi. Si rivelò però un ottimo amministratore, che
rese più efficiente la burocrazia e consolidò il potere imperiale; nel 43 iniziò la conquista
della Britannia. Gli storici antichi di parte avversa amavano però raccontare soprattutto gli
scandali della sua vita privata. La terza moglie, Messalina, è divenuta un esempio proverbiale di donna corrotta. Accusata di un complotto, venne condannata a morte. La moglie
successiva, Agrippina, è presentata come l’esempio massimo di donna intrigante. Per garantire la successione al trono al figlio avuto da un precedente matrimonio, Nerone, avrebbe addirittura avvelenato Claudio.
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L’impero romano
sotto la dinastia
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Fra tutti gli imperatori romani, Nerone (54-68) è quello dalla peggiore fama. Tacito, Svetonio e altri storici avversi ne fanno una figura demoniaca, incarnazione di una sorta di malattia, di una psicosi generata dal potere. Salito appena diciassettenne al trono attraverso il
complotto, inizia a vedere complotti ovunque, uccidendo amici, consiglieri e la stessa madre. Fa assassinare la prima moglie e con un calcio al ventre colpisce a morte la seconda,
Poppea, a pochi giorni dal parto. Viene dipinto come un buffone, che ama recitare e cantare. L’accusa massima è quella di avere provocato e poi cantato dall’alto del suo palazzo il
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Parte V L’impero greco-romano
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catastrofico incendio che nel 64
distrusse i tre quarti di Roma. A
tutto questo va aggiunta la prima
grande persecuzione contro i
cristiani, ordinata dall’imperatore con l’accusa di avere causato l’incendio.
Gli storici moderni si sforzano di dare un giudizio meno negativo di Nerone. Ricordano
molte iniziative a favore della
popolazione, come la riforma
monetaria (che aiutò i commerci), e gli interventi per migliorare l’approvvigionamento di Roma, la curata ricostruzione della
città dopo la catastrofe del 64. E
poi sottolineano come molti suoi
atteggiamenti derivino dall’interesse per la cultura greca e, soprattutto, da una concezione assolutistica del potere anch’essa
di origine orientale. Rimane
però sicuro che Nerone fece di
tutto per perdere il favore che lo
circondava in quanto ultimo discendente della dinastia iniziata da Augusto. Approfittò dell’incendio per sottrarre a molti ricchi senatori i terreni edificabili del centro di Roma, dove avviò la costruzione di una reggia fastosa e immensa, la Domus Aurea (la ‘Casa d’oro’), che comportò spese insopportabili anche per le finanze del vasto impero. Prese allora
la decisione suicida di risparmiare su spese che invece erano fondamentali per garantirgli
il consenso politico, come il soldo delle truppe (la paga militare) e la fornitura di grano alla plebe urbana. A tutto ciò si aggiunsero processi politici feroci, che sterminarono l’opposizione vera o presunta, causando la morte anche di uomini di cultura come lo scrittore Petronio, il poeta Catullo e il filosofo Seneca, che era stato il precettore e poi il consigliere
del giovane Nerone. Suicida fu anche la scelta di lasciare Roma e passare un anno e mezzo in Grecia, dove partecipò ai Giochi olimpici e si esibì come auriga (alla guida dei carri nella corsa), suonatore di liuto, cantante e attore.
Le giurie compiacenti o terrorizzate lo dichiararono ben 1800 volte vincitore, ma la lontananza dalla capitale si rivelò un errore politico fatale. La rivolta iniziò nelle province e
fu ben accolta a Roma dal senato e dai pretoriani. Piuttosto che cadere nelle mani dei congiurati Nerone si uccise nel 68.
Nerone e Agrippina
I sec.
Da Afrodisia (attuale Geyre,
Turchia); Museo di
Afrodisia
Il rilievo ritrae Nerone con
sua madre Agrippina:
accompagnata dalla
cornucopia, simbolo di
prosperità, la donna cinge il
capo di suo figlio con la
corona d’alloro. Questo
rilievo è stato ritrovato ad
Afrodisia, un centro
dell’Asia Minore consacrato
alla dea Afrodite tra i più
fiorenti in epoca ellenistica
e romana. Gli scavi condotti
nella città hanno rivelato i
resti di un grande edificio di
età imperiale
commemorativo di Augusto
tra le cui rovine spiccano
numerosi rilievi celebrativi
della dinastia giulio-claudia
(che vantava discendenza
dalla dea Afrodite) e che un
tempo adornavano i portici
del monumento.
1. Per quale motivo gli storici Tacito e Svetonio fecero una propaganda negativa dei primi imperatori?
2. Quale rischio si celava nei comportamenti eccentrici di Caligola e Nerone secondo l’aristocrazia senatoria? 3. Che conseguenze ebbe la lunga permanenza di Nerone in Grecia?
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
41
3. La dinastia flavia
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Dopo la morte di Nerone, gli eserciti delle diverse province cercarono di imporre i propri
candidati, che il senato impaurito si affrettava a legittimare. In un anno si contarono quattro
imperatori. Prevalse infine il candidato imposto dagli eserciti di Oriente, Vespasiano (69-79).
Per la prima volta saliva al potere un uomo che non apparteneva all’antica aristocrazia di Roma, ma ai Flavii, una famiglia di cavalieri di Rieti. Forse proprio a causa della sua origine
provinciale e da famiglia non senatoria, Vespasiano fu il primo imperatore che sentì il bisogno di stabilire per legge le sue grandi prerogative, emanando la cosiddetta lex de imperio
Vespasiani (con essa si confermava che l’operato del principe era solutus legibus, ‘non vincolato dalla legge’). Merito di Vespasiano fu un governo stabile e attento ai problemi finanziari. Provvide alla successione in base al principio dinastico, designando eredi i due figli.
Il maggiore, Tito (79-81), era popolare già durante il regno del padre per avere stroncato nel sangue la ribellione degli Ebrei in Palestina (66-73) [cfr. par. 5], e continuò durante
il breve regno a suscitare consensi. Apprezzati furono i suoi interventi in soccorso delle popolazioni colpite dalla spaventosa eruzione del Vesuvio, che nel 79 seppellì interamente le
tre fiorenti città di Pompei, Ercolano e Stabia. Agli occhi del popolo romano, amante delle
lotte fra gladiatori e delle cacce alle belve feroci, un merito non da meno fu l’inaugurazio-
Arco trionfale di Tito
80
Roma
Le spoglie del Tempio di Gerusalemme portate in processione trionfale
Particolare dall’Arco di Tito
Questo grande arco trionfale fu fatto erigere da Domiziano per commemorare la vittoria
riportata dal fratello Tito nella repressione della rivolta giudaica del 66-70. Il particolare del
fregio ricorda il momento del corteo trionfale in cui ci fu l’esposizione del bottino di guerra:
in primo piano vediamo la menorah, il tipico candelabro ebraico a sette bracci probabilmente
asportato dal tempio di Gerusalemme.
42
Parte V L’impero greco-romano
ne del grande Anfiteatro Flavio iniziato dal padre, che secoli dopo sarà chiamato Colosseo per
la vicinanza di una colossale statua di Nerone
[cfr. scheda, p. 68].
Il terzo esponente della dinastia flavia fu il
fratello Domiziano (81-96). La sua politica fu
attenta alla buona amministrazione delle province, all’addestramento dell’esercito e alla situazione in peggioramento dell’economia italica. Il
consenso popolare fu garantito anche dalla decisione di aumentare la paga dei soldati. Con lui
tornò però una politica autoritaria, volta a imporre al senato l’indiscussa superiorità dell’imperatore. Repressioni durissime colpirono l’opposizione, finché una congiura di pretoriani e senatori riuscì a eliminare l’autoritario principe.
1. Qual era l’origine sociale di Vespasiano? 2.
Quali furono i meriti attribuiti all’imperatore Tito?
4. I cosiddetti Antonini
o imperatori adottivi
Le rovine di Pompei
e il Vesuvio sullo sfondo
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Nerva
L’assassinio di Domiziano consentì finalmente di realizzare in pieno l’ideale delle maggiori famiglie aristocratiche: fare del senato la fonte del potere imperiale. Il giorno successivo all’assassinio di Domiziano furono infatti i senatori a indicare il nuovo imperatore,
scegliendo il loro anziano e prestigioso collega Cocceio Nerva (96-98). Per l’aristocrazia
era la scelta ottimale, tanto più che l’imperatore, privo di figli, si affrettò a regolare la successione secondo il principio, prediletto dal senato, della “scelta del migliore”. Il più prestigioso generale dell’epoca, Ulpio Traiano, venne adottato e dichiarato erede.
Nerva e i suoi successori fin quasi alla fine del II secolo sono chiamati dagli storici moderni Antonini o “imperatori adottivi”. La prima definizione è più usata ma meno precisa,
perché nasce dal nome di uno soltanto degli imperatori, Antonino Pio. La seconda è meno
diffusa, ma ha il pregio di indicare una caratteristica importante di questo periodo, cioè la
successione tramite adozione. Questo vuol dire che il trono fu occupato non da una vera
dinastia, cioè da una serie di sovrani appartenenti alla stessa famiglia, ma da personaggi designati tramite la cosiddetta scelta del migliore. Con questo sistema salirono in effetti al
potere personaggi di grandi capacità e cultura, e iniziò il periodo più florido e pacifico della vita dell’impero. La competizione fra senato e imperatore, così forte nel I secolo, si trasformò in un rapporto di collaborazione tanto migliore in quanto sia gli imperatori che la
maggioranza dei senatori provenivano adesso non più da Roma e dall’Italia, ma dall’aristocrazia delle province, soprattutto di Gallia e Spagna.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
43
Traiano, Adriano e Antonino Pio
Traiano era nato in Spagna, e regnò dal 98 al 117. Governò in modo così attento alle prerogative e agli interessi della nobiltà senatoria da indurre il senato a conferirgli il titolo onorifico di “Ottimo”. Seppe peraltro conquistare il generale consenso della popolazione. Alla plebe di Roma piacquero le distribuzioni di cibo, gli spettacoli e i grandi monumenti con cui
adornò la capitale; gli uomini di cultura ottennero sostegno e protezioni; i soldati e gli abitanti di tutto l’impero apprezzarono le sue capacità militari e la decisione di riprendere, dopo molto tempo, la politica delle conquiste. Fra 101 e 106 Traiano sottomise e trasformò in provincia la Dacia (l’odierna Romania), ottenendo un bottino gigantesco e estendendo per la prima
volta molto al di là del Danubio i confini dell’impero. Mosse poi l’esercito oltre i confini orientali. L’Armenia e alcune popolazioni arabe nella zona dell’odierna Giordania furono sottomesse, e il potente regno dei Parti venne sconfitto. Nel 115 l’intera Mesopotamia fu occupata e trasformata in provincia. La sua celebrità era alle stelle. Tuttavia presto una rivolta degli
Ebrei scoppiata in Palestina ed Egitto e altre ribellioni lo costrinsero a ritirarsi, rinunciando a
tutte le conquiste orientali. Il confine orientale tornò a correre lungo il fiume Eufrate.
Sul letto di morte l’imperatore adottò come successore Adriano (117-138). Era un altro
condottiero esperto proveniente dalle fila della nobiltà spagnola. Amante della letteratura e dell’arte, Adriano decise che era preferibile abbandonare la politica espansiva del predecessore,
e cercare piuttosto di rafforzare i confini dell’impero. Lungo l’intera, immensa linea di confine (limes) vennero disseminati fortini e accampamenti, e le zone più esposte furono dotate di
imponenti fortificazioni. La più famosa è il Vallo di Adriano, costruito per difendere la Bri-
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Parte V L’impero greco-romano
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L’impero romano
alla morte di Claudio
Province e territori
annessi da Domiziano
Province annesse
da Traiano
ASIA Province senatorie
REZIA Province imperiali
Confini fortificati
tannia dagli attacchi delle bellicose popolazioni che vivevano nell’attuale Scozia: è un muro
spesso 2-3 metri e lungo 120 chilometri, intervallato da un centinaio di forti e fortini e da un
numero ancora maggiore di piccole torri.
Adriano adottò Antonino Pio (138-161), che
proveniva da una famiglia nobile della Gallia
meridionale trasferitasi a Roma. Il suo regno fu
il più lungo periodo di pace esterna e interna
nella storia romana: il mondo romano era al
suo apogeo.
Marco Aurelio e Commodo
Alla morte di Antonino gli succedette il nipote Marco Aurelio (161-180). La sua scelta
non nasceva però dalla parentela: era stato Adriano a indicarlo come futuro imperatore, nonostante fosse allora appena diciassettenne. Per anni il giovane aveva ricevuto un’educazione accurata in vista dei suoi futuri impegni di principe, ed era rinomato per la cultura e
l’amore verso la filosofia stoica [cfr. par. 1]. Per adulazione ma anche per sincera convinzione, gli uomini di cultura poterono così celebrare il suo avvento al trono come la realizzazione dell’ideale di un imperatore filosofo, preparato alla riflessione, a moderare le passioni e a compiere al meglio i propri doveri. In campo interno Marco Aurelio seguì in effetti una politica moderata e tollerante; sul fronte esterno, viceversa, fu un imperatore
guerriero, costretto a fronteggiare ripetuti assalti alle frontiere. Di fatto l’imperatore filosofo non passò neppure un
anno senza combattere.
Con l’aiuto di un fratello adottivo che aveva associato al
trono, Lucio Vero (161-169), Marco Aurelio respinse nel
165 un attacco dei Parti in Siria. Nonostante la vittoria, fu
una campagna militare disastrosa: dall’Oriente i legionari
riportarono una malattia epidemica che fece milioni di morti e devastò in particolare l’esercito. Gli antichi la chiamarono peste, il termine che usavano per definire qualsiasi epidemia mortale (pestis vuol dire semplicemente ‘la peggiore
malattia’). Gli specialisti pensano però oggi che questa “peste antonina” in realtà fosse vaiolo: produsse grandi stragi
perché le popolazioni occidentali, fino a quel momento mai
infettate dalla malattia, non avevano ancora sviluppato difese immunitarie.
Impegnato in Oriente e indebolito dall’epidemia, l’esercito sguarnì le difese lungo il Danubio. Subito ne approfittarono le popolazioni germaniche stanziate ad oriente del
fiume, sulle quali la ricchezza romana esercitava da tempo
un fascino irresistibile. Per esse l’impero doveva sembrare
il paese dell’abbondanza, dove spade e gioielli crescevano
sugli alberi e nei fiumi scorreva vino. Quadi, Marcomanni e molte altre popolazioni inondarono nel 166 le province
danubiane, spingendosi persino in Italia. La reazione fu de-
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
Il Vallo di Adriano
in Inghilterra
II sec.
Il trionfo
di Marco Aurelio
176
Musei Capitolini, Roma
Questo rilievo proviene
molto probabilmente da un
monumento celebrativo
dell’imperatore Marco
Aurelio, qui ritratto nella
sua sfilata trionfale.
45
gna del pericolo. Un grande sforzo finanziario e organizzativo permise di inviare un’enorme armata sul Danubio. I nemici furono ricacciati e inseguiti ad oriente del fiume, dove
vennero create due province nella zona dell’attuale Slovacchia. Estendere l’impero oltre il
Danubio avrebbe garantito al meglio la sicurezza; ma l’imperatore morì improvvisamente
di malattia durante la campagna militare, e il suo figlio e successore, Commodo (180-192),
decise di abbandonare le recenti conquiste.
Negli ultimi anni di vita di Marco Aurelio le spese belliche, le imposte crescenti e la lontananza da Roma dell’imperatore avevano determinato rivolte e repressioni. Il regno iniziato sotto i migliori auspici finiva in un clima fosco. Con Commodo la situazione continuò a peggiorare. Il nuovo imperatore, di appena diciotto anni, sembrava drammaticamente mancare delle virtù che avevano caratterizzato gli altri Antonini. Rinunciò a proseguire
le guerre, dilapidò risorse ancora più grandi del consueto per allestire giochi e spettacoli,
promosse il culto della propria persona e cercò di diminuire il prestigio del senato. L’opposizione fu repressa nel sangue. Dopo una serie di tentativi falliti, una congiura di palazzo riuscì a eliminarlo. Il senato accolse con gioia la sua morte, e ne condannò la memoria,
secondo un’antica pena romana che prevedeva la distruzione di statue, monumenti, epigrafi e ogni altra memoria del condannato (damnatio memoriae). Un’epoca di splendore della storia romana andava chiudendosi.
1. Per quale motivo si parla di “imperatori adottivi”? 2. Quale fu la principale differenza tra Traiano
e Adriano in politica estera? 3. Per quale motivo Quadi e Marcomanni poterono invadere
le province danubiane?
5. La romanizzazione dell’impero
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Una politica di successo
Roma aveva creato un impero immenso. Esteso su tre continenti, raggiungeva una superficie di sei milioni di chilometri quadrati e una popolazione di circa sessanta milioni di
abitanti. Un insieme così smisurato, con popoli di tutti i tipi e di tutte le lingue, era stato
costruito in secoli di guerre vittoriose e di massacri. La sola forza però sarebbe stata incapace di conservarlo nel tempo. Come scrisse Tito Livio, un impero sopravvive solo se i sudditi si trovano bene. Per raggiungere questo risultato e far durare ancora molti secoli l’impero vennero usati metodi molto simili a quelli che durante la repubblica avevano permesso a Roma di trasformare in una realtà unitaria e fedele l’intera Italia: seguire una politica
diversificata e capace di adattarsi alle situazioni, effettuare concessioni a chi accetta la subordinazione, coinvolgere le aristocrazie dei popoli sottomessi nel governo imperiale e
poi, gradualmente, estendere l’influenza economica, politica e culturale fino a trasformare
in Romani tutti gli abitanti dell’impero.
Durante l’epoca repubblicana l’aristocrazia romana e italica dominava su popolazioni
organizzate in province e del tutto sottomesse. Alla fine del I secolo la scelta di un imperatore nato in Spagna, Traiano, e poi il succedersi di altri imperatori di origine provinciale sono la prova di come la situazione fosse già molto cambiata. Adesso esisteva una struttura
unitaria, o quasi unitaria. Nel corso di un lento processo le popolazioni delle province e le
46
Parte V L’impero greco-romano
loro aristocrazie avevano assunto la stessa lingua, la
stessa cultura, le stesse leggi e gli stessi interessi politici delle aristocrazie e delle popolazioni di Roma
e dell’Italia.
Il ruolo delle città
Questo processo di romanizzazione venne reso
possibile da diversi elementi. Il più importante fu la
decisione di basare il governo dell’impero non su
una vasta burocrazia residente nella capitale, ma sulla cooperazione delle comunità locali, che già prima della conquista romana erano organizzate perlopiù in città, soprattutto in Italia e nelle province
orientali. Sebbene l’impero fosse articolato in province, nel suo funzionamento il ruolo maggiore
spettò dunque alle città. In effetti l’idea di riconoscere delle autonomie amministrative a raggruppamenti più vasti, come ad esempio una provincia, era
estranea alla mentalità romana. Fondato da una città,
l’impero romano si basò su altre città. Nelle regioni
dove ancora non esistevano città, le popolazioni vennero spinte a crearle. In Gallia, per esempio, la nobiltà celtica abbandonò i piccoli centri fortificati dove aveva fino allora vissuto per nuovi e più grandi
abitati, costruiti sul modello delle città romane. Nelle zone di frontiera l’urbanizzazione fu realizzata
fondando colonie di veterani. Sia le città nuove sia
quelle già esistenti assunsero una struttura materiale
simile, con al centro il foro e la sala della curia cittadina (dove si riuniva una specie di senato locale),
e poi con teatri, templi, acquedotti, terme e altri edifici pubblici. Tutto l’impero risultò composto da un
migliaio di comunità cittadine, costituite dagli abitanti della città – dove erano concentrate tutte le persone che contavano – e da quelli del territorio circostante, perlopiù contadini subalterni e schiavi.
Le città, vecchie e nuove, si trovavano in condizioni di assoggettamento diversificate nei confronti di Roma. La condizione migliore era quella di colonia di cittadini romani; seguivano i municipi di diritto romano e poi quelli di diritto latino; più in basso vi erano le “città straniere”, cioè abitate da popolazione indigena (civitates peregrinae), che erano a
loro volta articolate in diverse categorie. Il governo
imperiale sfruttava queste differenze, promuovendo
e declassando le città per premiare o punire il livello di ubbidienza e di affidabilità.
Il Capitolium a Dougga (Tunisia)
II sec.
Dougga, l’antica Thugga, è una delle città tunisine dell’impero romano meglio
conservate. Annessa alla provincia d’Africa da Giulio Cesare nel 46 a.C., fu
municipio a partire dal 105 d.C. e colonia dal 261 d.C. Se la disposizione delle
case a terrazze e l’impianto irregolare della città ne denotano l’origine punica, i
principali monumenti, come il foro, il teatro, le terme, il tempio di Caelestis e il
Capitolium sono i segni eloquenti dell’intensa romanizzazione che investì i
maggiori centri del vasto territorio controllato da Roma.
Arco di Trionfo di Traiano a Timgad (Algeria)
II sec.
La città di Timgad, diventata colonia sotto Traiano nel 100 d.C., ospita
numerose strutture rappresentative della romanità, come la basilica, la biblioteca,
quattro terme e un teatro in ottime condizioni di conservazione, ancora oggi
utilizzato per rappresentazioni teatrali.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
47
Le città godevano di una vasta autonomia, e potevano autogovernarsi come meglio credevano, al patto naturalmente di non andare contro i superiori interessi dell’impero. Il governo era lasciato nelle mani dell’élite locale, che si riuniva nella curia. I suoi membri
erano chiamati curiali o decurioni. La loro autorità era tutelata e rafforzata dall’impero:
erano loro che dovevano occuparsi di mantenere l’ordine a livello locale, riscuotere i tributi e fare rispettare nella città i provvedimenti emanati da Roma. I curiali avevano dun-
cittadinanza
Romanizzazione antica
e colonialismo moderno
Uno degli scopi di questa rubrica è quello di mostrare come il passato aiuta a comprendere il presente, e anche come, viceversa, il nostro presente influisce sul modo di osservare e studiare il passato. In
questo capitolo vedremo appunto come gli studi su un fenomeno
moderno e contemporaneo, il colonialismo europeo, stanno condizionando gli studi degli antichisti sul processo di romanizzazione.
Molti storici moderni pensano che l’esperienza imperiale romana sia
stata qualcosa di grandioso e originale, che abbia garantito a un territorio enorme una prosperità generale, secoli di pace e una diffusione generalizzata delle conquiste della cultura greco-romana. La fase
della prevaricazione violenta e della rapina economica era limitata, si
pensa, all’epoca repubblicana, durante la quale era avvenuta la conquista romana del mondo; ma era finita con l’età imperiale. Il migliore
sostegno a questa valutazione positiva dell’impero viene dal processo di romanizzazione. Sotto il mantello uniformante della nuova cultura greco-romana e del nuovo ordine politico, le divisioni fra i popoli smisero di contare. Gli imperatori Antonini discendevano da coloni romani trapiantati in Spagna o da indigeni romanizzati? Non ce
lo si chiedeva più, non aveva importanza. Tutti si potevano chiamare
e si consideravano Romani.
Questa visione positiva della romanizzazione trova però, negli ultimi
tempi, avversari sempre più numerosi. Le loro critiche si basano sul
paragone con un grande fenomeno avvenuto molto dopo l’epoca
antica: il colonialismo europeo. A partire dal 1500 circa e fino a pochi decenni fa, gli Stati europei crearono in tutto il mondo una serie
di colonie. Con questo termine si indicava non solo, come nell’Antichità, la fondazione di insediamenti di cittadini in terre lontane per
commerciare e sfruttare le risorse naturali, ma anche la sottomissione politica ed economica di territori sempre più estesi (gli antichi Ro-
48
Parte V L’impero greco-romano
mani li avrebbero chiamati province). Spagna, Portogallo, Francia,
Inghilterra, Olanda, Russia e in seguito anche Germania e Italia ridussero allo stato di colonia interi continenti. Usa, Canada, Messico,
Brasile e il resto dell’America centrale e meridionale, India, Indocina
e Indonesia, Australia, quasi tutta l’Africa sono stati un tempo colonie europee.
Di questo lungo e importantissimo fenomeno storico si sottolineavano in passato soprattutto gli aspetti positivi. Pur determinando enormi sofferenze e persino lo sterminio sistematico di intere popolazioni, il colonialismo in molti casi aveva finito per avvantaggiare, si diceva, i territori colonizzati. Aveva sviluppato porti, strade, ferrovie e
altre infrastrutture economiche, aveva diffuso le tecniche produttive
europee, aveva creato élite colte e esportato sistemi politici democratici. In una parola, aveva dato al mondo la civiltà occidentale.
A partire dal 1970-1980 il modo di considerare il colonialismo e l’occidentalizzazione del mondo è mutato. Professori dell’India e di altre
ex colonie hanno dato il via a ricerche di “studi postcoloniali”, sottolineando lo sfruttamento e l’oppressione presenti alla base anche del
più leggero dei colonialismi. Inoltre hanno criticato l’idea stessa di occidentalizzazione. Non si è trattato, dicono, di un processo a senso
unico, attraverso il quale cultura, mentalità e tecniche dell’Occidente
si sono trasferiti alle colonie. L’occidentalizzazione è stata invece un
fenomeno molto più complesso. Nelle varie colonie sono nate delle
culture “meticcie”, diverse fra loro e frutto della fusione fra realtà locali e influenza dell’Occidente. Inoltre anche le colonie hanno esportato in Occidente parti della loro cultura e della loro mentalità.
Negli ultimi anni gli storici dell’impero romano e del processo di romanizzazione vengono sempre più influenzati dai metodi e dai risultati degli “studi postcoloniali”, come illustra bene un libro di David
Mattingly pubblicato nel 2011 (Imperialism, Power, and Identity: Experiencing the Roman Empire). Si presta più attenzione agli aspetti
que tutto l’interesse al consolidamento del potere imperiale. Per ricoprire le cariche cittadine non ricevevano alcun compenso, anzi spesso dovevano pagare somme cospicue; ma
guadagnavano in prestigio e in possibilità di fare affari e ottenere privilegi. Il più ambìto
di tutti, per chi ancora non lo possedeva, era la cittadinanza romana. Nelle province il governatore si limitava ormai ad amministrare la giustizia e garantire l’ordine pubblico in
tutto il territorio.
Mappa del Brasile
XVI sec.
Dall’atlante Miller di Pedro Reinel; Bibliothèque Nationale de France, Parigi
Questa mappa, realizzata in Portogallo nel corso del XVI secolo, mostra la
costa brasiliana; nel corso del 1500 i domìni portoghesi nel Nuovo Mondo
si limitarono al Brasile dove l’ordine dei gesuiti si adoperò per convertire i
nativi alla religione cristiana.
L’esercito coloniale inglese in Egitto in un disegno allegorico
XIX sec.
In questa illustrazione un rappresentante dell’esercito coloniale inglese
schiaccia un militare egiziano.
violenti e oppressivi dell’impero e, soprattutto, si cerca di guardare
cosa realmente si trovava sotto il mantello della grande diffusione
della cultura greco-romana. Questa cultura fu in grado di coinvolgere in profondità le masse, e non soltanto le élite? E poi, sentirsi Romani voleva dire davvero la stessa cosa nelle diverse regioni? Insistere sul processo di romanizzazione non finisce forse per impedire di
vedere le differenze che sopravvivevano fra le province? In che misura la romanizzazione non fu un processo a senso unico, ma fece
giungere al centro dell’impero, cioè a Roma (e in Italia), fenomeni nati nelle province? Sono tutti argomenti ancora da valutare, ma in apparenza fondati. In fin dei conti anche il cristianesimo, il fattore che
più di tutti contribuì a cambiare il mondo romano, non era forse nato nella lontana provincia della Giudea prima di approdare a Roma?
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
49
Cittadini di un impero bilingue
Siclo argenteo della prima
rivolta ebraica
67-68
Coniato durante la prima
rivolta degli ebrei contro
Roma, questo siclo riporta
su un lato tre melograni con
l’iscrizione in ebraico
Gerusalemme è Santa;
l’altro fronte della moneta è
decorato con un calice su
cui si leggono le parole
Siclo di Israele, Anno
Secondo.
50
Poter dire “sono un cittadino romano” permetteva non soltanto di accedere a cariche
pubbliche e appalti statali, ma garantiva privilegi fiscali (il cittadino romano non pagava
tasse alla curia cittadina) e, anche, giudiziari. Gli episodi della vita dell’apostolo san Paolo mostrano quanto preziosa fosse ai suoi tempi la cittadinanza: nella città di Filippi i magistrati chiesero il suo perdono per averlo trattato come un indigeno, con la frusta e la prigione; a Gerusalemme un’intera guarnigione venne messa in stato di allerta per difenderlo
dal linciaggio dei suoi nemici ebrei. Dall’età degli Antonini, dato che in vaste zone dell’impero la cittadinanza era ormai concessa a tutti, i privilegi che un tempo spettavano ai
cittadini romani iniziarono a contraddistinguere piuttosto quegli abitanti che erano dotati
di prestigio, ricchezza e buona reputazione, chiamati gli honestiores; la massa della popolazione, gli humiliores era viceversa trattata in modo più severo.
Anche nelle province più lontane, la concessione della cittadinanza avveniva molto facilmente per i ceti superiori, che si romanizzarono a fondo e precocemente. I
più ricchi e influenti fra i curiali o decurioni, inoltre, ottenevano dall’imperatore
l’accesso nell’ordine dei cavalieri. Nacque così un’aristocrazia diffusa in tutto
l’impero e costituita da alcune decine di migliaia di famiglie di cavalieri. Anche la
composizione del senato cambiò, aprendosi gradualmente al mondo provinciale.
Rovinate o addirittura estinte dalle repressioni politiche, molte antiche famiglie senatorie romane e italiche furono sostituite dalla grande nobiltà delle province. Fra i
circa 600 membri del senato, nel II secolo la metà erano ormai provinciali.
I vantaggi che le élite locali traevano dal nuovo ordine spiegano perché quasi tutte le
ribellioni al potere romano avvennero solo durante i primi decenni dopo la conquista,
quando il ricordo della perduta libertà era ancora vivo. La sola eccezione furono le ripetute rivolte degli Ebrei sia in Giudea che in altre province; ma qui entrava in gioco la peculiare religione degli Ebrei che li indicava come un popolo eletto da Dio,
e rigorosamente monoteista. Alcune rivolte, come quella domata da Tito tra il 66 e
il 73, infatti, furono dettate dai desideri indipendentisti del popolo ebraico [cfr. par.
3], altre dall’intolleranza verso i compromessi religiosi imposti dalla soggezione
all’impero (per esempio l’obbligo di accettare la presenza di templi pagani e di pregare per la gloria dell’imperatore).
Come si sarà capito, la romanizzazione riguardò molto i ricchi e i potenti, e molto
di meno la massa dei lavoratori e dei poveri. Anche costoro, però, sentirono l’attrazione
dei nuovi modi di vita e dei nuovi valori portati dall’impero. Lo testimoniano la struttura delle città e delle abitazioni, e poi tanti oggetti di uso quotidiano, come il vasellame da tavola d’importazione, che circolava in tutto l’impero negli stessi modelli ed era utilizzato da
tutti i ceti sociali. La prova maggiore della profondità raggiunta dalla romanizzazione è però
di tipo linguistico. In tutta la metà occidentale dell’impero, dove la lingua dell’amministrazione era il latino, i linguaggi locali furono messi da parte: talora scomparvero del tutto, altre volte furono relegati, come i dialetti di oggi, alle comunicazioni tra i familiari e i vicini.
Tranne che in Britannia, dove la romanizzazione fu più modesta, nell’Europa occidentale le
lingue formatesi nel corso del Medioevo e dell’età moderna derivano tutte dal latino.
L’impero era tuttavia bilingue: in Oriente si parlava greco. Nelle province orientali a nessuno passò mai per la testa di scalzare la lingua per eccellenza della filosofia e della scienza.
Da secoli quelle regioni erano profondamente ellenizzate, e Roma ammirava e aveva fatto propria la cultura greca. A tutto ciò si sommava il senso di superiorità che intellettuali e aristocratici ellenici provavano verso i signori del mondo che restavano ai loro occhi pur sempre dei
Parte V L’impero greco-romano
“barbari”. Il greco rimase la lingua della cultura e della maggioranza della popolazione. Il sentimento di romanità si fece però gradualmente strada anche in Oriente: dopo qualche secolo le
popolazioni orientali cominciarono a chiamare sé stesse, in greco, Rhomàioi, cioè Romani.
Fare distinzioni fra “Greci” e “Romani” non aveva più senso. L’impero portava ovunque una civiltà al tempo stesso romana ma ancora di più greca: una civiltà bilingue nella
quale la cultura, i valori morali, le scienze e i modi di vivere derivavano dall’assimilazione della civiltà greca compiuta dai Romani.
1. Che cosa prova la scelta di un imperatore di origine ispanica come Traiano? 2. A quali differenti tipologie di assoggettamento erano sottoposte le città dell’impero? 3. Quali privilegi erano riservati alle
personalità più ricche e influenti delle province?
6. La nascita del cristianesimo
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Un sistema religioso aperto e in crisi
Alla fine della repubblica, la religione tradizionale romana era in crisi. Augusto aveva
cercato di rilanciarla, ma senza molto successo. Il suo progetto di restaurazione religiosa
trovava un limite proprio in un’antica caratteristica del paganesimo romano: la facilità con
cui accettava culti stranieri. Al paganesimo era estranea l’idea di una verità religiosa: tutte le religioni erano vere, come veri erano gli dèi di tutti i popoli. I Romani non cercarono mai di imporre i loro dèi ai popoli conquistati, né di uniformare il gran numero di divi-
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
Cerimonia del culto di
Iside
I-III sec.
Da Ercolano; Museo
Archeologico Nazionale,
Napoli
Il dio Mitra sacrifica
un toro
II sec.
Marino, Roma
Questo affresco è parte di
un’ampia decorazione
rinvenuta all’interno del
mitreo di Marino (vicino
Roma), uno dei meglio
conservati al mondo. La
scena raffigura il dio Mitra
in abiti orientaleggianti
nell’atto di tagliare la gola a
un toro bianco, ritenuto
sacro, mentre un cane e un
serpente bevono il sangue
dell’animale e uno
scorpione gli morde i
testicoli. A simboleggiare la
forza rigeneratrice del
sangue della vittima, dalla
sua coda fuoriescono spighe
di grano, simbolo della
rinascita della terra. A
veglia del rito, il sole
e la luna (in alto,
rispettivamente a sinistra e a
destra) simboleggiano
l’eterna lotta contro le forze
del male e dell’oscurità.
51
Frammenti di papiro con
passi del Vangelo di
Giovanni
150
Questo frammento di
papiro, ritrovato in Egitto,
riporta passi del Vangelo di
Giovanni. Si tratta del più
antico documento
manoscritto di uno dei
Vangeli “canonici”, ovvero
approvati dalle Chiese
cristiane come effettiva
espressione della parola di
Dio.
52
nità presenti nel vasto impero. Soprattutto nelle province occidentali, però, l’influsso dei
conquistatori fece prendere alle divinità locali un nome e un aspetto romani: un’antica divinità celtica venne ad esempio assimilata a Mercurio.
La religione romana era incentrata sul rispetto dei riti, da compiere con scrupolo in ogni
gesto, ma non dava peso alle convinzioni personali. Il rapporto con il mondo divino non riguardava il singolo, ma la comunità: possiamo dire che era una religione legata alla politica, perché veniva praticata in pubblico e il suo fine principale era garantire con la scrupolosa osservanza dei rituali il favore degli dèi verso lo Stato, la città, la famiglia.
A partire dal I secolo a.C. e per i successivi tre-quattro secoli, dapprima in una minoranza
degli abitanti dell’impero e poi in fasce sempre più vaste di popolazione comparvero esigenze
religiose nuove. Si desiderava un rapporto più intimo fra uomo e divinità, da raggiungere
attraverso un culto individuale. Si voleva inoltre che la religione stabilisse regole di vita in grado di garantire al fedele ricompense nella vita ultraterrena. Queste esigenze trovarono risposta
in alcuni culti di origine orientale, importati in Occidente da soldati, mercanti e schiavi, come
quello egiziano di Iside e del suo sposo Osiride. Un altro culto importante fu quello del dio
Mitra, di origine persiana, che comparve in Grecia alla metà del I secolo a.C., e divenne poi
comune nei tre secoli successivi soprattutto fra i mercanti e i militari dell’Occidente.
La religione predicata da Gesù di Nazareth
Il cristianesimo fu una di queste religioni di origine orientale che andavano diffondendosi attraverso l’impero. Nacque nella Giudea, paese che fino al 4 a.C. era governato da
un re cliente di Roma, Erode il Grande, e che alla sua morte era diventato una provincia
romana. Abitata in maggioranza da Ebrei e con capitale a Gerusalemme, la Giudea comprendeva territori oggi divisi fra Israele, Giordania, Libano e Siria (nel 135 d.C. alla provincia fu dato il nome di Siria Palestina). Il cristianesimo nacque dunque in una regione che dal punto di vista romano appariva periferica, incorporata solo di recente e
ben poco romanizzata; eppure l’importanza della nuova religione era
destinata a crescere senza sosta. Come e ancor più della romanizzazione, la nascita e la diffusione del cristianesimo fu uno degli eventi
accaduti nei primi secoli dell’impero romano destinati a cambiare la
storia.
La nuova religione si formò nei decenni successivi al 30 d.C. a
partire dalla predicazione di un ebreo di nome Gesù. Sono pochi i personaggi del mondo antico per i quali disponiamo di tanti racconti biografici. I principali sono raccolti nei quattro Vangeli attribuiti a Matteo, Marco, Luca e Giovanni, redatti negli ultimi decenni del I secolo, e
nei cosiddetti Vangeli apocrifi (non riconosciuti, cioè, come parola di Dio
dalla Chiesa), numerosi e redatti fra la metà del I e la fine del II secolo.
Questi testi, naturalmente, avevano un scopo religioso, e non volevano
essere una testimonianza storica, ma ormai tutti gli studiosi accettano la
realtà storica della figura di Gesù e le linee principali della sua biografia.
Gesù era nato a Nazareth, in Galilea, paese adiacente alla Giudea e che all’epoca
non era ancora stato annesso all’impero, ma era governato da un figlio di Erode il
Grande, chiamato Erode Antipa. Iniziò a predicare viaggiando in un’area abbastanza circoscritta e rivolgendosi essenzialmente ai suoi connazionali, gli Ebrei, nella
lingua aramaica che da secoli aveva sostituito l’ebraico come lingua parlata quotidiana. Ben presto egli venne identificato dai discepoli come il Messia: l’inviato da Dio che gli
Parte V L’impero greco-romano
Ebrei attendevano per riuscire a risollevarsi dalla situazione di decadenza religiosa in cui
si trovavano e per riscattarsi dalla dominazione straniera. Gesù iniziò a venire chiamato con
un nome di origine greca, Cristo, che corrispondeva all’ebraico Messia.
La sua predicazione aveva un contenuto radicale. Si rivolgeva innanzitutto ai poveri e
ai diseredati, invitava ad allontanarsi dai riti tradizionali della religione ebraica, a condurre una vita fondata sull’amore per il prossimo e sulla giustizia, a ricercare la salvezza ultraterrena attraverso un comportamento moralmente perfetto. Criticava i sacerdoti e i gruppi più elevati della società ebraica, gli scribi e i farisei, accusandoli di ipocrisia, e aveva parole dure contro la ricchezza. Agli occhi dei sacerdoti e delle classi dirigenti ebraiche, questo messaggio corrompeva la religione, e rischiava di creare agitazioni sociali; la possibilità di disordini preoccupava anche il governatore romano della Giudea, il prefetto Ponzio
Pilato. Dopo due o tre anni al massimo di predicazione, intorno al 30 d.C. Gesù fu arrestato a Gerusalemme e condannato a morte per crocifissione.
La diffusione del cristianesimo
Sulla base dei Vangeli che raccontano la vita di Gesù è difficile dire se il suo messaggio
di salvezza fosse indirizzato a tutta l’umanità o ai soli Ebrei. È certo comunque che nei primi decenni il cristianesimo non era altro che uno dei tanti modi di interpretare la religione
ebraica. Venne attivamente propagato dai più stretti seguaci di Gesù, detti apostoli, una parola greca che significa ‘inviati’.
farisei
Al principio dell’èra cristiana i
farisei erano i membri del
principale “partito” del
giudaismo. Convinti
dell’importanza
dell’interpretazione e
dell’insegnamento delle Sacre
Scritture e molto attenti agli
aspetti rituali della religione, i
farisei si distinsero per dottrina
e cultura. Furono condannati
da Gesù di Nazareth per
eccessivo formalismo.
La data di nascita di Cristo
Il sistema di datazione più diffuso nel mondo conta gli anni a partire dalla nascita di Cristo. Per questo usiamo espressioni come
“avanti Cristo” (abbreviato: a.C.) e “dopo Cristo” (d.C., oppure
a.D.: anno Domini, ‘anno del Signore’). Questo sistema fu iniziato da un monaco, Dionigi il Piccolo, nel 525-530 d.C., e si diffuse
con rapidità dapprima in Occidente e più tardi nei territori dell’impero bizantino. Per farlo, Dionigi dovette ovviamente calcolare
quanti anni erano passati dalla nascita di Cristo; commise però un
errore di calcolo, collocandola qualche anno più tardi della realtà.
Che abbia sbagliato è del resto più che comprensibile: ancora oggi
gli storici sono in disaccordo nello stabilire l’anno esatto di nascita di Gesù. Le indicazioni più esplicite sono fornite dai Vangeli, che
collegano la nascita a un grande censimento voluto da Augusto e al
regno di Erode il Grande in Giudea. Un censimento venne in effetti ordinato nell’8 a.C., mentre è quasi sicuro che Erode morì nella
primavera del 4 a.C. Per queste ragioni si pensa che Cristo sia nato in quello che per noi è l’anno 7 o 6 a.C. Va precisato, inoltre, che
al tempo di Dionigi non si conosceva ancora il numero 0: dall’anno 1 a.C. si passa quindi direttamente al 1 d.C.
Del tutto sconosciuto è poi il giorno di nascita di Gesù. I Vangeli
non ne parlano affatto, perché per tutti i primi cristiani andava festeggiato non il giorno di nascita di un individuo, ma quello della
morte, che rappresentava il momento in cui infine l’anima torna al
Signore. Per molti secoli il giorno di nascita di Cristo, e dunque di
inizio di un nuovo anno, cambiava a seconda degli usi locali. Con
molta lentezza si andò affermando la data del 25 dicembre. Probabilmente questo giorno fu scelto perché i pagani celebravano allora l’importante festa del Dies Natalis Solis Invicti (‘Giorno di nascita del Sole invitto’), cioè il momento dell’anno in cui la durata
del giorno iniziava ad aumentare dopo il solstizio d’inverno. Il culto del Sole è uno dei culti orientali che vennero soppiantati dal cristianesimo, e la nuova fede si appropriò anche del suo principale
giorno festivo.
L’Altare della Natività a Betlemme
La Cappella della Natività a Betlemme risale nelle linee odierne all’epoca
di Giustiniano. Al suo interno si venera il luogo esatto in cui si ritiene sia
avvenuta la nascita di Gesù. I posti in cui si svolse la vita terrena di Cristo
sono divenuti luogo di culto delle più varie confessioni cristiane, qui
rappresentate dalle quindici lanterne che illuminano l’Altare della Natività.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
53
I viaggi
dell’apostolo
Paolo
MAR NERO
La carta visualizza gli
itinerari dei viaggi
compiuti da san Paolo tra
il 49 e il 60 d.C.
Roma
Foro Appio
MACEDONIA
TRACIA
Nicomedia
Filippi
Ancira
Tessalonica
TESSAGLIA
Messina
Reggio
Corinto
Dorilea
Troade
CAPPADOCIA
LESBO
Atene
Efeso
Derbe
Attalia
Siracusa
MALTA
CRETA
Tarso
Antiochia
CIPRO
RODI
Pafo
Damasco
Tiro
Cesarea
L
GA
MAR MEDITERRANEO
ILEA
Gerusalemme
Cirene
Betlemme
Alessandria
CIRENAICA
Primo viaggio
Secondo viaggio
Terzo viaggio
Quarto viaggio
E G I T TO
Decisiva per lo sviluppo del cristianesimo fu l’opera di san Paolo. Paolo era nato a Tarso, una città cosmopolita dell’Asia Minore. Era figlio di un ebreo di buone condizioni economiche, che aveva ottenuto l’ambìto privilegio della cittadinanza romana. Paolo conosceva sia la cultura e la filosofia greche sia le leggi ebraiche, studiate durante un soggiorno a Gerusalemme. Non apparteneva al gruppo dei discepoli che circondavano Gesù prima
della sua morte: anzi, all’inizio prese parte attiva alle campagne che i sacerdoti ebraici conducevano contro i primi cristiani. Eppure si convertì al cristianesimo; secondo il racconto
degli Atti degli Apostoli la conversione sarebbe avvenuta all’improvviso, come per una folgorazione, mentre si recava a Damasco per contrastare i cristiani della città (da questo episodio deriva l’espressione famosa «folgorato sulla via di Damasco»). Iniziò allora il suo attivo impegno per la diffusione del cristianesimo, con viaggi missionari in Oriente e Occidente. Il suo merito principale fu però quello di sviluppare un pensiero religioso complesso e raffinato, che condusse a una netta separazione della nuova fede dal giudaismo. In questo modo fu possibile una prima, cospicua espansione del cristianesimo fuori dalla Giudea
e all’esterno del popolo ebraico. Fu grazie a Paolo che il cristianesimo divenne una religione universale. La parola di Cristo non veniva più intesa come promessa di riscatto politico e religioso del solo popolo ebraico, ma si rivolgeva a tutta l’umanità. Per questo Paolo è soprannominato “l’apostolo dei gentili”, termine, quest’ultimo, che traduce l’ebraico
goyim, con il quale gli Ebrei indicavano gli appartenenti agli altri popoli. Il distacco definitivo di cristianesimo e giudaismo fu accelerato dalla rivolta al dominio romano scoppiata in Giudea tra il 66 e il 73: i cristiani rifiutarono di prendervi parte, e furono considerati
dei traditori della causa ebraica.
Dopo la metà del I secolo alcune importanti comunità cristiane sorsero non soltanto
in Palestina, ma anche in diversi centri dell’Asia Minore e in Grecia, Egitto (ad Alessan-
54
Parte V L’impero greco-romano
dria), Africa (a Cartagine), Italia (a Roma). All’inizio il cristianesimo si diffuse soprattutto a livelli sociali modesti, fra i lavoratori e i commercianti. A frenare la conversione
dei ceti superiori v’era l’eguaglianza fra poveri e ricchi praticata all’interno delle comunità cristiane; la povertà, anzi, veniva presentata come una virtù. Una simile idea era
l’esatto opposto del sistema di valori del mondo greco-romano, nel quale la povertà era
considerata e trattata dalla legge come uno stato inferiore. Per i membri delle élite, inoltre, aderire alla nuova religione comportava un immediato e concretissimo svantaggio:
rendeva impossibile ricoprire ogni carica pubblica. La fede cristiana vietava infatti di
partecipare a qualsiasi rito di tipo pagano, e dunque anche alle cerimonie per la prosperità dell’impero e dell’imperatore che erano invece obbligatorie per tutti i funzionari dello Stato.
Fra i ceti superiori si convertivano più facilmente le donne, che erano comunque escluse dalla vita politica. Inoltre erano attratte da una religione che sosteneva l’uguaglianza di
fronte a Dio di tutti gli esseri umani, senza distinzione di sesso. Ma gradualmente la nuova fede fece proseliti anche fra le élite del mondo greco-romano, fra i quali vanno ricordati alcuni esponenti della cultura greca. Grazie a costoro avvenne un ulteriore importante
cambiamento: il cristianesimo si incontrò con la letteratura e soprattutto la filosofia grecoromane. Dalla riflessione di personaggi come Clemente Alessandrino, attivo alla fine del II
secolo, e poi di Origene nacque una filosofia cristiana che tentava una sintesi fra la nuova religione e la filosofia classica, ripensata da una prospettiva cristiana. In questo modo
il cristianesimo iniziava a conciliarsi con l’impero e appariva più comprensibile alle classi
elevate.
L’area
di diffusione
del cristianesimo
nel II secolo
BRITANNIA
SCI
ZIA
GERMANIA
GALLIA
IA
Lione
NORICO
A
Madaura
A
FR
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R
M
MAURETANIA
E
D
CA
S
O
Calcedone
Sinope
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Gortina
RA N
E O
Tiro
Cesarea
Damasco
Gerusalemme
A
CA
I
Territori fortemente cristianizzati
Territori con consistenti minoranze cristiane
NA
ARABIA
Alessandria
RE
CI
EGITTO
lo
Ni
Territori a limitata diffusione del cristianesimo
Comunità cristiane nel II secolo
AR
MAR NERO
A
IA
AZ
IA
M
M
Nicea
REGNO
IA
DOC
DEI
Tessalonica
Cizico CAPPA
PARTI
Edessa
Smirne
Laodicea
Sardi
Atene
Tarso
Ctesifonte
Efeso
Corinto
Siracusa
Antiochia
Seleucia
Napoli
Cartagine
NI
M
Roma
ZIA
PI
MESIA
Durazzo
Filippi
AL
IT
SPAGNA
MA
DACIA
NO
L
DA
N
PA
Z
RE
SAR
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
55
Una comunità che ispirava diffidenza
Fonte battesimale
IV sec.
Basilica della Madonna del
Katapoliani, Isola di Paros,
Grecia
Nei primi secoli di storia
cristiana il rito del
battesimo, grazie al quale si
era ammessi nella comunità,
prevedeva la totale
immersione del fedele
adulto nel fonte battesimale.
Alcuni cambiamenti furono
introdotti a partire dal VI
secolo, quando si iniziò a
imporre il battesimo ai
neonati.
I rapporti tra i fedeli e il mondo romano furono comunque difficili. Spesso le comunità
cristiane erano guardate con sospetto. Costituivano gruppi separati, guidati da un vescovo
(in greco epìscopos, ‘sorvegliante’) eletto dall’insieme dei fedeli, donne e schiavi compresi. Le preghiere collettive erano dirette da fedeli stimati, chiamati presbiteri (in greco, ‘anziani’; da qui viene l’italiano “prete”). Gli adepti della nuova fede seguivano severe norme
di vita, lontanissime da quelle accettate dalla mentalità comune. Inoltre rifuggivano le forme di socialità più diffuse fra i pagani: andare a teatro, assistere agli spettacoli di gladiatori
e alle corse, partecipare alle feste cittadine e ai rituali pubblici. Cosa ancor più incomprensibile per la mentalità pagana, credevano in un unico dio, sostenendo che la sola vera religione fosse la loro, e tutto il resto soltanto superstizione e magia.
Anche i loro riti suscitavano diffidenza: non venivano praticati in pubblico, ma unicamente tra fedeli; e non prevedevano sacrifici e preghiere all’imperatore. Per far parte della
Chiesa (‘assemblea’) di Cristo
occorreva essersi sottoposti a un
rito, il battesimo, che era preceduto da un periodo di istruzione
ai princìpi della fede cristiana. Il
rito principale avveniva in comune, in abitazioni private, ed era
detto eucarestia o cena: ripetendo
i gesti compiuti da Gesù nell’Ultima Cena prima della cattura e
della crocifissione, ne commemorava il sacrificio e univa misticamente i fedeli a Cristo e ai confratelli. Era facile sospettare di
ostilità al potere romano gli adepti di questa setta religiosa: un sospetto facile e spesso nemmeno infondato, visto che in effetti molti predicatori cristiani vedevano in Roma la fonte di
mali infiniti e gioivano all’idea di una sua prossima caduta.
Durante il I e il II secolo le persecuzioni contro i cristiani restarono però limitate. Il potere imperiale non vi ebbe quasi mai parte, fatta eccezione per il massacro della prima comunità cristiana di Roma ordinato da Nerone nel 64, dopo l’incendio della città. Fino all’inizio del III secolo gli attacchi ai cristiani furono decisi localmente, dalle comunità cittadine, e non dagli imperatori. Era facile che il risentimento della popolazione si indirizzasse verso questi fedeli intransigenti, chiusi in comunità poco trasparenti e così diversi nei loro comportamenti da apparire come un corpo estraneo alla società. Se sulla città si abbatteva un’inondazione, un’epidemia o un’altra calamità, non era forse perché gli dèi erano
stati offesi da chi si rifiutava di adorarli e abbandonava i costumi tradizionali?
1. Quale cambiamento si verificò nel sentimento religioso degli abitanti dell’impero? 2. Per quale motivo il messaggio diffuso da Gesù era ritenuto pericoloso dalle autorità? 3. Per quale motivo con san
Paolo il cristianesimo divenne una religione universale? 4. Quali atteggiamenti dei primi cristiani generarono diffidenza nel resto della società?
56
Parte V L’impero greco-romano
7. Impero e buongoverno
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
L’eredità di Augusto
Uno dei principali successi dell’impero
durante il I e II secolo fu la buona amministrazione delle province. Possiamo dire, anzi, che per gli abitanti delle province l’instaurazione del principato fu davvero una
benedizione. Se con il nuovo regime i Romani avevano ottenuto pace e ordine, ma a
costo della libertà, per i sudditi il bilancio fu
tutto positivo. Si era chiuso il periodo più
nero della loro storia, quando il governatore inviato dalla repubblica romana cercava
di ricavare il massimo profitto dalla provincia nel breve tempo della sua carica; e il
successore si comportava nello stesso modo. Con Augusto tutto questo aveva avuto
fine. Il principe aveva sottoposto i governatori a uno stretto controllo e riformato il sistema fiscale. Per stabilire con esattezza
quante tasse richiedere, periodicamente venivano censiti gli abitanti e le loro ricchezze; inoltre la riscossione delle imposte era
stata affidata alle comunità locali, e sottratta ai pubblicani sempre affamati di profitti
e abituati a usare metodi di rapina.
Il potere centrale cessò di comportarsi come un rapinatore che mirava a fare il
massimo bottino nel più breve tempo possibile, e divenne un proprietario attento a
far prosperare e rendere redditizio il suo dominio. Bisognava bonificare paludi, creare
strade e infrastrutture, intervenire in mille
modi per migliorare la condizione dei territori amministrati. Tutt’oggi una prova della
prosperità portata dalla riforma dell’amministrazione provinciale e dalla stabilità politica garantita dall’impero sono i resti di
acquedotti, porti, centuriazioni, anfiteatri e
edifici di ogni tipo sparsi in tutte le province, dalla Spagna alla Siria. Da parte loro, i
provinciali smisero gradualmente di considerare l’imperatore come un padrone di razza straniera, e gli obbedirono come a un sovrano legittimo.
Il ponte romano sul fiume Tago ad Alcantara
104
Estremadura, Spagna
Biblioteca di Celso a Efeso
II sec.
La Biblioteca di Celso fu edificata a Efeso per rendere omaggio a Gaio Giulio Celso
Polemaeno, un rispettato uomo politico, proconsole in Asia a partire dal 106.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
57
Fattori di successo
Nel corso del I e del II secolo gli imperatori lasciarono quasi intatta la struttura amministrativa creata da Augusto. Il cambiamento principale fu la trasformazione in province di
una serie di regni clienti. Per esempio in Asia Minore vennero annessi la Cappadocia (17)
e il Ponto (44); in Africa venne annesso il regno di Mauritania (nel 40); in Europa orientale la Tracia (44). Nemmeno queste annessioni rappresentavano però un mutamento radicale. Nel tipo di Stato creato dall’impero infatti non era poi così grande la differenza fra i territori delle province e i territori sottoposti a un regno cliente, costretto a ubbidire ad ogni
ordine di Roma e a pagare un tributo annuale. Nelle province quasi tutte le principali funzioni di governo erano affidate alle città (lo abbiamo visto: cfr. par. 5). Proprio questa abi-
I liberti
I liberti erano gli schiavi liberati dal padrone, ed erano numerosissimi, perché i ricchi Romani liberavano facilmente quegli
schiavi che li servivano come domestici e aiutanti. Augusto aveva
dovuto stabilire che non si potevano liberare per testamento più di
cento schiavi; durante la vita, però, il padrone era libero di fare come meglio credeva. Non era solo la benevolenza a indurre alle liberazioni: avere dei liberti era conveniente per trattare affari e disporre di aiutanti di fiducia in ambiti in cui potevano operare solo
i liberi e non gli schiavi. Alcuni senatori aggiravano il divieto di
partecipare a commerci proprio con l’aiuto dei loro liberti.
I segretari personali dell’imperatore, cioè i maggiori esperti delle questioni di Stato, furono a lungo scelti fra i liberti. La mentalità romana impediva che il figlio di un uomo libero facesse il servitore, seppure a un livello altissimo. La condizione di schiavo,
d’altra parte, non si addiceva al potente segretario del sovrano. Lo
status di liberto era invece l’ideale.
Il liberto era un uomo libero dotato quasi degli stessi diritti e doveri degli altri cittadini. Poteva diventare proprietario di terre e
beni, lasciare il patrimonio ai figli o a chi voleva, praticare l’attività che preferiva. Tuttavia fra il liberto e un uomo nato in libertà
da genitori liberi (detto ingenuus) vi erano alcune
significative differenze.
Da un punto vista politico,
il liberto poteva votare alle elezioni ma non parteciparvi come candidato. La
differenza maggiore nasceva dal fatto che il liberto restava legato all’antico
padrone. Anche se era ormai un uomo libero, doveva lavorare gratuitamente
per lui alcuni giorni l’anno, non lo poteva citare in
giudizio, lo doveva rispettare come un figlio rispettava il paterfamilias e aveva bisogno del suo consenso per sposarsi. L’antica condizione di schiavo
58
Parte V L’impero greco-romano
in questo modo veniva continuamente ribadita. Di conseguenza i
liberti venivano considerati come cittadini di seconda categoria.
Mai un aristocratico li avrebbe ammessi fra i propri amici. Non
c’è da meravigliarsi che senatori e cavalieri trovassero umiliante
il potere acquistato dai liberti degli imperatori, e che il malcontento abbia raggiunto il massimo sotto Claudio, che di fatto governava confidando soltanto nei suoi liberti!
Sebbene da un punto di vista economico vi fossero liberti di ogni
tipo, poveri, benestanti e ricchi, molti di loro si rivelavano ottimi imprenditori; alcuni giunsero ad accumulare delle fortune.
Questo dinamismo nasceva dal fatto che la libertà veniva concessa in primo luogo agli schiavi migliori e più intraprendenti,
che andavano ricompensati per i loro servigi o che, magari, potevano comprare la libertà con quanto erano riusciti a mettere da
parte. Per questo fra i liberti era così alta la percentuale di persone dinamiche, pronte a cogliere tutte le occasioni. I figli e i nipoti dei liberti più abili e fortunati acquistavano con il tempo la
piena rispettabilità, e si univano alle antiche famiglie. Secondo
Tacito, in senato si mormorava che il sangue di qualche antenato liberto scorreva nelle vene della maggior parte dei cavalieri,
per non dire di molti fra i
senatori stessi.
Colombario
I sec.
Roma
Ambienti sepolcrali come
questo venivano chiamati
colombari perché le loro
nicchie sovrapposte
ricordavano un allevamento
di colombi. Le tombe ipogee
che vediamo in questa
fotografia, ritrovate fra la Via
Appia e la Via Latina, erano
state costruite per i liberti
della casa giulio-claudia. Le
nicchie rettangolari e
semicircolari rivestite di
marmo e le urne marmoree
riccamente decorate
dimostrano il grado di
ricchezza raggiunto dai
defunti.
lità nello sfruttare al massimo le capacità di autogoverno delle comunità cittadine permise
di creare un apparato amministrativo sorprendentemente magro: appena poche migliaia
di funzionari e impiegati (quanti ne ha oggi un comune italiano non dei maggiori) bastavano per amministrare in modo efficiente un impero gigantesco.
La leggerezza dell’apparato amministrativo non significa però che l’impero fosse debole. Tutt’altro. La rarità delle rivolte, l’afflusso costante delle imposte, la fornitura e il trasporto verso Roma e le legioni stanziate ai confini di immense quantità di generi alimentari e prodotti di ogni tipo, sono solo alcuni degli elementi che testimoniano come il potere
imperiale fosse solido e temuto. La sua forza derivava dalla capacità di cointeressare al
buon funzionamento dello Stato i ceti dirigenti delle città [cfr. par. 5]. Ma la forza dello
Stato imperiale nasceva anche dalla paura. Ogni piccola sommossa veniva trattata come una
rivolta, e repressa nel sangue. Non mancavano certo i mezzi di repressione: se l’apparato
amministrativo dell’impero era minuscolo, quello militare era immenso.
1. In che modo Augusto pose fine alla gestione arbitraria della province? 2. Come reagivano le istituzioni imperiali di fronte ad agitazioni e sommosse?
8. Città e civiltà
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E Il modello cittadino
I Romani diffusero la vita urbana in territori dove mai essa era apparsa e vollero che le
città, in ogni angolo dell’impero, avessero alcune caratteristiche simili. Soprattutto sotto
Augusto, le fondazioni di nuove città rivelano chiaramente la volontà di usare la bellezza
dell’edilizia cittadina per fare propaganda alla grandezza di Roma e celebrarne il successo.
Non dobbiamo immaginarci, però, delle grandi metropoli. Molte città restarono piccole, popolate da poche migliaia di abitanti. Quello che importava era che la città si imponesse come centro del territorio circostante, riuscendo ad attirare i maggiori proprietari e le aristocrazie. In molti casi, costoro si trasferirono nei centri urbani; in altri restarono a vivere in
campagna, ma dovevano comunque frequentare di continuo la
città per i tribunali, il foro, le terme e gli spettacoli. Solo alcuni
abitati ottennero la qualifica di città senza riuscire a divenire il
centro di un territorio.
La stragrande maggioranza delle città imperiali ebbe successo. In tutte sorsero edifici piuttosto simili, anche se naturalmente le dimensioni e la decorazione cambiavano a seconda della ricchezza e delle tradizioni locali. Una città degna di questo nome
doveva avere anfiteatro, foro, templi, teatro, terme, acquedotti e,
più in generale, un aspetto edilizio di un certo tipo, con vie dritte che si incrociavano ad angolo retto, possibilmente ben lastricate e dotate di un sistema fognario, fiancheggiate da case in muratura. Una struttura onnipresente erano gli acquedotti e le terme. I Romani andavano non a torto orgogliosi delle loro tecniche
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
Resti dell’Acquedotto
Claudio
38-52
Roma
Iniziato nel 38 da Caligola,
questo acquedotto fu
ultimato dall’imperatore
Claudio nel 52 per rifornire
la capitale di acqua raccolta
da una sorgente vicina a
Subiaco, a oltre settanta
chilometri da Roma.
59
di ingegneria idraulica. Secondo alcuni di loro, prima ancora delle piramidi fra le meraviglie del mondo andavano messi gli acquedotti che rifornivano Roma. Erano in tutto 11 impianti, alcuni lunghi quasi cento chilometri. Per mantenere il più possibile costante la pendenza del percorso intere montagne furono traforate da gallerie, vallate attraversate da ponti e da impressionanti viadotti su arcate (quello dell’Aqua Claudia correva per dieci chilometri sopra arcate alte fino a 30 metri!). Tramite sifoni, serbatoi e condutture a pressione
l’acqua poteva anche essere fatta risalire per centinaia di metri. In aggiunta al Tevere, in
questo modo Roma disponeva di un fiume artificiale
di acqua potabile: più di un milione di metri cubi al
giorno, sufficienti a riempire due grandi piscine ogni
minuto! Ma anche le altre città dell’impero beneficiavano delle conoscenze idrauliche e della preoccupazione romana per il rifornimento idrico. Dalla Spagna alla Francia, dalla Turchia all’Africa settentrionale ancora oggi le imponenti rovine degli acquedotti di età imperiale testimoniano come le città minori
non avessero nulla da invidiare alla capitale.
L’acqua portata dagli acquedotti muoveva impianti artigianali e per la macinazione del grano (a
Roma i mulini erano sulle pendici del colle Gianicolo, allo sbocco dell’acquedotto costruito da Traiano);
alimentava fontane pubbliche monumentali e semplici abbeveratoi (a Roma nel IV secolo se ne contavano più di 1300); giungeva tramite condutture in
piombo fin dentro le case private dei cittadini più abbienti; infine, serviva per le terme.
Per i Romani le terme furono una scoperta tarda,
ma di immediato successo. Le terme più antiche, riprese da quelle in uso in Grecia, erano costruzioni
private e di piccole dimensioni. Le prime terme pubbliche vennero costruite a Roma soltanto al tempo di
Augusto. In seguito ne sorsero molte altre, sempre
più grandi e lussuose, come quelle, immense, costruite da Traiano e Caracalla. Comprendevano spogliatoi, palestre per esercizi fisici, sale da massaggio, di depilazione e cura del corpo; vi era poi una
sauna calda densa di vapore acqueo (calidarium),
cioè quello che noi chiamiamo bagno turco ma che in
Le Terme di Caracalla
realtà dapprima gli Arabi e poi i Turchi ripresero proPianta e alzato prospettico
prio dal mondo romano; seguivano bagni in acqua
1. Ingresso; 2. apodyterium; 3. palestra; 4. ingresso laterale; 5-8 sale riscaldate;
9. calidarium; 10. tepidarium; 11. basilica; 12. ambienti laterali della basilica;
calda, tiepida e fredda, la sosta in una sala lussuosa13. natatio; 14. giardino; 15. esedra; 16. stadio.
mente decorata ma priva di riscaldamento (frigidaLe Terme di Caracalla furono edificate sull’Aventino tra il 212 e il 217.
rium) e infine un tuffo nella piscina scoperta. Il reL’attenta progettazione della struttura previde un vasto reticolo di ambienti
cinto delle terme comprendeva inoltre giardini, porsotterranei divisi su due piani in cui organizzare la gestione pratica delle terme,
lontano dai visitatori, cui si garantivano quiete, svago e relax. In queste vaste
tici, biblioteche e sale per spettacoli.
aree sottostanti, come in tutte le strutture termali romane, era prevista una
complessa serie di forni e di impianti che rifornissero di acqua calda le vasche;
È difficile oggi immaginare l’importanza delle
a sua volta quest’acqua faceva circolare aria calda in intercapedini poste sotto i
terme
cittadine nella civiltà dell’impero. Il loro uso
pavimenti e in condutture che passavano dietro le pareti.
60
Parte V L’impero greco-romano
scomparve in Europa con la fine del mondo romano, e sta tornando di moda solo negli ultimi anni. A differenza di oggi, però, per i Romani le terme non erano soltanto uno svago
per chi poteva permettersele o una cura per i malati: in primo luogo, erano una pratica sociale, un modo di essere a fondo cittadini. L’accesso era gratuito o molto a buon mercato.
Vi si recavano tutti i cittadini, tranne i più miserabili. Per i tanti che non potevano nemmeno sognare le lussuose residenze private dell’aristocrazia e abitavano nelle tipiche case romane, prive di acqua corrente e riscaldamento, le terme consentivano di lavarsi e prendersi cura del corpo. Ma alle terme si andava soprattutto perché erano un luogo di incontro,
dove stare con amici, trattare gli affari, discutere di politica e di filosofia.
Una questione di civiltà
Gli acquedotti e le terme, gli anfiteatri e i circhi, i templi, i teatri e i fori con i porticati,
i tribunali e le grandi sale chiamate basiliche rappresentavano per i Romani l’essenza stessa della città. Da queste delizie della vita urbana erano esclusi i più miserabili della plebe
cittadina e una bella parte dei contadini liberi, che costituivano la grande maggioranza della popolazione dell’impero. Ma solo quelli che le utilizzavano venivano considerati appieno cittadini, e cioè uomini civilizzati. Non a
caso la parola civiltà, civilitas, viene dalla
parola città, civitas. Questa etimologia indica bene come Roma, una citta-stato che aveva creato un impero basato su altre città,
identificava la nozione stessa di civiltà con
quella di città.
Presto la mentalità romana fece ancora
un’altra identificazione. Roma aveva conquistato un territorio immenso. Tranne che verso Oriente, i confini dell’impero segnavano
la fine dei territori urbanizzati e l’inizio di
quelli che conoscevano solo villaggi contadini o gli accampamenti dei nomadi. Così, Roma iniziò a credere che il suo dominio racchiudesse l’intero mondo civilizzato. La parola barbaro, allora, cambiò di significato.
Non indicò più come nel mondo greco lo
straniero, chiunque esso fosse. Adesso designava chi viveva al di fuori del mondo romano, il solo umanizzato e civile: barbaro voleva adesso dire ‘selvaggio’ oltre che ‘inferiore’. Capiamo così anche manifestazioni artistiche che a prima vista potrebbero stupirci. Per
esempio “l’imperatore filosofo” Marco Aurelio volle che sulla colonna scolpita che ne celebrava la memoria fossero raffigurate scene allucinanti di massacri di barbari; e un barbaro vinto veniva calpestato dal cavallo della sua famosa statua equestre, oggi in piazza del
Campidoglio. Massacrare i barbari voleva adesso dire difendere la civiltà.
Esecuzione di prigionieri
176-192
Particolare della Colonna di
Marco Aurelio (o Antonina),
Roma
In questo rilievo, particolare
della colonna di Marco
Aurelio, viene raccontata
con estremo realismo
l’esecuzione di massa di
prigionieri, che i Romani
facevano compiere agli
stessi barbari. Due barbari,
sotto la minaccia dei
cavalieri romani,
brandiscono in alto la spada
pronta a cadere sul collo del
prigioniero legato e
mantenuto fermo; altri
prigionieri carcerati
aspettano inermi di subire la
stessa sorte.
1. Che cosa rappresentava il mondo delle terme per la società romana? 2. Quale nuovo significato
assunse il termine “barbaro”?
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
61
9. Gli eserciti dell’imperatore
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
L’esercito, un mondo a sé
A partire da Augusto, l’esercito romano cambiò ancora una volta natura. A Roma divenne stabile la presenza di truppe scelte, i pretoriani, a protezione degli imperatori. La vicinanza al centro del potere permise più volte ai pretoriani di influire sulla vita politica romana. Il cambiamento maggiore riguardò però le legioni. Nei primi secoli di storia della re-
Le scritte sui muri
La
voce
PA
SSA
TO
del
Nelle città d’età imperiale il livello di alfabetizzazione
era alto. Nessun può fare una stima esatta,
naturalmente. Ma vi è una prova inconfutabile di
quanto l’impero fosse una civiltà della scrittura, un
mondo dove scrivere e leggere era una pratica
scontata e comune: la facilità con cui i Romani
decoravano e imbrattavano con scritte di ogni tipo le
mura delle loro città. In totale, ci sono giunte almeno
trecentomila iscrizioni o epigrafi (le due parole,
rispettivamente di origine latina e greca, sono
sinonimi, e vogliono dire ‘scritto sopra’). Le epigrafi
venivano dipinte, graffite, incise e impresse sui
materiali più diversi, dal bronzo al piombo, dalla
ceramica al legno, dal marmo all’intonaco. Una
enorme raccolta in molti volumi, il CIL (Corpus
Inscriptionum Latinarum, cioè il Corpo delle iscrizioni
latine), che possiamo consultare in qualunque grande
biblioteca, riunisce tutte le epigrafi conosciute.
L’uso di affiggere messaggi scritti era praticato dal
potere imperiale, ad ogni livello e per tutti i motivi:
per comunicare una legge, celebrare un evento,
ricordare un privilegio. Ma le epigrafi venivano
utilizzate anche dalla massa della popolazione.
Saldate al collare di uno schiavo, servivano per
evitare fughe:
Sono fuggito, catturami. Restituiscimi al mio padrone
Zoninus, riceverai un premio.
Sui sepolcri, indicavano il nome dei defunti e
lanciavano messaggi di ogni tipo ai passanti,
dall’accusa contro chi aveva causato morte o dolori
al defunto fino al dolore di chi gli sopravviveva. Sulla
tomba di una donna di Roma i familiari scrissero:
Parte V L’impero greco-romano
Qui riposa Efresia Rufria, buona madre, buona moglie.
Morì per una febbre maligna che le provocarono i medici.
[CIL, VI, 25580]
Su quella di un’altra donna, morta di parto assieme
alla neonata:
Vivevamo in pieno accordo e felici della prima figlia, ma
la seconda ha portato con sé una duplice morte. Ci siamo divisi i pegni d’amore: la figlia morta accompagna
me nella morte, la prima conforta il padre.
[CLE, 2080]
Un’altra epigrafe ricorda la sventura capitata a un
anziano romano che aveva liberato e sposato la
propria schiava Acte, ma questa era fuggita con un
amante approfittando della malattia del marito:
Quanto è qui scritto serva a perenne infamia della liberta Acte, perfida avvelenatrice subdola e senza cuore.
Chiodi e funi le leghino il collo, pece bollente le bruci il
malvagio petto. Fu liberata e se ne andò con l’amante.
Raggirò il padrone che giaceva in un letto, portandogli
via l’ancella e lo schiavetto che lo assistevano. Disperato, quel povero vecchio rimase solo e abbandonato, dopo essere stato derubato.
[CIL, VI, 20905]
A Pompei, dove l’eruzione del Vesuvio ha conservato
sotto la cenere anche molte scritte dipinte, si trovano
iscrizioni di tono più leggero. Su un muro
dell’anfiteatro un ammiratore o un’ammiratrice di
un gladiatore scrisse:
Celado, il gladiatore Trace, fa sospirare tutte le ragazze.
Ma scritte dipinte costituivano le insegne dei negozi,
lodavano le capacità e l’esperienza delle prostitute,
pubblica i legionari erano stati soldati di leva in servizio solo per la durata della guerra. Poi
con Mario, alla fine del II secolo a.C., si era dato spazio anche ai volontari, che restavano
sotto le armi otto-dieci anni, dopo i quali tornavano alla vita civile con le terre assegnate
loro dal generale. Con l’impero, invece, l’esercito divenne permanente e fu composto soltanto da professionisti della guerra. Fare il soldato era ormai una condizione stabile, una
scelta di vita, visto che il servizio militare durava almeno 25 anni. Fra il mondo dei civili
e il mondo dei militari nacque una netta separazione.
Per una recluta, l’arruolamento segnava il passaggio ad un nuovo mondo. In primo luo-
contenevano invettive e, infine, facevano campagna
elettorale. Sulle pareti di Pompei si leggono ancora
molte scritte elettorali delle ultime elezioni svoltesi
nella città prima dell’eruzione. Al contrario dei
manifesti di oggi, nei quali è lo stesso candidato a
richiedere voti, nel mondo romano i voti venivano
richiesti per lui dai suoi sostenitori. Per esempio:
I mercanti di frutta vogliono edile M. Ennio Sabino.
Oltre ai messaggi elettorali veri e propri, a volte si
lanciavano maledizioni per chi li cancellava:
Votate, o vicini, Lucio Stazio Recetto. Ha dipinto Emilio
Celere, un vicino. Invidioso che cancelli questa scritta, ti
venga un male.
Oppure (e sembra quasi una trovata della pubblicità
contemporanea) si aggiungevano battute di spirito,
come la scritta
Lanternaio, reggi la scala!
che chi dipingeva nottetempo il manifesto
elettorale su un’alta parete indirizzò scherzando
all’aiutante che gli faceva luce. Su una facciata
cosparsa di manifesti, un buontempone aggiunse
una battuta:
Mi meraviglio, o muro, che tu non sia crollato, visto che
sostieni il peso di tante scritte!
[CIL, IV; questo CIL, in tre tomi, è interamente dedicato alle
iscrizioni di Pompei, Ercolano e Stabia].
Pittura parietale
con iscrizione elettorale
pompeiana
Lungo la via principale di
Pompei si potevano
trovare molti manifesti
elettorali dipinti sui muri.
Nel particolare qui
riprodotto si legge:
«Lollium [ae]d(ilem)
v(iis) a(edibus) s(acris)
p(ublicis) o(ro) f(aciatis)»,
«Vi prego di eleggere
Lollio edile per le strade
e per gli edifici sacri e
pubblici».
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
63
go, voleva dire allontanarsi dalla patria, e trasferirsi nelle remote province di confine poste lungo il limes, dove era concentrato il grosso delle truppe. Un servizio così lungo e lontano riscuoteva poco successo fra gli abitanti di Roma e dell’Italia: già alla metà del I secolo d.C. appena un legionario su due era di origine italiana, e cinquant’anni dopo la proporzione crollò a un legionario su cinque. Nel contempo, crebbe molto la proporzione dei
soldati reclutati in ogni angolo del vasto impero e fra i popoli confinanti; le reclute erano
attratte dalla paga annua, dalle terre, dai beni assegnati ai veterani, e dalla cittadinanza romana concessa a tutti al momento del congedo.
Negli accampamenti militari il soldato era sottoposto a una disciplina rigorosa e a un
addestramento continuo. Apprendeva un latino diverso da quello parlato nel mondo civile, ricco di termini tecnici e di parole riprese da lingue straniere. La sua identità non era più
definita dal luogo di origine o dalla famiglia, ma dal grado e, soprattutto, dall’appartenenza a vari raggruppamenti. Ognuno di essi costituiva una piccola comunità, solidale all’interno e in gara con gli altri reparti per distinguersi in efficienza e ottenere onori e vantaggi. Il nucleo della vita legionaria era il contubernium, un gruppo di dieci uomini che condivideva la medesima tenda. Al di sopra vi erano le centurie (80 uomini), poi i manipoli
(160) e le coorti (480) e infine le legioni, costituite da dieci coorti.
Una macchina da guerra a riposo
Elmi da parata
I-II sec.
Museo Archeologico di
Stara Zagora, Bulgaria
Ritrovati a Plovdiv (quello a
sinistra) e Stara Zagora (a
destra), in Bulgaria, questi
elmi venivano indossati in
occasione di giostre e parate
militari, le hippica
gymnasia, eseguite da
cavalieri bardati che si
fronteggiavano per
dimostrare la propria abilità.
Questi spettacoli, presieduti
da autorità militari e accolti
con clamore di un vasto
pubblico, testimoniano la
presenza attiva dei soldati
romani nella vita sociale
delle popolazioni locali
lungo tutto l’impero.
64
L’esercito imperiale era ampio, ma meno di quello della tarda repubblica. Dopo la vittoria sui nemici interni, Augusto ridusse le legioni da 60 a 28; il numero scese a 25 dopo l’annientamento di tre legioni a Teutoburgo nel 9 d.C. e risalì a circa 30 nel II secolo. I legionari romani nella prima metà del I secolo erano circa 150.000, ma le truppe totali a disposizione dell’impero era almeno il doppio, perché vanno conteggiati anche i reparti ausiliari.
La macchina bellica era dunque di grandi dimensioni e di indubbia efficienza. Eppure i
successori di Augusto la lasciarono quasi sempre disoccupata. Le legioni furono impegnate per reprimere le rare rivolte interne, per respingere attacchi esterni e, soprattutto, per vigilare sui confini. Per il resto fecero ben poco: gli imperatori avevano infatti abbandonato
la tradizionale politica romana di conquista. Le sole eccezioni furono la sottomissione della Britannia che impegnò alcune legioni dal 43 all’84 e le
grandi campagne di Traiano in
Dacia e in Oriente.
Questo arresto dell’espansione imperiale fu una necessità o una libera scelta? Fu entrambe le cose, ma soprattutto
la seconda. In Africa e nel Vicino Oriente erano stati raggiunti confini naturali insuperabili: più in là si stendevano
solo deserti disabitati o percorsi da popoli nomadi. Ma
per altre zone, come quelle oltre il Danubio, è chiaro che
l’arresto della conquista derivò da una scelta precisa. Si
Parte V L’impero greco-romano
lasciò il confine lungo il grande fiume, che era un pessimo confine naturale, tante volte sorpassato con facilità dai nemici, perché gli imperatori non vollero proseguire con le conquiste. Per la mentalità romana era inconcepibile che un imperatore non partecipasse in prima persona alle grandi campagne militari. Ma la vita nell’esercito li attraeva ben poco. Meglio dunque condurre sulle frontiere una politica di pace.
1. Quali benefici ottenevano le reclute che entravano a far parte dell’esercito? 2. Per quali ragioni i primi imperatori misero da parte le grandi campagne militari?
10. Ricchezza delle province,
decadenza dell’Italia
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Un mercato unitario
L’economia delle province trasse grandi vantaggi dall’impero. Mercanti, proprietari fondiari e artigiani non soltanto videro finalmente cessare le rovinose esazioni dei governatori
d’età repubblicana, ma ottennero sempre più facilmente di partecipare ai privilegi economici
e fiscali un tempo riservati solo agli abitanti di Roma e dell’Italia. Poterono così trarre beneficio dalla creazione di un enorme mercato unitario. Il potere imperiale garantiva la sicurezza
dei commerci; merci e mercanti viaggiavano agevolmente lungo la grande rete di strade
(80.000 chilometri!) costruita da Roma e utilizzavano le flotte, i porti e le altre infrastrutture
create dall’impero. Utile per gli scambi era anche l’esistenza di un unico sistema monetario,
basato sulle monete d’argento (denarii) e d’oro (aurei) coniate dalle zecche imperiali.
In tutte le province la produzione agricola e artigianale aumentò molto, e con essa la ricchezza e i commerci. Fu un’epoca di grande prosperità. Viceversa per l’Italia le cose andarono peggiorando. Dalla metà del I secolo iniziarono a diminuire le esportazioni di vino,
olio e beni artigianali; ormai le province li producevano per conto proprio. Anzi, adesso i
rapporti commerciali si invertivano, perché era l’Italia a importare i beni prodotti più a buon
mercato dai lontani territori dell’impero. Tutto questo è noto dalle lamentele di alcuni scrittori antichi e, soprattutto, dai frammenti di anfora.
Denario in argento di Adriano
II sec.
Kunsthistorisches Museum, Vienna
Il verso di questa moneta argentea raffigura
l’Artemisio, il grande tempio panellenico eretto
a Efeso in onore della dea Artemide.
Aureo di Traiano
112
Medagliere di Palazzo Massimo, Roma
Questa moneta d’oro prova che sulla sommità della
celebre Colonna di Traiano, oggi sormontata da una
statua di San Pietro collocata nel Cinquecento, era posta
una grande statua dell’imperatore.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
65
I problemi in Italia
Che c’entrano le anfore? Le anfore di ceramica erano fabbricate in tanti tipi, diversi a
seconda delle province; costavano poco e se si rompevano non venivano riparate, ma gettate via. Erano i contenitori più usati nel mondo antico per trasportare olio e vino, e oggi
sono la migliore guida per ricostruire il commercio perché la località di provenienza delle
anfore indica anche la provenienza delle merci che trasportavano. Proprio classificando i
tipi di anfora ritrovati nei porti italiani, gli archeologi hanno accertato un drammatico calo, a partire dalla metà del I secolo, delle anfore fabbricate in Italia, e un aumento esponenziale di quelle spagnole, africane e di altre province: è la prova che i prodotti italici
erano in crisi, soppiantati da quelli delle altre regioni dell’impero.
L’aumento delle importazioni dipendeva in parte dall’elevato costo dei prodotti italiani:
in Italia, dove affluivano le imposte e le rendite dall’impero, tutti i prezzi erano più alti, e così pure i salari. I piccoli proprietari non potevano sopportare gli alti costi di produzione, e fallivano. I loro poderi andavano ad accrescere le grandi proprietà, che tuttavia avevano anch’esse i loro problemi. Basare la produzione sugli schiavi, come avveniva in passato, diventava sempre più difficile perché con la fine delle grandi guerre di conquista gli schiavi era-
I ghiacciai della Groenlandia e il dibattito sull’economia antica
L’economia dell’impero romano è uno degli argomenti che più hanno fatto discutere gli storici. Il dibattito è stato intenso soprattutto dal 1973, quando è
apparso il libro (Economia degli antichi e dei moderni) di uno studioso americano, Moses I. Finley.
La sua tesi poneva un problema reale: possiamo
davvero pensare che l’economia antica si basasse
sugli stessi meccanismi delle economie moderne?
Nel mondo in cui viviamo, l’economia è guidata dal
libero mercato, dalla legge della domanda e dell’offerta e, principalmente, dall’iniziativa privata. Nel
mondo antico, invece, a parere di Finley non vi era
mercato del lavoro, perché si produceva soprattutto
tramite schiavi, e non con lavoratori salariati. La
stessa mentalità dei produttori era diversa: i piccoli
proprietari contadini e gli artigiani si accontentavano di vivere dignitosamente, e non cercavano di accumulare ricchezze; i grandi proprietari, da parte loro, gestivano le terre senza fare nessun calcolo razionale dei profitti e delle perdite. Se vi erano grandi spostamenti di merci ciò avveniva solo per le necessità dello Stato: per pagare le tasse, per rifornire
le legioni, per approvvigionare Roma. A suo parere,
dunque, l’economia antica era profondamente diversa dalla nostra: soprattutto, era priva della capacità, che caratterizza fin troppo il mondo contemporaneo, di mirare sempre alla crescita della produzione e dei profitti. Era un’economia dalla produttività
bassa, poco dinamica, tutta dipendente dallo Stato.
Il libro di Finley ebbe un meritato successo. Poneva problemi importanti e ha stimolato la discussione. Negli ultimi tempi, però, le sue affermazioni così perentorie sono ormai rifiutate. Le critiche
maggiori vengono dalle indagini archeologiche: in
66
Parte V L’impero greco-romano
mille modi, i risultati degli scavi provano che fra il
I secolo a.C. e il II d.C. molti beni vennero prodotti
in abbondanza e i commerci si intensificarono a
opera non solo dello Stato, ma di tanti imprenditori privati.
E qui entrano in scena i ghiacciai della Groenlandia. Fra le indicazioni più convincenti del grande
sviluppo dell’economia antica vi sono infatti le
analisi degli strati di ghiaccio formatisi in età imperiale, e conservati nei ghiacciai groenlandesi al
di sotto degli strati più recenti. Essi indicano che
nell’età di Augusto e dei suoi successori l’inquinamento da piombo e da rame dell’atmosfera sopra
l’Artico raggiunse un livello altissimo. Soltanto
con la Rivoluzione industriale del 1750-1850 il
mondo è tornato a inquinare così tanto. È la prova
certa di un’attività metallurgica davvero intensa
condotta a migliaia di chilometri di distanza, nei
territori dell’impero. Altre indagini archeologiche
attestano che in età imperiale avvenne una vera
crescita economica, cioè uno sviluppo produttivo
in grado di determinare un aumento della ricchezza della maggioranza della popolazione, e non solo di piccoli gruppi privilegiati. Un buon indicatore dello stato di benessere è l’altezza degli individui, perché aumenta se l’alimentazione è abbondante. Ebbene, l’esame dei circa mille scheletri
maschili ritrovati nei diversi scavi archeologici
condotti in Italia mostra che i Romani erano nettamente più alti, e dunque meglio nutriti, degli Italiani del Medioevo, dell’età moderna e di parte di
quella contemporanea. Soltanto nel 1956 abbiamo
raggiunto e sorpassato l’altezza media degli antichi Romani.
no meno abbondanti e costavano di più. I grandi proprietari di latifondi reagirono in due modi. Alcuni abbandonarono le coltivazioni
redditizie ma che richiedevano molta manodopera,
come la vite e l’olivo, e
sfruttarono i loro latifondi
in forme poco bisognose di
lavoro, cioè tramite l’allevamento e saltuarie coltivazioni di grano. Territori un
tempo densamente coltivati
e popolati si trasformarono
così in pascoli. Altri grandi
proprietari sostituirono gli
schiavi con affittuari liberi,
i coloni. A ognuno veniva
affittato un piccolo podere, in cambio di un canone. Il sistema del colonato all’inizio funzionò
abbastanza bene e permise a molti contadini di vivere dignitosamente. Lentamente, però, l’autorità del padrone andò crescendo, finché ai contadini fu vietato di allontanarsi dalla terra senza il suo permesso (lo vedremo al capitolo successivo: cfr. cap. 14.7).
Nave oneraria a vela
Museo Archeologico dei
Campi Flegrei, Bacoli
(Napoli)
Questo bassorilievo
raffigura una nave da carico
(nave oneraria), una
tipologia d’imbarcazione tra
le più diffuse nel mondo
romano utilizzata per
trasportare le merci da un
capo all’altro dell’impero.
In qualità di “magazzino
galleggiante” la nave
oneraria era costruita con
grandi boccaporti per
consentire un comodo
accesso alla stiva in cui
venivano immagazzinati i
prodotti, conservati in
apposite anfore sigillate con
la pece per mantenerne a
lungo i contenuti.
1. Quali furono i fattori che agevolarono la crescita economica delle province? 2. In che modo i grandi
proprietari fondiari reagirono alla crisi?
11. Panem et circenses: come conquistare
il popolo
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Panem et circenses ossia ‘pane e giochi’: con questa formula celebre il poeta satirico
Giovenale, vissuto nel I secolo, riassume il solo interesse rimasto in età imperiale al popolo che un tempo aveva conquistato il mondo. Secoli dopo, lo storico Ammiano Marcelino
descrive con disgusto la plebe oziosa di Roma. Non fa nulla, pensa solo al cibo e ai giochi.
Per essa il circo è tutto: tempio, casa, assemblea civica. Passa il tempo a parlare delle imprese degli aurighi; poi, quando è giorno di spettacolo, si precipita in massa al circo, più
veloce dei carri che stanno per gareggiare.
In tutte le epoche il disprezzo per il popolo è un atteggiamento molto comune fra gli intellettuali, di solito membri delle classi superiori. Di certo la gran parte della plebe non passava il suo tempo ai giochi, ma in lavori di ogni tipo. Per molti, una dura fatica quotidiana
doveva essere anche quella di trovare qualche piccolo lavoretto: la disoccupazione era un
problema cronico in una città popolosa come Roma, così come nelle maggiori città del tempo. Nel mondo antico, infatti, non vi erano grandi fabbriche (le attività produttive si svol-
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
67
I gladiatori
Nel 73 a.C., dopo avere più volte sconfitto l’esercito romano
con gli altri schiavi insorti, Spartaco, il gladiatore ribelle, organizzò dei grandiosi funerali in onore di un compagno morto:
per l’occasione trecento prigionieri, tutti legionari romani, dovettero combattere come gladiatori fino alla morte. Era stata
una clamorosa inversione dei ruoli fra vittime e carnefici: un
pubblico di schiavi ordinava il combattimento mortale dei suoi
antichi padroni. Fu tuttavia l’unica volta nella storia di Roma
in cui ciò successe.
I primi combattimenti fra gladiatori risalgono alla metà del III
secolo a.C. e venivano offerti dalle grandi famiglie durante i funerali. In origine erano dunque una sorta di sacrificio volto a
placare l’anima dei defunti. In età imperiale i combattimenti
dei gladiatori erano però diventati un divertimento fra i più
amati dal popolo, offerto in ogni occasione. Nei primi secoli
combattevano esclusivamente gladiatori schiavi. Verso la metà
del I secolo d.C. agli schiavi si aggiunsero alcuni cittadini romani ridotti alla più completa disperazione, che vendevano il
proprio onore e la propria libertà e si facevano gladiatori.
Le lotte fra i gladiatori rappresentavano il momento culminante delle giornate di spettacolo degli anfiteatri.
Ogni città aveva almeno uno di questi edifici di forma
ellittica; quelli finora individuati nei più diversi angoli dell’impero sono ben 900. L’anfiteatro più
grande era il Colosseo, inaugurato da Tito nell’80
d.C. con una serie di giochi che durarono più di tre
mesi. Aveva 66 ingressi numerati e tre ordini di
gradinate; per i più miserabili fra la popolazione vi erano posti in piedi in un terrazzo in cima
all’edificio. Per riparare il pubblico poteva venire disteso un immenso telone, manovrato da
un distaccamento di marinai della flotta esperti in vele.
Gli spettacoli degli anfiteatri iniziavano la mattina con lotte fra belve esotiche o con combattimenti fra uomini e animali. Talvolta i condannati a
morte erano gettati indifesi nell’arena, per essere
sbranati. Infine toccava ai gladiatori. Per rendere più affascinante l’esibizione, i gladiatori non combattevano come
normali soldati, ma con armi strane. Si dividevano in categorie
diverse, ognuna con i propri costumi e i propri armamenti. Il
Retiarius combatteva con la rete e il tridente contro un avversario coperto da un elmo a forma di pesce; il Trace era armato
di una corta scimitarra e di un minuscolo scudo rotondo; il Sannita usava una grande spada e uno scudo rettangolare.
Per fare un bravo gladiatore occorrevano anni di addestramento, e non meraviglia che gli impresari che possedevano e addestravano i gladiatori chiedessero lauti pagamenti per farli combattere. Nelle città di provincia, dove l’impresario riceveva
compensi limitati, raramente i duelli finivano con la morte dello sconfitto. Invece a Roma, dove i giochi erano offerti dall’imperatore e non si badava a spese, i combattimenti erano all’ultimo sangue. Quando un gladiatore era sconfitto, alzava il
braccio per chiedere la grazia. La decisione spettava al vincitore, ma era uso che egli si rivolgesse all’imperatore; l’imperatore, a sua volta, chiedeva il parere della folla. Il pollice in alto e il grido «lascialo andare» premiava i gladiatori sconfitti
68
Parte V L’impero greco-romano
che avevano combattuto bene; il pollice verso condannava all’immediato sgozzamento quelli che avevano lasciato insoddisfatto il pubblico.
I gladiatori erano popolarissimi, veri eroi delle folle. I vincitori ricevevano denaro e gioielli, che mostravano subito al pubblico. Dopo molte vittorie, riuscivano di solito a guadagnarsi la
libertà. Una simile notorietà premiava anche gli aurighi che
animavano un altro tipo di spettacolo amatissimo nell’impero,
le corse dei carri. Le corse avvenivano nei circhi; di solito duravano sette giri di pista. Sfrecciando su cocchi leggerissimi
trainati da una o due coppie di cavalli, gli aurighi cercavano di
arrivare primi correndo a più non posso, ostacolando gli avversari e spingendoli a fracassarsi sulle murate. Un bravissimo
auriga, Diocle, in 24 anni di carriera vinse quasi 3000 corse, accumulando una fortuna pari a quella di un senatore.
Il Colosseo con il velario
Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere
Elmo di gladiatore
70-79
Da Pompei; Museo
Archeologico
Nazionale, Napoli
Quest’elmo
di gladiatore
è decorato con scene
tratte dal racconto epico
della distruzione di Troia.
gevano in piccoli laboratori) e l’amministrazione dell’impero richiedeva solo
pochi impiegati.
Nelle critiche alla plebe, però, qualcosa di vero c’era. Con Tiberio e i suoi successori al popolo romano erano state sottratte tutte le antiche funzioni politiche: il
voto nelle assemblee legislative e l’elezione dei magistrati. Il consenso popolare restava tuttavia fondamentale anche
per sovrani potenti come gli imperatori.
A Roma si concentrava un’immensa popolazione di un milione di abitanti, senza
paragoni con le altre città del mondo antico. Soltanto fra XVIII e XIX secolo nell’Europa occidentale dapprima Londra e
poi Parigi raggiunsero una simile ampiezza. Occorreva in tutti i modi conquistare il favore di questa massa smisurata.
Per raggiungere questo scopo gli imperatori portarono al massimo sviluppo i
sistemi seguiti dai politici della tarda repubblica. Lo strumento di consenso economicamente più produttivo era promuovere grandi lavori di edilizia pubblica. La costruzione di un teatro, di un
foro o di un circo veniva vista con favore dal popolo: non soltanto abbelliva la
città e forniva nuovi spazi di divertimento e riunione, ma dava anche lavoro a molti. Un altro strumento per ottenere il favore popolare erano le distribuzioni gratuite di cibo. Tutti
i cittadini romani avevano una tessera che consentiva loro di ritirare gratuitamente, nel giorno stabilito, una certa quantità di grano. Un enorme edificio porticato (Porticus Minucia)
fu costruito nel cuore di Roma per effettuare ordinatamente le distribuzioni. A tutto ciò si
aggiungevano doni di varia natura.
Vi erano infine i giochi. L’imperatore o l’uomo politico che spendeva grandi somme per
offrire alla popolazione corse di cavalli, combattimenti fra belve, lotte di gladiatori e competizioni di ogni tipo (persino combattimenti navali), era certo di fare un buon investimento. La sua popolarità cresceva quanto più riusciva a rendere interessante lo spettacolo grazie alla partecipazione delle bestie più esotiche, dei gladiatori più crudeli e celebri, degli
aurighi più abili. Se poi gli imperatori si esibivano personalmente nelle corse e nei combattimenti, come Nerone, la loro popolarità saliva alle stelle.
Corsa dei carri romani
II sec.
Musée du Louvre, Parigi
I ludi circenses, che si
svolgevano nel Circo
Massimo, erano i più antichi
giochi romani. La gara con i
carri era uno spettacolo che
entusiasmava le folle.
1. Quali erano i principali strumenti attraverso i quali gli imperatori carpivano il consenso popolare? 2.
Per quale motivo i grandi lavori di edilizia pubblica erano graditi al popolo?
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
69
Altri
Cina, India e Africa al tempo
dell’impero romano
Questa rubrica di solito affronta la storia di regioni che non avevano rapporti con il Mediterraneo e l’Europa,
ma in questo capitolo le cose sono in
parte diverse. Vale la pena infatti soffermarci un po’ su alcuni interlocutori
di Roma, poiché l’ampiezza e la ricchezza dell’impero romano stimolarono per esempio relazioni con le remote regioni della Cina e dell’India, e
con alcuni regni africani: le prime
esclusivamente commerciali, le altre
di dominazione. Con l’India i commerci riguardavano soprattutto le
spezie e avvenivano lungo quella che
è stata appunto chiamata “via delle
spezie”. Nel suo tratto finale questo
percorso giungeva in Siria e in Giordania tramite carovane di nomadi che
attraversavano il deserto arabico e la
Mesopotamia; dall’India fino alla foce
dell’Eufrate il percorso si svolgeva via
mare. Interamente terrestre era invece la “via della seta”, che riforniva l’impero di questo tessuto prezioso e
amatissimo dall’aristocrazia romana.
La Cina ne custodiva gelosamente il
segreto di fabbricazione, e i Romani
pensavano addirittura che venisse da
un albero, non certo dai bachi, cioè da
insetti. Si dice “via della seta”, al singolare, ma in realtà bisognerebbe
usare il plurale, perché si trattava di
molti percorsi, a volte separati solo da
poche decine di chilometri, altre volte
distanti. Dalla Cina una serie di piste
attraversava i deserti del Sinkiang (o
Xinjiang), passava le alte catene del
Pamir e poi si spingeva lungo le steppe dell’Asia e gli altopiani iranici fino
alla Mesopotamia, dove incontrava la
via delle spezie.
Tramite queste rotte commerciali, im-
Parte V L’impero greco-romano
peri fra loro lontanissimi intrattenevano relazioni economiche. Ma gli uni
sapevano ben poco degli altri. Le merci non venivano trasportate da un unico mercante attraverso l’intero percorso, perché passavano di mano molte
volte. Gli scrittori antichi, sia cinesi che
romani, raccontano di tentativi di stabilire contatti diretti tramite ambascerie; sembra però che non si sia mai
trattato di iniziative ufficiali, solo delle
spedizioni di alcuni intraprendenti
mercanti. L’impero romano, Cina e India riuscirono dunque a entrare in
contatto in misura ridottissima. Ma
quale fu in quest’epoca la storia delle
due grandi civiltà d’Oriente?
In Asia
In India, nel II secolo a. C., il grande
impero Maurya, che fin dai tempi di
Alessandro Magno si era esteso diventando il più vasto dell’epoca declinò, mentre continuava lo sviluppo
di piccoli ma prosperi Stati. Nella zona dell’attuale Pakistan una popolazione di nomadi provenienti dall’Asia
centrale creò lentamente l’impero Kushana, uno Stato che comprendeva
diversi popoli e si estendeva dall’Afghanistan centrale fino alla pianura
del Gange. L’impero Kushana raggiunse il suo apogeo proprio nel I e II
secolo. I Kushana fecero propri molti
elementi della cultura ellenica, adattando per esempio l’alfabeto greco al
loro linguaggio e coniando monete di
foggia greca. La tradizione artistica, religiosa e più in generale culturale in-
Uno scorcio del Pamir
L’altopiano montuoso del Pamir si trova alla confluenza delle catene dell’Hindu
Kush e del Karakoram (tra Afghanistan nordorientale ed ex repubblica sovietica del
Tagikistan); per le altitudini raggiunte è considerato «il tetto del mondo». Quest’area
aspra e desolata costituiva per le carovane mercantili un passaggio obbligato della
«via della seta» che dalla Cina confluiva in Medio Oriente o in Egitto dopo aver
attraversato l’altopiano iranico o, in alternativa, i monti del Caucaso.
diana restò però fortissima. L’impero
decadde e si frammentò durante il III
secolo.
In Cina continuava, sotto il potere della dinastia Han, la fioritura dell’economia, della cultura e dell’arte. Proprio
durante l’età di Augusto l’impero attraversò una crisi momentanea, poiché le tasse elevate, ulteriormente accresciute per fare fronte alla minaccia
dei nomadi sul confine settentrionale,
provocarono una grande rivolta e delle lotte civili. Le guerre terminarono
nel 23, quando il paese fu pacificato
da una seconda dinastia Han, detta
“dinastia degli Han orientali”. Il problema dei nomadi fu provvisoriamente risolto accogliendoli pacificamente
all’interno delle frontiere; talvolta ai
nomadi stessi furono affidati compiti
di controllo militare dei confini, se-
Antiochia
Alessandria
In Africa, ai confini meridionali dell’Egitto l’impero romano ebbe relazioni
burrascose con l’antico regno di Kush,
che per oltre un millennio aveva già
dato molto filo da torcere ai faraoni.
La sua capitale era stata spostata a
Meroe, poco a nord dell’odierna capitale del Sudan, Khartoum. Dopo
una serie di scontri inconcludenti, Augusto stabilì una tregua con i sovrani
di Kush, e da quel momento il regno
subì l’egemonia romana. Tra il II e il
III secolo iniziò un’inarrestabile decadenza, legata al riaccendersi di guerre con l’Egitto romano e poi agli attacchi provenienti dal regno di Axum,
formatosi tempo prima nelle attuali
Eritrea e Etiopia settentrionale e divenuto davvero importante fra I e II secolo.
La via della seta
Edessa
Tiro
Damasco Palmira
Petra
SeleuciaCtesifonte
Passo
Tarek-Davan
Samarcanda
Merv
Jatrib
(Medina)
Mecca
In Africa
condo una schema che come vedremo fu adottato anche dagli imperatori romani con i popoli barbari del limes (il confine). Oltre al taoismo e al
confucianesimo, sotto la nuova dinastia si diffuse molto fra la popolazione
cinese anche il buddismo. L’impero
della dinastia Han entrò in crisi a partire dal 180 circa. Il potere acquistato
dagli eunuchi che costituivano i principali consiglieri e funzionari imperiali suscitava la crescente opposizione
dei grandi proprietari fondiari. A tutto
questo si aggiunsero enormi rivolte
contadine, un fenomeno ricorrente
nella storia cinese e che su quella scala non ha paragoni in nessun’altra civiltà. Nel 220 l’ultimo imperatore venne deposto, e la Cina si trovò divisa in
diversi regni rivali.
Passo
Baroghil
Kashgar
Khotan
Bactra
Gherra
Passo
Khuber
Passo
Karokorum
Armozia
Chang’an
Himalaya
CINA
Barygaza
Hanoi
INDIA
Via della seta e delle spezie
Impero Kushana
OCEANO
INDIANO
Dinastia degli Han
OCEANO
PACIFICO
Regno di Axum
Regno di Kush
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
71
SINTESI
1. Stabilità, pace e difficoltà di successione
I primi due secoli del principato furono caratterizzati dalla pace interna e lungo i confini, da un’amministrazione efficace e da
una generale prosperità per la maggioranza della popolazione. Il punto più debole del sistema politico era quello relativo alla successione. Benché, formalmente, le istituzioni romane restassero repubblicane, il principato assunse spesso la forma di una monarchia ereditaria. In questi primi due secoli, il problema venne risolto, in alcuni casi, con la semplice successione ereditaria, in altri con la proclamazione ad opera delle legioni, in altri ancora, soprattutto in assenza di figli naturali, con la cosiddetta “scelta del migliore”, che permetteva all’imperatore di adottare come figlio una persona estranea alla sua famiglia.
2. La dinastia giulio-claudia
Ad Augusto successe il figliastro Tiberio, della gens Claudia (per questo si parla di dinastia giulio-claudia). Tiberio consolidò
le frontiere e rese più efficace la gestione amministrativa dell’impero. A lui successe il nipote Caligola, che viene ricordato per il comportamento eccentrico e per aver instaurato un clima di terrore. Caligola fu eliminato in una congiura e al suo posto venne messo dai
pretoriani lo zio Claudio, che si rivelò un ottimo amministratore. A questi successe il figlio adottivo Nerone, che gli storici classici hanno dipinto come una figura demoniaca. In realtà Nerone portò avanti molte iniziative a favore del popolo e per questo fu ostacolato dall’aristocrazia. Tuttavia, alcune decisioni, come la riduzione del soldo delle truppe e della fornitura del grano alla plebe, gli furono fatali. Tutto il I secolo fu caratterizzato dalla competizione tra imperatori e senato.
3. La dinastia flavia
Alla morte di Nerone un conflitto contrappose vari pretendenti. Tra questi prevalse Vespasiano, espressione delle legioni di
Oriente e discendente di una famiglia di cavalieri, i Flavii, e che, con la lex de imperio Vespasiani, stabilì per legge le prerogative imperiali. A lui successero, uno di seguito all’altro, i due figli: Tito, molto popolare e che tra le altre cose portò a termine il Colosseo iniziato dal padre, e Domiziano, che regnò in forma autoritaria e fu vittima di una congiura di pretoriani e senatori.
4. I cosiddetti Antonini o imperatori adottivi
Con Nerva, messo al potere dal senato, iniziò il regno dei cosiddetti “imperatori adottivi” designati tramite la “scelta del migliore”. La competizione tra senato e imperatore si trasformò in una proficua collaborazione. Nerva adottò Traiano, il cui regno fu molto popolare. Traiano riprese la politica di conquiste, sottomise la Dacia e portò avanti una serie di effimere conquiste in Mesopotamia.
A lui succedettero Adriano, che rafforzò i confini dell’impero (limes), e Antonino Pio. A questi successe Marco Aurelio, passato alla storia come imperatore filosofo. In politica interna fu moderato e tollerante, mentre all’esterno dovette far fronte a ripetuti assalti lungo le
frontiere, specie nella zona del Danubio. Alla sua morte, il figlio Commodo entrò in conflitto con il senato: ucciso in seguito a una congiura, il senato lo condannò alla damnatio memoriae.
5. La romanizzazione dell’impero
Per governare agevolmente l’immenso impero su cui dominava, Roma applicò le stesse misure che aveva applicato in epoca repubblicana e portò avanti un vasto processo di romanizzazione. Un ruolo decisivo fu svolto dalle città, che si trovavano in condizioni di
assoggettamento diversificate, ma godevano di una vasta autonomia. Il governo rimaneva in mano alle élite locali, e queste avevano,
dunque, tutto l’interesse al consolidamento del potere imperiale. A molti membri delle élite fu concesso di accedere all’ordine dei cavalieri, dando così vita a una diffusa aristocrazia imperiale. A testimoniare, inoltre, il successo del processo di romanizzazione fu l’adozione della lingua latina in tutti i nuovi territori, affiancata, in Oriente, dal greco, la lingua della filosofia e della scienza.
6. La nascita del cristianesimo
Sin dalla fine della repubblica, anche il rapporto con la religione comincia a mutare. Venendo incontro all’esigenza di un rapporto più intimo fra uomo e divinità, cominciarono a diffondersi culti di origine orientale. Tra questi, quello che avrebbe rivestito un ruolo cruciale nella storia era certamente il cristianesimo, religione monoteista nata in Giudea dalla predicazione di Gesù che, a causa del
suo radicale messaggio di pace e giustizia, fu ostacolato e messo a morte dalle autorità. La sua opera fu proseguita dai suoi apostoli. Con
l’opera di san Paolo di Tarso il cristianesimo divenne una religione universale che si diffuse per tutto l’impero. Le prime comunità cristiane seguivano severe norme di vita e rifuggivano le forme di socialità più diffuse fra i pagani. A causa del loro comportamento erano
guardate con sospetto, ma durante il I e il II secolo le persecuzioni nei loro confronti furono limitate.
7. Impero e buongoverno
Durante il I e il II secolo, la buona amministrazione delle province fu un fattore decisivo per la tenuta dell’impero. Il potere centrale represse le politiche di rapina dei governatori e cercò piuttosto di far prosperare e rendere redditizi i propri domìni. Per ottenere i
72
Parte V L’impero greco-romano
risultati prefissi fu fondamentale sfruttare le capacità di autogoverno delle comunità cittadine e creare, quindi, un apparato amministrativo estremamente snello. A questo si univa un immenso apparato militare, pronto a reprimere duramente qualsiasi tentativo di rivolta.
8. Città e civiltà
Roma riteneva che il suo dominio racchiudesse l’intero mondo civilizzato e identificava la nozione di civiltà con quella di città.
I Romani portarono la vita urbana in territori in cui era sconosciuta e vollero che le città, centro del territorio circostante, presentassero
caratteristiche simili. Anfiteatri, teatri, templi, fori, tribunali, basiliche e, soprattutto, terme e acquedotti erano l’essenza stessa della città
romana, chi fruiva di questi luoghi era considerato appieno cittadino. Anche la parola “barbaro”, nella mentalità romana, passò dal significato generale di “straniero” a quello di “selvaggio” e “inferiore”.
9. Gli eserciti dell’imperatore
I cambiamenti riguardarono anche l’esercito, che divenne permanente e fu composto soltanto da professionisti della guerra. A
Roma si fece stabile la presenza dei pretoriani, che spesso influirono sulla vita politica romana. Progressivamente, la presenza di legionari di origine italica si ridusse sempre nelle legioni, mentre cresceva quella dei soldati provenienti da ogni angolo dell’impero, attratti,
tra l’altro, dalla concessione della cittadinanza romana. Tuttavia, l’imponente macchina bellica fu poco impiegata, a causa della drastica riduzione delle campagne militari di conquista.
10. Ricchezza delle province, decadenza dell’Italia
A trarre vantaggio dal potere imperiale fu soprattutto l’economia delle province. Mercanti, proprietari fondiari e artigiani beneficiarono dell’enorme mercato unitario; fu loro garantita la sicurezza dei commerci e la presenza di infrastrutture che rendevano agevoli gli scambi, al pari di un unico sistema monetario. Mentre le province conoscevano una grande prosperità, i prodotti della penisola
italica furono soppiantati da quelli delle altre regioni dell’impero, meno costosi. I piccoli proprietari fallivano, ma anche le grandi proprietà erano in crisi a causa della scarsità di manodopera schiavile. A questo rimediarono, in parte, abbandonando le colture più costose
e affidando la terra in affitto a coloni.
11. Panem et circenses: come conquistare il popolo
Durante l’impero fu fondamentale per gli imperatori ottenere il consenso popolare, specie in un’epoca in cui al popolo erano
state sottratte tutte le antiche funzioni politiche. Per raggiungere questo scopo, gli imperatori promossero grandi lavori di edilizia pubblica e distribuzioni gratuite di cibo, e spesero grandi somme per offrire i giochi alla popolazione. Questa politica è bene riassunta dall’espressione di Giovenale panem et circenses, ‘pane e giochi’ appunto.
ESERCIZI
Gli eventi
1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta:
1. Con gli imperatori Antonini la successione...
2. Nei primi due secoli di principato, gli imperatori...
❏ a) fu di tipo dinastico;
❏ a) furono solo di origine italiana;
❏ b) fu decisa da conflitti sanguinosi;
❏ b) furono spesso in competizione con il senato;
❏ c) avvenne per adozione;
❏ c) ebbero come obiettivo principale le guerre di conquista;
❏ d) fu decisa dalle legioni.
❏ d) mantennero intatte le funzioni politiche svolte dal popolo.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
73
3. A stabilire per legge le prerogative dell’imperatore fu...
5. A convertirsi al cristianesimo furono soprattutto...
❏ a) Tiberio;
❏ a) gli uomini facoltosi;
❏ b) Vespasiano;
❏ b) le massime autorità ebraiche;
❏ c) Antonino Pio;
❏ c) i militari e i membri delle élite locali;
❏ d) Claudio.
❏ d) i ceti sociali più modesti.
6. Durante il I e il II secolo il sistema di scambi commerciali...
4. L’imperatore Nerone...
❏ a) iniziò la conquista della Britannia;
❏ a) fu depresso dalla mancanza di infrastrutture;
❏ b) consolidò le frontiere dell’impero sul Danubio;
❏ b) aveva in Italia il più importante centro economico;
❏ c) garantì all’impero un lungo periodo di pace e prosperità;
❏ c) godeva dei benefici garantiti da un unico sistema monetario;
❏ d) promosse un’importante riforma monetaria.
❏ d) soffriva a causa dell’imponente apparato burocratico.
Il confronto
2. Inserisci correttamente le informazioni mancanti nel seguente schema dinastico, quindi, seguendo l’esempio,
completa la successiva tabella indicando con una crocetta a quale imperatore corrispondono le azioni elencate:
AUGUSTO
.................................
DINASTIA
.....................................
Dal 27 a.C.
al 68 d.C.
CALIGOLA
Successione
dinastica
.................................
................................
L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI (68-69 d.C.)
.................................
DINASTIA
FLAVIA
Dal 69
al 96
TITO
Successione
......................
................................
NERVA
.................................
DINASTIA
DEGLI ...............................
Dal 96
al 192
................................
ANTONINO PIO
................................
................................
74
Parte V L’impero greco-romano
Successione
....................
Claudio
Nerone
Vespasiano
Traiano
Adriano
Marco Aurelio
x
Respinse un’invasione di Quadi e Marcomanni.
Varò un’importante riforma monetaria.
Fu messo al potere dalla guardia pretoriana.
Costruì un imponente muro a guardia del confine
a nord della Britannia.
Sottomise la Dacia, convertendola in provincia.
Ordinò la prima persecuzione di cristiani a Roma.
Diede inizio alla conquista della Britannia.
Sotto il suo regno fu iniziata la costruzione del
Colosseo, portata a termine dal figlio.
Era di origine ispanica.
Durante il suo regno un’epidemia di vaiolo devastò
l’impero.
Stabilì per legge le prerogative dell’imperatore
Il lessico
3. Tenendo presente i contenuti del capitolo appena studiato inserisci il termine o l’espressione che
corrispondono alle seguenti definizioni:
..................................................... Modalità di successione, mediante la quale l’imperatore sceglieva il proprio successore tra gli uomini più in vista dell’impero.
..................................................... Linea di confine che delimitava i domìni dell’impero.
..................................................... I membri delle élite locali che si occupavano di mantenere l’ordine, riscuotere i tributi e far rispettare i provvedimenti
emanati da Roma.
..................................................... Termine di origine greca che definiva i diretti seguaci di Gesù.
..................................................... La personalità eletta dall’insieme dei fedeli, che guidava la comunità cristiana.
..................................................... I fedeli più stimati dalla comunità cristiana, che dirigevano le preghiere collettive.
..................................................... Luoghi pubblici adibiti all’igiene e alla cura del corpo, che divennero una vera e propria pratica sociale, luogo di incontro e
scambi sociali.
..................................................... In epoca imperiale questo termine passò a designare, per i Romani, i “selvaggi”, “inferiori” che vivevano al di fuori del
mondo civilizzato romano.
..................................................... Sistema che riorganizzava i grandi possedimenti fondiari, che venivano parcellizzati e affidati ad affittuari liberi.
..................................................... Processo di acculturazione, integrazione e assimilazione delle popolazioni sottomesse dai Romani.
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
75
I processi
4. Completa lo schema relativo al sistema economico inserendo correttamente le lettere relative ai termini e alle
espressioni elencate; quindi, rispondi alle domande:
a) Commerci;
e) Esportazioni;
b) Sistema produttivo;
f) Mercato unitario;
c) Sistema monetario;
g) Rete stradale;
d) Province;
h) Produzione agricola.
Una grande
.......................
Un unico
.......................
garantirono
Sicurezza nei
..........................
Che favorì la
creazione di
Infrastrutture
Enorme
..........................
Dal quale
si avantaggiò
Che conobbe
L’economia delle
.............................
Aumento della
.............. e artigianale
Aumento delle
.............................
questi fattori
provocarono la
Crisi del ........
............ italico
a) Da che cosa dipendeva l’aumento delle importazioni nella penisola italica?
b) Che conseguenze ebbe la crisi produttiva sui piccoli proprietari italici?
c) Per quale motivo anche i grandi proprietari fondiari entrarono in crisi?
d) Come reagirono i latifondisti italici alla crisi?
76
Parte V L’impero greco-romano
Che conobbe
L’elaborazione scritta
5. Descrivi le caratteristiche principali e la diffusione della religione cristiana in un breve testo (max 30 righe),
seguendo la seguente scaletta di frasi da completare:
a) Il cristianesimo nacque in ............................................................. dalle predicazioni di .............................................................;
b) Il messaggio di questa nuova religione era .............................................................;
c) Benché all’inizio il cristianesimo rimase circoscritto al mondo ebraico, con Paolo di Tarso .............................................................;
d) I primi a convertirsi furono principalmente .............................................................;
e) Negli altri ceti sociali il cristianesimo faticò a diffondersi perché .............................................................;
f) Le prime comunità cristiane erano organizzate .............................................................;
g) In generale, il mondo romano guardava con sospetto i cristiani perché ..............................................................;
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Come si sviluppò il rapporto tra imperatori e senato durante i primi due secoli di principato?
2) Che ruolo svolsero le città nel processo di romanizzazione dell’impero?
3) Quali fattori garantirono il successo dell’organizzazione territoriale e amministrativa dell’impero?
4) Quali trasformazioni segnarono l’organizzazione dell’esercito?
5) In che modo l’espressione coniata da Giovenale «panem et circenses» spiega il rapporto tra imperatori e consenso popolare?
Capitolo 13 Il consolidamento e l’apogeo dell’impero
77
PARTE VI
La tarda Antichità
A
partire dal III secolo l’impero romano
cambiò molto. Attraversò un periodo di
gravissimi problemi economici e fiscali,
ma soprattutto militari e politici. Le legioni romane vennero battute
da Germani e Persiani, molte province furono saccheggiate,
una crisi politica senza precedenti colpì le istituzioni dello
Stato e lo stesso trono imperiale, che fu conteso fra i
generali dell’esercito. Minacciati da rivolte militari e contestati
da usurpatori, gli imperatori legittimi spesso furono incapaci di governare su
vaste parti dell’impero. Anche la religione tradizionale rivelò gravi limiti,
mostrandosi inadeguata a rispondere alle nuove ansie religiose dei fedeli.
Per mezzo secolo, dal 235 al 284,
l’impero sembrò addirittura sul punto di sparire. Tuttavia
il sistema aveva al suo interno immense risorse, e
trovò il modo di risollevarsi. Una serie di riforme
portò l’autorità dell’imperatore a livelli mai
raggiunti in passato, cambiando radicalmente il
modo di governare. Con due grandi sovrani,
Diocleziano e Costantino, lo Stato riuscì come
mai in passato a controllare la vita economica e
sociale di tutte le province. Si dotò di una
burocrazia vasta, formata da un gran numero
di funzionari e impiegati, e mise in piedi
strutture per governare e, soprattutto, per
prelevare tasse e prodotti dagli abitanti.
Cambiò anche la geografia
politica dell’impero. Prese piede l’idea, destinata poi a
condizionare per molti secoli la storia, che la parte occidentale e
quella orientale avessero bisogno di governi separati; e il baricentro dell'impero
si spostò verso oriente, dove Costantino creò una nuova grande capitale, Costantinopoli.
La crisi della religione tradizionale si avviò a una soluzione ancora più radicale:
la totale cristianizzazione. Gli imperatori divennero cristiani, e iniziarono a collaborare da vicino con la
Chiesa, impegnandosi a proteggerla e anche a dirigerla.
In passato tutti questi cambiamenti sono stati considerati prove di decadenza. Poiché
l’impero era ormai diverso da quello dei tempi di Augusto e degli Antonini, lo si giudicò inferiore, frutto della
crisi e dell’involuzione. Ma poi ci si è resi conto che questo modo di pensare impediva di vedere quello che
realmente erano stati i secoli dal III in poi: non secoli inferiori, ma un’età diversa, con caratteristiche sue
proprie. Il nome scelto per definire quest’epoca nuova è stato “tarda Antichità”. Gli storici discutono sui
limiti cronologici dell’età tardo antica, la posizione più diffusa però è che la tarda Antichità giunga almeno
fino al VI secolo.
Il mondo tardo antico conobbe certo difficoltà e fenomeni di decadenza. Ma per il resto
la tarda Antichità fu un’epoca vitale, in continua trasformazione, sempre più complessa. Fu un groviglio di
vecchio e di nuovo, un mondo in cui si incontrarono culture e religioni diverse, vennero elaborate soluzioni
istituzionali nuove e robuste, il cristianesimo visse in sintonia con lo Stato, molte popolazioni barbare vennero
accolte e integrate nei territori imperiali, contribuendo a cambiarne la natura.
Capitolo 14
Dalla crisi del III secolo
alle riforme di Diocleziano
1. Le cause della crisi
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Un affresco della crisi del III secolo?
Al centro di questo capitolo vi è un periodo di gravissima crisi e di enormi cambiamenti. Per mezzo secolo, dal 235 al 284, l’impero romano sembrò addirittura sul punto di sparire. Fu scosso da rivolte militari, esposto a invasioni straniere da terra e dal mare, diviso
in più parti, minato nei suoi fondamenti religiosi dall’affermarsi di nuove fedi. Vide precipitare il prestigio e il potere degli stessi imperatori: circa quaranta usurpatori furono acclamati dagli eserciti; e tutti gli imperatori legittimi, tranne uno, furono assassinati o morirono in guerra. Accadde persino l’inimmaginabile: un imperatore, Valeriano, fu fatto schiavo
dai nemici, e visse come schiavo per il resto della sua vita. Ma alla fine il sistema trovò il
modo di risollevarsi. Una serie di riforme portarono l’autorità dell’imperatore a livelli mai
raggiunti in passato, cambiando radicalmente il modo di governare. La crisi della religione tradizionale si avviò a una soluzione ancora più radicale: la quasi totale cristianizzazione dell’impero.
Fino a poco tempo fa gli storici pensavano che la debolezza dell’impero nascesse da una
crisi interna di tipo economico e demografico. Ritenevano che la peste bubbonica arrivata nel 165 dall’Oriente avesse avuto nei decenni successivi effetti devastanti, uccidendo
milioni di persone, addirittura secondo alcuni storici la metà degli abitanti. Ad aggravare i
disastri dell’epidemia sarebbero intervenute le incursioni dei popoli germanici in Europa e
dei Persiani in Oriente. Il crollo dell’economia avrebbe completato il disastro.
Cos’è cambiato nella lettura della crisi
Questa interpretazione si basava sui racconti degli scrittori antichi, che insistono sulle
innumerevoli vittime della peste, sulle invasioni, sui campi deserti, sulle città in rovina, sul
peso insopportabile delle tasse. Ma gli scavi archeologici, che ormai sono stati condotti in
gran numero in ogni angolo dell’antico impero, confermano solo in parte un quadro così
fosco. Solo in alcune province si trovano le tracce di una crisi economica e di un crollo della popolazione. L’abbandono dei campi e la decadenza delle città è evidente per esempio
nelle province più esposte alle invasioni, come la Gallia, la Siria e la Pannonia (grosso modo l’attuale Ungheria). Altrove le cose appaiono molto migliori: sia le città che le fattorie
e i villaggi restarono popolati e in buone condizioni. Anzi, in Africa e in Egitto la popolazione e la prosperità sembrano semmai aumentare. Gli studi sulla “peste” hanno poi dimostrato che si trattò in realtà di vaiolo: un’epidemia micidiale, ma certamente non così catastrofica da uccidere la metà degli abitanti. Insomma, i risultati delle indagini archeologiche
indicano che, come del resto accade in ogni epoca, gli scrittori antichi insistettero molto sui
80
Parte VI La tarda Antichità
casi peggiori, più adatti a impressionare i loro lettori; ma un’immagine così negativa è valida soltanto per una parte dell’impero.
A cosa attribuire, allora, la crisi del III secolo? Occorre lasciare da parte l’economia e
l’andamento della popolazione. La crisi del potere imperiale fu provocata piuttosto dall’incapacità di resistere a nuove e più forti aggressioni armate provenienti dall’esterno, come vedremo più avanti [cfr. parr. 3-4]; a sua volta, questa inefficienza bellica determinò
gravi disordini politici, che indebolirono l’esercito e il sistema di governo. La crisi ebbe
dunque un’origine militare e politica, anche se, come sempre accade, le incursioni dei nemici e le lotte intestine influirono negativamente sulla vita economica e sociale.
1. Quali cause determinarono la crisi del III secolo secondo gli studi meno recenti? 2. Come viene invece
spiegata attualmente questa crisi?
2. La dinastia dei Severi
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Settimio Severo e suo figlio Caracalla
La congiura che nel 192 aveva portato all’assassinio di Commodo era stata preparata con
cura [cfr. cap. 13.4]. Ucciso il tiranno a mezzanotte, già la mattina il senato eleggeva il nuovo imperatore: Pertinace, uno stimato senatore. La sua politica finanziaria oculata lo indusse però a un errore fatale: diede ai pretoriani un donativo troppo basso rispetto
a quello atteso dagli uomini della guardia imperiale che in cambio avevano sostenuto la sua ascesa. Insoddisfatti, dopo neanche tre mesi i pretoriani lo uccisero. Frutto della cupidigia e dell’improvvisazione, questo secondo colpo di Stato provocò una lotta civile fra i diversi pretendenti al trono acclamati dalle truppe. Dopo pochi mesi si impose a Roma il governatore
della Pannonia, Settimio Severo, che era sostenuto dalle armate stanziate
sul Danubio, e diede inizio alla nuova dinastia dei Severi.
Settimio Severo (193-211) era espressione del mondo delle province
e dell’esercito: era nato in Africa da una famiglia interamente di origine
locale salita fino ai vertici della società romana; aveva svolto tutta la sua
carriera nell’esercito; al sostegno delle legioni doveva anche il trono. Non
meraviglia, di conseguenza, che abbia condotto una politica fondata proprio
sulla valorizzazione dell’esercito e dei ceti dirigenti provinciali. L’esercito
venne accresciuto e circondato di cure. Il soldo fu aumentato, furono istituiti
nuovi premi e onori per i meritevoli e i soldati ricevettero importanti diritti, come quello di sposarsi durante gli anni di servizio. Ufficiali e soldati provenienti
dalle province ottennero uno spazio sempre maggiore. Il cambiamento apparve
subito evidente a Roma, dove una delle prime decisioni di Settimio Severo fu
quella di congedare i pretoriani, fino a quel momento scelti solo fra gli Italici, sostituendoli con truppe provenienti dalle sue fidate legioni danubiane. Per le cariche maggiori, quelle prefettizie, cercò di scegliere
comandanti esperti, con una lunga carriera alle spalle.
Secondo questo personaggio di origine provinciale il senato e
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
Busto di Settimio Severo
III sec.
Kunsthistorisches Museum,
Vienna
81
l’orgogliosa aristocrazia romana avevano un’importanza eccessiva. Con
una serie di provvedimenti il ruolo del senato fu ridotto a ben poco, poiché
quasi tutte le leggi erano decise dall’imperatore. Inoltre epurazioni (cioè
rimozioni) dei senatori sgraditi e nuove nomine cambiarono la composizione dell’antica assemblea, dando per la prima volta la maggioranza non
più ai Romani e agli Italici, ma ai senatori originari delle province.
Le cure accordate all’esercito pesarono molto sulle finanze imperiali,
ma diedero buoni risultati. Settimio Severo sbaragliò con facilità, nel 195
e nel 197, i pretendenti al trono imperiale che ancora resistevano nelle lontane province della Britannia e della Siria, e poi attaccò con successo il regno dei Parti, al quale fu sottratta per qualche tempo la Mesopotamia. Consolidò inoltre il limes imperiale lungo il Danubio e in Britannia ai confini
con la Scozia.
La morte lo colse proprio mentre combatteva in Britannia, assieme ai
due figli, Caracalla e Geta, nominati entrambi eredi. La soluzione dinastica prevaleva dopo quella dell’adozione che si era affermata con gli Antonini. Il trono però passò solo a Caracalla (211-217), che si era affrettato a uccidere il fratello minore. Gli storici antichi legati al senato parlano
molto male di questo imperatore, che a ventitre anni arrivò al potere con
l’omicidio e accentuò la politica antisenatoria di Settimio Severo. Tuttavia
Caracalla portò avanti con efficacia le riforme intraprese dal padre sia in
ambito economico che militare. Inoltre nel 212 emanò il celebre editto di Caracalla, un provvedimento destinato a cambiare il volto del mondo romano: la cittadinanza romana veniva
concessa a tutta la popolazione libera dell’impero. Gli scrittori antichi legati al senato insi-
Busto di Caracalla
215-217
Musei Capitolini, Roma
Tutti uguali davanti alla legge?
L’Editto di Caracalla del 212 coronava il secolare processo di romanizzazione. Esso prendeva atto che l’antica distinzione fra cittadini e provinciali era ormai del tutto anacronistica, e che tutti i
sudditi dell’impero potevano essere accomunati dalla cittadinanza romana. Esclusi dalla cittadinanza restavano soltanto i prigionieri e gli immigrati barbari accolti nell’impero per grazia
dell’imperatore, nonché i nomadi dei deserti e gli abitanti delle
montagne e di altre aree isolate rimasti ai margini della civiltà romana.
I cittadini però non erano uguali davanti alla legge. Ora che la
cittadinanza non era più un privilegio di pochi, venne applicata
in modo sistematico la distinzione fra honestiores e humiliores
che era comparsa già nel secolo precedente. Gli honestiores erano gli uomini ricchi e importanti, che nei processi e di fronte alla legge andavano trattati con ogni cautela; gli humiliores erano
i cittadini comuni, sui quali i magistrati potevano agire senza remore, ricorrendo anche alla tortura quando venivano citati in
giudizio come imputati e persino come semplici testimoni.
Queste distinzioni oggi ci paiono ingiuste, ma erano considerate del tutto normali in un mondo che giudicava la ricchezza e il
potere come qualità che attestavano la virtù di un uomo e della
sua famiglia, mentre la povertà era vista come una condizione da
condannare e una prova di scarso merito. Almeno, questa era
l’immagine condivisa dalle classi sociali elevate e da tutte quel-
82
Parte VI La tarda Antichità
le che aspiravano a salire nella scala sociale; cosa pensassero i
contadini e lavoratori più umili ci è ignoto, ma è possibile che
anch’essi avessero finito per credere almeno in parte alla giustezza di queste discriminazioni. Anche a scuola veniva insegnato che il mondo doveva andare proprio in questo modo, e che
dunque lo Stato faceva bene a trattare in maniera così diversa i
suoi cittadini.
Vediamo per esempio che cosa dice un libro di testo per i bambini di lingua greca che dovevano imparare il latino, e viceversa. Risale all’inizio del IV secolo e ha lo scopo non solo di insegnare le lingue, ma anche di far conoscere ai giovani alcuni
princìpi base del funzionamento del mondo imperiale. Ecco il
passo che i bambini recitavano per imparare le parole latine e
greche relative alla giustizia e ai suoi metodi violenti (ma solo
contro chi era umile e non aveva protettori!):
«Il ladro colpevole è portato in tribunale e interrogato così come merita; è torturato, colpito dal torturatore, il suo petto è ferito, viene appeso, battuto con bastoni, flagellato e sottoposto a
tutta una serie di torture; e tuttavia continua a negare. Deve essere punito: il giudice lo condanna a morte.
Poi viene un altro imputato, innocente, che ha molti protettori e
accompagnatori influenti: questi ha buona fortuna, e viene assolto. I testimoni chiamati a sostenerlo sono lasciati andare senza essere torturati».
nuarono che l’imperatore in questo modo volesse estendere ai provinciali la tassa di successione che gravava solo sui cittadini. Sembra però una notizia falsa, o quantomeno parziale.
Forse è più vicina al vero la motivazione ufficiale dell’editto, che parla della volontà di accrescere la gloria del popolo romano e dei suoi dèi grazie all’aumento dei cittadini. La romanizzazione e la politica di assimilazione e integrazione avevano sostanzialmente sortito i loro effetti e Caracalla sanciva ufficialmente un dato di fatto. I bisogni finanziari dell’impero
continuavano a crescere. Le spese erano determinate dai lavori pubblici (fra i quali le immense terme fatte costruire a Roma dall’imperatore), dall’amministrazione e, soprattutto, dall’esercito. I provvedimenti a favore dei soldati e l’aumento della loro paga non furono però
sufficienti a mettere al sicuro Caracalla. Nel 217, mentre guidava una spedizione contro il regno dei Parti, l’imperatore fu pugnalato dal prefetto del pretorio, Macrino, a capo di un complotto di ufficiali.
I giovanissimi Elagabalo e Alessandro Severo
Contando sul fatto che Caracalla era privo di figli e altri eredi diretti, Macrino (217218) si fece acclamare imperatore dalle truppe stanziate in Oriente. Tuttavia le donne dei
Severi e i sostenitori della dinastia non si rassegnarono alla perdita del trono. La zia di Caracalla, Mesa, e sua figlia, Soemia, fecero leva sul malcontento suscitato dalla politica militare di Macrino, che era stato sconfitto dai Parti e aveva ottenuto la pace pagando un riscatto al nemico. A Macrino venne contrapposto un giovinetto appena quattordicenne che,
in quanto figlio di Soemia, poteva vantare una parentela diretta con i Severi (si disse inoltre che era figlio illegittimo dello stesso Caracalla). Il grosso dell’esercito si schierò dalla
sua parte, e nel giro di pochi mesi Macrino fu sconfitto e ucciso.
Il nuovo imperatore, Elagabalo (218-222), regnò dai quattordici ai diciotto anni, ma fu
una semplice marionetta nelle mani della madre e dei suoi consiglieri. Cercò di introdurre
a Roma il culto del dio Sole venerato in Siria, El Gabal, del quale era sacerdote e da cui veniva anche il nome di Elagabalo. Questa politica religiosa
suscitò l’ostilità della maggioranza dei Romani, che inoltre erano
scandalizzati dagli eccentrici comportamenti del giovanissimo
sovrano. Venne orchestrata una vera e propria campagna di diffamazione. Si disse che il giovane imperatore era crudele e
dissoluto, che sacrificava al dio Sole ragazzi della nobiltà
romana, che era omosessuale, anzi ermafrodito, cioè dotato degli organi sessuali di entrambi i sessi. Lo scandalo
giunse a tal punto che la previdente nonna, Mesa, fece affiancare Elagabalo sul trono con un altro suo nipote, Alessandro Severo. Di lì a poco i pretoriani uccisero Elagabalo assieme alla madre, gettandone i cadaveri nella Cloaca
Massima, la grande fogna che attraversava la città.
Alessandro Severo (222-235) fu l’ultimo imperatore
della dinastia dei Severi. Anch’egli salì al trono molto giovane (tredici anni secondo alcune fonti, sedici secondo altre)
e nel governo seguì i consigli della nonna e della madre, Mamea. Aiutato da collaboratori eccellenti, come il grande giurista
Ulpiano, condusse una politica volta a ripristinare almeno in parte le prerogative del senato e a garantire una buona amministrazione.
I primi anni di regno trascorsero in pace, salvo alcune ribellioni interne
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
Alessandro Severo a
caccia
230
Cleveland Museum of Art,
Cleveland, Ohio, Usa
In questa coppa è
raffigurato un giovane a
cavallo mentre caccia,
identificato da alcuni
studiosi con Alessandro
Severo anche in base
all’iscrizione: Alexander
homo felix pie zeses cum
tuis («Alessandro, uomo
felice, vivi degnamente con
i tuoi fedeli»).
83
Massimino il Trace
III sec.
Musei Capitolini, Roma
La scultura esprime con
vigore la personalità di
questo imperatore-soldato
rude e deciso. In perfetta
sintonia con i tempi,
caratterizzati da continui
sconvolgimenti interni e
attacchi esterni, Massimino
e i suoi successori non si
fanno più rappresentare con
i sereni tratti idealizzati
propri dell’arte dei primi
secoli dell’impero, offrendo
un’immagine di sé severa,
segnata dalla responsabilità
dell’autorità suprema, ma
anche forte e volitiva.
dovute alle crescenti difficoltà finanziarie, che avevano costretto ad aumentare le tasse e a
diminuire la paga dei soldati.
In quegli anni si verificò in Oriente un avvenimento epocale, che molto avrebbe condizionato la storia dell’impero nei secoli successivi: nel 224 sul trono iranico avvenne un
cambio di dinastia. L’ultimo esponente degli Arsacidi, la dinastia dei re dei Parti salita al
potere intorno al 250 a.C., fu sconfitto in battaglia e ucciso dal fondatore di una nuova dinastia persiana, quella dei Sasanidi. Il programma della nuova dinastia era semplice: riconquistare tutti i territori che i Romani avevano sottratto all’impero persiano nel corso dei
secoli precedenti.
A Roma si capirono le devastanti conseguenze di questo cambio di dinastia solo con
qualche anno di ritardo. Tra il 230 e il 233 Alessandro Severo organizzò una spedizione in
grande stile, che avrebbe dovuto schiacciare qualsiasi velleità persiana di conquistare le
province romane orientali. Vennero fatte affluire in Oriente molte truppe provenienti dai
confini lungo il Reno e il Danubio e da altre province, e l’attacco fu preparato nei dettagli.
La spedizione andò però male a causa delle indecisioni dell’imperatore: i Persiani furono
sconfitti solo di misura e a prezzo di grandi perdite. La fiducia fra esercito e sovrano era
ormai incrinata, tanto più che molti sconfinamenti dei Germani rivelavano che anche l’idea di sguarnire i confini lungo il Reno e il Danubio era stata azzardata. Nel 235 Alessandro Severo fu ucciso dai soldati assieme alla madre mentre si trovava sul confine settentrionale. Con la sua morte ebbe fine la dinastia dei Severi.
1. Che cosa prevedeva l’editto di Caracalla? 2. In che modo l’arrivo della dinastia persiana Sasanide si
ripercosse sul mondo romano?
3. L’anarchia militare
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Massimino il Trace
Nei decenni successivi l’impero precipitò in una crisi sempre più profonda, sfiorando
più volte la catastrofe. “Anarchia militare”, il termine con il quale è chiamato questo periodo, indica bene la gravità di una situazione durante la quale il titolo imperiale venne
conteso fra il senato e le legioni, e poi fra i comandanti delle truppe stanziate nelle diverse province. Gli imperatori nominati dall’esercito potevano magari essere degli ottimi
capi militari, ma mancavano del prestigio e della legittimità necessari a farli rispettare.
Era facile trovare un altro generale desideroso di eliminarli e prenderne il posto.
Il minore prestigio di questi imperatori risulta chiaro già con Massimino il Trace (235238), l’ufficiale dell’esercito acclamato dalle truppe come successore di Alessandro Severo. Fino a quel momento il titolo imperiale era sempre toccato a personaggi della nobiltà
senatoria o comunque di buona famiglia. Massimino invece proveniva da una famiglia
umile, al punto che secondo alcune fonti da bambino l’imperatore avrebbe addirittura fatto il pastore. Era nato in una delle province meno romanizzate e più povere, la Tracia, e aveva percorso la carriera militare partendo dai gradi più bassi.
La sua preparazione culturale era davvero scarsa e ignorava del tutto il greco. A
suo vantaggio aveva però la fama che gli proveniva da una forza fisica impressio-
84
Parte VI La tarda Antichità
Sarcofago Ludovisi
III sec.
Museo Nazionale Romano,
Palazzo Altemps, Roma
A partire dalla fine del II
secolo, quando emerse il
problema della difesa dei
confini dell’impero dalla
penetrazione delle
popolazioni germaniche, si
diffuse la tendenza a
rappresentare nell’arte
grandiose battaglie in cui i
nemici venivano schiacciati
dai Romani. Il grande
sarcofago Ludovisi, di cui si
conserva la sola cassa senza
il coperchio, ritrae con toni
accesi e cruenti uno scontro
tra l’esercito romano e i
Germani.
nante e, soprattutto, una grande capacità di comando militare. La scelta di un imperatore così estraneo alla mentalità romana mostra quanto gli ufficiali dell’esercito fossero
preoccupati delle nuove minacce che incombevano sull’impero. Non soltanto in Oriente
toccava adesso fare i conti con l’aggressiva dinastia sasanide, ma notizie di cambiamenti
pericolosi giungevano anche dai territori situati oltre il Reno e il Danubio.
Al di là del Reno, la minaccia era determinata da una rivoluzione politica interna al mondo germanico. Per secoli i Germani erano stati divisi in piccole tribù, eternamente in dissidio fra loro e dunque militarmente deboli, salvo i rari casi in cui stabilivano una precaria alleanza. Ma proprio durante l’epoca dei Severi le tribù germaniche avevano imparato a mettere da parte le ostilità, dando vita a grandi confederazioni destinate a condurre guerre di attacco a Roma. Anche i nomi dati a queste confederazioni testimoniano il desiderio di creare un’organizzazione comune: gli Alamanni, che vuol dire ‘tutti gli uomini’, si costituirono lungo il corso meridionale del Reno, e più a nord i Franchi, cioè ‘i coraggiosi’. Più ad
est, nel bacino del Danubio, nuove popolazioni germaniche più aggressive e meglio organizzate, come i Vandali e i Goti, avevano sostituito quelle fino ad allora stanziate oltre il
confine, abituate a una convivenza relativamente pacifica con l’impero. Cosa forse ancora
più grave, adesso i guerrieri che attaccavano l’impero provenivano non solo dai popoli vicini al confine, ma anche da territori lontani, situati all’interno del continente: insomma, la
base del reclutamento delle bande che si misero a saccheggiare l’impero era l’intero mondo germanico. Questo spiega il gran numero degli attaccanti e la loro capacità di rimettere
in campo nuove forze anche dopo le sconfitte più dure. Per neutralizzare un simile pericolo, la soluzione era un’offensiva che si spingesse in profondità all’interno del mondo di
quelle popolazioni. Massimino e i suoi ufficiali avrebbero addirittura progettato di giungere fino al Mar Baltico. Ma una simile politica richiedeva grandi somme di denaro, e quindi
pesanti tasse. I contribuenti iniziarono subito a protestare, a partire dai senatori e dai grandi proprietari. Una rivolta violenta scoppiata in Africa ottenne nel 238 il sostegno della popolazione e del senato, che depose l’imperatore. I generali di Massimino soffocarono la ri-
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
85
volta africana, mentre l’imperatore guidò l’esercito verso l’Italia. Ma la situazione delle sue
legioni era pessima: mancavano i rifornimenti e generale era l’ostilità della popolazione. Alla fine Massimino fu ucciso dai suoi stessi soldati mentre assediava Aquileia.
Verso la disgregazione dell’impero?
Dopo la sua morte la situazione andò ancora peggiorando. Con la rivolta del 238 la società
romana aveva rifiutato una politica che desse il primato alle preoccupazioni militari, al prez-
Un imperatore schiavo
La
voce
PA
SSA
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del
Lo storico deve sempre sottoporre a un esame
critico le fonti trasmesse dal passato. Il suo scopo
non è soltanto quello di individuare eventuali
documenti falsi, ma anche di capire cosa le fonti
autentiche scelgono di raccontare e cosa scelgono di
tacere, e soprattutto perché raccontano quella data
versione dei fatti. Per esempio, le fonti di origine
persiana, romana e cristiana presentano in tre modi
davvero diversi la cattura e la prigionia di Valeriano
da parte del re persiano Shapur.
Le fonti persiane sono costituite soprattutto da una
lunga iscrizione che orna la tomba di Shapur,
raccontandone le vittorie in greco, persiano e parto. Il
testo è stato chiamato Imprese del divino Shapur. Ecco
il brano relativo alla cattura dell’imperatore. È illustrato
da un bassorilievo che mostra il re a cavallo mentre
tiene prigioniero Valeriano, ed è preceduto dall’elenco
delle venticinque province romane da cui proveniva
l’esercito sconfitto, forte di 70.000 uomini.
Una grande battaglia fu combattuta tra Carre ed Edessa
tra noi e il Cesare Valeriano, e noi lo catturammo facendolo prigioniero con le nostre mani, così come il prefetto
del Pretorio, i senatori, i generali e tutti gli ufficiali dell’esercito: tutti furono presi prigionieri e deportati in Persia.
[M. Sprengling, Shahpuhr I, the Great on the Kaabah of Zoroaster,
in The American Journal of Semitic Languages and Literatures, vol.
57, Chicago 1940, p. 379; trad. a cura degli autori]
Il testo persiano è volto a celebrare la grandezza del
sovrano defunto, e non parla della condizione di
Valeriano durante la prigionia. Per gli autori cristiani
la sorte capitata all’imperatore era viceversa della
massima importanza, perché ai loro occhi
rappresentava senza dubbio una punizione divina
Parte VI La tarda Antichità
per le sue persecuzioni contro i seguaci di Cristo:
Valeriano aveva creduto di risolvere alcuni aspetti
della crisi del mondo romano sostenendo il ritorno
alla tradizione anche in campo religioso e
perseguendo i cristiani che divenivano sempre più
numerosi (lo vedremo a breve: cfr. par. 5). Alcuni,
come Eusebio da Cesarea, raccontano che, schiavo,
Valeriano era oggetto di sberleffi e insulti; altri come
Aurelio Vittore sostengono che sarebbe stato
scorticato vivo. Il più accanito contro la memoria
dell’imperatore Valeriano è tuttavia un grande
scrittore cristiano, Lattanzio, che intorno al 320
scrisse un’opera incentrata proprio sul racconto
delle morti ingloriose inflitte da Dio agli imperatori
colpevoli di avere perseguitato i cristiani, La morte
dei persecutori. A suo dire Valeriano sarebbe stato
utilizzato come sgabello vivente da Shapur per
salire a cavallo; morto, sarebbe stato scuoiato,
riempito di paglia e affisso in un tempio persiano
come simbolo del trionfo sui Romani. Ecco quanto
scrive Lattanzio:
Dio lo colpì con un nuovo e strano tipo di punizione, perché testimoniasse ai posteri che gli avversari di Dio ricevono sempre degna ricompensa dei loro delitti. Fatto
prigioniero dai Persiani, perse non solo il potere di cui
tanto aveva abusato, ma anche la libertà di cui aveva
privato gli altri, e visse in un’ignominosa schiavitù. Infatti il re persiano Shapur, che lo aveva catturato, tutte le
volte che voleva salire su un cocchio o un cavallo ordinava al Romano di chinarsi e offrirgli la schiena; montandovi col piede sopra, ridendo diceva che quella era
la vera storia, e non quanto i Romani raffiguravano negli affreschi o sui dipinti. [...] Poi, quando Valeriano terminò la sua ignominosa vita in un simile disonore, venne scuoiato e la sua pelle, tinta di rosso, fu messa in un
tempio degli dèi barbari a ricordo di quell’eccezionale
zo di tasse elevate, e l’aristocrazia romana era ritornata al potere. Questo gruppo dirigente era
però incapace di portare avanti l’attacco in grande stile ai Germani voluto da Massimino: per
farlo sarebbe stato necessario rafforzare l’esercito senza badare alle spese e ai privilegi dei
maggiori contribuenti, cioè in primo luogo proprio degli stessi aristocratici. Gli imperatori
non furono più in grado di svolgere le funzioni principali, che bene o male fino ad allora erano riusciti a compiere: difendere i confini e far funzionare la macchina dello Stato. Nessuna
personalità sembrava capace di risolvere una situazione che diveniva sempre più seria.
Il trionfo di Shapur di
Persia su Filippo
l’Arabo e Valeriano
260
Nagsh-i Rustan, Persepoli,
Iran
Shapur I fece immortalare
le sue vittorie sui Romani
in cinque grandi rilievi
rupestri nella regione della
capitale Persepoli. In
questo rilievo,
significativamente
realizzato presso la tomba
del grande imperatore
persiano Dario I, Shapur è
ritratto a cavallo mentre
riceve l’omaggio e la
sottomissione di Filippo
l’Arabo, che gli si
inginocchia innanzi;
stringe, invece, con la
destra le mani giunte di
Valeriano a simboleggiare
la cattura dell’imperatore
romano.
trionfo e perché potesse essere sempre mostrata come
ammonimento agli ambasciatori romani.
[Lattanzio, La morte dei persecutori, V, 1-6, trad. a cura degli autori]
La tradizione romana cercò invece di rendere meno
gravosa la catastrofe. Si inventò allora che la cattura
di Valeriano sarebbe avvenuta in seguito a un
tradimento da parte di Shapur ai danni d’un
imperatore colpevolmente ingenuo:
Valeriano, volendo mettere fine alla guerra con donazioni di denaro, inviò ambasciatori a Shapur, che però li
rimandò indietro senza aver concluso nulla, chiedendo
invece di incontrarsi con l’imperatore romano per discutere di persona con lui. Accettata le risposta senza riflettere, Valeriano si recò da Shapur in modo incauto insieme a pochi soldati e fu catturato all’improvviso dal nemico. Morì prigioniero tra i Persiani, causando grande
disonore al nome romano presso i suoi posteri.
[Zosimo, Storia nuova, I, 36.2, trad. a cura degli autori]
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
87
Busto di Gordiano III
238-244
Da Ostia Antica; Museo
Nazionale Romano, Palazzo
Massimo, Roma
inflazione
Con questo termine (dal latino
inflatio, ‘gonfiamento’) si indica
il processo di aumento dei
prezzi.
88
Con Gordiano III (238-244), un
giovanissimo imperatore guidato da
influenti senatori, la situazione economica si aggravò, le entrate dello Stato
divennero sempre più insufficienti e il
reclutamento di nuove truppe fra i cittadini più difficile. L’impero riuscì comunque ad agire unitariamente e a
fronteggiare in qualche modo i pericoli esterni. L’esercito fu rafforzato assoldando come mercenari molti Germani. I barbari vennero provvisoriamente fermati e fu organizzata nel 243
una spedizione contro il re persiano
Shapur I (i Romani lo chiamavano Sapore) per riconquistare la Mesopotamia. All’inizio i Persiani furono ripetutamente battuti in molti piccoli scontri, ma quando infine i due eserciti si
scontrarono nella grande battaglia di
Misiche, nel 244, i Romani ebbero la
peggio. Lo stesso Gordiano morì per le ferite riportate nello scontro.
Nella situazione di assoluta emergenza, le truppe acclamarono imperatore il prefetto del
pretorio, Filippo detto l’Arabo (244-249) perché originario della provincia romana dell’Arabia. Ottenuta la pace con Shapur grazie al pagamento di un cospicuo tributo in oro, il
nuovo imperatore si affrettò a tornare a Roma. Qui organizzò sontuosi festeggiamenti per
celebrare il millesimo anniversario della fondazione di Roma, che secondo la tradizione antica era avvenuta nel 753 a.C. Migliaia di gladiatori e di belve parteciparono ai giochi. Nell’esercito, però, l’insoddisfazione montava. Lungo i confini le truppe erano sottoposte a una
crescente pressione del nemico, mentre l’inflazione riduceva il potere d’acquisto del soldo
versato ai legionari. Il mestiere di soldato era ormai diventato rischiosissimo e di poco profitto. Le legioni della Pannonia si ribellarono, proclamando imperatore il loro generale, Decio (249-251), che venne in Italia con truppe fedeli, sconfisse Filippo l’Arabo e l’uccise.
Nel periodo successivo l’Impero divenne in pratica ingovernabile. Ciò che fino a quel
momento era stata un’eccezione si trasformò in norma: i soldati e gli ufficiali proclamavano imperatore il proprio comandante, sicuri di ricevere doni e promozioni. Se poi restavano insoddisfatti, lo eliminavano per puntare su un nuovo candidato. Accadeva inoltre che
le legioni situate in diverse parti dell’impero eleggessero ciascuna un proprio imperatore.
Lotte civili terribili si scatenavano allora fra i candidati, e le legioni combattevano fra loro all’interno dell’impero, devastandone i territori e trascurando la difesa dai nemici esterni. Nessuno diede per esempio fastidio ai Goti che tra il 261 e il 262, dopo avere razziato
i territori del Mar Nero, con semplici barche da pescatori entrarono nel Mediterraneo e depredarono per bene l’Asia Minore: nei mesi precedenti, le lotte fra due contendenti al trono avevano fatto piazza pulita degli eserciti romani nei Balcani e in Asia Minore.
Furono anni di continue calamità. A metà secolo ricomparve un’epidemia letale, Decio
morì combattendo contro i Goti, il re persiano Shapur invase la Siria e avanzò in Asia Minore, lungo il Danubio e il Reno gli attacchi di Goti e altri popoli germanici si succedeva-
Parte VI La tarda Antichità
no senza tregua, mentre le legioni combattevano fra loro per imporre i propri candidati. Con
Valeriano (253-260) alcuni iniziali successi
militari contro i Persiani si trasformarono in
una catastrofe quando, nella battaglia combattuta nel 260 ad Edessa per difendere la riconquistata provincia di Siria, l’imperatore fu
sconfitto e fatto schiavo da Shapur.
L’enormità di questo evento scatenò una reazione a catena dirompente, che sembrò mettere
fine all’unità stessa dell’impero. Le armate
schierate ai confini, prese dal panico, cercarono
la salvezza proclamando una serie di usurpatori.
Molti vennero uccisi dai nemici o si eliminarono a vicenda, ma l’imperatore legittimo, Gallieno (260-268) dovette di fatto rinunciare a governare metà dell’impero. In Occidente l’usurpatore Postumo aveva creato lo Stato autonomo detto “impero delle Gallie”, che oltre alla Gallia comprendeva la penisola iberica e la Britannia. Tutto l’Oriente era passato sotto Odenato,
il capo della fiorente città di frontiera di Palmira che era riuscito a cacciare l’esercito persiano; formalmente governava per conto dell’imperatore, ma di fatto era un sovrano autonomo e
aveva il titolo di re.
1. Per quale motivo fu deposto Massimino il Trace? 2. In quale contesto si moltiplicarono le scorrerie dei
Germani e gli attacchi dei Persiani?
Arco monumentale sulla
via di Palmira
III sec.
Nel corso del I secolo d.C.
Palmira assunse il primato
nei traffici commerciali con
il regno dei Parti, con
l’India, con l’Estremo
Oriente. Intorno al 225 il
potere si concentrò nelle
mani di un importante casato
che con Odenato assunse
formalmente il compito di
difendere tutto l’Oriente
romano dai Persiani e dagli
usurpatori, ottenendo pieno
successo.
La crisi
dell’impero
BRITANNIA
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Marcomanni
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MACEDONIA
Efeso
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Sparta
Antiochia
Province soggette
a Odenato
Palmira
Ctesifonte
Stato autonomo
soggetto a Postumo
D I
MAR MEDITERRANEO
Territori dell’impero
(dopo il 260)
REGNO
SASANIDE
Cirene
Regno sasanide
O
Alessandria
Pressioni persiane
sui confini
E
EGITTO
Nilo
CIRENAICA
G
N
Invasioni dei popoli
germanici
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GALLIA
Germani
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
89
4. La ripresa dell’impero
e Diocleziano
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Gallieno e gli imperatori-soldato dell’Illiria
Il Palazzo di Diocleziano
a Spalato
Disegno ricostruttivo di
Ernest Hébrad, Parigi 1912
Presumibilmente tra il 293 e
il 305, Diocleziano fece
erigere a Spalato, città in
cui nacque, la sua dimora
personale che abitò fino
all’anno della morte (316).
Strutturato come quello di
una cittadella fortificata
(difatti costituisce il nucleo
dell’antico centro storico
della città), l’impianto era
protetto da mura poderose
intervallate da torrioni e
porte d’accesso. All’interno
si dislocavano vari edifici
tra cui la residenza
personale dell’imperatore,
dotata di una basilica
privata e di una terma, un
tempio, e il mausoleo
imperiale. La cittadella
presenta la pianta tipica
degli accampamenti militari
romani, con due strade
perpendicolari e intersecate,
il cardo e il decumanus.
Nonostante i rovesci militari e le lacerazioni interne, il grande e prospero organismo
creato nei secoli precedenti da Roma disponeva ancora di molte energie. Postumo in Gallia, Odenato in Oriente e Gallieno lungo il Danubio respinsero numerosi attacchi dei nemici esterni, anche se a volte i saccheggiatori germanici riuscivano a penetrare in profondità nell’impero prima di essere costretti alla fuga. Anche l’Italia fu colpita, mentre i Goti
saccheggiarono la Grecia bruciando nel 267 Atene, centro della cultura del mondo mediterraneo.
La crisi spinse Gallieno a intraprendere importanti riforme. Sul piano militare, rafforzò
la cavalleria, che era indispensabile per raggiungere in breve tempo le schiere barbare che
entravano nell’impero. Il sistema difensivo romano cambiò natura, smettendo di basarsi
solo sulla difesa del limes, cioè di una linea di confine fortificata, per passare a una difesa
in profondità: anche centri lontani dalle frontiere furono dotati di fortificazioni e truppe, in
modo da resistere fino all’arrivo della cavalleria e degli altri reparti di pronto intervento.
Sul piano politico, poi, l’imperatore vietò ai senatori di comandare le legioni. Ebbe così fine l’antichissima tradizione romana secondo cui i senatori erano allo stesso tempo amministratori civili e comandanti militari: da allora il potere civile e le funzioni militari sarebbero stati distinti.
Nel 268 Gallieno fu ucciso in un colpo di Stato organizzato da ufficiali provenienti dall’Illiria, una zona dei Balcani molto esposta agli attacchi germanici, che misero sul trono
un imperatore del proprio gruppo, Claudio II (268-270). Iniziò così una serie di imperatori-soldato di origine illirica: personalità rudi, ma abituate al comando delle truppe e sensibili alle necessità della difesa militare.
Sui campi di battaglia l’esercito romano andava ritrovando la sua superiorità. Già Gallieno aveva trionfato sui Goti a Naisso, nel 267; negli anni successivi i barbari furono massacrati senza pietà da Claudio II quando tornarono in massa assieme alle famiglie, per la
prima volta intenzionati non solo al saccheggio,
ma a un vero e proprio trasferimento nei territori imperiali. Per celebrare la vittoria, Claudio
ottenne il titolo di “Gotico Massimo”. L’imperatore successivo, Aureliano (270-275), era il
comandante della cavalleria. Abbandonata la
Dacia, provincia situata oltre il Danubio e ormai non più difendibile, concentrò tutte le energie per ricacciare con successo vari popoli barbari e, inoltre, per porre fine agli Stati autonomi di Palmira in Oriente e delle Gallie in Occidente. L’impero ritrovava così la sua unità.
Diocleziano e la tetrarchia
Continuava tuttavia una forte instabilità istituzionale. Aureliano e anche i suoi successori
caddero vittime di congiure ordite dagli ufficia-
90
Parte VI La tarda Antichità
li dell’esercito. La svolta avvenne infine nel 285, quando un ufficiale di origine illirica prese il potere dopo avere ucciso in battaglia l’imperatore del momento, Carino. Il nuovo imperatore assunse il nome di Diocleziano (285-305). Nella storia di Roma cominciava una
nuova epoca.
Diocleziano riuscì dove i suoi predecessori, militari di carriera come lui, avevano fallito: diede stabilità e sicurezza all’impero. Questo risultato fu raggiunto attraverso una serie
impressionante di riforme, in ogni campo: il sistema fiscale fu reso più efficiente, l’apparato amministrativo venne ampliato e migliorato, la divisione in province fu razionalizzata, le truppe aumentarono in numero ed efficienza, l’intervento dello Stato nella vita economica divenne massiccio (ci torneremo nei paragrafi successivi: cfr. parr. 7-9).
L’autorità dell’imperatore crebbe a livelli mai conosciuti in passato. Da Augusto in poi,
gli imperatori avevano sempre dovuto lasciare un certo potere, più o meno grande a seconda del momento, al senato e all’esercito. Formalmente essi si dichiaravano “principi”, cioè
primi fra i cittadini. Ma con Diocleziano l’imperatore divenne un sovrano con poteri assoluti, che controllava l’esercito e lasciava al senato soltanto una funzione di rappresentanza. La nuova concezione del potere imperiale si manifestava anche esteriormente: l’imperatore indossava abiti lussuosi, viveva fra lo sfarzo in palazzi chiusi anche ai maggiori
senatori, poteva essere avvicinato soltanto in casi eccezionali e rispettando un cerimoniale simile a quello dei sovrani
orientali, compreso l’umiliante rituale della proskỳnesis,
l’inchino fino a terra. Mise da parte definitivamente la maschera di princeps e assunse il titolo di dominus, ‘signore’
assoluto: per questo gli storici affermano che con Diocleziano l’impero passò dal “principato” al “dominato”.
Tutti questi successi furono resi possibili da un nuovo sistema di comando, detto “tetrarchia”, cioè governo dei quattro. Le travagliate vicende dell’ultimo secolo avevano mostrato con chiarezza che un solo imperatore non era in grado
né di governare e difendere l’immenso impero, né di impedire i colpi di Stato. Era molto meglio che a suo fianco sul trono sedesse un co-imperatore di fiducia, possibilmente suo
stretto parente. Nella difesa dai nemici, le possibilità di vittoria crescevano se le truppe erano comandate direttamente
dall’imperatore. Già Valeriano, per esempio, aveva voluto essere affiancato dal figlio Gallieno, nominato “secondo Augusto”, lasciandolo a presidiare i territori occidentali dell’impero mentre lui andava a combattere (e morire) in Oriente. In
questo modo era possibile diminuire anche il pericolo di congiure: non solo la nomina di un altro Augusto rendeva chiaro
a tutti il successore designato, ma ogni aspirante usurpatore
sapeva che, eliminato con la congiura un imperatore, avrebbe immediatamente subìto la reazione dell’altro.
Diocleziano portò al massimo sviluppo questo sistema.
Dopo un anno, nel 286, associò alla guida dello Stato il suo
braccio destro, il generale Massimiano, al quale affidò il governo della parte occidentale dell’impero, riservando a sé la
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
I tetrarchi
300-305
Basilica di San Marco,
Venezia
Questa scultura in porfido,
proveniente probabilmente
dalla Siria, rende con
semplicità e immediatezza
l’idea alla base della
tetrarchia: prive di qualsiasi
intento ritrattistico (nessun
sovrano è riconoscibile in
particolare) le statue
esprimono la compattezza
dei quattro imperatori uniti
nell’abbraccio.
91
La tetrarchia come soluzione
per la successione
La tetrarchia come soluzione
per il controllo del territorio
parte orientale, più ricca e popolosa. Nel 293 i due “Augusti” nominarono a loro volta due
“Cesari”, Galerio e Costanzo Cloro. Erano tutti ufficiali scelti per la provata esperienza
come comandanti e amministratori: l’impero tornava al principio della scelta del migliore. Ognuno dei quattro tetrarchi governava su una porzione dei territori imperiali, ma i Cesari erano subordinati agli Augusti, e su tutti primeggiava Diocleziano.
Lo Stato restava un organismo unitario, dove sotto l’autorità di Diocleziano tutti i tetrarchi adottavano la stessa politica estera e le stesse riforme interne. Adesso, però, ogni
settore dell’impero poteva contare su un responsabile della difesa e dell’amministrazione.
Le quattro capitali dei tetrarchi erano situate vicino ai confini, per meglio intervenire nelle zone più esposte a minacce esterne. I due Cesari risiedettero in città lungo il Reno (Treviri) e il Danubio (Sirmio, oggi in Serbia); Massimiano governò l’Occidente da Milano, vicina al confine settentrionale dell’Italia, mentre Diocleziano si insediò a Nicomedia, in Asia
Minore, al controllo degli stretti fra Mar Nero e Mediterraneo e in buona posizione per intervenire sul basso Danubio e contro i Persiani.
Roma perdeva la sua funzione di sede dell’impero. Già da alcuni decenni, in realtà, gli
imperatori preferivano risiedere altrove, lontano dalle richieste dei senatori e più vicino alle loro truppe. Ma ora l’antica città veniva privata con una formale decisione del suo ruolo di capitale: un chiaro modo per proclamare che le forze sane ancora capaci di aiutare
l’impero erano altrove, in Oriente e lungo i confini. Roma manteneva il prestigio di grande metropoli e di antica capitale, ma perdeva di importanza politica. Il suo senato, ormai,
era lontano dall’imperatore e dagli uffici che dirigevano l’impero. Ben poco restava della
sua antica grandezza.
L’ordinamento
tetrarchico
Massimiano
MARE DEL
NORD
Diocleziano
Territori assegnati
agli Augusti (286)
Costanzo Cloro
BRITANNIA
Galerio
REGIONE
DI VIENNE
no
Treviri
Re
Lutetia
GALLIA
Confini delle diocesi
Ge
rm
an
i
Marcomanni
Dan
Qu
ubio
adi
Capitali dell’impero
ITALIA Nome delle diocesi
PANNONIA
Milano
O
Sirmio
Cordova
Cadice
ITALIA
Roma
MESIA
Cartagena
AFRICA
Cartagine
Palermo
R
M
Atene
ED
IT
i
Nicomedia
Antiochia
Palmira
E
R
Damasco
R
Gerusalemme
Cirene
Alessandria
N
O R I E
Nilo
Parte VI La tarda Antichità
REGIONE
DEL
PONTO
Efeso ASIA
AN
EO
Leptis Magna
92
Trapezunte
TRACIA
Bisanzio
Tessalonica
MA
ot
MAR NERO
Marsiglia
Terranova
og
Visigoti
Ravenna
SPAGNA
r
st
E
Londra
OCEANO
ATLANTICO
Province assegnate
ai Cesari (293)
T
Oltre a rendere più efficace
difesa e governo, il sistema della tetrarchia aveva lo scopo di
impedire usurpazioni (chi mai
sarebbe riuscito a eliminare tutti e quattro i tetrarchi?) e di regolare la successione al trono.
Sin dall’inizio era previsto che
alla morte di un Augusto il suo
posto sarebbe stato preso dal rispettivo Cesare; a sua volta,
questi avrebbe nominato un altro Cesare come proprio successore. Alcuni storici fantasiosi
hanno pensato fosse stato stabilito di far durare un ventennio il
regno di ciascuno dei tetrarchi,
ma anche senza immaginare un
simile meccanismo il sistema
era davvero complicato, e si inceppò infatti alla prima prova. Nel 305 Diocleziano decise che era giunto il momento di lasciare il potere ai due Cesari, e convinse Massimiano ad abdicare. Su pressione degli Augusti uscenti, i due nuovi Cesari furono scelti fra i comandanti di valore, senza tenere conto che Massimiano e Costanzo Cloro avevano entrambi un figlio ventenne: rispettivamente Massenzio e Costantino. La scelta dei nuovi Cesari (e futuri Augusti) andava dunque a
cozzare con il principio dell’ereditarietà del potere, molto forte proprio fra i militari. La
successione fu presto contestata, portando a un’ennesima guerra fra i pretendenti al trono, che durò dal 306 al 312 ed ebbe termine, come vedremo, con la vittoria di Costantino.
1. Quali importanti riforme promosse Gallieno? 2. Come funzionava la tetrarchia ideata da Diocleziano?
5. Le persecuzioni
dei cristiani
La Porta Nigra di Treviri
II-III sec.
Treviri, Germania
Treviri (oggi Trier) fu un
centro importante della
Gallia Belgica grazie alla
sua posizione strategica su
un corso d’acqua che
facilitava l’accesso alle
fortificazioni del Reno. Nel
287 Diocleziano la scelse
come capitale della parte
occidentale dell’impero. La
cosiddetta “Porta Nigra”,
alta circa 30 metri, è l’unico
edificio pervenutoci
dell’imponente sistema
difensivo della città in
epoca imperiale.
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
La crisi del paganesimo
Gli scrittori e l’arte del III secolo testimoniano ansie religiose e una insoddisfazione crescente verso gli antichi culti pagani. Il fenomeno era cominciato lentamente nel I secolo e
si era sviluppato in quello successivo; ma a partire dall’età dei Severi divenne fortissimo.
In mezzo ai disordini militari, alla crisi politica e alle epidemie, il politeismo tradizionale sembrava una religione troppo formale, che dava peso solo all’esteriorità dei rituali e si
disinteressava ai problemi che sempre più angosciavano il fedele: come posso avvicinarmi alla divinità, e come posso garantire la sopravvivenza e il destino della mia anima dopo la morte?
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
93
Le catacombe
Le catacombe sono i più noti monumenti creati dalle prime comunità cristiane. Si tratta di lunghe e strette gallerie sotterranee, che
si incrociano formando una rete intricata e si sviluppano su più piani, raggiungendo talvolta notevoli profondità. Nelle pareti, da terra al soffitto, sono scavati loculi orizzontali, cioè tombe destinate
ad accogliere i corpi dei fedeli. Nelle catacombe più visitate i loculi oggi sono quasi tutti aperti e vuoti; però in origine erano sigillati da mattoni, tegole, blocchetti di pietra o lastre di marmo. Questi cimiteri sotterranei sono numerosi soprattutto a Roma, ma catacombe sono state trovate anche in altre regioni italiane, in Egitto
e in altre province dell’impero.
Le catacombe vennero costruite a partire dalla seconda metà del II
secolo, quando i cristiani abbandonarono l’abitudine iniziale di
seppellire i loro defunti assieme ai membri di altre religioni, in cimiteri a cielo aperto. Operai specializzati, chiamati fossores (‘scavatori’), si occupavano dello scavo delle gallerie e della sepoltura
dei defunti. Talvolta sulla chiusura del loculo veniva inciso o dipinto il nome del defunto; più spesso la tomba era anonima. Intorno all’apertura del loculo venivano fissati piccoli oggetti, come lucerne, ampolle, monete, statuine, conchiglie. Lo scopo di
questi oggetti era molteplice: servivano ai parenti per riconoscere il loculo; erano manifestazioni di affetto per il defunto; rappresentavano una specie di corredo funebre posto all’esterno della
tomba, cioè oggetti che potevano servire al defunto nella vita ultraterrena (è probabile, per esempio, che si riprendesse l’uso pagano di lasciare al morto una moneta per pagare Caronte, il mitico traghettatore delle anime verso l’aldilà).
Le catacombe proteggevano bene i corpi, cosa importante per i
cristiani, i quali credevano che la morte fosse un lungo sonno in
attesa della resurrezione. Inoltre permettevano ai fedeli di visitare le tombe dei parenti. Le catacombe erano frequentate anche per
pregare presso i sepolcri dei martiri, contraddistinti da un aspetto
più monumentale e da decorazioni. I loculi dei fedeli erano invece tutti simili, perché i primi cristiani rifiutavano di sfoggiare nelle tombe ricchezza e professione dei defunti. Tutti cercavano di
farsi seppellire accanto ai corpi dei martiri, per essere protetti dal-
la loro santità anche dopo la morte, e per questa ragione cunicoli e
loculi si infittivano vicino alle tombe dei martiri più venerati.
L’usanza della sepoltura in gallerie sotterranee fu abbandonata nel
V secolo, e le catacombe divennero allora un luogo di pellegrinaggio ai sepolcri dei martiri. Pian piano i corpi dei martiri vennero
però trasferiti all’esterno, nelle chiese cittadine, e gli antichi cimiteri persero ogni motivo di attrazione. Già prima del 1000 le frane
avevano ostruito le scale di accesso e se ne era perso il ricordo.
Quando in età moderna le catacombe vennero riscoperte, intorno
ad esse fiorirono le leggende. La più comune, del tutto infondata
ma ciononostante continuamente ripetuta, vuole che le gallerie sotterranee siano servite come rifugio dei cristiani per salvarsi dalle
persecuzioni. Ma le catacombe in realtà erano luoghi ben noti alle
autorità e si sarebbero trasformati in trappole mortali per chi avesse voluto cercarvi rifugio.
Catacombe di Priscilla
III sec.
Roma
Scena con banchetto
eucaristico
III sec.
Dalle Catacombe di Priscilla
La fotografia mostra la
galleria centrale del primo
piano delle Catacombe di
Priscilla a Roma. Nella sala
detta “Cappella Greca” si
conserva la preziosa
decorazione parietale che
vediamo nella seconda figura,
in cui si celebra il momento
eucaristico della fractio panis
(‘spezzare il pane’), gesto
compiuto da Cristo durante
l’Ultima Cena.
94
Parte VI La tarda Antichità
Nelle classi colte e abbienti, queste
esigenze spirituali erano alimentate
dalla diffusione di un nuovo movimento filosofico, il neoplatonismo.
Fondata da Plotino (204-270), anche
questa filosofia invitava a distaccarsi
dal mondo e a badare soltanto alla salvezza ultraterrena. Fra la maggioranza
della popolazione che ancora restava
attaccata al paganesimo tradizionale,
le nuove ansie religiose assumevano la
forma di una crescente paura dei demoni e della magia.
Il cristianesimo però, come sappiamo, prese progressivamente piede
presso la popolazione e lentamente anche tra le classi elevate [cfr. cap. 13.6].
Il successo di questa religione e di
molte altre d’origine orientale, come il
culto di Mitra e quello di Iside, stava nel fornire, ciascuna in modo diverso, risposte migliori della religione tradizionale alle inquietudini spirituali dell’epoca, indicando la via per la
salvezza, proponendo una pratica religiosa coinvolgente e promettendo una solida protezione contro le “forze del male”. A lungo la crescita del cristianesimo progredì di pari passo alla diffusione dei nuovi culti. Anzi, alcuni di questi apparivano ancora più attraenti. I fedeli
di Mitra o Iside infatti non dovevano disconoscere i culti pagani tradizionali o coltivare l’amore per la povertà, come facevano i cristiani. Dal canto suo però, il cristianesimo opponeva alle religioni concorrenti la chiarezza della dottrina, il rigore etico e soprattutto la forte
solidarietà che vigeva fra i membri delle comunità cristiane. Alla metà del III secolo divenne così la religione in maggiore crescita.
Perché le persecuzioni nel III secolo?
Le persecuzioni non rappresentarono mai un grave ostacolo alla propagazione della fede cristiana. Dopo la persecuzione di Nerone contro la comunità cristiana di Roma [cfr. cap.
13.2], per quasi due secoli erano restate sporadiche e di carattere locale. La stragrande maggioranza dei cristiani viveva tranquilla, anche se tutti dovevano mettere in conto la possibilità che il governatore della provincia o i curiali alla guida della città decidessero di imporre loro di rinunciare alla fede e punissero chi si rifiutava. Il vero fedele doveva allora
resistere, sfidando il supplizio e la morte, testimoniando così la forza della sua fede. Per
questo motivo le vittime delle persecuzioni vennero chiamate martiri, da una parola greca
(màrtyr) che vuol dire ‘testimone’.
Le cause delle persecuzioni erano molte. La diffidenza popolare era pronta a incolpare
la nuova e strana religione delle catastrofi naturali più inspiegabili; contro i cristiani venivano mosse le accuse più gravi, compresa quelle di commettere incesti e di praticare il cannibalismo. Inoltre, i Romani erano fanatici della tradizione e del valore delle usanze degli
antenati: ai loro occhi il cristianesimo, una setta recente, era per ciò stesso ingiustificato.
Quando poi, nel III secolo, la fede cristiana iniziò a diffondersi molto anche fra i ceti superiori, presso i quali aveva fino ad allora avuto modesto successo, gli imperatori si resero
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
Sarcofago di Plotino
III sec.
Museo Gregoriano Profano,
Roma
Questo sarcofago è
tradizionalmente ricordato
come l’urna contenente le
spoglie del filosofo
neoplatonico Plotino. Al di
là della veridicità
dell’informazione, la sua
decorazione risulta di
grande interesse perché
raffigura una scena di
dissertazione filosofica,
soggetto insolito per un
sarcofago, decorato
solitamente con scene di
battaglia. L’inconsueta
soluzione sopraggiunse con
la decisione dell’imperatore
Gallieno di privare la classe
senatoria romana dei poteri
militari, che scelse dunque
di glorificare la propria
memoria tramite
un’iconografia di tipo
intellettuale. Qui, il defunto
è raffigurato nell’atto di
srotolare un rotolo di
papiro, accompagnato da
due filosofi barbuti e due
figure femminili che si
atteggiano a Muse.
95
La grotta dei Sette
Dormienti
III-V sec.
Efeso, Turchia
Questa necropoli cristiana
costituisce ancora oggi un
centro di devozione per
tutta la comunità cristiana
per via di un’antichissima
leggenda, in cui si narra la
storia di sette giovani
sfuggiti alla condanna
imposta ai cristiani
dall’imperatore Decio.
Rifugiatisi in questa grotta,
i sette si addormentarono
(di qui il nome della grotta)
e si risvegliarono anni e
anni più tardi, quando le
persecuzioni erano da
tempo cessate.
conto della minaccia che incombeva sulla religione tradizionale. Iniziarono quindi le prime persecuzioni
generali, promosse dagli imperatori
ed estese in tutto l’impero.
La prima persecuzione generale
iniziò nel 250 (falsa è invece la notizia di una precedente persecuzione
voluta da Massimino il Trace). L’imperatore Decio ordinò a tutta la popolazione di effettuare sacrifici agli
dèi perché ponessero fine alle difficoltà dell’impero. I cristiani non venivano nominati nell’editto, ma si sapeva che proprio loro si sarebbero rifiutati di compiere sacrifici pagani.
La repressione fu dura ma di breve
durata, poiché cessò nel 251 alla
morte di Decio. Ben più grave fu la
persecuzione lanciata nel 257 da Valeriano, che fece molti martiri e portò al sequestro delle chiese e dei loro beni. Venne interrotta solo dalla caduta di Valeriano in mani persiane nel 260, subito interpretata dai cristiani come un meritato castigo divino. Gallieno e i suoi successori cambiarono politica:
fermarono le persecuzioni fino al 303, restituirono le chiese e i beni sequestrati ai cristiani
e di fatto permisero una parziale libertà di culto. Si verificò allora una fulminea espansione del cristianesimo, i cui effetti si videro bene quando, nel 303, Diocleziano volle intervenire nell’ultimo settore che fino a quel momento era rimasto trascurato dalla sua infaticabile attività di riforma: la questione religiosa.
Nella sua ottica conservatrice, per fare durare nel tempo la restaurata potenza di Roma
occorreva garantire il sostegno degli dèi tradizionali. Ed invece i cristiani erano ora moltissimi, almeno in Africa, Egitto, Asia Minore e Oriente. Se non se ne bloccava l’espansione, la Chiesa sarebbe divenuta una potenza invincibile. Nel 303 un editto impose al clero
di consegnare i libri sacri. I vescovi e i preti che ubbidirono furono bollati dai fedeli con
il termine di traditores (‘coloro che hanno consegnato’: dal verbo trado, ‘consegno’): una
parola che ha conservato fino ad oggi un significato negativo. Altri editti inflissero il carcere e la morte a quanti non rinnegavano la fede. La persecuzione fece migliaia di morti, e
durò un decennio, raggiungendo il culmine fra il 308 e il 311.
Ma il cristianesimo era troppo diffuso e la stessa popolazione pagana, che ormai conosceva bene i cristiani, aveva abbandonato l’ostilità e non credeva più alle antiche accuse.
In molte città i ceti dirigenti non diedero alla repressione imperiale il sostegno necessario
al successo. Per quanto duramente colpite, le comunità cristiane resistettero. La definitiva
cristianizzazione dell’impero diventava una possibilità concreta.
1. Quali fattori determinarono la crescita del cristianesimo rispetto ad altri culti? 2. Per quale motivo gli
imperatori decisero di promuovere la persecuzione dei cristiani?
96
Parte VI La tarda Antichità
6. I problemi finanziari
e monetari dell’impero
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Rimedi per “fare cassa”
Sebbene gli studi più recenti escludano che il III secolo sia stato caratterizzato da un’enorme crisi economica e dal crollo della popolazione, nessuno nega l’esistenza di gravissime
difficoltà finanziarie. Già alla fine del II secolo gli imperatori incontravano problemi crescenti
nel far fronte alle spese dello Stato, perché il vaiolo aveva fatto diminuire la popolazione (e
dunque i proventi derivanti dalle imposte) e le guerre contro i Germani avevano devastato alcune province e costavano molto. Nel secolo III la crisi politica e militare aggravò ancora le
cose, imponendo di ricorrere ad ogni mezzo per trovare il denaro necessario allo Stato.
Per aumentare le entrate gli imperatori potevano seguire tre strade. La prima, naturalmente, era aumentare le tasse. Ma le tasse non potevano salire all’infinito, perché oltre un
certo livello suscitavano rivolte come quella scoppiata nel 238 contro Massimino il Trace
[cfr. par. 3]. Oppure finivano per danneggiare l’economia, accrescere le masse impoverite
e aumentare il numero di quanti si davano al banditismo, un fenomeno che non a caso proprio durante il III secolo raggiunse grandi dimensioni. Il secondo mezzo per aumentare le
entrate era la confisca dei patrimoni degli avversari politici. Proprio reprimendo i senatori ostili Settimio Severo non soltanto aveva eliminato l’opposizione, ma aveva ripianato il
bilancio dello Stato: con il prodotto delle proprietà sequestrate in Africa poté anche iniziare a distribuire olio gratuito alla plebe romana.
La svalutazione della moneta
La terza strada per accrescere le entrate imperiali era peggiorare la moneta, cioè svalutarla producendone una quantità maggiore. A noi, abituati alle banconote di carta, il meccanismo può sembrare strano, ma in realtà era semplice. Va ricordato, infatti, che nel mondo antico (e medievale) la moneta era una “moneta metallica”. Questa espressione non indica semplicemente una moneta fatta di metallo, come
quelle che usiamo oggi per i piccoli acquisti,
ma qualcosa di più: indica la moneta il cui valore non era stabilito dallo Stato, ma dipendeva dalla quantità di metallo prezioso (oro e argento) che era stato usato per fabbricarla. Lo
Stato che possedeva le zecche dove venivano
coniate le monete poteva dunque guadagnare
diminuendo la quantità di metallo prezioso
contenuto nelle monete: il peso complessivo
veniva lasciato uguale, ma una parte dell’oro o
dell’argento era sostituita con metallo di scarso valore, come il rame o il bronzo.
Se questa operazione di peggioramento
della moneta era fatta bene e a piccoli gradi, i
consumatori non se ne accorgevano nemmeno. Dalla fine del I alla fine del II secolo la
principale moneta romana, il denaro d’argento, venne peggiorata di continuo ma in modo
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
Giara contenente monete
romane d’argento
III sec.
Da Falkirk, Scozia; National
Museum of Scotland,
Edimburgo
97
impercettibile. La riduzione del metallo prezioso contenuto in ogni moneta divenne invece forte a partire da Settimio Severo, e crebbe poi sempre di più. Per esempio la nuova moneta istituita nel 215 da Caracalla, l’antoniniano, vent’anni dopo conteneva soltanto il 40%
di argento, dopo altri vent’anni appena il 20% e un quindicennio più tardi, nel 270, appena
il 2%.
Quando avvenivano svalutazioni di questa portata, tutti finivano per rendersene conto:
per qualche tempo, però, l’imperatore aveva monete in abbondanza per pagare le sue spese. Ma presto i prezzi iniziavano ad aumentare, dando vita al processo che gli economisti
chiamano inflazione [cfr. par. 3]: per comprare i beni serviva un maggior numero di monete. In Egitto, per esempio, una misura di grano costava 8 antoniniani intorno al 240 e 14 un
ventennio più tardi. In certi momenti, nel corso del III secolo, l’inflazione raggiunse un ritmo così elevato da danneggiare le attività economiche.
I prezzi cessarono di aumentare solo dopo il 312, quando anche grazie alle riforme intraprese da Diocleziano l’impero tornò a disporre di grandi quantità di metallo prezioso per
coniare monete di buona qualità. Per rendere più facili i pagamenti di piccole somme, l’imperatore coniò inoltre una nuova moneta di bronzo, il follis.
1. A che cosa era dovuta, principalmente, la diminuzione di entrate nelle casse dello Stato? 2. Quali
furono le conseguenze negative della svalutazione della moneta?
7. Le riforme di Diocleziano
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Il disegno riformatore
Fino alla metà del III secolo, l’amministrazione dello smisurato territorio imperiale si
era basata su due livelli soltanto: al centro, la forte autorità dell’imperatore e del senato;
nelle province – lo abbiamo visto nel capitolo precedente: cfr. cap. 13.4 – alcune migliaia
di comunità cittadine che svolgevano in autonomia le principali funzioni di governo locale, al patto beninteso di ubbidire agli ordini di Roma e di fornire con prontezza le tasse e
tutti gli altri contributi richiesti. In questo modo la burocrazia statale – cioè i funzionari e
gli impiegati dello Stato – era restata sorprendentemente piccola. Con gli imperatori della
seconda metà del III secolo, e soprattutto con Diocleziano, le cose cambiarono. La natura
dello Stato imperiale uscì trasformata dal disperato sforzo di rastrellare denaro, beni e
uomini per respingere le minacce esterne e per dare stabilità all’impero: nacque una burocrazia numerosa e sempre più complessa, incaricata di sorvegliare da vicino, in ogni
angolo dell’impero, la riscossione delle imposte, l’amministrazione della giustizia, il funzionamento di porti, strade, magazzini e altre infrastrutture pubbliche, e di svolgere una
lunga serie di funzioni che fino a quel momento erano state lasciate ai ceti dirigenti delle
città.
L’autogoverno delle comunità cittadine venne drammaticamente ridotto. Il principale
punto di riferimento dell’impero nelle diverse città continuarono a essere i curiali, cioè i
gruppi dirigenti; ma furono sottoposti a una sorveglianza stretta. Non doveva più succedere quello che era avvenuto nel culmine dell’anarchia militare e delle incursioni barbariche, quando i curiali di molte città avevano evitato di pagare tutte le tasse, di portare
98
Parte VI La tarda Antichità
Un esattore delle tasse
II-III sec.
Rheinisches Landesmuseum, Treviri, Germania
Scena di pagamento di tributi
I-III sec.
Da Saintes; Museo Archeologico di Saintes, Francia
Molte zone dell’impero conservano tra le proprie memorie storiche rilievi in cui
viene rappresentato questo delicato momento: il pagamento dei tributi. Il primo
rilievo proviene da Treviri, in Germania, e ritrae un esattore delle tasse
impegnato nei suoi calcoli e appunti mentre i contribuenti attendono di versare
il tributum; un soggetto analogo è rappresentato sul secondo rilievo, ritrovato
invece in Francia, a Saintes, la romana Mediolanum Santonum.
ai granai imperiali il cibo da inviare alle truppe, di dare alloggio gratuito all’esercito di passaggio, di trasportare i beni statali, di compiere lavori a strade e infrastrutture. Gli ordini
dell’impero andavano eseguiti anche quando comportavano grandi spese o altri obblighi
gravosi per curiali e cittadini. Si diede avvio a una imponente azione riformatice che interessò il fisco, le istituzioni amministrative e l’esercito (di cui diremo nel paragrafo seguente).
La riforma fiscale e amministrativa
Per rispondere alle minacce di invasioni era necessario un esercito vasto e organizzato,
che costava molto: probabilmente la metà delle entrate dello Stato era destinata alle spese
militari. Un’altra grande spesa era costituita dal mantenimento di Roma. L’enorme città
non era più la capitale amministrativa ma restava il simbolo e il cuore dell’impero. La grandiosità dei suoi edifici, la bellezza dei giochi e delle cerimonie che vi si svolgevano e anche
l’immensità della sua popolazione erano la prova della grandezza dell’impero, e nessuno dubitava che fosse un preciso dovere degli imperatori assicurare il mantenimento della metropoli e dei suoi abitanti. Per Roma lo Stato spendeva molto, forse un altro quarto delle sue
entrate. Il resto serviva a retribuire i funzionari e gli impiegati che lavoravano nelle capitali e nelle province e per tutte le altre necessità statali, dai lavori pubblici alle cerimonie.
Per rifornire l’esercito e garantire al popolo di Roma le periodiche distribuzioni gratuite di farina e olio d’oliva, lo Stato doveva spostare a lunga distanza grandi quantità di beni. Dalla Sicilia e dalla provincia dell’Africa (l’odierna Tunisia) un fiume di grano e olio
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
99
cittadinanza
Le tasse
Al cuore dell’impero romano vi erano le tasse. Versate in denaro e, più
raramente, in natura, le tasse permettevano di pagare l’esercito e l’amministrazione civile, di alimentare l’immensa capitale, di costruire fortificazioni, strade, acquedotti e altre infrastrutture, di spostare con flotte
commerciali beni da una parte all’altra del Mediterraneo, di finanziare
i giochi del circo e dell’anfiteatro. Altra fonte importante di entrate era
il patrimonio privato degli imperatori, formato soprattutto da proprietà
fondiarie. Ma le tasse costituivano la risorsa di gran lunga maggiore.
Nel mondo romano, la parola più usata per indicare le tasse era tributum, e anche noi, se volessimo essere esatti dal punto di vista giuridico, dovremmo parlare di “tributo” per le tasse pagate oggi: infatti secondo il diritto della Repubblica italiana tutti i contributi obbligatori versati allo Stato dai cittadini, che chiamiamo in questo caso contribuenti,
rientrano nella categoria dei “tributi”. I tributi, al loro interno, sono oggi divisi in due categorie diverse: le tasse, che sono le somme versate
da chi riceve un servizio dallo Stato (per esempio la tassa di iscrizione
per chi frequenta la scuola, le tasse giudiziarie per chi va in tribunale, e
via dicendo); e le imposte, che sono le somme richieste dallo Stato per
spese di carattere generale, e non in contraccambio di un servizio specifico (per pagare l’esercito e la polizia, costruire una strada o un ospedale, e per mille altre esigenze). Però nella lingua corrente tasse e imposte sono sinonimi, e anzi di solito il termine più usato è proprio quello di tasse. Gli autori di questo manuale hanno perciò deciso di parlare indifferentemente di tasse e imposte.
Nel mondo antico come in quello contemporaneo esistono molti tipi
di tasse. Una prima distinzione è fra le tasse proporzionali e quelle fisse. Le prime sono le tasse che cambiano a seconda del valore dei beni posseduti o commerciati. Per la successione i Romani pagavano ad
esempio un’imposta pari, almeno in teoria, ad un ventesimo dei beni
ereditati (vicesima hereditatum). Le tasse fisse, invece, rimangono dello stesso ammontare quale che sia il valore dei beni tassati.
Un’altra distinzione importante separa le imposte dirette da quelle indirette. Le prime colpiscono in modo diretto la ricchezza, come ad esempio avveniva per la iugatio istituita da Diocleziano, che veniva calcolata
in base alla superficie e al valore della terra posseduta. Oggi la principale imposta diretta non colpisce i patrimoni, come era per i sudditi di Diocleziano, ma i redditi dei contribuenti (imposta sui redditi, detta Irpef). Le
imposte indirette tassano invece le compravendite e gli spostamenti dei
beni, e non il semplice fatto di possedere un bene o di ricevere denaro
dal suo affitto o dalla sua coltivazione. Anche per queste abbiamo esempi nel mondo romano: chi importava una merce pagava al momento dello sbarco il portorium; al momento della liberazione lo schiavo o il suo
ex padrone versavano la tassa di manomissione, e via dicendo. Una distinzione fra le tasse che sembra essere stata sconosciuta ai Romani, ma
che è oggi molto importante, è invece quella fra imposte progressive e
100
Parte VI La tarda Antichità
regressive. Si parla di imposte progressive se man mano che aumenta la
ricchezza del contribuente, aumenta anche l’aliquota, cioè la percentuale di tasse che egli paga su tale ricchezza. Per esempio, oggi in Italia chi
guadagna 1000 euro al mese paga un’imposta sui redditi (Irpef) pari a
circa il 5% di tale somma (dunque 50 euro), mentre chi ne guadagna
5000 paga circa il 35% (1750 euro). L’imposta da pagare aumenta quindi più che proporzionalmente rispetto all’aumento dei beni o dei redditi
tassati. L’idea alla base della progressività delle imposte è che i più poveri devono impiegare una grande parte dei loro redditi per i bisogni di base, mentre i più abbienti possono contribuire alla spese collettive senza
dover rinunciare a nessun consumo importante. È un principio stabilito
dall’art. 43 della Costituzione italiana.
Le imposte regressive, all’opposto, sono quelle che in proporzione gravano maggiormente sui più poveri. Sembra un tipo di tassa così ingiusto che viene da pensare che oggi non esista più: ma sbaglieremmo.
Gran parte delle imposte dirette finiscono infatti per diventare regressive. Per esempio, le tasse che paghiamo acquistando beni di prima necessità, come gli alimenti, pesano in proporzione di più sulle famiglie
povere, che spendono per mangiare una forte quota del loro reddito
complessivo, che non su quelle abbienti, a cui i consumi alimentari costano solo una piccola parte delle loro entrate.
Home page del sito Internet dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate è una delle quattro Agenzie fiscali istituite nel 1999
per svolgere compiti che prima erano del Ministero delle Finanze. Attivo dal
2001, questo ente pubblico svolge servizi connessi all’esazione e al
contenzioso dei tributi diretti e dell’imposta sul valore aggiunto. Un compito
importante dell’Agenzia delle Entrate è informare e assistere i contribuenti,
accertare i casi di evasione fiscale e gestire il contenzioso tributario.
andava verso Roma; dall’Egitto, dalla Siria e dal Mar Egeo questi e altri prodotti venivano
portati fino al Danubio per alimentare le truppe stanziate ai confini. Il vino, il pesce essiccato, le salse piccanti di cui andavano ghiotti gli antichi, il vasellame e tutta una serie di
prodotti artigianali venivano spostati lungo questi e altri circuiti, in parte per iniziativa diretta dello Stato, in parte ad opera di mercanti.
Tutta questa complessa struttura era sostenuta dalle tasse. Non a caso la prima grande
riforma intrapresa da Diocleziano riguardò proprio il sistema fiscale. Le imposte erano di
tanti tipi, e colpivano le eredità, i commerci, l’artigianato, gli spostamenti e altre attività
umane. Fra tutte, la tassa sulla terra era quella principale, che assicurava le entrate di gran
lunga maggiori e che più pesava sulla popolazione. L’ammontare dell’imposta si basava sull’estensione dei campi coltivati, sulla fertilità del suolo e sul numero di persone che vivevano in quel territorio. Per fare in modo che le tasse fossero pagate regolarmente e in abbondanza, era necessaria una complessa organizzazione. I sistemi fiscali antichi (e non solo...)
tendevano sempre ad accanirsi sui contribuenti deboli e poveri, risparmiando quelli potenti
e ricchi. In parte questa ineguaglianza fiscale era voluta, per legare allo Stato le classi di
maggiore potere. Se si eccedeva, però, il fisco non soltanto incassava meno di quanto avrebbe potuto, ma finiva per mettere in crisi l’economia. I contadini che l’esattore fiscale tartassava perché non voleva chiedere le tasse al grande proprietario finivano per fuggire, lasciando i campi incolti e nessuno a pagare le imposte; i mercanti che vedevano svanire nelle tasche dell’esattore fiscale tutti i loro profitti smettevano di commerciare; e così via.
Per avere un sistema efficiente era dunque essenziale conoscere nel dettaglio quanto le
città, i villaggi e anche i singoli abitanti dell’impero potevano pagare. A questo fine Diocleziano ordinò la redazione di catasti, cioè di inventari dettagliati di tutte le terre, che indicavano i proprietari, le coltivazioni, i raccolti, i contadini. Venne inoltre creata una struttura di impiegati e contabili per calcolare le imposte dovute da ciascuno e per mantenere
aggiornati i catasti. Occorreva registrare ogni vendita e acquisto di terra e ogni cambiamento nel tipo di coltivazione.
Negli anni successivi altre riforme resero più efficiente la riscossione delle tasse e l’amministrazione dell’impero. Il territorio venne organizzato in quattro grandi ripartizioni, le
prefetture, a loro volta suddivise in diocesi, dodici in tutto. Ogni diocesi riuniva un certo numero di province; il numero di queste ultime fu raddoppiato, dimezzando l’estensione delle
province precedenti. Così la provincia non poteva più diventare, sotto la guida del suo governatore, un forte centro di potere autonomo, mentre i governatori riuscivano a svolgere meglio, su un’area di azione più ristretta, i nuovi e numerosi compiti che venivano loro affidati.
L’Italia perse la condizione privilegiata di cui aveva sempre goduto, e che le aveva garantito tasse inferiori, e fu divisa in dodici province che costituirono una diocesi, la settima.
Per fare funzionare l’intero sistema fu necessario reclutare un gran numero di funzionari e impiegati, creando una burocrazia vasta e destinata a crescere ancora con i successori di Diocleziano.
L’intervento dello Stato in nuovi settori
Per garantire allo Stato tutte le risorse di cui aveva bisogno, l’imperatore intervenne in
settori nuovi. L’aumento dei prezzi minacciava l’economia? Nel 301 venne emanato un lungo editto dei prezzi, nel quale si indicava il tetto massimo di un gran numero di salari e di
prodotti. Il provvedimento fallì ben presto e venne ritirato, perché i commercianti, piuttosto che dare via i prodotti al prezzo ufficiale, preferivano venderli di nascosto a un prezzo
superiore. Ma il solo fatto che si fosse immaginato un simile provvedimento mostra che lo
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
101
Un macellaio al lavoro
Metà II sec.
Museo della Civiltà
Romana, Roma
Stato pensava di potere intervenire nella vita quotidiana in
ogni angolo dell’impero.
Altri provvedimenti ebbero più successo. Quelli più importanti riguardarono l’eredità dei mestieri. Una serie di
professioni giudicate essenziali per lo Stato vennero dichiarate ereditarie: chi le svolgeva non poteva abbandonarle e doveva fare in modo che anche i figli le seguissero.
Questi obblighi vennero imposti ai soldati, ma anche ai lavoratori delle officine statali, ai proprietari delle navi che
assicuravano lo spostamento delle merci per il Mediterraneo, ai fornai e ai macellai che garantivano l’alimentazione di Roma e ad altri mestieri ancora. I vincoli ereditari più
importanti furono quelli dei contadini e dei curiali. Ai contadini fu imposto di restare nel loro luogo di origine, senza
emigrare o abbandonare la terra. Raccogliere le tasse in
questo modo era più facile. I curiali, che guidavano le città,
furono obbligati a conservare le cariche che ricoprivano, e a trasmetterle ai figli. Le loro funzioni divennero pesanti, perché erano i curiali che, con i propri patrimoni, garantivano al fisco le tasse dovute dalla città [cfr. cap. 13.5]. Le fonti sono piene dei lamenti dei curiali mandati in rovina dalla necessità di accontentare l’insaziabile fisco, ma tacciono sul fatto che in
realtà molti curiali erano incaricati anche della riscossione delle tasse: e questa funzione assicurava loro potere e vantaggi economici, legali e soprattutto illegali.
1. Per quale motivo fu necessario rafforzare l’apparato burocratico? 2. Che cosa prevedeva la tassa sulla
terra? 3. Per quale motivo fallì la politica dei prezzi voluta da Diocleziano?
8. Diocleziano
e la riforma dell’esercito
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Limitanei e comitanensi
Il sistema militare fu profondamente ristrutturato, per adeguarlo alle nuove esigenze. Ormai non serviva più un esercito di conquista e nemmeno un apparato militare finalizzato
solo a proteggere la linea di confine. Per fare fronte alla minaccia dei Persiani e dei popoli germanici occorreva non tanto aumentare il numero dei soldati, che salì solo di poco giungendo fino a quasi mezzo milione, quanto cambiare la distribuzione e la preparazione delle truppe. Vennero istituite una ventina di nuove legioni, ma sia le nuove che le vecchie furono composte da un numero più basso di legionari. Lo scopo di questo cambiamento era
tanto militare che politico: le legioni più piccole risultavano più manovrabili e i loro comandanti non avevano più grandi masse di soldati per tentare colpi di Stato.
L’esercito fu diviso in due settori separati. Il primo era chiamato esercito limitaneo perché
doveva difendere il limes, il confine. Era costituito da truppe che soggiornavano per anni nelle stesse località e che tendevano ad avere una capacità di combattimento buona, ma inferiore
a quella del secondo settore, l’esercito comitatense. Il nome viene da comitatus, un termine
102
Parte VI La tarda Antichità
che all’inizio voleva dire ‘compagnia’ o
‘seguito’ dell’imperatore, e che già a metà
del III secolo era passato a indicare le truppe scelte che costituivano il fior fiore dell’esercito, preparate per lo spostamento rapido e per intervenire nelle situazioni di
emergenza. Meglio equipaggiati, meglio
addestrati e meglio pagati, i comitatensi
costituirono uno strumento prezioso per risolvere le situazioni belliche più pericolose, dentro e fuori i confini dell’impero.
In ogni provincia vi era adesso una guarnigione, che serviva per sorvegliare i sudditi e
per intervenire in caso di incursioni nemiche; il grosso delle truppe continuava comunque
a essere collocato, come nei primi secoli dell’impero, lungo il Reno, il Danubio e il confine con la Persia (pochi legionari erano invece stanziati lungo la frontiera africana, dove il
Sahara rappresentava un’invalicabile difesa naturale).
Il reclutamento
Come in passato, molte reclute erano volontari, attratti dalla possibilità di ricevere un vitto abbondante e dai doni periodicamente distribuiti ai soldati dopo la proclamazione di un nuovo imperatore e in altre occasioni; c’erano inoltre i privilegi che spettavano ai congedati, come l’esenzione dalle principali tasse. Il numero dei volontari era però diminuito. Si stabilì dunque che i figli dei soldati dovessero essere anch’essi soldati, e che le città e i grandi proprietari fossero tenuti a fornire un certo numero di reclute, o in alternativa a versare una bella somma di denaro per permettere di assoldare qualcun altro. La grande maggioranza delle reclute
fu tratta dai coloni, i contadini affittuari, spesso immigrati, che non possedevano terra propria
e lavoravano le terre dei latifondisti [cfr. cap. 13.10]. Per la prima volta dalla fondazione di Roma i soldati ricevevano dallo Stato tutto il vitto anche durante i periodi di pace, le armi, l’armatura, il vestiario, le bestie da trasporto e da spostamento. Le grandi fabbriche statali di armi e di tessuti e gli allevamenti imperiali di bestiame provvedevano a queste forniture.
Tratti difensivi a Resafa
Resafa, Siria
La fotografia mostra un
tratto difensivo lungo il
limes arabicus, la frontiera
che dalla Siria settentrionale
giungeva fino alla Palestina.
Tra gli avamposti lungo
questo cordone difensivo
c’era Resafa, un centro
della Siria già tappa
carovaniera, che sotto
Diocleziano svolgeva
funzioni di reparto militare
fortificato contro i nemici
che premevano i confini.
1. Quali furono i motivi politici che indussero a ridurre il numero dei componenti delle legioni? 2. Come
venivano reclutati i nuovi legionari?
9. Diversità regionali
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Il processo di uniformazione
In genere si parla di impero romano, senza molte altre specificazioni, come se la situazione fosse sostanzialmente la stessa dai confini della Scozia fino alla Mesopotamia. In effetti gli editti e i provvedimenti di Diocleziano danno proprio questa impressione. Molte
sue leggi vennero promulgate senza modifiche anche dagli altri tetrarchi, e riguardavano
l’intero impero. Inoltre, sotto Diocleziano l’intervento dello Stato nella vita degli abitanti delle province divenne incisivo e onnipresente a un livello mai nemmeno sfiorato in pas-
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
103
Le Mura aureliane
Durante i primi due secoli e mezzo di storia dell’impero,
l’assenza di minacce esterne aveva limitato la costruzione di cinte murarie e altre difese dei centri urbani. Le mura circondavano soltanto le città che si trovavano vicino
ai confini o comunque in zone esposte ad attacchi esterni. La crisi apertasi alla fine della dinastia dei Severi e il
succedersi di incursioni e saccheggi cambiarono le cose:
fra la metà del III e la metà del IV secolo quasi tutte le
città dell’impero furono dotate di fortificazioni e cinte di
mura. Roma non fece eccezione. Durante l’età repubblicana era stata difesa dalle mura attribuite a re Servio Tullio, ma in realtà innalzate all’inizio del IV secolo a.C. Poi
le mura erano cadute in disuso, anche perché la metropoli in vertiginosa crescita era dilagata al loro esterno, occupando sempre nuove superfici. Nel 271 l’imperatore
Aureliano decise che i tempi erano cambiati, e il pericolo
di una invasione barbarica reale, visto che i Germani erano arrivati fin sotto le mura di Milano e Verona. Venne così deciso di proteggere la capitale con una cinta muraria
lunghissima e da innalzare in tutta fretta. Alla morte dell’imperatore, nel 275, i lavori erano quasi terminati.
Mura aureliane, veduta
III-V sec.
Le Mura aureliane
ia
via
No
m
ria
en
ta
na
via Sala
lamin
via F
Mausoleo
di Adriano
monte
Pincio
Mausoleo
di Augusto
Quirinale
ponte
Viminale
Pantheon
Elio
Campo
Marzio
Capitolino
Esquilino
isola
Roma
Tiberina
Anfiteatro
quadrata
Flavio
via Aurelia
ponte
Celio
Emilio
Palatino
Aventino
104
ina
pia
Mura serviane
Lat
Ap
via
Ostiense
via
via
via Portu
ense
Terme di
Caracalla
ibur
T
via
Mura aureliane
Parte VI La tarda Antichità
tina
Le Mura aureliane circondano tuttora il centro storico di Roma. Al momento della costruzione erano lunghe quasi 19 chilometri, alte 6 metri e con mura di mattoni spesse circa 3,5
metri. Ogni cento piedi romani (circa 30 metri) sopra le mura
sporgevano delle torri quadrate dotate in cima di una stanza
per le baliste, macchine da guerra che lanciavano proiettili di
pietra. In tutto v’erano quasi quattrocento torri di questo genere. Altre torri affiancavano le porte, che in una dozzina di
casi avevano un aspetto monumentale: in marmo, presentavano ciascuna un doppio ingresso. All’inizio il sistema difensivo aureliano non era particolarmente resistente: l’altezza
delle mura era modesta, ma comunque sufficiente a fermare
l’assalto di eserciti barbari privi di macchine d’assedio. Del
resto questa opera immensa era stata costruita in tutta fretta.
Per questa ragione gli architetti inglobarono nelle mura gli
edifici già esistenti, come per esempio la piramide rivestita di
marmo e alta 36 metri che tra il 18 e il 12 a.C. il ricco romano Caio Cestio si era fatto costruire come tomba.
Intorno al 310 e soprattutto nel 401-402, quando la minaccia
dei Goti era fortissima, la cinta di mura sembrò insufficiente,
e venne rafforzata. L’altezza delle mura fu raddoppiata, e
quello che in precedenza era il cammino di ronda posto subito sotto i merli venne trasformato in una galleria coperta, nella quale si aprono numerose feritoie; un nuovo cammino di
ronda fu costruito più in alto. Il doppio ingresso di molte porte monumentali venne allora ridotto a uno solo, e dietro la porta se ne costruì una seconda, collegata da mura a quella anteriore: in questo modo le porte divennero delle vere e proprie
fortezze, autosufficienti in caso di necessità.
sato. L’imperatore aveva
messo fine all’autonomia
delle città: e con l’autonomia era finita anche la possibilità, fino a quel momento concessa alle diverse popolazioni, di conservare le proprie leggi, purché ovviamente non andassero contro quelle dell’impero. Il processo di uniformazione giuridica era iniziato già con la concessione della cittadinanza romana all’intero impero nel
212: con l’editto di Caracalla tutti divennero cittadini romani e dunque, pian pianino, finirono per adottare il diritto romano per punire i reati e per regolare le questioni private, come per esempio la dote,
il matrimonio, il divorzio e l’eredità.
Diocleziano accelerò questo processo di uniformazione e lo estese alle pratiche amministrative e persino alla lingua, poiché il latino fu imposto come la sola lingua dell’amministrazione anche nelle province orientali dove si parlava greco. Questi elementi di omogeneità si sommavano a quelli più antichi, come la diffusione delle città e della vita cittadina, e venivano rafforzati dall’onnipresenza dell’esercito e dell’amministrazione.
Lavori campestri in un
mosaico dell’Africa
romana
III sec.
Cherchell, Algeria
Il mosaico, rinvenuto a
Cherchell (antica Caesarea),
in Algeria, raffigura un
contadino impegnato nella
zappatura della vigna.
L’Africa romana produceva,
oltre che moltissimo grano,
grandi quantità di olio e di
vino.
Persistenze locali
L’immagine di uniformità fornita dai provvedimenti dell’amministrazione statale e dagli scritti delle classi ricche non corrispondeva però ai modi di vivere e di pensare della
massa della popolazione. Per fortuna negli ultimi tempi il grande sviluppo dell’archeologia
permette di andare oltre le leggi dello Stato e i discorsi dei potenti: constatiamo così che le
condizioni di vita di contadini, salariati e ceti umili cambiavano molto a seconda delle province.
Come in tutte le epoche che hanno preceduto la rivoluzione industriale del XVIII-XIX
secolo, i contadini erano di gran lunga il gruppo più numeroso. È difficile fare stime esatte, ma probabilmente oltre l’80% della popolazione viveva lavorando la terra. Vi erano però
differenze giuridiche e sociali. In Italia e nelle altre province occidentali molti contadini
continuavano ad essere schiavi, anche se la loro proporzione era crollata rispetto ai picchi
raggiunti alla fine della repubblica e all’inizio dell’età imperiale. Perlopiù i contadini erano piccoli proprietari o, più spesso, coloni. Le grandi proprietà erano molto diffuse in Italia, Africa e Gallia, e qui dunque sembra che i contadini fossero soprattutto affittuari. In
Asia Minore e in molte altre zone dell’Oriente le proprietà maggiori occupavano invece solo una piccola parte dei suoli, lasciando spazio per la piccola proprietà contadina.
Una grande differenza fra le province occidentali e quelle orientali riguardava le modalità di insediamento. In Oriente i contadini abitavano in villaggi; invece nelle campagne
dell’Occidente i villaggi erano più rari, e si viveva soprattutto in fattorie isolate oppure negli edifici situati al centro delle grandi proprietà, le ville. Il mondo contadino, di conseguenza, assumeva caratteristiche diverse. Nelle province orientali il contadino viveva as-
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
105
La villa tardo antica
IV sec.
Museo del Bardo, Tunisi
Questo mosaico proviene
dalla Villa del Dominus
Iulius, nei pressi di
Cartagine. Al centro della
composizione è
rappresentata una grande
villa fortificata,
fiancheggiata da due scene
di caccia. In alto e in basso
si svolgono piccole scene
che rappresentano le quattro
stagioni e che hanno come
protagonisti i ricchi
proprietari della villa. Da
sinistra a destra: in alto, i
coloni omaggiano la signora
con animali e olive
(l’inverno) e un pastore
custodisce il gregge
(l’estate); in basso, la
padrona riceve fiori e pesce
fresco (la primavera),
mentre altri coloni portano
al padrone della selvaggina
e un cesto di uva
(l’autunno).
sieme agli altri contadini, ricchi e poveri, con i quali intratteneva relazioni di ogni tipo; molti villaggi avevano un proprio territorio, dei pascoli e dei corsi d’acqua comuni, persino delle semplici strutture di autogoverno; gli abitanti erano responsabili assieme, collettivamente, del pagamento delle tasse allo Stato. In Occidente la società contadina era meno
organizzata e maggiormente sottoposta ai grandi proprietari: sia i contadini che abitavano
in fattorie isolate, sia quelli che risiedevano nelle grandi aziende dovevano fare i conti in
primo luogo con i proprietari; anche la raccolta delle imposte per lo Stato spesso veniva
compiuta dai proprietari più ricchi, che non mancavano di approfittarne.
Altre differenze regionali riguardavano la diffusione dei commerci e dell’artigianato.
Alcune province, come l’Africa, erano specializzate nella produzione di grano, olio e prodotti artigianali destinati all’esportazione. In altre, come la Gallia settentrionale e la Britannia, prevaleva la produzione per il mercato locale: i commerci erano scarsi e di breve
raggio. Grandi differenze esistevano inoltre al livello linguistico. In alcune province, latino e greco erano parlati abitualmente solo dai ricchi e dai funzionari statali, mentre la gente comune usava altre lingue: in Africa il berbero, in Egitto il copto, nel Vicino Oriente l’aramaico e l’arabo, e altre ancora. Le società locali, insomma, erano molto più diverse di
quanto lasciano immaginare le leggi imperiali.
1. Quali erano le condizioni giuridiche e sociali dei contadini in Occidente? 2. Quali differenze
presentavano gli insediamenti contadini in Occidente e in Oriente?
106
Parte VI La tarda Antichità
SINTESI
1. Le cause della crisi
Nel III secolo l’impero romano conobbe un periodo di profonda crisi. Tradizionalmente gli storici ritenevano che questa crisi
interna fosse dovuta a cause di tipo, principalmente, economico e demografico. Recenti studi, invece, attribuiscono la crisi a problemi
di natura politica e militare. La debolezza delle istituzioni di fronte agli attacchi esterni determinò una crisi del potere imperiale che, inevitabilmente, ebbe ripercussioni negative anche sull’economia e la società.
2. La dinastia dei Severi
La morte di Commodo fu seguita da una serie di lotte di potere, nelle quali prevalse Settimio Severo, che portò avanti una politica fondata sulla valorizzazione dell’esercito e dei ceti dirigenti provinciali. Il ruolo del senato fu svuotato di funzione e significato, e
la composizione dell’assemblea senatoria stravolta dalla maggiore presenza di membri di origine provinciale. Il successore di Settimio,
Caracalla, proseguì nella stessa direzione e concesse la cittadinanza romana a tutta la popolazione libera dell’impero (editto di Caracalla). A lui succedettero i nipoti Elagabalo e Alessandro Severo. Durante il regno di quest’ultimo si fecero frequenti gli sconfinamenti dei
Germani, mentre i Parti, alla cui guida era ora la dinastia Sasanide, riprendevano una politica aggressiva nei confronti di Roma.
3. L’anarchia militare
L’uccisione di Alessandro Severo per mano dell’esercito sprofondò l’impero in un periodo di caos – l’anarchia militare –, nel
momento in cui diventava critica la situazione sulle frontiere, tanto in Oriente con i Parti, quanto sul Reno e sul Danubio, dove i popoli germanici davano vita a grandi confederazioni. In questo contesto emerse la figura di Massimino il Trace, di umili origini, ma con
grandi capacità militari. Tuttavia, fronteggiare le invasioni richiedeva enormi risorse. Il malcontento dell’aristocrazia e le ribellioni posero fine al suo regno. Gli aristocratici tornarono al potere, ma la situazione peggiorò. Una serie di generali si avvicendarono sul trono,
mentre le lotte civili insanguinavano l’impero e le frontiere sguarnite venivano attaccate e saccheggiate. Sotto Gallieno l’impero si frantumò: Postumo in Gallia e Odenato in Oriente diedero vita a due regni autonomi.
4. La ripresa dell’impero e Diocleziano
Tuttavia si riuscì a far fronte in qualche modo alle minacce esterne. Gallieno riformò il sistema difensivo e separò poteri civili e
funzioni militari. Con l’imperatore Aureliano l’impero ritrovò la propria unità. Nel 285 prese il potere il generale illirico Diocleziano, che
diede stabilità e sicurezza all’impero promuovendo un gran numero di riforme amministrative, fiscali ed economiche. Con Diocleziano
l’imperatore divenne un sovrano con poteri assoluti. L’imperatore illirico, inoltre, introdusse la tetrarchia: l’impero fu affidato a due “Augusti” coadiuvati da due “Cesari”, tutti residenti in quattro capitali poste in prossimità delle frontiere. Il sistema di successione fra Augusti e Cesari, basato sul merito, era però complicato dalle pretese dinastiche e, di fatto, la tetrarchia non resse al primo passaggio.
5. Le persecuzioni dei cristiani
In questo contesto di crisi militare e sociale cresceva tra i sudditi l’insoddisfazione verso i culti tradizionali. Tra le classi colte
prese piede il neoplatonismo, mentre si diffondevano ovunque i culti orientali, e tra questi il cristianesimo era in costante crescita. La
diffidenza popolare e l’ostilità delle autorità romane portarono però a grandi persecuzioni nei confronti dei cristiani. Le persecuzioni generali contro dei seguaci di Gesù iniziarono nel 250 con Decio e proseguirono con Valeriano. Sotto Gallieno e i suoi successori ci fu una
lunga pausa, ma con Diocleziano ricominciarono duramente. Tuttavia le persecuzioni non ostacolarono la propagazione del cristianesimo: i cristiani resistevano e i loro martiri testimoniavano la grande forza della loro fede.
6. I problemi finanziari e monetari dell’impero
Caratteristici di questo periodo furono i problemi crescenti per far fronte alle spese dello Stato. Per ovviare alla carenza di risorse gli imperatori potevano aumentare le tasse, confiscare i patrimoni degli avversari e svalutare la moneta. La svalutazione della moneta avveniva diminuendo la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete. Se da un lato questa operazione consentiva al sovrano di disporre nell’immediato di denaro, nel tempo però generava inflazione e poteva danneggiare le attività economiche.
7. Le riforme di Diocleziano
I problemi finanziari mutarono profondamente la natura dello Stato. Gran parte delle spese era destinata all’apparato militare e una
parte considerevole era invece per il mantenimento di Roma e dei suoi numerosi abitanti. Diocleziano introdusse un gran numero di tasse, anche se basate sull’ineguaglianza fiscale. Per rendere efficiente la riscossione fiscale furono introdotti i catasti. Il territorio fu organizzato in
quattro grandi prefetture, suddivise in dodici diocesi. Tutto questo rese necessario la nascita di una vasta burocrazia che ridusse drasticamente l’autogoverno delle comunità cittadine. Diocleziano cercò di regolare i prezzi senza riuscirvi e sottopose i mestieri a vincoli ereditari.
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
107
8. Diocleziano e la riforma dell’esercito
Anche l’apparato militare fu adeguato alle nuove esigenze. L’esercito fu diviso in due settori: l’esercito limitaneo, stanziale e
preposto alla difesa del limes; l’esercito comitatense formato da truppe d’élite, preparate per intervenire nelle emergenze. Per rendere
più efficace il reclutamento, il mestiere di soldato divenne ereditario e le città e i grandi proprietari fondiari furono obbligati a fornire
reclute o finanziamenti. La maggior parte delle nuove reclute era costituita da coloni.
9. Diversità regionali
Sotto Diocleziano l’intervento dello Stato nella vita dei cittadini divenne incisivo e fu accelerato il processo di uniformazione
giuridica, amministrativa e linguistica dei territori dell’impero. Ciononostante, continuavano a esistere grandi differenze regionali nei
modelli di proprietà e di insediamento contadino e nella diffusione dei commerci e dell’artigianato. In molte zone, inoltre, continuavano a conservarsi le lingue locali.
ESERCIZI
Gli eventi
1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette:
❏ a) Gli scavi archeologici e gli studi recenti hanno dimostrato che la crisi del III secolo fu causata dalla grande epidemia di peste.
❏ b) Sotto Settimio Severo i membri del senato erano soprattutto provenienti dalle province.
❏ c) Ad accrescere il malcontento delle legioni contribuì l’inflazione, che riduceva il potere d’acquisto dei salari militari.
❏ d) L’imperatore Aureliano vietò ai senatori di comandare le legioni, separando, così, potere civile e funzioni militari.
❏ e) Con la sua opera riformatrice Diocleziano restituì al senato la sua autorità e il suo potere effettivo.
❏ f) Le persecuzioni sistematiche dei cristiani iniziate da Decio furono fermate da Diocleziano.
❏ g) Benché il latino fosse stato imposto come unica lingua, in molti territori continuavano a usarsi le lingue locali.
❏ h) La svalutazione della moneta garantiva disponibilità immediata di denaro, ma generava processi di inflazione.
❏ i) Con la riforma di Diocleziano ai contadini fu garantita la libertà di spostamento in ogni area dell’impero.
❏ j) Con la riforma dell’esercito le città e i proprietari fondiari furono obbligati a fornire allo Stato uomini o finanziamenti.
108
Parte VI La tarda Antichità
Le coordinate spazio-temporali
2. Completa correttamente le seguenti frasi, quindi ordinale cronologicamente inserendo nella linea del tempo
le lettere corrispondenti, così come mostrato nell’esempio:
a) Dopo un anno di regno, Diocleziano associò alla guida dello Stato il generale ..................................................................................., al quale fu affidato il
governo dell’...................................................................
b) L’imperatore ....................................................................... iniziò la prima persecuzione generale dei ....................................................................., che si erano
rifiutati di compiere sacrifici agli dei pagani.
c) Diocleziano e Massimiano decisero di abdicare e i ............................................................................... che subentrarono furono nominati seguendo il criterio
della .............................................................
d) L’imperatore .............................................................. emanò un editto con il quale concedeva la ......................................... a tutta la popolazione libera dell’impero.
e) Per frenare ...................................................................................................................... Diocleziano emanò un editto per regolamentarli, ma fallì per
l’opposizione dei ...................................................................... e venne ritirato.
f) Durante il regno di ............................................................., la dinastia Sasanide salì al potere nel regno de .............................................................
g) I due ............................................................. decisero di nominare due “Cesari” – ............................................................. e Costanzo Cloro – che li coadiuvassero
nell’amministrazione dell’impero.
h) L’imperatore ............................................................. fu duramente sconfitto dai Parti nella battaglia di ............................................................. e fatto schiavo dal
loro re Shapur.
i) Diocleziano emanò un ............................................................. che impose al clero cristiano di consegnare i .................................................................... e i vescovi
che ubbidirono furono chiamati dagli altri fedeli .............................................................
j) Un ufficiale di origine illirica, che assunse il nome di ......................................................................................................, prese il potere dopo aver ucciso
l’imperatore .............................................................
a
212
250
224
285
260
293
286
303
301
305
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
109
3. Osserva la carta
geografica ed esegui
le consegne proposte:
a) Indica l’estensione
dell’impero romano
all’epoca di Diocleziano;
MARE DEL
NORD
OCEANO
ATLANTICO
Dan
Re
n
o
b) Colloca vicino ai pallini i
nomi delle seguenti città:
Roma, Treviri, Milano,
Nicomedia, Sirmio.
ubio
c) Indica con differenti colori
le città in cui risiedevano
gli Augusti e quelle in cui
risiedevano i Cesari.
MAR NERO
d) Rispondi alle domande:
MA
1) Che cos’era la
tetrarchia? Come
funzionava?
R
M
ED
IT
E
R
R
2) Quali fattori
determinarono la scelta
delle nuove capitali?
AN
EO
3) Che ruolo assunse
Roma durante il III secolo?
Il lessico
4. Collega correttamente i seguenti termini ed espressioni alle definizioni corrispondenti:
a) Inflazione:
1) Meccanismo che permetteva allo Stato di emettere una maggiore quantità di denaro diminuendo la quantità di
metallo prezioso contenuto nelle monete.
b) Neoplatonismo:
2) Settore dell’esercito formato da truppe scelte, preparate per lo spostamento rapido e per intervenire in
situazioni d’emergenza.
c) Esercito limitaneo:
3) Termine che indica il processo di aumento dei prezzi.
d) Svalutazione:
4) Con le riforme di Diocleziano questo termine indicava le unità amministrative da cui erano formate le
prefetture.
e) Catasto:
5) Dottrina filosofica che invitava a distaccarsi dal mondo e a badare soltanto alla salvezza ultraterrena.
f) Diocesi:
6) I fedeli che resistevano alle persecuzioni e con la loro morte testimoniavano la grandezza della loro fede.
g) Martiri:
7) Settore dell’esercito preposto alla difesa dei confini.
h) Esercito comitanense:
8) Inventario dettagliato di tutte le terre, che indicava i proprietari, le coltivazioni, i raccolti, i contadini.
110
Parte VI La tarda Antichità
L’elaborazione scritta
5. In un breve testo (max 30 righe) delinea un ritratto dell’imperatore Diocleziano e della sua opera riformatrice,
seguendo la scaletta di argomenti proposta:
a) Le sue origini e la presa del potere;
e) Burocrazia e autonomia delle realtà urbane locali;
b) La sua concezione del potere imperiale;
f) L’editto dei prezzi e l’ereditarietà dei mestieri;
c) La riforma fiscale (tasse e catasti);
g) La riforma dell’esercito;
d) La riforma amministrativa (prefetture e diocesi);
h) I rapporti con i cristiani.
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Che relazione si instaura tra il potere imperiale e l’apparato militare durante l’epoca dei Severi e della cosiddetta “anarchia militare”?
2) Quali importanti riforme promossero l’imperatore Settimio Severo e suo figlio Caracalla?
3) Alla morte di Massimino il Trace l’aristocrazia romana riprese il controllo. In che modo essa dimostrò di gestire la crisi interna ed esterna all’impero?
4) In che modo la crisi sociale del III secolo incise nel sentimento religioso degli individui?
5) Per quali motivi iniziarono le persecuzioni sistematiche delle comunità cristiane?
6) Di quali strumenti erano in possesso gli imperatori per sostenere le spese dello Stato? Quali furono le conseguenze della svalutazione della moneta?
7) Il processo di uniformazione giuridica, amministrativa e linguistica promosso nel III secolo riuscì a rendere omogenei tra loro i vasti domìni
dell’impero? Perché?
Il dibattito storiografico
7. Leggi attentamente le seguenti affermazioni e indica a tuo parere la più corretta, quindi argomenta la scelta
in un breve testo scritto da confrontare in classe con quello dei compagni:
a) La crisi del III secolo fu causata dall’enorme epidemia di vaiolo che ebbe gravi ripercussioni di tipo economico e demografico.
b) A causare la grave crisi che investì il potere imperiale nel III secolo fu l’inefficienza bellica dalla quale derivarono gravi disordini politici e sociali che
indebolirono l’esercito e il sistema di governo.
Capitolo 14 Dalla crisi del III secolo alle riforme di Diocleziano
111
Capitolo 15
Il secolo
di Costantino
1. L’età di Costantino
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Il potere nelle mani di un solo uomo
La grande trasformazione dell’impero romano avviata dalle riforme di Diocleziano fu
completata sotto il lungo regno di Costantino (306-337). Figlio di Costanzo, che era Augusto d’Occidente, alla morte del padre Costantino fu acclamato imperatore dalle truppe stanziate in Britannia e assunse il titolo di Cesare. Veniva così rispettato, almeno in apparenza, il
sistema della tetrarchia, che prevedeva la divisione del potere fra due Augusti più anziani e
due Cesari più giovani. In realtà, il sistema della tetrarchia si stava rivelando insostenibile,
perché i generali dell’esercito desiderosi di essere nominati Cesari entravano in competizione con i figli degli Augusti, che aspiravano a succedere ai padri. Lo stesso Costantino era un
esempio di questa tendenza alla successione ereditaria, che contrastava con lo spirito meri-
La diffusione
del cristianesimo
nel IV secolo
MARE
DEL
NORD
BRITANNIA
Colonia
OCEANO
ATLANTICO
Treviri
GALLIA
AR
M
Carnunto
DACIA
PANNONIA
Milano Aquileia
Mursa
DA
MAR NERO
Arles
LM
Danubio
AZ
Sinope
Amisi
IA
Costantinopoli
Roma
Filippi
Neocesarea
Calcide
Nicea
Napoli
Tessalonica Pergamo ASIA Cesarea
Smirne MINORE
Edessa
Corinto
Efeso
Tarso
Reggio
Atene
Mileto Antiochia
Cartagine
Siracusa
Palmira
Mari
Damasco
MAR MEDITERRANEO
Sidone
Tingitanum
Tipasa
MAURETANIA
Cirene
Gerusalemme
AR
M
lo
O
SS
RO
112
Cesarea
Alessandria
CIRENAICA
EGITTO
Ni
Centri di missione
Comunità fino al 325
Concili
Territori fortemente
cristianizzati fino al 325
AFRICA
Parte VI La tarda Antichità
O
Cordova
PI
SPAGNA
S
CA
Lione
tocratico del sistema tetrarchico e che il vecchio Diocleziano avrebbe voluto eliminare. Nel 307 anche Massenzio, figlio di un altro Augusto ormai pensionato, Massimiano, si ribellò a un sistema che lo escludeva
e prese il potere con la forza in Italia. All’inizio Costantino lo appoggiò, sposando sua sorella Fausta; poi, siccome nessuno degli altri imperatori voleva riconoscere Massenzio, si schierò contro di lui.
Nel 312 Costantino, la cui base principale di potere era formata dalla Gallia, invase l’Italia e il 28 ottobre sconfisse e uccise Massenzio alla battaglia di Ponte Milvio, alle porte di Roma. Secondo la leggenda,
alla vigilia della battaglia Costantino avrebbe avuto in sogno una visione mandata da Dio: gli apparve la croce accompagnata dalla frase In hoc
signo vinces, ‘Sotto questa insegna vincerai’. In realtà, Costantino all’epoca era un seguace del dio Sole, uno dei culti orientali che s’erano diffusi
nell’impero romano in concorrenza col cristianesimo; ma si sapeva che, al
contrario degli altri imperatori, guardava con simpatia anche al mondo cristiano. Nel 313 Costantino s’incontrò a Milano con il collega imperatore Licinio, e insieme emanarono un editto a favore dei cristiani, di cui Costantino
fu il principale ispiratore. L’editto di Milano, o editto di tolleranza, è una tap-
Testa del Colosso
di Costantino
Inizi IV sec.
Palazzo dei
Conservatori,
Musei
Capitolini, Roma
L’iconografia
con la quale
Costantino passa
alla storia è molto
lontana da quella
imperiale delle
epoche precedenti: i
tratti rudi e volitivi
di altri imperatori,
come nel caso di
Caracalla per esempio,
lasciano il passo allo
sguardo assorto e
immobile; ogni
lineamento di
Costantino ostenta
imperturbabilità. Siamo di
fronte al “sacro volto” di
un imperatore in contatto
diretto con la divinità.
L’editto di Milano
L’editto di Milano fu emanato nel febbraio 313 da Costantino e Licinio, i due imperatori che in quel momento si spartivano l’impero romano. Siccome più tardi Costantino si schierò apertamente a
favore del cristianesimo, mentre la posizione di Licinio in materia
religiosa era meno chiara, l’editto è attribuito di solito a Costantino, anche se è firmato da entrambi. Noi lo conosciamo perché due
grandi scrittori cristiani del IV secolo, Lattanzio ed Eusebio di Cesarea, lo hanno trascritto nelle loro opere, rispettivamente in latino
e in greco: è chiaro che agli occhi dei cristiani di quell’epoca si
trattò di un avvenimento di immensa importanza. Non dobbiamo però credere che con l’editto
di Milano il cristianesimo sia diventato la religione ufficiale dell’impero. Il testo dell’editto è
chiarissimo: i cristiani, si dice,
non devono più essere perseguitati, e il loro culto dev’essere
ammesso, così come sono ammessi tutti gli altri culti. La libertà che garantiamo ai cristiani,
specificano espressamente i due
imperatori, dev’essere garantita
anche a tutti gli altri.
Questa tolleranza rifletteva una
mentalità religiosa diffusa nell’impero romano all’inizio del
IV secolo. Il mondo antico, che
per tanti secoli aveva adorato
una molteplicità di dèi, negli ultimi tempi aveva assistito al-
l’immensa diffusione di nuove religioni orientali, come il culto del
Sole e come lo stesso cristianesimo. Era abbastanza normale per
un romano colto e tollerante immaginare che Dio, o il principio divino, fosse uno solo, ma che gli uomini potessero adorarlo sotto
varie forme. E proprio questo è il concetto affermato da Costantino e Licinio nell’editto di Milano: in cielo, dicono, c’è un Dio, che
tutti gli uomini riconoscono e venerano, ciascuno a modo suo; ed
è dovere dell’imperatore garantire a ciascuno piena libertà di culto, in modo che la divinità che sta
in cielo, qualunque essa sia, si dimostri benevola verso gli uomini.
Questo editto che apre un’epoca
nuova nella storia del mondo è
dunque ancora impregnato di una
concezione tipica del mondo antico, l’accettazione tollerante di tutti
i culti religiosi: una tolleranza che
nel mondo cristiano era destinata
ben presto a scomparire.
Medaglia con l’imperatore Costantino
incoronato dalla mano di Dio
330
Kunsthistorisches Museum, Vienna
Al centro di questo medaglione, del
peso di ben 253 grammi e del valore di
30 solidi, vediamo raffigurati
l’imperatore Costantino e i suoi due
figli maggiori. Il figlio di sinistra è
incoronato d’alloro da un soldato,
quello di destra dalla Vittoria, mentre
sul capo di Costantino scende a
incoronarlo una mano dal cielo.
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
113
Personificazioni di Roma e
Costantinopoli
380
Dal Tesoro dell’Esquilino,
Roma; British Museum,
Londra
Queste due statuette in
argento rappresentano la
personificazione di Roma (a
sinistra) e quella di
Costantinopoli (a destra);
entrambe indossando la
tunica e un elmo crestato e
sono accompagnate da
oggetti simbolici: Roma
impugna il bastone del
comando, mentre
Costantinopoli stringe da un
lato una cornucopia,
emblema di abbondanza,
dall’altro una patera,
recipiente molto usato
durante i rituali sacri.
114
pa di immensa importanza nella storia: dopo secoli di diffidenza e le forti persecuzioni degli ultimi tempi, i due imperatori dichiararono che il cristianesimo era un culto legittimo, al pari di
tutti gli altri, e che i cristiani non dovevano venire in nessun modo disturbati dalle autorità.
L’anno dopo Licinio sconfisse il terzo imperatore rimasto, Massimino Daia. A questo
punto c’erano due soli imperatori nell’immenso impero di Roma, Costantino Augusto
d’Occidente e Licinio Augusto d’Oriente: il complicato sistema della tetrarchia era tramontato, ma ormai si era fatta l’abitudine all’esistenza di una pluralità di imperatori e appariva abbastanza normale che la parte occidentale e la parte orientale fossero governate da
due sovrani diversi. Costantino, però, voleva tutto il potere e con due guerre successive, nel
316-317 e nel 324-325, sconfisse Licinio, che venne catturato e poi ucciso. L’impero romano era di nuovo governato da un solo uomo.
Le scelte di Costantino: cristianesimo e Oriente
Il governo di Costantino segnò un deciso spostamento del baricentro dell’impero romano verso oriente. Le province occidentali, infatti, erano in grave crisi. La Gallia del Nord
era esposta alle scorrerie dei barbari Franchi e Alamanni stanziati oltre il Reno, ed era in
parte spopolata. L’Italia attraversava gravi difficoltà economiche: gli enormi privilegi fiscali di cui aveva goduto fino alle riforme di Diocleziano non avevano stimolato lo sviluppo. La città di Roma, per quanto ancora ricchissima, non era più da molto tempo la residenza degli imperatori, che trascorrevano il loro tempo presso le frontiere minacciate. Ma
se una parte dell’Occidente era in crisi, l’Oriente invece era prospero: l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto erano le province più ricche dell’impero, mentre i Balcani erano la principale
fonte di reclutamento per l’esercito. Perciò Costantino, che aveva preso il potere in una remota provincia occidentale dell’impero, la Britannia, decise di spostare a oriente il centro dell’impero. Scelse l’antica città greca di Bisanzio, che era collocata in una posizione geografica straordinaria, sul confine fra l’Europa e
l’Asia, fra il Mediterraneo e il Mar Nero. L’imperatore trasformò Bisanzio in una nuova, grandiosa capitale, una seconda Roma, a cui diede il suo nome: Costantinopoli.
La scelta di Costantino a favore dell’Oriente è dimostrata anche dalla sua conversione al cristianesimo. Non bisogna dimenticare infatti che si trattava di una religione di
origine orientale, che si era radicata nell’impero proprio
partendo dalle province d’Oriente. Da sempre gli storici si
chiedono quando esattamente Costantino sia diventato cristiano, e fino a che punto si sia trattato di convinzione
profonda, fino a che punto invece di una scelta politica, dato che l’appoggio delle ricche e influenti comunità cristiane poteva fare la differenza nella competizione per il potere. L’editto di Milano non era ancora una scelta esplicita a
favore del cristianesimo: esso non trasformava la fede cristiana in religione di Stato, ma si limitava a mettere fine alle persecuzioni contro i cristiani, equiparando la loro religione alle altre praticate nell’impero. Non c’è dubbio, però,
che Costantino si sentiva molto vicino ai cristiani, anche
per influenza della madre Elena, che era battezzata; l’im-
Parte VI La tarda Antichità
peratore stesso si fece battezzare, anche se solo in punto di morte, dichiarando così ufficialmente la propria adesione alla nuova fede. Ma già prima di allora la simpatia dell’imperatore per i cristiani ebbe risultati molto concreti: Costantino concesse per legge numerosi privilegi al clero cristiano, finanziò la costruzione di colossali basiliche, e s’interessò da vicino alle discussioni teologiche che all’epoca infiammavano i fedeli [cfr. cittadinanza, p. 120].
La volontà dell’imperatore di collaborare da vicino con la Chiesa cristiana, di proteggerla e anche di dirigerla si manifestò in modo spettacolare nel 325, quando si riunì
il concilio di Nicea, il primo concilio ecumenico della storia. Un concilio è un raduno
di vescovi cristiani, per discutere di problemi religiosi e organizzativi, e si chiama ecumenico (dal greco oikoumène, ‘il mondo abitato’) quando i vescovi giungono da tutto
il mondo cristiano. Nella storia i concili ecumenici sono sempre stati momenti importanti, in cui venivano prese decisioni cruciali, e nell’ultimo millennio sono sempre stati i papi a convocarli; ma nel 325 le cose non andarono così. Fu Costantino a convocare i vescovi nella città di Nicea e a presiedere il concilio, in cui si discusse un problema fondamentale per la teologia cristiana: il rapporto fra il Padre e il Figlio nella
Trinità (ci torneremo al par. 3). Il teologo Ario, secondo il quale il Figlio era da considerare inferiore al Padre, ne uscì sconfitto e la sua dottrina, il cristianesimo ariano,
fu condannata come eretica, cioè sbagliata e contrastante con l’insegnamento ufficiale
della Chiesa. I seguaci di Ario, però, erano molto numerosi, soprattutto nell’impero d’Oriente: ancora per molto tempo il contrasto fra i cristiani ariani e i cristiani “niceni”
o cattolici, fedeli cioè all’insegnamento del concilio di Nicea, rappresentò un motivo
di violenta spaccatura nel mondo romano-cristiano.
Le azioni di governo
Trinità
Secondo il dogma cristiano la
Trinità è composta dal Padre,
dal Figlio e dallo Spirito Santo:
l’essenza di Dio si fonda
sull’unità delle tre persone.
Sotto il governo di Costantino
l’impero si rafforzò da tutti i punti
di vista. I barbari che vivevano oltre le frontiere vennero ripetutamente sconfitti e costretti a sottomettersi: tanto i Franchi e gli Alamanni oltre il Reno, quanto i Goti e
i Sarmati oltre il Danubio dovettero
accorgersi che Roma, superata la
crisi del III secolo, era di nuovo imbattibile. Sotto gli imperatori precedenti la moneta romana si era svalutata fino a perdere quasi del tutto il
suo valore; sotto Costantino una
nuova moneta, il solidus d’oro – da
cui deriva il nostro termine soldo –
fornì all’imperatore un mezzo sicuro per il pagamento dell’esercito.
L’oro messo in circolazione dalle
zecche imperiali e versato ai legionari veniva poi rastrellato grazie alle imposte, che dovevano obbligatoriamente essere pagate in oro. Co-
Sarcofago di sant’Elena
320
Palazzi Vaticani, Museo Pio
Clementino, Roma
Il Sarcofago di sant’Elena è
realizzato in porfido rosso;
la decorazione a tema
militare ha lasciato supporre
che in un primo tempo
Costantino l’avesse
commissionato per sé stesso
preferendo poi destinarlo a
sua madre Elena. La
decorazione della parte
centrale della cassa è
occupata da cavalieri
romani con tunica corta,
elmo e lancia, raffigurati
nell’atto di caricare barbari
in fuga o di farli prigionieri,
in un chiaro riferimento ai
successi militari conseguiti
da Costantino.
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
115
niando buona moneta, Costantino non si preoccupava tanto di rendere un servizio all’economia, quanto di rafforzare il proprio potere.
Un’intensa attività legislativa permise a Costantino di razionalizzare l’amministrazione e la giustizia, consolidando il potere assoluto dell’imperatore. I suoi provvedimenti limitarono l’autonomia dei senatori – che avevano il titolo di clarissimi – e assoggettarono
le élite urbane locali – i curiali, membri delle curiae (le amministrazioni municipali) – a
un pesante controllo burocratico. L’appartenenza alle curiae, che portava con sé l’obbligo
di garantire col proprio patrimonio la riscossione delle tasse, era divenuta ereditaria fin dal
tempo di Diocleziano; Costantino vietò ai loro membri di sfuggirvi entrando nella Chiesa,
nell’esercito o nella burocrazia imperiale. Le nuove leggi intervennero in senso moralistico anche sulla vita familiare e i costumi, punendo più severamente di prima l’adulterio, e
restringendo le possibilità di divorzio: l’imperatore intendeva al tempo stesso riportare in
auge gli valori di Roma, e venire incontro ai nuovi valori cristiani.
Unico padrone dell’impero, Costantino si preoccupò di risolvere il problema della successione. Il sistema della tetrarchia era morto e sepolto e Costantino era ben deciso a garantire il trono ai suoi numerosi figli. Perciò li fece nominare Cesari fin da bambini e alimentò un vero culto della famiglia imperiale, presentata come garanzia della prosperità dell’impero. Nel 326 si verificò un gravissimo incidente, che smentiva questa visione ottimistica: la moglie di Costantino, Fausta, e il figlio maggiore Crispo, nato da un precedente
matrimonio, vennero accusati di complottare ai suoi danni e Costantino li fece uccidere entrambi. Gli rimanevano però altri tre figli, e furono loro, come previsto, a raccogliere la successione quando il vecchio imperatore morì nel 337.
1. Che cosa sanciva l’editto di Milano? 2. Per quale motivo Costantino scelse l’Oriente come centro
dell’impero? 3. In che modo fu risolto il problema della successione?
2. Dai figli di Costantino
a Valentiniano e Valente
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
La guerra fratricida
Alla morte di Costantino i suoi tre figli, Costantino II, Costanzo II e Costante, si divisero
l’impero. Tutti e tre erano cristiani, e cristiani saranno d’ora in poi tutti gli imperatori, con la sola eccezione di Giuliano, di cui diremo in queste pagine. I rapporti fra i tre fratelli, però, erano
pessimi, sia per reciproca gelosia, sia per le diverse posizioni religiose. Costantino II, che nella
spartizione ebbe le province più occidentali, Gallia, Britannia e Spagna, adottò il cristianesimo
niceno, o “cattolico”, largamente predominante in quelle zone; lo stesso fece Costante, cui toccarono Italia, Illirico, Grecia e Africa, tutti territori in prevalenza cattolici. Costanzo II, a cui erano toccate le province più orientali, Anatolia, Siria ed Egitto, si schierò invece con l’arianesimo, condannato al concilio di Nicea del 325 ma ancora fortissimo proprio in quelle zone.
Il primo dei tre fratelli a essere tolto di mezzo fu Costantino II, che era stato nominato tutore del fratello più giovane, Costante, e che quando questi divenne maggiorenne cercò di eliminarlo. Nel 340 Costantino II invase l’Italia, ma fu lui a essere ucciso in battaglia e Costante si impadronì anche dei suoi territori. Fra il cattolico Costante e l’ariano Costanzo II i rap-
116
Parte VI La tarda Antichità
porti divennero molto tesi, anche se non si arrivò mai alla guerra aperta. Nel 350 Costante fu assassinato da un complotto di
ufficiali guidato da Magnenzio, che si proclamò imperatore al
suo posto. Nel 351 Costanzo II sconfisse l’usurpatore nella battaglia di Mursa, in Pannonia, passata alla storia come una delle più sanguinose mai combattute fra Romani e Romani; e nel
353 sconfisse definitivamente Magnenzio in Gallia, costringendolo al suicidio. Da allora e fino alla morte, nel 361, Costanzo II regnò su un impero romano riunificato.
Durante gli anni della lotta per il potere, i figli di Costantino
convocarono diversi concili nel tentativo di risolvere il dissenso fra cattolici e ariani, che appariva come il problema più grave del mondo cristiano ed era fonte di continui disordini; i cattolici e gli ariani, infatti, erano organizzati in due Chiese concorrenti, ognuna delle quali sosteneva di essere l’unica legittima, e accusava gli avversari di eresia. Costanzo II nei suoi ultimi anni di vita cercò di imporre una mediazione che si collocava a metà fra le due posizioni estreme, ma i suoi sforzi vennero
accolti male da entrambe le parti. Le due grandi confessioni in
cui s’era spaccato il mondo cristiano erano ormai troppo ostili
l’una all’altra per poter accettare compromessi. Nel frattempo
tutti gli imperatori continuarono la politica paterna concedendo
al clero cristiano privilegi giuridici ed esenzioni fiscali, e ponendo ostacoli alle pratiche pagane più invise ai cristiani, come
i sacrifici pubblici o la divinazione. Anche gli Ebrei vennero
colpiti da crescenti discriminazioni. Da un anno all’altro il mondo romano diventava ufficialmente sempre più cristiano.
Oltre ad ammazzarsi reciprocamente in guerre fratricide e a
cercare di imporre con la forza la versione del cristianesimo di
cui ognuno si era fatto il campione, i tre figli di Costantino si
trovarono costretti, come già il padre, a far fronte alle sempre
nuove pressioni dei grandi popoli barbari che vivevano al di
là del Reno e del Danubio. Nel complesso le operazioni militari videro sempre il successo dei Romani e i barbari riuscirono a
entrare sul territorio dell’impero solo come immigrati o deportati, accolti per grazia dell’imperatore e messi al lavoro. A
Oriente, Costanzo II doveva far fronte a un nemico più temibile, l’impero persiano dei Sasanidi, e a più riprese lo combatté in Mesopotamia. Le operazioni militari su questo fronte furono prolungate e costose, ma poco decisive: nessuno dei due imperi sembrava abbastanza forte da prevalere nettamente sull’altro.
Obelisco Lateranense
eretto a Roma da
Costanzo II
XV sec. a.C.
Piazza San Giovanni in
Laterano, Roma
In occasione della sua unica
visita alla capitale, avvenuta
nel 357 per celebrare i
propri vicennalia (vent’anni
di governo), Costanzo II
pensò di donare alla città di
Roma un monumento che
ricordasse il suo passaggio.
Scelse di recuperare un
vecchio progetto paterno:
trasferire dall’Egitto a
Roma uno degli obelischi
eretti nel XV secolo a.C. dal
faraone Thutmosi III presso
il tempio di Amon, a Tebe.
Giunto a Roma dopo il
lungo viaggio a bordo di
una possente nave
appositamente costruita,
l’obelisco fu installato nel
Circo Massimo. Restaurato
dopo sfortunate
vicissitudini, l’obelisco fu
trasportato in piazza del
Laterano nel 1588, dove
ancora oggi è possibile
ammirarlo.
Giuliano e Valentiniano
Costanzo II non aveva figli maschi, e alla morte designò come erede il cugino Giuliano.
Giuliano, che regnò dal 361 al 363, fu l’ultimo imperatore della dinastia di Costantino, ma
prese nettamente le distanze dal suo modello di governo. Era un uomo di eccezionali qualità, al tempo stesso generale, teologo e filosofo, innamorato della filosofia neoplatonica
[cfr. cap. 14.5] e deciso a riportare l’impero di Roma alla gloria passata. Ispirandosi a Mar-
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
117
co Aurelio, Giuliano si propose di regnare coll’aiuto del senato, da primus inter pares (‘primo tra pari’) e non da autocrate o sovrano assoluto come i suoi predecessori. In contrasto
con la tendenza che prevaleva fin dall’epoca di Diocleziano e Costantino, Giuliano ridimensionò la corte e la burocrazia e cercò di rivitalizzare le autonomie delle città.
Ai suoi occhi il ritorno al passato significava anche ristabilire i culti pagani che il cristianesimo aveva progressivamente emarginato, come il culto del Sole. Benché allevato
nella fede cristiana, Giuliano fu l’ultimo imperatore pagano e i Cristiani gli affibbiarono il
soprannome insultante di Apostata, che vuol dire ‘colui che ha rinnegato la propria fede’.
Giuliano restaurò i templi che gli imperatori cristiani avevano fatto chiudere, cancellò i privilegi del clero e cercò di convincere la classe dirigente dell’impero ad allontanarsi dal cristianesimo. Ma la reviviscenza del paganesimo durò poco: Giuliano, che prima di salire al
trono aveva ottenuto brillanti vittorie contro Franchi e Alamanni in Gallia, si impegnò in
una grande spedizione contro i Sasanidi in Mesopotamia, ma vi trovò la morte dopo solo
un anno e mezzo di regno, a poco più di trent’anni di età. Il suo successore Gioviano fece subito la pace con i Persiani, a costo di pesanti perdite territoriali, abolì la legislazione
religiosa di Giuliano e tornò a favorire il cristianesimo e perseguitare le pratiche pagane.
Morto Gioviano nel 364, salì al potere il formidabile Valentiniano, uno dei più grandi
imperatori del secolo (364-375). Sotto di lui si stabilizzò la suddivisione dell’impero in
due parti, Occidente e Oriente: Valentiniano tenne per sé l’Occidente e affidò l’Oriente al fratello minore Valente (364-378). Valentiniano era innanzitutto un grande generale; al suo comando l’esercito romano inflisse ripetute disfatte ai barbari del Reno e del
Danubio e penetrò regolarmente nel loro territorio a saccheggiare e catturare prigionieri.
Valentiniano era cristiano e intervenne contro alcune pratiche pagane, ma cercò di non
accentuare le spaccature religiose fra i sudditi, e perciò evitò di favorire una corrente del
cristianesimo perseguitando le altre. A Oriente, suo fratello Valente non fu altrettanto
prudente: di confessione ariana, urtò con il suo comportamento il clero cattolico, e così
indebolì la sua popolarità. Poco dopo la morte di Valentiniano, Valente si troverà ad affrontare la grande migrazione gotica attraverso il Danubio che segna l’inizio delle
invasioni barbariche (ne parleremo più avanti: cap. 16.1).
Statua di Giuliano
l’Apostata
IV sec.
Musée du Louvre, Parigi
1. Come fu suddiviso l’impero alla morte di Costantino? 2. Quali azioni di governo intraprese l’imperatore
Giuliano?
3. Il cristianesimo non più perseguitato,
ma diviso
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Cattolici, ortodossi, eretici
Il regno di Costantino segna una svolta decisiva per la storia del cristianesimo. Fino a poco prima i fedeli erano ancora vittime delle persecuzioni più feroci; ora invece la fede di Cristo diventa religione non solo permessa, ma favorita in molti modi dal potere imperiale. Nel
corso del IV secolo il cristianesimo diventa la religione di maggioranza in tutto l’impero. Il
fatto stesso che l’imperatore sia cristiano favorisce le conversioni: da secoli gli abitanti dell’impero guardavano agli imperatori come a un modello e imitavano il loro comportamento
118
Parte VI La tarda Antichità
in ogni campo, persino nei modi di portare capelli e barba. Il fatto che il signore del mondo
fosse diventato un seguace di Cristo diede alla nuova religione un prestigio enorme.
La Chiesa si organizza alla luce del sole, senza più temere l’ostilità del governo, anzi sicura del suo appoggio. I vescovi che guidano le comunità cristiane delle città cominciano
a essere visti come autorità spirituali riconosciute anche dallo Stato. Ogni vescovo esercita la sua sorveglianza sulla vita religiosa della città e del suo territorio; nasce così la diocesi, una parola presa in prestito dall’amministrazione dell’impero, e che nella Chiesa, fino a oggi, ha continuato a designare la circoscrizione sottoposta all’autorità di un vescovo.
Tuttavia, nel momento in cui le comunità cristiane e il loro clero escono dalla semiclandestinità e cominciano a vivere in sintonia con la vita pubblica dell’impero, vengono alla luce del sole anche le profonde spaccature che le dividono.
Un primo problema è quello dei cosiddetti donatisti. Si tratta di cristiani intransigenti,
che giudicano senza indulgenza quei preti i quali al tempo delle persecuzioni si sono arresi e hanno accettato di abiurare pur di scampare al martirio. Molti cristiani pensano che non
si tratti di una colpa grave, e che quel clero, ora che le persecuzioni sono finite, possa riprendere il suo posto. I donatisti, invece, ritengono che chi ha abiurato per paura abbia perduto tutti i suoi diritti e rifiutano di riconoscere come validi i sacramenti amministrati dai
preti rinnegati. Il movimento donatista è diffuso soprattutto in Africa, dove provoca disordini, che Costantino si affretta a reprimere.
L’intervento imperiale per tacitare i donatisti è il primo esempio di azione governativa volta a reprimere, su richiesta della Chiesa, dei cristiani che
seguono opinioni “sbagliate”. A partire da questo momento diventa normale
nel mondo cristiano distinguere chi segue fedelmente l’insegnamento della
Chiesa, e chi invece ha opinioni personali contrastanti con l’insegnamento
ufficiale. Chi obbediva alla Chiesa e ne accettava il magistero era definito ortodosso (dal greco: ‘chi segue la giusta opinione’) e cattolico (sempre dal
greco: ‘universale’). Chi invece faceva una “scelta” personale in contrasto
con il magistero della Chiesa era definito eretico, dal greco hàiresis che in
origine significa, appunto, “scelta”. Già dal IV secolo questa parola non ha
più niente di neutro: è una parola pesante, e comporta la condanna senza appello dell’eretico che sostiene, agli occhi della Chiesa, opinioni sbagliate
(“eresie”). Da quest’epoca fino a tempi recenti, cioè fino al XIX secolo, la
Chiesa utilizzerà regolarmente l’aggettivo “eretico” per bollare d’infamia chi
non è d’accordo anche solo su un punto del suo insegnamento ufficiale, e si
aspetterà la collaborazione del governo per perseguitarlo.
Cristo docente
IV sec.
Museo Nazionale Romano,
Palazzo Massimo, Roma
Questa piccola statua è stata
scolpita in un momento in
cui non si era ancora
codificata l’immagine oggi
consueta di Gesù Cristo. Il
figlio di Dio è infatti
rappresentato quasi come un
fanciullo, senza barba, con
lunghi capelli riccioluti.
Cristo è vestito in modo
elegante ed è seduto su un
seggio, nell’atto di
insegnare. Nella mano
sinistra tiene infatti un
rotolo, mentre la destra è
leggermente alzata, ad
accompagnare le parole con
il gesto.
Il concilio di Nicea
Non sempre, però, era facile stabilire quale fosse l’insegnamento corretto, e quale l’eresia. I cristiani del IV-V secolo si trovavano di fronte a
un problema che consideravano importantissimo, e cioè decidere quali
fossero esattamente i rapporti fra le tre persone della Trinità, il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo. Specialmente il rapporto fra il Padre e il Figlio
turbava gli animi. Il Figlio era importante quanto il Padre, oppure contava di meno? Cristo era Dio e uomo allo stesso modo, oppure per il fatto
d’essere diventato uomo si doveva pensare che non fosse più veramente
Dio? Il Figlio esisteva da sempre, ed era fatto della stessa sostanza del
Padre, oppure era stato creato a un certo punto? Trovare un accordo su
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
119
cittadinanza
I privilegi del clero
Costantino, e gli altri imperatori dopo di lui, consideravano proprio dovere favorire la Chiesa cristiana e aiutarla in tutti i modi a svolgere la
sua funzione pastorale. In un’epoca in cui diventava sempre più comune contribuire alla vita della Chiesa con generose donazioni, gli imperatori non si tiravano indietro. Essi investivano grosse risorse nella costruzione di edifici ecclesiastici, come le basiliche di Costantino; il termine stesso basilica significa ‘edificio fondato dall’imperatore’ (in greco infatti l’imperatore si chiamava basilèus). Sembrò naturale agli imperatori cristiani esentare i beni della Chiesa dalle pesanti imposte che
gravavano sulla proprietà immobiliare: a differenza dei cittadini dell’impero la Chiesa non pagava tasse sugli edifici o i terreni di sua proprietà. Ma oltre alle esenzioni fiscali per la Chiesa in quanto istituzione,
vennero introdotti anche privilegi ed esenzioni che riguardavano individualmente i membri del clero.
Fino all’affermarsi del cristianesimo non esisteva nella società una distinzione fra clero e laicato: i sacerdoti dei culti pagani non erano cittadini diversi dagli altri, e ogni politico nel corso della sua carriera poteva
accedere a cariche sacerdotali, compresa quella di pontefice massimo.
La Chiesa cristiana introdusse la distinzione fra i membri del clero, che
avevano ricevuto una consacrazione e potevano quindi celebrare la liturgia, e i semplici fedeli, che alla liturgia potevano soltanto assistere. Da
Costantino in poi gli imperatori decisero che anche lo Stato doveva riconoscere questa distinzione, concedendo ai membri del clero dei privilegi giuridici, fra cui l’immunità da una serie di obblighi che gravavano
sui cittadini comuni. Ma la novità più gravida di conseguenze fu la decisione di esentare i membri del clero dalla giurisdizione dei tribunali.
A partire dal IV secolo, e per millecinquecento anni, fu normale nei paesi cristiani che gli ecclesiastici non fossero soggetti alla giustizia dello
Stato allo stesso modo degli altri sudditi. La Chiesa esigeva che il vescovo, non il giudice nominato dal re o dall’imperatore, fosse l’unica
autorità competente quando si trattava di giudicare cause che riguardavano gli interessi della Chiesa stessa e i membri del clero. Questo
principio non fu sempre accettato pacificamente, anzi la storia del Medioevo e dell’età moderna è piena di conflitti fra potere statale e Chiesa, suscitati proprio da questa pretesa di immunità. A seconda delle
epoche e dei paesi, si ponevano dei limiti e si accettavano dei compromessi. In linea di principio, però, tutti erano d’accordo che i membri del clero avessero diritto a un trattamento particolare e che i vescovi, in certi casi, dovessero giudicare al posto dei tribunali. In linguaggio
giuridico questa giurisdizione separata si chiama “foro ecclesiastico”.
In Italia il primo Stato ad abolire il foro ecclesiastico, nonostante una
durissima resistenza della Chiesa, fu il regno di Sardegna con le leggi
Siccardi, approvate nel 1850, in pieno Risorgimento. Queste leggi sono
ricordate a Torino da un obelisco su cui è incisa la scritta «La legge è
120
Parte VI La tarda Antichità
uguale per tutti». Questo principio, che oggi è esposto in tutti i tribunali
dello Stato italiano, non ha quindi niente di generico, ma si riferisce a
una situazione specifica: la fine dei privilegi che per molti secoli erano
stati concessi ai membri del clero, e che facevano di loro dei cittadini
diversi dagli altri.
La Basilica Ecclesia Mater
IV sec.
Museo del Bardo, Tunisi
A partire dal 313, dopo l’Editto di tolleranza promulgato da Costantino, i
cristiani poterono uscire dalla clandestinità cui erano costretti a causa
delle persecuzioni e riunirsi liberamente per praticare il loro culto. La
basilica ha rappresentato fin da questo periodo il più prestigioso dei loro
luoghi di raduno.
Il Buon Pastore
III sec.
Particolare di un
sarcofago; Musei
Capitolini, Roma
Una delle immagini
più frequenti
dell’arte
paleocristiana
rappresenta il
“Buon pastore” che
porta sulle spalle
l’agnello. La
simbologia
richiama la figura
del Cristo salvatore
di anime, e per
estensione della
Chiesa, che
sopporta il fardello
del suo gregge, i
fedeli, per garantire
loro la salvezza
eterna.
questi problemi era così importante che l’imperatore Costantino in persona s’incaricò di
aiutare la Chiesa a trovare una soluzione, convocando nel 325 il concilio di Nicea.
Come abbiamo detto, al concilio si scontrarono due punti di vista [cfr. par. 1]. Il teologo
Ario sosteneva che il Figlio era inferiore al Padre. Il suo avversario, Atanasio, sosteneva invece la completa parità fra Padre e Figlio. I vescovi si schierarono in maggioranza con Atanasio. Venne allora formulata la prima versione del Credo cattolico come lo conosciamo ancor oggi: il cristiano era obbligato a credere in Cristo «Dio vero da Dio vero, generato e non
creato, della stessa sostanza del Padre». La sconfitta di Ario non significò però la scomparsa
di questa variante del cristianesimo: i cristiani ariani erano molto numerosi nell’impero d’Oriente, e nel corso del IV secolo, come abbiamo visto, ebbero addirittura l’appoggio di diversi imperatori, come Costanzo II e Valente. Il concilio di Nicea, quindi, non fu sufficiente a sanare una spaccatura che avebbe continuato per secoli a dividere il mondo cristiano.
Gesù è Dio come il
Padre
1. Che cosa rappresentavano le diocesi nel mondo cristiano? 2. Che cosa sostenevano Ario e Atanasio?
Quale posizione prevalse?
4. La nascita
del monachesimo
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Da solitari asceti a membri di comunità
Fin dai primi tempi del cristianesimo era nato un movimento che spingeva i credenti ad
allontanarsi dal mondo, a cercare la solitudine per dedicarsi interamente alla preghiera e all’ascesi. L’ascesi è un concetto fondamentale della vita cristiana, che indica la ricerca di
Dio attraverso la rinuncia a tutti i piaceri del mondo, alla carriera, ai soldi, alla buona tavola, al sesso. Si tratta, insomma, di concentrarsi interamente sulla vita dello spirito, mortificando quella della carne. In Siria e in Egitto i cristiani che decidevano di consacrarsi al-
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
Il monastero di
Stavrovouni
IV sec.
Cipro
Stavrovouni, ovvero
‘Montagna della Croce’, è
un antichissimo monastero
cipriota abbarbicato su un
picco roccioso. La leggenda
narra che fu fondato nel 327
dalla madre di Costantino,
Elena, che in ritorno da
Gerusalemme vi lasciò
come reliquia un frammento
della Santa Croce, ancora
oggi custodito in un
prezioso reliquiario
d’argento.
121
la vita ascetica si ritiravano a vivere da eremiti nel deserto; sono chiamati perciò “i Padri
del deserto”. Nella lingua greca, parlata in quelle regioni dell’impero romano, si affermò
una parola per indicare chi faceva questa scelta estrema: monaco, dal greco mònos, ‘uno
solo’, per sottolineare appunto la solitudine a cui si votavano gli eremiti.
Nell’età di Costantino il movimento monastico si trasformò. I monaci erano sempre più
numerosi nella parte orientale dell’impero (l’unica in cui il movimento, all’inizio, si era diffuso), e anziché vivere da soli alcuni di loro cominciarono a organizzarsi in comunità. Il
primo a prendere questa iniziativa fu Pacomio, uno dei Padri del deserto, vissuto fino al
348. In Egitto, Siria, Palestina e Mesopotamia si moltiplicarono i monasteri. Con questa parola indichiamo l’edificio in cui una comunità di asceti si rinchiude per vivere separata dal
mondo e dedicarsi alla preghiera; un’altra parola per indicare il monastero è cenobio, da
un’espressione greca che significa ‘vita in comune’.
Fin dall’inizio le comunità monastiche si organizzarono in modo gerarchico: i confratelli eleggevano un capo, che fu chiamato abate, dalla parola siriaca abba, che significa
‘padre’. Chi voleva farsi monaco doveva pronunciare dei voti, impegnandosi alla povertà,
alla castità e all’obbedienza, nello specifico verso gli ordini dell’abate. Per organizzare la
vita collettiva, Pacomio stabilì che la sua comunità dovesse avere un regolamento, chiamato appunto regola, e da allora ogni monastero ha sempre seguito una regola. Quando si
fondava una comunità era possibile scrivere una regola nuova, ma nella grande maggioranza dei casi si preferiva adottarne una già esistente. Fra le regole scritte nel IV secolo la
più diffusa, imitata da un gran numero di monasteri in tutto l’impero d’Oriente, fu quella
composta da Basilio di Cesarea, uno dei Padri greci della Chiesa.
La diffusione in Occidente e il ruolo dei monaci
In Occidente, dove il cristianesimo era meno diffuso, il movimento monastico penetrò
per la prima volta con Martino di Tours (morto nel 397), poi venerato come santo protettore della Gallia. Martino era un militare romano che aveva abbandonato l’esercito dopo
essersi convertito al cristianesimo, ed ebbe un ruolo importante nella lotta contro il paganesimo e contro il cristianesimo ariano. Nel 361 Martino fondò la prima comunità monastica della Gallia, e successivamente ne fondò altre, contribuendo fortemente alla diffusione del nuovo movimento nell’intero Occidente. Nel 371 Martino fu eletto vescovo di Tours:
i monaci ormai erano così importanti nel mondo cristiano che potevano essere scelti per capeggiare tutta la vita religiosa d’una città.
Il diffondersi dei monaci suscitò reazioni contrastanti nel mondo del IV secolo. I politeisti, ancora molto numerosi, li consideravano degli ipocriti e dei pericolosi fanatici. I cristiani riconoscevano loro una grande autorità spirituale e perfino gli imperatori ascoltavano con devozione i loro ammonimenti. In realtà la scelta di vivere poveramente, di vestirsi in modo modesto, di non dare importanza ai piaceri della vita accomunava i monaci ai
filosofi del mondo greco, anch’essi, in passato, ascoltati con rispetto dai potenti. In questo
senso si può dire che il monaco prese il posto del filosofo, in un mondo che sentiva acutamente il bisogno di esempi di vita alternativa, e dove la religione aveva sempre più importanza.
1. Che obblighi comportava divenire monaci? 2. Che ruolo assunse la figura del monaco nella società del
IV secolo?
122
Parte VI La tarda Antichità
5. La moneta e il fisco
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Una delle riforme più importanti del regno di Costantino riguardò la moneta. La crisi del
III secolo aveva lasciato l’impero romano privo di una moneta solida; la moneta più importante, l’antoniniano d’argento, si era paurosamente svalutato. La moneta d’oro era coniata molto raramente. Sotto Diocleziano era stata introdotta una nuova moneta di bronzo,
il follis [cfr. cap. 14.6]. Questo nome significava in origine “sacchetto”: il follis di bronzo,
grosso e pesante (ben 10 grammi), e contenente anche una piccola percentuale d’argento,
valeva addirittura quanto un sacchetto delle vecchie monete svalutate!
La coniazione del follis testimonia lo sforzo di mettere a disposizione del pubblico una
buona moneta da usare nella vita di tutti i giorni. Era una moneta coniata in grandi quantità, ma non era fatta di metallo prezioso e quindi poteva essere utilizzata per fare acquisti
al mercato, o per pagare i salariati. Ma Costantino fece una scelta diversa. Egli decise di
puntare tutto sulla moneta d’oro, che era usata dai ricchi per tesaurizzare i loro redditi e dallo Stato per pagare i soldati e in genere affrontare le grandi spese pubbliche. Perciò sotto il
suo regno il solidus d’oro venne coniato in grandi quantità. Costantino e i suoi successori
si impegnarono anche a salvaguardare il potere d’acquisto della moneta d’oro: essi garantirono il peso e la qualità del solidus, evitando sempre di svalutarlo. Questa decisione ebbe un’influenza storica straordinaria: nei secoli successivi, gli imperatori bizantini continuarono sempre a fondare il loro sistema monetario su questa forte moneta d’oro, e lo stesso tentarono di fare i re barbari e i califfi arabi dell’Alto Medioevo. Invece il follis venne
pesantemente svalutato, divenne sempre più piccolo e leggero e perse qualunque contenuto d’argento.
In apparenza la decisione di Costantino salvaguardava gli interessi dei ricchi, piuttosto
che quelli della gente comune. Ma in realtà gli interessi che stavano più a cuore all’imperatore erano quelli dello Stato. I ricchi proprietari terrieri, infatti, erano assoggettati a una
pesante fiscalità, e lo Stato esigeva il pagamento in solidi d’oro. Così la moneta aurea co-
potere d’acquisto
Il potere d’acquisto di una
moneta indica quanti beni e
servizi o quante merci si
possono acquistare con
un’unità monetaria. Esso
diminuisce se aumentano i
prezzi e se la moneta è
sottoposta a svalutazione.
Follis in bronzo
IV sec.
Da Cyzicus (attuale
Belkis), Turchia
Aureo di Costantino,
con il ritratto
dell’imperatore
(dritto)
335
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
123
Le monete di Costantino
La
voce
PA
SSA
TO
del
Gli imperatori romani disponevano di un mezzo
formidabile per comunicare con i sudditi e
trasmettere messaggi di propaganda: le monete. Su
tutte le monete che circolavano a milioni
nell’impero e passavano per le mani di tutti i
sudditi era raffigurato l’imperatore, con elmo e
corazza da eroe guerriero, oppure incoronato
d’alloro, simbolo di vittoria, o col capo coronato di
raggi, come se in lui fosse personificato il dio Sole,
o col capo cinto dal diadema, simbolo del potere
imperiale [cfr. fig. a p. 123]. Sul lato opposto erano
raffigurati simboli propagandistici – per esempio
un soldato romano vittorioso che schiacciava a
terra un barbaro – e campeggiavano scritte che
erano veri e propri slogan, in cui si esprimeva la
propaganda imperiale. Oggi i modelli delle
banconote e delle monete sono pochi e variano
raramente; all’epoca invece ognuna delle circa
quindici zecche dell’impero batteva ogni anno
monete nuove, uguali alle precedenti per peso e
valore, ma diverse per le immagini e gli slogan.
Costantino regnò 31 anni e fece coniare più di 2600
monete diverse, anche se spesso le differenze
erano minime e gli slogan più importanti si
ripetevano su centinaia di tipi. Nei periodi in cui
l’imperatore era impegnato a combattere i
barbari, le monete informavano i
sudditi delle gloriose imprese
compiute dall’esercito (c’era
scritto «gloria exercitus»,
‘la gloria dell’esercito’,
«virtus militum», ‘il
valore dei soldati’, o
«ubique victores»,
‘vittoriosi
dappertutto’) e
soprattutto delle
ininterrotte vittorie
del sovrano,
esaltato come
«victor omnium
gentium», ‘vincitore
di tutti i popoli’. Nei
periodi in cui non
c’erano guerre,
l’imperatore si prendeva il
merito della pace di cui
godevano i sudditi, e sulle monete
faceva scrivere «beata tranquillitas», ‘beata
Parte VI La tarda Antichità
tranquilità’, e «paci perpetuae», ‘alla pace
perpetua’.
Costantino, come altri imperatori prima di lui, fece
di tutto per assicurarsi già in vita che i suoi figli
ereditassero il trono, nominandoli Cesari e
associandoli al potere: ogni volta che uno dei suoi
figli, ancora bambino, diventava Cesare, le zecche
cominciavano a battere monete con la sua faccia e
il suo nome, per renderli familiari ai sudditi. Un
sistema che comportava dei rischi: quando
Costantino fece giustiziare il primogenito Crispo,
accusato di complottare contro di lui, la faccia e il
nome di Crispo sparirono di colpo dalle monete di
nuova coniazione, ma continuarono a circolare
sulle vecchie, che era impossibile ritirare tutte.
Le monete di Costantino offrono anche la
testimonianza più impressionante della sua svolta
religiosa. Fino al 318 sulle monete sono spesso
esaltati il dio Marte e il dio Sole, compagni e
protettori dell’imperatore, con slogan come «Marti
patri propugnatori», ‘al padre Marte che combatte
per l’imperatore’, o «soli invicto comiti», ‘al Sole
compagno invincibile dell’imperatore’. In
quell’anno, di colpo, le invocazioni agli dèi
scompaiono per sempre. Potremmo aspettarci che
fossero sostituite dalla croce di Cristo, ma non è
così: i simboli cristiani sulle monete di Costantino
sono rarissimi. Compare, invece, un
nuovo modo di raffigurare la
faccia dell’imperatore: con
lo sguardo rivolto verso
l’alto, a fissare un Dio
che lui solo può
vedere. Il
messaggio ai
sudditi era
chiarissimo:
l’imperatore
dialoga con
Dio, e tutti gli
altri debbono
prendere
istruzioni da
lui.
Solidus di
Costantino (rovescio)
323
Emesso a Tessalonica,
questo solidus presenta
sul verso l’imperatore
vincitore di tutte
le genti, tra nemici supplici.
niata dallo Stato era spesa dallo Stato per pagare l’esercito e per finanziare i grandi interventi pubblici, come i giochi del circo o i cantieri delle basiliche, ma poi tornava nelle casse dello Stato grazie al fisco.
Accanto a questo circuito monetario divenne sempre più importante nel corso del IV secolo il meccanismo dell’imposta in natura, l’annona, che lo Stato riscuoteva direttamente dai produttori. Enormi quantità di prodotto erano ammassate dallo Stato, che le utilizzava per il mantenimento delle truppe e per le distribuzioni gratuite alla popolazione di Roma e di Costantinopoli. Sotto Costantino si accentuarono quindi le caratteristiche stataliste e centraliste dell’economia antica: il bacino del Mediterraneo ferveva di traffici, le merci e il denaro circolavano in grandi quantità, ma il motore di gran parte di questi movimenti
era lo Stato. Prezzi, salari, consumi non dipendevano dal gioco della domanda e dell’offerta e dall’iniziativa privata dei mercanti, ma erano in larga misura regolamentati dall’imperatore: era un’economia ricca e vitale, ma molto diversa dal capitalismo moderno.
1. A cosa servì garantire il peso e la qualità del solidus d’oro? 2. A quali scopi erano destinate le
riscossioni in natura dei prodotti?
annona
Inizialmente, a Roma, il
termine indicava il raccolto
annuale di grano (“annona”
deriva appunto da annus).
Gradatamente passò a indicare
gli approvvigionamenti in
grano depositati nei granai
pubblici, o l’imposta in natura
cui erano tenute le province
grandi produttrici di grano
come l’Africa e l’Egitto, dette
per questo “province
annonarie”. Il termine sarebbe
tornato più volte. Il prefetto
dell’annona istituito da Augusto
per la città di Roma, per
esempio, fu così detto perché
provvedeva
all’approvvigionamento
dell’Urbe e alle donazioni di
grano al popolo [cfr. cap.
12.7].
6. L’immigrazione verso l’impero e la barbarizzazione
dell’esercito
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Cambia la composizione dell’esercito
Sotto Costantino e i suoi successori si accentuò un fenomeno che si era manifestato fin
dal tempo di Marco Aurelio: e cioè l’accoglienza e l’integrazione nell’impero romano di
nuclei di popolazione barbara sottomessa. Poteva trattarsi di profughi scacciati dal loro paese dalla carestia o da un’invasione; oppure di barbari sconfitti in guerra dai Romani, che
anziché restare nel loro paese devastato imploravano di essere accolti. In certi casi il governo imperiale non si limitava ad accogliere chi lo chiedeva, ma andava a prendere gente
oltre i confini, nel barbaricum, il mondo abitato dai barbari, e la deportava a forza sul territorio romano. In tutti questi casi i giuristi romani attribuivano a questi immigrati la qualifica di dediticii: gente, cioè, che si era ‘data’ senza condizioni all’imperatore, e quindi non
aveva diritti, ma viveva sul suolo romano solo per grazia dell’imperatore e doveva obbedire ai suoi ordini.
Ma perché accadeva tutto questo? Il fatto è che l’impero aveva continuamente fame di
uomini, per lavorare la terra e per servire nei reparti dell’esercito. Proprio il bisogno di trovare continuamente nuove reclute spiega come mai tutta questa gente non fosse ridotta
in schiavitù: nelle caserme infatti potevano entrare solo gli uomini liberi. Vedremo più
avanti che quest’afflusso di immigrati e deportati contribuì a modificare la condizione dei
contadini dipendenti, con la progressiva sostituzione dei coloni agli schiavi [cfr. par. 7]. Ma
la trasformazione più vistosa fu quella dell’esercito, dove nel corso del IV secolo divenne
normale che una percentuale significativa dei soldati e anche degli ufficiali fosse di origine barbarica.
Il governo imperiale, in realtà, cercava di imporre il servizio militare anche alla popolazione romana. I figli dei soldati erano obbligati a seguire lo stesso mestiere dei padri. Va-
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
125
gabondi e disoccupati rischiavano sempre di essere arruolati con la forza in caso di emergenza. I contadini liberi, che soprattutto in Occidente erano perlopiù coloni al servizio dei
grandi latifondisti – mentre i piccoli proprietari indipendenti erano più diffusi in Oriente –,
erano tenuti al servizio militare e i padroni dovevano consegnarne regolarmente un certo
numero alle caserme. Ma siccome i grandi proprietari non rinunciavano volentieri alla loro manodopera, il governo concesse la possibilità di pagare una certa somma di denaro al
posto di ogni recluta. Questo denaro veniva utilizzato per pagare dei volontari che accettavano di arruolarsi; e questi volontari si trovavano soprattutto fra gli immigrati, o addirittura oltre confine, dove si andavano a cercare giovani barbari desiderosi di diventare soldati
romani. Questa compravendita delle reclute si prestava alla corruzione, e molto denaro
spariva nelle tasche degli ufficiali, anche se gli imperatori si sforzavano di regolamentare
le transazioni e fissare i prezzi; il risultato, comunque, è che una percentuale crescente di
soldati romani era di origine barbarica.
Alcuni di questi soldati facevano carriera, diventando ufficiali; e i figli di questi ufficiali
potevano diventare generali. Il primo generale romano di origine notoriamente barbarica è documentato proprio al tempo di Costantino; all’epoca di Valentiniano e Valente si è calcolato
che circa metà dei generali e degli alti ufficiali dell’esercito discendeva da barbari immigrati.
Come valutare il fenomeno?
Questa barbarizzazione dell’esercito è stata considerata in passato come una delle cause della decadenza dell’impero romano. In realtà questo giudizio era frutto di un pregiudizio: fra Ottocento e Novecento dominava il nazionalismo, e un esercito che invece d’essere nazionale era multietnico veniva guardato con sospetto. Oggi possiamo dire che l’esercito romano del IV secolo, pieno di reclute immigrate e comandato da generali di origine
barbarica, non era affatto meno efficiente rispetto ai secoli passati, e neanche meno fedele
all’imperatore. Le ribellioni non mancavano, ma l’esercito romano e i suoi generali si erano sempre ribellati con grande frequenza al potere costituito, fin dal tempo di Mario e Silla. L’esempio dell’esercito americano di oggi, i cui generali discendono da immigrati di tutte le nazionalità, dimostra che l’esercito di una grande potenza imperiale può essere di origine multietnica e tuttavia conservare una fondamentale omogeneità nazionale. Nel IV secolo i militari romani di origine barbarica non desideravano conservare la loro identità originaria, ma cancellarla per diventare romani.
1. Per quale motivo i barbari immigrati o deportati non furono ridotti in schiavitù? 2. Ai soldati di origine
barbarica era preclusa la carriera militare?
7. Il colonato
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Cresce il numero dei contadini affittuari
L’immagine popolare del mondo romano dà, giustamente, molto spazio alla dura condizione degli schiavi. Bisogna però distinguere fra la schiavitù domestica e la schiavitù dei
lavoratori impiegati nei campi. Nell’epoca di cui parliamo i ricchi continuavano a circondarsi, in casa, di un numeroso personale domestico formato da schiavi, proprio come in pas-
126
Parte VI La tarda Antichità
sato. Nei campi, invece, le cose erano cambiate. Già dal III secolo
i contadini che lavoravano i latifondi dei grandi proprietari erano
sempre più spesso coloni, e non schiavi. Il colono era un uomo libero, che prendeva in affitto un podere e lo coltivava con la sua famiglia, pagando al padrone un canone in denaro o una parte del raccolto [cfr. cap. 13.10].
Uno dei motivi per cui il colonato si diffuse nel tardo impero romano è che le grandi guerre di conquista erano diventate più rare, e
il rifornimento di schiavi meno sicuro. Quando l’imperatore
sconfiggeva in guerra un popolo barbaro, il mercato era ancora
inondato di schiavi a bassissimo prezzo, ma questi avvenimenti erano meno frequenti che in passato, e il prezzo degli schiavi nei tempi normali era troppo alto.
L’impoverimento e l’immigrazione di barbari verso il territorio dell’impero mettevano invece a disposizione una numerosa manodopera libera, che accettava anche condizioni molto dure pur di
avere lavoro. Ai latifondisti, quindi, conveniva usare coloni anziché
schiavi.
Anche allo Stato conveniva favorire la diffusione del colonato al
posto della schiavitù. Gli schiavi erano proprietà privata dei padroni, e lo Stato non poteva raggiungerli; inoltre i Romani avevano
sempre avuto paura di armare gli schiavi ed evitavano di farlo anche nelle peggiori emergenze. I coloni invece erano uomini liberi,
cittadini, e quindi potevano essere obbligati a fare il servizio militare [cfr. cap. 14.8]. Gli imperatori del IV secolo misero in piedi
un sistema per cui i reparti militari stanziati in una provincia, quando avevano bisogno di uomini, imponevano ai latifondisti di far arruolare un certo numero dei loro coloni.
Anche la Chiesa, infine, favorì l’espansione del colonato. Il cristianesimo infatti considerava la liberazione degli schiavi come un’opera buona e incoraggiava i proprietari a liberare i loro schiavi. Nella stragrande maggioranza dei casi, però, gli schiavi venivano liberati con
certe condizioni, che li obbligavano a continuare a lavorare per il padrone. Quest’ultimo non era più chiamato dominus, che vuol dire ‘signore’, ‘padrone’, ma diventava il patronus, cioè ‘patrono’, ‘protettore’: ma era pur sempre il padrone, anche per lo schiavo diventato liberto [cfr. scheda, p. 58]. Non per niente quando noi diciamo padrone
usiamo una parola che non deriva dal latino dominus, ma proprio da
patronus! Quando un servo rustico, cioè uno schiavo che lavorava in
campagna, veniva liberato, continuava a lavorare trasformandosi in colono; e anche in questo modo la percentuale di schiavi nella manodopera contadina diminuiva, e aumentava quella dei coloni.
Mosaico con tre ville, alberi e piante di vite
IV sec.
Da Tabarka; Museo del Bardo, Tunisi
Mosaico con il riposo dopo la caccia
320-360
Villa del Casale, Piazza Armerina, Enna
In tutto l’impero le villae venivano decorate con splendidi
mosaici i cui temi potevano essere vari; molto frequenti
erano i racconti legati alla vita nelle campagne. Il primo
mosaico, rinvenuto in Tunisia, mostra tre villae e i
circostanti campi coltivati con alberi e piante di vite. Il
secondo mosaico mette in luce il fastoso regime di vita dei
ricchi proprietari terrieri: dopo una giornata passata a
caccia, gli aristocratici signori si concedono il meritato
riposo e un pasto a base di selvaggina, arrostita sulla brace
dai servitori, consumato sotto un ampio velario che li
protegge dal sole.
I coloni sono vincolati alla terra
Nel corso del IV secolo diventa evidente anche un peggioramento nella condizione dei coloni. Questa massa di lavoratori
composta in parte da contadini impoveriti, in parte da schiavi libe-
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
127
rati e da immigrati barbari godeva sì della cittadinanza romana, ma solo sulla carta. In pratica era gente sottomessa, schiacciata dall’autorità del padrone e con pochi diritti. Sotto gli
imperatori del IV secolo le leggi cominciano a considerare schiavi e coloni come categorie
sotto molti aspetti simili. Il colono non divenne mai proprietà del padrone, ma in pratica
era come se lo fosse: a partire da Costantino le leggi imperiali proibirono ai coloni di lasciare il latifondo su cui lavoravano, senza il permesso del padrone. Si creava così quella
situazione che i giuristi del Medioevo chiameranno “servitù della gleba”, per cui il lavoratore era vincolato alla terra che lavorava.
1. Per quale motivo lo Stato favoriva la diffusione del colonato al posto della schiavitù? 2. Quali vincoli
legavano il colono al patronus?
8. La provincializzazione
dell’Italia
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Roma perde centralità politica
La creazione di una nuova capitale a Costantinopoli da parte di Costantino è il segnale
più vistoso di uno spostamento di equilibri geografici all’interno dell’impero, che andò soprattutto a sfavore di Roma e dell’Italia. Certo, Roma era ancora il centro simbolico dell’impero, la sua popolazione continuava ad essere nutrita gratuitamente dallo Stato, il senato romano continuava a rappresentare innanzitutto un ceto di grandi proprietari terrieri
italici, straricchi, dei cui interessi bisognava tener conto. Ma l’imperatore in persona non
passava da Roma se non eccezionalmente, e mai per molto tempo. Gli imperatori si spostavano continuamente sul territorio, seguendo i ritmi delle campagne militari e delle ribellioni da soffocare, e quando si fermavano più a lungo in un luogo col loro immenso comitatus – un termine che indica sia il seguito dei funzionari e dei burocrati, sia i reggimenti
scelti che formavano l’esercito mobile al comando diretto dell’imperatore – non era quasi
mai a Roma, ma in città più vicine ai confini minacciati. Costantino, imperatore dal 306,
vide per la prima volta Roma nel 312, dopo la battaglia di Ponte Milvio; alla conquista, o
meglio alla “liberazione” di Roma dal “tiranno” Massenzio, la sua propaganda attribuì
enorme rilievo, ma lui non ci restò più di tre mesi. Ci ripassò per un paio di mesi nel 315,
e poi ci tornò nel 326, anche stavolta per poco più di due mesi: tre visite in tutto, in 36 anni di regno. Suo figlio Costanzo II visitò Roma una sola volta: prima di allora non aveva
mai visto l’Urbe che dava il nome al suo impero, e dopo di lui ci saranno molti imperatori
che moriranno prima di aver fatto in tempo a vederla.
Italia urbicaria e Italia annonaria
La perdita di centralità politica di Roma si accompagnò all’erosione dei privilegi di cui
godeva l’Italia. Fin dai tempi della Repubblica, all’Italia era stato risparmiato il sistema delle province, governate dagli avidi governatori mandati da Roma. L’Italia – ad eccezione
della Sicilia – non era stata suddivisa in province, ma in città e municipi autonomi che rispondevano direttamente all’imperatore. Inoltre godeva di ampie esenzioni fiscali; anche
se non è detto che questo sia stato un bene, perché alla lunga l’economia italiana, senza lo
128
Parte VI La tarda Antichità
stimolo costituito dalla pressione del fisco, e drogata dalle distribuzioni gratuite di generi alimentari al
popolo di Roma, non tenne il passo con lo sviluppo
economico delle province.
La situazione privilegiata dell’Italia era stata rimessa in discussione già a partire dalla tetrarchia.
Diocleziano, rimodellando le circoscrizioni amministrative dell’impero, decise che l’Italia non aveva
più diritto a uno status separato, e la suddivise in dodici province [cfr. cap. 14.7]. Nel corso del IV secolo le province salirono a sedici e vennero raggruppate in due diocesi. Una era l’Italia “urbicaria”, cioè
il Centro-sud che costituiva l’entroterra immediato
dell’Urbe, e che conservava certi privilegi fiscali.
L’altra era l’Italia “annonaria”, cioè il Nord, in cui
la riscossione dell’annona avveniva come in tutto il
resto dell’Impero.
Parificato alle province dal punto di vista fiscale,
il territorio dell’Italia del Nord acquistò in compenso
nuova importanza politica nel corso del IV e V secolo: gli imperatori e il loro comitatus presero a risiedervi sempre più spesso, e prima Milano, poi Ravenna divennero capitali di fatto dell’impero d’Occidente. A questa nuova centralità dell’Italia settentrionale corrispose un crescente separatismo della Gallia, dove più volte gli eserciti proclamarono propri
imperatori. Costoro, a partire dal 350 con Magnenzio, sono passati alla storia come usurpatori, ma in
realtà riuscirono spesso a governare per anni la Gallia come imperatori a tutti gli effetti. Nasceva, per la
prima volta, l’idea che certe regioni periferiche dell’impero potessero staccarsene e diventare in pratica
dei regni indipendenti; un’idea che avrà importanti
conseguenze all’epoca delle invasioni barbariche (ne
parleremo nel capitolo seguente).
Così l’impero romano si trasformava, com’era
inevitabile, perché nella storia ogni società è sempre
in continua trasformazione: l’impero che Costantino
lasciò ai suoi figli era un organismo profondamente
diverso da quello che Augusto aveva creato oltre tre
secoli prima, anche se continuava a chiamarsi allo
stesso modo.
Arco di Costantino
312-315
Roma
Ingresso trionfale di Costantino a Roma
Particolare dell’Arco di Costantino, Roma
L’arco di Costantino fu fatto erigere dal senato per celebrare la vittoria
conseguita dall’imperatore nel 312 su Massenzio. Questo monumento può essere
considerato un vero e proprio museo d’arte romana ufficiale, visto che si
compone in larga parte di pezzi scultorei e strutturali reimpiegati da altri
monumenti più antichi, pratica che peraltro divenne abituale proprio a partire da
questi anni. La fascia di rilievi rettangolari che fregia tutto l’arco è invece del
tempo di Costantino e ripercorre gli eventi precedenti la battaglia di Ponte
Milvio fino all’entrata trionfale dell’imperatore a Roma.
1. Con Costantinopoli come nuova capitale, quale funzione conservava il senato di Roma? 2. Che
differenze c’erano tra l’Italia urbicaria e quella annonaria?
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
129
SINTESI
1. L’età di Costantino
Nelle lotte civili che seguirono all’abdicazione di Diocleziano e Massimiano prevalse Costantino. Sotto il suo governo l’impero si rafforzò. I barbari furono sottomessi, la svalutazione della moneta venne frenata, e una serie di riforme permise di razionalizzare
l’amministrazione e la giustizia, consolidando il potere assoluto dell’imperatore. Con Costantino il centro dell’impero si spostò verso il
più ricco Oriente e come capitale fu scelta Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli. Il nuovo imperatore non nascose le proprie simpatie
nei confronti del cristianesimo. Nel 313 fu emanato l’editto di Milano, che dichiarava legittima la religione cristiana. Durante il regno,
inoltre, furono concessi numerosi privilegi al clero cristiano, fu finanziata la costruzione di nuove basiliche e lo stesso Costantino prese parte al primo concilio ecumenico della storia, convocato a Nicea nel 323, nel quale fu evidente la frattura tra cattolici e ariani.
2. Dai figli di Costantino a Valentiniano e Valente
Alla morte di Costantino (337) l’impero fu diviso tra i tre figli, che continuarono la politica interna e estera del padre. I contrasti fra i tre fratelli sorsero ben presto per motivi politici e religiosi. Costantino II fu sconfitto e ucciso dal fratello Costante. Questi fu ucciso in una congiura capeggiata da Magnenzio. Il terzo fratello Costanzo II sconfisse l’usurpatore e regnò come unico imperatore. Alla
sua morte (361) il potere passò al cugino Giuliano, che cambiò nettamente il modello di governo: ridimensionò la corte e la burocrazia,
cercò di rivitalizzare le autonomie cittadine e ristabilire i vecchi culti pagani, ma fu ucciso in guerra. Gli successe Gioviano, che tornò
a favorire il cristianesimo. A questi successe Valentiniano (364), che stabilizzò la suddivisione dell’impero in due parti, Occidente e
Oriente.
3. Il cristianesimo non più perseguitato, ma diviso
Con Costantino il cristianesimo venne favorito in molti modi dal potere imperiale al punto da diventare, nel corso del IV secolo, la religione di maggioranza in tutto l’impero. La Chiesa uscì dalla clandestinità e i vescovi cominciarono a sorvegliare la vita religiosa della città e del territorio. Anche le fratture dottrinarie, però, vennero alla luce. Alle posizioni ortodosse, allineate, cioè, con la dottrina ufficiale della Chiesa, si contrapponevano le posizioni contrastanti, definite eretiche dagli ortodossi. Nel concilio di Nicea, per
esempio, sulla questione dei rapporti fra le tre persone della Trinità, si scontrarono Ario, che sosteneva l’inferiorità del Figlio rispetto al
Padre, e Atanasio, che sosteneva la parità tra i due e la cui posizione prevalse.
4. La nascita del monachesimo
Con il termine monaco si indicavano i primi cristiani che cercavano la solitudine per dedicarsi interamente alla preghiera e all’ascesi. Nel IV secolo i monaci cominciarono a organizzarsi in comunità guidate dagli abati. I monaci pronunciavano dei voti e si impegnavano a seguire una vita di povertà basata su regole precise. Le prime comunità sorsero in Oriente su iniziativa di Pacomio e si diffusero in Occidente grazie all’opera di Martino di Tours. Il diffondersi del monachesimo suscitò reazioni contrastanti nella società, ma
in un certo senso i monaci erano visti come i filosofi greci, per la loro radicale scelta di vita e grazie al rispetto che della loro opinione
avevano i potenti.
5. La moneta e il fisco
Una delle riforme più importanti promosse da Costantino riguardò la moneta. Egli fece coniare in gran quantità la moneta d’oro, il solidus, e ne garantì il peso e la qualità per salvaguardarne il potere d’acquisto. In questo modo avviò un circuito monetario, nel
quale lo Stato spendeva la moneta per pagare l’esercito e per gli interventi pubblici, e questa gli rientrava grazie al fisco. Crebbe, inoltre, il meccanismo dell’imposta in natura, che lo Stato riscuoteva direttamente dai produttori e utilizzava per il mantenimento delle truppe e per le distribuzioni gratuite agli abitanti di Roma e Costantinopoli. Questi provvedimenti accentuarono la natura statalista e centralista dell’economia antica.
6. L’immigrazione verso l’impero e la barbarizzazione dell’esercito
Nel IV secolo si accentuò l’accoglienza e l’integrazione nell’impero romano di nuclei di popolazione barbara sottomessa. Questo fenomeno era dovuto alla necessità sempre più urgente di trovare uomini per lavorare la terra e soldati da reclutare. Anche se la riforma dell’esercito di Diocleziano aveva reso obbligatoria l’ereditarietà del mestiere militare e aveva permesso di attingere reclute tra i coloni, nel corso del IV secolo una significativa percentuale di soldati era di origine barbarica, così come crebbe continuamente il numero di alti ufficiali e generali che discendevano da barbari immigrati.
7. Il colonato
Gradualmente, i coloni sostituirono quasi ovunque la manodopera schiavile nelle campagne. Questo fenomeno era dovuto tanto al calo del rifornimento di schiavi, quanto all’impoverimento della popolazione e all’immigrazione di barbari, due fenomeni che mettevano a disposizione una numerosa manodopera libera e a basso costo. Oltre ai grandi proprietari terrieri, questa situazione conveniva
130
Parte VI La tarda Antichità
anche allo Stato, che poteva obbligare i cittadini liberi a svolgere il servizio militare, e alla Chiesa, che considerava un’opera buona la
liberazione degli schiavi. Tuttavia, i coloni erano individui con pochi diritti, sottomessi all’autorità del padrone. Le leggi di Costantino,
inoltre, proibirono ai coloni di lasciare il latifondo su cui lavoravano, senza il permesso del padrone.
8. La provincializzazione dell’Italia
Lo spostamento del baricentro verso Oriente fece perdere centralità politica a Roma e all’Italia e, nel tempo, questo significò
anche l’erosione dei privilegi di cui aveva goduto la penisola e che, in un certo senso, ne avevano frenato lo sviluppo economico. Con
Diocleziano l’Italia era stata suddivisa in dodici province; nel corso del IV secolo esse arrivarono a sedici e furono raggruppate in due
diocesi: l’Italia urbicaria, corrispondente al Centro-sud e che conservava alcuni privilegi, e l’Italia annonaria, cioè il Nord, nella quale
la riscossione fiscale avveniva come nel resto dell’impero. L’Italia del Nord, tuttavia, acquistò con il tempo nuova importanza politica
e prima Milano, poi Ravenna divennero capitali di fatto dell’impero d’Occidente.
ESERCIZI
Gli eventi
1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta:
1. L’editto di Milano...
4. Nel corso del IV secolo l’Italia...
❏ a) rese il cristianesimo l’unica religione dell’impero romano;
❏ a) tornò ad essere il centro politico dell’impero;
❏ b) bollò come eretica la dottrina ariana;
❏ b) continuò a godere di ampie esenzioni fiscali;
❏ c) pose fine alla persecuzioni contro i cristiani;
❏ c) conobbe un incredibile sviluppo economico;
❏ d) stabilizzò la divisione tra impero d’Occidente e impero d’Oriente.
❏ d) fu divisa in sedici province.
2. L’imperatore Giuliano...
5. Il teologo Ario...
❏ a) represse duramente i culti pagani;
❏ a) riteneva che le tre persone della Trinità fossero equivalenti;
❏ b) rese assoluto il potere dell’imperatore;
❏ b) sosteneva che il Figlio era inferiore al Padre;
❏ c) cercò di risolvere il dissenso tra cattolici e ariani;
❏ c) credeva che Cristo fosse Dio e uomo allo stesso modo;
❏ d) ridimensionò la corte e la burocrazia.
❏ d) sosteneva la completa parità tra Padre e Figlio.
3. I coloni...
6. Il concilio di Nicea...
❏ a) non erano obbligati a svolgere il servizio militare;
❏ a) definì i rapporti tra Stato e Chiesa;
❏ b) non potevano allontanarsi dal latifondo liberamente;
❏ b) affrontò il problema dei cosiddetti “donatisti”;
❏ c) erano legalmente di proprietà del padrone per cui lavoravano;
❏ c) dichiarò eretica la posizione di Atanasio;
❏ d) godevano pienamente dei diritti politici previsti per i cittadini
romani.
❏ d) fu convocato e presieduto dallo stesso Costantino.
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
131
2. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette:
❏ a) Per salvaguardare il potere d’acquisto Costantino introdusse il
follis di bronzo.
❏ f) L’imperatore Gioviano scatenò durissime repressioni nei
confronti dei cristiani.
❏ b) Costantino vietò ai soldati di origine barbarica di fare la carriera
militare.
❏ g) Gran parte delle risorse dello Stato erano spese per il
mantenimento dell’esercito.
❏ c) L’imperatore Giuliano cercò di rivitalizzare le autonomie delle
città.
❏ h) Il movimento monastico si diffuse in Occidente grazie all’opera
di Pacomio.
❏ d) Lo Stato obbligava i coloni a svolgere il servizio militare.
❏ i) Le comunità monastiche erano guidate da un abate ed erano
organizzate gerarchicamente.
❏ e) I privilegi concessi da sempre all’Italia ne frenarono lo sviluppo
economico.
❏ j) Al contrario dei fratelli, Costantino II si schierò con l’arianesimo.
Le coordinate spazio-temporali
3. Completa il seguente testo inserendo correttamente i nomi, le date e i termini mancanti:
Nel ............................................................., dopo la morte di ................................................................................., Augusto d’Occidente, il figlio Costantino fu acclamato
imperatore in Britannia, mentre ................................................................................................................................, figlio di Massimiano, prendeva il potere con la forza
in ..................................................................................... Lo scontro tra i due avvenne nel 312 a ....................................................................................., alle porte di Roma,
e Costantino sconfisse e uccise Massenzio. Nel ............................................................. Costantino e ................................................................................, imperatore a lui
associato, emanarono l’editto di Milano, detto anche .................................................................., con il quale dichiaravano il ...................................................................
religione legittima e ponevano fine alle persecuzioni nei confronti dei suoi fedeli. Dopo che Licinio ebbe sconfitto il terzo imperatore
.............................................................. e a sua volta venne sconfitto e ucciso da Costantino, questi rimase l’unico imperatore al potere. Il regno di Costantino
durò fino alla sua morte avvenuta nel .............................................................. e grazie alle sue riforme l’impero ne uscì rafforzato. Alla sua morte l’impero fu
diviso tra i suoi tre figli, Costantino II – che ebbe ........................................................................................., Britannia e ............................................................................... –
.............................................................................. – a cui andarono Anatolia, ........................................................................... ed Egitto – e Costante – che ricevette Italia,
............................................................., Grecia e .......................................... I contrasti che sorsero fra i tre fratelli furono non solo dovuti all’ambizione, ma anche a
.............................................; infatti, Costanzo II appoggiò l’............................................................., mentre gli altri due fratelli aderirono al cattolicesimo. Lo scontro
avvenne nel ..................................................................... tra Costantino II e .............................................................; questi ebbe la meglio, ma fu ucciso nel 350 da un
ufficiale, ................................................................, che si proclamò imperatore. Tra il 351 e il .............................................................. Costanzo II sconfisse l’usurpatore
e regnò fino alla sua morte, avvenuta nel ............................................................., sull’impero nuovamente unificato.
Il lessico
4. Collega correttamente i seguenti termini ed espressioni alle definizioni corrispondenti:
1) Italia urbicaria:
a) Barbari privi di diritti, che vivevano sul suolo romano solo per grazia dell’imperatore e dovevano obbedire ai suoi ordini.
2) Concilio ecumenico:
b) La ricerca di Dio attraverso la rinuncia a tutti i piaceri del mondo.
3) Eretico:
c) Raduno di vescovi provenienti da tutto il mondo cristiano.
4) Dediticii:
d) Diocesi corrispondente ai territori dell’Italia settentrionale.
5) Donatismo:
e) Colui che obbediva alla Chiesa e ne accettava il magistero.
6) Italia annonaria:
f) Diocesi corrispondente ai territori dell’Italia Centro-meridionale.
7) Ascesi:
g) Movimento cristiano sorto in Africa, intransigente nei confronti dei vescovi e dei fedeli che non avevano resistito alle
persecuzioni.
8) Ortodosso:
h) Colui che faceva una “scelta” personale in contrasto con il magistero della Chiesa.
132
Parte VI La tarda Antichità
I processi
5. Completa correttamente il seguente schema inserendo le informazioni mancanti, quindi rispondi alle
domande:
I .................. immigrano
o vengono ......................
nei territori dell’impero
Vengono reclutati
nell’........................
Diminuiscono le grandi
............................................
.............................................
Forniscono ..........
................................
....... a basso costo
Cala il rifornimento
di ..............................
Nella seconda metà
del IV secolo, circa la
metà ...........................
.....................................
.....................................
............... discendeva
da barbari immigrati
Nei campi si diffonde
il ....................................
a) Per quale motivo allo Stato conveniva la diffusione del colonato?
b) Qual era la posizione della Chiesa nei confronti della schiavitù?
c) Quali erano le condizioni di vita dei coloni? Differivano molto da quelle degli schiavi?
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Quali furono le principali riforme promosse da Costantino?
2) Per quale motivo Costantino spostò a Oriente il baricentro dell’impero?
3) Che conseguenze ebbe questa scelta sul destino delle province italiane?
4) Quali furono i rapporti tra Stato e Chiesa nei decenni in cui regnò la dinastia di Costantino?
5) Riguardo a quali temi si crearono le prime più importanti fratture nel mondo cristiano?
6) Quali erano le origini e i principali caratteri del movimento monastico?
Capitolo 15 Il secolo di Costantino
133
PARTE VII
Il mondo romano-barbarico
N
ei prossimi capitoli il nostro orizzonte geografico si restringe. Le vicende raccontate
fin qui riguardavano l’intero orizzonte mediterraneo: erano quelle di un impero che si
estendeva dalla Scozia all’Iraq. Ora, invece, cominciamo a studiare
una vicenda che riguarda innanzitutto l’Europa occidentale, e che anzi ha contribuito in modo
decisivo a creare l’Occidente come lo si intende oggi. Parleremo delle invasioni
barbariche, della caduta dell’impero romano, della fine dell’Antichità e dell’inizio del
Medioevo.
Attenzione, però: l’impero romano di cui parliamo era già
profondamente diverso da quello di Cesare e Augusto. La grande crisi del III
secolo, le riforme di Diocleziano e di Costantino, l’avvento del cristianesimo e la
nascita della Chiesa avevano rappresentato formidabili trasformazioni rispetto
all’epoca classica. Il mondo, insomma, stava cambiando anche prima dell’arrivo
dei barbari, com’era inevitabile, perché il mondo cambia continuamente. Gli
interessi degli uomini entrano in conflitto, i conflitti producono mutamenti, vecchi
problemi sembrano risolti ma subito ne compaiono di nuovi: nessuna società complessa
può rimanere a lungo immobile. Un grande pensatore dell’Ottocento, Karl Marx, definì
questa caratteristica della società umana dicendo che la
realtà è “dialettica”: è fondata cioè sul dialogo,
l’interazione e lo scontro, e dove c’è confronto fra diversi
attori non c’è mai immobilità.
In passato gli storici vedevano
nelle invasioni barbariche una frattura più
importante di tutte le altre: si pensava che proprio
con l’arrivo dei barbari finisse l’Antichità e
cominciasse il Medioevo. I manuali fissavano la
data d’inizio dell’età medievale al 476, che
corrisponde alla deposizione dell’ultimo imperatore
romano d’Occidente, Romolo Augustolo; e la data finale
al 1492, la scoperta dell’America da parte di Cristoforo
Colombo. Di quest’ultimo evento si conosce anche il
giorno, il 12 ottobre; c’è da chiedersi perché non
indicare addirittura l’ora esatta in cui finì il Medioevo!
Chi ci legge si accorge che detta così, la cosa è ridicola: il
mondo cambia, sì, anche in seguito ai grandi avvenimenti,
ma con processi lenti e complessi, non da un momento all’altro. E lo stesso vale per il 476: oggi conosciamo meglio
quei secoli, e sappiamo che in quel momento il mondo non cambiò all’improvviso. Molte caratteristiche impresse
alla società romana dalle grandi trasformazioni del III e IV secolo rimasero evidenti anche dopo l’arrivo dei barbari.
Alcuni storici hanno addirittura l’impressione di una continuità di fondo, che dall’epoca di Costantino (che muore nel
337) può arrivare fino a quella di Carlo Magno (che muore nell’814).
Ecco perché oggi la vecchia idea di Medioevo, di un interminabile periodo di ben mille anni
che sarebbe stato tutto caratterizzato da barbarie e oscurità, non ha più credito fra gli storici, e qualcuno preferirebbe
addirittura fare a meno di tutta questa terminologia, “Medioevo”, “medievale”. Qui noi continueremo a usarla,
perché è troppo diffusa per poterne fare a meno, ma con l’avvertenza che il periodo indicato come Medioevo è
lungo, pieno di cambiamenti, e che bisogna dividerlo almeno in due parti: l’“alto Medioevo”, che comincia nel IVV secolo e finisce intorno al Mille, e il “basso Medioevo”, che va dal Mille fino al XV-XVI secolo. Noterete
forse che in questo modo l’“alto Medioevo” coincide in parte con quella
“tarda Antichità” che abbiamo presentato nell’introduzione alla
parte sesta, e che viene estesa da molti studiosi fino a
comprendere l’epoca delle invasioni barbariche e dei regni
romano-barbarici. E quando, l’anno prossimo, studierete il
basso Medioevo, vi accorgerete che coincide in parte con il
Rinascimento. È vero: i nomi dei periodi sono invenzioni
nostre, e una stessa epoca può essere attribuita a periodi
diversi a seconda del punto di vista dello storico. È una
complicazione, ma è così, e quando si studia la storia è
meglio rendersene conto il prima possibile.
Capitolo 16
Le invasioni
barbariche
1. L’invasione gotica del 376
e le sue conseguenze
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
I primi stanziamenti
Alla fine del IV secolo l’impero romano si trovò ad affrontare quei movimenti di popoli barbari che di solito chiamiamo invasioni barbariche, anche se sarebbe più preciso parlare di migrazioni dei popoli, perché non si è trattato sempre di invasioni violente: spesso,
infatti, i barbari si sono insediati sul territorio romano col consenso del governo imperiale.
Roma aveva avuto fin dall’inizio rapporti non facili con le popolazioni barbariche che
vivevano al di là dei suoi confini, in Europa come in Asia e in Africa. Le province di confine erano sempre soggette ad attacchi e razzie, e in certi momenti di crisi, come la metà
del III secolo, scorrerie in grande stile si erano spinte fin nel cuore del mondo romano, nell’Italia settentrionale e in Grecia, dove i Goti avevano saccheggiato Atene [cfr. cap. 14.4].
Ma l’impero era sempre venuto a capo di queste minacce; e se molti barbari si erano stabiliti sul suo territorio, lo erano come deportati o come profughi. Accolti e messi a lavorare
sotto sorveglianza, si erano sempre integrati nella popolazione dell’impero.
A partire dalla fine del IV secolo assistiamo invece a un cambiamento importante: cominciano movimenti su grande scala di popoli che si insediano sul territorio romano, non sempre con la violenza, come s’è detto, ma comunque senza trasformarsi in sudditi di Roma e senza integrarsi con la popolazione locale. Questa improvvisa spinta dall’esterno ebbe un effetto destabilizzante sull’impero romano, e nell’arco di circa un secolo ne determinò il crollo: non
però di tutto l’impero, come a volte si dice sbagliando, ma solo della sua parte occidentale.
Il primo esempio di insediamento barbarico su grande scala si verificò in una zona che
alle autorità romane appariva periferica, la Gallia settentrionale. Qui nel IV secolo la crisi economica e le continue scorrerie della popolazione germanica dei Franchi, stanziati al
di là del Reno, avevano spopolato le zone di confine. Le autorità romane, dopo aver a lungo combattuto i barbari, accettarono che parte di loro si stanziassero al di qua della frontiera, nella zona che oggi corrisponde al Belgio, e affidarono ai loro re la difesa del confine renano. Quello dei Franchi è il più antico caso di popolo che si trasferisce sul suolo romano continuando a obbedire ai suoi capi, conservando le sue leggi, e sostituendo l’esercito romano nel compito di difendere il paese; ed è anche l’esempio più evidente di insediamento pacifico e concordato, che ha ben poco di un’invasione.
L’invasione gotica
Uno stanziamento assai più drammatico si verificò nel 376, quando una folla di profughi
venne ad accamparsi sulla riva settentrionale del Danubio, che formava il confine dell’im-
136
Parte VII Il mondo romano-barbarico
pero romano d’Oriente col mondo delle steppe. I profughi appartenevano al popolo dei Goti, che parlava una lingua germanica; i Romani li conoscevano bene, perché da
secoli erano abituati a combatterli, a commerciare con loro, e ad assumerli come mercenari per il loro esercito. I
Goti vivevano lavorando la terra e allevando bestiame;
non erano nomadi, ma si spostavano facilmente da una
zona all’altra in caso di bisogno, caricando le loro masserizie su carri. I rapporti con l’impero romano avevano
arricchito i loro capi: gli archeologi trovano nelle loro
tombe armi di ottima qualità e oggetti d’oro. Dal mondo
romano era arrivata anche un’altra novità, il cristianesimo: un Goto, Ulfila, che aveva studiato a Costantinopoli,
era stato ordinato vescovo ed era tornato a convertire il
suo popolo, traducendo la Bibbia in lingua gotica. Molti Goti, perciò, erano diventati cristiani, anche se molti altri continuavano ad adorare i loro antichi dèi.
I Goti che nel 376 si affollavano sul Danubio erano
stati scacciati dai loro villaggi da un nuovo e terribile nemico venuto dall’Oriente, gli Unni. Questo popolo nomade viveva nelle steppe asiatiche, allevando cavalli e
arricchendosi con le razzie ai danni dei popoli confinanti, ed era avvolto da un alone di mistero. I Romani sapevano solo che gli Unni erano crudeli e selvaggi, che non
avevano patria, perché nascevano e vivevano in convogli di carri e accampamenti di tende, e che avevano l’abitudine disgustosa di far frollare la
carne sotto le selle dei cavalli. Ora gli Unni si erano riversati nel paese dei Goti, avevano
sconfitto e massacrato le tribù che cercavano di resistere, e sospinto una marea di profughi
verso la frontiera romana.
I capi dei Goti accampati sul Danubio chiesero di essere accolti nell’impero. La richiesta
non aveva nulla di strano: non era la prima volta che intere tribù barbare passavano la frontiera col permesso del governo, sottomettendosi all’imperatore e ricevendo terra da lavorare nelle zone dove c’era bisogno di manodopera. L’imperatore d’Oriente, Valente, informato della loro supplica diede ordine di accoglierli. Le cose, però, presero subito una brutta piega. Non c’erano ponti sul Danubio, e i profughi vennero traghettati attraverso il fiume in piena su zattere e barche; molti annegarono, molte famiglie si divisero, e gli ufficiali romani ne
approfittarono per portarsi a casa, come schiavi, bambini e ragazzine rimasti soli.
I rifugiati erano così numerosi che tutti i controlli saltarono: gli uomini non vennero perquisiti, e portarono con sé le proprie armi; i segretari che dovevano registrare chi entrava rinunciarono a contarli. I Goti vennero ammassati in campi profughi in territorio romano, dove cominciarono subito a fare la fame, perché i generali romani, che dovevano distribuire gratis le razioni offerte dal governo, ci rubavano sopra. I profughi affamati furono costretti a
vendere i figli come schiavi per poter sopravvivere; i soldati romani vendevano loro, per mangiarli, addirittura dei cani. Alla fine successe l’inevitabile: i Goti si ribellarono, uccisero i soldati di guardia, e s’impadronirono delle loro armi. Le truppe romane mandate a sedare la rivolta vennero ripetutamente sconfitte, e per ben due anni i barbari saccheggiarono le ricche
campagne dell’impero d’Oriente, spingendosi fino alle mura della capitale, Costantinopoli.
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
Accampamento militare
romano a Saalburg,
Germania
I-III sec.
Lungo il limes germanico, a
protezione dei confini
dell’impero romano e delle
province comprese tra i
fiumi Reno e Danubio,
furono disposti diversi
accampamenti fortificati, i
castra. Nel I secolo d.C. fu
fondato il castrum di
Saalburg (non distante dalla
moderna Francoforte sul
Meno) destinato a ospitare
truppe ausiliarie. Il sito fu
abbandonato verso la fine
del III secolo e nel 2005 è
stato dichiarato dall’Unesco
patrimonio dell’umanità.
137
Soldato romano del tardo
impero
Disegno di D. Spedaliere
L’esercito romano che
affrontò i Goti ad
Adrianopoli era molto
diverso da quello di Cesare e
di Augusto. Al posto delle
antiche legioni c’erano ora
reparti molto più piccoli, al
massimo d’un migliaio di
uomini. Erano reggimenti di
fanteria, ma anche di
cavalleria corazzata (i
“catafratti”) e di arcieri a
cavallo. Il modo di
combattere era cambiato: al
posto del giavellotto e della
spada corta, il gladio, ora i
soldati romani usavano lance
lunghe tre metri, e per il
corpo a corpo impugnavano
pesanti spade a doppio
taglio, simili a quelle dei
barbari. Rivestiti
di cotte di maglia
di ferro, avevano
un aspetto più
simile a quello di
un guerriero
medievale che di
un legionario
antico.
Alla fine l’imperatore Valente in persona radunò l’intero esercito per affrontare gli immigrati ribelli e ridurli alla ragione, ma venne sbaragliato e ucciso nella battaglia di Adrianopoli, il 9 agosto 378: una data memorabile, che segna il vero inizio delle invasioni barbariche. Il successore di Valente, Teodosio (379-395), fece il possibile per rimettere in campo un esercito, e riuscì a sconfiggere alcune bande ribelli, ma i Goti erano troppo forti perché fosse possibile liquidarli tutti con la forza: alla fine, il nuovo imperatore d’Oriente fu
costretto ad accordarsi con loro. I capi ricevettero il permesso di stabilirsi in territorio romano con tutti i loro uomini e le loro famiglie, ebbero in dono terre da distribuire ai guerrieri, e ottennero alti gradi nell’esercito e lauti stipendi in cambio dell’impegno a combattere per l’imperatore.
La situazione dei Goti accolti nell’impero da Teodosio era molto diversa da quella degli
immigrati che lavoravano i campi dei ricchi latifondisti e prestavano servizio nell’esercito:
i Goti, infatti, come avevano fatto i Franchi in Gallia, si stabilirono tutti insieme, conservando le loro armi e le loro leggi, e continuarono a obbedire ai loro capi, non ai magistrati romani. Quando combattevano per l’imperatore non venivano arruolati e dispersi fra i reparti militari, ma formavano dei contingenti autonomi, sempre al comando dei loro capi.
Insomma non erano nuovi sudditi dell’imperatore, ma alleati molto ben pagati e insediati su territorio romano, pur restando stranieri. Gli accordi stipulati coi capi dei Goti erano
chiamati in latino foedera; per cui si cominciò a chiamare foederati questi gruppi di barbari accolti a condizioni così favorevoli. Qualcuno si preoccupò, osservando che accogliere nel cuore dell’impero così tanti stranieri armati era molto pericoloso; ma l’imperatore
non aveva scelta.
Sotto il regno di Teodosio i Goti stabiliti nelle province balcaniche e pagati dal governo per il loro servizio mercenario causarono continui problemi, provocando incidenti con i soldati romani e con la popolazione
civile. Nell’impero crebbe l’intolleranza nei loro confronti e si manifestarono forme di razzismo. Per pagare i capi dei Goti, Teodosio fu
costretto a ridurre il numero dei soldati regolari, a tal punto che
gran parte delle forze militari su cui poteva contare l’imperatore
erano formate da Goti, e Goti erano parecchi dei suoi generali.
Grazie al loro aiuto Teodosio poté sconfiggere usurpatori e avversari politici, e impose il suo potere, oltre che
sull’Oriente, anche sull’impero d’Occidente: per
l’ultima volta, l’impero romano era di nuovo unificato sotto un unico sovrano, ma la sua forza militare proveniva ormai in gran parte dai barbari.
Teodosio e il cristianesimo
Per raddrizzare la situazione dopo il disastro di
Adrianopoli Teodosio adottò anche gravissimi
provvedimenti religiosi. L’imperatore era
convinto che bisognava riunificare la società romana, lacerata dagli scontri religiosi fra cristiani e pagani, e anche fra diverse
correnti del cristianesimo. Nel 380 Teodosio
pubblicò l’editto di Tessalonica, in cui ordinava
a tutti i sudditi dell’impero di seguire un’unica religio-
138
Parte VII Il mondo romano-barbarico
ne, e cioè il cristianesimo cattolico, così com’era insegnato dai vescovi di Roma e di Alessandria d’Egitto. Non era più ammesso l’antico culto degli dèi, e non era neppure consentito seguire una delle tante versioni della fede cristiana che si diversificavano dal dogma
ufficiale. Chi non seguiva la dottrina cattolica non era più considerato un cristiano, ma un
eretico, e Teodosio dichiarò che oltre a essere punito da Dio nell’altra vita, sarebbe stato
punito anche dalla legge in questo mondo. Negli anni seguenti l’imperatore proibì tutti i riti pagani, autorizzò i cristiani a distruggere i templi degli dèi, introdusse l’obbligo del riposo la domenica, e abolì le Olimpiadi, che erano sopravvissute ininterrottamente dai tempi dell’antica Grecia, considerandole una festa pagana. Anche se sacche di paganesimo sopravvissero ancora per secoli, soprattutto nelle campagne, si può datare dai provvedimenti di Teodosio la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato.
1. Che cosa caratterizzò l’insediamento dei popoli barbari nell’impero alla fine del IV secolo? 2. Per quale
motivo scoppiò la rivolta dei profughi goti? 3. Che cosa prevedeva l’editto di Tessalonica?
2. L’età di Stilicone e Alarico
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Dittico di Stilicone
400 ca.
Tesoro del Duomo, Monza
Questo dittico in avorio,
donato in occasione della
nomina a console, raffigura
Stilicone accompagnato
dalla moglie Serena e dal
figlio Eucherio.
I Goti nell’impero
Alla morte di Teodosio nel 395
l’impero venne suddiviso fra i suoi figli: Arcadio ebbe l’Oriente e Onorio
l’Occidente. A partire da allora la
suddivisione fra i due imperi diventò
permanente, e anzi la rivalità fra i due
fratelli e i loro ministri diede origine
a una crescente ostilità. In Occidente
chi governava davvero, al posto del
giovanissimo Onorio, era il generale
Flavio Stilicone. Figlio di un ufficiale romano di origine vandala e di una
donna romana, Stilicone era un immigrato di seconda generazione; la
sua carriera è una bella dimostrazione di come i barbari di successo potessero integrarsi nel gruppo dirigente multietnico dell’impero. Promosso
da Teodosio, che gli aveva dato in
moglie la nipote Serena, Stilicone si
dimostrò abile soldato e abilissimo
politico, ma si attirò l’ostilità della
corte orientale di Costantinopoli, che
lo sospettava di voler imporre il suo
potere su entrambi gli imperi.
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
139
I Goti, insediati ormai da anni sul suolo romano, costituivano un pericoloso elemento di
instabilità, tanto da minacciare la sopravvivenza stessa dello Stato. Fra i Goti era emerso
un capo, Alarico, che seppe approfittare della situazione in cui si trovava il suo popolo, accolto in territorio romano, ma non sottomesso né assimilato. Per i suoi, Alarico era un capo guerriero abile e fortunato, capace di ricompensare largamente i guerrieri che gli erano
fedeli e di imporre la sua autorità su tutto il popolo. Era quello che in latino si chiamava un
rex, un ‘re’: titolo che i Romani consideravano enormemente più modesto rispetto a quello di imperatore. Ma oltre che capo del suo popolo, Alarico era anche un generale romano, un comandante di mercenari il cui appoggio era indispensabile al governo imperiale,
per cui bisognava pagarlo in moneta sonante e promuoverlo ai più alti gradi militari, per
esempio quello di comandante di tutte le truppe romane nei Balcani. Alarico approfittò di
questa situazione per estorcere al governo sempre più denaro, con cui rafforzava la sua posizione di capo fra i Goti.
Alla morte di Teodosio i Goti di Alarico divennero così irrequieti che Stilicone decise di
affrontarli e ridurli alla ragione; ma l’impero non era più abbastanza forte per riuscirci. Cominciarono anni di scontri inconcludenti, di scorrerie, di negoziati e di intrighi, finché Alarico non decise di lasciare i Balcani e trasferirsi con tutta la sua gente in Italia. Stilicone
inseguì i Goti alla testa di un esercito, anch’esso composto in gran parte di mercenari barbari, e nel 402 sconfisse Alarico a Pollenzo, in Piemonte, ma non riuscì a catturarlo né a
distruggere il suo esercito; qualcuno sospetta che i due si fossero messi d’accordo sottobanco. Il governo imperiale si rassegnò a pagare ad Alarico somme sempre più consistenti
per ottenere che i Goti non saccheggiassero l’Italia e si trasferissero a nord delle Alpi.
Principali
direttrici
migratorie dei
popoli germanici
tra IV e V secolo
Angli
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AFRICA
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Parte VII Il mondo romano-barbarico
EGITTO
M
140
Goti
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Ni
Impero romano
d’Oriente
Impero romano
d’Occidente
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Eu
fra
te
Le invasioni del 406
Fra le popolazioni barbare che vivevano nell’Europa dell’Est e del Nord, la prospettiva
di imitare i Goti trasferendosi nell’impero romano si faceva sempre più invitante. Non sappiamo perché proprio in quest’epoca così tanti popoli si siano messi in movimento. Può darsi che la crescita demografica rendesse sempre più difficile sopravvivere con l’allevamento e la primitiva agricoltura che rappresentavano la principale risorsa dei barbari; ma forse
la vera causa sono le terrificanti scorrerie degli Unni, che diventavano sempre più frequenti.
Quel che è certo è che tanto le tribù seminomadi delle steppe danubiane e ucraine, quanto
quelle stanziali delle foreste della Germania cominciarono a prendere in considerazione
sempre più volentieri l’idea di trasferirsi con armi e bagagli, per ottenere dall’imperatore il
permesso di stabilirsi sul suolo romano; o per entrarci con la forza, se il governo non dava
il permesso.
Nel 406 un esercito barbaro, che comprendeva guerrieri di molti diversi popoli attirati
dalla speranza del bottino, invase l’Italia al comando di un capo guerriero, il goto Radagaiso. Stilicone lo affrontò e lo distrusse a Fiesole, ma per riuscirci dovette sguarnire le difese della Gallia. Nel dicembre 406 un altro esercito barbaro, costituito in prevalenza dai
popoli dei Vandali e dei Suebi, attraversò il fiume Reno ghiacciato e penetrò in Gallia. Passato così il limes, la zona di confine fortificata, gli invasori dilagarono in Gallia saccheggiando e distruggendo. In seguito Vandali e Suebi passarono in Spagna, mentre altre popolazioni, come i Burgundi, si riversavano in Gallia nella valle del Rodano, che
unisce le Alpi al mare nell’est dell’attuale Francia, e gli
Alamanni occupavano i territori romani a nord delle Alpi, fra la Germania meridionale e la Svizzera attuali.
Nei secoli precedenti era già successo altre volte che
grandi masse di barbari invadessero l’impero, ma lo sfondamento del limes nel 406 rappresenta una data epocale,
perché stavolta, diversamente dal passato, i popoli entrati
sul suolo romano non se ne andarono più. Inoltre, si trattava fin dall’inizio di un’invasione ostile e distruttiva, diversamente da quello che era accaduto con i Franchi e i
Goti nel secolo precedente: il passaggio dei barbari attraverso la Gallia e la Spagna si accompagnò a un terribile
strascico di saccheggi e violenze.
Joseph-Noël Sylvestre, Il
sacco di Roma da parte dei
barbari nel 410
1890
Musée Paul Valéry, Sète,
Francia
La pittura ottocentesca
amava raffigurare le
distruzioni dei barbari,
rappresentandoli come
nemici giurati del mondo
civile. In questo quadro, i
Goti si preparano per puro
vandalismo ad abbattere la
statua di un imperatore,
mentre sullo sfondo altri
barbari armati di fiaccole
appiccano il fuoco a Roma.
Oggi sappiamo che nella
maggior parte dei casi i
barbari desideravano
approfittare anche loro delle
comodità e delle ricchezze
del mondo romano, non
certo distruggerle.
Il sacco di Roma del 410
Nel 408 Stilicone venne ucciso in una congiura di palazzo, e senza la sua guida l’impero d’Occidente
sprofondò nel caos. Alarico, deciso ad approfittare della
situazione, marciò col suo popolo verso Roma. Bisogna
ricordare che all’inizio del V secolo Roma non era più la
capitale dell’impero. L’imperatore d’Oriente risiedeva a
Costantinopoli; quello d’Occidente aveva soggiornato a
lungo a Milano, che era già allora la metropoli della Pianura Padana. Poi si era stabilito a Ravenna: un porto ben
fortificato e circondato da paludi, dove i barbari non potevano arrivare, e da dove l’imperatore era in contatto col
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
141
Il pericolo barbarico
Verso l’anno 400 Sinesio di Cirene, grande
latifondista africano, filosofo neoplatonico e poi
vescovo cristiano, dedicò all’imperatore Arcadio,
figlio di Teodosio, il suo trattato sulla monarchia, in
cui segnalava il pericolo costituito dalla presenza dei
Goti nel paese, e protestava contro la loro
promozione ad alte cariche nell’impero.
[Sinesio, De Regno, 14-15, in Patrologia Graeca 66, cc. 1089-98;
trad. a cura degli autori]
La
voce
PA
SSA
TO
del
Il pastore non deve mescolare i lupi ai suoi cani, anche
se li ha presi da cuccioli e sembrano addomesticati, e farebbe male ad affidare a loro il gregge. Infatti appena
noteranno un accenno di debolezza o di pigrizia da parte dei cani, attaccheranno i cani, il gregge e i pastori. Così il legislatore non deve dare armi a coloro che non sono nati e allevati sotto le sue leggi, perché non ha nessuna garanzia che siano ben disposti. Solo un pazzo o
un ciarlatano potrebbe non avere paura, vedendo tutti
questi giovani cresciuti all’estero, e che continuano a vivere secondo i loro costumi, incaricati del servizio militare nel paese. Anziché sopportare ancora che i Goti
portino le armi, bisognerebbe chiedere ai nostri amati
campi gli uomini capaci di difenderli, e arruolarne così
tanti – richiamando anche il filosofo dai suoi studi, il manovale dalla sua fatica, il venditore dal mercato – da
convincere questo popolo imbelle, che per il troppo tempo libero passa la vita nei teatri, che è ora di darsi da fare sul serio, prima che il riso si trasformi
in pianto. Ma prima di tutto escludiamo dalle magistrature e
dalle prerogative del consiglio chi si vergogna di
quello che è sempre
stato sacro per i Romani fin dai tempi
antichi. Adesso infatti tanto la dea
della Giustizia
quanto il Dio degli eserciti devono coprirsi la faccia per la vergogna quando un
uomo vestito di pelli
comanda a quelli che
indossano la clamide1,
e quando uno, spogliatosi
Parte VII Il mondo romano-barbarico
della pelliccetta di pecora di cui era coperto, veste la toga e discute l’ordine del giorno insieme ai magistrati dei
Romani, sedendo al posto d’onore accanto al console,
mentre quelli che ne avrebbero diritto stanno dietro.
Questi tali, poi, appena usciti dalla sala del consiglio, si
rimettono subito le pellicce, e quando incontrano i loro
soci si mettono a ridere della toga, dicendo che con
quella addosso non si riesce neanche a sguainare la
spada. Io mi stupisco di tante cose, ma soprattutto della nostra assurda condotta. Perché qualunque famiglia,
che abbia anche solo un pochino di benessere, ha lo
schiavo goto; in tutte le case sono Goti quello che prepara la tavola, quello che si occupa del forno, quello che
porta l’acqua; e fra gli schiavi accompagnatori, quelli
che si caricano sulle spalle gli sgabelli pieghevoli su cui
i padroni si possono sedere per strada, sono tutti Goti.
Insomma è dimostrato da tanto tempo che questa è la
razza più adatta a servire i Romani. Ma che questi uomini biondi con i loro capelli lunghi siano i nostri servi in
privato e poi ci governino in pubblico è davvero incredibile. Tuo padre li rialzò quando lo supplicavano, e ne fece i suoi alleati, e li considerò degni della cittadinanza, e
divise con loro gli onori, e distribuì parte della terra romana a chi aveva ancora le mani sporche di sangue,
mostrando la magnanimità e la nobiltà della sua natura con quest’atto di clemenza. Ma il barbaro non capisce la virtù. Dall’inizio fino ad ora questa gente non ha
fatto altro che ridere di noi.
1. clamide: il mantello di porpora dei generali romani.
Missorium di Teodosio I:
cerimonia d’investitura
388-395
Real Academia de la
Historia, Madrid
Su questo piatto
commemorativo (un
missorium, dal
verbo mitto,
‘mando’)
l’imperatore
Teodosio,
affiancato dai
suoi figli Onorio
e Arcadio, è
rappresentato
mentre consegna
ad un alto
funzionario il
documento ufficiale
contenente la sua
nomina.
mondo, perché i Romani dominavano i mari. La città di Roma non aveva più un milione di
abitanti come al tempo di Augusto, ma era sempre una grande metropoli, piena di ricchezze, dove risiedevano i più ricchi latifondisti italiani, che continuavano a portare l’antico titolo di senatori; la Chiesa di Roma era la più prestigiosa dell’Occidente latino, e aspirava
al primato su tutta la Cristianità.
Alarico giunse nell’Italia centrale e per due anni si trattenne nella zona, negoziando coi
senatori per ottenere il pagamento di un’enorme somma e la conferma del suo grado di generale. Il re dei Goti aveva intenzione di giocare un ruolo simile a quello di Stilicone, e di
diventare l’uomo forte dell’impero d’Occidente; tanto che assediò Ravenna nel tentativo di
catturare Onorio e sostituirlo con un imperatore di sua scelta. Fallito questo intento, decise che per ricompensare i suoi uomini delle loro fatiche avrebbe permesso loro di saccheggiare Roma. Era il 410. I Goti entrarono nell’Urbe e la saccheggiarono per tre giorni; poi
ripartirono verso sud. Alarico intendeva sbarcare in Africa, che era allora la provincia più
ricca dell’Occidente, ma morì all’improvviso e i Goti rinunciarono all’impresa, ritornando
verso nord.
Il sacco di Roma suscitò un’enorme impressione nel mondo romano e costrinse tutti ad
aprire gli occhi sulla spaventosa debolezza dell’impero, ora che gran parte del suo esercito era costituito da mercenari barbari, molti dei quali non desideravano integrarsi nella società romana, ma solo predarne le ricchezze. A partire da quel momento fu anche evidente
che la separazione fra i due imperi era destinata ad approfondirsi. L’Oriente, infatti, resse meglio alla crisi, ora che i Goti si erano trasferiti in Occidente; e da quel momento la politica dei gruppi dirigenti orientali fu di sbarazzarsi di profughi e mercenari barbari indirizzandoli verso l’Occidente, dove lo sfondamento del limes nel 406 aveva reso estremamente precario il controllo del governo sul territorio.
1. Chi era il più influente capo tra i Goti? Che cosa gli permise di emergere tra gli altri capi? 2. Quali sono
le probabili cause delle invasioni barbariche del 406? 3. Che cosa mise in evidenza il sacco di Roma?
3. Dalla nascita dei regni romano-barbarici
alla deposizione
di Romolo Augustolo
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Regni indipendenti in territorio imperiale
Nei primi decenni del V secolo invasori e foederati barbari si stabilirono in tutte le province dell’Occidente, tranne l’Italia. I Goti, dopo la morte di Alarico, strinsero un accordo
col governo romano e nel 418 ricevettero una parte della Gallia; ma non si accontentarono
della zona loro assegnata, e si allargarono con la violenza in tutta la Gallia di Sud-ovest e
al di là dei Pirenei, in Spagna. I Vandali nel 429 lasciarono la Spagna attraverso lo stretto
di Gibilterra e invasero il Nordafrica. I Burgundi erano stabiliti nella valle del Rodano, i
Franchi occupavano il Nord della Gallia e gli Alamanni avevano invaso l’alta valle del Reno: tutti questi popoli diedero vita a occupazioni permanenti, sostituendo le autorità romane nel governo di quelle zone. La Britannia, che le truppe romane avevano evacuato giudicando impossibile difenderla, venne invasa dopo il 450 dai popoli marinari degli Angli e
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
143
Veduta aerea del fortino
romano di Vindolanda,
Inghilterra
I-V sec.
Uno degli accampamenti
militari più importanti
dell’Inghilterra
settentrionale fu quello di
Vindolanda (nell’attuale
Chesterholm, a un
chilometro di distanza dal
Vallo di Adriano e al
confine con la Scozia). Il
forte fu fondato nel I secolo
d.C. e per circa quattro
secoli fu continuamente
abitato da guarnigioni
militari, poste per
proteggere i confini dai
continui attacchi dei Pitti,
abitanti nell’attuale Scozia.
dei Sassoni, che ne conquistarono la maggior parte, nonostante la tenace resistenza delle popolazioni celtiche locali.
La vastità di queste occupazioni è tanto più notevole in quanto i popoli barbari erano piuttosto
piccoli: i Vandali passarono in Africa con appena
80.000 persone, donne e bambini compresi. In
ognuna delle regioni da loro occupate, i barbari erano una minoranza in mezzo alla popolazione romana, che non venne né sterminata né evacuata. Ma
erano l’unica forza armata organizzata, e quel che
restava dell’amministrazione romana dopo la ritirata delle guarnigioni era costretto a obbedire ai loro capi. Anche la Chiesa cristiana, per amore o per
forza, era costretta a collaborare con i barbari. Il
governo imperiale continuava a considerare come
parte dell’impero romano i territori ceduti ai barbari, e anche i capi, all’inizio, accettavano volentieri
questa specie di finzione: anche a loro conveniva
andare d’accordo con l’imperatore e con la Chiesa.
Di fatto, però, in Occidente stavano nascendo dei
veri e propri regni indipendenti, che si facevano
continuamente la guerra fra loro. Erano regni modellati sull’amministrazione romana, abitati in stragrande maggioranza da Romani, ma
governati e difesi militarmente dai barbari; perciò li chiamiamo “regni romano-barbarici”.
Per la popolazione romana, i barbari erano vicini scomodi, alleati di cui si sarebbe fatto
volentieri a meno, temuti per la loro rozzezza e prepotenza. Nelle zone in cui si insediavano, il governo romano concedeva loro l’hospitalitas: era un meccanismo per cui un terzo
delle terre erano confiscate e assegnate ai capi barbari, che le ridistribuivano fra i loro uomini. Qualche studioso pensa che ad essere distribuita non fosse la terra, ma le imposte che
i proprietari pagavano allo Stato; il risultato era comunque che buona parte della ricchezza
prodotta finiva in mano agli occupanti. Le province che i barbari si limitavano ad attraversare ne uscivano saccheggiate e impoverite; il loro passaggio rendeva precaria l’esistenza
e incoraggiava i più poveri a ribellarsi, dando vita a sollevazioni come quella dei Bagaudi
in Gallia. Ma il disordine diffuso incoraggiava anche usurpazioni di generali romani che
con l’appoggio dei barbari cercavano di impadronirsi della corona imperiale o si rendevano indipendenti nelle province: come quel Siagrio che si proclamò re in un pezzo della Gallia, fino alla sua sconfitta a opera dei Franchi nel 486.
Attila e gli Unni
Intorno alla metà del V secolo l’Occidente dovette affrontare una nuova minaccia: la
rinnovata aggressività degli Unni. In passato i Romani erano riusciti a frenare la spinta di
questo popolo delle steppe, famoso per la sua ferocia, solo pagando un tributo in oro. Ma
nel 440, sotto la guida di un nuovo re, Attila, bande di Unni tornarono a invadere l’impero d’Oriente, causando spaventose distruzioni e giungendo fin sotto le mura di Costantinopoli. Persuasi a fermarsi grazie al pagamento di un nuovo, colossale tributo, gli Unni attaccarono l’Occidente, entrando in Gallia nel 451. All’epoca Attila non era più soltanto il
144
Parte VII Il mondo romano-barbarico
re di alcuni clan unni, ma il capo di un immenso impero che si estendeva dall’Europa centrale ai deserti dell’Asia; sotto il nome di Unni si erano coalizzati molti popoli germanici e slavi. Contro Attila il
comandante dell’esercito romano d’Occidente, Aezio, mobilitò le
forze dei popoli barbari che occupavano gran parte della Gallia,
Franchi e Goti, e sconfisse il re unno nella battaglia dei Campi Catalaunici (451).
Attila si rivolse allora all’Italia, che invase nel 452. Presa e distrutta Aquileia, che era una delle città più importanti della penisola, era giunto al Po quando un’ambasciata che comprendeva anche il
papa di Roma, Leone I, lo raggiunse e lo convinse a rinunciare all’invasione dell’Italia, probabilmente pagandogli un tributo. Attila
era un tipico re dell’epoca delle invasioni, capace di negoziare da pari a pari con le autorità romane; del resto conosceva bene il mondo
romano, perché da giovane aveva vissuto per anni a Ravenna, dove
era stato mandato come ostaggio, in garanzia della pace fra gli Unni
e l’impero. Le spaventose distruzioni compiute dai suoi eserciti erano anche un’arma propagandistica e può darsi che Attila, come altri
capi barbari prima e dopo di lui, mirasse a imporre la sua egemonia
sul mondo romano, piuttosto che a distruggerlo. Il re unno, però,
morì all’improvviso nel 453 e dopo la sua morte l’impero europeo degli Unni si sfasciò. Nei secoli seguenti gli Unni continuarono a essere attivi in Asia, dove costituirono una minaccia costante per gli imperi cinese e indiano [cfr. altri mondi, pp. 158 sg.]; quelli rimasti in Europa, invece, si aggregarono ad altri popoli, come gli Àvari, tanto che
la loro identità etnica finì per scomparire.
Elmi unni a calotta
VI sec.
Da Sveti Vid, Croazia;
Kunsthistorisches Museum, Vienna
Questi elmi unni riproducono una tipologia piuttosto
diffusa in età tardo antica, quella dei cosiddetti
Spangenhelme. La calotta è costituita da quattro o sei
bande (Spangen) metalliche saldate tra loro da rivetti e
unite inferiormente da una fascia metallica che corre lungo
tutta la circonferenza.
Il crollo dell’impero d’Occidente
Fino all’epoca di Attila l’Italia era stata attraversata da eserciti
barbari, ripetutamente devastata, e spopolata da paurose carestie; ma
nessun capo barbaro si era impadronito stabilmente del paese. L’imperatore d’Occidente continuava a risiedere nel suo palazzo di Ravenna, anche se contava sempre meno. A Roma diventava sempre
più influente la figura del vescovo cattolico, che portava il titolo
orientale di papa; nel resto d’Italia il vero potere era in mano ai generali, i cui eserciti erano composti in larga misura da mercenari barbari, e che controllavano l’elezione imperiale imponendo sul trono di Ravenna “uomini di paglia” o propri parenti. Aezio, il vincitore di Attila, fu per molti anni l’uomo più potente dell’impero d’Occidente, riuscendo a mantenere un certo controllo non solo sull’Italia, ma anche sui popoli
barbari stanziati in Gallia. Ma nel 454 Aezio venne assassinato in una congiura di palazzo
e l’Occidente precipitò di nuovo nel caos. Genserico, re dei Vandali, che dal suo regno in
Nordafrica aveva sviluppato una forte potenza navale, sbarcò in Italia nel 455 e saccheggiò Roma, per la seconda volta dopo il sacco di Alarico del 410.
Ripartiti i Vandali, altri generali romani continuarono a giocare in Italia lo stesso ruolo
che aveva giocato Aezio. Spesso erano di origine barbarica, discendenti da famiglie regali
germaniche, ma erano anche imparentati con la famiglia imperiale romana, e ben addentro
agli intrighi delle corti di Ravenna e Costantinopoli. L’élite dirigente dell’impero era or-
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
145
mai decisamente multietnica, e definire un ministro o un generale come Romano o barbaro non aveva più molto senso; più importante è la spietata lotta per il potere a cui tutti prendevano parte, e in cui aveva un’importanza decisiva il consenso dell’esercito e dei mercenari barbari. I generali che imposero la propria autorità sull’Italia e sugli imperatori-fantoccio che regnavano a Ravenna furono prima Ricimero, poi Oreste – che era stato in passato al servizio di Attila, e che riuscì a far acclamare imperatore il figlio Romolo – e finalmente Odoacre. Nel 476 Odoacre si fece proclamare re dai suoi soldati, uccise Oreste e depose Romolo, poi soprannominato spregiativamente Augustolo. Anziché nominare un nuovo imperatore, come tanti altri generali avevano fatto prima di lui, Odoacre mandò a Costantinopoli le insegne imperiali, e continuò a esercitare di fatto il potere in Italia, d’accordo col senato romano e con i vari popoli barbari che formavano l’esercito; il suo titolo era
appunto rex gentium, ‘re dei popoli’. Nessuno all’epoca poteva saperlo, ma dopo Romolo
Augustolo non ci sarebbe mai più stato un imperatore romano d’Occidente.
1. Che cosa si intende per “regni romano-barbarici”? 2. Quale percorso seguì l’invasione degli Unni
guidati da Attila? 3. Chi deteneva realmente il potere nell’Italia del V secolo?
Pàtera di Parabiago
metà IV sec.
Museo Civico
Archeologico, Milano
La resistenza dei culti
pagani durante il tardo
impero è ben testimoniata
da questo raffinato piatto
rituale in argento, decorato
con scene tratte dal mito di
Attis e Cibele. Le due
divinità, attorniate dai
sacerdoti della dea e da altre
divinità cosmiche legate ai
culti orientali, procedono in
trionfo su un carro trainato
da leoni.
146
4. Perché finì
il mondo antico?
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Un crollo tutt’altro che inevitabile
La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 ha ai nostri occhi una forte risonanza simbolica; a volte se ne parla addirittura come della fine dell’impero romano, dimenticando che
l’impero romano era ancora vivo e vegeto nella sua parte orientale. Il 476 sembrava una data così importante agli storici del passato, da essere scelto come data convenzionale con cui far finire l’Antichità e iniziare il Medioevo. In realtà all’epoca non se ne accorse quasi nessuno, perché l’eredità di Roma si era trasferita da un pezzo a Costantinopoli, mentre l’impero d’Occidente
in pratica si era già dissolto con i grandi stanziamenti di popoli
barbari sul suo territorio. Ma come era potuto succedere?
Per molto tempo si è pensato che l’impero romano all’epoca delle invasioni barbariche fosse un organismo decrepito, in decadenza morale e materiale, e che il suo crollo fosse inevitabile. Questa interpretazione risale all’opera di un
grande storico, l’inglese Edward Gibbon, che nel Settecento scrisse un libro famoso intitolato Declino e caduta dell’impero romano. Oggi, grazie a un nuovo interesse degli
studiosi per quest’epoca e ai grandi progressi dell’archeologia, la nostra immagine dell’impero romano del IV secolo, alla vigilia delle invasioni barbariche, non è più così pessimista:
la società romana non era affatto sul punto di crollare, e senza le
invasioni barbariche avrebbe potuto sopravvivere, come infatti accadde nella parte orientale dell’impero.
Parte VII Il mondo romano-barbarico
Certo, l’impero era molto cambiato rispetto ai tempi di Augusto.
Sotto certi aspetti era cambiato in peggio. L’imperatore era diventato
una figura sacra e inavvicinabile: non era più il primo fra i cittadini,
ma un sovrano tirannico che esercitava sui sudditi un potere assoluto di vita e di morte. Nella società le disuguaglianze erano cresciute: un piccolo numero di grandi latifondisti, generali e funzionari pubblici straricchi, dominava la massa dei
poveri.
Ma sotto altri aspetti l’impero era cambiato in meglio:
dopo l’editto di Caracalla del 212 tutti gli abitanti dell’impero avevano la cittadinanza romana, e il nome infamante di barbari era riservato ai popoli che vivevano fuori
dai confini. Nelle campagne, l’antica piantagione schiavistica era sparita; gli schiavi c’erano ancora, ma la maggior
parte dei contadini ora erano coloni, che pagavano un affitto ed erano ufficialmente uomini liberi. C’era poi un cambiamento che qualcuno rimpiangeva, e altri esaltavano: la religione dell’impero non era più l’antico politeismo, ma il cristianesimo, anche se una forte minoranza, soprattutto in Occidente, era ancora attaccata ai
vecchi riti. In passato gli storici credevano che la diffusione del cristianesimo avesse indebolito l’impero romano, rendendolo meno bellicoso; in realtà non è così. Gli imperatori cristiani erano altrettanto energici e spietati dei loro predecessori pagani, e la Chiesa si rivelò
un poderoso alleato del governo nell’inquadrare la popolazione e dirigere la vita collettiva.
Era, dunque, un impero diverso da prima, pieno di problemi e di contraddizioni, ma
non certo un impero in decadenza, condannato dalla storia a crollare. Fu l’improvvisa spinta dall’esterno rappresentata dall’arrivo dei barbari a mettere in crisi l’impero: essa costrinse il governo di Costantinopoli a sacrificare le province occidentali, culla del potere
romano, pur di salvare tutto il resto. L’impero d’Occidente, insomma, non declinò fino a
crollare, ma come scrisse lo storico francese André Piganiol, «fu assassinato» dai barbari.
San Pietro e san Paolo
IV sec.
Museo Archeologico,
Aquileia
Il culto associato ai santi
fondatori della Chiesa,
Pietro e Paolo, appare già
definito nel IV secolo, come
documenta questo blocco
scolpito e rimasto
incompiuto in cui i profili
di san Pietro (a sinistra) e
san Paolo (a destra) hanno
tratti fisiognomicamente ben
caratterizzati.
L’economia mediterranea in crisi
Il crollo politico dell’impero fu certamente un avvenimento molto importante; ma un
cambiamento ancora più profondo fu la crisi dell’antica economia mediterranea, che provocò la fine di un’intera civiltà, la civiltà greco-romana. Su questo non è possibile nessun
dubbio: gli archeologi ci dicono che tra IV e VII secolo prima l’Occidente, e poi tutto il
mondo mediterraneo conobbero una drammatica crisi economica, un declino pesantissimo
del tenore di vita, un vero e proprio crollo del livello complessivo di civiltà. Anche in questo caso bisogna chiedersi come mai, esattamente, accadde tutto questo. Non basta dire che
fu colpa delle invasioni barbariche, immaginando magari che i barbari, arrivando, abbiano
distrutto tutto quello che trovavano. Lo scopo dei capi barbari e dei loro seguaci era di spartirsi le ricchezze del mondo romano; non volevano distruggere le città, i palazzi, i circhi e
le ville, le strade, gli acquedotti e i mercati, ma far parte anche loro di quella società ricca
e progredita. Perché, dunque, il loro arrivo provocò la fine della prosperità?
Cominciamo col dire che sul piano economico l’Occidente latino stava già perdendo terreno rispetto all’Oriente greco. Fin dal III-IV secolo grandi province come la Gallia e la
stessa Italia erano state colpite da una gravissima crisi economica ed erano in parte spopolate. Già prima delle invasioni san Girolamo afferma che certe città della Pianura Padana
erano «cadaveri di città semidiroccate», e in Gallia del Nord i Franchi si erano stabiliti in
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
147
Proprietario terriero
vandalo
V-VI sec.
Da Cartagine, Tunisia;
British Museum, Londra
Questo mosaico, rinvenuto
in una villa romana nei
pressi di Cartagine,
raffigura un ricco
proprietario terriero vandalo
che si allontana a cavallo da
una villa fortificata per una
battuta di caccia.
un paese ridotto a un deserto. Altre province, però, come la Spagna o l’Africa, erano ricche
e prospere; eppure anch’esse entrarono in crisi dopo le invasioni. Per capire come mai, bisogna esaminare i cambiamenti che le invasioni barbariche provocarono nel funzionamento dell’economia.
Gli stanziamenti dei barbari non cambiarono le regole di base della vita economica. La
proprietà terriera rimase il fondamento della supremazia sociale: chiunque contasse qualcosa, a partire dal re, possedeva vaste estensioni di terra e dava lavoro a un gran numero di coloni e schiavi. Molta terra passò di mano durante le invasioni: fu ceduta dal governo imperiale ai barbari, con i trattati che assegnavano loro le zone in cui stabilirsi; fu confiscata dai
re a quei latifondisti romani che erano espatriati oppure erano rimasti coinvolti in qualche ribellione; fu regalata alla Chiesa da cristiani ansiosi di guadagnarsi il
Paradiso. I re, a loro volta, distribuivano la terra ai loro
uomini, così che ogni Goto, Franco, Vandalo divenne
un proprietario terriero, abbastanza ricco da poter dedicare tutto il proprio tempo alla guerra.
Sappiamo poco di quel che accadde ai contadini dipendenti: secondo qualche storico la condizione dei coloni peggiorò, e a causa della violenza diffusa la schiavitù tornò ad allargarsi rispetto ai tempi del tardo impero romano. Ma secondo altri storici – e fra loro il più importante studioso oggi vivente dell’epoca romano-barbarica, Chris Wickham – il controllo dei padroni sui
contadini si alleggerì col crollo dell’impero, consentendo ai lavoratori della campagna di vivere più liberamente e di pagare affitti e imposte meno pesanti.
Non è dunque nelle campagne che bisogna cercare l’origine della crisi. Furono soprattutto i commerci a soffrire della nuova situazione. L’insicurezza ostacolava i movimenti
La tesi Pirenne
I dati forniti dagli archeologi dimostrano che il declino materiale dell’Occidente romano risale all’indomani delle invasioni barbariche, anche se la
cronologia è diversa a seconda delle regioni. Ma
all’inizio del Novecento l’archeologia medievale
non esisteva: le informazioni di cui disponiamo
oggi, provenienti dagli scavi compiuti nelle città e
nelle campagne europee, non c’erano ancora. Perciò un grande storico belga, Henri Pirenne, propose un’interpretazione del tutto diversa della fine
del mondo antico, in un libro uscito nel 1937,
Maometto e Carlomagno. La sua ipotesi era che il
declino dell’economia mediterranea non fosse affatto dovuto alle invasioni barbariche, ma alle invasioni arabe del VII-VIII secolo (ne parleremo
più avanti: cfr. cap. 18), e fosse quindi da ritardare
di circa duecentocinquant’anni. La tesi di Pirenne
non ha smesso da allora di far discutere, e anche se
sbagliata nell’idea di fondo, si è rivelata estrema-
148
Parte VII Il mondo romano-barbarico
mente feconda. Qualcuno si chiederà com’è possibile che una tesi sbagliata sia utile al progresso delle conoscenze. Il fatto è che l’ipotesi di Pirenne era
sbagliata, appunto, perché ipotizzava che l’economia della Gallia, dell’Italia, della Spagna, dell’Africa avesse continuato a prosperare anche nel V e
VI secolo, e oggi sappiamo che non è così; ma era
giusta l’intuizione di fondo, per cui a provocare il
declino non erano state le distruzioni compiute dai
barbari, ma la rottura dello spazio economico unitario che il Mediterraneo costituiva in epoca romana. Pirenne pensava che a rompere quello spazio fossero state solo le invasioni arabe, che sottrassero per sempre il Vicino Oriente e il Nordafrica al mondo greco-romano e cristiano; oggi ci rendiamo conto invece che già le invasioni dei barbari del Nord ebbero quell’effetto. In ogni caso, grazie a Pirenne abbiamo capito meglio come e perché finì la prosperità del mondo antico.
dei mercanti e delle merci, e riduceva i collegamenti fra l’Occidente e l’Oriente; i mercanti delle ricche province orientali avevano sempre meno voglia di spingersi nell’Occidente
dominato dai barbari. Ma il colpo più grave all’economia degli scambi fu assestato proprio
dal crollo dell’amministrazione imperiale, perché nel tardo impero romano i movimenti
di denaro e di merci erano legati soprattutto all’intervento dello Stato [cfr. cap. 15.5]. Il fisco imperiale prelevava con le tasse gran parte della moneta d’oro circolante, e la utilizzava per acquistare a prezzo politico enormi quantità di derrate alimentari, da distribuire all’esercito e alla popolazione di Roma e Costantinopoli: l’economia di intere regioni si reggeva su questo meccanismo. Ora, però, nelle province occidentali le guarnigioni romane
stavano scomparendo, e il prelievo fiscale
passava direttamente nelle mani dei singoli
re barbari, che ovviamente operavano su
scala molto più locale; perciò il meccanismo entrò in crisi.
Tutti quei movimenti di merci e di denaro che il governo imperiale organizzava da
un capo all’altro del Mediterraneo – comprando, per esempio, il grano e l’olio prodotti in Tunisia per portarli a Roma – s’interruppero con la nascita delle nuove frontiere fra un regno e l’altro. L’oro e l’argento disponibili nelle singole regioni non bastavano per battere moneta in grandi quantità. Così, senza che nessuno se ne rendesse
conto, la produzione di beni e la circolazione monetaria cominciarono a ridursi, e i re
che governavano ampie zone della Gallia,
della Spagna, dell’Africa si trovarono ad
avere sempre meno risorse da investire. Le infrastrutture che fino a quel momento, per funzionare, dipendevano dagli investimenti statali, strade, acquedotti, fognature, teatri, circhi,
cominciarono a decadere, anche se nessuno lo desiderava, meno che mai i barbari.
Ad accelerare il declino economico dell’Occidente si aggiunsero le continue guerre fra
i regni romano-barbarici, i tentativi di riconquista delle truppe imperiali, le frequenti usurpazioni, che davano luogo a vere e proprie guerre civili e si concludevano regolarmente
con un bagno di sangue. Il passaggio degli eserciti rappresentava sempre una catastrofe per
il territorio, sottoposto a sistematico saccheggio. La precarietà della situazione politica
aggravava le conseguenze delle carestie, anche perché era sempre più difficile nutrire la
gente dopo un cattivo raccolto importando grano da altre province dell’impero; perciò le
cronache del V e VI secolo parlano continuamente di terribili carestie, che spopolano intere regioni. Alla fame si aggiungevano le malattie, anch’esse propagate dagli eserciti e dai
popoli in movimento; col risultato che la popolazione diminuì drammaticamente di numero, le città ricominciarono a svuotarsi, sempre più spesso i campi rimasero incolti e si trasformarono in boscaglia.
Non tutte le zone dell’Occidente furono investite allo stesso modo dalla crisi. Nella Gallia del Nord, che rispetto al mondo mediterraneo era sempre stata una regione periferica,
e dove l’immigrazione dei Franchi era avvenuta senza troppe violenze e distruzioni, l’economia locale continuò a prosperare anche sotto i nuovi padroni; i re franchi poterono di-
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
Deposito di monete
fine III secolo
Da Autun, Francia
© Institut National de
Recerches Archéologiques
Préventives (Inrap)
Recenti scavi nell’antica
Augustodunum (l’odierna
Autun, nella Francia
centro-orientale) hanno
permesso di scoprire,
raccolte e sepolte in una
fossa sigillata, 117.000
monetine romane in bronzo
databili alla fine del III
secolo. Si tratta di monete
“non ufficiali” simili agli
originali della zecca ma
emesse, secondo una prassi
diffusa in periodi di crisi
economica, da privati
cittadini per fronteggiare le
difficoltà del sistema
monetario centrale
dipendente da Roma. Il
deposito, probabilmente, fu
conservato per essere poi
rifuso e recuperare così il
bronzo.
149
stribuire grandi ricchezze ai loro parenti e amici, creando un’aristocrazia guerriera ricca e
potente, che a sua volta attirava mercanti e artigiani e stimolava la vita economica. Si spiega così come mai i Franchi – lo vedremo nei prossimi capitoli – siano diventati di gran lunga il più potente dei regni romano-barbarici. Anche in Gallia, però, gli archeologi che scavano le città e le ville rustiche ci dicono che col tempo il tenore di vita si abbassò: la rottura dell’unità economica del Mediterraneo antico faceva sentire i suoi effetti dappertutto.
Persino l’impero d’Oriente, maggiormente risparmiato dalle invasioni, ne risentì, e anche
lì alla lunga la vita urbana e gli scambi conobbero un declino.
1. La diffusione del cristianesimo aveva indebolito l’impero romano? Perché? 2. Per quale motivo furono i
commerci a soffrire maggiormente la crisi economica dell’Occidente? 3. Quali furono le aree meno
colpite dalla decadenza economica?
Ambrogio, vescovo di
Milano
IV sec.
Cappella di San Vittore,
Basilica di Sant’Ambrogio,
Milano
5. La Chiesa
e le controversie religiose
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
La spaccatura religiosa e i Padri della Chiesa
L’epoca delle invasioni barbariche fu anche un’epoca di straordinaria vivacità culturale nell’ambito religioso. Il cristianesimo, uscito trionfante dalle persecuzioni, si stava organizzando dal punto di vista delle credenze e dei
dogmi, e gli intellettuali cristiani lavoravano intensamente per risolvere le
molte contraddizioni e incertezze dell’insegnamento dottrinale. È l’epoca dei cosiddetti “Padri della Chiesa”; da noi sono famosi soprattutto quelli occidentali, che scrivevano in latino, come Girolamo, Ambrogio, Agostino, ma all’epoca erano altrettanto famosi e influenti quelli orientali, che
scrivevano in greco, come Giovanni Crisostomo o Gregorio di Nazianzo.
Ambrogio, morto nel 397, membro di una grande famiglia senatoria, fu un
importante uomo politico e governatore di tutta l’Italia settentrionale prima
di accettare l’incarico di vescovo di Milano. Girolamo, morto nel 420, realizzò la prima traduzione integrale della Bibbia in latino, la Vulgata (ricordiamo che l’Antico Testamento era scritto in ebraico e il Nuovo Testamento in greco). Agostino, uno dei più importanti pensatori cristiani di tutti i
tempi, era vescovo di Ippona in Africa e morì nel 430 mentre i Vandali assediavano la sua città.
Anche se il Concilio di Nicea del 325 aveva stabilito gli elementi fondamentali del Credo, le comunità cristiane continuavano a essere spaccate
da profonde divergenze teologiche [cfr. cap. 15.3]. I cristiani di confessione ariana, condannati come eretici a Nicea, erano ancora molto numerosi in
Oriente, dove diversi imperatori li avevano sostenuti, e presero piede anche
in Occidente coll’arrivo dei barbari: i Goti, i Vandali e i Burgundi infatti
erano sì diventati cristiani, ma avevano adottato il cristianesimo ariano.
Ambrogio, a Milano, dovette lottare per conservare il controllo della cattedrale contro la comunità ariana, sostenuta dagli ufficiali goti della guarni-
150
Parte VII Il mondo romano-barbarico
gione. Fra la popolazione romana,
invece, le spaccature religiose erano particolarmente forti in Africa e
in Oriente. In Africa, come sappiamo, era radicato il movimento dei
donatisti, una Chiesa separata nata
al tempo delle persecuzioni. Il governo imperiale perseguitò duramente i donatisti, senza riuscire
però a sradicarli: erano ancora ben
presenti all’arrivo dei Vandali.
In Oriente le discussioni dei
teologi portarono alla nascita di
due nuove interpretazioni della
Trinità. Secondo Nestorio, patriarca di Costantinopoli intorno al
430, il Gesù fatto uomo e il Figlio
di Dio divino erano due persone
diverse, anche se unite, e Maria
non poteva essere chiamata Madre
di Dio. Secondo la dottrina monofisita (che in greco significa ‘una sola natura’), al contrario, Cristo pur fatto uomo aveva una sola natura, quella divina. Entrambe le interpretazioni si discostavano dalla dottrina cattolica stabilita a Nicea, secondo la quale Cristo è
una sola persona in cui convivono due nature, divina e umana. Oggi l’interesse dei cristiani per questi problemi è molto diminuito, ma all’epoca queste questioni erano considerate fondamentali e i sostenitori delle diverse posizioni si scontravano con violenza. Un
concilio ecumenico convocato a Efeso nel 431 dichiarò eretica la dottrina di Nestorio, e
un altro concilio riunito a Calcedonia nel 451 condannò la dottrina monofisita, ribadendo il Credo cattolico. Ma la fede nestoriana divenne prevalente in Asia al di fuori dell’impero romano, si affermò fra i cristiani della Persia, e raggiunse addirittura la Mongolia, l’India e la Cina. La dottrina monofisita rimase largamente diffusa in Egitto e in Siria,
e penetrò fino all’Etiopia; ancor oggi i cristiani d’Egitto (i “copti”) e quelli d’Etiopia formano Chiese separate, che si oppongono alle conclusioni del concilio di Calcedonia. Anche qui, come in Africa, il governo imperiale e la Chiesa cattolica perseguitarono duramente quelli che ritenevano eretici, mettendo in crisi la fedeltà a Roma delle popolazioni
locali.
Sarcofago da Tebessa,
Algeria
IV sec.
Museo della Civiltà
Romana, Roma
La figura femminile scolpita
nel pannello centrale di
questo sarcofago è stata
interpretata dagli storici
come la personificazione
della Chiesa di Roma,
rappresentata come una
donna assisa in trono tra
due candelabri accesi
mentre porge in alto un
calice.
Il peso politico della Chiesa
I Padri della Chiesa non erano soltanto dei teologi, ma dei politici, come tutti i vescovi
cristiani dell’epoca. In ogni città infatti il vescovo, eletto dal popolo, era il vero capo della comunità cittadina, ora che praticamente tutti gli abitanti dei centri urbani erano diventati cristiani. Il vescovo aveva una grande autorità, sia per ragioni morali, sia perché la
protezione imperiale e le donazioni dei fedeli avevano messo nelle mani della Chiesa grandi proprietà immobiliari e quindi enormi entrate, di cui il vescovo era l’amministratore. I
vescovi delle grandi metropoli, Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, che portavano il titolo di “patriarca” o “papa”, erano fra gli uomini più potenti dell’impero e non di
rado ne sfidavano l’autorità, affermando che in questioni di fede e di morale anche l’impe-
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
151
ratore doveva inchinarsi davanti alla Chiesa. Nel 390 Teodosio si rese colpevole di un delitto, facendo massacrare gli abitanti di Tessalonica che avevano assassinato un generale
imperiale di origine gotica: Ambrogio, vescovo di Milano, gli negò l’ingresso in chiesa e
la partecipazione ai sacramenti, e Teodosio si piegò davanti all’autorità della Chiesa, accettando di fare pubblica penitenza.
Anche nell’Occidente occupato dai barbari i vescovi erano figure potenti e autorevoli,
tanto più che dopo il ritiro delle guarnigioni romane e dei governatori imperiali il vescovo
rappresentava spesso l’unica autorità romana rimasta in città. I re barbari erano perlopiù
ariani, come nel caso dei Goti e dei Vandali, o addirittura pagani, come i Franchi. Per loro il rapporto con i vescovi cattolici fu tutt’altro che facile; ma senza la collaborazione dei
vescovi governare era quasi impossibile. Quei re che perseguitarono il clero cattolico, come i Vandali, indebolirono senza accorgersene il loro potere; quelli che invece seppero costruire un buon rapporto con la Chiesa, come i Franchi, ne trassero grande vantaggio.
cittadinanza
La religione di Stato
L’editto di Tessalonica, emanato da Teodosio nel 380, rappresenta una
svolta decisiva nella storia d’Europa, le cui conseguenze si sono sentite
fino a pochi anni fa. Con la decisione di imporre a tutti i sudditi un’unica
fede religiosa, il cristianesimo cattolico, e di mettere fuori legge tutte le
altre, finiva l’antica tolleranza religiosa, la coesistenza di culti diversi che
aveva caratterizzato il mondo romano. Si apriva un’epoca durata quasi
millecinquecento anni, fino alla Rivoluzione francese (che scoppia nel
1789) e al Risorgimento, in cui lo Stato ha considerato suo dovere controllare le idee religiose dei sudditi, imporre a tutti una stessa religione,
e punire chi non si adeguava.
A seconda delle epoche e dei paesi, il principio è stato applicato con maggiore o minore durezza: innanzitutto nei confronti degli Ebrei, che vivevano numerosi in molte zone del mondo cristiano. La Chiesa decise di
non convertirli con la forza, e all’inizio permise loro di vivere abbastanza
liberamente; ma a partire dall’epoca delle Crociate (tra l’XI e il XIII secolo) gli Ebrei furono sottoposti a vessazioni d’ogni genere, e nell’età moderna molti paesi li espulsero oppure li costrinsero a vivere chiusi nei
ghetti. Con intolleranza ancora maggiore venne affrontato il problema
dei cristiani che non accettavano l’interpretazione ufficiale del dogma.
Nella tarda Antichità, ariani, monofisiti, nestoriani, donatisti vennero perseguitati duramente dalle autorità imperiali romane, e a loro volta gli ariani perseguitarono i cattolici quando giunsero al potere. Nel Medioevo
152
Parte VII Il mondo romano-barbarico
(IV-XV secolo) le minoranze religiose scomparvero dall’Occidente, ma il
problema riesplose con la Riforma protestante, nel XVI secolo. Per più di
cent’anni cattolici e protestanti tentarono di sradicarsi a vicenda, e anche
dopo la fine delle guerre di religione le minoranze sopravvissute in certi
paesi – come i valdesi protestanti nel Piemonte cattolico – dovettero rassegnarsi a vivere come cittadini di serie B. Quanto ai fedeli dell’altra grande religione monoteista, l’islam, nel Medioevo come nell’età moderna
era assolutamente impensabile che comunità musulmane potessero vivere in Europa e praticare liberamente il loro culto.
In Italia, il principio della religione obbligatoria stabilito dall’editto di Tessalonica venne abrogato solo in seguito alla Rivoluzione francese e poi
con lo Statuto albertino del 1848. Solo allora a ebrei e protestanti fu permesso vivere con gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini.
Ma nel 1929 il Concordato firmato da Mussolini con la Santa Sede stabilì
che il cristianesimo cattolico era in Italia la religione di Stato, e questo
principio è rimasto fino alla revisione del Concordato nel 1984. Il concetto di religione di Stato, nell’accezione moderna, non significava che i
cittadini di altre religioni fossero perseguitati o discriminati, ma riconosceva comunque a una sola religione, e alla sua Chiesa, l’appoggio dello Stato: per esempio fu introdotto l’obbligo di esporre il crocifisso nelle
scuole e nei tribunali. Attualmente nella Costituzione italiana il principio
della religione di Stato non è più previsto, e si può dire che solo ora l’onda lunga dell’editto di Tessalonica si è davvero esaurita.
Nasce in quest’epoca un problema che non esisteva nel mondo antico, e che invece resterà centrale lungo tutto il Medioevo e l’età moderna. Lo Stato – e cioè in pratica l’imperatore o il re – e la Chiesa si considerano entrambi responsabili verso Dio e hanno il dovere di collaborare per assicurare sia il benessere del popolo cristiano su questa terra, sia la
sua salvezza nell’aldilà. In pratica, però, la collaborazione si trasforma in concorrenza,
e provoca attriti e conflitti, perché non è ben chiaro quale dei due poteri debba essere superiore all’altro. Nel 494 il papa di Roma, Gelasio, un Romano d’Africa, affermò che la
Chiesa doveva sì obbedire alle leggi dell’impero, ma che l’imperatore doveva a sua volta
sottomettersi alla superiore autorità della Chiesa e non intromettersi nella sua gestione. A
questo principio si accompagnava l’idea che la Chiesa di Roma fosse stata fondata da Gesù in persona, quando aveva detto a san Pietro «tu sei Pietro e su questa pietra io fonderò
la mia Chiesa», e quindi fosse destinata da Dio a capeggiare l’intera Cristianità. La posizione di Gelasio, però, era minoritaria: le altre sedi patriarcali non accettavano che Roma
“Iudei” all’inferno, Herrade di Hohenburg, Hortus deliciarum, f. 255
1175 ca.
Alcune miniature presenti nell’Hortus deliciarum (‘L’orto delle delizie’, un
manoscritto medievale redatto da una colta monaca per istruire le sue
novizie) sono dedicate agli ebrei – riconoscibili dal cappello a punta –
colpevoli, secondo i cristiani, di aver ucciso Cristo e condannati per questo
alle pene dell’inferno.
Il cardinale Pietro Gasparri e Benito Mussolini al Laterano insieme
a notabili della Chiesa e del governo
febbraio 1929
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
153
avesse un’autorità superiore alla loro, e il papa di Roma era considerato solo un vescovo di
grandissima importanza, non il capo di tutta la Cristianità. In mancanza di un potere unico
nella Chiesa, molti preferivano pensare che l’imperatore fosse il vero capo dei cristiani, e
che anche i vescovi dovessero sottomettersi alla sua autorità.
1. Per quale motivo il cristianesimo ariano prese piede anche in Occidente? 2. Che cosa sosteneva il
vescovo di Roma Gelasio?
6. L’etnogenesi, ossia
la nascita dei popoli
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Da tribù a popoli
Agli occhi dei Romani, i barbari che avevano invaso l’impero si assomigliavano un po’
tutti. Erano barbari del Nord, «popoli biondi», come li chiamavano a Costantinopoli. Erano divisi in popolazioni, che i Romani chiamavano gentes e i Greci èthne, e si sapeva che
le etnie più grandi, come i Goti, i Franchi, gli Alamanni, erano divise in raggruppamenti
più piccoli, ciascuno con propri capi o re. Noi oggi sappiamo che la grande maggioranza di
quei popoli parlava lingue germaniche: le antenate del tedesco, dell’inglese, dell’olandese e delle lingue scandinave. Perciò noi moderni spesso chiamiamo quei barbari col nome
di Germani; loro, però, non si chiamavano così, e anzi non avevano nessun nome che indicasse l’insieme delle tribù e dei popoli. Neanche i Romani li chiamavano così, quando discutevano del problema barbarico in generale: per loro, Germani erano solo i popoli che vivevano nelle foreste e nelle paludi della Germania, e nessuno pensava di includere sotto
questo nome i popoli delle steppe orientali, come i Goti. In mancanza di meglio, conviene
che li chiamiamo anche noi barbari, anziché Germani: è sempre una parola usata dai loro
nemici, ma almeno li include tutti.
La storia dei popoli che sono stati protagonisti delle invasioni barbariche ci aiuta a capire un fatto fondamentale: le nazioni non sono entità biologiche, come le specie o le razze animali. Non esistono in natura, ma si formano, e talvolta scompaiono, nel corso della
storia umana, e l’appartenenza a una nazione è un dato essenzialmente culturale, non biologico. Gli storici hanno cominciato a ragionare su questo problema quando si sono accorti che i popoli che invadono l’impero tra IV e V secolo non hanno una lunga storia: nella
maggior parte dei casi, i loro nomi compaiono solo nel III secolo. Dobbiamo pensare che
venissero da lontano, e solo allora si siano trasferiti in zone adiacenti all’impero romano?
Oggi non si pensa questo. L’impressione è piuttosto che i popoli siano nati dove prima c’erano solo tribù: raggruppamenti molto più piccoli, di poche migliaia di persone. Fu proprio
il lungo contatto col mondo romano a insegnare alle tribù barbare che era utile unirsi, collegarsi, federarsi, per combattere insieme contro i Romani, o per negoziare più efficacemente con loro.
Senza l’impero romano, insomma, i popoli germanici non sarebbero mai esistiti: proprio
il confronto con la potenza di Roma costrinse le tribù che vivevano lungo i confini dell’impero ad allearsi e poi a fondersi fra loro. Già prima delle invasioni gli imperatori si erano accorti che i barbari del Nord opponevano alle legioni eserciti sempre più numerosi e
154
Parte VII Il mondo romano-barbarico
disciplinati, al comando di re la cui autorità si estendeva su regioni molto vaste. In seguito, l’occasione offerta dalle invasioni convinse molte tribù, o anche solo bande di guerrieri provenienti da tribù diverse, a unirsi a un popolo già in movimento e adottare il suo nome e la sua identità. In questo modo nacquero nazioni nuove, talvolta addirittura con un nome inventato: come i Franchi, che vuol dire ‘i coraggiosi’, o gli Alamanni, che vuol dire
‘tutti gli uomini’. Questo processo è chiamato etnogenesi, che vuol dire nascita dei popoli. Inversamente, un popolo può scomparire quando non è più conveniente farne parte: con
la morte di Attila e la fine dell’impero unno in Europa, tutti quei raggruppamenti barbarici, di lingua germanica o slava, che per un po’ avevano pensato e dichiarato di essere Unni abbandonarono questa identità per unirsi ad altri popoli.
Il processo di fusione
L’insediamento dei barbari in mezzo ai Romani diede poi inizio a un secondo processo
di etnogenesi, caratterizzato dalla fusione fra i nuovi venuti e la popolazione preesistente.
Ovunque, tranne nell’estremo Nord della Gallia, i barbari erano una minoranza e in poco tempo finirono per abbandonare la loro lingua, adottando il latino dialettale parlato sul posto. L’italiano e i suoi
dialetti, come pure il francese, il provenzale, lo spagnolo, il catalano e il portoghese, derivano tutti dal latino, cui si sono aggiunte poche parole di origine germanica (anche se sono spesso parole importanti, come ricco o guerra, o come i nomi di
certi colori, il bianco e il blu). Dal punto di vista linguistico, quindi, i barbari stanziati nell’impero d’Occidente vengono assimilati dalla popolazione romana preesistente; ma da un
altro punto di vista, quello dell’identità, sono
loro che assimilano gli indigeni romani. Non
per niente in Gallia il popolo dominante, i
Franchi, ha lasciato il suo nome al paese, che
oggi chiamiamo Francia; e lo stesso è accaduto ai
Longobardi, di cui parleremo nel prossimo capitolo, che hanno lasciato il loro nome alla Lombardia.
Come mai? Il fatto è che nel corso dell’epoca romanobarbarica quasi tutta la popolazione che viveva nel regno dei
Franchi e obbediva al re franco ha cominciato a sentirsi franca, e a
seguire le usanze e le leggi franche. Alla fine, tutti quelli che vivevano nel regno sono stati considerati membri del popolo franco, anche se noi oggi sappiamo
che la grande maggioranza di quei “Franchi” discendeva dagli abitanti gallo-romani del
paese. Anche in questo caso, quindi, risulta confermato che l’appartenenza a una nazione è
frutto più di una scelta culturale, di solito inconsapevole, che non di una discendenza biologica.
Patena d’argento
VI sec.
Museo Civico e d’Arte
Sacra, Colle di Val d’Elsa,
Siena
Questa patena (il piattino
liturgico usato durante
l’eucarestia per appoggiare
l’ostia) fa parte del
cosiddetto “tesoro di
Galognano” trovato in
provincia di Siena.
Nell’iscrizione latina incisa
lungo il bordo è riportato il
nome di una donna di
origine gota, Sivegerna. Il
nome è composto con i
termini germanici sibajo‘stirpe’ e -gerno
‘premurosa’.
1. In che modo il contatto con il mondo romano contribuì alla formazione dei popoli barbari? 2. Quale
processo di etnogenesi iniziò con l’insediamento dei barbari nell’impero romano?
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
155
7. La testimonianza
dell’archeologia
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Quel che sappiamo sulle invasioni barbariche proviene innanzitutto dalle cronache scritte in quell’epoca; ma oggi anche l’archeologia ci fornisce informazioni sempre più abbondanti. Gli archeologi hanno scoperto che i continui movimenti di popoli barbari e di eserciti contrapposti crearono un’insicurezza tale che molti villaggi si ritirarono verso le alture e vennero fortificati, una precauzione a cui nessuno avrebbe pensato nei secoli della
Pax Romana. Qualche scavo ha rivelato la presenza nelle campagne italiane o francesi di
un’edilizia di tipo nuovo, con capanne di legno seminterrate, simili a quelle in uso nelle re-
La tomba di un capo franco
La
voce
PA
SSA
TO
del
I Germani non erano gente che scrivesse molto.
All’epoca delle invasioni, la voce con cui ci parlano è
perlopiù quella degli oggetti che seppellivano con i
loro morti. Nell’impero romano, il cristianesimo
aveva fatto quasi completamente scomparire
l’abitudine antica di depositare nelle tombe un
corredo funerario; i barbari del Nord, invece,
avevano l’abitudine di portare con sé
nell’oltretomba armi e oggetti d’uso quotidiano, e in
qualche caso addirittura i propri cavalli, sacrificati e
sepolti presso la tomba del padrone. L’archeologia
funeraria offre quindi un aiuto di grande importanza
per conoscere le popolazioni germaniche dell’età
delle invasioni. Il disegno ricostruisce l’aspetto che
deve aver avuto in origine la tomba d’un capo
franco, ritrovata a Morken, nella regione tedesca
della Renania, e risalente al 600 d.C. L’uomo, chiuso
in una bara di legno, ha accanto a sé l’arma più
importante, la spada. All’esterno della cassa sono
deposte le altre armi: l’elmo in bronzo dorato, lo
scudo, la lancia e la francisca, l’ascia da guerra così
tipica dei Franchi da aver preso il loro nome. Fra gli
altri oggetti, notiamo a sinistra le briglie e il morso
del cavallo: presso i barbari i cavalli erano pochi e
costosi, per cui possederne uno era certamente il
segno di uno status elevato.
Fibula a forma di
aquila
fine V-inizi VI sec.
Dal Tesoro di
Dolmagnano
(Repubblica di San
Marino);
Germanisches
Nationalmuseum,
Norimberga,
Germania
Pendenti per collana
fine V-inizi VI sec.
Dal Tesoro di Dolmagnano
(Repubblica di San Marino);
Germanisches Nationalmuseum,
Norimberga, Germania
Nel 1893 a Dolmagnano furono scoperti
diversi oggetti appartenenti al ricchissimo
corredo funerario di una nobildonna gota.
Realizzati tutti in oro e pietre preziose, i gioielli
furono creati rielaborando modelli di tradizione romana e
introducendo motivi figurativi tipicamente goti, come l’aquila.
gioni da cui provenivano i barbari. Ma è soprattutto l’archeologia funeraria, quella cioè che
analizza i ritrovamenti nelle tombe, a fornire le informazioni più interessanti. Ovunque
nell’epoca delle invasioni barbariche compaiono cimiteri di tipo nuovo, con le tombe disposte in lunghe file, e dove molti uomini sono sepolti con le loro armi: un’usanza sconosciuta ai Romani. Nelle tombe delle donne si ritrovano invece gioielli, specialmente orecchini o fibbie, di fattura barbarica. Secondo certi archeologi
queste sono tutte tombe di barbari, come conferma anche l’alta statura delle persone sepolte; la loro presenza permette di creare la mappa degli insediamenti barbarici in
Occidente.
Altri archeologi pensano che in realtà anche i Romani più ricchi abbiano cominciato in
quest’epoca a imitare le usanze dei barbari, a portare spade e gioielli di nuovo genere, nella vita e anche nella tomba; per cui questi oggetti non rappresenterebbero l’appartenenza
etnica, ma lo status sociale dei defunti. I capi barbari, a loro volta, apprezzavano le usanze
romane e le imitavano, e sono proprio le loro tombe a dimostrarlo. Il re franco Childerico,
sepolto intorno al 482, aveva al dito un anello d’oro usato come sigillo, secondo l’abitudine degli alti funzionari imperiali; sull’anello era rappresentato il suo busto in veste di generale romano, con la scritta latina «Childirici regis». Vicino a lui, però, erano stati seppelliti anche i suoi cavalli, sacrificati per seguire il re nell’aldilà, secondo un’usanza pagana che avrà fatto inorridire i Romani della Gallia, cristiani da un bel pezzo. La testimonianza dell’archeologia dimostra così, al tempo stesso, la distanza fra la società barbarica
e quella romana, e la faticosa integrazione in corso.
Anello del re Childerico
Copia XVII sec.
Bibliothèque Nationale,
Cabinet des Médailles,
Parigi
L’anello con il sigillo del re
Childerico fu rubato a
Parigi nel 1831 ma ne era
stata realizzata una copia al
momento della scoperta.
1. Quale importante cambiamento si registra in questo periodo nell’edificazione dei villaggi? 2. Quali
informazioni fornisce l’archeologia funeraria?
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
157
India e Cina
dal III al VI secolo
In Cina
Altri
Dopo la caduta della dinastia Han all’inizio del III secolo, l’impero cinese
conobbe sviluppi abbastanza simili a
quelli dell’impero romano: forse è
un caso, ma forse no, dal momento
che entrambi gli imperi subirono
l’urto dei popoli nomadi delle steppe asiatiche. In Cina l’impero della
dinastia Jin, lacerato dalle guerre civili, cadde entro il 420 sotto la pressione di nuovi popoli provenienti dal
Nord, di lingua turca e mongola; fra
loro c’erano gli Xiongnu, che potrebbero essere una federazione di clan
unni. Gran parte della Cina del Nord
fu occupata da questi nomadi, che vi
fondarono le loro dinastie. Molti cinesi Han emigrarono nella parte
meridionale della Cina, a sud del
grande fiume Yangtze, dove nacque
una moltitudine di dinastie locali: è
l’epoca nota nella storia cinese come
“Periodo delle Dinastie del Sud e del
Nord”.
Proprio come nell’Occidente romano-barbarico, il problema dominante
nella Cina di quest’epoca è la convivenza fra la civiltà indigena e gli invasori, che vennero via via acculturati e assimilati. Come in Europa, i territori imperiali occupati dai barbari
conobbero un declino demografico,
culturale ed economico; esso fu però
controbilanciato dal grande sviluppo
della Cina del Sud, che fino a quell’epoca era stata periferica rispetto ai
centri del potere e della civiltà cinese, e che ora conobbe una grande
fioritura economica, culturale e artistica. Come nel bacino mediterraneo, infine, anche in Cina la dissoluzione politica si accompagnò a un
importante rinnovamento religioso:
il buddismo, proveniente dall’India e
radicatosi in Cina fin dalla dinastia
Han, prese sempre più piede, nonostante l’iniziale opposizione delle autorità, e finì per coesistere pacificamente con la tradizione locale del
taoismo [cfr. altri mondi, pp. 70
sg.].
Dipinti buddisti cinesi
538-539
Grotte di Mogao, Dunhuang, Cina
Tra il IV e il IX secolo lungo un’estesa parete rocciosa nell’oasi di Dunhuang furono scavati e creati da monaci buddisti
quasi un migliaio di templi, che resero il sito uno dei maggiori luoghi di culto della Cina. Questa grotta, realizzata tra il
538 e il 539 come attesta un’iscrizione rupestre, era destinata alla meditazione e a questo scopo servivano anche le statue e
gli splendidi dipinti a carattere sacro che la decorano.
Parte VII Il mondo romano-barbarico
In India
Anche in India quest’epoca conosce
una grande fioritura culturale e artistica, tanto che il periodo fra l’inizio del
IV e la fine del V secolo è considerato
l’età d’oro della civiltà indù: molti fra i
capolavori più famosi dell’arte indiana
e della letteratura sanscrita sono stati
creati allora. A questi anni risale anche
l’invenzione dei numeri decimali, che
noi chiamiamo numeri arabi, ma che
in realtà vennero inventati in India. I
matematici indiani elaborarono il concetto dello zero, sconosciuto a Greci e
Romani, e scoprirono che la Terra si
muove attorno al Sole. In India, diversamente dalla Cina e dall’Europa,
questo non è un periodo di dissoluzione politica: dal 320 al 550 un grande impero, quello dei Gupta, governa
gran parte del subcontinente indiano.
Ma la differenza è in realtà solo una
questione di tempo: anche il potere
dei Gupta entrò in crisi alla fine del V
secolo, quando le tribù unne conosciute come gli Unni Bianchi invasero
l’India settentrionale, e alla fine l’impero si disgregò, lasciando il posto a
molti regni regionali.
Il re Mahajanaka (precedente
incarnazione di Budda)
VI sec.
Grotte di Ajanta, Maharashtra (India)
Tra il II secolo a.C. e il VII d.C. in
una profonda gola nei pressi di Ajanta
fu scavato nella roccia un grande
complesso monastico buddista, uno
dei capolavori dell’arte indiana.
All’impero gupta risalgono le ricche
ed elaborate decorazioni presenti in
molte grotte e che ripropongono scene
legate alle opere, agli insegnamenti e
alle vite anteriori del Budda.
India e Cina nel IV secolo
Impero
della dinastia
Jin
Impero
dei Gupta
OCEANO
PACIFICO
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
159
SINTESI
1. L’invasione gotica del 376 e le sue conseguenze
Negli ultimi decenni del IV secolo cominciò un movimento di popoli barbari verso l’impero. I barbari si insediarono nell’impero, senza però trasformarsi in sudditi di Roma e conservando i propri capi e le proprie leggi. Il primo insediamento fu quello dei Franchi in Gallia, mentre il più drammatico fu quello avvenuto nel 376 quando i Goti furono investiti dall’avanzata degli Unni. I Goti furono accolti dall’imperatore Valente, ma le durissime condizioni di vita dei rifugiati li spinsero alla ribellione. Lo stesso Valente morì nella battaglia di Adrianopoli (378) e il suo successore Teodosio dovette scendere a patti con loro e accettarli all’interno dell’impero non
come sudditi, ma come alleati. A Teodosio, inoltre, si deve la trasformazione del cristianesimo in religione di Stato. Nel 380, infatti,
emanò l’editto di Tessalonica, con il quale imponeva ai sudditi di seguire il cristianesimo cattolico come unica religione.
2. L’età di Stilicone e Alarico
Alla morte di Teodosio (395) l’impero andò ai figli Arcadio in Oriente e Onorio in Occidente, anche se in realtà in Occidente
comandava il generale Stilicone. Nello stesso periodo i rapporti con i Goti, guidati da Alarico, comandante di tutte le truppe romane nei
Balcani, tornarono a farsi turbolenti. Nel 406 l’impero d’Occidente fu vittima di massicce incursioni di numerose popolazioni barbariche. A differenza delle precedenti, queste incursioni furono ostili e distruttive e i popoli che si insediarono sul suolo romano non se ne
andarono più. Alla morte di Stilicone (408), Alarico ne approfittò per invadere l’Italia con le sue truppe, assediare Ravenna e saccheggiare Roma (410). Il sacco di Roma dimostrò l’estrema debolezza dell’impero e marcò l’irreversibile separazione tra l’impero d’Occidente e quello d’Oriente.
3. Dalla nascita dei regni romano-barbarici alla deposizione di Romolo Augustolo
Nel V secolo i popoli barbari si stanziarono stabilmente in tutte le province dell’Occidente, tranne che in Italia. Nominalmente
l’imperatore continuava a comandare su queste province, ma in Occidente nacquero dei regni indipendenti, modellati sull’amministrazione romana, abitati da Romani e governati e difesi dai barbari: i regni romano-barbarici. A metà del V secolo gli Unni, guidati da Attila, attaccarono l’impero. Dopo aver invaso l’Oriente, nel 451 entrarono in Gallia e l’anno dopo invasero l’Italia, ma si fermarono sul
Po. In Italia il potere era in mano ai generali e ai loro eserciti di mercenari barbari. Tra questi vi erano Oreste, che fece incoronare imperatore il figlio Romolo, e Odoacre, che nel 476 depose Romolo, mandò a Costantinopoli le insegne imperiali e si fece nominare rex
gentium, sancendo, di fatto, la fine dell’impero romano d’Occidente.
4. Perché finì il mondo antico?
Nel corso dei secoli l’impero romano era profondamente cambiato, ma la società romana non era sul punto di crollare e senza
le invasioni barbariche, avrebbe potuto sopravvivere. Le invasioni provocarono il crollo politico dell’Occidente, ma ebbero effetti ancora più devastanti sul funzionamento dell’economia e portarono a un graduale crollo del livello complessivo di civiltà. La proprietà terriera rimase il fondamento della supremazia sociale, ma l’unità economica del Mediterraneo si frantumò. Le guerre e la violenza resero
insicuri i commerci e gli scambi tra Occidente e Oriente e il crollo dell’amministrazione imperiale e la conseguente crisi del meccanismo di riscossione fiscale portò a un impoverimento dei territori e alla decadenza delle infrastrutture. Le carestie si moltiplicarono, provocando il calo demografico e lo spopolamento di città e campagne. In alcune zone periferiche gli effetti della crisi furono meno drammatici, come la Gallia del Nord, dove il regno dei Franchi, invece, si rafforzava.
5. La Chiesa e le controversie religiose
Nel V secolo si assistette a una grande vivacità culturale nell’ambito cristiano. Questa fu l’epoca dei Padri della Chiesa, come
Ambrogio, Girolamo o Agostino. Le comunità cristiane erano ancora spaccate da divergenze teologiche. Il cristianesimo ariano si diffuse in Occidente con l’arrivo dei barbari, mentre la fede nestoriana e la dottrina monofisita fornivano nuove interpretazioni della figura divina del Cristo, benché fossero ritenute eretiche dai cattolici. Il peso politico della Chiesa e dei suoi vescovi cresceva, soprattutto in
Occidente dove essi rappresentavano l’unica autorità romana rimasta nelle città. Il rapporto tra Stato e Chiesa cominciò a farsi competitivo, ma la mancanza di un potere unico nella Chiesa faceva sì che molti ritenessero l’imperatore il vero capo dei cristiani, alla cui autorità dovevano sottomettersi i vescovi.
6. L’etnogenesi, ossia la nascita dei popoli
Grazie allo studio del processo di formazione delle popolazioni barbare che si stanziarono nei territori dell’impero romano è
possibile sostenere che l’appartenenza a una nazione è un dato essenzialmente culturale e non biologico. Fu infatti il lungo contatto con
il mondo romano a convincere le tribù barbare della necessità di federarsi per fronteggiare i Romani. A questo processo gli studiosi hanno dato il nome di etnogenesi. Un processo simile portò alla fusione dei nuovi venuti con la popolazione preesistente: dal punto di vista
linguistico i barbari furono assimilati dalla popolazione romana, mentre dal punto di vista dell’identità furono loro ad assimilare le popolazioni locali.
160
Parte VII Il mondo romano-barbarico
7. La testimonianza dell’archeologia
Gran parte delle notizie che ci sono giunte di questo periodo provengono dalle cronache dell’epoca, ma anche i ritrovamenti archeologici aiutano ad analizzare le trasformazioni. I villaggi, per esempio, furono trasferiti sulle alture e fortificati, mentre le case in campagna assunsero alcuni elementi originari delle terre di provenienza dei barbari. I ritrovamenti di tombe dell’epoca, inoltre, testimoniano come in quell’epoca cominciarono a convivere le opposte tradizioni culturali e di come, in qualche modo, fosse in corso una faticosa integrazione tra di esse.
ESERCIZI
Gli eventi
1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette:
❏ a) Il trasferimento dei Franchi nell’impero fu pacifico e concordato
con le autorità romane.
❏ f) All’inizio del V secolo i Vandali e i Burgundi si stabilirono
definitivamente nel Nord della Gallia.
❏ b) Il generale Flavio Stilicone era il reale detentore del potere
nell’impero d’Oriente.
❏ g) Furono soprattutto i commerci a soffrire per le invasioni e
l’instabilità politica.
❏ c) Il goto Alarico era il comandante di tutte le truppe romane
stanziate sul Danubio.
❏ h) Per fermare gli Unni di Attila, giunti sulle rive del Tevere, fu pagato
un forte tributo.
❏ d) Dopo aver invaso la Spagna, i Goti si stabilirono definitivamente in
Nordafrica.
❏ i) La fede nestoriana e la dottrina monofisita furono condannate dalla
Chiesa.
❏ e) Nei territori in cui si insediavano, i capi barbari ottenevano un terzo
delle terre confiscate.
❏ j) I barbari stanziati nell’impero furono linguisticamente assimilati
dalla popolazione romana.
Le coordinate spazio-temporali
2. Seguendo l’esempio fornito, completa lo schema inserendo correttamente le lettere relative agli eventi
elencati in corrispondenza con le date:
a) I Vandali invadono il Nordafrica;
b) Editto di Tessalonica;
c) Genserico, re dei Vandali, saccheggia Roma;
a
d) Invasione gotica;
e) Caduta dell’impero romano d’Occidente;
f) Sacco di Roma a opera di Alarico;
g) Battaglia di Adrianopoli;
h) Attila invade l’Italia;
i) Grandi invasioni barbariche;
j) Angli e Sassoni invadono la Britannia.
376
380
378
410
406
455
450
429
452
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
476
161
3. Inserisci sulla carta muta i nomi dei territori e delle città elencati; indica le province nelle quali si stanziarono
i Franchi, i Goti, i Vandali, i Burgundi, gli Angli e i Sassoni; quindi rispondi alle domande:
Territori: Pannonia, Africa,
Spagna, Italia, Britannia,
Gallia.
Città: Roma, Costantinopoli,
Treviri, Ravenna, Milano.
OCEANO
ATLANTICO
M
AR
S
CA
O
PI
MAR NERO
a) Gli stanziamenti delle
popolazioni barbare furono
sempre violenti?
b) Per quali motivi i Goti
rifugiati si ribellarono alle
autorità romane?
MAR MEDITERRANEO
c) Che cosa provocò le
invasioni barbariche del
406?
AR
M
d) Da dove provenivano gli
Unni? Come si svolse la
loro invasione dell’impero?
O
SS
RO
I concetti
4. Definisci brevemente i seguenti termini:
Termine
Definizione
Foederati:
Hospitalitas:
Nestorianesimo:
Monofisismo:
Etnogenesi:
162
Parte VII Il mondo romano-barbarico
I processi
5. Completa lo schema relativo alla crisi del V secolo, inserendo correttamente le lettere relative ai termini
e alle espressioni elencate:
a) Invasioni barbariche;
Probabile
crescita
demografica
b) Carestie;
c) Riscossione fiscale;
d) Romano-barbarici;
Scorrerie
degli .............
........................
e) Calo demografico;
f) Unni;
g) Mercato unitario;
Regni
..............................
h) Amministrazione imperiale;
Insicurezza
i) Campagne;
Crollo
della ................
Frammentazione
politica
Guerre
civili
j) Scambi e commerci.
...........................
Riduzione di ...............
tra Occidente
e Oriente
Crisi del
meccanismo
di.....................
Fine
del ...........................
Abbandono
delle ......................
...........................
Declino economico dell’Occidente
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Qual era la situazione politica in Italia alla vigilia del crollo dell’impero romano d’Occidente? Chi deteneva il potere?
2) Fino a che punto si era allargato il divario politico ed economico tra Occidente e Oriente?
3) È possibile affermare che la diffusione del cristianesimo contribuì a indebolire l’impero romano? Perché?
4) Come si svilupparono i rapporti tra Chiesa e Stato nel corso del V secolo?
5) Come si applica il concetto di etnogenesi agli avvenimenti del V secolo? In che modo l’assimilazione tra barbari e Romani fu un processo reciproco?
Capitolo 16 Le invasioni barbariche
163
Capitolo 17
I regni
romano-barbarici
1. Dalla deposizione di Romolo Augustolo
alla morte di Teodorico
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
L’impero alla fine del V secolo
Dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476, l’intero territorio dell’impero romano d’Occidente era governato da re autonomi. L’Africa nordoccidentale era posseduta dai
Vandali, che avevano stabilito la loro capitale nella più grande città della provincia, Cartagine. La Spagna era occupata in gran parte dai Goti. La Gallia di Sud-ovest era anch’essa
in mano ai Goti, il cui regno si estendeva da una parte e dall’altra dei Pirenei; la Gallia di
Sud-est era occupata dai Burgundi, stanziati nella valle del Rodano, che va dalle Alpi fino
al mare. Nella Gallia del Centro-nord regnava un generale romano che si era incoronato re,
Siagrio; ancora più a nord, fino alla bassa valle del Reno, comandavano diversi re franchi;
nell’alta valle del Reno, fra le attuali Germania e Svizzera, erano stanziati gli Alamanni.
Odoacre, infine, governava l’Italia, forte del suo titolo di rex gentium – capo, cioè, dei popoli barbarici che formavano l’esercito romano nella penisola – e dell’appoggio del senato
romano [cfr. cap. 16.3].
A Costantinopoli, l’imperatore d’Oriente era rimasto l’unico imperatore romano. Non
era rassegnato alla perdita dell’Occidente, ma non aveva i mezzi per riconquistarlo, perciò
doveva negoziare con i re barbari e cercare almeno di convincerli a riconoscere la sua supremazia. L’imperatore Zenone (474-491) strinse un accordo con il re dei Vandali Genserico: si trattava di normalizzare i rapporti con l’unico regno barbarico che era nato da una
vera e propria invasione (e non da un trattato più o meno estorto al governo imperiale) e
che perciò mancava fino a quel momento di una legittimità formale. L’accordo ebbe successo e mise fine, in Africa, alla persecuzione dei cristiani cattolici da parte dei Vandali,
cristiani ariani. In Italia Zenone dovette accettare l’usurpazione di Odoacre, che aveva il
consenso dell’aristocrazia romana, e per qualche anno il generale governò l’Italia con l’approvazione, almeno apparente, dell’imperatore.
Nell’impero d’Oriente erano ancora insediati grossi nuclei di Goti, che oggi chiamiamo Ostrogoti, o ‘Goti dell’Est’, per distinguerli dai Goti stanziati in Gallia e in Spagna (che
chiamiamo Visigoti, cioè ‘Goti dell’Ovest’). Zenone cercò di ottenere la fedeltà degli
Ostrogoti pagando loro grosse somme e conferendo gradi militari e incarichi politici ai loro capi: il più importante, Teodorico, nel 484 fu addirittura nominato console, la carica più
illustre dell’impero romano. La presenza degli Ostrogoti era però fonte di continui disordini e Zenone trovò il modo di sbarazzarsi di loro: si accordò con Teodorico perché si trasferisse in Italia con tutto il suo popolo, abbattendo con la forza Odoacre. Gli Ostrogoti invasero quindi l’Italia per incarico del governo imperiale; dopo una lunga guerra, durata dal
164
Parte VII Il mondo romano-barbarico
Il palazzo di Teodorico
VI sec.
Particolare dai mosaici di
Sant’Apollinare Nuovo,
Ravenna
Gli scavi condotti a
Ravenna all’inizio del XX
secolo hanno rilevato che
alle spalle di
Sant’Apollinare Nuovo
esisteva un monumentale
complesso residenziale
riccamente decorato con
mosaici il cui studio ha
permesso di datare la
costruzione all’età di
Teodorico.
489 al 493, Odoacre venne sconfitto e ucciso, e l’aristocrazia romana, che l’aveva sostenuto, si affrettò a passare dalla parte di Teodorico.
I Goti in Italia
Nasceva così un nuovo regno romano-barbarico, il regno gotico d’Italia. Teodorico, che
governò l’Italia dal 493 al 526, è uno dei più famosi sovrani dell’alto Medioevo (così chiamiamo, per convenzione, i secoli che vanno dal IV al X). Il re regnava sia sui Goti, sia sui Romani, e in realtà si comportava come un imperatore: si era insediato nella capitale imperiale,
Ravenna, e i senatori lo acclamavano col titolo di Augusto. Teodorico però non volle assumere il titolo imperiale, e regnò, formalmente, a nome dell’imperatore d’Oriente. Almeno all’inizio la convivenza fra Goti e Romani fu pacifica, anche se gli invasori erano cristiani ariani e la popolazione italica era invece cristiana cattolica.
Teodorico ordinò che tutti seguissero le leggi romane e
mantenne intatta l’amministrazione romana, grazie anche al suo grande e geniale ministro, il romano Cassiodoro. Fra i due popoli i matrimoni erano vietati e ciascuno svolgeva una funzione diversa: i Romani gestivano l’amministrazione e l’economia e pagavano le tasse,
i Goti, esenti da imposte, formavano l’esercito.
Fu però proprio la differenza di religione a creare
problemi nel regno, verso la fine della vita di Teodorico. Il re, ariano come tutto il suo popolo, non aveva
mai perseguitato i cattolici; fu l’imperatore d’Oriente,
il cattolico Giustino (518-527) – un duro militare di
carriera, poco colto e dai metodi brutali – a cominciare le ostilità. L’arianesimo, condannato nel concilio di
Nicea del 325 [cfr. cap. 15.1], era ancora largamente
praticato nell’impero d’Oriente; ma nel 524 Giustino
lo mise fuori legge e ordinò l’abolizione della Chiesa ariana. Gli abitanti romani dell’Italia, che fino allora non avevano avuto nessun problema a essere fedeli al tempo stesso al re Teodorico e al lontano imperatore, dovettero scegliere da che parte stare.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
Battistero degli Ariani
VI sec.
Ravenna
Il Battistero degli Ariani fu
commissionato da
Teodorico per i seguaci di
questa dottrina; la scelta del
sovrano tradiva la volontà
di assecondare una
convivenza pacifica
all’interno del suo stato fra
le differenti anime del
cristianesimo, l’arianesimo
dei Goti e il cattolicesimo
degli Italici.
165
Teodorico, preoccupato, cominciò a sospettare i Romani di infedeltà. Per suo ordine il
papa Giovanni I andò a Costantinopoli, per chiedere all’imperatore di revocare le sanzioni contro gli ariani; il papa tornò senza esserci riuscito, e Teodorico lo fece chiudere in carcere, dove morì. Diversi senatori vennero accusati di complottare contro il re, e Teodorico
li fece giudicare e condannare a morte dallo stesso senato; fra gli altri venne giustiziato anche un potentissimo uomo politico e collaboratore del re, Severino Boezio, che era anche
il più grande filosofo latino dell’epoca. Queste condanne fecero grande impressione e rovinarono l’immagine di Teodorico, che fino ad allora era stato esaltato dai Romani come
un grandissimo sovrano. Ma il re morì subito dopo, nel 526, e fu sepolto nel mausoleo che
s’era fatto costruire a Ravenna; sotto i suoi successori le persecuzioni cessarono, riportando la pace fra Goti e Romani.
I Franchi in Gallia
In Gallia del Nord, intanto, stava nascendo il più forte di tutti i regni romano-barbarici,
guidato dal grande contemporaneo di Teodorico, il re franco Clodoveo (481-511). Fino a quel
momento i Franchi erano divisi in gruppi governati da re rivali fra loro; Clodoveo fu il primo
a unificare tutto il popolo franco sotto un solo re. Nel 486 sconfisse Siagrio, abbatté l’unico
governo di origine romana ancora esistente in Gallia ed estese il proprio potere fino alla Loira, il grande fiume che divide il Nord dal Sud della Francia. Nel 496 Clodoveo sconfisse gli
I regni romanobarbarici
MARE
DEL NORD
Lindsfarne
Angli
NORTHUMBRIA
Whitby
York
IRLANDA
MERCIA
GALLES
OCEANO
ATLANTICO
ESTANGLIA
ESSEX
Londra
WESSEX
Reno
Kent
BritanniSUSSEX
BRETAGNA
REGNO
DEI
FRANCHI
(511)
Svevi
Sassoni
Alamanni
REGNO
REGNO DEGLI
DEI
OSTROGOTI
BURGUNDI
MAR NERO
Danubio
Baschi
IM
Roma
PER
O
Costantinopoli
BIZ
REGNO DEI VISIGOTI
AN
TIN
O
REGNO
DEI
VANDALI
Angli
Sassoni
Britanni
166
Parte VII Il mondo romano-barbarico
MAR MEDITERRANEO
Alamanni alla battaglia di Tolbiac e sottomise quel popolo all’egemonia franca. Si tratta di
una vittoria importantissima, perché a partire da allora il regno franco fu l’unico a governare
sia territori appartenuti all’impero romano e quindi abitati da una popolazione romana, sia territori mai controllati da Roma e abitati da popoli germanici: i Franchi sono così all’origine
delle due nazioni più potenti dell’Europa continentale, la Francia e la Germania.
Nel 507 Clodoveo sconfisse anche i Visigoti, alla battaglia di Vouillé, e conquistò quasi tutto il loro territorio a nord dei Pirenei. Il re franco governava ormai tutta la Gallia, a
eccezione di una ristretta zona del Sud rimasta ai Visigoti, e del regno burgundo nella valle del Rodano, che però era troppo debole per fargli concorrenza. Clodoveo rafforzò il suo
potere stringendo alleanza con il re ostrogoto Teodorico, il quale sposò sua sorella, e dichiarò la sua amicizia all’imperatore d’Oriente, Anastasio (491-518), che lo ricompensò
con la nomina a console. Ma l’atto forse più carico di conseguenze del regno di Clodoveo
fu la sua conversione al cristianesimo, nella versione cattolica. I Franchi fino a quel momento erano l’unico fra tutti i popoli entrati nell’impero romano a essere rimasti fedeli ai
loro antichi dèi. Goti, Vandali, Burgundi erano cristiani; ma questo non li aveva aiutati molto nel rapporto con la popolazione romana, perché il loro cristianesimo, appreso in Oriente, era nella forma ariana, mentre i Romani d’Occidente erano cattolici. Clodoveo si lasciò
convertire al cristianesimo dai vescovi cattolici della Gallia, e impose la nuova religione a
tutto il suo popolo.
A partire da allora i Franchi ebbero un rapporto di speciale amicizia con i vescovi del
loro regno e anche con la Chiesa di Roma, e questo contribuì molto a fare della Gallia franca il più solido e potente dei regni romano-barbarici. C’era però una debolezza: i Franchi
non concepivano la primogenitura, e pensavano che tutti i figli di un re dovessero ereditare un pezzo del suo regno. Perciò alla morte di Clodoveo la Gallia tornò a dividersi, in ben
quattro regni separati. Sotto i discendenti di Clodoveo, che formano la cosiddetta dinastia
merovingia e che rimarranno al potere fino al 751, la potenza dei Franchi sarà quasi sempre frenata dalla divisione del paese in vari regni.
1. Per quale motivo gli Ostrogoti invasero l’Italia? 2. Com’era ripartita la gestione dell’Italia tra Romani e
Goti? 3. Quale fattore indeboliva la potenza dei Franchi?
2. L’età di Giustiniano
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Il Corpus Iuris Civilis e la riconquista dell’Occidente
Con il regno del nipote e successore di Giustino, l’imperatore Giustiniano (527-565), si
ebbe una brusca e violenta svolta nella storia dei regni romano-barbarici, perché Giustiniano decise di riconquistare l’Occidente e li attaccò uno dopo l’altro.
Giustiniano fu uno dei più importanti sovrani dell’epoca e può essere considerato l’ultimo
grande imperatore romano, continuatore di Augusto e di Costantino. A dimostrare la sua importanza basterebbe l’enorme lavoro di codificazione del diritto romano da lui intrapreso. Prima di lui, l’imperatore Teodosio II (408-450) aveva fatto compilare una raccolta delle leggi
emanate dagli imperatori precedenti, il Codice Teodosiano. Giustiniano intraprese un’opera
molto più vasta, il Corpus Iuris Civilis, in cui sono raccolti, accanto alle leggi, anche i com-
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
167
Il Corpus Iuris Civilis
Appena salito al trono, Giustiniano decise che uno dei suoi compiti più urgenti era di mettere ordine nel complicatissimo sistema
del diritto romano. Per secoli gli imperatori avevano emanato leggi, che erano tutte valide, anche se certe volte erano in contrasto
fra loro. Alle leggi si aggiungevano i commenti dei giuristi, che
avevano valore in tribunale in caso di incertezza; anche queste interpretazioni, però, erano spesso contraddittorie. Giustiniano incaricò una commissione di esperti, presieduta dal giurista Triboniano, di un lavoro immenso. Si trattava di raccogliere tutte le leggi e i trattati di giurisprudenza, di selezionare il materiale eliminando le contraddizioni, e di ripubblicarlo in forma organica.
C’era, per fortuna, un precedente, il Codex Theodosianus, pubblicato nel 438 per ordine dell’imperatore Teodosio II; era molto meno completo del lavoro progettato da Giustiniano, perché raccoglieva solo le costituzioni, cioè le leggi imperiali, ma era un modello a cui ispirarsi. Ogni legge non veniva riportata per intero, col
suo testo spesso molto lungo e pieno di formule
giuridiche: se ne citava in forma riassuntiva solo il contenuto fondamentale, oltre alla data e al
luogo di pubblicazione. Il Codex era organizzato in libri, ognuno diviso in titoli, cioè sezioni
suddivise per argomento; in modo che tutte le
leggi riguardanti, per esempio, il matrimonio e
il divorzio si trovavano una di seguito all’altra,
in ordine cronologico. Tutti questi principi organizzatori vennero ripresi anche nel Codex Iustinianus, concepito per sostituire il Codice Teodosiano.
Ma il lavoro della commissione istituita da Giustiniano non si fermò qui. Oltre al Codice, vennero preparate altre tre opere: le Istituzioni, cioè
un manuale di diritto destinato agli studenti; il
Digesto, o Pandette, cioè la raccolta dei pareri
di tutti i più importanti giuristi romani del passato; infine le Novelle, cioè le nuove costituzioni emanate sotto il regno di Giustiniano.
L’insieme di queste quattro opere è noto come
Corpus Iuris Civilis, il corpo – cioè l’insieme –
del diritto civile.
La creazione del Corpus Iuris Civilis cambiò
profondamente la natura del diritto. Fino ad allora il diritto romano si era evoluto come un sistema aperto, in cui i giudici per pronunciare la
sentenza potevano far riferimento a sentenze
Una pagina miniata delle Institutiones di
Giustiniano
1330
Biblioteca Malatestiana, Cesena
Questa pagina miniata raffigura Giustiniano e la sua
corte. La monumentale opera si deve soprattutto al
giurista Triboniano, uno dei commissari che
lavorarono alla riforma giuridica voluta
dall’imperatore.
168
Parte VII Il mondo romano-barbarico
precedenti o pareri di giuristi, scegliendo quelli che secondo loro erano più adatti al caso: un sistema simile al diritto oggi vigente nei paesi anglosassoni, il Common Law. Giustiniano trasformò il diritto romano in un sistema monolitico, la cui validità
derivava esclusivamente dalla decisione dell’imperatore: tutto
ciò che era incluso nel Corpus aveva validità, e nient’altro poteva più essere utilizzato. Nasceva l’idea del diritto come un codice unico stabilito dallo Stato, al cui interno i giudici trovano tutte le indicazioni a cui debbono rigidamente attenersi. In questa
forma, il diritto romano venne largamente utilizzato nei paesi
dell’Europa occidentale solo a partire dal basso Medioevo (secoli XI-XV), quando questi paesi vennero a conoscenza del Corpus (che in precedenza non aveva circolato nei regni romanobarbarici). Esso è tuttora il fondamento del diritto in quasi tutta
l’Europa, tranne appunto in Inghilterra dove è in vigore il Common Law.
L’imperatore Giustiniano
VI sec.
Particolare dei mosaici
della Basilica di San Vitale,
Ravenna
L’imperatrice Teodora
VI sec.
Particolare dei mosaici
della Basilica di San Vitale,
Ravenna
Durante il VI secolo,
quando Ravenna divenne
capitale dell’Esarcato, la
storia artistica di questa
città si intrecciò con quella
bizantina. Da
Costantinopoli Ravenna
prelevava idee, materiali
costruttivi e squadre di
maestranze, tutte risorse
riconoscibili nella
splendida decorazione
musiva della Basilica di
San Vitale, in cui la
tradizione orientale si
fonde felicemente con
quella occidentale romana.
menti e le sentenze delle scuole giuridiche romane; l’opera commissionata da Giustiniano ha
costituito per secoli la base del diritto nel mondo romano-cristiano [cfr. scheda, p. 168].
All’inizio del suo regno, Giustiniano dovette affrontare opposizioni e congiure. Molti
consideravano scandalosa l’influenza che aveva su di lui la forte e capace moglie Teodora, che era stata attrice e forse anche prostituta. Fra i politici e i generali non mancavano i
rivali che avrebbero voluto abbattere il giovane imperatore e prendere il suo posto. Gli oppositori trovavano una facile massa di manovra fra gli spettatori delle corse di cavalli dell’ippodromo, che nella Costantinopoli dell’epoca erano organizzati in fazioni contrapposte
e si abbandonavano facilmente alla violenza, un po’ come gli hooligans del calcio. Le due
squadre principali, i Verdi e gli Azzurri, erano in grado di mobilitare una moltitudine di teppisti, e bastava far nascere il sospetto che l’imperatore non fosse imparziale e favorisse gli
uni o gli altri per scatenare disordini. Nel 532 Giustiniano per ristabilire l’ordine fece impiccare i capi dei tifosi; il risultato fu una spaventosa rivolta, chiamata Nikà (dalla parola
greca che significa ‘Vinci!’, e che era il grido di incitamento rivolto dai tifosi ai campioni).
La rivolta fece tremare il trono dell’imperatore, ma venne repressa nel sangue dai due più
fedeli generali di Giustiniano, Belisario e Narsete, provocando migliaia di morti.
Subito dopo, ristabilito saldamente il suo potere, Giustiniano intraprese un vasto progetto di riconquista, che doveva abbattere i regni romano-barbarici e riportare tutto il mondo romano sotto il governo diretto dell’imperatore. Nel 533 Belisario sbarcò in Africa e il
regno vandalo, lacerato dalle divisioni fra cattolici e ariani, crollò rapidamente: l’intera regione nordafricana tornò sotto il controllo imperiale. Dei Vandali non rimase che il nome,
oggi usato in italiano e in altre lingue per indicare chi distrugge insensatamente e per il puro piacere di farlo: un risultato dovuto proprio alla propaganda cattolica e imperiale dell’epoca, così violentemente ostile ai Vandali da trasformare il loro nome in un insulto.
Nel 535 Giustiniano intraprese quella che avrebbe dovuto essere un’altra guerra-lampo,
contro il regno ostrogoto d’Italia: Belisario sbarcò in Sicilia e da lì cominciò a risalire la Pe-
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
169
nisola. Ma il potere dei re goti si rivelò più forte del previsto; la popolazione italica non parteggiava affatto per i nuovi venuti – che si chiamavano Romani ma parlavano greco – e li considerava degli invasori più che dei liberatori. Il penultimo re goto, Totila, grande comandante e amatissimo dal popolo, liberò addirittura gli schiavi per armarli contro l’invasore. Alla
fine Narsete, che aveva sostituito Belisario, sconfisse Totila nel 552 a Tagina, l’attuale Gualdo Tadino (in Umbria), e l’anno dopo sconfisse e uccise il suo successore, Teia.
La cosiddetta Guerra greco-gotica durò quasi vent’anni, dal 535 al 553; ma i suoi strascichi proseguirono fino al 562, perché i Franchi avevano approfittato della situazione per
invadere l’Italia settentrionale, e dopo aver sconfitto i Goti le truppe imperiali dovettero
combattere anche loro. La guerra, accompagnata da carestie ed epidemie, provocò spaventose devastazioni; molte città, fra cui Roma, Milano, Ravenna, vennero più volte assediate, prese, saccheggiate. Alla fine, l’Italia riconquistata e pacificata dai generali di Giustiniano era un paese spopolato e in rovina, la sua economia un tempo florida era distrutta,
la popolazione della città di Roma era stata sterminata, e il millenario senato romano aveva cessato di esistere. Si può ben dire che non furono le invasioni barbariche in sé, ma la
riconquista romana del VI secolo a mettere fine alla grandezza dell’antica Roma.
Con la fine della guerra in Italia Giustiniano intraprese un’ultima riconquista, quella della Spagna. Le sue truppe sbarcarono nel 554 e riconquistarono parte del paese, ma la campagna si esaurì per mancanza di mezzi e il regno visigoto, diversamente da quello vandalo
e ostrogoto, sopravvisse. Le grandi campagne in Occidente avevano esaurito le risorse finanziarie e militari dell’impero romano, che faceva fatica ad affrontare gli altri nemici da
cui era circondato. A Oriente, infatti, l’impero confinava ancor sempre con un vecchio e
odiato avversario, l’impero persiano dei Sasanidi; le tregue con loro non duravano mai molto e la loro minaccia gravava sempre sulla Siria, anzi durante il regno di Giustiniano un’offensiva persiana giunse addirittura a conquistare Antiochia, la cui popolazione venne deportata in Persia.
Dominio
dell’impero
romano d’Oriente
OCEANO
ATLANTICO
Franchi
Longobardi
Slavi
ari
Àv
Sirmio
Visigoti
ILLIRICO
TRACIA
MAR NERO
Costantinopoli
Cordova
ASIA MINORE
Antiochia
Cartagine
MAR MEDITERRANEO
Tripoli
Gerusalemme
Alessandria
EGITTO
Parte VII Il mondo romano-barbarico
lo
170
Ni
L’impero romano d’Oriente nel 527
Le conquiste di Giustiniano
Sfide e bilanci alla morte di Giustiniano
I Balcani, invece, erano minacciati da nuove popolazioni barbariche, gli Àvari – nomadi della steppa, simili agli Unni – e gli Slavi, che premevano sulle frontiere e che le truppe imperiali faticavano a contenere, tanto che giunsero a minacciare la stessa Costantinopoli. Dall’epoca di Giustiniano il khanato àvaro dominò la regione del Mar Nero e il bacino del Danubio, e costituì uno dei più odiati nemici tanto per gli imperatori di Costantinopoli, quanto per le popolazioni germaniche dell’Occidente. Ma ancor più importante per le
sue conseguenze storiche è la grande migrazione slava verso l’Europa del Sud-est, che è
durata per secoli e ha cambiato radicalmente la composizione etnica delle popolazioni balcaniche, oggi formate quasi interamente proprio da Slavi. Sottomettere le nuove popolazioni, selvagge e recalcitranti, all’autorità imperiale, assimilarle alla civiltà greco-romana
e convertirle al cristianesimo sarà d’ora in poi una delle grandi sfide affrontate dall’impero romano d’Oriente.
Nonostante le grandi conquiste in Occidente e i formidabili lavori edilizi, come la costruzione della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, il regno di Giustiniano si chiuse in
un clima di depressione e con un bilancio molto dubbio. Lo storico suo contemporaneo,
Procopio, che era un feroce avversario di Giustiniano, scrisse che i morti provocati dalle
sue guerre erano più numerosi dei granelli di sabbia nel deserto. Ad aggravare la situazione si aggiunsero le stragi provocate dalla peste, che in Europa compare per la prima volta
proprio all’epoca di Giustiniano. Gli antichi romani chiamavano “peste” qualsiasi malattia
epidemica mortale, anche se si trattava d’influenza o di vaiolo; ma intorno alla metà del VI
secolo appare la peste vera e
propria, causata dal bacillo
Yersinia pestis. Almeno due
terribili epidemie di peste attraversarono l’impero nell’ultima fase del regno di Giustiniano, spopolandolo, rovinando l’economia e riducendo il
gettito fiscale (cioè i proventi
derivanti dalle imposte); l’imperatore reagì aumentando le
tasse, cosa che non lo rese certo più popolare.
Come se non bastasse, Giustiniano si ritenne obbligato a
proseguire la politica religiosa
di suo zio Giustino, imponendo a tutti i sudditi la religione
cattolica, e perseguitò con ferocia le innumerevoli comunità e chiese cristiane di confessione non cattolica. Per distruggere gli ultimi avanzi del
paganesimo antico, ancora sopravvissuti tra Grecia e Asia
Minore, nel 529 Giustiniano
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
khanato
Stato governato da un khan,
titolo che designa i capi delle
popolazioni turco-mongole
originarie dell’Asia centrale.
Basilica di Santa Sofia
VI sec.
Interno, Istanbul
Eretta durante il VI secolo,
la basilica di Santa Sofia è
il monumento più
rappresentativo di Istanbul.
In epoca alto medievale fu
sede del patriarca ortodosso
di Costantinopoli, nonché il
luogo deputato
all’incoronazione dei
sovrani bizantini; nel XV
secolo, con la dominazione
turco-ottomana, divenne una
moschea. Dal 1935 è sede
di un museo.
171
ordinò la chiusura della scuola filosofica di Atene, un gesto che soprattutto sul piano simbolico sancisce la fine della civiltà antica. La sua volontà di tenere sotto controllo la vita
religiosa e di presentarsi come l’unico garante dell’ortodossia guastò anche i rapporti di
Giustiniano con la Chiesa romana; l’imperatore infatti fece condannare in un concilio gli
scritti di tre teologi orientali che a giudizio dei vescovi italici erano invece ortodossi. Ne
nacque una spaccatura nota come lo Scisma dei Tre Capitoli; il papa Vigilio venne convocato a Costantinopoli per giustificarsi e trattenuto lì per diversi anni, finché non si sottomise all’autorità imperiale. Tenendo conto anche del malessere provocato dall’intransigente politica religiosa di Giustiniano, possiamo concludere che alla sua morte l’impero
romano era sì enormemente accresciuto dal punto di vista territoriale, ma non era né prospero né pacificato.
1. Che cos’era il Corpus Iuris Civilis? 2. Che conseguenze ebbe la Guerra greco-gotica per l’Italia? 3. Che
politica religiosa seguì Giustiniano?
3. L’invasione longobarda dell’Italia
e il papato di Gregorio Magno
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Il regno longobardo
Un cavaliere longobardo
VII sec.
Museo Storico, Berna,
Svizzera
I Longobardi attribuivano
grande importanza al
cavallo e ne facevano
il simbolo del prestigio
e della posizione sociale
dell’individuo.
172
Il ristabilito dominio romano sulla penisola durò pochissimo. Già nel 568 un nuovo popolo barbaro di lingua germanica, quello dei Longobardi, guidato dal re Alboino, scendeva in Italia dal Nord-est e occupava rapidamente tutta la Pianura Padana. I Longobardi erano stabiliti da tempo in un’altra ex provincia dell’impero, la Pannonia, cioè l’attuale Ungheria, dove erano venuti a contatto col mondo romano e in parte si erano convertiti al cristianesimo ariano; ma nel complesso erano forse il più arretrato e primitivo fra i diversi protagonisti delle grandi migrazioni. È un paradosso che proprio in Italia, che era stata la
culla e il centro della romanità, si sia stabilito un popolo così poco evoluto; ma la
guerra greco-gotica aveva devastato la penisola a tal punto che in molte zone della civiltà antica rimanevano soltanto avanzi.
È possibile che la venuta dei Longobardi in Italia non sia stata una vera
e propria invasione, ma sia stata preceduta da negoziati con le autorità bizantine: gli archeologi infatti non ritrovano nessuna traccia rivelatrice di
distruzioni o incendi nelle città italiche al momento della loro discesa, e secondo alcuni studiosi questa è la prova che la
conquista non fu violenta. In ogni caso è certo che diversi
vescovi cattolici, compreso l’arcivescovo di Milano, preferirono fuggire prima dell’arrivo dei Longobardi, e forse
fecero bene; perché il re Alboino venne assassinato nel
572, in una congiura in cui era coinvolta anche la moglie
Rosmunda, e alla sua morte seguì un periodo di guerre civili fra i capi dei diversi raggruppamenti longobardi, i duchi, accompagnato da massacri e confische. Lo stanziamento longobardo diede quindi il colpo di grazia a quel
Parte VII Il mondo romano-barbarico
Ad
ige
che restava dell’aristocrazia romana nell’Italia setten- L’Italia divisa tra Longobardi e Romani d’Oriente
trionale e alla già dissestata economia della regione.
BRENNERO
RE
Solo nel 584 si ricostituì un regno sostanzialmente
Drava GNO
DE
GRAN
GL
IÀ
unitario, con l’elezione a re di Autari, che seppe im- SAN BERNARDO
VA
RI
porre l’autorità regia ai duchi recalcitranti. Si chiude
Pavia
così definitivamente l’epoca delle invasioni barbariPo
S
che e nasce l’ultimo dei regni romano-barbarici. I re
la
v
i
longobardi stabilirono la propria residenza, a seconda
Arno
dei momenti, a Pavia, Monza o Milano; i duchi divenM
nero capi di entità territoriali subordinate al re, e doAR
TUSCIA
AD
Spoleto
vettero cedergli gran parte delle terre confiscate al moRI
AT
CORSICA
IC
mento dell’invasione. Dalla Pianura Padana i LongoO
Roma
bardi avanzarono poi verso l’Italia centrale e meridioM
Benevento
nale, stabilendo dei duchi in Toscana, a Spoleto e a BeA
R
nevento. Questi ultimi due ducati furono spesso abbaT
I
stanza autonomi rispetto al regno, ed erano molto più
SARDEGNA
R
R
E
ampi di quel che si potrebbe pensare dal loro nome: il
MAR
N
IONIO
O
CALABRIA
ducato di Spoleto si estendeva fra Umbria, Marche,
Abruzzo e Lazio; il ducato di Benevento comprendeva l’intera Italia meridionale longobarda, e quindi
Territori longobardi
gran parte della Campania con l’importante città di SaSICILIA
Impero romano d’Oriente
lerno, la Basilicata, il Nord della Calabria, e la Puglia
Regno dei Franchi
fino a Brindisi.
Nonostante il rafforzamento del re, che era ora senza discussione il più grande proprietario terriero del
regno e poteva dotare largamente di terre i suoi fedeli, la feroce concorrenza fra i duchi per
impadronirsi della corona regia rimase sempre un motivo di debolezza del regno longobardo. Un altro perdurante problema fu il rapporto conflittuale con i territori rimasti sotto il controllo di Costantinopoli. All’inizio erano territori molto vasti, e comprendevano
in pratica tutte le zone d’Italia che potevano essere rifornite e difese dal mare: la Liguria;
il cosiddetto Esarcato, cioè parte dell’attuale Emilia e Romagna, con capitale a Ravenna;
la Pentapoli, cioè la costa romagnola e marchigiana con parte dell’entroterra di Marche e
Umbria; il ducato di Roma, comprendente gran parte dell’attuale Lazio; il ducato di Napoli, che controllava gran parte della costiera campana; il Sud della Puglia e della Calabria, e
le isole. Col tempo, però, i re longobardi si impadronirono di gran parte di questi territori:
in Puglia, per esempio, solo l’estremo Sud, il Salento, rimase sotto il controllo di Costantinopoli; fra tutte le regioni italiane solo Sicilia, Sardegna e Corsica rimasero completamente al di fuori del regno longobardo e ancora sotto il governo degli imperatori romani
d’Oriente.
MONCE
NISIO
va
Sa
Tevere
Il pontificato di Gregorio Magno
Ma soprattutto rimase al di fuori della dominazione dei Longobardi Roma, che continuava a far parte dell’impero romano d’Oriente; anche se in realtà a comandare sul posto era soprattutto il papa, grazie alle vastissime risorse economiche e al prestigio morale della Chiesa romana. Nonostante i re longobardi abbiano cominciato presto a portare il titolo di rex Italiae, in realtà l’Italia era per la prima volta da molti secoli governata da poteri diversi e ostili fra loro. L’unità politica della penisola e il legame organico fra Roma e il resto dell’Italia
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
173
Rilegatura dei Vangeli di Teodolinda
VII sec.
Tesoro del Duomo, Monza
Chioccia con i pulcini
VII sec.
Tesoro del Duomo, Monza
Un’opera di mediazione fra il regno longobardo e la Chiesa di Roma fu
svolta dalla regina Teodolinda che intrattenne rapporti con il papa
Gregorio Magno. Questa coperta di evangeliario, unitamente al gruppo
in argento e oro che rappresenta una chioccia con i
suoi sette pulcini, fa parte dei doni offerti alla
sovrana da Gregorio Magno in occasione del
battesimo di suo figlio Adaloaldo.
erano spezzati, e come sappiamo c’è voluto moltissimo tempo, fino all’Ottocento con il Risorgimento, per ricostituirli.
Sotto il pontificato di un grande ed energico papa, Gregorio Magno (590-604), che difese con successo l’Urbe
contro i tentativi di conquista dei Longobardi, Roma e i
territori circostanti cominciarono a funzionare come una
specie di piccolo Stato autonomo. In ogni città del mondo
cristiano, i possedimenti della Chiesa erano considerati patrimonio del santo protettore locale; il vescovo non era il
padrone, ma aveva solo il compito di amministrarli a nome del santo patrono. A Roma il patrono era san Pietro e
perciò i possedimenti amministrati dal papa vennero chiamati Patrimonio di san Pietro; è il primo nucleo di quello che diventerà lo Stato della Chiesa, o Stato pontificio.
Più tardi, nell’VIII o nel IX secolo, qualcuno a Roma fabbricò la cosiddetta Donazione di Costantino, un documento con cui l’imperatore Costantino regalava al papa la città
di Roma, l’Italia e addirittura tutto l’impero. Il falso venne prodotto proprio per legittimare il potere territoriale del
papa, ed ebbe grandissimo successo: per molti secoli la
Donazione fu creduta autentica, e solo nel Quattrocento, in
pieno Rinascimento, il filologo Lorenzo Valla dimostrò
che era un falso.
Sotto il pontificato di Gregorio Magno si ebbe l’avvicinamento dei popoli barbari alla fede cattolica. I Longobardi iniziarono ad abbandonare l’arianesimo grazie all’influenza della regina Teodolinda, appartenente alla popolazione cattolica dei Bavari, e moglie successivamente
dei re Autari e Agilulfo (che regnarono uno dopo l’altro dal
589 al 616); il passaggio al cattolicesimo dell’intera popolazione longobarda fu però lento e richiese circa un secolo. I Visigoti di Spagna ebbero per la prima volta un re cattolico, Recaredo (586-601), anche se una parte del popolo
goto rimase ancora a lungo fedele all’arianesimo. Gregorio Magno spedì infine un missionario, Agostino, a convertire gli Angli e i Sassoni, che si erano impadroniti della Britannia ed erano ancora pagani. La missione ebbe successo e la conversione dell’isola al cristianesimo cattolico
procedette rapidamente; Agostino divenne il primo arcivescovo di Canterbury, la diocesi che da allora è sempre rimasta a capo della Chiesa d’Inghilterra.
1. Quali erano i fattori di debolezza del regno longobardo? 2.
Per quale motivo i territori della Chiesa in Italia furono
chiamati “Patrimonio di san Pietro”?
174
Parte VII Il mondo romano-barbarico
4. L’Occidente tra VII e VIII secolo
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
La cesura tra Oriente e Occidente e la caduta dei Visigoti in Spagna
Con la morte di Gregorio Magno nel 604 si apre un periodo, il VII secolo, di cui sappiamo poco. È forse il periodo in cui l’economia e la cultura dei regni romano-barbarici
toccarono il punto più basso, e in cui la produzione di testi scritti fu minima. Il fatto più importante è che nel corso del VII secolo la storia dell’Occidente si separò sempre più nettamente da quella dell’Oriente. È a partire da quest’epoca che gli storici preferiscono non parlare più di impero romano d’Oriente, ma di impero bizantino, proprio per sottolineare che
la storia di quei territori – i Balcani, la Grecia, l’Anatolia, il Vicino Oriente, il Nordafrica
– è ormai separata da quella dell’Europa occidentale (affronteremo di nuovo l’argomento
al cap.19.1). Le antiche province dell’impero romano d’Occidente corrispondevano ora in
gran parte a tre regni indipendenti, i cui re avevano smesso di
considerarsi subordinati all’imperatore di Costantinopoli: il
regno franco in Gallia (ma ormai possiamo cominciare a
chiamarla Francia), il regno goto in Spagna, il regno longobardo in Italia.
Fra i tre regni non mancavano le differenze. Il regno franco e quello gotico erano molto vasti; quello longobardo era
più piccolo e debole, perché non era riuscito a conquistare
tutta l’Italia, e doveva fare i conti con le guarnigioni bizantine e con il potere della Chiesa di Roma. Nel regno franco la
popolazione era tutta cattolica, in quello longobardo e in
quello gotico l’elemento barbarico era ancora diviso fra arianesimo e cattolicesimo. Il regno franco si divideva spesso in
regni minori per ragioni di spartizione ereditaria, quello lon-
San Pedro de la Nave,
esterno e interno
VII sec.
Zamora, Spagna
La Spagna e il Portogallo
conservano un numero
cospicuo di edifici risalenti
al regno visigoto di Toledo.
La piccola chiesa di San
Pedro de la Nave ne
costituisce un affascinante
esempio: ricostruita nel
1930 conserva l’impianto
originario a croce greca e la
struttura volumetrica
compatta tipica
dell’architettura visigota. La
densità degli esterni si sposa
con l’armonica varietà degli
spazi interni, frazionati da
numerosi pilastri e decorati
con sobrietà.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
175
gobardo faticava a controllare i ducati più periferici come Spoleto, Benevento, il Friuli,
mentre il regno gotico era solido e unito. In tutt’e tre i regni, comunque, i re erano obbediti senza discutere sia dalla popolazione romana sia da quella barbarica, e anzi, per il processo dell’etnogenesi [cfr. cap. 16.6] in ogni regno la popolazione si stava fondendo, dando vita a un popolo unico e nuovo.
Fra i tre, il regno goto sembrava il più forte, destinato a un grande futuro. La Spagna era
prospera e i suoi re potenti. Toledo, capitale del regno, era una ricca città; la Chiesa spagnola era forse la più organizzata e colta dell’Occidente. Non per nulla il più grande intellettuale di quest’epoca, Isidoro di Siviglia (morto nel 636), che ebbe un ruolo molto im-
La “questione longobarda”
In molti paesi europei di oggi, i barbari che si sono stanziati sul loro territorio all’epoca delle invasioni sono considerati un ingrediente fondamentale per la formazione della nazione moderna. È
così, per esempio, per i Goti in Spagna e ancor più per i Franchi,
che in Francia sono sempre stati popolarissimi: i re di Francia pretendevano di essere discendenti dei re franchi, e ancor oggi Clodoveo è visto come uno dei grandi fondatori della nazione francese. In Italia, invece, il giudizio sui Longobardi è stato più incerto.
Pesava il fatto che al loro arrivo essi sono descritti come particolarmente arretrati e violenti, e soprattutto il cattivo rapporto che
hanno sempre avuto con Roma. Fin dal Rinascimento gli intellettuali italiani si sono interrogati
sulla “questione longobarda”,
per capire se i Longobardi possano essere considerati una delle
componenti della moderna nazione italiana, o fossero invece
soltanto dei dominatori stranieri.
Per molto tempo la risposta fu
favorevole ai Longobardi: tanto
Machiavelli (1469-1527) quanto gli storici del Settecento, come Ludovico Antonio Muratori,
riconobbero che essi erano confluiti nella nazione italiana e che
il loro regno, una volta convertito al cattolicesimo, era a tutti gli
effetti un regno italiano. Ma
questa visione venne completamente ribaltata all’inizio dell’Ottocento. La posizione più
nota è quella di Alessandro
Manzoni, che sceglie proprio la
caduta del regno longobardo come tema del suo dramma Adelchi (1822). Per scrivere il dramma Manzoni compì letture storiche approfondite, e nello stesso
anno pubblicò anche un testo
storico sull’argomento, il Discorso sopra alcuni punti della
storia longobardica in Italia. La
visione di Manzoni risente pe-
176
Parte VII Il mondo romano-barbarico
santemente del clima italiano alla vigilia del Risorgimento: Milano, dove viveva l’autore, era sotto la dominazione straniera degli
Austriaci, che suscitava un odio tenace. Per Manzoni era ovvio
che anche i Longobardi erano stati dei dominatori stranieri, che
la popolazione italiana dell’epoca, ridotta in servitù dai barbari, li
aveva odiati e non si era mai fusa con loro: nell’Adelchi ci sono
pagine potenti sulla contrapposizione fra i biondi padroni stranieri e il «volgo disperso» dei Romani sottomessi. Per di più il
Manzoni è cattolico, e vede nel papato la vera forza spirituale che
può guidare l’Italia; i frequenti scontri politici fra i re longobardi
e i papi del loro tempo sono per lui la prova che l’epoca longobarda è stata un periodo negativo della storia d’Italia.
Grande scrittore, il Manzoni era
però accecato dai pregiudizi della sua epoca. La “questione longobarda” ha continuato a essere
vivacemente discussa fino a poco tempo fa dagli storici italiani,
ma oggi non c’è più dubbio che i
Longobardi e i Romani al tempo
della caduta del regno si erano
già fusi in un unico popolo, e che
nell’Italia di allora non c’era alcuna traccia dell’antagonismo
etnico descritto nell’Adelchi. Anche l’idea di un’ostilità irriducibile fra il regno longobardo e il
papato è stata ridimensionata. La
storia della “questione longobarda” serve comunque a ricordarci
che l’agenda politica del momento e le ideologie in cui viviamo immersi condizionano il nostro modo di guardare alla storia,
e anche noi rischiamo, senza saperlo, di esserne vittime.
Miniatura con Adelchi
XI sec.
Dal Codex Legum Langobardorum;
Biblioteca della badia, Cava dei
Tirreni, Salerno.
portante nel trasmettere al Medioevo la cultura classica, era un vescovo spagnolo. I vescovi di Spagna si riunivano regolarmente a Toledo per celebrare concili sotto la protezione
del re, da quando quest’ultimo era divenuto cattolico. Il re goto, per primo nell’Europa medievale, riprese una tradizione biblica, quella dell’unzione, per cui il re al momento di salire al trono veniva unto dai vescovi con l’olio santo: era lo stesso rituale usato per la consacrazione dei vescovi, e faceva del re una persona sacra.
Ma all’inizio dell’VIII secolo il regno dei Goti fu travolto da un’inaspettata catastrofe.
Gli Arabi, che nel corso del VII secolo avevano conquistato tutto il Vicino Oriente e il Nordafrica (lo vedremo più avanti: cfr. cap.18.4), nel 711 sbarcarono in Spagna attraverso lo
stretto di Gibilterra, sconfissero in battaglia il re Rodrigo e s’impadronirono dell’intera penisola iberica, tranne alcune zone del Nord rimaste sotto il governo di capi cristiani. La popolazione cristiana del regno, nata dalla fusione di Goti e Romani, si ritrovò sotto dominio
arabo-musulmano, e la ricca e colta Chiesa spagnola, per poter continuare a funzionare,
dovette sottomettersi ai nuovi dominatori.
I Franchi e Carlo Martello
Il crollo fulmineo del regno goto lasciava in piedi solo due importanti regni romano-barbarici (se si eccettuano i piccoli regni anglosassoni della Britannia, l’attuale Inghilterra): i Franchi e i Longobardi. I Franchi erano di gran lunga i più potenti e furono loro a mettere fine alle conquiste arabe: invasa la Spagna, infatti, gli Arabi erano giunti fino ai Pirenei, li avevano
passati e si erano allargati nella Francia di Sud-ovest. Quando un loro esercito si spinse fino al
centro della Francia, i Franchi lo affrontarono e lo sconfissero nella battaglia di Poitiers, del
732, e da allora gli Arabi non tentarono mai più di avanzare così a nord. Può darsi che non si
trattasse di una vera invasione, e che quelli giunti fino a Poitiers fossero solo dei razziatori; ma
la battaglia è stata comunque celebrata, fin da quell’epoca, come un evento decisivo, che salvò
l’Europa (il termine comincia a essere usato proprio allora) dall’invasione araba.
Fino a quel momento la potenza dei Franchi era stata frenata dalla loro divisione in diversi piccoli regni, governati dai discendenti di
Clodoveo, i Merovingi. Ma già prima della battaglia di Poitiers, con una serie di guerre civili,
l’intero paese era stato unificato in un unico regno. Il protagonista di questa unificazione non
fu un re, ma il primo ministro o maggiordomo
(come lo chiamavano loro) del re di Austrasia,
il più settentrionale dei regni franchi. Questo
grande capo politico e militare si chiamava
Carlo, e fu lui a sconfiggere gli Arabi a Poitiers; da allora fu soprannominato Martello,
‘il piccolo Marte’. Il suo potere era così solido
che alla morte del re Teodorico IV, nel 737, Carlo non permise che si incoronasse un successore, e continuò a governare personalmente il regno fino al 741, anno della sua morte, pur senza prendere il titolo di re. Riparleremo di lui
quando racconteremo la storia di Carlo Magno
[cfr. cap. 20], perché Carlo Martello era suo
nonno.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
Charles de Steuben, La
battaglia di Poitiers
1834-1837
Musée du Château de
Versailles, Francia
Il dipinto ottocentesco
raffigura, in modo
totalmente immaginario, lo
scontro tra i Franchi guidati
da Carlo Martello,
rappresentati come i
difensori dell’Europa bianca
e cristiana, contro gli Arabi
invasori. Il fatto che proprio
in quegli anni, a partire dal
1830, i francesi fossero
impegnati nella conquista
coloniale dell’Algeria rende
stridenti le connotazioni
ideologiche del dipinto.
177
Longobardi e papato in Italia
Anche i re longobardi dopo l’inizio dell’VIII secolo stavano diventando più potenti, e
sembrava che un giorno sarebbero riusciti a unificare l’Italia. Già prima il re Rotari (636652) aveva conquistato la Liguria; i re Liutprando (712-744) e Astolfo (749-756) conquistarono anche Ravenna e l’Esarcato. La conquista longobarda fu favorita dalle popolazioni locali, che non sopportavano la pesante fiscalità imperiale, e che di recente erano state
protagoniste di violente ribellioni contro il dominio bizantino. In passato gli storici hanno
sempre ritenuto che il papa si sia invece opposto con estrema ostinazione all’avanzata longobarda, temendo che giungesse fino a Roma. Oggi alcuni studiosi sottolineano che i re,
ormai, erano cattolici e godevano del pieno sostegno dei vescovi del loro regno, per cui almeno qualche papa prese in considerazione la possibilità di un’alleanza col regno longobardo. Il vescovo di Roma, infatti, non vedeva più molti motivi per rimanere fedele al lontano imperatore bizantino, da cui lo dividevano profondi contrasti teologici (ne parleremo
più avanti: cfr. cap. 19.2), e preferiva presentarsi come il capo naturale della popolazione romana d’Italia e come il maggiore interlocutore politico del re longobardo.
Nell’Occidente cristiano, insomma, alla metà dell’VIII secolo esistevano due grandi potenze politiche, e una potenza fondata sull’autorità spirituale. Le potenze politiche erano il
regno franco e il regno longobardo, che stava consolidando il suo dominio sull’Italia. La
potenza spirituale era il papato, che dobbiamo immaginare molto diverso da quello di oggi. All’epoca infatti il papa non era ancora il capo indiscusso della Chiesa cattolica, non interveniva nella vita interna delle diocesi, non nominava i vescovi – che erano eletti sul posto, dal clero e dal re – e non poteva dar loro degli ordini. Ma godeva, in Occidente, di un
grande carisma, in quanto successore di san Pietro e vescovo della città più grande e prestigiosa della Cristianità latina, Roma. Come capo, di fatto, di un piccolo Stato incentrato
su Roma, il papa in teoria dipendeva ancora dall’impero d’Oriente; ma grazie alla sua autorità spirituale si stava abituando a giocare un ruolo politico indipendente, giostrando fra
le due potenze vicine dei Franchi e dei Longobardi. L’antico legame fra la Chiesa e i Franchi, stabilito già al tempo della conversione di Clodoveo, e l’altrettanto antica ostilità dei
papi per i Longobardi ariani e invasori suggerivano che un’alleanza fra Roma e il regno
franco fosse la più naturale, ma in politica le cose cambiano spesso, e non era affatto sicuro che sarebbe andata a finire così.
1. Come era divisa politicamente l’Europa occidentale nel VII secolo? 2. Per quale motivo il regno dei
Franchi si rafforzò nell’VIII secolo? 3. Quale ruolo era svolto dal papato nell’VIII secolo?
5. Da funzionari dell’imperatore
a re indipendenti
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
La legittimazione dei re barbari
I capi barbari che si insediavano con la loro gente sul suolo dell’impero erano chiamati
dai Romani reges, ‘re’. Erano re ciascuno del suo popolo, e quindi enormemente inferiori
all’imperatore romano, che pretendeva di essere signore del mondo e padre di tutti i popoli. Molti di quei re erano soltanto dei capi guerrieri che si erano imposti con la forza, allar-
178
Parte VII Il mondo romano-barbarico
gando con le donazioni la loro cerchia di seguaci, e sbarazzandosi
con la violenza dei rivali. Ma al tempo stesso molti sovrani pretendevano di discendere dagli antichi dèi del loro popolo, e di avere nelle vene un sangue speciale che li predestinava al potere. Il fatto è che per le popolazioni germaniche il re era una figura sacra,
dotata di una potenza quasi divina: i re dei Franchi, per esempio,
portavano i capelli lunghi e si credeva che quella capigliatura eccezionale fosse garanzia di forza e di prosperità per loro e per tutto il popolo. I re avevano diritto di vita e di morte sui sudditi e dovevano rispondere del loro operato soltanto a Dio. I re goti, franchi, longobardi presero l’abitudine di imparentarsi fra loro, fino a
costituire una cerchia di famiglie nelle cui vene scorreva davvero
lo stesso sangue e che si consideravano le uniche ad avere diritto
al potere.
Ma nei regni, all’inizio, la stragrande maggioranza della popolazione era formata da Romani. Come facevano i re a farsi obbedire da loro? La forza non bastava, altrimenti nessun regno sarebbe
durato. Come sappiamo, il potere dei re era legittimato innanzitutto dai foedera che essi avevano stipulato con l’imperatore, cioè gli
accordi che riconoscevano ai loro popoli il diritto di stanziarsi nelle province [cfr. cap. 16.3]. Per tutto il primo periodo dei regni romano-barbarici, fin verso il 630, gli imperatori continuarono a considerare i re come una specie di funzionari che governavano l’Occidente a loro nome. I re, ovviamente, erano molto autonomi, e capitava spesso che fra uno di loro e l’imperatore scoppiasse addirittura una guerra, ma in tempo di pace conveniva a tutti ricordare che
il loro potere derivava da una concessione imperiale. Quando Clodoveo, re dei Franchi, ottenne dall’imperatore Anastasio la nomina a console, la festeggiò con solenni cerimonie, spargendo monete d’oro al popolo secondo l’usanza romana, perché sentiva che la
sua autorità sugli abitanti romani della Gallia ne usciva rafforzata.
Trionfo di re Agilulfo
VII sec.
Museo Nazionale del Bargello, Firenze
Su questa lamina, la cui funzione è discussa, il sovrano è
rappresentato al centro, seduto in trono, assistito da due
guerrieri e affiancato da due vittorie alate che recano una
tabella con la scritta «Victoria».
Croce votiva di Agilulfo
VI-VII sec.
Museo del Duomo, Monza
Perché la popolazione e la Chiesa accettarono i re barbari?
Ma se la popolazione romana si abituò a obbedire ai re barbari,
è anche perché dell’impero romano, ormai, non importava più molto a nessuno. I grandi latifondisti – che continuavano a portare
l’antico nome di senatori –, i vescovi cristiani e la massa del popolo volevano innanzitutto pace e sicurezza. L’arrivo dei barbari
aveva provocato proprio il contrario, ma per mettere fine al disordine e all’insicurezza la cosa migliore era sottomettersi al potere di un re barbaro forte e vittorioso. Il potere imperiale era lontano e molti ragionavano in termini localistici, preferivano cioè
un’autonomia regionale difesa dalle armi dei barbari. Il senato romano aveva appoggiato Odoacre, che aveva deposto l’imperatore
Romolo Augustolo; e quando Odoacre fu sconfitto e sostituito da
Teodorico, i senatori e la Chiesa italica si schierarono dalla parte
del re goto, e non furono contenti quando cinquant’anni dopo Giu-
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
179
stiniano scatenò i suoi eserciti per riconquistare l’Italia. Il successivo ingresso dei Longobardi in Italia suscitò un certo consenso fra le popolazioni locali, che dopo la riconquista
avevano avuto il tempo di sviluppare una decisa antipatia per il governo di Costantinopoli, percepito come greco e quindi straniero. Anche in Gallia senatori e vescovi fecero le loro scelte, decisero che i re franchi erano più affidabili dei re goti, e aiutarono Clodoveo a
diventare il padrone di tutta la Gallia.
I re quindi non regnavano soltanto sul loro popolo, ma su tutti gli abitanti del territorio
occupato: più di un re longobardo o goto prese il titolo di re d’Italia o di Spagna, proprio
per sottolineare che il suo potere si estendeva su un territorio e non solo su una popolazione. Quando i re si convertirono al cattolicesimo abbandonando la fede ariana, la Chiesa si
abituò a considerare il re, e non più il lontano imperatore, come suo capo e protettore; e i
re impararono che il loro compito non era solo di fare la guerra alla testa dei loro uomini,
ma anche di garantire la religione e la morale ascoltando i consigli dei vescovi. Così come facevano gli imperatori romani da Costantino in poi, anche per i re barbari divenne un
compito normale convocare concili, cioè appunto assemblee di vescovi, per discutere problemi religiosi e teologici. In questo modo il titolo di re perse il suo significato originario
e ne acquistò uno nuovo: il re era il sovrano di uno Stato, più piccolo, certo, rispetto all’impero romano, ma che funzionava più o meno allo stesso modo (si parla di imitatio imperii, ‘imitazione dell’impero’). Soprattutto, ogni regno era indipendente rispetto al governo di Costantinopoli. A partire dal 630 circa, i re smisero di considerarsi dei funzionari
dell’imperatore; quelli di Spagna e di Francia affermarono addirittura che i loro popoli, per
volontà di Dio, avevano sostituito i Romani nel dominio del mondo.
1. Che significato aveva per i Romani il termine “re” riferito ai capi barbari? 2. Che significato assunse lo
stesso termine a partire dal VII secolo?
6. Fra civiltà romana
e cultura barbarica
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
La sopravvivenza dell’amministrazione romana
All’inizio, i regni romano-barbarici funzionavano raccogliendo l’eredità dell’impero romano. I re nominavano dei funzionari, che portavano gli stessi titoli in uso nell’amministrazione imperiale, come duca e conte (il primo, in latino dux, voleva dire ‘comandante’;
il secondo, in latino comes, voleva dire ‘compagno’ dell’imperatore). Questi funzionari erano spesso romani, ed erano incaricati di amministrare la giustizia e di riscuotere le imposte. Lo stanziamento dei barbari aveva provocato il ritiro delle massime autorità romane e
soprattutto delle guarnigioni militari, sostituite dai guerrieri barbari; ma non provocò lo
smantellamento dell’amministrazione. Questa all’inizio continuò a funzionare come prima:
pezzi interi di governo provinciale passarono agli ordini dei re barbari, con il loro capufficio alla testa.
La sopravvivenza del sistema fiscale è la cosa più importante, perché da questo dipendeva in parte la capacità d’azione dei re. Nel regno goto d’Italia le imposte, che pesavano essenzialmente sulla proprietà fondiaria detenuta dai senatori romani, continuarono
180
Parte VII Il mondo romano-barbarico
a costituire il fondamento dello Stato, anche
se l’Italia, impoverita da carestie, pestilenze e
passaggi di eserciti, non era più ricca come
una volta. Anche i Visigoti di Spagna mantennero in piedi l’amministrazione romana, e i
loro re continuarono sempre a riscuotere l’imposta fondiaria. I Franchi, invece, fecero più
fatica a tenere in piedi il sistema fiscale: all’inizio anche in Gallia funzionari romani al servizio dei re franchi continuavano ad aggiornare i registri delle proprietà terriere e a riscuotere l’imposta, ma la grande e potente aristocrazia franca, che si era accaparrata gran
parte della terra, non pagava volentieri ed entro il 630 sembra che l’imposta in denaro non
sia più stata riscossa. Il re franco si abituò a
trarre le sue risorse soprattutto dalle proprietà
terriere appartenenti alla corona, che per sua
fortuna erano immense. I Longobardi, infine,
che occuparono un’Italia messa in ginocchio
dalla guerra greco-gotica, non riuscirono neppure all’inizio a tenere in piedi l’imposta, e
questo fu certamente un motivo di debolezza
del loro regno.
All’inizio, dunque, l’amministrazione romana sopravvisse, e con essa la civiltà antica,
anche se impoverita. Ma i regni romano-barbarici durarono a lungo, dal V all’VIII secolo,
e nel corso di queste centinaia d’anni si trasformarono profondamente. I legami col mondo romano, che continuava a prosperare in
Oriente, si allentarono fin quasi a scomparire.
Dalle ricche regioni dell’impero bizantino non venivano più mercanti, né ambascerie imperiali. In ogni regno, la differenza fra gli occupanti barbari e la popolazione romana
originaria si ridusse fino a scomparire, e fu l’identità dei nuovi arrivati a prevalere: ci si
sentiva Franchi, Goti, Longobardi perché si viveva nel regno franco di Gallia, nel regno goto di Spagna, nel regno longobardo d’Italia.
È interessante notare che la lingua non contava per definire l’identità etnica. In tutti questi paesi fu la lingua della maggioranza romana a prevalere, per cui dappertutto la lingua
parlata era un dialetto del latino; e lo si sapeva benissimo, tant’è che quella lingua parlata,
ormai così diversa dal latino classico, era definita “rustica romana lingua”. Ma il fatto di
parlare in lingua “romana” o romanza non impediva affatto di sentirsi Goti o Longobardi
o Franchi. Questi ultimi avevano addirittura due lingue, perché nelle regioni orientali del
regno – corrispondenti oggi a parte del Belgio, Olanda e Germania – i Franchi continuavano a parlare la loro lingua germanica, che proprio a quest’epoca comincia a essere definita
“tedesca” (teutisca), mentre quelli della Gallia parlavano in “romanzo”: ma gli uni e gli altri erano egualmente Franchi.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
Dittico di Oreste
VI sec.
Victoria and Albert
Museum, Londra
Nella prima fase dei regni
romano-barbarici il nuovo
governo straniero e il
vecchio potere romano
tesero a sovrapporsi e
convivere in un lento
processo di transizione. In
questo periodo i sistemi
monetari, amministrativi,
fiscali e giudiziari rimasero
pressoché immutati,
compresa l’istituzione
senatoriale, ancora attiva
fino al VI secolo. Questo
dittico raffigura Oreste,
console tra il 530 e il 533,
tra i due sovrani goti
Amalasunta, figlia di
Teodorico, e Atalarico, suo
figlio ed erede al trono.
181
Il funzionamento del potere
Al centro del regno stavano il re e il suo palatium, il palazzo, termine che non indicava un
edificio, ma il gruppo dei consiglieri e collaboratori del re. Alcuni regni ebbero una capitale,
una grande città in cui i re, nei limiti delle loro possibilità, costruivano chiese ed edifici pubblici: per i re goti di Spagna la capitale fu Toledo, per i re longobardi d’Italia fu soprattutto
Pavia. Altri regni, come quello franco, non ebbero una vera capitale: lì i re, quando non erano in guerra o a caccia, si spostavano continuamente fra le città e le loro immense proprietà
terriere. Un’altra caratteristica del regno franco è che dalla fine del VII secolo i re presero l’abitudine di affidare il comando delle truppe e la conduzione degli affari a un uomo di fiducia,
che rappresentava gli interessi della grande aristocrazia e ne garantiva la fedeltà al re. Questo ministro prese il nome di maior domus o ‘maggiordomo’ e col tempo, come abbiamo visto parlando di Carlo Martello, finì per diventare ancora più importante del re [cfr. par. 4].
La moneta dei re barbari
Lo stanziamento dei barbari sul territorio dell’impero romano
d’Occidente non provocò subito la fine del sistema monetario romano. Come nell’Europa di oggi quasi tutti gli Stati appartenenti
all’Unione usano la stessa moneta, l’euro, così nei regni romanobarbarici si continuò a usare la moneta romana, il solido d’oro, con
i suoi sottomultipli in oro e argento. Queste monete non arrivavano soltanto dall’impero d’Oriente, ma erano coniate anche nelle
zecche occidentali, sotto il controllo dei re. Per un certo tempo, i
re non osarono mettere sulle monete la propria faccia, o il proprio
nome, e continuarono a coniare monete romane, col volto e il nome dell’imperatore. È la prova più evidente che all’inizio un rex
non si considerava un sovrano indipendente, ma una specie di fiduciario dell’imperatore. Del resto battere moneta d’oro era considerata una prerogativa imperiale, e i re potevano farlo solo chiedendo il permesso. Il re dei Vandali, che aveva invaso l’Africa senza il consenso delle autorità romane, non osò mai coniare monete
d’oro, e si accontentò di battere moneta d’argento.
A partire dal 580 circa, le cose cambiano. I re coniano sempre
meno monete: in Occidente c’è poco oro, perché il metallo pre-
zioso viene estratto in Oriente e in Africa, e il commercio internazionale è scarso. Per lo stesso motivo, si preferiscono monete più piccole: i re longobardi non coniano quasi mai i pesanti
solidi, ma piuttosto i leggeri tremissi, ognuno dei quali vale un
terzo di solido. Anche la funzione della moneta cambia. Non
esiste più un sistema fiscale capace di rastrellare la moneta d’oro e poi rimetterla in circolazione, e non c’è neppure un esercito regolarmente pagato in moneta, come accadeva nell’impero
romano. I re barbari coniavano monete solo per ragioni di prestigio, e per fare regali ai loro fedeli; tant’è vero che solo raramente coniavano moneta in metalli meno pregiati. Per gli scambi quotidiani, per un po’ continuò a circolare la moneta romana
di rame, ma è probabile che col tempo si sia assistito a una crescente diffusione del baratto.
In compenso, i re si sentono sempre più sicuri del loro potere, e
anche se continuano a coniare monete con lo stesso nome, peso
e valore di quelle romane, cominciano a metterci il proprio nome. I Franchi, che sono i più sicuri di sé grazie alla conversione
al cattolicesimo e all’amicizia della Chiesa, lo fanno per primi,
fin dal tempo di Clodoveo (481-511); poi cominciano a farlo i re goti di Spagna,
e per ultimi i Longobardi. Bisognerà però aspettare la riforma monetaria di Carlo
Magno e l’introduzione
del denarius d’argento
perché l’Occidente abbia un proprio sistema
monetario, del tutto
diverso da quello dell’impero bizantino
(di questo parleremo
nel cap. 20.9).
Solidus aureo a nome
di Anastasio coniato sotto
Teodorico (recto, verso)
491-518
Civico Medagliere, Milano
182
Parte VII Il mondo romano-barbarico
Altare di Ilderico, duca di
Spoleto
VIII sec.
Abbazia di San Pietro in
Valle, Ferentillo
Una delle manifestazioni più
raffinate dell’arte alto
medievale è costituita dalla
scultura longobarda,
caratteristica per le
rappresentazioni zoomorfe e
il disegno geometrico. Tra le
sculture longobarde
sopravvissute fino ai nostri
giorni si annoverano
splendide lapidi, fonti
battesimali e pannelli
d’altare, come questo in
figura, corredato di
iscrizione dedicatoria di
Ilderico, duca di Spoleto.
Nel VII secolo, i regni si scoprirono anche molto più poveri rispetto
al passato. Il declino dell’imposta e dei commerci provocò la riduzione della circolazione monetaria: i re continuavano a battere moneta d’oro, ma in piccola quantità e solo per ragioni di
prestigio. Circolavano meno uomini e meno idee, e la cultura si provincializzava; del resto i barbari la apprezzavano
solo fino a un certo punto, ed erano i loro valori e le loro
abitudini a prevalere. Col tempo ci furono sempre meno libri, sempre meno scuole, e sempre meno personale preparato: la Chiesa lo assorbiva quasi tutto. I re
continuavano a governare nominando loro uomini di
fiducia al comando di città e province, ma non erano più amministratori professionali organizzati in
una precisa gerarchia secondo l’usanza romana;
erano capi militari talvolta analfabeti, che avevano
giurato fedeltà al re e che mantenevano l’ordine
con la forza nei territori loro affidati.
Alcuni di questi capi erano quasi indipendenti rispetto
al re, e si trasmettevano il potere di padre in figlio. Il titolo che usavano era quello romano di duca: nell’Italia longobarda i ducati di Spoleto e Benevento erano in pratica degli Stati indipendenti, così come il ducato d’Aquitania nel
regno franco. Quei capi che invece erano nominati dal re e
sostituiti a suo piacimento portavano il titolo romano di
conte in Francia e in Spagna, i titoli germanici di gastal-
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
Elmo di un nobile
franco
VI sec.
Da Planig, Germania;
Reiss-Museum,
Mannheim, Germania
183
Impugnatura di spatha
con pomo ad anello
VI-VII sec.
Dalla necropoli di Nocera
Umbra; Museo dell’Alto
Medioevo, Roma
Le armi in uso presso le
popolazioni barbariche
erano di qualità eccellente:
in particolare le asce, le
lance e le lunghe spade
avevano un alto potere
offensivo.
do o sculdascio nell’Italia longobarda. I nomi erano diversi, ma i compiti erano più o meno gli stessi: dovevano rappresentare il re e svolgere tutte le funzioni del potere pubblico. Poiché non avevano nessuna specializzazione, e spesso anche nessuna cultura, lo facevano in modo più elementare e brutale rispetto all’amministrazione romana dei tempi
antichi. Anziché riscuotere ordinatamente l’imposta in denaro sulla base dei registri fiscali, prelevavano derrate e bestiame quando ne avevano bisogno, per sé o per il re. Risolvevano i casi giudiziari in modo rapido, senza ascoltare avvocati, e producendo pochissima documentazione scritta. Si facevano, invece, aiutare dagli abitanti della zona,
convocati appositamente, e specialmente dai più anziani e autorevoli, che conoscevano a
memoria le antiche leggi.
Questo coinvolgimento degli uomini liberi nel funzionamento del potere è una delle
caratteristiche più importanti dei regni romano-barbarici. La giustizia non nasceva più dall’imposizione di un giudice rappresentante dello Stato, ma dal dialogo fra il rappresentante del re e la società locale. Allo stesso modo, la guerra non era più fatta da soldati pagati
dallo Stato e ben distinti dai civili: ogni uomo libero era anche un guerriero, tanto che i Longobardi per dire “popolo longobardo” dicevano exercitus Langobardorum, ‘l’esercito dei
Longobardi’. I funzionari del re erano anche comandanti militari, ma questo non significa che avessero il comando di reparti permanenti come le legioni romane: quando il re faceva la guerra, radunavano gli uomini della loro zona e li conducevano all’esercito. Intendiamoci: è probabile che gli uomini liberi nel pieno
senso della parola, quelli cioè che possedevano terra e bestiame, ed erano
quindi in grado di sostenere delle spese, comprarsi delle armi, intervenire
alle assemblee giudiziarie, pagare contribuzioni e multe, fossero solo una
minoranza della popolazione, e che i contadini che faticavano sotto padrone non fossero compresi in questa idea di libertà, tipica della società barbarica. Resta il fatto che rispetto al tardo impero romano l’apparato dello Stato
era molto più debole, e la partecipazione della società alla gestione del potere era più
ampia.
Questa partecipazione si traduceva in consuetudini importantissime per la vita dei
regni, e che non avevano nulla a che fare con la tradizione romana, ma derivavano dalle consuetudini tribali dei barbari. La più importante era la grande assemblea annuale delle Calende di Marzo – cioè il primo marzo secondo il calendario romano –,
all’inizio della primavera. In quel giorno tutto il popolo si radunava attorno al re,
che annunciava le nuove leggi discusse con i suoi consiglieri durante l’inverno, e
dava gli ordini per le campagne militari che intendeva condurre nell’estate. Era
una consuetudine tribale testimoniata presso molti popoli, i Franchi, gli Alamanni, i Longobardi, e che rimase viva nei regni, anche se ovviamente non
era davvero tutto il popolo a riunirsi, ma solo i capi, compresi i vescovi. I Franchi, che fra tutti i popoli erano
forse il più bellicoso, chiamavano quel giorno il
Campo di Marzo, o anche il Campo di Marte, dal nome del dio romano della guerra.
1. In che modo differiva il sistema fiscale del regno goto da quello franco? 2.
Chi governava in nome del re? 3. Com’era amministrata la giustizia?
184
Parte VII Il mondo romano-barbarico
7. Leggi etniche
e diritto romano
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Il matrimonio e la condizione femminile
Ogni popolazione barbarica aveva un proprio
insieme di leggi, che venivano tramandate oralmente, e che sotto certi aspetti erano molto diverse da quelle romane. Le differenze più grandi riguardavano il matrimonio, la condizione della
donna, l’accertamento dei reati, e la punizione dei
delitti di sangue, come l’omicidio.
Cominciamo dal matrimonio. All’epoca il matrimonio aveva poco a che fare con l’amore: era un
contratto tra due famiglie, con delle condizioni
economiche che dovevano essere scrupolosamente
regolate. Le leggi barbare regolamentavano in modo diverso dal diritto romano i pagamenti che il padre della sposa doveva fare al genero – cioè quella
che nell’uso romano si chiamava la dote – e i donativi che il marito doveva fare alla moglie. I Longobardi davano particolare importanza a quest’ultima donazione e la chiamavano morgengab, ovvero il dono del mattino: il marito, infatti, effettuava
la donazione solo all’indomani della prima notte di
nozze, dopo essersi accertato della verginità della
moglie (è un aspetto a cui molte popolazioni primitive attribuivano enorme importanza, perché solo così un uomo poteva essere certo che il primo figlio nato dal matrimonio fosse davvero suo).
Per quanto riguarda la condizione della donna,
le leggi barbare le lasciavano meno libertà rispetto alle usanze romane: in pratica, la consideravano
un’eterna minorenne. Secondo il diritto romano, la
donna era soggetta al marito, ma quando rimaneva
vedova riprendeva possesso della dote, e da quel
momento era libera di fare quello che voleva. Secondo le leggi dei barbari, invece, la donna doveva sempre trovarsi sotto la tutela dei parenti maschi, e se rimaneva vedova aveva bisogno del loro
consenso per risposarsi; se non aveva parenti, era
il re che doveva farle da tutore. Nel linguaggio dei
Longobardi questa tutela era chiamata mundio; i
Franchi usavano una parola simile, mundeburdio,
per indicare la dipendenza dei servitori dal padrone, e questo parallelismo la dice lunga sulla posizione della donna nella società barbarica.
Fibule longobarde
VI sec.
Da Cividale del Friuli, tomba 32; Museo Archeologico Nazionale, Cividale
del Friuli, Udine
I dati a nostra disposizione per ricostruire la figura di una donna di origine
barbarica sono veramente scarsi; tuttavia, grazie ai ritrovamenti dei corredi funerari
all’interno delle sepolture è stato possibile risalire ad alcuni caratteri di costume
piuttosto frequenti. Le donne longobarde, per esempio, vestivano con bluse e gonne
portate avvolte attorno ai fianchi chiuse in entrambi i casi da fibule, come quelle in
figura, oppure semplici tuniche fermate in vita da cinture e mantelli trattenuti sul
petto da grossi fermagli a disco. Nastri di cuoio legavano alla cintura piccole borse
contenenti articoli per la cura del corpo: pettini in osso, specchietti e piccoli oggetti
di uso quotidiano. Erano soprattutto i preziosi ornamenti, in oro e argento per le
donne di alto rango, in bronzo per le popolane, a impreziosire le vesti, di per sé
piuttosto sobrie.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
185
I reati e il giudizio di Dio
Il giudizio di re Salomone
870 ca.
Bibbia di Carlo il Calvo, f.
188v.; Basilica di San Paolo
fuori le Mura, Roma
Mantenere la giustizia era
uno dei compiti più
importanti del re. Salomone,
il re giusto per eccellenza
dell’Antico Testamento, è
spesso proposto a modello
per i re medievali, ed è
raffigurato come se fosse
uno di loro: in questa
miniatura dalla Bibbia di
Carlo il Calvo, il re e tutti
gli altri personaggi sono
vestiti come fossero uomini
e donne del IX secolo.
186
Per quanto riguarda l’accertamento dei reati, i barbari lasciavano un certo spazio al giuramento o a interventi soprannaturali. In mancanza di prove e di testimoni, chi era sospettato di un crimine era assolto se giurava d’essere innocente e trovava un certo numero di
uomini liberi disposti a giurare con lui: secondo la Lex Ribuaria, una delle leggi dei Franchi, l’uomo accusato di aver rubato un gregge di pecore poteva discolparsi facendo giurare settantadue persone. Poiché giurare significava chiamare Dio a testimone e mettere in
gioco la propria anima, non è poi così assurdo che l’intervento di uomini disposti a giurare sull’innocenza dell’accusato fosse considerato probante, in assenza di altri elementi di
prova, e comunque preferibile a una sentenza arbitraria.
Con la conversione al cristianesimo si cominciarono a praticare varie forme di giudizio
di Dio, chiamato anche ordalia. Vi si ricorreva solo di fronte ad accuse gravissime e testimonianze contraddittorie. La forma più frequente prevedeva che l’accusato immergesse la
mano in una pentola d’acqua bollente, o camminasse scalzo su ferri arroventati: era discolpato se la scottatura guariva entro un tempo stabilito. Si poteva dar da mangiare all’accusato pane e formaggio benedetti da un prete, coll’idea che se era colpevole, gli sarebbero andati di traverso; oppure immergerlo nel fiume, e in questo caso se galleggiava
era considerato innocente. Il giudizio di Dio poteva esercitarsi anche in forma di confronto fra accusato e accusatore. Nel cosiddetto giudizio della croce, i due dovevano stare in
piedi davanti a una croce, con
le braccia levate, e si pensava
che chi resisteva più a lungo
fosse stato aiutato da Dio, e dicesse quindi la verità. In una
forma più rara e più cruenta il
giudizio di Dio era un vero e
proprio duello, combattuto con
scudi e bastoni. Anche se veniva giustificato col riferimento
all’intervento divino, in realtà
questo modo di verificare le accuse aveva origine in una visione magica del mondo che
sembra essere una tendenza comune dell’umanità primitiva, e
infatti lo si ritrova anche in altre società: già il Codice di
Hammurabi prevede l’ordalia
del fiume [cfr. cap. 1.8]. Nel
mondo cristiano suscitò sempre dei dubbi: il re longobardo
Liutprando ne limitò l’uso, e
lasciò capire che se fosse dipeso da lui l’avrebbe abolito del
tutto, ma non poteva farlo, perché così voleva la consuetudine
del suo popolo.
Parte VII Il mondo romano-barbarico
Molto diversa rispetto al diritto romano era poi la punizione dei delitti di sangue. I barbari consideravano il furto un reato molto grave, e lo punivano severamente; ma se uomini liberi, litigando, si ferivano o si uccidevano, non pensavano che fosse stato commesso
un reato. La loro idea era che si trattava di una faccenda privata, e che la famiglia di chi era
stato ferito o ucciso aveva il diritto di vendicarsi. Tutti sapevano però che in questo modo
la sequenza degli omicidi e delle vendette rischiava di prolungarsi all’infinito, creando
un’inimicizia duratura fra le famiglie coinvolte: era la faida, una parola longobarda che non
a caso si è conservata in italiano. Per ridurre questo rischio, chi aveva subito un’offesa poteva scegliere di accettare un risarcimento anziché vendicarsi, purché, s’intende, i colpevoli fossero disposti a pagare. Chi uccideva, anche per sbaglio, un cavallo, una vacca o uno
schiavo doveva ripagarne il prezzo al padrone, nella misura stabilita dalla legge; per analogia, la legge stabilì anche la somma da pagare quando si feriva o si uccideva volontariamente un uomo libero. I Longobardi chiamavano questa somma guidrigildo, che vuol dire ‘il prezzo dell’uomo’. Perché il sistema funzionasse bisognava naturalmente che il risarcimento fosse adeguato, altrimenti chi si accontentava di un risarcimento troppo basso
avrebbe perso la faccia, invece di lavare onorevolmente l’offesa subita. Perciò il guidrigildo fissato dalla legge era molto alto se la vittima era un protetto del re, più basso per un
normale uomo libero; era più alto per una donna in età fertile, più basso per una bambina
o una donna anziana.
Personalità del diritto
I barbari che si insediarono sul territorio romano continuarono a praticare queste
abitudini fra loro, mentre la
popolazione romana, che all’inizio non si mescolò con i
nuovi venuti, continuava a
vivere secondo le regole del
diritto romano. Si creava così una situazione particolare,
che i giuristi chiamano “personalità del diritto”: sullo
stesso territorio, cioè, abitavano etnie, ciascuna delle
quali viveva secondo leggi
proprie (l’altra situazione
possibile è quella in cui viviamo noi, per cui sul territorio dello Stato è in vigore
un unico codice di leggi, valido per tutti: si chiama “territorialità del diritto”). Sul
territorio del loro regno, i re
erano garanti sia della legge
barbarica sia della legge romana. Furono proprio i re a
Miniatura con re Rotari
XI sec.
Dal Codex Legum
Langobardorum, ms. 4, f.
15v; Biblioteca della badia,
Cava dei Tirreni, Salerno
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
187
prendere l’iniziativa di scrivere le leggi etniche, anziché continuare a tramandarle soltanto a voce. Per scriverle le fecero tradurre in latino, l’unica lingua in cui veniva naturale scrivere. Nacquero così i grandi codici barbarici: il Codice di Eurico nel regno goto di Spagna,
la Legge Salica e la Legge Ribuaria nel regno franco, la Legge di Gundebado nel regno burgundo, e l’editto di Rotari nel regno longobardo, così chiamato dal nome del re che lo promulgò nell’anno 643. Ma alcuni re, specialmente quelli di Spagna, si preoccuparono anche
di far pubblicare dei manuali di diritto romano, che nella pratica quotidiana veniva usato in
forma molto semplificata e imbarbarita.
Liutprando e la Romana
[Liutprando, § 127, da Le leggi dei longobardi. Storia, memoria e
diritto di un popolo germanico, a cura di C. Azzara e S. Gasparri,
La Storia, Milano 1992; trad. a cura degli autori]
La
voce
PA
SSA
TO
del
Quando il re longobardo Liutprando (712-744)
conquistò i territori dell’Esarcato e la stessa
Ravenna, nel suo regno la stragrande maggioranza
della popolazione seguiva il diritto longobardo,
codificato nell’editto di Rotari e nelle leggi dei
successori. Qua e là qualche famiglia di proprietari
continuava a seguire il diritto romano, e lo stesso
facevano per consuetudine gli ecclesiastici, ma si
trattava di eccezioni. Ora, però, veniva annessa al
regno longobardo un’intera regione che fino a quel
momento aveva continuato a far parte
dell’impero d’Oriente e la cui
popolazione viveva secondo il
diritto romano; è proprio
per questo che la regione
venne chiamata
Romagna, cioè “terra
romana”. Liutprando
si trovava quindi di
colpo a essere il re
di una numerosa
popolazione di
legge romana, che
cominciò subito a
incontrarsi con quella
longobarda e a
stringere, fra l’altro,
matrimoni misti. Siccome
proprio le regole riguardanti
il matrimonio e la situazione della
Parte VII Il mondo romano-barbarico
donna erano diverse nelle due tradizioni giuridiche,
il re previde che sarebbero nati dei problemi, e
provò a risolverli in anticipo. Il caso discusso in
questa legge riguarda la possibilità della donna
rimasta vedova di risposarsi senza chiedere il
permesso ai parenti del primo marito. Le Romane
potevano farlo, le Longobarde no. Ma se una
Longobarda era rimasta vedova di un Romano?
Se qualcuno, uomo romano, prende una moglie longobarda, e acquista il mundio su di lei, e dopo la morte di
lui la donna va da un altro marito senza la volontà degli
eredi del primo marito, non ci sia la faida e non si contesti l’anagrip1. Perché dopo che si è accoppiata con un
marito romano, e lui ha acquistato il suo mundio, è diventata romana, e i figli che nascono da quel matrimonio vivono
secondo la legge del padre;
perciò non deve affatto pagare per la faida e l’anagrip chi poi la prende,
così come per qualunque altra romana.
1. anagrip: letteralmente
‘attacco, violenza’, indica lo
stupro o comunque il rapporto sessuale illecito nei
confronti di una donna.
Tremisse aureo
di Liutprando
VIII sec.
Museo Nazionale Romano, Roma
Non dobbiamo pensare che la personalità del diritto fosse completa, e che in ogni regno
vivessero due popoli dalle leggi totalmente separate. Gran parte del diritto civile, quella
che regola la vita economica, mancava nelle consuetudini barbariche: perciò le regole del
diritto romano restavano in vigore per tutti. Per stipulare un contratto o comprare una casa
si andava dal notaio, secondo la procedura romana (anche se va detto che col tempo l’abitudine di andare dal notaio e far redigere atti scritti divenne sempre meno diffusa, e nel regno franco sparì quasi del tutto). In secondo luogo, le due tradizioni giuridiche tendevano
a influenzarsi a vicenda, come vasi comunicanti: abbiamo appena detto che il diritto romano era praticato in forma imbarbarita, ma anche le leggi dei barbari, quando vennero scritte in latino, accolsero interi pezzi del diritto romano. Nell’editto di Rotari, per esempio, la
procedura per l’affrancamento, cioè la liberazione di uno schiavo, venne ripresa dal diritto
romano. Infine, va ricordato che durante la lunga vita dei regni romano-barbarici le due popolazioni cominciarono a non vivere più così separate come prima; all’inizio i matrimoni
misti erano addirittura vietati, poi il divieto cadde e Romani e barbari cominciarono a sposarsi fra loro. Alla lunga, la maggior parte della popolazione di origine romana adottò certe consuetudini barbare, come il dono del mattino o il risarcimento per i delitti. Entro l’VIII
secolo, all’interno di ogni regno praticamente tutta la popolazione seguiva la legge dell’etnia dominante, mescolata e modificata con avanzi di diritto romano.
1. Che cosa significa personalità del diritto? 2. Com’erano risolti, generalmente, i delitti
di sangue? 3. Qual era la condizione della donna?
8. Un’economia stagnante
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Calo demografico e lento declino dell’economia
Sul piano economico e demografico, l’epoca dei regni romano-barbarici conobbe un netto declino, seguito da una lunga stagnazione: sostanzialmente un periodo in cui le cose, anche se non peggiorano più perché hanno già toccato il fondo, non riescono neanche a migliorare, la gente continua a essere povera e l’economia non riparte. Nel V e VI secolo, le
devastazioni provocate dallo stanziamento dei barbari e dai movimenti degli eserciti, le ripetute carestie, le epidemie di peste avevano decimato la popolazione. Nelle campagne
molte zone si erano spopolate: la foresta, la brughiera, la palude avevano preso il posto delle coltivazioni. La manutenzione degli acquedotti e delle strade era sempre più carente, e
la circolazione di merci e di denaro si era ridotta: sia a causa dell’insicurezza, sia perché i
re avevano molto meno denaro da investire rispetto a quel che un tempo poteva fare il governo imperiale romano.
Questo degrado si verificò lentamente e senza stravolgere gli aspetti di fondo dell’economia agricola. La grande proprietà terriera era ancor sempre il fondamento della ricchezza. Il re, i capi guerrieri barbari, i grandi latifondisti romani superstiti, i vescovi, i monasteri fondavano il loro potere sul possesso di immense proprietà e sul lavoro di moltitudini di contadini. Come all’epoca del tardo impero romano, i contadini erano schiavi e soprattutto coloni: lavoratori liberi che coltivavano il podere ricevuto in affitto, ma dovevano obbedire in tutto al padrone e non potevano andarsene dal fondo senza il suo permesso.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
189
Fino al VII secolo in Gallia, in Spagna, in Africa c’erano ancora grandi latifondisti che vivevano in lussuose ville di campagna, ornate di mosaici. È impossibile dire se fossero romani o barbari: all’epoca delle invasioni i nuovi venuti si riconoscono forse dalle loro sepolture, che rispecchiano usanze barbariche come quella di portare le armi, ma con la conversione al cristianesimo e l’adozione dello stile di vita romano non è più possibile distinguere un ricco barbaro da un ricco romano.
Ci sono però differenze fra un regno e l’altro: l’aristocrazia romano-gota in Spagna,
quella romano-franca in Gallia sono piuttosto ricche, mentre in Italia il declino della grande proprietà è più evidente. L’aristocrazia romano-italica e gotica venne spazzata via dalla
riconquista di Giustiniano e dalla successiva invasione longobarda. La fine del senato romano si colloca nel VI secolo ed è una rottura storica decisiva: i capi longobardi non arriveranno mai allo stesso livello di ricchezza e di lusso che era stato dei senatori romani. Anche nei regni più potenti, comunque, i latifondisti non mantengono a lungo un livello di vita lussuoso secondo gli standard antichi. La tendenza, col tempo, è al degrado e all’abbandono delle ville, sostituite da edifici più poveri in legno. Può darsi che la ragione sia culturale, non solo economica: l’influsso del cristianesimo spingeva molti nobili a investire
le proprie ricchezze nella costruzione di chiese e monasteri anziché di ville e mosaici, mentre le tradizioni barbariche valorizzavano soprattutto l’acquisto di armi, cavalli e gioielli.
Certo è che il livello di benessere dell’aristocrazia romano-barbarica dopo il VI secolo sarebbe apparso infimo a un latifondista dell’epoca precedente.
La
voce
PA
SSA
TO
del
Gregorio di Tours e il topos del
declino
[Gregorio di Tours, Historiae, Prefazione; trad. a cura degli autori]
Gregorio, nato nel 538 e figlio di un senatore romano
della Gallia, divenne vescovo di Tours nel 573 e morì
nel 594. Nella sua opera in dieci libri, intitolata al
modo classico Historiae, raccontò le vicende della
Gallia durante le invasioni barbariche e poi sotto il
dominio franco. Nella prefazione Gregorio segue un
topos, cioè un luogo comune letterario, anch’esso di
origine classica, dichiarando di non essere all’altezza
dell’opera intrapresa; ma vi aggiunge un altro topos
più tipico della sua epoca, e cioè la constatazione
desolata della drammatica decadenza della cultura e
il lamento per il disordine che regna nel mondo.
La cultura e la letteratura stanno sparendo dalle città
della Gallia, anzi sono morte. Certe cose sono fatte con
Parte VII Il mondo romano-barbarico
giustizia, ma altre no; la ferocia dei barbari impazza,
l’ira dei re s’inasprisce, le chiese sono attaccate dagli
eretici e difese dai cattolici, la fede di Cristo ribolle nel
cuore di molti, ma è tiepida in qualcuno, le chiese sono arricchite dai devoti o spogliate dai malvagi – e non
si trovava nessun grammatico capace di scrivere bene
e di raccontare tutto questo, in prosa o in versi. Tutti si
lamentano, dicendo «Guai alla nostra epoca, perché lo
studio delle lettere qui da noi è morto, e non si trova
da nessuna parte un retore che possa far conoscere
sulla pagina gli avvenimenti del presente». Io ho pensato che tutto questo era vero, e affinché gli uomini del
passato siano ricordati, e notizia di loro arrivi a quelli
del futuro, anche se non so scrivere bene non ho voluto nascondere né i conflitti dei criminali né la vita di chi
vive secondo giustizia. Mi ha spinto a farlo soprattutto
una cosa che spesso ho sentito dire dalla nostra gente
e per cui mi sono sempre stupito: che «il retore che fa
filosofia lo capiscono in pochi, ma il contadino che parla lo capiscono tutti».
Le città
La trasformazione delle città, che oggi
conosciamo particolarmente bene grazie
agli scavi archeologici, è il sintomo più
evidente di un declino economico che è
anche un cambiamento di civiltà. Poche
grandi città romane vennero del tutto abbandonate, e quasi nessuna venne distrutta dai barbari, ma tutte videro ridursi il
numero dei loro abitanti. I grandi porti del
Mediterraneo avvizzirono, ora che i commerci con l’Oriente e con l’Africa erano
quasi scomparsi. L’edilizia monumentale
era solo un ricordo di quella antica: Teodorico a Ravenna, i re visigoti a Toledo, i
re longobardi a Pavia, i papi a Roma costruivano o restauravano basiliche e mausolei, ma tutt’intorno il legno e la paglia
sostituivano la pietra, i mattoni e le tegole. Anche così rimpicciolite e immiserite,
le città rimasero comunque la residenza
dei vescovi e anche di molti aristocratici,
soprattutto in Italia. Le comunità di cittadini rimasero forti e orgogliose e conservarono le tradizioni civiche, che si coloravano sempre più in senso cristiano: il
vescovo era sentito come il vero capo
della città, e la comunità si raccoglieva
intorno al culto del santo protettore e delle sue reliquie. Intanto, là dove le città romane non esistevano, sulle coste della
Manica e del Mare del Nord, cominciavano a nascere agglomerati nuovi, gli empori, abitati non da chierici e nobili, ma
da mercanti che commerciavano con l’Inghilterra e la Scandinavia. Queste città di
nuovo genere annunciavano un’epoca in
cui il Nordeuropa sarebbe stato più ricco
e dinamico rispetto alle regioni affacciate
sul Mediterraneo.
1. Quali fattori culturali contribuirono al
decadimento del livello di vita
dell’aristocrazia? 2. Com’erano
organizzate le comunità cittadine?
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
Mausoleo di Teodorico
VI sec.
Ravenna
Teodorico è ricordato come
un grande sovrano
costruttore: sotto il suo
governo molti edifici
trovarono nuovi assetti
grazie a opere di restauro,
come a Roma, mentre altri
edifici furono inaugurati,
soprattutto a Ravenna, dove
si edificarono splendide
chiese, come quella di
Sant’Apollinare. A Ravenna
Teodorico fece erigere
anche un mausoleo reale per
conservare le sue esequie:
costruito con pietra d’Istria,
materiale pregiato che si
distanziava dalla più
comune pietra adoperata in
questo periodo, il mausoleo
ricorda nello stile i grandi
sepolcri romani.
Sant’Apollinare
VI sec.
Particolare del mosaico absidale; Basilica di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna
Sant’Apollinare fu il primo vescovo della Chiesa ravennate e ancora oggi è il santo patrono
della città; questo mosaico del catino absidale lo ritrae orante nel giardino paradisiaco,
nell’iconografia tipica del pastore di anime a guida del suo gregge.
9. Una società vischiosa
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Vincoli di dipendenza
La società dei regni romano-barbarici era caratterizzata dalla grande diffusione dei legami personali. Non parliamo qui dei legami familiari, che pure erano molto importanti:
presso certi popoli, un uomo non poteva neppure vendere la sua terra senza il consenso dei
parenti, ed era ancora ai parenti che spettava la vendetta se qualcuno subiva un’offesa. Ma
ancor più tipici dei legami familiari erano i vincoli di dipendenza o di clientela: a tutti i livelli sociali, la maggior parte della gente era legata a qualcun altro da obblighi, ereditati alla nascita oppure scelti volontariamente. In cambio di questi obblighi si otteneva nutrimento e protezione, e si capisce che fosse un vantaggio enorme in un’epoca violenta, in cui
lo Stato e la legge garantivano solo fino a un certo punto la sicurezza personale.
Vediamo con ordine, partendo dal basso, com’era articolata la società e qual era la natura dei vincoli di dipendenza e di clientela. Fra i contadini che lavoravano i campi dei ricchi, molti erano schiavi, e quindi erano considerati proprietà personale del padrone. Rispetto al mondo antico la loro condizione era migliorata: la Chiesa li considerava dei fedeli con un’anima, e non delle cose; i padroni non avevano più il diritto di vita e di morte su
di loro, e dovevano rispettare il loro matrimonio e permettere loro una vita familiare. Ma
cittadinanza
La disuguaglianza davanti alla legge
Il principio fondamentale del diritto, oggi, è che «la legge è uguale per
tutti». Non è un principio antico: come abbiamo già ricordato [cfr. cittadinanza, p. 120], in Italia è stato affermato per la prima volta sulla
scorta della Rivoluzione francese, e poi ribadito dal Risorgimento. Prima di allora, nessuno pensava che la legge dovesse essere uguale per
tutti; e non solo per via dei privilegi riconosciuti al clero. Nell’antica Roma c’era una legge per i cittadini romani, una per i cittadini delle città
alleate – il cosiddetto diritto latino – e una per gli indigeni delle province conquistate, i peregrini. Dopo l’editto di Caracalla del 212 tutti gli
abitanti dell’impero ricevettero la cittadinanza romana, ma le leggi
emanate dagli imperatori cominciarono subito a distinguere fra le persone più ricche e importanti, gli honestiores, e la gente qualunque, gli
humiliores; ai primi la legge garantiva apertamente ogni sorta di privilegi, simili a quelli che un tempo spettavano ai cittadini romani, mentre gli altri potevano essere arrestati, torturati e condannati a pene infamanti come se fossero stati schiavi.
192
Parte VII Il mondo romano-barbarico
Nei regni romano-barbarici la differenza delle persone venne codificata
in modo ancora più preciso, perché c’era un problema nuovo, sconosciuto al diritto romano: fissare il guidrigildo, cioè il risarcimento che doveva pagare chi aveva ucciso un uomo, per ristabilire l’onore della vittima ed evitare la vendetta dei parenti. Al livello più basso della società, gli
schiavi non erano neppure compresi nel sistema del guidrigildo: per loro non c’era nessuna vendetta, e non si pagava un risarcimento d’onore
ai parenti, ma un rimborso al padrone per il danno subito. Ma fra i liberi il principio più importante era la disuguaglianza: il guidrigildo era fissato a un livello minimo per aldii e altri semiliberi, a un livello medio per
i comuni uomini liberi, a un livello alto per i funzionari e i comites (‘compagni’) del re o per i membri della sua trustis, gli antrustioni. All’inizio,
quando Romani e barbari convivevano senza essersi ancora fusi in un
unico popolo, la disuguaglianza era fissata anche su base etnica: le leggi
dei Franchi prevedevano che un Romano potesse essere un uomo importante e anche un “compagno” del re, ma il suo guidrigildo era sempre più basso rispetto a quello di un Franco dello stesso livello sociale.
«A marzo si vanga e si
semina» e «A luglio si
taglia il bosco»
XI sec.
Dal ms. Cotton Jul. A VI ff.
4r-5v; British Library,
Londra
Queste due miniature, che
corredano un manoscritto
dell’XI secolo, illustrano
alcune delle attività svolte
nei poderi dai contadini.
La prima fa riferimento ai
lavori di aratura e semina,
praticate nei mesi
primaverili, la seconda
illustra un’operazione di
disboscamento, svolta nel
periodo estivo.
pur con queste garanzie gli schiavi dipendevano comunque in tutto e per tutto dalla volontà
del padrone, il dominus, come si diceva in latino.
Poi c’erano i moltissimi contadini che, senza essere formalmente schiavi, non erano però
considerati veri uomini liberi: facevano parte di questa categoria i coloni, che la legge obbligava a ubbidire al padrone e che non potevano andarsene dal latifondo senza il suo permesso, e
soprattutto i liberti. Come si ricorderà [cfr. scheda, p. 58], i liberti esistevano già nell’Antichità,
ed erano gli schiavi che il padrone aveva liberato; era una pratica molto diffusa anche nei regni
romano-barbarici, anzi più diffusa di prima, perché la Chiesa la incoraggiava, considerandola
una delle più importanti opere buone che un ricco potesse fare. Ma proprio per spingere i padroni a liberare i loro schiavi il più spesso possibile, si era introdotta una nuova modalità di liberazione, in base alla quale l’ex schiavo divenuto liberto doveva continuare per tutta la vita,
lui e i suoi discendenti, a lavorare per il padrone e per i suoi eredi. Si creava insomma un vincolo perpetuo, ereditario, fra dipendenti e padroni. I vari popoli germanici avevano dei termini specifici per designare questi dipendenti ereditari: i Longobardi, per esempio, li chiamavano
aldii, mentre oggi gli storici li chiamano spesso con un termine inventato, “semiliberi”.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
193
Vincoli di clientela
Il vero uomo libero, nella società romano-barbarica, era soltanto colui che possedeva
un po’ di terra sua, e quindi non doveva lavorare sotto padrone, pagava le imposte e poteva andare in guerra quando il re convocava i suoi guerrieri. Ma anche fra i liberi erano molto diffusi dei legami personali, che venivano chiamati col termine di commendatio (è la
stessa radice della nostra “raccomandazione”). I vincoli di raccomandazione non erano ereditari e imposti dalla nascita, ma potevano essere scelti liberamente, e quindi non erano sentiti come una macchia, ma al contrario erano onorifici e prestigiosi. La commendatio consisteva nel fatto che un uomo libero si presentava, o veniva presentato dai genitori, al re o
a un altro uomo importante, e si metteva al suo servizio dopo avergli giurato fedeltà. Era
un legame che oggi chiameremmo clientelare, ed era diffusissimo: chiunque volesse fare
carriera al servizio del re o dei grandi funzionari del regno doveva passare di lì. La solidità
del legame variava da un popolo all’altro: presso i Goti chi si era raccomandato poteva liberamente scegliersi un altro protettore quando gli faceva comodo; presso i Franchi, invece, l’ingresso in una clientela era vincolante per tutta la vita.
Un tipo particolare di raccomandazione era quello che creava, attorno al re e agli altri
capi, un gruppo di guerrieri domestici, che avevano giurato fedeltà al capo, vivevano in
casa sua, mantenuti da lui, ed erano pronti a dare la vita per lui in battaglia. I Franchi chiamavano questo gruppo di fedeli trustis, una parola in cui riconosciamo la stessa radice del
verbo inglese to trust, che significa appunto ‘fidarsi’. Il capo di un gruppo di guerrieri, o
più in generale di una clientela di raccomandati, veniva invece chiamato “il vecchio”, in latino senior; da qui deriva la nostra parola signore. Dovremo ricordarci dei legami clientelari creati dalla raccomandazione, e della fedeltà guerriera della trustis, quando più avanti
cominceremo a parlare di signori e vassalli, in una parola di feudalesimo [cfr. cap. 20].
1. In che modo era cambiata la figura del liberto rispetto all’Antichità? 2. Chi erano i cosiddetti guerrieri
domestici?
10. La barbarizzazione
del cristianesimo
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Il battesimo di massa
La conversione dei barbari pagani al cristianesimo, dopo il loro ingresso sul suolo romano,
e la conversione dei barbari ariani al cattolicesimo si verificarono con modalità molto diverse
rispetto alla conversione della popolazione romana, che era avvenuta in modo graduale e su base individuale. Per secoli i Romani che si erano convertiti al cristianesimo avevano fatto una
scelta minoritaria e pericolosa, che rischiava di attirare su di loro le persecuzioni del governo.
Dopo l’editto di Milano del 313 e la conversione di Costantino la situazione si ribaltò [cfr. cap.
15.1]: convertirsi al cristianesimo divenne la scelta più facile e comoda per un suddito dell’impero, e dopo l’editto di Teodosio del 380 divenne addirittura obbligatorio [cfr. cap. 16.1]. In ogni
caso, aderire al cristianesimo, in una delle molte varianti possibili, oppure restare ostinatamente fedele ai vecchi culti – come fecero alcuni senatori di idee conservatrici e anche molti contadini nelle campagne più sperdute – rappresentò sempre una scelta individuale.
194
Parte VII Il mondo romano-barbarico
I barbari stanziati su suolo romano non dovevano obbedire alle leggi dell’impero ed erano liberi di fare quel che volevano. Erano però soggetti alla pressione politica e culturale della Chiesa, che alla fine trionfò: i vescovi cattolici convinsero i barbari ancora pagani, come i Franchi, ad adottare il cristianesimo, e convinsero i barbari di fede ariana a passare al cattolicesimo. Ma solo raramente si trattò di conversioni individuali: la Chiesa mirava a conversioni collettive, cioè a ottenere la conversione di un intero popolo in un sol
colpo, e per ottenere questo risultato faceva pressione innanzitutto sui re. Infatti i barbari
attribuivano ai loro re un rapporto diretto con le potenze celesti, ed era responsabilità dei
re garantire la prosperità del popolo indicando il modo migliore di soddisfare quelle potenze. Se il re dichiarava che non bisognava più seguire i vecchi dèi ma adorarne uno nuovo, il Cristo dei Romani, c’era bensì il rischio di suscitare malessere e ribellioni, ma gran
parte del popolo era disposta a dargli fiducia: così, per esempio, la conversione di Clodoveo provocò come conseguenza il battesimo di tutti i Franchi.
Scegliere il dio più potente
È chiaro a questo punto che per i barbari convertirsi al cristianesimo non significava accettare nuovi valori: per questo sarebbe stato necessario
un processo di accostamento
individuale e libero alla nuova fede, mentre quello che
accadde fu il battesimo in
massa di interi popoli. Passare alla fede di Cristo significava scegliere un dio che si
era dimostrato più potente
dei vecchi dèi, più capace di
proteggere e di ricompensare
i suoi seguaci; e la Chiesa lo
sapeva benissimo. Nel VI secolo, il cronista Gregorio di
Tours, che era egli stesso un
vescovo, racconta che la moglie di Clodoveo, la regina
Clotilde, era già cristiana e
cercava di convertire il marito; ma quali erano i suoi argomenti? La regina spiegava
al re che gli dèi adorati dai
Franchi non valevano niente,
perché non potevano aiutarli,
dal momento che erano soltanto degli idoli di pietra o di
legno, mentre il Dio dei cristiani era potentissimo. Clodoveo rispondeva che non
era vero, che non gli risultava
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
Codex Argenteus
V-VI sec.
Biblioteca dell’Università,
Uppsala, Svezia
Discendente di Greci
cristiani fatti schiavi dai
Goti e poi integrati nella
società gotica a Nord del
Danubio, Ulfila (in gotico,
‘lupetto’) studiò nel IV
secolo a Costantinopoli,
dove fu ordinato vescovo
con l’incarico di andare a
convertire i Goti ancora
pagani. Ulfila, che era un
cristiano ariano, tradusse le
Sacre Scritture in lingua
gotica e inventò un alfabeto
per scriverla. Il Codex
Argenteus comprende una
parte del Nuovo
Testamento, ed è scritto con
inchiostro d’argento su
pergamena color porpora, il
colore riservato
all’imperatore.
Probabilmente fu realizzato
nell’Italia d’inizio VI secolo
per ordine del re Teodorico.
195
San Benedetto
Nel corso del VI secolo si sviluppò un’importante esperienza di
riforma del movimento monastico, dovuta a Benedetto da Norcia, fondatore dei monasteri di Subiaco e Montecassino, non lontano da Roma. Per i suoi monaci Benedetto compose una nuova
regola, riprendendo e ampliando una precedente regola anonima,
conosciuta come la Regula magistri. La regola benedettina si
riassume di solito nella formula notissima ora et labora, prega e
lavora. In realtà i seguaci di Benedetto continuavano a dedicarsi
innanzitutto alla preghiera, com’era dovere di tutti i monaci;
gran parte del giorno e della notte erano occupati da una ricca liturgia, e solo nei momenti lasciati liberi dalla preghiera i monaci, per evitare l’ozio, erano invitati a dedicarsi allo studio o al lavoro.
La vera novità della regola benedettina era piuttosto un’altra: rispetto alle regole precedenti, era ispirata alla moderazione, ed
evitava gli eccessi di ascesi e di penitenza. Insomma non era pensata per chi voleva vivere un’esperienza estrema, ma per un movimento ormai istituzionalizzato e diffuso. Proprio per questo
ebbe grande successo, e diventò rapidamente la regola più seguita e imitata nei monasteri dell’Occidente. Papa Gregorio Ma-
196
Parte VII Il mondo romano-barbarico
gno favorì e protesse il monachesimo benedettino, e scrivendo la
Vita di Benedetto contribuì a rendere popolare la sua figura: tanto che nel sentire comune Benedetto è considerato un po’ il padre del monachesimo, benché i monaci, al suo tempo, esistessero già da diversi secoli.
Un’abbazia benedettina
Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere
Basato sui risultati di un lungo scavo archeologico, il disegno
ricostruisce l’aspetto dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno, in Molise,
nell’820-830, dopo i grandi lavori di costruzione e ampliamento
intrapresi con il sostegno di Carlo Magno e dei suoi successori. Oltre alla
grande chiesa, l’abbazia è costituita da una serie di edifici collegati da
lunghe ali a portico. Si notino vicino alla chiesa le officine specializzate
nella produzione di oggetti di ceramica, vetro e bronzo, la grande
lavanderia circolare con il tetto in paglia situata in mezzo ai portici e le
cucine collocate di fronte al fiume.
che il Dio dei cristiani fosse davvero così potente. Clotilde, riferisce con approvazione Gregorio, cercava di convincerlo anche adornando la chiesa con sontuosi tendaggi, per fargli
toccar con mano la grandezza del Dio cristiano: si trattava insomma di impressionare i barbari e farli restare a bocca aperta, non di agire sulle loro coscienze.
E infatti Clodoveo si convertì quando ebbe l’impressione che il Dio dei cristiani fosse
davvero più potente dei suoi dèi nazionali. Durante la decisiva battaglia di Tolbiac [cfr.
par. 1], combattuta contro gli Alamanni, i Franchi stavano perdendo, e il re si convinse che
i suoi dèi lo avevano abbandonato: per disperazione si mise a pregare Cristo, garantendo che
se avesse sperimentato la sua protezione si sarebbe fatto battezzare. I Franchi vinsero la battaglia, e Clodoveo mantenne la parola, sicuro di essersi messo dalla parte del dio più forte.
Il cristianesimo praticato dalla società romano-barbarica risentì fortemente di questa
mentalità poco interessata agli aspetti spirituali. A partire dal 600 circa, i contatti culturali coll’Oriente si interruppero, il clero occidentale fu sempre meno colto, i concili si riunirono più raramente, la discussione teologica – che in Oriente continuava ad alto livello –
si inaridì. I fedeli, in larghissima maggioranza analfabeti e non più guidati, salvo rare eccezioni, da un clero preparato, ebbero sempre meno coscienza della complessità spirituale
del messaggio cristiano, e il loro cristianesimo si ridusse a un nocciolo elementare: la fede
cieca in un Dio onnipotente che avrebbe salvato i suoi amici e sterminato i loro nemici.
Il battesimo di re Clodoveo
IX sec.
Museo della Piccardia,
Amiens
Clodoveo, re dei Franchi, si
convertì al cristianesimo
all’inizio del VI secolo, e fu
battezzato a Reims. Oltre
due secoli dopo i re dei
Franchi introdussero nella
loro incoronazione il rituale
dell’unzione con l’olio
santo. Nel IX secolo, sotto
il regno dell’imperatore
Carlo il Calvo,
l’arcivescovo di Reims,
Incmaro, scrisse che in
occasione del battesimo di
Clodoveo il re era stato
unto con l’olio santo,
portato in un’ampolla da
una colomba mandata da
Dio: la vediamo in questo
bassorilievo scendere
proprio sopra la testa del re.
Era un modo per affermare,
ben al di là dei fatti storici,
l’assoluta continuità della
monarchia franca attraverso
i secoli.
1. Come fu possibile per i vescovi procedere a conversioni collettive dei popoli barbari?
2. Quale peculiare sviluppo ebbe la fede religiosa quando furono recisi i legami con l’Oriente?
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
197
America e Africa
dal III al VII secolo
In America
A partire dal III secolo si assiste in America alla
piena fioritura di due grandi civiltà messicane,
la civiltà di Teotihuacan e la civiltà dei Maya.
Entrambe presentano le caratteristiche che rimarranno poi tipiche di tutte le civiltà precolombiane, come la concentrazione della popolazione in grandi città, il culto di divinità come il Serpente Piumato e il Dio della Pioggia, l’edifi-
Altri
Il dio delle tempeste e del fulmine
VI-VIII sec.
Copàn, Honduras
Questo rilievo, risalente al periodo
classico maya, mostra un essere
mostruoso assimilabile al dio delle
tempeste e del fulmine. I fenomeni
atmosferici erano associati a esseri
divini; in particolare il dio della pioggia
Chac assunse un ruolo principale all’interno
del pantheon maya.
La Piramide del Sole a Teotihuacan
I-III sec.
Valle di Anahuac, Messico
La colossale struttura a quattro corpi, che misurava
un’altezza complessiva di oltre 75 metri, venne
edificata al di sopra di una grotta naturale, indicando
la preesistente valenza sacra del luogo.
Parte VII Il mondo romano-barbarico
h
cazione di immensi templi a forma
di piramide, la pratica del sacrificio
umano. La grande città di Teotihuacan, sorta nel I e II secolo non
lontano dall’attuale Città del Messico, rimase la più popolosa città
d’America e una delle più grandi
del mondo, con forse addirittura
200.000 abitanti, fin dopo il 500.
Non sappiamo se fosse la capitale
di un impero e neppure quali popoli vi abitassero, perché le fonti di
cui disponiamo sono esclusivamente archeologiche; è probabile
che fosse una metropoli multietnica, che esercitava un’influenza
economica e culturale su tutto il
Centroamerica. Il suo declino, nel
VI e VII secolo, fu dovuto probabilmente a un cambiamento climatico che inaridì la regione, oltre
huacan
che a rivolte interne che distrussero il gruppo dirigente della città: i
templi e i palazzi infatti portano
tracce di incendio, il resto della
città no.
Nella stessa epoca si ha la grande
fioritura della civiltà maya, organizzata in città-stato indipendenti tra il
Chiapas e la penisola dello Yucatan.
Le sue prime tracce risalgono già al
500 a.C., ma è nel periodo dal 250
al 900 d.C., considerato il “periodo
classico” dei Maya, che questo popolo conosce il massimo sviluppo
culturale, in particolare nel campo
dell’arte e dell’astronomia. In questi secoli i Maya, unici fra i popoli
dell’America precolombiana, sviluppano un completo sistema di
scrittura di tipo geroglifico, combinando pittogrammi, cioè segni con
valore simbolico, e segni sillabici.
Nei vasti spazi dell’America del
Nord e del Sud la popolazione
umana è invece ancora perlopiù
nomade e le condizioni di vita sono preistoriche, con manufatti di
pietra e d’osso e la caccia come risorsa principale.
In Africa
In Africa i primi secoli dell’era cristiana videro lo sviluppo del regno
di Axum, in quella che è oggi l’Etiopia [cfr. altri mondi, pp. 70
sg.]. Affacciato sul Mar Rosso, il regno era al centro di un’importante
rete di scambi commerciali fra l’Oceano indiano e il Mediterraneo.
Un evento decisivo fu la conversione del re di Axum e del suo popolo al cristianesimo, a opera di
missionari greco-siriani, intorno al
350: nasceva così l’unico Stato cristiano in Africa al di fuori dell’impero romano. Nel VI secolo il regno etiopico di Axum era così potente da espandersi fino alla penisola arabica, da dove però fu respinto dai Persiani, entrando in un
periodo di decadenza. Il declino fu
poi accentuato nel VII secolo dalle
grandi conquiste arabe (ne parleremo nel prossimo capitolo), che
strapparono agli etiopici il controllo dei commerci del Mar Rosso e li
respinsero verso gli altipiani dell’interno. Più a sud continuava la
grande espansione dei popoli
bantù, che in quest’epoca raggiunse il Sudafrica, anche se in assenza di fonti scritte non è possibile
saperne di più.
Teotihuacan
Massima espansione della civiltà maya
Diffusione della lingua bantù
Regno di Axum
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
199
SINTESI
1. Dalla deposizione di Romolo Augustolo alla morte di Teodorico
Dal 476 l’Occidente si frantumò in regni autonomi. Grazie a un accordo con l’imperatore Zenone, il re dei Goti, Teodorico, invase l’Italia e nel 493 uccise e sostituì Odoacre. Teodorico mantenne l’amministrazione e le leggi romane. Nonostante alcune tensioni
che contrapposero i Goti ariani ai Romani cattolici, la convivenza tra i due popoli fu pacifica. Nel Nord della Gallia i Franchi, riunificati da Clodoveo, davano vita a un potente regno. Clodoveo sottomise tutta la Gallia, conquistò il territorio degli Alamanni e fece convertire tutto il suo popolo al cattolicesimo. L’unico fattore di debolezza era rappresentato dalla successione dinastica, che prevedeva la
ripartizione del regno tra tutti i discendenti. Alla morte del re il regno fu spartito fra i figli. Con Clodoveo ebbe inizio la dinastia merovingia.
2. L’età di Giustiniano
Nel 527 fu coronato imperatore Giustiniano, uno dei più importanti sovrani della storia romana. In politica estera Giustiniano
perseguì il progetto di riconquista dell’Occidente. Nel volgere di trent’anni (532-562) l’Africa, l’Italia e parte della Spagna tornarono
sotto il controllo dell’impero, mentre nei Balcani e sul Mar Nero premevano Àvari e Slavi. Nonostante queste grandi conquiste, l’enorme lavoro di codificazione del diritto romano (Corpus Iuris Civilis) e i grandi lavori edilizi, alla morte di Giustiniano (565) l’impero non
era né prospero né pacificato. Gli alti costi delle campagne militari avevano innalzato la riscossione fiscale e impoverito la popolazione; l’Italia usciva devastata economicamente e socialmente dalla guerra trentennale contro i Goti e, come se non bastasse, le epidemie
di peste spopolarono l’impero e ne rovinarono l’economia.
3. L’invasione longobarda dell’Italia e il papato di Gregorio Magno
Nel 568 la Pianura Padana fu invasa dai Longobardi di re Alboino, una popolazione germanica proveniente dalla Pannonia. Dopo alcuni anni di lotte fra i vari capi, fu con re Autari (584) che si ricostituì un regno sostanzialmente unitario, con entità territoriali subordinate al re e con a capo i duchi. In poco tempo i Longobardi avanzarono in quasi tutta l’Italia centro-meridionale. Gran parte delle
coste e le isole rimasero, invece, in mano all’impero. Anche Roma rimase formalmente nelle mani di Costantinopoli, ma in realtà a comandare era il papa. Con papa Gregorio Magno, Roma e il cosiddetto “Patrimonio di san Pietro” cominciarono a funzionare come uno
Stato autonomo. A Gregorio Magno si deve anche la progressiva conversione dei popoli barbari al cattolicesimo.
4. L’Occidente tra VII e VIII secolo
Nel VII secolo l’economia e la cultura in Occidente toccarono forse il punto più basso. Nelle antiche province occidentali
romane si erano installati tre regni indipendenti: il regno franco in Gallia, il regno goto in Spagna, il regno longobardo in Italia. All’inizio dell’VIII secolo mutò il quadro politico. L’invasione arabo-musulmana pose fine al regno goto. I Franchi, dopo aver frenato
l’espansione araba, rafforzarono il proprio potere unificando il paese in un unico regno grazie alla spinta impressa da Carlo Martello, “maggiordomo” del regno. Anche i Longobardi avevano consolidato i propri domìni, strappando nuovi territori ai Bizantini. Allo stesso tempo il papa di Roma rafforzava il potere spirituale e il carisma pontifici in Occidente, distaccandosi sempre più da Costantinopoli.
5. Da funzionari dell’imperatore a re indipendenti
I re barbari si trovarono a governare su di una popolazione formata principalmente da Romani. All’inizio la loro legittimazione derivava dai patti stipulati con il potere imperiale ed essi stessi erano visti come una sorta di funzionari imperiali. Con il tempo, però,
il legame con l’impero e la sua amministrazione si fece sempre più tenue. I latifondisti, le autorità ecclesiastiche e, in generale, la popolazione preferirono l’autonomia regionale all’obbedienza a un imperatore lontano. La Chiesa considerava il re – e già tutti i re erano
cattolici – come suo capo e protettore, e i re, a loro volta, si assunsero il compito di garantire la religione e la morale cattolica. Il re era
diventato il sovrano di uno Stato più piccolo, rispetto all’impero romano, e totalmente indipendente.
6. Fra civiltà romana e cultura barbarica
Per un certo periodo continuò a sopravvivere l’amministrazione romana e, in parte, la civiltà antica. Con il tempo, però, si ridussero tanto la circolazione monetaria, quanto la circolazione e la fruibilità della cultura, mentre l’assimilazione tra i barbari e la popolazione locale si fece totale. L’apparato dello Stato si fece più debole e la partecipazione della società alla gestione del potere più ampia. Al centro del regno vi erano il re e la sua corte – il “palazzo” – e vi erano personaggi scelti dal re al comando di città e province. Alcuni di questi, i duchi, erano quasi indipendenti e si trasmettevano il potere di padre in figlio; altri, i conti, erano nominati dal re e sostituiti a suo piacimento. Le funzioni erano svolte in maniera più elementare e brutale rispetto all’amministrazione romana, e la giustizia era gestita d’accordo con le comunità locali.
200
Parte VII Il mondo romano-barbarico
7. Leggi etniche e diritto romano
I barbari avevano leggi differenti rispetto a quelle codificate nel diritto romano. Erano differenti, per esempio, le leggi concernenti le donne o quelle che regolavano i matrimoni. L’accertamento dei reati era spesso affidato a giuramenti o, con la conversione al
cristianesimo, al giudizio di Dio. I delitti di sangue erano considerati questione private e la legge interveniva solo a fissare un risarcimento adeguato per evitare annose faide. Nel periodo in cui le diverse etnie coabitarono sullo stesso territorio, ciascuna rispettava le proprie leggi (“personalità del diritto”), pur influenzandosi a vicenda. Dall’VIII secolo, comunque, tutta la popolazione di un regno seguiva la legge dell’etnia dominante, mescolata al diritto romano.
8. Un’economia stagnante
Nell’epoca dei regni romano-barbarici l’economia conobbe un netto declino, seguito da una lunga stagnazione. Le guerre, le
epidemie e le carestie avevano decimato la popolazione. Alla base della ricchezza vi era sempre la grande proprietà terriera e specialmente in Gallia le élite romano-barbariche erano piuttosto ricche. In Italia, invece, la grande proprietà era in declino. In generale, però,
si assistette a un abbassamento del livello di vita dei più ricchi, dovuto tanto a ragioni economiche, quanto a ragioni culturali. Nelle città
si ridusse il numero di abitanti e non si edificarono complessi monumentali pari a quelli del passato. Le comunità cittadine erano guidate dal vescovo e si raccoglievano intorno al culto del santo protettore e delle sue reliquie.
9. Una società vischiosa
La società era caratterizzata dalla grande diffusione dei legami personali, che potevano essere di dipendenza o clientelari. I legami di dipendenza erano quelli alla base dei rapporti di schiavi, liberti e coloni con i proprietari terrieri. Gli uomini liberi si legavano
al re o agli uomini più importanti mediante un vincolo di raccomandazione, la commendatio. Questo era un vincolo clientelare e, spesso, era scelto liberamente. Un tipo particolare di commendatio era quello che vincolava i guerrieri domestici al loro signore: essi giuravano fedeltà al capo ed erano da lui mantenuti.
10. La barbarizzazione del cristianesimo
Anche il sentimento religioso fu influenzato dall’incontro con la cultura barbarica. A differenza di quanto avvenuto con i Romani, la conversione dei barbari fu una questione di massa. Le adesioni non avvennero in maniera individuale, ma collettiva. Questo era
dovuto all’influenza che i re esercitavano sul proprio popolo, ma spesso per convincere i re bisognava dimostrare la potenza del Dio cristiano rispetto a quelli pagani. Il cristianesimo praticato dalla società romano-barbarica risentì di questa mentalità poco spirituale. Questo fattore, oltre che la fine degli scambi con l’Oriente, portarono a rendere il clero occidentale meno colto e a inaridire la discussione
teologica.
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
201
ESERCIZI
Gli eventi
1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta:
1) Il Corpus Iuris Civilis...
❏ a) raggruppava l’insieme delle leggi barbare e di quelle romane;
❏ b) raccoglieva l’insieme delle sentenze emesse dai tribunali ecclesiastici;
❏ c) raccoglieva le leggi, le sentenze e i commenti relativi al diritto romano;
❏ d) era il codice di leggi che regolava i vincoli di clientela e dipendenza.
2) La politica religiosa di Giustiniano...
❏ a) favorì la diffusione in tutto l’impero della dottrina ariana;
❏ b) fu caratterizzata dall’intransigenza cattolica;
❏ c) era tesa a favorire il ritorno ai vecchi culti pagani;
❏ d) era ispirata dal principio di tolleranza verso tutte le confessioni.
3) Per khanato si intende lo Stato governato...
❏ a) dagli Slavi nella regione balcanica;
❏ b) dai Vandali nel Nordafrica;
❏ c) dagli Àvari nella regione del Mar Nero;
❏ d) dai Longobardi in Pannonia.
4) Con papa Gregorio Magno...
❏ a) la Chiesa riannodò stretti legami con l’impero d’Oriente;
❏ b) la Chiesa strinse un patto indissolubile con i re longobardi;
❏ c) fu risolto il secolare dissidio tra cattolici e ariani;
❏ d) Roma e i suoi territori cominciarono a funzionare come Stato autonomo.
5) Il titolo di gastaldo si riferiva...
❏ a) al primo ministro che governava il regno franco;
❏ b) al comandante dei guerrieri domestici fedeli al re;
❏ c) all’ecclesiastico a capo delle piccole comunità cittadine;
❏ d) ai capi longobardi nominati dal re al governo delle province.
6) Nell’epoca dei regni romano-barbarici le città...
❏ a) vennero quasi del tutto abbandonate;
❏ b) videro ridursi il numero dei loro abitanti;
❏ c) conobbero un periodo di grande prosperità economica;
❏ d) rifiorirono grazie alle grandi opere di edilizia monumentale.
202
Parte VII Il mondo romano-barbarico
Le coordinate spazio-temporali
2. Completa le seguenti frasi con le informazioni mancanti, quindi ordinale cronologicamente e inserisci nella
linea del tempo le lettere corrispondenti, così come mostrato nell’esempio:
a) Il regno dei ............................................................. in Spagna fu travolto dall’invasione degli ............................................................., che sconfissero il re Rodrigo
e si impadronirono dell’intera .............................................................
b) Il generale bizantino ............................................................... invase l’Africa, sconfisse i .............................................................. e riportò sotto il controllo imperiale
l’intera regione nordafricana.
c) Teodorico, re degli ......................................................................., invase l’Italia e dopo una guerra, che si protrasse fino al
.................................................................., sconfisse e sostituì il re .............................................................
d) Alla morte del re Teodorico IV Carlo Martello, ........................................................................... del regno, non permise di incoronare un successore e governò
personalmente il ............................................................. fino alla sua morte.
e) Dopo una lunghissima guerra, terminata nel 553, l’imperatore bizantino ............................................................. sconfisse i
................................................................ e riportò sotto il controllo dell’impero i territori italiani.
f) Nella battaglia di .............................................................. il re franco ............................................................. sconfisse e sottomise gli Alamanni.
g) I .................................................................., guidati dal re Alboino e provenienti dalla ................................................................, invasero l’Italia spingendosi fino
alla .............................................................
h) La decisione dell’imperatore .................................................................. di abolire la Chiesa .................................................................... ebbe ripercussioni gravi per
i cattolici che vivevano sotto il re goto .............................................................
i) I Franchi guidati da ............................................................... sconfissero gli Arabi nella battaglia di .............................................................. e ne frenarono
l’avanzata in Europa.
j) Giustiniano decise di intraprendere la riconquista della ............................................................., ma la campagna si esaurì per
............................................................ e il regno visigoto sopravvisse.
a
489
533
496
493
524
535
732
568
553
554
711
737
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
203
Il confronto
3. Seguendo l’esempio fornito, indica con una crocetta a quale dei seguenti popoli barbari corrispondono le
informazioni elencate (attenzione! Alcune affermazioni possono valere per più di un popolo):
Franchi
Furono i primi a convertirsi in massa al cattolicesimo
Visigoti
Longobardi
x
Il loro era il regno più piccolo e più debole tra quelli romano-barbarici.
Il loro fu il regno nel quale l’amministrazione romana si conservò più a lungo.
Nel loro regno vigevano la Legge Salica e la Legge Ribuaria.
Nel VII secolo era il regno romano-barbarico territorialmente più unito.
Nel loro regno vi erano ancora divisioni tra ariani e cattolici.
La loro aristocrazia era piuttosto ricca.
Il loro re traeva risorse soprattutto dalle proprietà terriere appartenenti alla corona.
Con il termine mundio indicavano la tutela dei parenti maschi a cui erano sottoposte le donne.
Nel loro regno erano molto diffusi i legami di dipendenza e di clientela.
Il lessico
4. Collega i termini e le espressioni elencati alle definizioni corrispondenti:
Termini
Definizioni
a) Personalità del diritto:
1) Termine che indicava l’insieme dei consiglieri e dei collaboratori del re.
b) Conte:
2) L’uomo di fiducia a cui il re franco affidava il comando delle truppe e la conduzione degli affari.
c) Palatium:
3) Prova fisica a cui l’accusato veniva sottoposto, che rappresentava, a seconda dell’esito, il giudizio di Dio sulla
sua innocenza o colpevolezza.
d) Stagnazione:
4) Principio secondo il quale le leggi che si applicano sul territorio sono diverse a seconda del popolo a cui si
appartiene.
e) Ordalia:
5) Uomo di fiducia scelto dal re per governare una città o una provincia, che passava il potere per via
ereditaria.
f) Maggiordomo:
6) Legame clientelare che si stabiliva quando un uomo libero si metteva al sevizio e giurava fedeltà al re o a
un personaggio importante.
g) Commendatio:
7) L’esercizio della vendetta da parte della vittima di un reato o di esponenti della sua famiglia.
h) Morgengab:
8) Capo nominato dal re per governare una città o una provincia e che poteva essere sostituito a piacimento
del re.
i) Faida:
9) Il regalo che il marito longobardo faceva alla moglie il giorno dopo la prima notte di nozze, dopo aver
comprovato la verginità della donna.
j) Duca:
10) Situazione di tendenziale esaurimento della crescita economica.
204
Parte VII Il mondo romano-barbarico
5. Completa la tabella relativa alla composizione della società dei regni romano-barbarici inserendo le
informazioni mancanti:
Il re
Era percepito dal popolo come ............................................................................................ . Aveva intorno a sé consiglieri e
collaboratori, il ........................................................... .
I duchi e i conti
Esercitavano tutte le ........................................................... . Non svolgevano un servizio fisso di ............................................................ ,
ma prelevavano derrate a seconda delle necessità. Amministravano la giustizia ........................................................... .
L’aristocrazia
Basava la propria ricchezza sulla ......................................................................... . Rispetto all’antica aristocrazia senatoria romana
aveva ........................................................... .
Gli uomini liberi
Possedevano ................................................................. , pagavano le .................................................................... e potevano partecipare
alle guerre. Stringevano liberamente ........................................................... .
I liberti
Sebbene fossero stati liberati ............................................................ , erano vincolati .............................................................. . Questo
vincolo era ........................................................... .
I coloni
Erano obbligati dalla legge a ............................................................. e non potevano allontanarsi da .............................................................
in cui lavoravano senza permesso.
Gli schiavi
Continuavano a essere l’ultimo gradino della società, ma le loro condizioni ............................................................... anche grazie alla
Chiesa che li considerava ........................................................... .
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Nonostante i numerosi meriti, che bilancio è possibile fare del regno dell’imperatore Giustiniano?
2) Quali cambiamenti sono in atto tra VI e VIII secolo nella Chiesa, tanto al suo interno, quanto nei rapporti con il potere politico?
3) In che modo il cristianesimo fu influenzato dal contatto con la società romano-barbarica?
4) Il consolidamento dei regni barbarici segnò la scomparsa di ogni elemento della precedente civiltà romana? Perché?
5) In che modo era amministrata la giustizia in Occidente tra VI e VIII secolo?
6) Come si presentava l’Europa occidentale sotto il profilo economico, demografico e urbano?
Capitolo 17 I regni romano-barbarici
205
PARTE VIII
L’altra Roma
N
ei capitoli sul mondo romano-barbarico la nostra attenzione si è ristretta
all’orizzonte geografico dell’Occidente, soprattutto dopo la fine del regno di
Giustiniano, che nel VI secolo riuscì a riunificare per un breve periodo gran parte
dell’impero. Ma mentre in Occidente si avviava la fusione fra i popoli barbari, convertiti al cristianesimo, e le
popolazioni romane, la metà orientale e nordafricana dell’impero di Roma conobbe un destino
completamente diverso: o meglio, due destini, perché all’inizio del VII secolo, con le grandi invasioni arabe,
quel mondo si divise in due.
Una prima metà, rappresentata da Balcani, Grecia e
Anatolia, stretti attorno alla capitale Costantinopoli, la Seconda Roma, è
quella in cui l’impero sopravvisse. Sopravviverà ancora a lungo, molto oltre
la fine di questo manuale: Costantinopoli cadrà in mano ai “barbari”, che poi in
quel caso erano crociati francesi e italiani, solo nel 1204, e
poi una seconda volta, definitiva, nel 1453 (e stavolta i
conquistatori saranno i Turchi). Fino al 1453 gli
imperatori di Costantinopoli continueranno a definirsi
orgogliosamente col titolo di “imperatore dei
Romani”, anche se lo diranno in greco (basilèus
tòn rhomàion), i territori da loro governati saranno
conosciuti da tutti come “Romània”, e i popoli
cristiani dell’impero, compresi i Greci,
chiameranno sé stessi “Romani”. E a essere giusti
quello era davvero l’impero di Roma, o meglio ciò
che ne restava. Nei secoli si era trasformato,
com’era inevitabile, ed era diventato un
organismo diverso; sul piano culturale
aveva conservato l’eredità greca
della civiltà antica, assai
più di quella
latina; ma le
sue leggi
continuavano a essere quelle dell’impero romano, codificate da Giustiniano, e seguite con molta più
esattezza di quanto non accadesse nei regni romano-barbarici.
Da noi è invalso l’uso di chiamare quell’impero con un nome che i suoi abitanti non
avrebbero mai usato, “bizantino”, da “Bisanzio” che era l’antico nome di Costantinopoli. Per molto tempo, e
un po’ ancora nell’uso comune, l’aggettivo “bizantino” ha avuto una valenza negativa: indicava una civiltà
statica, estenuata, corrotta, priva di veri valori. Queste, diciamolo subito, sono tutte stupidaggini. Il mondo
bizantino era diverso da quello occidentale, e se ne allontanava sempre di più, anche e soprattutto sul piano
religioso, tanto che a un certo punto la Chiesa greca ruppe tutti i rapporti con la Chiesa latina; ma nel corso dei
secoli ebbe una storia gloriosa e produsse una complessa civiltà.
L’altra metà del mondo romano sopravvissuto alle invasioni barbariche venne strappata
a Costantinopoli con un’altra mutilazione, ancora più traumatica: nel corso del VII secolo l’intero Vicino
Oriente, l’Egitto e il Nordafrica vennero conquistati dagli Arabi musulmani. La nascita della religione
islamica a opera del profeta Maometto e le grandi conquiste arabe sono uno dei fatti più importanti della
storia, considerando che le loro conseguenze durano fino a oggi. Tutti quei paesi erano stati fino a quel
momento integrati nell’ecumene romana, ma a partire da allora ebbero una propria storia, separata da quella
dei paesi cristiani. Anche qui l’eredità dell’impero greco-romano non scomparve, anzi venne raccolta e
rielaborata dalla grande civiltà araba; si trattava però quasi esclusivamente della cultura greca, non di quella
latina. In questo senso anche l’impero creato dagli Arabi fu un’altra Roma, ma con differenze così profonde,
in particolare sul piano religioso, da diventare rapidamente irriconoscibili.
Capitolo 18
La nascita dell’islam
e le conquiste arabe
Tessuto copto con la
raffigurazione di Dioniso e
Iside
V sec.
Musée du Louvre, Parigi
Nell’Egitto cristiano le
maestraenze copte
riadattarono in chiave
puramente decorativa alcuni
elementi della mitologia
pagana di tradizioni
ellenistico-romana e anticoegiziana. Su questa stoffa,
per esempio, sono
raffigurati il dio greco
Dioniso e la dea egiziana
Iside.
208
1. Maometto
e la nascita dell’islam
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Un evento carico di conseguenze
La nascita della religione islamica e le grandi conquiste degli Arabi sono gli eventi più
importanti del VII secolo, e rappresentano una svolta decisiva nella storia del mondo. L’islam è la terza grande religione monoteista nata nel Vicino Oriente, dopo l’ebraismo e il
cristianesimo, e oggi è in competizione con quest’ultimo per la posizione di fede religiosa
più diffusa sulla Terra. La conquista araba del Vicino Oriente e del Nordafrica ha mutato
per sempre la geografia del mondo mediterraneo. Prima di allora quelle regioni erano state profondamente influenzate dalla cultura greca, assorbite nell’impero romano e convertite al cristianesimo: la storia di paesi come la Siria, l’Egitto o la Tunisia era inseparabile da
quella dei paesi europei che si affacciano sul
Mediterraneo, come l’Italia. La fulminea conquista araba, avvenuta nel corso del VII secolo, sottrasse quegli immensi territori all’impero
bizantino, trasformando quest’ultimo da grande potenza imperiale a potenza di medie dimensioni. Poi, non subito ma col passare delle
generazioni, trasformò la fede religiosa, la lingua e la civiltà delle popolazioni che vi abitavano: l’identità romano-ellenistica e cristiana
fu in gran parte cancellata e ad essa si sostituì
una nuova identità, araba e islamica. Da allora
la storia del Vicino Oriente, dell’Egitto e di
quello che con parola araba chiamiamo il Maghreb (letteralmente, ‘l’Occidente’), dalla Libia al Marocco, rimane sì legata da tanti vincoli alla storia dell’Europa, ma non è più “la stessa storia”, come era accaduto fino ad allora.
La conquista araba non investì solo il bacino
del Mediterraneo; si trattò in realtà di un fenomeno mondiale, nei termini del mondo antico.
Fra VII e VIII secolo gli Arabi costruirono un
impero immenso, che dalla Spagna e dal Ma-
Parte VIII L’altra Roma
rocco affacciati sull’Atlantico giungeva fino al Xinjiang, l’area più occidentale dell’impero
cinese, ancor oggi abitata da popolazioni musulmane. Per la prima volta nella storia un unico spazio politico riuniva mondo mediterraneo e mondo asiatico; la Siria e la Mesopotamia, che per secoli erano stati la zona di frontiera tra l’impero romano e quello sasanide, divennero ora il centro di un nuovo impero, arabo per lingua e islamico per religione.
Gli Arabi e le origini dell’islam
Tutto cominciò appunto con la nascita di una nuova religione in mezzo al popolo arabo.
Non si trattava di un popolo nuovo proveniente da chissà quale lontano orizzonte: da secoli gli Arabi vivevano nel Vicino Oriente. Originari della penisola arabica posta tra il Mar
Rosso e l’Oceano Indiano – e oggi divisa fra l’Arabia Saudita, lo Yemen, l’Oman e gli Emirati Arabi –, si erano diffusi verso la Giordania, la Siria e l’Iraq. I Romani li conoscevano
bene e in parte li avevano sottomessi: nel 106 Traiano aggiunse all’impero una nuova provincia chiamata appunto la provincia d’Arabia, e attorno a essa si formarono piccoli regni
arabi vassalli, gli Stati dei Ghassanidi e dei Lakhmidi. Gli Arabi che vivevano nell’orbita
di Roma subivano, come tutti i popoli del Mediterraneo orientale, l’influenza della cultura
ellenistica, e partecipavano alla vita dell’impero; nel III secolo ci fu addirittura un imperatore romano chiamato Filippo l’Arabo, perché era nato nella provincia d’Arabia e da una
famiglia di probabili origini arabe, anche se profondamente romanizzata. Come gli altri popoli dell’impero, anche quelli della provincia d’Arabia e dei piccoli regni circostanti si erano convertiti al cristianesimo.
Ma c’erano anche altri Arabi, che non erano sudditi o clienti dell’impero romano. Erano in gran parte nomadi, che vivevano nel deserto e obbedivano soltanto ai loro capi, alle-
Cesarea
Alessandria
Bosra
L’Arabia
preislamica
IMPERO
PERSIANO
Gerusalemme
Hira
Petra
Duma
GOLFO
PERSICO
Suk al-Kurn
Kaibar
Sūk Dubā
Hadjar
Medina (Yathrib)
Badr
Suhār
Yamama
al-Mashkār
¯
La penisola arabica è stata
sin dall’antichità al centro
di una intensa rete di
traffici commerciali con le
regioni mediterranee.
Spezie, oro, pietre
preziose costituivano le
principali ricchezze di una
regione il cui territorio è
in gran parrte desertico.
Ukaz
La Mecca
MAR
RO SSO
Nadjrān
Samharm
San’a
Zafar
Marib
Shabwa
Suk Hadhramaut
¯
HADHRAMAUT
Timna
YEMEN
OCEANO
INDIANO
Impero bizantino
Vie carovaniere
Principali città
al-Shihr
¯
Aden
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
209
Mano in bronzo
con dedica al dio
Ta’lab
II-III sec.
© The Trustees of the
British Museum, Londra
L’iscrizione incisa su
questo ex voto, redatta in
sabeo (una delle antiche
lingue semitiche parlate nel
Sud dell’Arabia), è una
dedica al dio Ta’lab.
Sebbene ben poco ancora si
conosca del variegato
pàntheon delle popolazioni
della penisola arabica in
epoca preislamica,
sappiamo che molte tribù
avevano le proprie divinità
e Ta’lab era una di queste.
Il suo culto principale aveva
luogo nel regno di Saba e
includeva il pellegrinaggio
annuale al tempio, seguito
da un pranzo rituale.
210
vando cammelli e dedicandosi al commercio e alle razzie. Nel loro territorio, infatti, passavano importantissime piste carovaniere, che collegavano il bacino mediterraneo col Mar
Rosso e l’Oceano Indiano. Erano organizzati in clan familiari; i clan si raggruppavano in
tribù, capeggiate ciascuna da uno sceicco, parola araba che significa ‘anziano’. Erano chiamati dagli altri Arabi col nome di Beduini (badawi), che significa appunto ‘abitanti del deserto’, e dai Romani col nome di Saraceni. I Romani stringevano accordi coi loro capi per
garantire la sicurezza delle piste carovaniere, e arruolavano fra loro dei
reggimenti di cavalleria ausiliaria, ma non li avevano mai sottomessi e li consideravano dei temibili selvaggi.
Fra i nomadi c’erano diverse tribù cristiane, ma si trattava d’una minoranza. Altre tribù praticavano la religione
ebraica; non sappiamo se fossero discendenti di clan
ebraici emigrati nella penisola arabica, o se fossero
Arabi convertiti anticamente al giudaismo. Ma la maggior parte dei Beduini era politeista: come tutti i popoli antichi, veneravano un gran numero di divinità.
Una di queste era Allah, dio potentissimo e misterioso,
che diversamente dagli altri dèi non poteva essere rappresentato da idoli; il suo nome aveva la stessa radice
di uno dei nomi di Dio in lingua ebraica, Elohim. Gli
Arabi convertiti al cristianesimo usavano – come usano ancor oggi – proprio il nome di Allah per indicare
il Dio cristiano.
Il principale centro di culto dei politeisti era la
Mecca, una città nel deserto in cui sorgeva un santuario chiamato la Kaaba (che significa ‘edificio a forma di cubo’). Oltre che centro religioso, la Mecca era
anche un grande luogo di scambio, dove approdavano
i mercanti dall’Oriente e dall’Occidente e dove si accumulavano cospicue ricchezze. Una volta all’anno
tutte le tribù del deserto si davano convegno alla Mecca, per compiere un pellegrinaggio al santuario, commerciare e cercare di risolvere con l’arbitrato le loro dispute.
Ovviamente gli abitanti della Mecca, e di altri centri urbani
nati nelle oasi del deserto, non erano nomadi: il mondo della
penisola arabica si fondava sulla coesistenza, non sempre facile, tra vita nomade del deserto e vita urbana sedentaria.
Proprio fra gli Arabi politeisti e sedentari della Mecca nacque nel 570 un uomo chiamato Muhammad, nome che è stato
italianizzato in Maometto. Già avanti negli anni, dal 610 Maometto cominciò ad avere delle visioni in cui Allah, per mezzo dell’arcangelo Gabriele, gli
rivelava d’essere l’unico dio, lo stesso che aveva già parlato, molto tempo prima, ai profeti
degli Ebrei, come Abramo e Mosé, e che poi aveva mandato sulla Terra Gesù Cristo. Ora
Dio voleva trasmettere agli uomini una nuova rivelazione, perché gli ebrei e i cristiani si erano allontanati dai suoi insegnamenti, avevano tradito l’Antico Testamento e il Vangelo, e non
seguivano più la vera religione: Maometto era l’ultimo e il più importante dei profeti, l’uomo scelto per ricevere la rivelazione definitiva. Nasceva così una nuova religione, l’islam:
Parte VIII L’altra Roma
il suo nome è una parola araba che significa ‘sottomissione a dio’, ed è strettamente collegata con
la parola salam, che vuol dire ‘pace’. I suoi fedeli vennero chiamati muslim, ‘praticanti dell’islam’, in italiano “musulmani”. Le rivelazioni
trasmesse da Maometto ai suoi discepoli, un po’
per volta nell’arco di tutta la sua vita, vennero
dapprima tramandate a memoria, o trascritte in
forma parziale; solo dopo la morte del profeta furono raccolte tutte in un libro sacro, il Corano.
1. Da chi era abitata la penisola arabica intorno
al VII secolo? Qual era la religione
maggioritaria? 2. Come nacque la religione
islamica?
2. La lotta per imporre l’islam
e la nascita del jihad
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Dalla predicazione alla lotta armata
La predicazione di Maometto radunò subito intorno a lui un nutrito gruppo di seguaci, ma
suscitò anche violente opposizioni. Il culto degli antichi dèi arabi era ancora forte fra i nomadi; inoltre, i potenti capiclan che dominavano alla Mecca temevano che l’abbandono dei
culti tradizionali danneggiasse gli interessi del santuario. La più forte di tutte le tribù, i Quraysh, che aveva la custodia della Kaaba e a cui apparteneva lo stesso Maometto, si schierò
contro di lui e cercò di impedire con la violenza la diffusione del nuovo culto. Nel 622 Maometto fu costretto a fuggire dalla Mecca e riparò insieme a tutti i suoi fedeli nella città di
Medina; questo evento cruciale, chiamato in arabo hijra cioè ‘emigrazione’, ‘esodo’, è considerato il vero atto di nascita della religione islamica. Il calendario islamico conta gli anni a partire da questa data, che noi, italianizzando la parola araba, chiamiamo “ègira”.
Di fronte all’opposizione violenta suscitata dalla sua predicazione, Maometto non scelse la strada della non-violenza o addirittura del martirio; scelse invece la lotta armata. Ai
suoi seguaci impose di sguainare la spada, dichiarando che ci sono momenti in cui il credente dev’essere pronto a combattere per il trionfo della vera fede. Entrò così nella religione islamica una dimensione fiera e bellicosa: il termine jihad, che indica lo ‘sforzo’ compiuto per soddisfare la volontà di Dio, cominciò a essere interpretato soprattutto in senso
guerriero. Questa accezione bellicosa è espressa nella frase «il jihad sulla via di Dio», che
noi spesso traduciamo col concetto cristiano di “guerra santa”. Il Corano non considera il
jihad come un obbligo per i fedeli, ma li esorta a combattere ogni volta che l’islam è minacciato, e a continuare la lotta fino alla vittoria e alla resa dei nemici; solo chi si arrende
dev’essere risparmiato. Nella storia del mondo islamico, il concetto di jihad è stato spesso
lasciato da parte e quasi dimenticato, soprattutto nei periodi in cui i paesi musulmani erano prosperi e non si sentivano minacciati da nessuno [cfr. scheda, p. 212]. Invece, nei mo-
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Pagina del Corano in
scrittura cufica
VII-VIII sec.
Biblioteca Regale di Rabat,
Marocco
Gli esemplari più antichi del
Corano furono spesso
realizzati su codici di ridotte
dimensioni, di formato
orizzontale e utilizzando i
caratteri della scrittura
cufica (dal nome della città
di Kufa in Iraq dove si
crede abbia avuto origine
questo stile). In questo
manoscritto, proveniente
forse da Medina, il titolo
della sura è tracciato in oro
come la banda sottostante
che termina con un disegno
floreale.
211
Il jihad nel Corano
Cosa dice il Corano sul jihad, che noi traduciamo di solito con
‘guerra santa’? I riferimenti al diritto di combattere per legittima
difesa sono frequenti nei 114 capitoli, detti sure, in cui è diviso
il libro sacro. Per esempio, nella sura XXII si legge: «È stato dato il permesso di reagire a quelli che vengono attaccati, poiché
essi subiscono violenza e certamente Dio li può soccorrere. Hanno il permesso di reagire quelli che sono stati scacciati dalle loro dimore senza diritto, solo perché dicevano “il nostro Signore
è Dio”. Dio aiuterà certamente chi aiuterà lui; Dio è forte e potente». Qui si afferma che la guerra è legittima, e che Dio aiuta
chi combatte, ma solo in una circostanza specifica, quando cioè
si è aggrediti per la propria fede religiosa.
Ma l’espressione «jihad sulla via di Dio», che si riferisce specificamente alla guerra in difesa della fede islamica, ricorre solo
raramente nel Corano. La teorizzazione più ampia è forse quella contenuta nella sura II. «Combattete nella via di Dio contro
coloro che vi faranno la guerra; però non eccedete, poiché Dio
non ama quelli che eccedono». Dopo questo invito alla moderazione, però, il Corano prosegue dichiarando che se gli infedeli
attaccano i credenti, bisogna ucciderli; e se conquistano territori islamici, bisogna riconquistarli a ogni costo. Quest’ultimo precetto è molto importante per capire certi drammi del mondo
d’oggi, come lo scontro fra israeliani e palestinesi per il possesso della Palestina e della
città santa di Gerusalemme, o la resistenza
dei ribelli – che si considerano mujahiddin, ‘praticanti del jihad’ – contro le recenti occupazioni militari occidentali in
Iraq e Afghanistan.
Il Corano non afferma
mai che combattere è un
obbligo per tutti i credenti, anzi c’è addirittura un passo, nella sura
XLVII, in cui si dichiara
che non sarebbe stato
giusto imporre quest’obbligo. «Dicono quelli
che credono: perché non
è stata fatta scendere una
sura che ordini la guerra?». Il Corano prosegue
osservando che «se fosse stata fatta scendere
una sura precisa e fosse
stata comandata in essa
la guerra» si sarebbe
creato il panico fra i credenti, perché molti sono
troppo deboli per combattere, e Dio non vuole
metterli in difficoltà ordinando la guerra. Sono
212
Parte VIII L’altra Roma
le autorità musulmane in questo mondo che possono ordinarla, e
i fedeli devono sapersi orientare a seconda del caso.
Ma c’è ancora un altro luogo, forse il più sorprendente, in cui si
parla del jihad, ed è ancora nella sura II. Qui il Corano giustifica
il concetto di jihad richiamando addirittura un passo della Bibbia,
I Samuele 8. Come avviene anche in altri passi del Corano, il racconto della Bibbia è ripreso in forma semplificata e abbreviata. Si
racconta che gli ebrei erano stati governati dal profeta Samuele,
il quale però non aveva voluto farsi re; ma quando il profeta si avvicina alla morte, gli ebrei gli chiedono di designare un re. Samuele li avverte che non sanno cosa vuol dire obbedire a un re,
che prenderà i loro figli per condurli in guerra, ma gli ebrei ribattono: noi vogliamo essere un popolo come tutti gli altri, avremo
un re che ci governerà, che uscirà alla testa dei nostri soldati e
combatterà le nostre battaglie. Samuele si rivolge a Dio e col suo
permesso designa un re, Saul, il quale infatti conduce gli ebrei in
guerra contro i loro nemici, i Filistei; durante la battaglia avviene un episodio famoso, il combattimento del ragazzo ebreo Davide contro il gigante Golia. Ebbene, per il Corano l’idea del jihad
trova sostegno proprio in questo episodio della Bibbia: è la Bibbia a dimostrare che i credenti devono combattere i loro nemici,
e che Dio è d’accordo. Insomma, quel concetto di jihad che oggi
è sbandierato dai gruppi islamici integralisti, e che giustamente
spaventa l’Occidente,
nasce in realtà in quella
stessa tradizione biblica
in cui affonda le sue radici anche il cristianesimo;
e questo è un bel paradosso!
Guerrieri musulmani
XI sec.
Museo di Arte Islamica, Il
Cairo, Egitto
Su questa stoffa di epoca
fatimide sono rappresentati
un cavaliere (al centro) e
quattro guerrieri
musulmani. Furono diverse
le sette islamiche che
scelsero di adottare la lotta
armata come strumento per
dimostrare in maniera
drastica e oltranzista la
propria fede.
menti in cui l’islam si è sentito sotto attacco – per
esempio nel Medioevo, all’epoca delle Crociate
dell’Occidente cristiano contro l’Oriente musulmano, e poi di nuovo fra Ottocento e Novecento,
all’epoca in cui le potenze coloniali europee dominavano i paesi arabi – l’esortazione al jihad è
tornata a risuonare potente fra i musulmani.
La lotta fra Maometto, diventato ormai il capo
politico e militare di una vasta comunità di fedeli, e i clan della Mecca che rimanevano attaccati
al politeismo tradizionale cominciò con ripetuti
attacchi dei musulmani alle carovane dirette alla
Mecca, e si concluse nel 630 con la completa vittoria del profeta, che entrò trionfalmente nella
città santa. Maometto decise che il luogo sacro
degli Arabi politeisti doveva diventare il luogo
sacro della nuova religione, e che la Kaaba doveva essere purificata dagli idoli e consacrata ad Allah; e in questo modo diede all’islam una
capitale spirituale, che coincideva con il luogo più ricco e frequentato del mondo arabo.
Maometto e le altre religioni
A partire da allora quasi tutte le tribù si convertirono alla nuova fede e il politeismo tradizionale venne sradicato; l’islam ha infatti un tale orrore del politeismo, che non considera possibile la coesistenza pacifica con i politeisti. Alla sua morte, nel 632, Maometto era il capo
indiscusso di gran parte degli abitanti della penisola arabica; tanto i sedentari delle città come la Mecca e Medina quanto i nomadi del deserto, trasformati ufficialmente nella ‘comunità
dei credenti’ (in arabo, umma), erano obbligati a pagare un tributo, ed erano governati da un’unica legge, quella trasmessa dalle rivelazioni divine al profeta, la sharia. Durante la vita di
Maometto la diffusione dell’islam non incontrò soltanto l’opposizione dei politeisti, ma dovette confrontarsi anche con le tribù arabe che praticavano il cristianesimo e l’ebraismo. Nei
loro confronti Maometto aveva una posizione oscillante, che si riflette nel Corano. Riconosceva infatti che anche cristiani ed ebrei adorano il vero Dio e hanno ricevuto una rivelazione per mezzo dei profeti; sono, come i musulmani, gente del Libro, con cui è possibile convivere. Ma nel momento in cui cristiani ed ebrei minacciavano l’islam, o semplicemente non
ne riconoscevano la superiorità, il profeta dichiarò che anch’essi dovevano essere combattuti e sottomessi. In questa duplicità sta la chiave della tolleranza che nella storia, fino a tempi recenti, le potenze musulmane hanno sempre dimostrato nei confronti di cristiani ed ebrei:
sotto il dominio musulmano essi potevano conservare la loro religione, e le loro chiese potevano funzionare regolarmente, ma il limite di quella “tolleranza” – che infatti scriviamo fra
virgolette – è che erano comunque trattati come sudditi di seconda classe, e considerati inferiori ai musulmani [cfr. cittadinanza, pp. 238 sg.].
Veduta attuale della Mecca
©Abbas/Magnum/Contrasto
Il più importante santuario
della Mecca è la Kaaba, un
edificio cubico (lungo circa
12 metri, largo 10 e alto 15)
privo di finestre e ricoperto
completamente da un
drappo di seta nera.
All’interno della Kaaba è
custodita la Pietra Nera, una
roccia meteoritica di medie
dimensioni (30 centimetri di
larghezza e 40 di altezza)
venerata già in epoca
preislamica.
1. Che effetto sortirono le predicazioni di Maometto alla Mecca? 2. Che rapporti stabilì l’islam con
ebraismo e cristianesimo?
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
213
3. Le lotte per la successione
di Maometto e il califfato
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
I califfi, successori del profeta
La Grande Moschea
omayyade di Damasco
(Siria)
706-714/5
La Grande Moschea di
Damasco sorge su un
antichissimo luogo di culto,
che subì nei millenni
numerose trasformazioni
passando da tempio
amorreo a basilica cristiana
e infine, quando la città
divenne capitale
musulmana, a moschea. Gli
Omayyadi avviarono una
poderosa opera di
monumentalizzazione, come
dimostrano i tre minareti
disposti lungo il recinto
sacro e la grande cupola del
santuario.
214
Dopo la morte di Maometto nel 632, la comunità islamica attraversò una grave crisi. Parecchie tribù nomadi dichiararono di non voler più obbedire ai successori di Maometto né
pagar loro il tributo, perché la loro sottomissione era stata un patto personale col profeta;
ne nacque una rivolta che i cronisti arabi chiamano la ridda, “l’apostasia” (cioè l’atto di rinnegare la propria fede), e che fu sedata solo con difficoltà dai capi musulmani. L’altro grande problema, che suscitò violenti scontri fra i seguaci di Maometto, fu proprio quello di stabilire chi dovesse essere a capo dell’islam. Nessuno dopo di lui poteva più chiamarsi “profeta”, perché dal Corano risultava chiaramente che la rivelazione trasmessa a Maometto era
l’ultima e definitiva. Abu Bakr, suocero e stretto collaboratore di Maometto, venne riconosciuto come capo dalla maggioranza delle tribù, e assunse il titolo di califfo, che in arabo
può significare ‘il successore’ (del profeta) o ‘il rappresentante’ (di Dio sulla Terra).
La scelta suscitò l’opposizione di una minoranza che avrebbe preferito trasmettere il potere al parente più prossimo del profeta, suo cugino Alì. Morto di lì a poco Abu Bakr, altri
due compagni di Maometto, Omar (634-644) e poi Uthman (644-656), vennero eletti califfi; il quarto califfo fu proprio Alì, che però dovette affrontare la ribellione di un importante capo militare, Muawiya. Il suo regno coincise con una vera e propria guerra civile, che
Parte VIII L’altra Roma
gli storici chiamano la Prima guerra civile araba. Nel 661 Alì fu assassinato; con lui finisce la prima fase nella storia del califfato, l’epoca dei primi quattro califfi, passati alla
tradizione come i califfi ben guidati. Con la morte di Alì il califfato andò a Muawiya, che
riuscì poi a trasmetterlo ai propri discendenti, rendendo ereditaria anziché elettiva la successione al potere. Nasceva così la dinastia degli Omayyadi (dal nome del clan di
Muawiya, i Banu Umayya), che rimase al potere fino al 750. Muawiya trasferì la capitale
da Medina – dove i primi quattro califfi avevano mantenuto la sede del potere politico, mentre la Mecca era il centro religioso dell’islam – a Damasco, in Siria.
La spaccatura religiosa: sunniti e sciiti
Le lotte per la successione di Maometto produssero una spaccatura religiosa nella comunità musulmana. I sostenitori di Alì non riconobbero la legittimità degli altri califfi: secondo
loro Alì era stato l’unico califfo veramente legittimo, e il potere spettava ai suoi discendenti.
Così il mondo islamico si divise in due, con una maggioranza che riconosceva il califfo in carica e una minoranza ribelle e dissidente. Questa spaccatura è durata fino ai nostri giorni, anche se oggi il califfo non esiste più: i discendenti della maggioranza sono i musulmani sunniti, un termine che significa all’incirca seguaci della tradizione; i discendenti della minoranza, presenti soprattutto in Iran e Iraq, sono gli sciiti, dall’espressione shi’at Ali, il partito
di Alì. Mentre le grandi spaccature del mondo cristiano – fra cattolici e ariani, per esempio,
oppure fra cattolici e protestanti – si fondano su divergenze teologiche e una diversa interpretazione dei dogmi e dei riti, la principale spaccatura del mondo islamico ha dunque a che
fare con la storia di quell’epoca remota e con la legittimità del potere sulla comunità.
1. Quali problemi dovette affrontare la comunità islamica alla morte del profeta? 2. Qual era la natura
della divisione tra sunniti e sciiti?
4. Le grandi conquiste arabe
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
L’inarrestabile espansione con i primi califfi
I successori di Maometto non erano più soltanto i capi di un turbolento insieme di clan arabi
convertiti alla nuova religione. Il califfo governava un immenso impero, nato da grandi conquiste. Al suo interno l’Arabia vera e propria divenne marginale, anche se le città sante della Mecca e di Medina – dove si trova la tomba di Maometto – rimasero i centri più sacri dell’islam.
Sotto i primi califfi fu completata la sottomissione di tutte le tribù dell’Arabia, fino ai
lontani Yemen e Oman, costringendo anche le più recalcitranti ad abbandonare il politeismo e pagare il tributo al califfo. A questo punto gli Arabi del deserto, riuniti in un unico
popolo, ricchi per i floridi commerci di cui avevano il controllo, bellicosi per tradizione e
ora anche infiammati di entusiasmo religioso, cominciarono ad attaccare le grandi potenze
confinanti. Erano due, da secoli rivali fra loro: a nord-ovest l’impero bizantino, erede dell’impero romano d’Oriente; a nord-est l’impero persiano dei Sasanidi, che dominava gli attuali Iraq, Iran e Afghanistan. Fra i due una terza potenza, il regno cristiano d’Armenia,
controllava vasti territori fra l’Anatolia e il Caucaso, ma era quasi sempre assoggettata all’influenza bizantina o sasanide.
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
215
All’inizio del VII secolo l’imperatore sasanide
Cosroe aveva assestato un colpo terribile all’impero
bizantino, conquistando la Siria, la Palestina e l’Egitto; ma la controffensiva bizantina, organizzata dal
grande imperatore Eraclio (610-641; cfr. cap. 19.1),
aveva riconquistato tutti quei territori, riportando la
frontiera fino alla Mesopotamia e indebolendo in
modo decisivo le forze dei Sasanidi. Le truppe bizantine conquistarono addirittura la capitale sasanide, Ctesifonte. Pareva dunque che gli eredi dell’impero romano d’Oriente fossero sul punto di trionfare
sull’antico nemico persiano, quando la situazione
cambiò drammaticamente. Nei vent’anni di comando
dei primi tre califfi, dal 632 al 656, entrambi gli imperi vennero aggrediti dagli Arabi e subirono devastanti sconfitte.
Sul fronte bizantino, il primo obiettivo fu l’invasione della Siria, cui si accompagnò la liquidazione
dei piccoli regni arabi cristiani che sorgevano fra
questa provincia e la penisola arabica. Grazie anche
alla loro superiore mobilità nel deserto, e alla capacità di sopravvivere a lungo con poca acqua e cibo, le
forze arabe, benché spesso inferiori di numero, sorpresero e sconfissero una dopo l’altra le guarnigioni
bizantine. L’imperatore Eraclio radunò un grande
L’investitura del re Cosroe II
VII sec.
Montagne di Taq-i Bostan, Iran
Tra il III e il VII secolo d.C. nel cuore dei Monti Zagros, in località Taq-i
Bostan (Iran occidentale), fu scolpita una serie di rilievi per esaltare il potere
regale dei sovrani sasanidi. In questa grotta è illustrata in alto l’investitura del
re Cosroe II e in basso lo stesso sovrano, armato alla maniera persiana, che
monta il suo cavallo.
L’espansione
dell’islam tra VII
e VIII secolo
Talas 751
Lago
d’Aral
Buchara 712
REGNO
DEI
FRANCHI
AR
PIO
MAR NERO
REGNO
D’ARMENIA
Tig
ri
678
Siviglia
IMPERO BIZANTINO
Antiochia Eufra
te
Siffin 657
Cartagine
Tāhūda 683
MA
R
Kairuan
Rodi 654
MED
ITE
MAGHREB
RRANEO
Alessandria
Baghdad
Kerbela
Damasco
Kufa
Yarmuk 636
Gerusalemme
IMPERO
PERSIANO
Bassora
GOLF
O
PERS
ICO
IND
I
Cordova
Granada
Jerez 711
Gibilterra
Tripoli
LIBIA
EGITTO
Medina
ARABIA
Badr 624
Jerez 711
216
La Mecca
M
L’islam nel 632
(morte di Maometto)
Dal 632 al 661
(califfato elettivo)
Dal 661 al 750
(califfato omayyade)
Battaglie principali
AR
RO
SS
O
Nilo
Parte VIII L’altra Roma
ANO
Roma
ANO
Costantinopoli
OCE
Danubio
725
Toledo
Kabul
CA
S
do
Poitiers 732
M
In
OCEANO
ATLANTICO
esercito e tentò la riconquista dei territori siriani, ma gli Arabi gli inflissero una sconfitta
decisiva nel 636 alla battaglia del fiume Yarmuk. Dopo questo disastro, paragonabile a
quello di Adrianopoli del 378, l’impero non riuscì più a reagire e gli eserciti arabi dilagarono verso occidente, conquistando non solo la Siria e la Palestina, ma entro il 646 anche
l’Egitto e poco dopo l’isola di Cipro.
L’impero bizantino perse così in pochi anni province che per sette secoli erano state fra
le più ricche dell’impero romano; tre fra le più importanti sedi patriarcali cristiane, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, caddero sotto il dominio arabo. La rapidità della conquista si spiega anche con l’atteggiamento delle popolazioni e delle Chiese locali, che odiavano il dominio bizantino per la sua opprimente fiscalità, e che in maggioranza seguivano una
variante del cristianesimo, il monofisismo, disapprovata e perseguitata dal governo imperiale: perciò si adattarono senza resistenza alla nuova dominazione (ci torneremo nel par.
10). Molte città negoziarono con gli invasori e aprirono loro le porte, dopo aver ottenuto garanzie di un trattamento di favore; in Egitto la Chiesa copta collaborò attivamente con i conquistatori e pregò per il loro successo. L’amministrazione bizantina di quei vastissimi territori, col suo personale greco, continuò a lavorare per conto dei nuovi dominatori.
La disfatta dell’impero sasanide, già messo in ginocchio dalle vittorie di Eraclio, fu ancora più completa. Già nel 637 gli Arabi sconfissero disastrosamente gli eserciti persiani e
occuparono l’attuale Iraq, abitato da popolazioni in parte arabe, di religione cristiano-nestoriana o ebraica, che non si opposero all’invasione; i nestoriani, anzi, spesso perseguitati dai Sasanidi, l’accolsero con entusiasmo. L’offensiva proseguì poi in direzione del Mar
Caspio e dell’Iran, cuore dello Stato persiano, finché nel 651 l’ultimo imperatore sasanide
fu assassinato in Asia Centrale, mettendo fine alla dinastia e all’impero. L’intera Mesopotamia e il mondo persiano, con la sua ricchissima tradizione culturale, vennero assorbiti
nell’impero arabo-islamico, anche se l’Iran mantenne, e ha mantenuto fino a oggi, la sua
lingua del tutto diversa dall’arabo, e una propria cultura nazionale.
L’avanzata omayyade
La Prima guerra civile, coincidente con il califfato di Alì, segnò una sosta nell’espansione degli Arabi; è degno di nota che l’impero bizantino, abbattuto dai disastri degli anni
precedenti, non ne approfittò per lanciare una controffensiva, e le popolazioni dei territori
già conquistati non ne approfittarono per ribellarsi. Il califfo Muawiya, al potere dal 661 al
680, dovette combattere diverse ribellioni di oppositori, ma questo non gli impedì di allargare ancor più le conquiste arabe. I suoi generali completarono la conquista dei territori
orientali dell’ex impero sasanide, spingendosi fino all’Afghanistan, invasero l’Armenia e
il Caucaso, e strapparono ai bizantini parte dell’Asia Minore. Gli Arabi erano diventati anche una potenza navale, che contendeva ai Bizantini il dominio del Mediterraneo, e nel 674
Muawiya arrivò addirittura ad assediare Costantinopoli dalla terra e dal mare: l’assedio
durò ben quattro anni, anche se si concluse con la completa vittoria dei Bizantini.
Ma l’invasione più devastante fu quella lanciata nel 665 dall’Egitto verso il Nordafrica bizantino, che nel giro di qualche anno vide gli eserciti arabi arrivare all’Oceano Atlantico. L’ostacolo principale non furono tanto le guarnigioni bizantine, che controllavano solo le città costiere e il loro entroterra, quanto le tribù berbere, che erano praticamente indipendenti dal governo di Costantinopoli, e furono l’unica popolazione, insieme agli Armeni, che tentò seriamente di resistere alla conquista araba.
Ribellioni dei Berberi, controffensive bizantine, insurrezioni di generali, e infine la Seconda guerra civile tra gli aspiranti al califfato, scoppiata alla morte di Muawiya e durata
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
217
Un cronista siriano racconta
la conquista araba
[da The Seventh Century in the West-Syrian Chronicles, a cura di
A. Palmer, Liverpool University Press, Liverpool 1993; trad. a cura
degli autori]
Dionisio di Tel-Mahre, patriarca monofisita di
Damasco dall’818 all’845, è il più importante cronista
in lingua siriaca. Nella sua cronaca il racconto
dell’invasione della Siria da parte degli Arabi
avvenuta quasi due secoli prima è fondato su fonti
sia arabe sia greche, ma è palesemente favorevole
agli Arabi e ostile ai Bizantini, che dopo la condanna
del monofisismo al Concilio di Calcedonia del 451
avevano abbandonato, agli occhi di Dionisio, la vera
religione.
La
voce
PA
SSA
TO
del
Coll’aiuto di Dio torniamo a Damasco e raccontiamo come questa e le altre città vennero sottratte ai Romani.
Vedendo che gli Arabi erano decisi a conquistare la città,
e che nessuno poteva salvarli, gli abitanti di Damasco
persero coraggio e la voglia di combattere li abbandonò. Si arresero a certe condizioni dopo aver ricevuto
da Khalid bin al-Walid1 il giuramento che le loro leggi
sarebbero state rispettate; e Khalid ordinò di redigere un
trattato che rispettava tutti i loro desideri. Così essi stessi aprirono la città agli Arabi; anche se dal lato occidentale uno degli emiri arabi sopraffece i difensori ed entrò
a forza da una delle porte, così che in un certo senso Damasco fu anche presa con la spada. Tuttavia Khalid bin
al-Walid confermò il trattato e le garanzie che aveva giurato e comprese gli abitanti fra quelli che pagano il tributo. Il mediatore di questo accordo fu il diacono2 Giovanni, figlio di Sargun, anche lui di Damasco, che era
amato e ben conosciuto fra gli Arabi.
Quando Eraclio seppe queste notizie, radunò più di
300.000 soldati dall’Armenia, la Siria e il paese dei Romani. Gli Arabi ebbero paura di affrontarli e pensarono
addirittura di abbandonare le città che avevano conquistato con tanta fatica e ritornare nel loro paese. Tennero consiglio e il senso di quello che si dissero fu questo:
«Come possiamo abbandonare un paese così ricco? Se
lo facciamo, una cosa è certa: non la riprenderemo mai
più. Faremmo meglio ad affrontare i Romani, dopo tutto». Abu Ubayda, che Omar aveva posto al comando
degli Arabi, ordinò di restituire il tributo pagato da quelli di Damasco. Agli abitanti disse: «Se torniamo vincitori
lo riprenderemo indietro. Ma se siamo sconfitti e ci dimostriamo incapaci di salvarvi dai Romani, ecco qua il
Parte VIII L’altra Roma
Scontro tra Arabi e Bizantini
XI-XII sec.
Miniatura dalla Cronaca di Scilitze; Biblioteca Nazionale
di Madrid, Spagna
Gli scontri tra gli Arabi e l’esercito imperiale di Bisanzio,
iniziati nel VII secolo, si protrassero fino al XII secolo. I
due schieramenti si affrontarono ripetutamente, come
mostra questa miniatura che impreziosiva l’opera dello
storico Giovanni Scilitze.
vostro tributo: tenetelo! Noi, da parte nostra, saremo
sciolti dal giuramento che vi abbiamo prestato».
Così gli Arabi lasciarono Damasco e piantarono il campo
al fiume Yarmuk. Mentre i Romani marciavano verso il
campo arabo, ogni città e villaggio che si era arreso agli
Arabi urlava minacce contro di loro. Quanto ai crimini
commessi dai Romani sul loro passaggio, sono indicibili,
e così scandalosi che non bisogna neppure ricordarli3 [...].
Gli Arabi tornarono a Damasco, orgogliosi per la loro
grande vittoria, e gli abitanti di Damasco li accolsero
fuori dalla città e diedero loro gioiosamente il benvenuto, e i trattati e le garanzie vennero confermati. Eraclio era ad Antiochia quando la notizia gli fu portata.
Neppure uno dei suoi soldati era sopravvissuto per raccontarlo. Il messaggero era un Arabo cristiano. A questa notizia Eraclio lasciò la Siria con gran dolore per Costantinopoli. Raccontano che mentre partiva abbia detto «Addio, Siria», come se disperasse di rivederla.
1. Khalid bin al-Walid: uno dei compagni di Maometto, nato nel 592
e deceduto nel 642, protagonista di molte importanti campagne di
conquista arabe.
2. diacono: nella Chiesa cattolica, il diacono può amministrare il battesimo e l’eucarestia, predicare, assistere il sacerdote nella messa leggendo il Vangelo.
3. Segue il racconto della battaglia, che si conclude con la sconfitta dei
Romani.
dal 680 al 692, rallentarono la pacificazione definitiva del Nordafrica, che tuttavia era conclusa entro il 700.
A questo punto gli Arabi erano pronti per l’ultima ondata delle loro conquiste. La prima direzione fu quella asiatica. Nel 711 si spinsero a oriente fino alla valle dell’Indo, l’attuale Pakistan, conquistando il grande regno indù
del Sind; di lì estesero la loro influenza verso le steppe dell’Asia centrale, abitate dai nomadi turchi, che cominciarono a convertirsi all’islam. L’espansione in Asia portò gli Arabi a scontrarsi addirittura con la Cina
della dinastia Tang, che tentò di contendere loro il predominio sull’immenso paese delle steppe. Nel 751 un esercito cinese d’invasione subì una sconfitta decisiva alla battaglia del fiume Talas, fra gli
attuali Kazakistan e Kirghizistan; questa vittoria consolidò definitivamente il predominio arabo e islamico su gran parte dei regni e
delle tribù nomadi dell’Asia centrale.
Un secondo obiettivo fu il cuore dell’impero bizantino, che pareva sul
punto di disgregarsi – anche per la concomitante penetrazione nei Balcani delle popolazioni slave e di un nuovo popolo nomade delle steppe,
i Bulgari – ma che si rivelò un osso più duro del previsto. Nel 717 gli
Arabi si spinsero fino a Costantinopoli e la misero nuovamente sotto
assedio, ma anche questa volta le poderose mura della capitale imperiale resistettero e il califfo dovette rinunciare al sogno di impadronirsene.
Dal punto di vista della storia d’Europa però la direttrice di espansione più importante fu la terza, quella verso la penisola iberica, che per la
prima volta portò gli Arabi a confrontarsi col mondo romano-barbarico e
con i cristiani di rito latino. Nel 711 il generale Tariq, un ex schiavo berbero convertito all’islam, passò lo stretto di Gibilterra con un esercito composto di Arabi e Berberi e invase la Spagna. Il re goto
Rodrigo venne sconfitto e ucciso in battaglia, e il regno crollò;
solo nella parte settentrionale della Spagna i capi cristiani riuscirono a conservare il potere, mentre tre quarti della penisola
iberica cadevano sotto il dominio del califfo omayyade. Nasceva
così la Spagna araba, chiamata in arabo al-Andalus: un nome che
deriva dall’antica presenza dei Vandali, e che si è conservato nell’odierna regione dell’Andalusia. Gli Arabi si spinsero fin nel regno franco, ma furono sconfitti a Poitiers nel 732 e
definitivamente respinti [cfr. cap. 17.4].
Statuina di guerriero
cinese
VII sec.
Dalla tomba di Zheng
Rentai, Liquan (provincia di
Shaanxi, Cina); Museo
Nazionale, Pechino
Questa statuina in
terracotta invetriata,
realizzata durante la
dinastia Tang,
raffigura un
guerriero cinese
dotato di un ricco
equipaggiamento
militare
costituito da
elmo, corazza
con pettorale,
cintura e lunga
gonna che ricopre
gli stivali. Nella
mano destra
doveva essere
inserita un’arma,
che non si è
conservata.
Le conseguenze dell’espansione araba
Le conquiste arabe trasformarono in modo decisivo gli equilibri geopolitici del mondo;
e non parliamo solo del bacino mediterraneo, ma di tutto il continente eurasiatico. L’impero bizantino sopravvisse, ma da allora in poi non fu più una grande potenza: la perdita del
Vicino Oriente e del Nordafrica lo privò delle sue maggiori risorse economiche, e l’impero
si ridusse a parte dei Balcani e dell’Anatolia. Le sconfitte subite provocarono grandi trasformazioni nello Stato bizantino, che riorganizzò la sua amministrazione e il suo esercito
per difendersi meglio dalle aggressioni. Così facendo, l’impero si rafforzò, ma diventò sempre più diverso da quell’impero romano di cui pure era il discendente, e di cui continuava
ufficialmente a portare il nome (parleremo di queste trasformazioni nel cap. 19).
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
219
Coppa delle suonatrici
VII sec.
Museo di Teheran, Iran
Questo vaso d’argento,
inciso e incrostato di pietre,
è uno dei capolavori
dell’arte sasanide. Ritrovato
nell’Iran settentrionale, a
Mazandaran, presenta
all’esterno una decorazione
incisa con quattro ragazze
intente a suonare sotto tralci
di vite. Nel particolare una
muscista suona uno
strumento a fiato a cinque
canne.
Altrettanto importante in prospettiva mondiale fu la
scomparsa dell’impero sasanide. Per mille anni, dagli Achemenidi ai Parti ai Sasanidi, un grande impero iranico aveva dominato dalla Mesopotamia all’India, facendo sentire la sua influenza da una parte fino al Mediterraneo, dall’altra fino all’Asia Centrale, e sfidando la
supremazia mondiale di Roma. Ora tutta
quell’area era dominata dagli Arabi e assorbita in un impero ancora più esteso,
che arrivava dall’India ai Pirenei; mentre
le popolazioni locali, via via che si convertivano all’islam, entravano a far parte
di una comunità che si proponeva di espandersi in tutto il mondo.
La spettacolare affermazione dell’islam ebbe anche un’ultima importantissima conseguenza
storica: un decisivo spostamento di equilibri fra le
Chiese cristiane. Le maggiori Chiese orientali, di lingua
greca, siriana, copta, armena, avevano operato finora entro il
quadro dell’impero romano e non avevano nessun sentimento di inferiorità nei confronti delle Chiese occidentali di lingua latina e della loro sede più importante, Roma. La conquista araba non significò affatto la scomparsa di quelle Chiese, che
sono sopravvissute fino ad oggi; ma vivendo sotto dominio musulmano esse persero col
tempo gran parte dei loro fedeli, perché la conversione all’islam esercitava una grande attrattiva, e rimasero isolate rispetto al resto del mondo cristiano. Perciò la loro importanza
diminuì, e lo stesso accadde alla sede patriarcale di Costantinopoli, dato che l’impero aveva perduto così tanti territori e popoli. Si creavano le condizioni perché col tempo la Chiesa di Roma diventasse davvero, come aveva sempre affermato di essere, la più importante
fra le sedi vescovili del mondo cristiano; e perché il papa, che come sappiamo è in primo
luogo il vescovo di Roma, potesse aspirare al governo di tutta la Chiesa cristiana.
1. A spese di quali potenze l’islam iniziò la propria espansione? 2. Quali direttrici seguirono le invasioni
arabe del principio dell’VIII secolo? 3. Che conseguenze ebbe l’affermazione dell’islam per le Chiese
orientali?
5. La fine delle conquiste arabe
e lo sgretolamento dell’impero
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
L’avvento della dinastia abbaside
Dopo la conquista della Spagna la spinta offensiva degli Arabi era continuata anche oltre i Pirenei, in quelle zone della Francia di Sud-ovest che erano rimaste parte del regno goto, e poi nel territorio dei Franchi. La sconfitta che il maggiordomo, ovvero primo ministro,
220
Parte VIII L’altra Roma
del regno franco, Carlo Martello, aveva inflitto a un esercito arabo a Poitiers nel 732 è da
sempre celebrata come un evento decisivo, che mise fine all’espansione islamica verso
nord. Oggi si pensa che gli Arabi in realtà non avessero i mezzi per proseguire le loro conquiste, e che il contingente sconfitto da Carlo Martello fosse intento solo a una razzia in
grande stile. L’impero arabo aveva raggiunto dimensioni tali che non avrebbe più potuto
espandersi senza frantumarsi; anzi, era già troppo grande per essere governato in modo unitario. Infatti dopo di allora l’impero dei califfi si suddivise in diversi Stati indipendenti e
spesso rivali.
L’inizio di questa nuova fase nella storia dell’impero arabo si può datare al 750, quando una rivolta, sostenuta dal clan familiare dei discendenti di Maometto e di suo cugino Alì,
abbatté gli Omayyadi e riportò al potere la famiglia del profeta: nello specifico si trattava
dei discendenti di uno zio di Maometto, chiamato Abbas. La caduta degli Omayyadi tuttavia non sanò la spaccatura fra sunniti e sciiti, perché questi ultimi volevano che il califfato fosse trasmesso proprio ai discendenti di Alì, e non si accontentavano di quelli di Abbas. La dinastia che prese nome da quest’ultimo, gli Abbasidi, tenne il califfato per cinque
secoli, trasferendo la capitale da Damasco in una nuova città: Baghdad, sul fiume Tigri,
che divenne una delle metropoli più fiorenti e cosmopolite del mondo. Sotto il califfato abbaside gli Arabi svilupparono una grande civiltà, assorbendo e rielaborando l’eredità greco-romana, persiana e indiana dei territori da loro conquistati. Il califfato di Harun al-Rashid (786-809), contemporaneo di Carlo Magno, a cui mandò in regalo un elefante, rappresenta il momento culminante di questa vera e propria età dell’oro della civiltà araboislamica.
Dagli emirati agli Stati arabi indipendenti
Lo splendore del califfato abbaside non deve però nascondere che in quest’epoca iniziò
la frammentazione politica dell’impero arabo. Il trasferimento della capitale a Baghdad
voluto dagli Abbasidi, e quindi lo spostamento del centro di gravità del mondo islamico verso l’Iraq e la Persia, significò un progressivo distacco delle regioni occidentali,
che divennero via via indipendenti sotto il
governo di principi locali, detti con parola araba “emiri”. Subito dopo la caduta
della dinastia omayyade nel 750 si manifestarono le prime spinte centrifughe. Nel
756 l’unico superstite della famiglia
omayyade sterminata dagli Abbasidi, Abd
al-Rahman, prese il potere in Spagna e la
trasformò in uno Stato islamico indipendente dal califfo, l’emirato di Cordova.
Poco dopo è la volta della Tunisia, dove nell’800 per concessione di Harun alRashid nasce una dinastia indipendente,
quella degli Aghlabiti, con capitale a Kairouan. Proprio gli Aghlabiti tunisini
dall’827 daranno inizio all’ultima grande
conquista araba, quella della Sicilia, che
richiederà più di settant’anni per essere
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
La Moschea di Cordova,
interno
784
Cordova, Spagna
La Moschea di Cordova è la
più grande moschea dopo la
Kaaba alla Mecca. Fu
iniziata nel 784 per volere
di Abd al-Rahman e
ampliata nei due secoli
successivi; l’interno è
caratterizzato da una
grandiosa sala ipòstila con
1293 colonne che
sorreggono archi a ferro di
cavallo.
221
completata, data l’ostinata resistenza bizantina.
Nell’868 anche in Egitto nasce un emirato indipendente, governato da un ex schiavo soldato del califfo di
origine turca, Ahmad ibn Tulun: il fenomeno per cui
comandanti militari turchi, in origine schiavi, prendono il potere in una data regione e creano dinastie di
emiri diverrà sempre più diffuso nei secoli successivi,
contribuendo a sgretolare l’unità dell’impero arabo.
Nel 977 un’altra dinastia turca fondata da un ex schiavo, i Ghaznavidi, prende il potere in Afghanistan e allarga il dominio islamico verso l’India, occupando il
bacino dell’Indo e in parte quello del Gange, cioè le zone dove la religione islamica è rimasta predominante
fino a oggi.
Nel 910, intanto, era nato in Occidente addirittura
un califfato rivale di quello di Baghdad: in Tunisia aveva preso il potere la dinastia dei Fatimidi. I Fatimidi
La Moschea Al-Azhar al
Cairo, esterno
969-973
Il Cairo, Egitto
Nel X secolo durante il
califfato fatimide il Cairo
divenne una delle capitali
più importanti del
Mediterraneo. Nel 970 fu
costruita la Moschea
Al-Azhar (‘La Fiorita’), il
più antico istituto
accademico per gli studi
teologici, sede ancora oggi
di una delle più prestigiose
università del mondo arabo.
L’islam nel X secolo
OCEANO
AT L A N T I C O
Syr D
IMPERO
aria
CAROLINGIO
Lago
d’Aral
Danubio
MAR
Algeri
IMPERO
Tunisi
SICILIA
BIZANTINO
Nishapur
Rey
Hamadhan
Samarra
Isfahan
Damasco Eu Baghdad
CIPRO
frat
e
Bassora
Gerusalemme
Shiraz
Tarso
i
gr
Ti
Kairouan
Trebisonda
Balkh
Merv
Aleppo
MAR
MEDITERRANEO
CRETA
Tripoli
Kandahar
Mossul
o
Tahert
Tiflis
IO
Fez
NERO
SP
Costantinopoli
Ind
Roma
CA
Cordova
AR
Siviglia
Samarcanda
Bukhara
M
OMAYYADI
DI CORDOVA Barcellona
Daybul
Il Cairo
Mascate
Medina
RO
Ni
AR
lo
M
La Mecca
SS
O
¯
Fatimidi
Ghaznavidi
222
Parte VIII L’altra Roma
OCEANO
INDIANO
erano sciiti, anzi appartenevano a una speciale setta mistica dello sciismo, gli ismailiti; non
riconoscevano quindi il califfo di Baghdad come legittimo successore di Maometto, e perciò non si accontentarono del titolo di emiri, ma assunsero essi stessi il titolo califfale. Nel
969 i Fatimidi conquistarono l’Egitto, che da allora formerà un unico Stato indipendente
insieme al Nordafrica e alla Sicilia, con capitale al Cairo. Il califfato fatimide durerà fino
al 1171, e grazie anche al controllo delle miniere d’oro africane la sua potenza oscurerà
quella del califfato di Baghdad, ormai in piena crisi. Il Cairo, insieme a Palermo, succede
a Baghdad come grande metropoli cosmopolita e ricchissimo centro commerciale, in cui si
incrociano i commerci del Mediterraneo, dell’Africa e dell’India. Una volta affermato che
nel mondo islamico poteva esserci più d’un califfo, anche gli emiri di Cordova non tardarono ad assumere il titolo califfale, sancendo la divisione dell’impero in tre Stati rivali.
1. Che cosa caratterizzò il califfato degli Abbasidi? 2. Quali Stati emergono dalla divisione dell’impero
arabo nel X secolo?
6. Islam e cristianesimo:
un confronto
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E Islam: radici e precetti
L’islam nacque in un popolo che in gran parte era politeista, ma dove l’ebraismo e il cristianesimo non erano affatto sconosciuti. L’insegnamento di Maometto affonda le radici
nella Bibbia e si pone in continuità con le altre due grandi religioni monoteiste: il profeta
dichiarò che l’islam era il superamento dell’esperienza ebraica e cristiana, e che il suo
scopo era di ristabilire la vera osservanza dell’Antico Testamento e del Vangelo. Molto materiale biblico confluì nel Corano: Maometto accettava la rivelazione dell’Antico Testamento per quanto riguarda la creazione del mondo,
Adamo ed Eva, la cacciata dal Paradiso Terrestre, il
Giorno del Giudizio, e riconosceva anche in Gesù un
grande e glorioso profeta. Non accettava però che
Cristo fosse figlio di Dio, né che fosse morto in croce, ma pensava che Dio lo avesse assunto vivo in cielo prima della crocifissione: è il motivo per cui i musulmani, pur venerando Gesù e sua madre Maria, non
hanno alcun rispetto per la croce, che considerano
anzi un ignobile strumento di tortura.
Per dare un’identità ai suoi seguaci e trasformarli
in una comunità, Maometto riprese diversi obblighi
e divieti della tradizione ebraica, in particolare la circoncisione per i maschi e la proibizione di mangiare
carne di maiale. Altri precetti vennero introdotti da
lui, come il divieto di bere vino, o l’obbligo di digiunare e di astenersi dal sesso, durante le ore del giorno, per un intero mese all’anno, il mese che nel ca-
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
La fine del Ramadan
© Corbis/Contrasto
La falce di luna crescente,
qui fotografata vicino al
minareto della Moschea di
Amman in Giordania, è per
i musulmani il segno della
fine del mese sacro del
Ramadan e l’inizio della
festa del ‘Id al-Fitr (‘festa
dell’interruzione’ del
digiuno).
223
lendario islamico ha il nome di Ramadan. I precetti fondamentali, quelli che costituiscono un obbligo assoluto per ogni musulmano, sono cinque: la professione di fede, cioè riconoscere che non c’è altro dio tranne Dio, e Maometto è il suo profeta; pregare cinque volte al giorno, seguendo un rituale stabilito; fare l’elemosina ai poveri (zakat), un obbligo che
nell’impero costruito dagli Arabi divenne rapidamente una vera e propria tassa riscossa dallo Stato; osservare il Ramadan; e fare almeno una volta nella vita, se si ha la possibilità, il
pellegrinaggio alla Mecca.
La Cupola della Roccia a
Gerusalemme
691
Gerusalemme, Israele
La Cupola della Roccia,
detta anche Moschea di
Omar, è il più antico
santuario del mondo
islamico. Di forma
ottagonale, l’edificio fu
costruito alla fine del VII
secolo a Gerusalemme, la
terza città santa dell’islam
dopo Medina e la Mecca.
224
Specificità teologiche e rituali
Al di là di questi obblighi formali, la fede insegnata da Maometto e tramandata dal Corano era molto più essenziale rispetto alla complessa elaborazione teologica del cristianesimo. Nell’islam non c’è Trinità, non esiste lo Spirito Santo né il mistero dell’Incarnazione (secondo il quale Cristo è Dio che si fa uomo); Dio è unico, e pensarla diversamente significa, per i musulmani, cadere nel politeismo. Tutte le raffinatissime discussioni che avevano animato e reso più complicata la vita cristiana dei primi secoli, intorno ai rapporti fra
le tre persone della Trinità e la natura umana e divina di Gesù, non trovano alcuna eco nell’islam. Dio per i musulmani non si è mai fatto uomo, né ha sacrificato suo figlio per la salvezza dell’umanità: a lui è possibile soltanto sottomettersi con piena accettazione
della sua volontà. Nell’islam non ci sono
dogmi, non ci sono misteri, non ci sono miracoli. Riprendendo un antico comandamento biblico, disatteso dai cristiani, Maometto ribadì che era vietato rappresentare Dio in immagini, perché così lo si trasformava in qualcosa di simile a un essere
umano, mentre il Dio dell’islam è interamente trascendente, si trova cioè in un’altra dimensione, al di fuori del nostro universo.
La predicazione di Maometto creò una
religione che pur partendo dalle stesse radici era, ed è tuttora, profondamente diversa da quella cristiana. La Messa, che è al
centro del culto cristiano e commemora il
sacrificio di Cristo, nell’islam non esiste; i
fedeli si radunano solo per pregare insieme. Il luogo di culto, la moschea, non è
una chiesa, perché sarebbe assurdo per i musulmani pensare che Dio sia a casa sua in un
posto più che in un altro; è solo il luogo dove ci si ritrova per la preghiera. Non ci sono sacerdoti, perché non c’è nessun sacramento da celebrare; l’imam è solo una figura autorevole che guida la preghiera, e può dare buoni consigli, ma la salvezza di ognuno dipende
solo dalla sua fede e dalle sue buone azioni, non dal battesimo, dalla confessione o dall’eucaristia.
L’assenza di un clero rappresenta una fondamentale differenza fra le società islamiche e
quelle cristiane: nel mondo musulmano non esiste la Chiesa, che in Occidente a partire dal
IV secolo ha rappresentato un formidabile contrappeso al potere dello Stato, e non c’è nem-
Parte VIII L’altra Roma
meno un’interpretazione ufficiale dell’ortodossia religiosa, come quella fornita nei primi
secoli del cristianesimo dai grandi concili. La libertà d’interpretazione nell’islam è quindi
molto maggiore. Essa però non spetta ai semplici credenti, e neppure ai capi politici, compreso il califfo: fin dall’inizio nel mondo musulmano esiste un gruppo influente di dotti,
studiosi del Corano e della tradizione religiosa, gli ulema, e tutti gli altri si rimettono al loro parere nelle questioni che riguardano la fede e la sharia.
1. Quali elementi dell’Antico Testamento e del Vangelo furono ripresi dall’islam? 2. Quali sono i cinque
precetti fondamentali dell’islam? 3. Qual è la fondamentale differenza tra la società islamica e quella
cristiana?
7. L’organizzazione
dell’impero arabo
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Le ragioni della conquista
Di fronte a un fenomeno gigantesco come le conquiste arabe, gli storici si sono interrogati sulle ragioni di un successo così rapido e spettacolare, e hanno valutato tutte le spiegazioni possibili. Si trattò di una conquista innanzitutto religiosa, basata sul jihad, e quindi sull’entusiasmo religioso dei combattenti, come pensano i cronisti arabi dell’epoca? Oppure di una grande emigrazione del popolo arabo, spinto dalla sovrappopolazione ad abbandonare un paese arido, alla ricerca di terre più ricche? O fu un’estensione del modo di
vita tradizionale dei Beduini, basato sulla
razzia e sul bottino? In tutte queste spiegazioni ci può essere qualcosa di vero, perché
raramente i grandi fenomeni storici hanno
una singola spiegazione. Ma in ogni caso bisogna distinguere fra le cause che mossero
gli Arabi alla conquista, e i motivi per cui la
loro espansione ebbe un successo così travolgente.
Il primo punto sicuro è che le conquiste
arabe furono il frutto di una pianificazione
deliberata; furono operazioni militari, non
migrazioni di popoli. La migrazione avveniva
dopo la conquista, non prima. Ogni conquista
fu organizzata da capi che stanziavano risorse, radunavano truppe, pianificavano gli
obiettivi e le direttrici di marcia. Si può discutere se fin dall’inizio ci sia stata una pianificazione centralizzata da parte del califfo,
o se le diverse ondate si siano mosse per iniziative di capi locali; se cioè uno Stato vero e
proprio esistesse già alla morte del profeta, o
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Castello omayyade di Qasr
al-Kharana
710
Amman, Giordania
Come altri edifici sparsi nel
territoro siro-giordano,
questo piccolo
palazzo/fortezza di età
omayyade presenta una
planimetria a pianta
quadrata, torri disposte agli
angoli e lungo le cortine,
una porta centrale d’accesso
sul lato meridionale. Qasr
el-Kharana era
probabilmente una residenza
da caccia, ma questo tipo di
architettura richiama quella
militare dei fortini bizantini
e degli accampamenti
fortificati romani dislocati
lungo il limes imperiale (i
castra, da cui deriva il
sostantivo qasr).
225
se abbia preso forma solo dopo le prime grandi conquiste. In ogni caso oggi si pensa che la
motivazione religiosa, la volontà dei capi di conquistare il mondo alla vera fede, abbia avuto un ruolo decisivo nell’avviare la grande espansione araba; tanto che il califfato arabo sotto i califfi “ben guidati” e poi sotto gli Omayyadi è stato definito «lo Stato del jihad». Un
ruolo ebbe ovviamente anche il desiderio di bottino, tanto più forte una volta constatata la
facilità delle vittorie. Ma perché le vittorie furono così facili?
Una risposta definitiva a questa domanda non c’è, e forse non ci sarà mai, perché le
informazioni che abbiamo su quell’epoca sono poche. Un fatto importante da tener presente
è che con l’unificazione sotto le bandiere dell’islam gli Arabi costruiscono uno Stato efficiente, capace di reclutare, motivare e pagare grandi eserciti. I tributi pagati dai sudditi sono cospicui fin dal tempo del profeta; già dal regno del primo califfo, Abu Bakr, la definitiva unificazione della penisola arabica mette a disposizione risorse umane ed economiche
considerevoli. Ma è anche importante sottolineare che gli Arabi affrontano un impero come quello sasanide, che in quel momento è gravemente indebolito dalla lunga lotta con Bisanzio; e un altro, quello bizantino, che invece sembra forte, ma in realtà fatica a tenere sotto controllo i suoi territori periferici, per la disaffezione delle popolazioni dovuta all’oppressione fiscale e religiosa. Non per nulla gli Arabi, che conquistano in pochi anni immense province, sono fermati quando cercano di invadere il cuore dell’impero bizantino,
l’Anatolia, e vengono sconfitti ogni volta che assediano Costantinopoli: il potere imperiale è ancora piuttosto forte, ma non nelle province più lontane.
Una fiscalità efficiente e un’economia in crescita
La necessità di organizzare nel modo più efficiente il prelievo fiscale e la spesa militare indusse il califfo Omar (634-644) a istituire il primo vero organo di governo dell’impero islamico, il diwan. Si trattava di una tesoreria incaricata di registrare il tributo pagato
dalle tribù arabe e dai popoli sottomessi, nonché il bottino raccolto durante le guerre, e di distribuire i fondi per finanziare
l’esercito e le campagne di conquista. Per gli Arabi un’ammiDinar in oro
715-717
nistrazione regolare capace di produrre documentazione scritMuseo Numismatico della Banca
del Marocco, Casablanca
ta era una novità, tanto che fino all’inizio dell’VIII secolo i reLa legenda che corre lungo questo
gistri del diwan vennero tenuti in greco da personale cristiano.
dinar, proveniente forse dal
Nelle ex province bizantine e sasanidi il sistema fiscale rimaMaghreb, è scritta sia in caratteri
latini sia in caratteri arabi.
se in funzione più o meno allo stesso modo di prima, ma fu ca
librato in modo tale da gravare soprattutto sui non musulmani.
Dirham in argento
Il risultato fu che i sudditi cristiani ed ebrei lamentarono a
817-818
Museo Numismatico
gran voce il peso opprimente della fiscalità imposta dagli Aradella Banca del
Marocco,
bi, ma sono più o meno le stesse lamentele che si levavano priCasablanca
ma contro la fiscalità bizantina. Per di più, mentre prima gran
Nella legenda del
parte dell’imposta veniva trasferita a una lontana capitale, il
campo centrale
di questo
diwan spendeva sul posto gran parte del ricavato, per mantedirham, coniato
a Watit in
nere l’esercito e sostenere l’immigrazione araba.
Marocco, è incisa
La moneta in uso nell’impero arabo continuò all’inizio a esin caratteri arabi
l’invocazione
sere
quella bizantina e persiana, finché il califfo Abd al-Malik
«Non vi è altro
Dio all’infuori di
(685-715) creò il sistema monetario rimasto poi per secoli in
Allah».
uso nel mondo islamico. Era basato su una moneta d’oro di valore equivalente al solidus romano, il dinar; una moneta d’argento, il dirham, che fu di gran lunga la moneta più diffusa; e
226
Parte VIII L’altra Roma
una monetina di rame per i commerci spiccioli. I colossali tesori accumulati grazie al bottino delle conquiste vennero così rimessi in circolazione sotto forma di moneta.
La riforma monetaria diede sostegno al vigoroso sviluppo economico innescato dalle
conquiste arabe. I paesi conquistati dall’islam, dopo un’iniziale crisi dovuta alle spoliazioni della conquista, conobbero fra VIII e X secolo una decisa crescita economica e demografica. In quell’immenso spazio, unificato dal punto di vista politico, culturale e linguistico,
oltre che commerciale e monetario, le innovazioni si diffondevano rapidamente, per cui
coltivazioni o tecniche provenienti per esempio dalla Persia non tardavano ad arrivare fino
in Spagna. In campo agricolo si diffusero la coltivazione del sorgo, del riso, degli agrumi,
del cotone, della canna da zucchero. Le tecnologie per l’irrigazione e la macinazione dei cereali, come i mulini ad acqua e a vento, vennero impiegate su scala maggiore rispetto all’Antichità, e vennero sperimentate nuove forme di rotazione delle colture, che permettevano di moltiplicare i raccolti. Le città del mondo islamico divennero fiorentissimi centri di
commercio, e il mercato, il bazar, fu da allora il cuore di ogni insediamento musulmano. I
benefici, però, furono risentiti più dal Vicino Oriente che dall’area egiziana e nordafricana:
qui infatti la separazione traumatica dallo spazio economico bizantino e la lontananza dalle
capitali del califfato provocarono un ristagno più prolungato dell’economia. Solo con la nascita dei poteri indipendenti, aghlabita e poi
fatimida, anche quelle zone conosceranno la ripresa economica.
Un impero militare
L’uso del tributo per mantenere l’esercito fu il primo e fondamentale compito organizzativo intrapreso dai califfi. I guerrieri, reclutati essenzialmente fra i bellicosi Beduini nomadi,
erano bene armati; la maggior parte combatteva a cavallo, e
molti avevano un armamento pesante, con elmo, scudo e cotta di
maglia, lancia e spada, arco e frecce. Il reclutamento e la suddivisione in reparti erano basati sull’appartenenza tribale, e ogni
tribù aveva una sua bandiera. Ma l’approvvigionamento era
organizzato dal califfo e dai suoi generali: lo Stato requisiva e
accumulava vettovaglie, provvedeva mandrie e greggi di bestiame, assegnava alle varie tribù le zone di pascolo nei territori occupati, riforniva le truppe di cavalli e cammelli, inviava rinforzi ai comandanti sul campo. Gli indisciplinati guerrieri del deserto vennero trasformati in soldati a tutti gli effetti, che ricevevano dallo Stato un soldo con cui mantenere sé e le proprie famiglie. In cambio dovettero accettare un comando unificato e una severa disciplina, imparare l’obbedienza agli ordini e mettere da parte le tradizionali rivalità fra tribù, che furono sempre un punto
debole del mondo arabo.
Gli Arabi consolidarono le loro prime conquiste
creando una rete di città di guarnigione. Poteva trattarsi di quartieri nati accanto a centri urbani già esistenti, o di città interamente nuove; all’inizio erano solo accampamenti di soldati per controllare il territorio circostante, ma presto attrassero le famiglie dei soldati e
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Statua di califfo
Secondo quarto
dell’VIII sec.
Museo Rockefeller,
Gerusalemme
Questa grande statua in
stucco alta 195 cm proviene
da Khirbet el-Mafgiar (nei
pressi di Gerico in
Cisgiordania) dove sorgeva
un imponente palazzo
residenziale di epoca
omayyade voluto da uno dei
figli di Abd al-Malik, il
califfo Hisham (al potere
dal 723 al 743). La statua
rappresenta un califfo,
probabilmente lo stesso
Hisham, e doveva trovare
posto in una nicchia della
sala del ricevimento.
227
La legge coranica e le leggi romano-barbariche
I precetti religiosi contenuti nel Corano non riguardano soltanto la fede e il culto divino, ma investono tutta la vita della
società. La sharia, la legge religiosa islamica, è un codice legale a tutti gli effetti, basato sugli insegnamenti del Corano;
perciò ha un valore sacrale, dato che per i credenti è stato dettato direttamente da Dio. Attraverso l’analisi del libro sacro
islamico e dei suoi precetti giuridici è possibile capire come
fosse organizzata la società araba dell’epoca, anche se va ricordato che Maometto non si propose solo di regolamentare la
vita così com’era, ma di trasformarla. Come vedremo, sono
possibili molti confronti fra il Corano e le leggi romano-barbariche della stessa epoca: c’erano evidenti paralleli sociali e
culturali fra la società araba e quella franca o longobarda.
Sappiamo già che gli Arabi erano organizzati in clan, e in federazioni di clan, le tribù, i cui membri credevano di discendere da un antenato comune. Ognuno era quindi inserito in un
gruppo parentale, e come accadeva presso le popolazioni germaniche, i parenti erano responsabili della vendetta per chi veniva offeso o ucciso [cfr. cap. 17.7]. Il Corano cercò di regolamentare la vendetta, per evitare che si traducesse in una sequenza interminabile di faide, e stabilì che ogni offesa doveva
essere punita con la legge del taglione, rifacendosi ai precetti
dell’Antico Testamento. Ma il Corano aggiunge che chi condona la pena rinunciando a vendicarsi fa cosa gradita a Dio, e
sarà ricompensato. Dio insomma permetteva la vendetta, ma
228
Parte VIII L’altra Roma
consigliava la pazienza e la sopportazione, e vietava di eccedere con vendette sproporzionate. In caso di assassinio il colpevole, se otteneva il condono della pena, doveva pagare un
risarcimento a chi l’aveva perdonato.
Questa concezione, che considera la vendetta come legittima
ma è consapevole dei suoi rischi per la vita collettiva e cerca
di attenuarli, è molto simile a quella espressa nell’editto di Rotari, e non è inutile ricordare che si tratta di testi sostanzialmente contemporanei: l’editto è del 643, mentre il Corano
venne messo per iscritto dopo la morte di Maometto, intorno
al 650. La stessa analogia tra la sharia e le coeve leggi romano-barbariche si ritrova nella regolamentazione dei risarcimenti. Il Corano li menziona in termini generici, ma i califfi
stabilirono cifre precise, valutando la morte di un arabo a un
prezzo superiore rispetto alla morte di un indigeno, proprio come faceva la Legge Salica discriminando tra Franchi e Romani: in Siria un Arabo valeva 12.000 dinar, un Siriano la metà.
Al-Muwatta’, trattato di diritto musulmano
Copia del 1325-1326
Biblioteca Regale di Rabat, Marocco
Il testo è una copia redatta nel XIV secolo della più importante opera di
legge islamica: la Muwatta’, il più antico “manuale pratico” di diritto
musulmano scritto nell’VIII secolo dall’imam della città di Medina Malik
ibn Anas (715-795).
altri immigranti dall’Arabia, e divennero grandi città. Fondazioni di questo tipo furono Kairouan e Tunisi in Tunisia e Basra in Iraq, mentre dalla città di guarnigione di al-Fustat in
Egitto, addossata a un centro già esistente, nascerà il Cairo moderno. A loro volta le città
di guarnigione costituivano le basi per nuove conquiste, perché almeno fino al pieno VIII
secolo l’impero condusse una politica deliberatamente aggressiva, organizzando regolarmente campagne per annettere nuovi territori, nella prospettiva di arrivare a sottomettere il
mondo intero.
L’arabizzazione dei territori conquistati
Le conquiste arabe modificarono la composizione etnica dei paesi conquistati, dove si
impose una nuova élite di governo, di origine araba (oppure berbera, nel Nordafrica e in
Spagna, dopo che i Berberi, politeisti, si convertirono all’islam). Ma l’elemento arabo e
islamico non costituiva soltanto l’élite. Ad ogni nuova tappa dell’espansione, migliaia di
guerrieri con le loro famiglie venivano trasferiti nei territori conquistati, nascevano nuove
grandi città di guarnigione, e cominciava l’immigrazione di mercanti e artigiani arabi. La
conquista significò anche ridistribuzione massiccia di ricchezza verso questi gruppi sociali: il soldo pagato dal governo era infatti previsto all’inizio non solo per i soldati, ma per
tutti gli Arabi che si trasferivano nei nuovi territori. Il fenomeno interessò più massicciamente l’Iraq, la Siria e l’Egitto, e si replicò su scala minore in Nordafrica e poi in
Spagna. Dappertutto, però, la maggioranza
della popolazione rimase quella indigena,
che all’inizio non praticava la fede islamica:
nell’amministrazione continuavano a operare gli impiegati greci e persiani, e il mondo
contadino indigeno rimase largamente immutato.
All’inizio l’arabo non sostituì il greco e il
persiano come lingua amministrativa, perché la collaborazione di personale locale era
indispensabile per la riscossione delle tasse.
Nel 700, però, c’era ormai abbastanza personale musulmano capace di scrivere in arabo, e l’impiego esclusivo di cristiani nell’amministrazione cominciava a suscitare
proteste; perciò il califfo Abd al-Malik in
quell’anno ordinò di utilizzare d’allora in
poi l’arabo. La riforma toccò dapprima
l’amministrazione centrale del diwan e si
estese poi all’amministrazione provinciale,
anche se in Egitto i papiri governativi sono
in greco ancora intorno al 710. Verso il 720
un editto proibì ai cristiani di accedere alle
più alte funzioni dello Stato, a meno di convertirsi all’islam; in Egitto, in Siria e in Palestina però ancora nel X secolo quasi tutti gli scribi erano cristiani.
La trasformazione dell’arabo in lingua amministrativa era una spinta potente perché
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Una veduta della città di
Fez, Marocco
Il grande impulso
urbanistico seguito alla
conquista musulmana del
Nordafrica interessò anche
il Marocco, e la città di Fez
offre un ottimo esempio di
quella intensa attività
costruttiva, conservando
ancora intatti i nuclei urbani
più antichi che risalgono ai
secoli VIII-IX.
229
la gente parlasse sempre più arabo; un’altra spinta era la conversione all’islam, perché la
conoscenza del Corano, in arabo, è fondamentale per il musulmano. Solo in Iran la lingua
nazionale, il persiano, si basava su una cultura così complessa e su un’identità nazionale
così orgogliosa da rimanere predominante; in Siria, in Palestina e in Egitto il siriaco, l’aramaico e il copto vennero progressivamente marginalizzati dall’arabo. In Nordafrica il berbero rimase lingua parlata da molte tribù indigene, ma l’arabo sostituì completamente il
greco, il latino e il punico nel mondo cittadino.
I cambiamenti tra VIII e IX secolo
Nel corso dell’VIII secolo, con l’esaurirsi delle grandi conquiste, la struttura dell’impero si assestò. All’inizio il bottino aveva costituito la risorsa economica più importante,
e i primi califfi pur trattenendone una parte l’avevano distribuito largamente ai guerrieri,
permettendo a ogni Arabo che lo volesse di fare la propria fortuna; ma ora la risorsa più importante dello Stato divenne la fiscalità. Essa gravava pesantemente sui sudditi cristiani ed
ebrei, gli unici che continuavano a pagare l’imposta fondiaria (kharaj) e l’imposta personale, o testatico (jizya), ereditate dall’impero bizantino; ma pesava anche sui musulmani,
cui era imposto il pagamento dell’elemosina obbligatoria riscossa dallo Stato, lo zakat.
L’opposizione fra Arabi e indigeni si diluì grazie a molteplici fattori: le conversioni all’islam, la diffusione della lingua araba, e la crescita delle grandi città di guarnigione, che all’inizio erano concepite solo per gli Arabi, ma col tempo attrassero sempre più popolazione indigena dalla campagna. L’eguaglianza originaria degli Arabi come popolo guerriero e
conquistatore andò perdendosi, e anche nell’impero arabo si delineò sempre più netta l’opposizione fra lo Stato, coi suoi funzionari e militari che costituivano un ceto privilegiato,
e una popolazione di sudditi sfruttati.
A partire dal IX secolo comincia a delinearsi nel mondo arabo un’abitudine che avrà
grandi conseguenze, ed è l’ampio uso di schiavi non come manodopera per i lavori più
duri, ma per incarichi di grande responsabilità nell’amministrazione e nell’esercito.
L’uso di schiavi come funzionari e impiegati degli uffici amministrativi prende piede fin
da quando, all’inizio dell’VIII secolo, gli editti del califfo Abd al-Malik impongono l’arabizzazione dell’amministrazione ed escludono le vecchie famiglie di funzionari greci.
Ma ancora più importante è l’uso degli schiavi nell’esercito. I califfi impiegano per questo soprattutto schiavi turchi, provenienti dalle popolazioni nomadi in via di conversione all’islam che vivono nelle steppe dell’Asia Centrale. Con gli schiavi turchi si formano reparti di soldati scelti che assumono sempre più importanza. Ex schiavi turchi liberati fanno carriera nell’esercito assumendo comandi militari; saranno spesso loro, come
abbiamo visto, i protagonisti delle ribellioni che distaccano dall’impero vasti territori
dando vita a nuove dinastie indipendenti [cfr. par. 5]. A loro volta i califfi fatimidi del Cairo fanno largo uso di reparti militari formati da schiavi neri, che saranno sempre il loro
sostegno più fidato.
1. Quali i principali fattori che contribuirono a facilitare le conquiste arabe? 2. Per quale motivo le regioni
conquistate tornarono a crescere economicamente e demograficamente tra VIII e X secolo? 3. Come
avveniva l’approvvigionamento dell’esercito? 4. In che modo cambiò la composizione etnica dei paesi
conquistati? 5. Come mutò il rapporto tra Stato e sudditi nel corso dell’VIII secolo?
230
Parte VIII L’altra Roma
8. La donna e la parentela
in epoca coranica
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Poligamia e centralità del clan
Il clan arabo era un insieme di famiglie, ognuna incentrata intorno a un capofamiglia maschio, che poteva avere diverse mogli, oltre a concubine e schiave: era quindi una famiglia
allargata, patriarcale e poligamica. Il Corano interviene nel campo del matrimonio, del divorzio, della sessualità e dell’adulterio, tentando di regolamentare un settore in cui fino a
quel momento la libertà dei maschi era assoluta, e comportava il totale asservimento delle
donne. Era usanza degli Arabi sposarsi all’interno del clan, per mantenerne la compattezza; il Corano interviene per moralizzare
questa usanza, e proibisce di sposare la
vedova del proprio padre o del proprio figlio, la madre, la sorella, la zia, la nipote,
la nutrice e le sue figlie, le suocere e le figliastre. Rimanevano le cugine, e infatti a
partire da questo momento fra gli Arabi
desiderosi di sposarsi all’interno del proprio clan sarà comune specialmente il
matrimonio fra cugini primi.
La poligamia era profondamente radicata fra gli Arabi; Maometto la accettava
pienamente, ma nel suo insegnamento è
evidente lo sforzo di migliorare, per
quanto possibile, la situazione delle donne all’interno della famiglia poligamica.
Sotto l’islam è permesso avere più mogli,
ma il Corano insiste che questa possibilità dipende dalla capacità di mantenerle
onorevolmente, e che ogni moglie, dopo
la prima notte di nozze, ha diritto a una
donazione, che dovrà costituire la sua
fonte di mantenimento se dovesse restare
vedova o divorziare. Come nel “dono del
mattino” del diritto longobardo, il riferimento alla prima notte di nozze è simbolico; in realtà la donazione era negoziata
al momento in cui si decideva il matrimonio. Per evitare di trovarsi in difficoltà e
non commettere ingiustizie, bisogna avere solo due, tre o al massimo quattro mogli, e altrimenti una sola. Chi non ha mezzi sufficienti per sposare una donna libera, è invitato a sposare una schiava, col
permesso del padrone di lei e purché sia
musulmana.
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Le mogli di Maometto
XVI sec.
In questa miniatura turca
sono rappresentate alcune
donne e le mogli del profeta
Maometto. L’ambiente è
ricco e raffinato, più vicino
allo stile di vita di un
sultano del XVI secolo che
alla realtà sociale degli inizi
dell’epoca islamica.
231
Il Corano e le donne
[dal Corano, II, 226-232, trad. a cura di L. Bonelli, Hoepli, Milano
1979]
Il testo del Corano è caratterizzato nei confronti
delle donne da quella che può sembrare una
contraddizione. Maometto invita ripetutamente e
anzi quasi ossessivamente i credenti a trattare le
donne con giustizia e con umanità; al tempo stesso,
le regole da lui stabilite prevedono sempre e
comunque un’inferiorità della donna rispetto
all’uomo. Il fatto è che nella società araba
preislamica la donna sembra essere stata trattata
con grande brutalità e aver avuto ben pochi diritti;
il Corano rappresenta quindi un miglioramento
rispetto alle condizioni precedenti, ma riflette
comunque i limiti di una società pesantemente
patriarcale, in cui la piena eguaglianza fra i sessi
sarebbe impensabile.
La
voce
PA
SSA
TO
del
A coloro che giurano di separarsi dalle loro donne è imposto un periodo di attesa di quattro mesi, per riflettere e non separarsi da esse sconsideratamente; se, durante quel tempo, essi recedono dal loro proposito, sarà
bene, poiché Dio è indulgente e compassionevole.
Se invece essi avranno deciso fermamente di divorziare, in verità, Dio ode e sa tutto.
Le ripudiate attenderanno per tre periodi di purità1 prima di rimaritarsi, né è permesso a loro di nascondere
ciò che Dio ha creato nelle loro viscere, se credono in Dio
e nel giorno estremo; è più giusto che i loro mariti le riprendano quando sono in questo stato, se desiderano
la riconciliazione; ad esse tocca di agire verso i propri
mariti come questi agiscono verso di esse, secondo onestà; tuttavia gli uomini hanno su di esse un grado di superiorità; Dio è potente e saggio.
Il ripudio è permesso per due volte, dopo di che occorre
o ritenerle con umanità o rimandarle con gentilezza;
non vi è permesso di riprendere alcunché di quello che
ad esse avete dato. [...] Quando ripudiate le vostre donne e sarà giunto il termine loro, non impedite ad esse di
rimaritarsi con i loro mariti, quando essi si accordino tra
di loro, secondo onestà; ciò viene detto come monito a
coloro fra voi che credono in Dio e nel giorno estremo;
ciò è più degno per voi e più decente; Dio sa tutto, mentre voi non sapete.
1. tre periodi di purità: tre cicli mestruali, per verificare con certezza
che non siano incinte.
Parte VIII L’altra Roma
Affresco con figura femminile
712-715
Qasr Amra, Giordania
In questo affresco di età omayyade, che decorava una
delle sale del complesso termale di Qasr Amra, è
raffigurata una donna a seno nudo con le braccia alzate
(interpretata come bagnante, danzatrice sacra o cortigiana
del califfo). La rappresentazione di figure nude era
tollerata in ambito non religioso ma alla fine dell’VIII
secolo, con l’avvento della dinastia abbaside, essa fu
completamente vietata.
Una società patriarcale
La natura patriarcale della società non è modificata dall’islam, né l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo, ma c’è la preoccupazione di garantire anche alla donna dei diritti. Il marito è autorizzato a battere la moglie e a non dormire con lei, se la trova disubbidiente, ma alla moglie ubbidiente bisogna portare rispetto; fra marito
e moglie ci devono essere «amore e compassione» (Corano, XXX, 20). La donna non è una proprietà del
marito e non può quindi passare a un altro uomo insieme con la sua eredità, come sicuramente avveniva
prima dell’islam. La donna che rimane vedova può risposarsi e nessuno ha il diritto di impedirglielo e di
riprenderle la donazione che ha ricevuto dal marito; allo stesso modo, chi ripudia una moglie non
può riprendersi quello che le ha regalato dopo la
prima notte di nozze.
All’uomo è riconosciuto il diritto di ripudiare la
moglie anche senza motivazioni, ma il Corano introduce cautele intese a scoraggiare in qualche
misura la pratica troppo facile del ripudio. Chi
vuole ripudiare la moglie deve attendere quattro mesi dopo aver annunciato la decisione, e Dio consiglia di ripensarci; altrimenti il divorzio è definitivo, ma se poi la donna si scopre incinta, il marito deve riprendersela; se sta
allattando un neonato, il marito anche dopo il divorzio è tenuto a mantenerli entrambi fino
alla fine dell’allattamento. La donna non può ripudiare il marito in mancanza di giusta causa, ma può rivolgersi al giudice chiedendo il divorzio, in caso di inadempienza al contratto matrimoniale, di assenza prolungata del marito, e anche di impotenza: la sessualità nel
matrimonio è un diritto riconosciuto sia all’uomo sia alla donna, e quando il Corano avverte che chi prende più di una moglie dev’essere sicuro di poterle trattare tutte allo stesso
modo, si riferisce anche a questo.
L’adulterio punito è solo quello della moglie, e del suo complice. Per provare l’adulterio
occorrono quattro testimoni, e allora il marito ha il diritto di tenere la moglie prigioniera in casa fino alla morte. In un altro passo si stabilisce invece che l’adultera e il suo complice ricevano cento frustate in pubblico. A margine di questa regola il Corano prevede anche la punizione dell’omosessualità maschile, senza specificarla, e aggiungendo comunque che chi si
pente e si corregge dev’essere lasciato tranquillo, «poiché Dio è benigno e compassionevole».
Vale la pena di sottolineare che la condanna alla lapidazione per le adultere, prevista dall’Antico Testamento e rimessa oggi in uso in taluni paesi islamici, non è menzionata nel Corano.
Un aspetto centrale nella vita familiare dell’epoca, regolamentato con grande attenzione anche in Occidente da tutti i codici di leggi, era l’eredità. A chi sta per morire il Corano impone
di fare testamento, dividendo in modo equo fra i parenti; alterare le ultime volontà di un defunto è severamente proibito. Ma chi fa testamento non è libero di fare quello che vuole: Dio
ha previsto esattamente le porzioni spettanti a ciascuno. La principale preoccupazione è di garantire che anche le donne abbiano una quota dell’eredità; erano loro infatti a correre i maggiori rischi, in una società estremamente maschilista come quella araba dell’epoca. Tenendo
conto di questa caratteristica, si capisce che il Corano stabilisca comunque una ripartizione
squilibrata: la quota che spetta a ciascun maschio è il doppio di quella che spetta a ciascuna
femmina. Altre regole estremamente minuziose regolamentano ciò che spetta ai genitori e ai
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Marito e moglie davanti al
giudice
1237
Biblioteca Nazionale di
Francia, Parigi
Questa miniatura, opera
dell’artista Yahya al-Wasiti
(XIII secolo), mostra la
disputa di una coppia
sposata che si accusa
reciprocamente davanti a un
giudice.
233
fratelli del defunto, nel caso che non ci siano figli, oppure un figlio unico, o ci siano solo femmine: in tutti questi casi Maometto riconosce che il clan familiare ha diritto a una quota dell’eredità. Per gli Arabi dell’età coranica, insomma, la parentela continua a costituire una struttura forte, che limita l’autonomia dell’individuo.
1. Come erano strutturati i clan arabi? 2. In che modo il Corano regolamenta il rapporto tra uomo e
donna?
9. La civiltà araba
Una biblioteca araba
1237
Biblioteca Nazionale di
Francia, Parigi
In questa miniatura di Yahya
al-Wasiti (artista arabo del
XIII secolo) è dipinta una
scena di lettura e
insegnamento all’interno di
una biblioteca. Sugli scaffali
trovano posto in maniera
fitta e ordinata i volumi.
234
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Tra eredità culturale e nuova produzione
Nell’VIII secolo gli Arabi, padroni di un impero, smisero di essere un popolo di conquistatori seminomadi e la loro lingua divenne il veicolo di una complessa civiltà. In essa
confluirono il grande patrimonio della civiltà iranica e indiana, e quello della civiltà ellenistica, ereditata dall’impero greco-romano. Gli Abbasidi favorirono un intenso lavoro di
traduzione e assimilazione della cultura greca e indiana, soprattutto filosofica e scientifica, in una prospettiva di rivalità con l’impero bizantino: davanti a quel nemico più volte
sconfitto, indebolito ma mai abbattuto, i califfi si proposero come i veri continuatori della civiltà classica,
basando anche su questo la loro pretesa al dominio del
mondo. È attraverso gli Arabi, più che dai Greci dell’impero bizantino, che nel XII-XIII secolo l’Occidente riscoprirà l’opera dei grandi pensatori greci antichi,
come Aristotele. Ma accanto alla cultura scientifica
ereditata dai Greci ci fu anche il poderoso sviluppo di
una cultura più propriamente araba e musulmana, che
comprendeva lo studio e il commento del Corano e della tradizione religiosa islamica, la costruzione di una
giurisprudenza per chiarire tutti gli aspetti della sharia,
lo studio della grammatica araba, e anche una ricca
produzione poetica e letteraria.
Promuovere la cultura per i califfi era un obbligo di
tipo religioso: ogni aspetto dell’attività culturale era
infatti visto come collegato alla fede islamica, e i luoghi di studio erano le scuole e le biblioteche annesse
alle moschee. Ma i califfi promossero anche la costituzione di grandi biblioteche e centri di studio presso il
proprio palazzo, mantenendo studiosi e incoraggiando
il lavoro di traduzione delle opere greche. Particolarmente famoso per la sua promozione della cultura è il
califfo al-Mamun (813-833), figlio di Harun al-Rashid;
partendo dalla biblioteca del padre, al-Mamun creò la
più grande biblioteca e accademia di studi del mondo
Parte VIII L’altra Roma
islamico, chiamata Bayt al-Hikma,
la ‘Casa della Sapienza’, che giunse a ospitare mezzo milione di manoscritti.
La letteratura fiorì a Baghdad e
nelle altre grandi città; gli antichi
poemi epici che cantavano gli eroi
delle tribù, tipici dell’epoca nomade, vennero ricopiati e studiati, ma i
poeti di corte dell’epoca abbaside
composero opere di tipo diverso,
sviluppando soprattutto il genere
della poesia amorosa con accompagnamento musicale, il ghazal. Nacque anche una ricca letteratura araba
in prosa, che comprendeva favole, aneddoti, satire, trattati, manuali e riflessioni di ogni genere sulla natura umana, sull’amore e sul sesso, e dopo la metà del IX secolo anche opere
storiche e geografiche e racconti di viaggio.
Nei secoli immediatamente successivi alla conquista nascono anche i primi grandi monumenti dell’architettura islamica. Si tratta innanzitutto di moschee. Le più antiche sono
la Moschea di Omar, nota anche come Cupola della Roccia, a Gerusalemme, e quella di
Kairouan, la grande città di guarnigione creata in Tunisia, risalenti ancora al VII secolo, e
la Grande Moschea di Damasco. Le prime moschee presentano una grande varietà di forme, e riprendono elementi delle tradizioni architettoniche precedenti, come la cupola, di
origine romano-bizantina. Il minareto, elemento tipico della moschea, nell’esempio più antico che è appunto quello di Kairouan non è una torre sottile, ma poderosa e a terrazze sovrapposte, forse ispirata dagli ziggurat mesopotamici [cfr. vol. 1, cap. 1.6].
La grande tradizione scientifica
Sul piano scientifico, i dotti arabi si interessarono fin dall’inizio alla chimica, intesa soprattutto come la scienza della trasformazione delle sostanze, traducendo la trattatistica
greca, classificando scientificamente gli elementi e conducendo esperimenti per osservare
le loro reazioni. La stessa parola “chimica” deriva dall’arabo al-kimiya, alchimia, con
cui gli Arabi, e poi gli Europei del Medioevo e del Rinascimento, indicavano una
dottrina che cerca di scoprire le relazioni nascoste fra gli elementi e di tramutare i metalli in oro. Sotto il califfo al-Mamun nacque l’astronomia araba, con
la traduzione di opere greche e indiane, e la costruzione di osservatori astronomici. Nel IX secolo comincia anche la storia della matematica araba, che
ebbe un ruolo fondamentale nel trasmettere all’Occidente i grandi risultati
dei matematici indiani: il matematico persiano al-Khuwarizmi, che insegnava alla Casa della Sapienza a Baghdad, introdusse l’uso dei dieci numerali indiani, che noi chiamiamo appunto numeri arabi e che comprendono
lo zero. Il nome stesso dello “zero” e la parola “cifra” derivano dall’arabo sifr.
Su questa base la matematica araba si spinse rapidamente più avanti: alKhuwarizmi è considerato dalla tradizione l’inventore dell’algebra, e in effetti
fu lui a inventarne il nome e ad ampliarne la teoria, anche se le origini del sistema si trovano in realtà nella matematica greca e indiana.
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Il minareto della Moschea
di Kairouan, Tunisia
VII sec.
Il minareto costituisce uno
degli elementi principali
dell’area sacra della
moschea ed è la torre da
dove il muezzin richiama
cinque volte al giorno i
fedeli musulmani alla
preghiera. Il minareto della
Moschea di Kairouan è uno
dei più antichi, ha una
struttura a tre corpi
sormontati da una cupola.
Astrolabio
927
Museo al-Sabah di Arte
Islamica, Kuwait City
Questo antico strumento
astronomico arabo, serviva
per calcolare latitudini,
localizzare corpi celesti e
determinarne la posizione
sia sulla terraferma sia in
mare aperto.
235
I più antichi numeri arabi
976
Dal Codex Virgilianus ms.
Lat. D. I.2, c. 9v;
Biblioteca di San Lorenzo
dell’Escorial, Spagna
Nell’immagine vediamo
raffigurata la più antica
attestazione dei numeri
arabi su una pergamena
latina.
Lo studio della medicina fu uno dei campi a cui gli Arabi si dedicarono con maggior
passione. La fondazione di ospedali, accompagnati da scuole di medicina, era una delle
opere di pietà preferite dai califfi. Entro il 900 tutta la letteratura medica greca era stata tradotta in arabo e la tradizione di Ippocrate e
Galeno, che dominerà anche la medicina occidentale fino a tempi recenti, era pienamente
assimilata. Anche se priva di un reale fondamento scientifico, la medicina araba basata su
quella greca aveva caratteristiche di grande
modernità, in particolare la nozione che l’organismo è un tutto unico per cui le malattie
non possono essere curate specificamente senza considerare lo stato generale della persona,
e la consapevolezza che le condizioni psicologiche hanno un’influenza sulla fisiologia del paziente. Era innanzitutto un medico il primo
grande scienziato arabo, Muhammad ibn Zakariya detto al-Razi, vissuto tra IX e X secolo,
anch’egli di origine persiana come al-Khuwarizmi; egli però, nel solco della tradizione
scientifica antica, si interessò alle discipline più diverse. A Razi sono attribuite più di cento opere mediche, trentatré trattati di scienze naturali, uno di alchimia, undici di matematica e astronomia e quarantacinque di filosofia, logica e religione, in arabo e in persiano.
1. Di che cosa si occupava maggiormente la cultura araba che si sviluppò autonomamente dalla tradizione
ellenistica? 2. Su quale principio si basava la medicina araba?
10. I cristiani
nell’impero arabo
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Convivenza pacifica e controllo politico del clero
Cristiani ed ebrei costituivano all’inizio l’immensa maggioranza della popolazione nei
territori conquistati dagli Arabi (e non dimentichiamo gli zoroastriani, nei territori dell’ex
impero sasanide fra la Persia e l’India). La loro conversione non faceva parte del programma dei califfi: lo scopo delle conquiste arabe era di estendere il potere dell’islam su tutte le
terre abitate, non di convertire con la forza i loro abitanti. Il Corano prevede che i musulmani possano convivere con cristiani ed ebrei, purché questi ultimi accettino di obbedire
alle autorità islamiche. Imporre la vera fede e la sharia significava per i conquistatori stabilire il potere di sovrani musulmani, e imporre i musulmani come classe dirigente e privilegiata; sotto di loro, i cristiani potevano continuare a praticare la loro fede e le loro Chiese continuavano a esistere. I califfi controllavano le nomine di vescovi e abati, come avevano fatto prima di loro gli imperatori bizantini, collocando nelle posizioni più importanti
propri uomini di fiducia, e quindi in pratica l’alto clero cristiano era inserito ufficialmente
nell’amministrazione dell’impero islamico.
Al momento della conquista, i cristiani che abitavano le province bizantine non potevano ovviamente prevedere l’importanza drammatica che avrebbe avuto in futuro il confron-
236
Parte VIII L’altra Roma
to fra il cristianesimo e l’islam. Sembra che gli
ecclesiastici non si siano nemmeno accorti che
l’islam rappresentava una nuova religione, e
un temibile concorrente. Sapevano soltanto
che il temuto e odiato potere imperiale era stato abbattuto e rimpiazzato da nuovi dominatori, barbari e bellicosi, ma che dimostravano rispetto per le chiese e i monasteri, come attestano con stupore le testimonianze dell’epoca.
La conquista in sé era stata ovviamente devastante, accompagnata da distruzioni, saccheggi, massacri e confische; ma una volta concluse le ostilità, i nuovi padroni si accontentavano di imporre i tributi tradizionali, riscossi dagli stessi uffici che già li riscuotevano per conto dell’impero. Le guarnigioni arabe concentrate nelle loro città separate pesavano sul paese meno delle guarnigioni bizantine, spesso
formate da truppe di provenienza e lingua altrettanto estranea.
Ma soprattutto il clero monofisita o nestoriano [cfr. cap. 16.5], seguace di confessioni
diverse da quella cattolica ufficiale, si accorse
che il nuovo potere, diversamente da quello di
Costantinopoli, non aveva alcun interesse per
i dissensi teologici fra cristiani, rispettava tutte le chiese e i monasteri, e anzi semmai tendeva a favorire proprio il clero monofisita e nestoriano, di cui conosceva l’ostilità a Bisanzio. Il patriarca monofisita di Alessandria, Beniamino, era vissuto in clandestinità per
tredici anni, ricercato dalla polizia imperiale; ma la conquista musulmana gli permise di riprendere trionfalmente la guida della sua Chiesa. Ce n’era abbastanza perché nel complesso la società locale cristiana e il suo clero non dovessero rimpiangere la dominazione
bizantina. Momenti di tensione non mancarono, come quando nel 723 il califfo Yazid, fedele agli ordini dell’Antico Testamento che proibiscono di fabbricare immagini di Dio, ordinò la distruzione delle immagini sacre nelle chiese e nelle case cristiane, e cercò anche
di sterminare tutti i maiali, ritenuti animali impuri dall’islam e dall’ebraismo. Vi furono
zone, come l’Armenia, dove la Chiesa alimentò un costante spirito di ribellione contro la
dominazione islamica. Vi fu una certa resistenza in Spagna, dove alla metà del IX secolo,
per reazione alle crescenti conversioni all’islam della popolazione locale, nacque il movimento dei “martiri” di Cordova: fanatici che insultavano pubblicamente Maometto e l’islam allo scopo di essere condannati e giustiziati. Ma in generale la convivenza pacifica
dei cristiani e dei loro vescovi e monaci con i dominatori arabi fu la norma.
Questa convivenza pacifica non significa che il clero cristiano rinunciasse a combattere
l’islam sul piano religioso, cercando di impedire le rovinose conversioni di un numero sempre crescente di fedeli. Una volta che l’islam cominciò a essere meglio conosciuto e capito, ci si rese conto del pericolo che rappresentava per la fede cristiana: il clero non esitò a
confrontarsi con i musulmani in dispute pubbliche e a scrivere trattati in cui affermava
la superiorità del cristianesimo, attaccando l’islam in termini anche molto duri (anche se
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
Airivank, il “Monastero
delle Caverne”
X-XIV sec.
Gheghart, Armenia
Airivank, nell’Armenia
centro-orientale, è uno dei
più grandi insediamenti
monastici rupestri. Fu
fondato attorno al X secolo
e resistette tenacemente alle
ingerenze arabe, persiane,
turche.
237
cittadinanza
Libertà di culto e luoghi di preghiera
Il Corano non è certamente ispirato dal principio di tolleranza, così com’è
nato in Europa nell’epoca dei Lumi, il XVIII secolo. Nella tradizione europea, da allora, tolleranza significa riconoscimento che tutte le idee possono essere espresse a eguale titolo, e che tutte le fedi religiose hanno
pari dignità, purché ovviamente non comportino violazioni della legge.
Nella prospettiva del Corano, invece, non c’è dubbio che i credenti, cioè
i musulmani, sono superiori agli altri e che la loro fede è l’unica vera e
giusta. Nei confronti degli altri “popoli del Libro”, cioè gli ebrei e i cristiani, la cui fede è basata al pari dell’islam su una rivelazione divina conservata in un libro sacro, il Corano invita a una “tolleranza” di fatto, nel
senso che con loro i musulmani possono convivere pacificamente, così
come possono sposare donne ebree o cristiane. Il Corano afferma addirittura che fra gli ebrei e i cristiani «quelli di essi che credono in Dio e nel
giorno estremo, e facciano del bene», potranno salvarsi (Corano, V, 73).
Fra gli ebrei e i cristiani, Maometto esprime maggiore simpatia per i cristiani, e lo giustifica apertamente dichiarando che è merito del loro clero: «Tu, per certo, troverai che i più violenti nell’inimicizia contro coloro
che credono sono i giudei e i politeisti e troverai, d’altra parte, che quelli che sono più vicini per affetto a quelli che credono sono coloro che dicono “noi siamo cristiani”; ciò avviene perché di essi alcuni sono preti e
monaci, ed essi non sono orgogliosi» (Corano, V, 85). Lo stesso rispetto
è dichiarato per i luoghi di culto cristiano: parlando del jihad, il Corano li
assimila alle moschee e dichiara che la spada del credente serve a difendere anche quelli dalla violenza dei politeisti – che a differenza dei cristiani, come sappiamo, sono odiati senza riserve dall’islam: «se Dio non
respingesse la violenza di alcuni uomini a mezzo di altri, certamente, monasteri e chiese e oratori e moschee, in cui frequentemente viene commemorato il nome di Dio, verrebbero distrutti» (Corano, XXII, 41).
I precetti dei testi sacri restano spesso lettera morta, e nella lunga storia
dei conflitti fra Cristianità e islam le chiese sono spesso state dissacrate e
insultate dai combattenti musulmani, come le moschee da quelli cristiani. Anche oggi il terrorismo integralista di matrice islamica – ma anche
quello indù, in un paese come l’India dove gli scontri religiosi più violenti non coinvolgono i cristiani, ma appunto indù, sikh e musulmani – prende spesso come bersaglio proprio i luoghi di culto. Il conflitto, interno all’integralismo islamico, fra sunniti e sciiti porta spesso a compiere attentati e stragi addirittura nelle moschee. È una prova di quanto il fanatismo
religioso porti a tradire lo stesso messaggio in nome del quale si pretende di combattere. Resta il fatto che nei paesi islamici sono sempre esistite chiese cristiane regolarmente funzionanti e tollerate dalle autorità, anche se con limitazioni importanti, come la proibizione di suonare le campane; l’Arabia Saudita odierna, governata da un regime estremamente rigido e intollerante, che vieta l’apertura di chiese, è un’eccezione.
238
Parte VIII L’altra Roma
Proprio per questo è tanto più assurdo che in Europa, patria di un principio di tolleranza ancora più universale di quello coranico, la costruzione di moschee, cioè di luoghi di preghiera per le minoranze musulmane, provochi oggi rabbiose opposizioni. Ed è non solo assurdo, ma anticostituzionale che queste opposizioni si manifestino in Italia, dove la Costituzione garantisce espressamente, all’art. 19: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in
pubblico il culto». È come se, con la pretesa di difendere la nostra identità, ci dimenticassimo proprio di quei princìpi che ne costituiscono il fondamento più luminoso.
La Torah
Sinagoga di Djerba, Tunisia
Il Corano
X sec.
Kashmir, India
La Bibbia
1450
Germania
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
239
questo, ovviamente, si poteva fare solo in privato e non in pubblico). Ma questo confronto di
idee non impediva la convivenza in un unico
Stato. San Giovanni Damasceno (c. 676-749),
l’ultimo grande Padre della Chiesa, arabo cristiano di Siria, autore di trattati in lingua greca
in cui l’islam è violentemente condannato come un’eresia del cristianesimo, era figlio e nipote di altissimi funzionari del diwan, e lui
stesso era stato al servizio del califfo fino a
quando, nel 720, non venne proibito ai cristiani di fare carriera [cfr. par. 7].
Perché convertirsi?
Piatto con raffigurazione
religiosa buddista
IX sec.
Ashmolean Museum,
Oxford
La diffusione dell’islam è
testimoniata anche da
questo piatto di epoca
abbaside, decorato con
un’immagine di
Bodhisattva, divinità
buddista importata nell’Asia
centrale e adottata come
elemento decorativo dai
ceramisti musulmani.
Sarebbe dunque un errore credere che la
conquista araba abbia significato subito e dappertutto l’imposizione dell’islam alle popolazioni sottomesse. Anzi, si può dire che al tempo dei primi califfi, e per tutta l’epoca degli
Omayyadi, l’islam fosse inseparabile dall’identità araba: era la religione degli Arabi, che
non tenevano affatto a condividerla con gli altri. Certamente la nuova religione impressionò e attrasse molti fin dal primo momento, ma
gli indigeni che si convertivano dovevano in un certo senso diventare Arabi per essere accettati su un piano di eguaglianza, entrando nella clientela di un capo arabo e integrandosi
nella sua tribù.
Ci volle molto tempo perché la maggioranza degli indigeni si convertisse all’islam, e
questa progressiva conversione non dipese da pressioni o persecuzioni; si spiega, invece,
col fatto che l’islam era la religione delle autorità di governo e dei gruppi sociali privilegiati, innanzitutto i soldati e più in generale tutti gli Arabi. Seguire una religione diversa significava essere sudditi di seconda categoria, anche se “protetti” (dhimmi): un’inferiorità
evidenziata dalla più pesante tassazione cui erano sottoposti i non musulmani. Convertirsi
all’islam significava dunque ridurre il peso delle imposte, e più in generale entrare a far
parte della comunità dei credenti e aprirsi la strada a tutte le possibilità di avanzamento
che questo comportava. Per di più, in tutti i paesi conquistati il flusso di Arabi musulmani
provenienti dalla penisola arabica fu piuttosto sostenuto, contribuendo a conferire ai nuovi territori un carattere islamico. Per effetto di tutti questi fattori, col tempo la percentuale
dei musulmani fra la popolazione dell’Iraq, della Siria, della Palestina, dell’Egitto, del Nordafrica andò crescendo, e diminuì quella dei cristiani. Ma in certe zone, per esempio la Palestina, culla del cristianesimo, o l’Egitto con la sua potente chiesa copta, una consistente
minoranza della popolazione è rimasta cristiana fino a oggi, anche dopo aver adottato la
lingua e la civiltà araba.
1. In che modo le autorità arabe influivano sulla vita delle comunità cristiane? 2. Per quale motivo era
conveniente convertirsi all’islam?
240
Parte VIII L’altra Roma
SINTESI
1. Maometto e la nascita dell’islam
Uno degli eventi più importanti del VII secolo fu la nascita dell’islam e l’espansione araba. Gli Arabi erano originari della penisola arabica e si erano successivamente diffusi nel Vicino Oriente. Alcuni popoli arabi si erano romanizzati, ma nel deserto vivevano
le tribù nomadi dei Beduini che controllavano le piste carovaniere. In gran parte queste tribù erano politeiste e come centro di culto avevano la città della Mecca, importante snodo commerciale della regione. Fu in questo luogo che nel 610 Maometto ebbe le prime visioni inviategli da Allah, la più potente e misteriosa delle divinità, che, dopo essersi rivelata a ebrei e cristiani, aveva scelto Maometto come depositario della rivelazione più importante. I seguaci della nuova religione furono chiamati musulmani e le rivelazioni trasmesse
da Maometto furono raccolte, alla sua morte, in un libro sacro, il Corano.
2. La lotta per imporre l’islam e la nascita del jihad
La predicazione di Maometto attirò l’ostilità dei capiclan politeisti che dominavano alla Mecca e, nel 622, il profeta fuggì con
i suoi seguaci a Medina, dando inizio alla lotta armata per affermare la forza della propria religione. Questa accezione bellicosa dell’islam rientra nella gamma di significati del termine arabo jihad, che letteralmente vuol dire ‘sforzo’. Nel 630 Maometto e i suoi entrarono trionfalmente alla Mecca, trasformandola nella capitale spirituale dell’islam. All’epoca della sua morte (632) Maometto era il capo
indiscusso di gran parte della penisola arabica, dove la maggioranza degli abitanti si era convertita all’islam, pagava tributi e seguiva la
legge coranica, la sharia. Il rapporto tra la nuova fede, l’ebraismo e il cristianesimo fu sempre tollerante: ambivalente nel momento in
cui gli islamici dominavano, conflittuale quando l’islam si sentiva minacciato.
3. Le lotte per la successione di Maometto e il califfato
Alla morte del profeta la comunità islamica dovette affrontare una serie di problemi dovuti, principalmente, alla ribellione di
molte tribù nomadi e alle lotte che si scatenarono per la successione al potere. Alla guida dei musulmani si succedettero quattro califfi:
Abu Bakr, Omar, Uthman e Alì, cugino del profeta. Alì fu ucciso nel 661 al termine di una guerra civile e il suo posto fu preso da
Muawiya, che diede inizio alla dinastia omayyade e trasferì la capitale da Medina a Damasco. A quest’epoca risale la prima grande frattura nel mondo islamico tra la maggioranza sunnita e la minoranza sciita, la quale sosteneva che la legittimità del potere sulla comunità
spettasse unicamente ad Alì e ai suoi discendenti.
4. Le grandi conquiste arabe
Nel volgere di poco tempo gli Arabi si trovarono a dominare su un territorio vastissimo. In un trentennio, dopo aver sottomesso l’Arabia, furono strappati la Siria, la Palestina, l’Egitto e Cipro all’impero bizantino; l’intera Mesopotamia e l’Iran all’impero sasanide. Sotto gli Omayyadi gli Arabi si spinsero fino in Afghanistan e conquistarono parte dell’Asia Minore e tutto il Nordafrica. All’inizio dell’VIII secolo portarono sotto la propria egemonia le steppe dell’Asia centrale e la valle dell’Indo e penetrarono in Europa. Dopo
aver abbattuto il regno visigoto e conquistato i tre quarti della Spagna furono fermati oltre i Pirenei dai Franchi. Le conquiste arabe mutarono radicalmente il quadro geopolitico euroasiatico. L’impero sasanide scomparve, quello bizantino ne uscì fortemente ridimensionato e le Chiese orientali rimasero isolate, permettendo alla Chiesa di Roma di cominciare ad affermare la propria autorità su tutto il
mondo cristiano.
5. La fine delle conquiste arabe e lo sgretolamento dell’impero
Intorno alla metà dell’VIII secolo l’espansione islamica si arrestò e furono evidenti gli enormi problemi che poteva comportare la gestione di domìni così vasti. Nel 750 prese il potere la dinastia degli Abbasidi. Sotto di essi la capitale fu spostata a Baghdad e la
civiltà araba conobbe il punto più alto della sua storia. Tuttavia, lo spostamento del baricentro a Oriente contribuì alla progressiva frammentazione politica dell’impero tra il IX e il X secolo. Soprattutto in Occidente alcuni territori cominciarono a rendersi autonomi da Baghdad e presero il nome di emirati. Nel X secolo la situazione mutò nuovamente quando, accanto a quello di Baghdad, emersero due
nuovi califfati, quello di Cordova in Spagna e quello dei Fatimidi in Nordafrica e in Sicilia.
6. Islam e cristianesimo: un confronto
La religione islamica affonda le proprie radici nella Bibbia e si pone in continuità con l’ebraismo e il cristianesimo. Maometto accettò alcune rivelazioni presenti nell’Antico Testamento e nel Vangelo e riprese diversi obblighi e divieti tipici dell’ebraismo. Gli obblighi fondamentali per ogni musulmano sono cinque: la professione di fede, la preghiera cinque volte al giorno, l’elemosina ai poveri, il rispetto del Ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca. L’islam è una religione più essenziale rispetto al cristianesimo, e il suo Dio, la cui rappresentazione è vietata, è interamente trascendente. Nel mondo musulmano non esiste la Chiesa e non c’è
un’interpretazione ufficiale dell’ortodossia religiosa. Esistono gli ulema, un gruppo di studiosi che forniscono un loro parere sulla fede e sulla sharia.
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
241
7. L’organizzazione dell’impero arabo
Le conquiste arabe furono il frutto di una pianificazione deliberata e l’elemento religioso ebbe un ruolo decisivo in esse. Al successo dell’espansione araba concorse la grande disponibilità di risorse umane ed economiche a cui gli Arabi potevano accedere. Il sistema
fiscale e quello monetario furono riorganizzati, e la nascita di un immenso spazio unificato economicamente, politicamente e culturalmente aiutò a rilanciare l’economia dei paesi conquistati e a far rifiorire le città. L’esercito fu riorganizzato e reso professionale e il continuo arrivo di immigrati arabi, oltre alla nascita di un’élite dirigenziale araba, mutò la composizione etnica dell’impero assoggettato. Dall’VIII secolo la fiscalità divenne la risorsa più importante dello Stato e cominciò a gravare non solo su cristiani ed ebrei, ma anche sul resto dei sudditi. Dal IX secolo si fece frequente l’uso di schiavi per incarichi di grande responsabilità nell’amministrazione e nell’esercito.
8. La donna e la parentela in epoca coranica
Il nucleo centrale dei clan arabi era la famiglia, patriarcale e poligamica, e le donne erano del tutto subordinate agli uomini. Il
Corano cercò di regolare le relazioni familiari e garantire alle donne alcuni diritti, pur senza toccare la struttura fondamentalmente patriarcale della società e mantenendo il ruolo secondario della donna. Il Corano intervenne sui rapporti poligamici, cercò di scoraggiare
il ripudio e regolamentò l’eredità, stabilendo, però, una ripartizione squilibrata tra uomo e donna. L’omosessualità era punita, così come l’adulterio compiuto dalle donne. Nella società musulmana la parentela continuava a costituire una struttura forte, a tutto discapito
dell’autonomia individuale.
9. La civiltà araba
La presenza di tante culture all’interno del vasto territorio dominato permise di far confluire nella civiltà araba il grande patrimonio della civiltà iranica e indiana e della civiltà ellenistica. Grazie alla mediazione degli Arabi l’Occidente ha potuto recuperare i grandi pensatori greci antichi. Gli Arabi svilupparono una ricca produzione poetica e letteraria. Si interessarono di chimica e arricchirono gli
studi astronomici. Al matematico al-Khuwarizmi si deve l’introduzione dell’uso dei dieci numerali indiani e la nascita dell’algebra. Fu
sviluppato lo studio della medicina, cui seguì la fondazione di ospedali e scuole mediche. Dopo la conquista nacquero anche i grandi
monumenti architettonici islamici, soprattutto moschee.
10. I cristiani nell’impero arabo
La conversione all’islam non fu il principale obiettivo dei conquistatori. Alle preesistenti comunità ebraiche e cristiane fu garantita una certa libertà di culto. I cristiani monofisiti e nestoriani conobbero la fine delle persecuzioni. Le tensioni non mancarono, ma
in generale la convivenza tra le varie confessioni fu pacifica. Tuttavia, con il tempo gran parte della popolazione dei paesi conquistati si
convertì all’islam, perché questo significava la riduzione delle imposte e la possibilità di entrare a far parte della comunità di credenti e
far avanzare la propria condizione sociale.
242
Parte VIII L’altra Roma
ESERCIZI
Gli eventi
1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette:
❏ a) La maggior parte dei Beduini era stata romanizzata e convertita al cristianesimo.
❏ b) Maometto trasformò la Mecca nella capitale spirituale dell’islam.
❏ c) I musulmani sciiti ritengono che Alì e i suoi discendenti fossero gli unici successori legittimi del profeta.
❏ d) Con la battaglia di Talas gli Arabi furono fermati dai Cinesi che ripresero il controllo delle steppe asiatiche.
❏ e) Durante il califfato degli Abbasidi la civiltà araba conobbe una profonda crisi economica e culturale.
❏ f) Nel mondo islamico non esiste la Chiesa e non c’è un’interpretazione ufficiale dell’ortodossia religiosa.
❏ g) La conquista araba distrusse il preesistente tessuto economico, sociale e urbanistico dei territori assoggettati.
❏ h) Il Corano garantì alle donne dei diritti che prima non avevano, ma non modificò la natura maschilista della società araba.
❏ i) Gli Arabi si dedicarono con grande passione allo studio della medicina e i califfi fecero costruire molti ospedali.
❏ j) L’islam fu sempre intollerante e repressivo nei confronti delle altre religioni.
Le coordinate spazio-temporali
2. Collega correttamente gli eventi elencati alle date; quindi attribuisci colori a tua scelta ai periodi storici
elencati di seguito e sottolinea gli eventi a essi connessi:
a) 661
1) L’ultimo imperatore sasanide viene ucciso e l’intera Mesopotamia cade sotto l’egemonia araba.
b) 910
2) Abu Bakr viene riconosciuto come legittimo successore del profeta.
c) 610
3) Invasione araba della Spagna e conquista del regno indù di Sind.
d) 651
4) Il califfo Alì viene assassinato e al suo posto diventa califfo Muawiya.
e) 630
5) Inizia la conquista araba della Sicilia.
f) 711
6) I Bizantini vengono sconfitti a Yarmuk dagli Arabi, che presto conquistano la Siria e la Palestina.
g) 827
7) La dinastia dei Fatimidi prende il potere in Tunisia.
h) 622
8) Il Nordafrica bizantino viene conquistato dagli eserciti arabi.
i) 665
9) I Cinesi vengono sconfitti a Talas e viene consolidato il predominio arabo e islamico in Asia centrale.
j) 636
10) Maometto riceve le prime rivelazioni da Allah.
k) 751
11) Maometto fugge a Medina con i suoi fedeli.
l) 632
12) Maometto e i suoi seguaci entrano vittoriosi alla Mecca.
• Predicazione/ègira:
• I califfi “ben guidati”
• Dinastia omayyade
• Dinastia abbaside
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
243
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3. Inserisci nella seguente carta i nomi delle città e degli Stati elencati e indica l’estensione raggiunta
dall’impero arabo nel X secolo; quindi rispondi alle domande:
Città: Cordova, Roma, Costantinopoli, La Mecca, Il Cairo, Baghdad, Damasco, Medina.
Stati: Impero persiano, Regno dei Franchi, Impero bizantino.
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a) Di dove erano originari gli Arabi? Dove erano diffusi prima del VII secolo?
b) Per quale motivo l’espansione degli Arabi a spese di Bizantini e Persiani fu così rapida?
c) Dove risiedevano i califfi durante la dinastia degli Omayyadi e quella degli Abbasidi?
d) Che cosa era il diwan?
e) Chi erano gli emiri?
f) Per quali ragioni tra l’VIII e il IX secolo si assiste alla frammentazione politica dell’impero islamico?
Quali furono i principali Stati arabi indipendenti?
244
Parte VIII L’altra Roma
Il lessico
4. Inserisci il termine o l’espressione corrispondente alle definizioni elencate:
...........................................................: Parola araba che indica la “comunità dei credenti”.
...........................................................: Parola araba che indica lo ‘sforzo’ compiuto per soddisfare la volontà di Dio.
...........................................................: La legge islamica trasmessa dalle rivelazioni divine a Maometto.
...........................................................: Il libro sacro dei musulmani, nel quale sono raccolte tutte le rivelazioni trasmesse a Maometto.
...........................................................: Il mese in cui i musulmani sono obbligati a digiunare e ad astenersi dal sesso durante le ore diurne.
...........................................................: L’elemosina ai poveri, uno dei cinque precetti fondamentali dell’islam.
...........................................................: Ciò che si trova al di fuori del nostro universo, in un’altra dimensione.
...........................................................: Luogo di culto in cui si ritrovano i musulmani per pregare insieme.
...........................................................: Figura autorevole dell’islam che guida la preghiera.
...........................................................: Studioso del Corano e della tradizione religiosa.
L’elaborazione scritta
5. Per descrivere gli elementi di base della religione islamica completa sul tuo quaderno le seguenti frasi,
ordinandole in un breve testo scritto (max 20 righe):
1) La religione islamica, pur affondando le proprie radici nella Bibbia, rispetto all’ebraismo e al cristianesimo si pone come .....................................................;
2) Maometto accettò alcuni aspetti caratteristici e riprese alcuni obblighi e divieti dalla “gente del Libro”; della Bibbia e del Vangelo egli accettò
............................................................; dalla tradizione ebraica, inoltre, riprese ............................................................;
3) La fede islamica rispetto alla complessa teologia cristiana era molto più essenziale, perché ............................................................;
4) Il Dio dell’islam è interamente trascendente e per questo motivo ............................................................;
5) I luoghi di culto sono ............................................................;
6) I musulmani sono obbligati a seguire cinque fondamentali precetti, ovvero ............................................................;
7) Nell’islam non esiste un clero, ma figure autorevoli come ............................................................;
8) Le due fondamentali differenze tra islam e cristianesimo sono ............................................................
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Che significato assunse il termine “jihad” al tempo della grande espansione araba?
2) Che conseguenze ebbe la conquista araba sui territori sottomessi da un punto di vista politico ed economico?
3) Come erano organizzati i territori sottomessi dagli Arabi? In che modo si trasformò la composizione etnica dei territori conquistati?
4) Quali furono i rapporti tra i musulmani e i fedeli delle altre confessioni religiose? Per quale motivo a un certo punto risultò conveniente convertirsi all’islam?
5) Qual era la situazione delle donne nella società araba? Quali cambiamenti apportò il Corano?
6) In che modo il patrimonio culturale delle popolazioni sottomesse influì sullo sviluppo della civiltà araba?
Capitolo 18 La nascita dell’islam e le conquiste arabe
245
Capitolo 19
L’impero
bizantino
1. Un impero
mutilato e rinnovato
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Quando cominciare a parlare di “impero bizantino”?
“Impero bizantino” è un nome inventato dagli umanisti del XVI secolo, e poi adottato
dalla storiografia moderna, per designare l’impero romano d’Oriente, a partire da un certo
momento della sua storia. Non tutti gli storici, però, sono d’accordo su quale sia esattamente il momento in cui si smette di parlare di impero romano, e si comincia a usare il nome di “impero bizantino”. Secondo qualcuno, la svolta risale addirittura al 324, quando Costantino ordinò la rifondazione dell’antica città di Bisanzio, sul Bosforo, al confine fra Europa e Asia, le diede il suo nome, ribattezzandola Costantinopoli, e decise di farne la nuova capitale dell’impero. Secondo altri, il primo imperatore bizantino è Zenone, che regna-
Il Mediterraneo
nell’VIII secolo
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Arabi
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Bizantini
Longobardi
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246
Parte VIII L’altra Roma
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La Mecca
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va a Costantinopoli nel 476, l’anno in cui Odoacre depose Romolo Augustolo e l’Occidente si ritrovò senza imperatore. In questa prospettiva Giustiniano, che regnò dal 527 al 565,
è un imperatore bizantino, e non più romano. Così, però, si dimentica che Giustiniano dedicò tutta la vita a riconquistare le province perdute dell’Occidente, per ricostruire l’impero romano così com’era stato al tempo di Augusto; e che fu proprio lui a ordinare la grande codificazione del diritto romano, il Corpus Iuris Civilis [cfr. cap. 17.2].
In questo manuale adottiamo una prospettiva diversa, proponendo di collocare l’inizio dell’impero bizantino fra il 568 e il 610-641. Alla prima data comincia l’invasione
longobarda d’Italia: l’impero perde di nuovo gran parte dei territori riconquistati da Giustiniano. Roma, che fino a quel momento poteva essere considerata parte integrante dell’impero, diventa un avamposto di periferia, e i suoi legami con la capitale cominciano
ad allentarsi. L’ultima coppia di date, 610-641, corrisponde al regno di uno dei più grandi e tragici imperatori d’Oriente, Eraclio, e arriva a comprendere le prime grandi conquiste arabe, che strapparono all’impero i suoi territori più ricchi cambiando per sempre
la sua fisionomia.
Organizzarsi per resistere alle minacce esterne
Eraclio subentrò a un usurpatore, Foca (602-610), che lasciava l’impero in una situazione drammatica. I Longobardi avevano invaso gran parte d’Italia. Nei Balcani, la pressione degli Àvari stanziati nel bacino danubiano e l’immigrazione
delle primitive popolazioni slave
avevano portato alla devastazione e allo spopolamento di vaste
province. In Oriente l’antico, micidiale nemico, l’impero dei Sasanidi, era all’offensiva e nei
primi anni del regno di Eraclio
l’imperatore sasanide Cosroe II
invase l’Armenia, l’Anatolia, la
Siria, la Palestina e l’Egitto.
L’impero sembrava sul punto di
crollare; ma Eraclio seppe risollevare la situazione, ottenendo
vittorie così clamorose contro i
Sasanidi da persuadere tutti che
la mano di Dio lo proteggeva.
Riconquistò tutti i territori perduti e penetrò in profondità nel territorio nemico, in Mesopotamia. Le reliquie della croce di Cristo, sottratte nel 614 dai Persiani e portate nella loro
capitale Ctesifonte, vennero riprese nel 629 e trionfalmente riportate a Gerusalemme.
La situazione sembrava ristabilita e pareva che il dominio imperiale non fosse mai stato così sicuro. Invece l’improvviso dilagare delle invasioni arabe dimostrò la sua intrinseca debolezza. L’esercito di Eraclio venne annientato nel 636 alla battaglia del fiume Yarmuk: Siria, Palestina ed Egitto furono di nuovo perduti, stavolta per sempre. Era un colpo
gravissimo, perché si trattava di territori ricchi ed estesi: andò perduta quasi la metà dell’impero, e forse i tre quarti delle entrate fiscali. L’impero romano si ritrovò a lottare per la
propria sopravvivenza.
Capitolo 19 L’impero bizantino
Il ritrovamento della Vera
Croce
880-886
Miniatura da manoscritto
greco 310, Gregorio
Nazianzeno; Biblioteca
Nazionale, Parigi
La tradizione cristiana narra
che la croce su cui Cristo fu
crocifisso venne ritrovata a
Gerusalemme nel IV secolo
da Elena, madre
dell’imperatore Costantino,
la quale la portò con sé a
Costantinopoli dandola in
custodia al vescovo della
città. Le tracce della Vera
Croce, nel tempo trafugata,
recuperata e poi riportata a
Gerusalemme, si perdono
nel 1187 con la conquista
della Città Santa da parte
degli Arabi.
247
Il fuoco greco
XI-XII sec.
Miniatura dalla Cronaca di
Scilitze; Biblioteca Nazionale
di Spagna, Madrid
Questa raffigurazione
dell’uso del fuoco greco, la
rinomata arma bizantina, è
contenuta in un’opera di
Giovanni Scilitze, uno
storico bizantino del tardo
XI secolo autore di una
sinossi della storia bizantina.
Le miniature che corredano
il testo di Scilitze a noi
pervenuto illustrano gli
eventi intercorsi tra il IX e
l’XI secolo, e documentano
vivacemente l’estenuante
lotta combattuta dall’impero
bizantino contro gli Arabi, i
Bulgari e i gli Slavi.
etichetta
Cerimoniale o complesso di
norme che regola la relazione
tra individui in precisi contesti
ufficiali, e in particolare alla
corte di un sovrano.
248
Sappiamo già che quella lotta ebbe
successo [cfr. cap. 18.4]. Da allora, e
fino all’inizio dell’VIII secolo, l’impero seppe resistere alla pressione araba, impedì ai musulmani di avanzare
in Anatolia, sconfisse ripetutamente le
flotte arabe che gli contestavano il predominio nel Mediterraneo – anche
grazie al nuovo ritrovato tecnologico
del fuoco greco, una sostanza incendiaria dalla composizione segreta che
bruciava anche nell’acqua e che veniva irrorata con sifoni sulle navi nemiche –, e respinse
diversi tentativi arabi di assediare Costantinopoli.
Su altri fronti la situazione rimase grave. In Italia i lembi di territorio controllati dall’impero andavano restringendosi, con la perdita della Liguria; il tentativo dell’imperatore
Costante II, nel 663, di riconquistare l’Italia meridionale longobarda diede scarsi risultati,
e dopo di allora certe zone, in particolare Roma col suo entroterra e le città costiere della
Campania, si abituarono sempre più a difendersi e governarsi da sole, senza una presenza
regolare dell’amministrazione e dell’esercito imperiale. Ma la situazione più drammatica
era quella dei Balcani, dove era emersa una nuova potenza, il khanato dei Bulgari. Come
il khanato degli Àvari, che occupava il bacino del Danubio, anche lo Stato bulgaro venne
costituito da un’aristocrazia di nomadi delle steppe asiatiche, che dominava su una popolazione soggetta in gran parte slava. Intorno al 680 i Bulgari, stanziati alla foce del Danubio, si allargarono nel Sud della penisola balcanica, sottomettendo le popolazioni slave insediate nella zona e minacciando direttamente Costantinopoli.
Sotto Eraclio e i suoi successori l’impero dovette trasformarsi profondamente per resistere a tutte queste minacce. L’imperatore, che assunse il titolo greco di basilèus, divenne
una figura sempre più sacra e intoccabile, segregata nel suo palazzo dove un’etichetta fastosa e complessa esaltava il suo ruolo semidivino. L’amministrazione centrale, che aveva
sede nel palazzo imperiale, si complicò sempre più, con la nascita di un gran numero di uffici, mentre scomparivano le cariche ereditate dall’impero tardo antico, come la prefettura
del pretorio. Si accentuò il carattere burocratico dell’impero, la sua natura di Stato assolutista gestito da un sovrano autocratico (in greco, vuol dire più o meno “comanda lui”: e
significa che tutto il potere gli appartiene) e da una burocrazia onnipotente, con sede in
una capitale gigantesca e accentratrice.
Nelle province i cambiamenti furono ancora più profondi. Sul territorio, il tardo impero romano aveva sempre fatto coesistere un potere civile e uno militare, e aveva rispettato
le autonomie delle città: le curie, paragonabili a consigli comunali costituiti dai cittadini
più ricchi, riscuotevano le tasse e in qualche misura governavano il territorio. Ora invece
l’amministrazione civile cedette il passo a quella militare. Uno dei predecessori di Eraclio,
l’imperatore Maurizio, aveva capito che nelle zone minacciate la difesa era più efficiente
se l’autorità era tutta concentrata nelle mani del comandante militare: perciò aveva deciso
che i possedimenti più occidentali dell’impero, quelli appena riconquistati da Giustiniano
e più difficili da difendere, dovevano essere governati da funzionari di tipo nuovo, gli esarchi, che univano autorità civile e militare. Gli avanzi dell’Italia del Nord non ancora occupati dai Longobardi erano stati sottoposti all’esarca di Ravenna; l’ex regno vandalo del
Nordafrica all’esarca di Tunisi. A partire dal regno di Eraclio, una riforma ispirata allo stes-
Parte VIII L’altra Roma
Sarcofago dell’esarca
Isacio
VII sec.
Chiesa di San Vitale,
Ravenna
La chiesa di San Vitale a
Ravenna conserva un
prezioso sarcofago di fattura
bizantina e finemente
decorato, in cui sono
conservate le spoglie di
Isacio, un armeno nominato
esarca di Ravenna nel 619.
so principio venne estesa gradualmente a tutto il territorio dell’impero, con l’introduzione
di province di tipo nuovo, i temi.
Le antiche prefetture e province dell’impero romano vennero abolite e sostituite da queste nuove circoscrizioni, ritagliate innanzitutto in base alle esigenze della difesa militare.
In greco il loro nome significava in origine ‘reparto militare’. In pratica ogni distretto dell’impero era concepito come il supporto delle truppe stanziate sul suo territorio, e il comandante delle truppe, lo stratego, era anche il governatore del distretto. Non c’era più un
potere civile che potesse controbilanciare quello militare, e non c’erano più le autonomie
delle curie cittadine, cancellate dalla riforma. Un sistema di governo del territorio che risaliva addirittura all’epoca delle pòleis greche, poi incorporate ma anche rispettate dall’impero romano, scompariva per sempre.
Solido con Eraclio e suo
figlio Eraclio Costantino
VII sec.
Zecca di Ravenna
Le conseguenze
Il VII secolo segnò una profonda trasformazione del mondo bizantino anche sul
piano economico e culturale. L’antica economia dell’impero romano si fondava
su commerci che univano tutte le sponde del Mediterraneo, e su un fisco capace
di prelevare imposte in territori anche lontanissimi per investirle e distribuirle dove voleva. Adesso, però, non solo l’Occidente invaso dai barbari, ma anche il Vicino Oriente e la sponda meridionale del Mediterraneo erano andate perdute. Il fisco era costretto a spremere sempre più i pochi territori che restavano all’impero, provocando scontento e danneggiando l’economia. I mercanti trovavano ormai un unico
sbocco, la capitale Costantinopoli, che non a caso crebbe sempre più, a scapito delle
altre città.
Proprio come era accaduto in Occidente dopo le invasioni barbariche, anche in
Oriente tutti i centri urbani si impoverirono e decaddero, a eccezione di Costantinopoli: l’impero parve quasi ridursi all’immensa metropoli, mantenuta a fatica
da territori insufficienti, impoveriti e minacciati. Il solido d’oro introdotto da Costantino e coniato dagli imperatori continuò a essere la moneta di base degli scambi mediterranei, imitata dai re barbari e dai califfi arabi, tanto che il grande storico
della tarda Antichità (III-VI secolo), Peter Brown, lo ha definito «il dollaro del Me-
Capitolo 19 L’impero bizantino
249
Bisanzio, “una civiltà inferiore”?
Sull’impero bizantino ha gravato per molto tempo un pregiudizio ingiustificato. Nell’immaginario collettivo Bisanzio è luogo
di corruzione e di menzogna, di vuota retorica e di estenuata decadenza; basta vedere come sono rappresentati i Bizantini nel
film L’armata Brancaleone di Mario Monicelli. In lingua italiana, “bizantinismo” significa pedanteria, sottigliezza inutile, cavillo pretestuoso. La storia bizantina è immaginata come una storia di interminabile declino, la cultura bizantina è vista come statica e bloccata, l’arte bizantina è presentata come goffa e ritardataria; si saluta con entusiasmo Giotto come il pittore che liberò
finalmente la pittura italiana dall’eredità della pittura bizantina
coi suoi immancabili sfondi dorati.
Questa visione caricaturale è il frutto dell’ostilità che fin dall’epoca di Carlo Magno l’Occidente ha coltivato nei confronti dell’impero orientale, considerato un rivale da annientare, anche
sul piano dell’immagine e della memoria.
Non è un caso se invece di chiamare quell’impero col suo vero
nome – era l’impero
romano d’Oriente –
gli umanisti europei
del Cinquecento hanno inventato il nome di
“impero bizantino”, in
modo da mascherare il
fatto che i veri eredi
della gloriosa civiltà
greco-romana erano i
sudditi dell’imperatore di Costantinopoli e
non gli europei dell’Occidente.
Fino a qualche tempo
fa anche gli studiosi
erano vittime di questi
pregiudizi, che fra Ottocento e Novecento
venivano espressi con
una sicurezza veramente ridicola. Lo storico W.E.H. Lecky nel
1869 scrisse: «L’universale verdetto della
storia sull’impero bizantino è che costituisce senza possibile eccezione la forma più
inappellabilmente bassa e deprecabile mai
assunta dalla civiltà.
Non è mai esistita
un’altra civiltà duratura così assolutamente
priva di grandezza, e
250
Parte VIII L’altra Roma
alla quale l’epiteto ‘vile’ possa applicarsi in modo così lampante»1. Anche un grande filologo italiano del Novecento, Giorgio
Pasquali, definì Bisanzio «una civiltà, diciamo pure, inferiore».
Oggi questi giudizi appaiono grotteschi: una nuova generazione
di studiosi ha dimostrato che la storia bizantina è estremamente
variegata, che quell’impero fu un grande Stato multietnico e culturalmente vivace, governato da un’élite coltissima che citava
Omero e i classici greci, e che l’arte bizantina è di estrema raffinatezza. Ma ci vorrà di sicuro molto tempo perché questa consapevolezza diventi parte della cultura collettiva.
1. S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Einaudi, Torino 2002, p. 145.
Cristo benedicente
XI sec.
Particolare di un
mosaico, della basilica di
Santa Sofia, Istanbul
Tra le caratteristiche
peculiari dell’arte
bizantina si riconosce
la tendenza
all’anti-plasticità e
all’anti-naturalismo con
il risultato di un
appiattimento e della
stilizzazione delle figure.
Gli artisti bizantini, che
avevano dimenticato la
vivacità delle scene
dipinte, tipiche del
mondo romano, avevano
difatti un obiettivo
diverso, non legato alla
contingenza delle cose
terrene ma rivolto
all’astrazione dalla realtà
perché i soggetti
acquisissero un‘aura
soprannaturale, simbolo
del divino.
dioevo»; ma al di fuori di Costantinopoli avvenne una generale ruralizzazione della società. Al contrario di quel che era sempre accaduto nel mondo antico, le campagne e i loro
abitanti erano ora più importanti delle città, impoverite e private della loro autonomia.
Anche l’esercito fu coinvolto in questo processo di ruralizzazione. I soldati si trasformarono in una classe sociale ereditaria, a cui lo Stato assegnava delle terre da coltivare, in
cambio del loro servizio militare. In pratica, in ogni tema la guarnigione era costituita da
soldati-contadini residenti sul posto, fissati lì dalle terre assegnate e dall’obbligo di trasmettersi il mestiere di padre in figlio. Era la risposta alla paurosa riduzione del gettito fiscale, conseguente alle gravi perdite territoriali e alla crisi del mondo urbano. Oltre ai soldati, anche gli altri contadini vennero tutelati dall’impero, che li considerava come la spina dorsale della società, dal momento che dopo il declino della vita urbana erano rimasti
solo i contadini a pagare le tasse e a fare il servizio militare. Il governo bizantino cercò sempre di limitare l’espansione delle grandi proprietà terriere e di tutelare dai soprusi dei potenti i soldati-contadini e gli altri piccoli proprietari, favorendo la loro organizzazione in
comunità di villaggio.
Sul piano culturale, la perdita della Siria, della Palestina, dell’Egitto e delle loro grandi
metropoli come Antiochia, Damasco, Alessandria fu drammatica per il mondo bizantino,
perché da lì, per secoli, era venuta la grande maggioranza degli intellettuali e dei teologi
greci. La crisi del tardo VII secolo significò anche un abbassamento degli standard culturali e scolastici; la cultura greca antica venne in gran parte dimenticata, e tramontò la
conoscenza della lingua greca classica, ormai molto diversa dal greco popolare parlato quotidianamente. Solo dalla metà del IX secolo un movimento di rinascita culturale, il cosiddetto “umanesimo bizantino”, porterà alla riscoperta del greco classico e della sua letteratura, compresi Omero e i tragici greci.
1. A quali eventi può essere collegato inizialmente l’uso del nome “impero bizantino”? 2. In che modo
cambiò l’assetto territoriale dell’impero per venire incontro alle esigenze difensive? 3. Che posizione
raggiunsero i contadini nella società bizantina a partire dal VII secolo?
2. L’età dell’iconoclastia
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Gli imperatori iconoclasti: Leone III e Costantino V
I primi anni dell’VIII secolo furono segnati da ripetute congiure e ribellioni di pretendenti al trono, con la deposizione e l’omicidio di diversi imperatori. La situazione si stabilizzò con la conquista del potere da parte di un generale, Leone III detto l’Isaurico (717741), che tra 717 e 718 respinse l’ultimo tentativo arabo di assediare Costantinopoli annientando le forze attaccanti. Una successiva vittoria sul campo in Anatolia stabilizzò le
frontiere orientali dell’impero, mettendo fine al rischio di un collasso improvviso davanti
all’aggressione araba. Sotto Leone III e i suoi successori, in particolare il figlio Costantino V (741-775), le truppe e le flotte bizantine furono spesso all’offensiva, riconquistando
alcuni territori fra Anatolia, Siria e Mesopotamia, e inflissero sconfitte anche ai Bulgari, ristabilendo la sovranità imperiale su diverse popolazioni slave dei Balcani.
Capitolo 19 L’impero bizantino
251
Icona della Madonna in
trono tra i santi Teodoro e
Giorgio
VI sec.
Monastero di Santa Caterina
nel Sinai, Egitto
Il monastero di Santa
Caterina sul monte Sinai fu
fondato dall’imperatore
Giustiniano nel VI secolo;
rispettato dai conquistatori
arabi del secolo successivo,
ha continuato a essere
abitato dalla comunità dei
monaci fino a oggi, e
conserva una straordinaria
collezione di antichissime
icone. L’abbigliamento dei
santi in questa icona
dell’epoca della fondazione
è lo stesso di Giustiniano e
dei suoi cortigiani nei
celebri mosaici della
basilica di San Vitale a
Ravenna.
252
Leone III compì un’opera importante anche in campo giuridico. L’impero ormai parlava greco, ma il suo corpo di leggi, il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, era scritto in latino; l’imperatore fece preparare un rifacimento in greco delle leggi più importanti, chiamato l’Ekloghè (in greco,‘scelta’). Non si trattò solo di un riassunto: Leone III introdusse importanti novità, che contribuiscono a delineare una nuova fase del diritto romano. Per un
verso sono innovazioni che possono apparire barbariche: nuove pene corporali, come il taglio del naso, della lingua e delle mani o l’accecamento, vennero introdotte nel diritto penale, che fino a quel momento preferiva applicare la pena di morte per i delitti più gravi, e
la deportazione o le ammende nei rimanenti casi. Per altro verso l’Ekloghè limitò la patria
potestà (il potere conferito al capofamiglia), antico fondamento del diritto familiare, e introdusse nuove garanzie per le donne e per i minorenni.
Ma il regno di Leone III è ricordato soprattutto per l’accendersi di una nuova controversia religiosa, che lacerò l’impero bizantino per oltre un secolo e contribuì a guastare i rapporti fra la Cristianità orientale e quella occidentale. Si tratta dell’iconoclastia, espressione che deriva dal greco e
significa distruzione delle icone. Col
nome di icone si indicano in greco – e
oggi in russo – le immagini sacre venerate dai cristiani. Anche oggi le chiese sono piene di immagini, a cui talvolta i fedeli tributano un vero e proprio culto; questa abitudine era già allora seguita con particolare fervore dai
cristiani d’Oriente, tra i quali abbondavano le icone ritenute miracolose o addirittura non fabbricate da mano d’uomo, ma apparse grazie all’intervento
divino. Nel corso dell’VIII secolo si
sviluppò nell’impero bizantino un dibattito sui pericoli di questo culto:
molti teologi ritenevano che i fedeli cadessero nell’idolatria, finendo per venerare non solo Cristo o la Vergine, ma
proprio l’oggetto che li raffigurava.
È possibile che questa preoccupazione sia nata anche in risposta al recente trionfo dell’islam: la nuova religione infatti aveva ripreso con estremo rigore l’antico divieto biblico contro le immagini,
mantenuto dagli Ebrei ma disatteso dai cristiani. Negli anni 723-24 il califfo Yazid cercò di
sradicare, fra le popolazioni cristiane dell’impero arabo, tutte le pratiche che contravvenivano al Corano, fra cui proprio il possesso di immagini sacre (ne abbiamo parlato: cfr. cap.
18.6). Subito dopo, nel 726, l’imperatore Leone III prese posizione a favore di quei vescovi che reclamavano la proibizione del culto delle immagini, e diede l’esempio ordinando di
rimuovere l’icona di Cristo che si trovava all’ingresso del palazzo imperiale.
Cominciava così ufficialmente l’iconoclastia, il periodo cioè in cui il governo di Costantinopoli si sforzò con tutti i mezzi di distruggere le immagini sacre e di allontanare i fe-
Parte VIII L’altra Roma
deli dal loro culto. Sappiamo già che
le controversie religiose provocavano spesso conflitti violenti e anche
questa volta fu così: se l’alto clero
era in parte iconoclasta, la maggioranza dei semplici fedeli vedeva
l’attacco alle immagini sacre come
un vero e proprio sacrilegio, tanto
che l’ufficiale incaricato di rimuovere l’icona dal portone del palazzo
venne aggredito e linciato dalla folla. Anche il patriarca di Costantinopoli disapprovò la decisione imperiale, e venne immediatamente deposto. Ci si è spesso chiesti se l’adozione dell’iconoclastia da parte
dell’imperatore rispondesse a esigenze politiche di qualche genere,
ma non c’è dubbio che la preoccupazione principale di Leone fu religiosa. Per gli uomini del tempo queste questioni erano fondamentali, e
fin dai tempi di Costantino era l’imperatore a essere il capo della Chiesa: era sua la responsabilità di stabilire l’ortodossia e imporla ai sudditi
per garantire la salvezza di tutti.
L’iconoclastia provocò immediate sollevazioni non solo nella capitale, ma in diverse province, come la Grecia e i territori italiani. Le
truppe stanziate in quelle province
si ribellarono, e solo dopo violenti
scontri Leone III riuscì a ristabilire la propria autorità; ma in Italia, dove i contrasti religiosi fra l’imperatore e il papa erano frequenti fin dal tempo di Giustiniano, l’iconoclastia
indebolì in modo permanente il già fragile senso di appartenenza all’impero di zone come
l’Esarcato di Ravenna o il ducato romano. La diffusa opposizione alla politica iconoclasta si univa alla sempre viva ostilità contro il peso della fiscalità imperiale. Insieme, questi sentimenti favorirono l’allargamento delle conquiste longobarde: Ravenna cadde in mano al re longobardo Astolfo nel 751. Il papa, ormai in conflitto aperto con l’imperatore, si
sentì incoraggiato a comportarsi come la vera guida, politica oltre che spirituale, delle popolazioni italiche.
La crisi iconoclasta si aggravò sotto Costantino V (741-775). Ancor più del padre Leone III, Costantino V era un imperatore culturalmente preparato, appassionato di teologia e
autore di molti trattati religiosi. Le sue posizioni in materia di fede erano estremamente
spinte: non era ostile soltanto alla venerazione delle immagini, ma al culto stesso della Vergine e dei santi, che secondo lui non potevano intercedere presso Dio per i fedeli e com-
Capitolo 19 L’impero bizantino
Chiesa di Santa Barbara
XI sec.
Goreme, Turchia
La valle di Goreme, in
Cappadocia, è nota per le
chiese bizantine rupestri
ricche di affreschi di
notevole qualità in cui si
possono ancora vedere
molte icone danneggiate
dagli iconoclasti. In alcuni
casi, come nella chiesa di
Santa Barbara, i decoratori,
in linea col repertorio
figurativo concesso nel
periodo iconoclasta, hanno
sostituito la
rappresentazione dei
personaggi sacri con croci e
motivi stilizzati, ritenendoli
soggetti non idolatrabili.
253
piere miracoli. Queste posizioni, scandalose e inaudite per i cristiani di allora, allontanarono da lui gran parte dell’episcopato e gli attirarono soprattutto la feroce opposizione dei
monaci. I monasteri, infatti, conservavano le icone più venerate e attizzavano la ribellione
dei fedeli contro la politica iconoclasta; Costantino V scatenò una violentissima persecuzione, chiudendo i monasteri, confiscando le loro immense proprietà fondiarie e giustiziando, mutilando o esiliando abati e monaci. Il suo regno venne ricordato con orrore nella storiografia ecclesiastica, che coniò per lui il soprannome insultante di “Copronimo” [cfr.
la voce del passato, qui sotto].
Il ritratto degli imperatori
iconoclasti nella storiografia
di parte avversa
[da The Chronicle of Theophanes Confessor, a cura di C. Mango e
R. Scott, Clarendon Press, Oxford 1997, pp. 551-2, 572-3; trad. a
cura degli autori]
La
voce
PA
SSA
TO
del
La vittoria del partito iconodùlo, favorevole cioè alla
venerazione delle immagini sacre, provocò la
distruzione di tutte le testimonianze di parte
iconoclasta. La storia, in quel caso, fu scritta
davvero dai vincitori. Gli autori ecclesiastici avversi
all‘iconoclastia sfogarono nelle loro opere tutto il
feroce odio nei confronti degli imperatori
iconoclasti Leone III e Costantino V. All’inizio del IX
secolo il cronista Teofane il Confessore descrive
l’incidente che sarebbe accaduto durante il
battesimo del futuro Costantino V, nel 718, e che
spiega il soprannome di Copronimo attribuito
all’imperatore.
In quest’anno [718] nacque un figlio all’empio imperatore Leone, e cioè l’ancora più empio Costantino,
precursore dell’Anticristo. Il 25 dicembre la moglie di
Leone, Maria, fu incoronata nella sala dell’Augusteo e
andò in solenne processione alla Grande Chiesa, da
sola e senza il marito. Dopo aver pregato davanti alle
porte del santuario, proseguì fino al Grande Battistero, dove il marito era già entrato insieme a pochi
membri del suo seguito. Mentre l’arcivescovo Germano stava battezzando il successore al loro malvagio
potere, cioè Costantino, un segno terribile e maleodorante si manifestò fin da quei suoi primi momenti di
vita, perché il neonato defecò nel sacro fonte battesi-
Parte VIII L’altra Roma
male, come afferma chi l’ha visto coi suoi occhi. Al che
il santissimo patriarca Germano dichiarò profeticamente che quel segno prefigurava i grandi mali che
sarebbero accaduti ai cristiani e alla Chiesa per colpa
di Costantino.
In seguito Teofane riferisce “obiettivamente” la
morte di Leone III e l’accesso al trono di Costantino:
In quell’anno [741] il 18 giugno, Leone morì non solo nell’anima, ma anche nel corpo e suo figlio Costantino divenne imperatore. I mali che accaddero ai cristiani sotto il regno dell’empio Leone sia dal punto di vista della
fede ortodossa che dell’amministrazione civile, in Sicilia,
in Calabria e a Creta a causa dei guadagni disonesti e
dell’avidità, e in più la secessione dell’Italia a causa della sua malvagia dottrina, i terremoti, carestie, pestilenze
e aggressioni straniere sono già stati riferiti nei capitoli
precedenti. Adesso è il momento di esaminare le azioni
illegali, anzi, ancor più sacrileghe e aborrite da Dio, del
suo empio e totalmente miserabile figlio; ma bisogna
farlo obiettivamente, dato che Dio, che vede tutto, ci osserva, per il bene della posterità e di quegli uomini sciagurati e malvagi che seguono ancora l’abominevole
eresia di quel criminale. Perciò racconteremo le sue empie gesta dal primo anno del suo regno all’anno della
sua dannazione. Dunque questa bestia nociva, pazza,
selvaggia e assetata di sangue, che s’impadronì del potere con un’usurpazione illegale, fin dall’inizio si separò
dal nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo, dalla Sua pura e
santissima Madre e da tutti i santi, dato che era tratto in
perdizione da magia, lussuria, sacrifici di sangue, dal letame e l’orina dei cavalli, e godeva nell’impurità e nell’evocazione dei demoni.
L’imperatrice Irene e la fine dell’iconoclastia
La linea iconoclasta adottata da Leone III e Costantino
V si attenuò sotto i successori, e venne definitivamente
abbandonata durante la reggenza dell’imperatrice Irene,
che governò dal 780 al 797 a nome del figlio Costantino
VI. Proprio nel 797 Irene convocò a Nicea un grande concilio ecumenico, cui parteciparono i rappresentanti della
Chiesa romana e dei patriarcati orientali che vivevano sotto dominio arabo: per l’ultima volta l’intera Chiesa cristiana d’Oriente e d’Occidente era riunita in un’unica assemblea. Il concilio decretò la fine del conflitto iconoclasta e permise il culto delle immagini. In quello stesso 797
Costantino VI volle liberarsi dalla tutela della madre, ma
questa lo fece deporre e accecare [cfr. scheda, p. 257], e
continuò a governare fino all’802 come unica sovrana.
Non era mai accaduto che una donna occupasse il trono
imperiale, tanto che la stessa Irene nei suoi atti ufficiali
prese il titolo di basilèus, al maschile. La diffidenza suscitata da questo governo di una donna in un mondo patriarcale e maschilista come quello dell’epoca contribuì
alla decisione di papa Leone III di incoronare imperatore
nell’anno 800 il re dei Franchi Carlo Magno (ne parleremo nel capitolo seguente): poiché da secoli l’imperatore
romano era uno solo, incoronarne uno nuovo in Occidente equivaleva a dichiarare che il trono di Costantinopoli,
occupato da una donna, era a tutti gli effetti vacante, e che
Roma non riconosceva più la sua autorità.
La nascita dell’impero di Carlo Magno aprì un nuovo
fronte conflittuale per l’impero bizantino, che all’inizio
non riconobbe il nuovo sovrano e si trovò a scontrarsi
con i Franchi sui confini tra i Balcani e l’Italia. Oggetto
del conflitto era il possesso di Istria e Dalmazia e della
laguna di Venezia, con i suoi piccoli insediamenti, ancora ben lontani dalla grande metropoli dei secoli successivi, ma già governati da un dignitario col titolo di duca,
nel dialetto locale doge. Irene fu deposta da una congiura nell’802, e i suoi successori rinunciarono all’ostilità
aperta contro Carlo Magno, preferendo concentrare le loro energie nell’area balcanica, dove la situazione era
sempre più drammatica. Gli Slavi erano ormai penetrati
fino a occupare gran parte della Grecia, modificandone
radicalmente la composizione etnica. Ma la minaccia più
grave era rappresentata dal khanato bulgaro. Nell’811 il
khan Krum sconfisse e uccise l’imperatore Niceforo I;
era dal 378, anno di Adrianopoli, che un imperatore non
cadeva in battaglia. I Bulgari si spinsero fino ad assediare Costantinopoli, anche se come sempre le poderose
L’imperatrice Irene
1122
Particolare di un mosaico
della basilica di Santa Sofia,
Istanbul
Il khan Krum festeggia la
vittoria su Niceforo I
XIV sec.
Miniatura dalla Cronaca di
Manasse, in una copia del
cod. Vatic. slavo 2;
Biblioteca Apostolica
Vaticana, Roma
Questa miniatura è tratta da
una versione del XIV secolo
della Cronaca di Costantino
Manasse, uno storico
bizantino vissuto nel XII
secolo, autore di una
cronaca universale in 6733
versi. Questa miniatura
raffigura Krum con i suoi
nobili mentre un coppiere
reca a tavola il cranio di
Niceforo I colmo di vino.
Capitolo 19 L’impero bizantino
255
mura della capitale resistettero ad ogni attacco. Solo nell’814 la morte di Krum permise la
stipulazione di una pace, che lasciava però aperto il problema della vicinanza col rafforzato Stato bulgaro. Grave era anche la situazione nel Mediterraneo, dove la potenza navale
araba faceva sì che i Bizantini, per la prima volta nella storia, non fossero più padroni del
mare. Nel corso del IX secolo il conflitto fra Bisanzio e gli Arabi si incentrò soprattutto
sul controllo della Sicilia, invasa dagli Arabi nell’827, tenacemente difesa dai Bizantini, e
definitivamente perduta nel 902.
Il partito iconoclasta, sconfitto al concilio di Nicea del 797, era ancora forte nell’alta società e nel clero bizantino, e diversi imperatori del IX secolo ripresero la politica dell’iconoclastia. Il grosso della popolazione, però, era decisamente schierato in favore del culto
delle immagini, e gli imperatori che perseguirono una politica iconoclasta se ne trovarono
indeboliti. Nell’843, quel che restava del partito iconoclasta gettò la spugna e un concilio
proclamò definitivamente il ritorno del culto delle immagini.
1. Che conseguenze ebbe l’iconoclastia nei domìni bizantini d’Italia? 2. Quali popolazioni minacciavano le
frontiere bizantine nei Balcani?
3. L’apogeo dell’impero:
la dinastia macedone
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Vittorie militari e rinascita culturale
lo
O
SS
RO
Ni
AR
M
Nel periodo che va dall’843 al 1025 la maggior parte degli imperatori appartenne alla dinastia macedone. Quest’epoca vide una decisa ripresa dell’impero, che ottenne importanti
vittorie militari contro Arabi e Bulgari, e tornò ad allargare i suoi possedimenti. Sul piano culturale, le lotte reliIl Mediterraneo alla fine del IX secolo
giose si erano placate lasciando il posto a un appassionaSTATI
ANGLOto movimento di riscoperta della letteratura antica, già
SASSONI
preparato dai grandi e colti imperatori della dinastia isauOCEANO
ATLANTICO
rica (da ricondurre a Leone III Isaurico), che prese però
IMPERO
IMPERO
CAROLINGIO
DEI
nuova forza nel corso del IX secolo. Il periodo macedone
KHAZARI
Avari
è quindi considerato di solito come l’apogeo, cioè il peBarcellona
Slavi
Danubio
riodo culminante e più prospero, della storia bizantina.
Siviglia
Roma
MAR NERO
Cordova
Bulgari
Come sappiamo, il califfato islamico a quest’epoca si
Costantinopoli Trebisonda
Algeri
Fez
IMPERO
stava
frazionando in diversi Stati rivali e la sua potenza
Tunisi
Tahert
BIZANTINO
T
SICILIA
Tarso E igri
non era più quella di una volta [cfr. cap. 18.5]. Contro gli
Kairouan
ufr
MAR
a
Aleppo te
MED
CRETA
Arabi
gli imperatori macedoni condussero una vera e proITER
CIPRO
825
RAN
Damasco
EO
Tripoli
pria controffensiva, riconquistando nel Vicino Oriente i
Gerusalemme
territori perduti in Anatolia, liberando l’Armenia e spinFustat
gendo i confini dell’impero fino alla Mesopotamia, alla
Dominio reale degli Abbasidi verso l’875
EGITTO
Dinastie autonome
Siria e alla Palestina. Nell’Italia meridionale gli Arabi,
Altri Stati musulmani indipendenti
padroni di gran parte della Sicilia, erano sempre più miDirettrici della pirateria
nacciosi, si erano stabiliti in Puglia e nell’846 avevano addirittura saccheggiato la basilica di San Pietro a Roma; ma
256
Parte VIII L’altra Roma
entro la fine del IX secolo gli eserciti
bizantini riconquistarono Puglia, Basilicata e Calabria, che da allora e per
due secoli appartennero saldamente
all’impero. Il Mediterraneo restava
conteso fra Arabi e Bizantini, senza
che nessuno dei due avversari potesse vantare un pieno controllo del mare; anche qui però i Bizantini erano
all’offensiva e riconquistarono le
grandi isole di Creta e Cipro.
Più difficile fu il conflitto con il
khanato bulgaro che dominava i
Balcani; dopo aver subìto ripetute
sconfitte, e aver visto più volte i Bulgari accampati sotto le mura di Costantinopoli, gli imperatori bizantini
furono costretti a pagare un tributo
al khan bulgaro, a stringere accordi
matrimoniali con lui e a riconoscergli addirittura il titolo di imperatore,
in lingua slava zar. Ma il formidabile basilèus Basilio II (976-1025) inflisse ai Bulgari una sconfitta decisiva. L’esercito dello zar Samuele fu annientato in battaglia; i 14.000 prigionieri vennero accecati e rimandati in Bulgaria a gruppi di cento, ognuno dei quali comprendeva un uomo a
cui era stato cavato un solo occhio, per poter guidare gli altri. Nel 1018 il khanato bulgaro
crollò e il suo territorio fu incorporato nell’impero bizantino, mentre Basilio II passava alla storia col soprannome di Bulgaroctono, ‘l’ammazzabulgari’.
Gli imperatori macedoni promossero la rinascita della vita culturale. Nel palazzo imperiale di Costantinopoli venne fondato un grande centro di studi e di insegnamento giuridico e
Basilio II trionfa sui
nemici
X sec.
Dal Salterio di Basilio II,
cod. gr. 17, fol. 3;
Biblioteca Marciana,
Venezia
L’imperatore Basilio II è
ritratto in abiti militari
mentre stringe nella mano
destra la lancia
consegnatagli dall’arcangelo
Michele; l’arcangelo
Gabriele gli porge invece
una corona di gemme,
mentre Cristo protende la
corona del potere imperiale.
Ai suoi piedi, i nemici si
prostrano in totale
sottomissione.
Mutilare e accecare
Nel 641, alla morte di Eraclio, gli successe il figlio di primo letto, Costantino III, che però morì quasi subito. La seconda moglie
di Eraclio, Martina, prese il potere e governò per qualche mese a
nome del figlio minorenne, Erakleonas. Ma l’opposizione contro
i due era fortissima e il senato di Costantinopoli riuscì a deporli,
esercitando la reggenza a nome del figlio bambino di Costantino
III. Quel che ci interessa però non è questa complicata lotta di successione, simile a molte altre che travagliarono la storia dello Stato bizantino. La cosa più interessante è che il senato ordinò di
strappare la lingua a Martina, e di tagliare il naso a Erakleonas.
Da allora in poi fu normale nell’impero bizantino che quando un
sovrano veniva deposto, fosse anche mutilato: ecco perché l’imperatrice Irene, che nel 797 depose il figlio Costantino VI, provvide a farlo accecare.
La logica di questa pratica era semplicissima. Nell’impero bizantino il potere era talmente accentrato nella persona dell’imperatore, e quella stessa persona era attorniata da una tale sacralità, che
un uomo mutilato o accecato non avrebbe potuto in nessun modo
essere riconosciuto come sovrano. Con le mutilazioni, quindi, si
evitava che il concorrente deposto potesse rivendicare nuovamente il trono. Il taglio del naso e della lingua e l’accecamento
vennero introdotti come punizioni anche nel diritto penale, a partire dall’Ekloghè di Leone III. La cosa più strana è che questa pratica spaventosa veniva giustificata come una forma di pietà: in
passato, infatti, era sempre stato ovvio che un sovrano deposto venisse ucciso, e la pena di morte era prevista dal diritto romano per
un’ampia casistica di reati. La mutilazione era riconosciuta come
l’alternativa più mite e più cristiana alla messa a morte.
Capitolo 19 L’impero bizantino
257
filosofico, una specie di università in diretta concorrenza
con quella “Casa della Sapienza” che il califfo al-Mamun
aveva appena creato a Baghdad. L’impegno dei dotti bizantini si rivolse alla riscoperta e alla copiatura delle antiche
opere letterarie greche. È grazie ai manoscritti prodotti in
quest’epoca a Costantinopoli che noi possediamo i capolavori del teatro e della poesia greca classica. Venne inoltre
prodotto un gran numero di antologie, enciclopedie e dizionari, che risultano di importanza immensa per la nostra conoscenza della civiltà antica. Protagonista della vita culturale era un altissimo funzionario del governo imperiale, Fozio (vissuto all’incirca fra l’810 e l’893), autore di una gigantesca opera, la Biblioteca, in cui riassumeva, commentava e citava estratti di innumerevoli opere letterarie.
I rapporti fra Stato e Chiesa
Copia manoscritta
dell’Iliade di Omero
X sec.
Cod. Gr. Z. 454; Biblioteca
Marciana, Venezia
Questa pagina manoscritta
appartiene al cosiddetto
Venetus A, il più antico e
illustre codice grazie al
quale ci è stato tramandato
il contenuto del poema
omerico. Alcuni studiosi
attribuiscono la stesura di
questo manoscritto
all’iniziativa di un allievo di
Fozio, Areta, il futuro
arcivescovo di Cesarea,
attivissimo nel prezioso
programma di recupero dei
classici greci iniziato dal
maestro. Al di là della sua
paternità, il codice
costituisce uno dei frutti più
rilevanti del fervore
intellettuale che nel corso
del IX e X secolo vivacizzò
la storia bizantina sotto la
dinastia macedone.
258
L’epoca di Fozio, che nell’858 divenne patriarca di Costantinopoli, aprì una nuova fase anche nei rapporti fra lo
Stato e la Chiesa. Si dice di solito, in modo un po’ sbrigativo, che l’impero bizantino era caratterizzato dal cesaropapismo, per cui l’imperatore agiva anche da capo assoluto della Chiesa. Questa affermazione in realtà è vera fino a
un certo punto. Nei primi secoli, già a partire da Giustiniano, e poi soprattutto nel periodo dell’iconoclastia, l’imperatore impose spesso la sua volontà alla Chiesa con estrema decisione e brutalità, arrestando e deponendo patriarchi
e papi. Sotto la dinastia macedone però, dalla metà del IX
secolo e poi durante il X, il rapporto fra il basilèus e il patriarca di Costantinopoli divenne più equilibrato.
Vennero pubblicate nuove leggi in cui si tentava di stabilire i limiti dei rispettivi poteri, e di costruire una collaborazione fra l’imperatore e il patriarca, titolari l’uno del regno, l’altro del sacerdozio. Questa evoluzione politica ebbe anche un fondamento filosofico, legato alla concorrenza fra le due grandi correnti della filosofia antica, quelle di Platone e di Aristotele. L’assolutismo imperiale si fondava su una concezione platonica, che vedeva il cosmo ordinato in modo gerarchico, per cui tutto il potere discendeva dal vertice ed
era trasmesso direttamente da Dio al sovrano. Nel IX e X secolo, invece, a Bisanzio prevalse una visione aristotelica, per cui il potere non aveva origine divina, era il frutto di un
accordo fra gli uomini ed era subordinato alla legge.
I rapporti con la Chiesa di Roma e la cristianizzazione degli Slavi
Sotto la dinastia macedone i rapporti fra l’impero bizantino e la Chiesa romana rimasero freddissimi, anche se ufficialmente non c’era ancora una rottura dichiarata fra i cristiani latini e quelli greci. Quando Fozio venne nominato patriarca di Costantinopoli, il papa
rifiutò di riconoscerne la nomina, perché si trattava d’un laico. Per tutta risposta l’imperatore Michele III convocò nell’867 un concilio che scomunicò il papa, e dichiarò che non
aveva nessun diritto di intromettersi nella vita della Chiesa greca, la quale obbediva all’imperatore. La cosa finì lì, perché i successori di Michele III preferirono tentare una con-
Parte VIII L’altra Roma
I santi Cirillo e Metodio
XII sec.
Castello di Kreuzenstein,
Austria
Pagina in cirillico
1180-1190
Evangeliario del principe
Miroslav; Museo Nazionale,
Belgrado
Ai fratelli Cirillo e Metodio
si deve la cristianizzazione
delle popolazioni slave e la
traduzione della Bibbia in
paleoslavo mediante la
creazione di un nuovo
alfabeto, il cirillico, di cui la
seconda figura ci mostra un
esempio.
ciliazione con Roma, ma in pratica fra le due metà del mondo cristiano era già calata una
barriera di incomprensione e di ostilità.
Un altro avvenimento fondamentale del periodo macedone fu la riuscita conversione al cristianesimo delle popolazioni slave. Non solo nei Balcani, ma anche nell’Europa centrale le
tribù slave si stavano organizzando in veri e propri popoli, governati da sovrani ereditari. Trovandosi fra l’impero latino e cattolico dei Franchi e quello greco e ortodosso di Bisanzio, alcuni principi slavi decisero di allearsi con quest’ultimo e si offrirono di convertirsi al cristianesimo. Nell’862 Michele III affidò a due missionari, i fratelli Cirillo e Metodio, l’incarico
di evangelizzare gli Slavi. Era necessario tradurre la Bibbia e Cirillo creò un alfabeto che permettesse di scrivere la lingua slava: da esso deriva l’alfabeto detto appunto cirillico, ancor
oggi usato da gran parte delle nazioni slave. Anche il khan bulgaro, Boris, accettò il battesimo nell’864 e nel suo impero venne creata una Chiesa dipendente da quella di Costantinopoli. Più tardi, nel X secolo, anche un nuovo e potente popolo slavo, quello dei Russi, che
avevano stabilito un regno nelle pianure dell’attuale Ucraina con capitale a Kiev, si convertì
al cristianesimo nella versione greco-ortodossa: il principe di Kiev, Vladimiro, accettò il battesimo nel 989. La cristianizzazione degli Slavi rappresentò un immenso successo politico
per Bisanzio, perché sottrasse per sempre la maggior parte dell’Europa Orientale e dei Balcani all’influenza occidentale e li legò all’impero bizantino e alla Chiesa di Costantinopoli.
1. Che esiti ebbero gli sforzi militari dei cosiddetti “imperatori macedoni”? 2. Quali differenze c’erano tra
la visione platonica e quella aristotelica del potere? 3. Per quale motivo la cristianizzazione degli slavi fu un
grande successo politico per Bisanzio?
Capitolo 19 L’impero bizantino
259
4. Un impero romano,
greco e cristiano
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
“Nel nome di Roma”
Nell’epoca bizantina, il nome di Roma continuò a essere usato per designare l’impero
d’Oriente, il suo territorio (la “Romània”) e i suoi abitanti (i Rhomàioi). Usavano questo
linguaggio tanto gli imperatori e i loro sudditi, quanto i loro avversari musulmani: nell’XI
secolo, quando un nuovo popolo islamico, i Turchi, conquistò parte dell’Anatolia strappandola all’impero bizantino e vi costituì un sultanato, lo chiamò il sultanato di Rum, “Roma”. In Occidente, invece, a partire dall’VIII-IX secolo gli avversari politici dell’impero
bizantino, per esempio i sovrani franchi e i papi, preferivano parlare di “Greci” e si riferivano all’imperatore bizantino come all’imperatore o il re dei Greci.
Quest’uso aveva un valore spregiativo. Nella Roma antica, nonostante l’immensa ammirazione per la cultura greca, i Greci come popolo erano considerati degenerati e imbelli.
Maurizio imperatore
e i comandi militari
[Maurizio Imperatore, Strategikon. Manuale di arte militare dell’Impero Romano d’Oriente, a cura di G. Cascarino, Il Cerchio, Rimini 2007]
La
voce
PA
SSA
TO
del
Nell’esercito dell’impero d’Oriente gli ordini
continuarono a essere dati in latino anche molto
tempo dopo che la lingua d’uso era diventata il
greco. Il trattato di arte militare attribuito
all’imperatore Maurizio (582-602), lo Strategikon, è
ricco di informazioni sul minuzioso addestramento
cui erano sottoposte le truppe. In questo passo sono
descritti gli ordini per la manovra di quello che è
chiamato in greco un tagma, cioè un reggimento di
cavalleria di 300 uomini.
Al comando: «Lunge!» (‘Serrate i ranghi!’) i soldati serrano i ranghi da dietro per la carica. Con le truppe che
marciano in formazione perfetta, in particolare dopo
che hanno serrato strettamente i ranghi sui fianchi,
quando gli arcieri iniziano a tirare viene dato il comando: «Percute!» (‘Carica!’). I decarchi e i pentarchi1 si protendono quindi in avanti, coprono la loro testa e parte
del collo del cavallo coi loro scudi, tengono le lance al-
Parte VIII L’altra Roma
l’altezza delle spalle, alla maniera dei popoli dai capelli biondi2, e protetti dal loro scudo cavalcano in buon
ordine, non troppo velocemente ma al trotto, per evitare che l’impeto della loro carica scompagini i ranghi prima di venire a contatto con il nemico, il che è pericoloso. Tutti gli arcieri dietro di loro devono tirare. [...] Per ritirarsi momentaneamente e quindi effettuare di nuovo
una conversione, quando il comandante vuole ritirarsi
mentre è in ordine aperto grida: «Cede!» (‘Rientrare!’)
e al galoppo gli uomini si ritirano, a distanza di un tiro
d’arco o due, verso i defensores. Egli grida di nuovo:
«Torna mina!» (‘Voltarsi e caricare!’). Essi ora effettuano una conversione come per fronteggiare il nemico.
Devono fare frequente pratica con questa manovra,
non solo caricando frontalmente, ma anche a destra e
a sinistra. [...] Per cambiare fronte verso sinistra o verso
destra in formazione, manovra questa necessaria per i
fiancheggiatori e gli aggiratori, nel primo caso il comando è: «Depone senestra!» (‘Fronte a sinistra!’). Se a
destra: «Depone dextra!» (‘Fronte a destra!’) ed essi
cambiano fronte.
1. decarchi... pentarchi: sottufficiali comandanti rispettivamente di dieci e cinque uomini [nota del curatore].
2. popoli... biondi: così erano chiamati i popoli germanici [nota del curatore].
Gli abitanti del mondo bizantino
non si consideravano Greci, ma
Romani, anche se parlavano greco: per loro la Grecia era l’antica Ellade pagana, e definirsi
Greci o Elleni avrebbe significato identificarsi con la civiltà pagana, mentre il mondo bizantino
era orgogliosamente cristiano. Il
nome di Roma evocava l’accordo fra l’impero e la fede cristiana, voluto da Costantino I
[cfr. 15.1]; non era una definizione etnica, ma politica e religiosa.
“Roma” significava l’impero
universale cristiano, e anche nei
periodi in cui l’impero bizantino
controllava solo un territorio
piuttosto ristretto, il suo sovrano
continuò sempre a considerarsi il signore del mondo, in greco kosmokràtor. Sulla Terra poteva esserci un solo imperatore, l’imperatore di Roma, e quel titolo dava diritto al dominio su tutta l’umanità; nessun altro sovrano, per quanto potente, poteva fregiarsi del titolo imperiale (bisognerà ricordarci di questo modo di pensare quando nel capitolo successivo leggeremo del titolo di imperatore assunto dal re franco Carlo Magno, col consenso del
papa, nel Natale dell’800).
Rilievo con aquila bicipite
XV sec.
Chiesa di San Demetrio,
Mistra, Grecia
L’emblema dell’aquila, già
simbolo della potenza
imperiale romana, fu
reinterpretato dai Bizantini
per rappresentare l’unione
dei due imperi, quello
d’Occidente e quello
d’Oriente: l’aquila è
rappresentata difatti con due
teste, una rivolta verso
destra e una rivolta verso
sinistra, separate al centro
da una corona. Questo
rilievo, esempio tardo nella
storia bizantina, fu scolpito
sul pavimento della chiesa
di San Demetrio, a Mistra
(Grecia), a indicare il luogo
esatto in cui Costantino XI
Paleologo, ultimo sovrano
bizantino regnante, fu
incoronato imperatore il 6
gennaio 1449.
L’identità dell’impero di Bisanzio
Alla fine, qualificare l’impero di Bisanzio come greco o come romano non è sufficiente: se vogliamo definire la sua identità dobbiamo basarci non su due, ma su tre caratteristiche. Era un impero romano, in quanto continuava l’assolutismo imperiale tipico della tarda Antichità e la concezione romana di dominio del mondo, e si reggeva secondo il diritto romano. Era un impero greco, in quanto la lingua della corte era il greco,
e il greco era la lingua ufficiale in tutto il territorio; lo stesso codice di Giustiniano rimase in vigore solo attraverso il riassunto in greco compilato al tempo di Leone III (l’Ekloghè). Fu l’antica letteratura greca, non quella latina, a essere ricopiata e studiata dai
dotti bizantini, e in greco vennero tradotti tutti i termini fondamentali dell’ideologia imperiale. Infine, fu un impero cristiano, che rivendicò orgogliosamente la fede cristiana
come tessuto comune di tutti i suoi popoli, e la difesa della religione come compito principale del suo sovrano.
1. A che cosa si riferisce il termine kosmokràtor? 2. Come si spiega la definizione di “impero romano,
greco e cristiano” riferita all’impero bizantino?
Capitolo 19 L’impero bizantino
261
5. Un impero centralista
e burocratico
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Imperatore per concessione divina
Basilèus in veste da
cerimonia
XII sec.
Cà Angaran, Venezia
Questo rilievo di epoca
romanica raffigura un
imperatore bizantino nella
sua classica
rappresentazione; la sua
figura stante ostenta potenza
e sacralità, qualità
simboleggiate peraltro dagli
oggetti che stringe tra le
mani: il globo sormontato
dalla croce bizantina,
emblema di potenza
benedetta dal cielo, e il
bastone del comando.
262
L’impero bizantino ereditò dall’impero romano d’età tardo antica l’idea del potere autocratico dell’imperatore. Nel VII secolo il ruolo del sovrano era ancora bilanciato, in qualche misura, dal senato di Costantinopoli, voluto da Costantino per equiparare a Roma la
nuova capitale. Quando il potere imperiale era forte, il senato era poco più di una palestra oratoria, un
luogo dove politici e burocrati tenevano bei discorsi in lode dell’imperatore; ma nel corso del VII secolo esso giocò ancora un ruolo importante nelle
crisi di successione e nei periodi di reggenza, per
esempio dopo la morte di Eraclio. Dopo di allora,
però, perse qualunque importanza politica.
All’idea romana di imperatore i sovrani bizantini, vincitori con Eraclio del rivale impero sasanide,
aggiunsero definitivamente l’idea persiana di Gran
Re, che già aveva influenzato la regalità romana fin
dal tempo di Diocleziano e Costantino. Il sovrano
era ora una figura semidivina ai cui piedi i sudditi si
prosternavano nel rituale persiano della proskỳnesis, odiato dagli antichi Greci, che lo consideravano
il simbolo della tirannide. Il titolo stesso di basilèus, con cui i Greci indicavano il Gran Re persiano, venne assunto da Eraclio e dai suoi successori. Si completava così il passaggio dal princeps,
l’imperatore dell’epoca di Augusto, che si considerava un primus inter pares e dialogava col senato, a
una figura di monarca divinizzato, sacro e addirittura invisibile per i sudditi, rinchiuso
com’era nel suo palazzo e inaccessibile a tutti tranne i più alti funzionari: una concezione
del potere imperiale che i bizantini trasmetteranno secoli dopo ai conquistatori turchi, fondatori dell’impero ottomano.
L’apparato burocratico di uno Stato centralizzato
L’imperatore era dunque il detentore di un potere sacrale, concesso da Dio; ma operava
tramite una complessa burocrazia. Accanto al basilèus si riuniva un consiglio, il Concistoro
(termine ancora oggi usato dalla Chiesa per indicare il consiglio dei cardinali riunito attorno al
papa), in cui sedevano funzionari civili e militari. Il più importante era l’eparco, che è il nome greco del praefectus Urbi, il prefetto di Costantinopoli, incaricato di garantire il vettovagliamento dell’immensa metropoli, di mantenervi l’ordine pubblico, e di gestire la giustizia.
Al di sotto del Concistoro operava un numeroso apparato burocratico, anch’esso ereditato dal tardo impero romano, ma profondamente trasformato nel corso del VII secolo. I logoteti, presenti sia a palazzo sia nelle province, erano i responsabili della riscossione delle imposte e della gestione finanziaria. L’amministrazione del patrimonio imperiale e delle spese decise personalmente dal sovrano era affidata al sakellàrios, l’uomo cioè che te-
Parte VIII L’altra Roma
L’imperatore e il
Concistoro
XI-XII sec.
Dalla Cronaca di Scilitze;
Biblioteca Nazionale di
Spagna, Madrid
Questa miniatura, che
illustra la proclamazione di
Teofilo (IX secolo),
raffigura l’imperatore
seduto in trono: protetto da
due guardie munite di
lancia, il sovrano è
circondato dai dignitari
ecclesiastici in abito da
cerimonia con il
caratteristico copricapo.
neva la borsa (sacellus) dell’imperatore. Il domèstikos comandava le scholài, cioè i reparti scelti della guardia imperiale.
Si potrebbe continuare, ma non è necessario imparare a memoria tutta questa terminologia. Quel che è importante è capire che al vertice dell’impero c’era una numerosissima
macchina burocratica, un complicato organigramma di uffici e dirigenti. L’impero bizantino fu sempre uno Stato centralizzato, dove le risorse fiscali affluivano alla capitale prima
di essere ridistribuite, e l’appartenenza alla burocrazia era la strada principale per il successo e il prestigio. Per contare, nella società bizantina, la cosa più importante non era appartenere alla grande aristocrazia, essere nati in una famiglia che possedeva immensi latifondi; del resto l’aristocrazia nella parte orientale dell’impero romano era sempre stata
meno ricca rispetto a quella dell’Occidente, i latifondi meno estesi, il ceto dei piccoli proprietari contadini più solido. Per contare, in quell’impero burocratico, bisognava fare carriera nella burocrazia.
Siccome l’accesso alla burocrazia, come anche la carriera nell’esercito, era aperto al talento da qualunque parte provenisse, l’élite bizantina fu sempre socialmente mobile e
multietnica, traendo i suoi membri da tutte le popolazioni soggette all’impero, dai barbari venuti a stanziarsi sul suo territorio e perfino dai popoli confinanti, fossero Slavi, Bulgari o Armeni. La capacità di Bisanzio di assimilare le etnie in un unico corpo politico
va di pari passo con il costante ricambio ai vertici della sua classe dirigente e ai livelli inferiori dell’amministrazione. I burocrati, spesso di origini sociali modeste e promossi grazie alla loro cultura, erano pervasi da uno spirito di servizio in cui la fedeltà all’imperatore e all’ortodossia cristiana erano le caratteristiche richieste, mentre l’appartenenza etnica
e l’origine familiare non avevano importanza. La capacità di integrare le etnie e il dinamismo sociale, cioè la possibilità di far carriera aperta anche a persone di modesta origine, sono tratti che riprendono le migliori qualità del tardo impero romano e smentiscono l’immagine tradizionale di un mondo bizantino immobile o, peggio, decadente.
1. Come cambia, dopo il VII secolo, la figura dell’imperatore? 2. Come era possibile contare qualcosa
nella società bizantina?
Capitolo 19 L’impero bizantino
263
6. Un’economia statalista
in lotta contro i ricchi
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Il controllo sulla produzione e i commerci
monopolio
Situazione per la quale, in un
determinato mercato, un solo
soggetto controlla l’offerta
complessiva di una data merce,
a fronte di una domanda
elevata.
In termini di oggi l’economia dell’impero bizantino sarebbe definita statalista e centralista. L’attività artigianale e commerciale era concentrata in gran parte nell’immensa capitale, Costantinopoli, ed era sottoposta a un rigido controllo statale. I principali settori della produzione, come la seta, l’oreficeria, le armi, erano monopolio statale. I movimenti di
merci avvenivano con navi appartenenti allo Stato, prezzi e stipendi erano fissati per legge
cittadinanza
Lo Stato deve ridistribuire la ricchezza?
Michele di Efeso era un intellettuale che visse a Costantinopoli intorno
al 1100 e insegnò nell’università del palazzo imperiale. Commentando
Aristotele, si soffermò a riflettere sulle forme di governo degli antichi
Greci, e trovò che sia nella tirannide, sia nella democrazia c’erano dei
vantaggi: nel primo caso i ricchi erano puniti, nel secondo caso i poveri ricevevano una paga (di quest’ultimo aspetto abbiamo parlato a proposito del sistema politico di Atene: cfr. vol. 1, cap. 7.3). Ma secondo Michele si poteva far meglio: «è necessario adottare un contemperamento di questi due sistemi, che cioè i ricchi siano puniti e che i poveri ricevano una paga»1. Idee come quelle di Michele di Efeso erano
condivise da molti uomini di governo a Costantinopoli, e hanno fatto
sì che nell’impero bizantino qualcuno abbia intravisto addirittura una
prefigurazione del socialismo di Stato come quello incarnato, nel XX secolo, dall’Unione Sovietica. Lo Stato sovietico era nato all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, la rivoluzione comunista scoppiata in Russia
nel 1917, ed è stato il primo esempio al mondo di Stato costruito sul ribaltamento dei rapporti sociali precedenti: non bastava, cioè, garantire
l’eguaglianza economica, requisendo e mettendo al servizio della collettività la ricchezza privata, ma c’era anche la volontà di discriminare e
punire quelli che in precedenza erano stati ricchi.
In realtà l’impero bizantino non ha mai “punito” i ricchi e non si è mai
spinto, come la democrazia ateniese, a “dare una paga” ai poveri. La
politica imperiale si è però spesso sforzata di colpire con le imposte la
grande proprietà, e di impedirne la crescita per legge, evitando che i
poveri fossero danneggiati dalla prepotenza dei ricchi. Ovviamente si
può essere d’accordo oppure no con questa impostazione politica, ma
264
Parte VIII L’altra Roma
non si può dire che l’impero bizantino non facesse i conti con problemi concreti e duraturi.
La Costituzione della Repubblica italiana, approvata nel 1947, mantiene elementi di un principio simile a questo. L’eguaglianza economica
fra i cittadini è apertamente dichiarata come un obiettivo desiderabile,
all’art. 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La proprietà privata è ovviamente tutelata, ma c’è l’idea che deve comunque essere utilizzata nell’interesse collettivo, all’art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla
legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo
scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale».
L’Italia del 1947 era ancora un paese in gran parte agricolo, con fortissime tensioni fra agrari e latifondisti, da una parte, e braccianti senza
terra dall’altra. La Costituzione indirizza lo Stato a tutelare questi ultimi,
all’art. 44: «Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di
stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni
e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà».
1. S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Einaudi, Torino 2002, p. 75.
e chi gestiva il commercio dipendeva in tutto dalle autorizzazioni statali. Pesanti imposte doganali facevano sì che i profitti del commercio fossero rastrellati quasi esclusivamente dallo
Stato. I guadagni dei commercianti non potevano eccedere un
limite fissato per legge; il governo evitava così aumenti eccessivi dei prezzi al consumo. Arricchirsi commerciando era considerato ignobile e l’imperatore faceva il possibile per impedire che ciò accadesse: sulle navi dello Stato il comandante guadagnava appena il doppio di un marinaio semplice, mentre in
altri paesi un mercante che armava una nave poteva garantirsi
profitti immensi. Nei secoli dell’Alto Medioevo, quando l’economia dell’Occidente era stagnante e quasi esclusivamente
agricola, il commercio di Costantinopoli rimase prospero e la
sua rigidità non provocò gravi conseguenze; tuttavia, a partire
dall’XI-XII secolo, l’economia del mondo bizantino, troppo
poco dinamica, fu letteralmente “mangiata” dal capitalismo
occidentale, rappresentato dalle città comunali italiane e in particolare da Venezia, che avevano adottato nuove e più aggressive modalità di intervento sul mercato.
Orecchini in oro e paste vitree
Da Senise, Potenza; Museo Archeologico Nazionale, Napoli
Lo scontro con i grandi proprietari terrieri
Il controllo dello Stato si estendeva anche alla proprietà terriera. La terra appartenente ai grandi latifondisti o alle comunità di villaggio era trattata dal governo come se fosse una proprietà pubblica, concessa in uso solo in cambio del pagamento di pesanti imposte. Se una comunità contadina non coltivava tutta la terra che aveva a disposizione e la lasciava in abbandono, doveva pagare un’imposta aggiuntiva.
L’ideale del governo imperiale era di limitare i trasferimenti di proprietà, garantendo la stabilità dell’imponibile fiscale (cioè la quota di reddito o patrimonio su cui calcolare l’entità delle tasse); concretamente, questo significava anche proteggere la piccola proprietà contadina dalle pressioni dei grandi
latifondisti, i quali nel mondo antico avevano sempre allargato i
loro possedimenti a spese dei piccoli proprietari indebitati.
Il conflitto fra la burocrazia di Costantinopoli, che cercava
di impedire l’allargamento della grande proprietà e di tutelare il
mondo contadino, e i latifondisti delle province è uno dei grandi problemi della storia bizantina durante l’età macedone. Fin
dal tempo di Giustiniano la legge vietava ai funzionari statali,
compresi i militari, di acquistare possedimenti fondiari e di accettare donazioni finché erano in carica. La legge scontentava
molti e alla fine del IX secolo fu abolita; a partire da allora non
fu più possibile impedire nelle campagne il formarsi di un’aristocrazia di potenti, aggressivi ed espansionisti, composta soprattutto dai capi militari, ma anche dai grandi funzionari pro-
Scampolo di seta bizantina
Museo sacro della Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma
Gli esordi bizantini nella produzione della seta si fanno risalire al
VII secolo, quando, secondo la leggenda, due monaci persiani che
erano riusciti a trafugare dei bachi dalla Cina ne avevano fatto dono
all’imperatore Giustiniano. In breve tempo, e almeno fino al XII
secolo, Costantinopoli rappresentò il centro tessile più importante
d’Europa; le esportazioni avvenivano solo in quantità prestabilite
dallo Stato ed erano rivolte ad acquirenti scelti, criterio che
permetteva di mantenere alto il prezzo della merce. In questo
scampolo di seta il soggetto tessuto è la caccia del re, di
derivazione persiana, ma reinterpretato nella vivacità dei colori,
nella fantasia compositiva e in alcuni dettagli dell’abbigliamento: di
particolare originalità è il diadema sul capo del re, attributo tipico
degli imperatori bizantini.
Capitolo 19 L’impero bizantino
265
vinciali e dall’alto clero. Nel corso del X secolo diverse leggi testimoniano lo sforzo sempre
più affannoso degli imperatori di proteggere i “deboli” dalla pressione di questi “potenti”,
com’erano chiamati. Le leggi stabilivano che se un contadino era costretto a vendere la sua
terra, parenti e vicini avevano il diritto di prelazione (avevano cioè la priorità sugli altri acquirenti); e che nessun potente poteva farsi regalare o lasciare in eredità la terra, o comprarla a meno del suo vero valore. La legge più drastica fu adottata da Basilio II nel 995: il tremendo basilèus stabilì che tutte le terre contadine cedute ai ricchi negli ultimi settant’anni dovevano essere restituite senza indennizzo, e che le tasse dovute dalle comunità di villaggio
per le terre non utilizzate dovevano d’ora in poi essere pagate dai latifondisti locali.
Nonostante questi interventi, alla lunga furono i “potenti” a vincere, dando vita anche nel
mondo bizantino a un ceto aristocratico che si trasmetteva in eredità potere e proprietà fondiaria. La burocrazia di Costantinopoli, che aveva governato l’impero per secoli, dopo il Mille sarà emarginata da quella che appare come una vera, nuova nobiltà, suddivisa in tre gruppi: civile, militare ed ecclesiastica. I possedimenti dei nobili e del clero però erano molto diversi dai latifondi antichi: la spinta all’affrancamento degli schiavi, favorita dalla Chiesa, aveva portato entro il IX secolo alla scomparsa della schiavitù rurale. I contadini che lavoravano sotto padrone ora erano affittuari liberi, e lo Stato tutelava anche loro come tutelava i
piccoli proprietari, garantendo agli affittuari il diritto di trasmettere ai figli la terra coltivata.
1. In che modo lo Stato interveniva nelle attività commerciali? 2. Che cosa provocò l’abolizione della
legge che vietava ai funzionari statali di acquistare possedimenti fondiari?
7. Un impero dilaniato
dai contrasti religiosi
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Sanare i contrasti religiosi a colpi di editti?
All’epoca di Eraclio e dei suoi primi successori l’impero continuava a essere piagato dal
dissenso religioso, in particolare della minoranza monofisita. Gli imperatori non potevano
sempre perseguitare. Essi incaricarono i patriarchi orientali e il papa di cercare una soluzione, e nel corso del tempo vennero avanzate numerose nuove teorie che cercavano di mettere
tutti d’accordo sulla natura di Cristo. Gli imperatori si illudevano che una volta trovata una
dottrina soddisfacente, abbracciata da tutti i maggiori teologi, un editto imperiale avrebbe potuto imporla ai sudditi e ottenere così la pace religiosa. Da sempre, nell’impero romano-cristiano, spettava all’imperatore trasformare in legge l’interpretazione della fede che la Chiesa
stabiliva ufficialmente come ortodossa, cioè giusta. Nel 638 Eraclio pubblicò un editto in cui
imponeva la nuova dottrina del monotelismo, formulata dal patriarca di Costantinopoli Sergio: secondo il monotelismo – il termine deriva dall’espressione greca che significa ‘una sola volontà’ – in Cristo esistevano due nature, divina e umana, ma un’unica volontà.
Dallo scontro con i papi di Roma allo scisma
Imporre l’unità religiosa a colpi di editti, però, era un’illusione, perché ogni proposta
di compromesso suscitava opposizioni. Soprattutto i papi di Roma reagirono spesso negativamente alle dottrine elaborate dai patriarchi orientali, e questo contribuì a rendere diffi-
266
Parte VIII L’altra Roma
cile il loro rapporto con l’impero: non dimentichiamo infatti che Roma
era ancora parte dell’impero bizantino, anche se dopo l’invasione longobarda dell’Italia era diventata un bastione di frontiera. Nel 640 papa
Severino rifiutò di accettare la dottrina monotelista imposta da Eraclio;
il comandante della guarnigione bizantina di Roma lo scacciò dal palazzo del Laterano, residenza ufficiale dei vescovi di Roma, e ne approfittò per confiscare i tesori della Chiesa e distribuirli ai soldati, che
altrimenti non era in grado di pagare. Il nuovo papa Martino I, che confermò il rifiuto del monotelismo e dichiarò di non voler obbedire all’imperatore, fu arrestato nel 653, tradotto a Costantinopoli e condannato a morte per alto tradimento, anche se la condanna fu commutata
nell’esilio.
Si capisce che in questa situazione i funzionari e i militari mandati
da Costantinopoli fossero sempre meno popolari a Roma e a Ravenna:
cominciava a prendere piede l’idea che la popolazione italica, sotto la
guida del papa, avrebbe potuto governarsi e difendersi da sola. I soldati stanziati in Italia si erano integrati nella popolazione locale e obbedivano sempre meno volentieri ai funzionari mandati dall’imperatore, i
quali dovevano spesso usare la forza per riuscire a entrare a Roma. Nel
692 un funzionario imperiale fu mandato ad arrestare papa Sergio I, che
tanto per cambiare s’era opposto alle conclusioni di un concilio ecumenico riunito a Costantinopoli, ma le truppe delle guarnigioni italiche
si ribellarono e difesero il papa, impedendone l’arresto.
La situazione si aggravò ulteriormente nel periodo dell’iconoclastia.
La decisione dell’imperatore Leone III di vietare il culto delle immagini, non condivisa dalla popolazione, accentuò i desideri indipendentisti delle élite e degli eserciti locali. Le truppe stanziate nell’Esarcato e nella Pentapoli si ribellarono, e l’esarca di Ravenna fu assassinato. Papa Gregorio III riunì nel 731 un concilio che condannò la politica iconoclasta;
l’imperatore rispose confiscando le proprietà della Chiesa romana in Calabria e Sicilia, cioè
nelle uniche zone d’Italia che erano rimaste saldamente sotto il suo controllo. Ma Leone III
non poté spingersi fino a deporre o arrestare il papa, come avevano fatto spesso i suoi predecessori: l’autorità imperiale su Roma, ormai, era solo nominale.
Anche fra la Chiesa greca e la Chiesa latina, così spesso ribelle alle decisioni che provenivano da Costantinopoli, si stava già da tempo scavando un solco, e non c’era quasi più nessuna collaborazione fra il clero dell’Oriente e quello dell’Occidente. L’elezione al patriarcato di Fozio, un laico, rischiò di provocare un vero e proprio scisma, cioè una spaccatura
ufficiale fra le due Chiese. Poi in qualche modo si riuscì a metterci una pezza, ma era solo
questione di tempo perché si arrivasse allo scisma, che infatti si verificherà nel 1054, con la
scomunica reciproca fra il papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario.
Cattolico e ortodosso non furono più appellativi comuni di una Chiesa che si considerava
unica pur pregando in due lingue diverse, ma divennero appellativi contrapposti, che indicavano nel primo caso i fedeli della Chiesa latina, nell’altro quelli della Chiesa greca.
Icona del Cristo
benedicente
VI sec.
Monastero di Santa Caterina
del Sinai, Egitto
1. Che cosa sosteneva la dottrina monotelita? 2. Quali rapporti si stabilirono tra il clero
d’Occidente e quello d’Oriente?
Capitolo 19 L’impero bizantino
267
SINTESI
1. Un impero mutilato e rinnovato
Nel VII secolo l’impero romano d’Oriente – al quale da questo momento ci si riferisce come “impero bizantino” – conobbe un
periodo di grande crisi. L’impero era debole, i suoi domìni in Italia precari, le sue ormai ridotte frontiere minacciate dalle invasioni degli Arabi e dall’arrivo dei Bulgari nei Balcani. Dal regno di Eraclio in poi, la struttura dell’impero cambiò profondamente. Lo Stato era
ormai di natura assolutista ed era gestito da un sovrano autocratico e da una burocrazia onnipotente. Le province furono trasformate in
temi, governati da uno stratego militare che svolgeva anche incarichi civili; nei temi le guarnigioni erano costituite da soldati-contadini. Le città, tranne Costantinopoli, decaddero e si assistette a una ruralizzazione della società. I contadini divennero la spina dorsale della società, garantiti e difesi dallo Stato contro i soprusi dei grandi proprietari terrieri. Si verificò, inoltre, un generale abbassamento del
livello culturale e scolastico.
2. L’età dell’iconoclastia
Con Leone III (717-741) la situazione alle frontiere dell’impero si stabilizzò. Sotto il suo regno prese avvio una controversia religiosa che rovinò ulteriormente i rapporti tra cristiani d’Oriente e d’Occidente. L’imperatore, infatti, appoggiò i vescovi che volevano
la proibizione del culto delle immagini, provocando immediate sollevazioni nell’impero, specie in Grecia e in Italia. Il suo successore,
Costantino V, non solo continuò la politica religiosa del padre, ma accentuò le persecuzioni contro gli oppositori. L’iconoclastia terminò
con l’imperatrice Irene, che nel 797 convocò a Nicea un concilio ecumenico nel quale fu decretato il permesso di venerare le immagini. I successori di Irene dovettero fronteggiare nuovamente la minaccia rappresentata nei Balcani da Slavi e Bulgari, mentre il dominio
dei mari e il controllo della Sicilia era loro strappato dagli Arabi.
3. L’apogeo dell’impero: la dinastia macedone
Tra il IX e l’XI secolo l’impero bizantino fu governato dalla dinastia degli imperatori macedoni e visse il periodo culminante e
culturalmente più prospero della sua storia. I conflitti con gli Arabi e gli Slavi proseguirono, ma i Bizantini riaffermarono il proprio dominio in Italia meridionale, e agli inizi dell’XI secolo sottomisero i Bulgari. Sotto la dinastia macedone furono promulgate nuove leggi
che stabilirono i limiti del potere religioso e di quello imperiale, facendo prevalere la concezione di un’origine non divina di quest’ultimo. I rapporti con la Chiesa d’Occidente, tuttavia, continuarono a essere tesi e distanti. Nel periodo macedone, Bisanzio ottenne un grande successo politico con la cristianizzazione dei popoli slavi, che passarono, così, sotto la sua influenza.
4. Un impero romano, greco e cristiano
In Occidente, in maniera dispregiativa, ci si riferiva ai Bizantini chiamandoli Greci, ma essi stessi continuavano a definirsi Romani e i loro sovrani continuavano a considerarsi signori del mondo e unici imperatori legittimi. L’identità stessa dell’impero si basava
su tre caratteristiche. L’impero era romano perché continuava la tradizione imperiale tardo antica e si reggeva sul diritto romano, era greco perché il greco era la lingua ufficiale dello Stato, ed era cristiano perché la fede cristiana formava il tessuto comune degli abitanti dell’impero e la difesa della religione era il compito principale del sovrano.
5. Un impero centralista e burocratico
Nell’impero bizantino il sovrano era un monarca divinizzato, sacro e inaccessibile ai più. Operava tramite una complessa burocrazia ed era coadiuvato dal Concistoro, un consiglio di funzionari civili e militari, tra cui spiccava l’eparco, il prefetto della capitale.
L’impero bizantino era uno Stato centralizzato e l’appartenenza alla burocrazia procurava successo e prestigio. L’accesso alla burocrazia e all’esercito era aperto a tutti, quindi l’élite bizantina era socialmente mobile e multietnica. La capacità di integrare le etnie e il dinamismo sociale furono tratti caratteristici del mondo bizantino.
6. Un’economia statalista in lotta contro i ricchi
L’economia bizantina era centralista e statalista. Tutti i principali settori della produzione erano monopolio statale. Il controllo
dello Stato si estendeva anche alla proprietà terriera e il governo imperiale cercava di limitare i trasferimenti di proprietà per garantire
la stabilità dell’imponibile fiscale. Questo significava proteggere la piccola proprietà contadina e fece entrare in conflitto la burocrazia
con i latifondisti delle province. Quando al termine del IX secolo fu abolita la legge che proibiva ai funzionari statali di acquistare possedimenti fondiari si andò formando un’aristocrazia di capi militari, grandi funzionari provinciali e alti ecclesiastici che si tramandava
il potere per via ereditaria.
7. Un impero dilaniato dai contrasti religiosi
La storia dell’impero bizantino tra VII e X secolo fu segnata dal dissenso religioso. Eraclio aveva provato a risanare la frattura
con i monofisiti imponendo il monotelismo, che sosteneva le due nature di Cristo, divina e umana, ma un’unica volontà divina. La Chie-
268
Parte VIII L’altra Roma
sa d’Occidente rifiutò ripetutamente di accettare questa dottrina, incorrendo nella repressione dell’imperatore. La popolazione italica si
convinceva sempre di più di potersi governare da sola sotto la guida del papa e in diversi casi le guarnigioni italiche si schierarono contro Bisanzio. Nell’VIII secolo il solco tra Chiesa greca e Chiesa latina era molto profondo e fu più volte scongiurato lo scisma tra le due
Chiese, che giunse, inevitabile, nel 1054. Da allora i cattolici latini si contrapposero agli ortodossi greci.
ESERCIZI
Gli eventi
1. Completa la frase con l’espressione che ritieni corretta:
1) Durante il regno di Eraclio...
2) Per tutto il VII secolo...
❏ a) gli Slavi occuparono gran parte della Grecia;
❏ a) i centri urbani conobbero uno stupefacente aumento demografico;
❏ b) fu sottomesso il khanato dei Bulgari;
❏ b) Costantinopoli fu l’unico sbocco commerciale dell’impero;
❏ c) fu imposta la nuova dottrina del monotelismo;
❏ c) la grande proprietà fondiaria fu favorita dalla burocrazia imperiale;
❏ d) venne preparato un rifacimento in greco del Corpus Iuris Civilis.
❏ d) rifiorì la cultura, tanto da far parlare di “umanesimo bizantino”.
3) Lo stratego...
4) L’imperatore Costantino V...
❏ a) era il governatore militare delle province occidentali;
❏ a) respinse l’ultimo tentativo arabo di assediare Costantinopoli;
❏ b) comandava i reparti scelti della guardia imperiale;
❏ b) convocò il concilio ecumenico che permise il culto delle immagini;
❏ c) era incaricato di mantenere l’ordine pubblico nella capitale;
❏ c) era ostile al culto della Vergine e di tutti i santi;
❏ d) era il governatore civile e militare dei temi bizantini.
❏ d) riuscì a riprendere il definitivo controllo della Sicilia.
5) Lo Stato bizantino...
6) I rapporti tra clero d’Oriente e clero d’Occidente...
❏ a) non riuscì a integrare le varie etnie;
❏ a) furono improntati a una proficua collaborazione;
❏ b) controllava tutti i settori della produzione;
❏ b) si rafforzarono per far fronte alla minaccia islamica;
❏ c) non promuoveva la mobilità sociale;
❏ c) si normalizzarono dopo l’imposizione del monotelismo;
❏ d) procedette alla privatizzazione delle terre pubbliche.
❏ d) si deteriorano tanto da arrivare allo scisma.
2. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette:
❏ a) Nei primi anni del regno di Eraclio i Persiani invasero gran parte dei territori bizantini del Vicino Oriente e l’impero fu sul punto di crollare.
❏ b) La burocrazia imperiale considerava la classe dei grandi proprietari fondiari la spina dorsale della società.
❏ c) Nell’Ekloghè furono inserite non solo nuove e dure pene corporali, ma anche nuove garanzie per le donne e per i minorenni.
❏ d) Al contrario dell’alto clero d’Oriente, il clero d’Occidente fu entusiasta della politica iconoclasta introdotta da Leone III.
❏ e) Nel IX e X secolo nell’impero bizantino prevalse una visione del potere imperiale secondo la quale il potere non aveva origine divina.
❏ f) Nonostante la perdita di vasti territori, i sovrani bizantini continuavano a considerarsi signori del mondo e unici, legittimi imperatori.
Capitolo 19 L’impero bizantino
269
❏ g) Nell’impero bizantino si perse del tutto il retaggio dell’impero romano di epoca tardo antica che vedeva nel sovrano una figura semidivina.
❏ h) Il cursus honorum per raggiungere i livelli più alti della burocrazia imperiale era riservato ai membri dell’aristocrazia greca.
❏ i) Nel X secolo una serie di leggi cercarono di arginare lo strapotere esercitato dall’aristocrazia provinciale sui piccoli proprietari terrieri.
❏ j) Lo scisma tra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente si consumò quando il laico Fozio fu proclamato patriarca di Costantinopoli.
Le coordinate spazio-temporali
3. Seguendo l’esempio fornito, inserisci correttamente nella linea del tempo le lettere corrispondenti agli eventi
elencati:
a) Ravenna viene conquistata dai Longobardi;
b) Inizia la dinastia macedone e finisce definitivamente
l’iconoclastia;
c) Scisma tra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente;
a
d) Con un editto Eraclio impone il monotelismo;
e) Il concilio ecumenico di Nicea permette il culto delle
immagini;
f) Cirillo e Metodio iniziano l’opera di evangelizzazione degli
Slavi;
g) Leone III dà inizio all’iconoclastia;
638
h) L’imperatore Basilio II sottomette definitivamente i Bulgari;
726
i) L’imperatore Niceforo I cade in battaglia contro i Bulgari.
811
751
797
1054
862
843
1018
I concetti
4. Completa lo schema relativo all’organizzazione dello Stato bizantino inserendo le informazioni mancanti;
quindi rispondi alle domande:
a) Come definiresti la struttura dello Stato bizantino? Perché?
b) Quali erano i requisiti necessari per entrare nella burocrazia?
c) Come definiresti la società bizantina?
Assunse il titolo di .................................. Era percepito come
..........................................................................................................
..........................................................................................................
IMPERATORE
Era il consiglio in cui sedevano i funzionari Civili e militari.
Il funzionario più importante era ............................................,
che era incaricato di garantire ..................................................
......................., di mantenere.......................................................
......................................... e di gestire .........................................
....................................
NUMEROSO
APPARATO
BUROCRATICO
270
Parte VIII L’altra Roma
Si occupava di gestire .................................................................
..........................................................................................................
..........................................................................................................
Il lessico
5. Collega i termini e le espressioni elencate alle definizioni corrispondenti:
Termine
Definizione
1) Monotelismo:
a) Cerimoniale o complesso di norme che regola la relazione tra individui in precisi contesti ufficiali, e in
particolare alla corte di un sovrano.
2) Monopolio:
b) Sistema di rapporti tra Stato e Chiesa caratterizzato dal controllo o predominio del primo sulla seconda.
3) Fuoco greco:
c) Controllo esclusivo da parte di un solo soggetto del mercato di una merce o di un servizio.
4) Etichetta:
d) Distretti ritagliati in base alle esigenze della difesa militare che sostituirono le antiche prefetture e province
dell’impero romano.
5) Esarchi:
e) Dottrina secondo la quale in Cristo esistevano due nature, divina e umana, ma un’unica volontà.
6) Temi:
f) Adorazione di oggetti ritenuti divinità o abitacoli di essa o partecipi di una divinità.
7) Iconoclastia:
g) Alfabeto composto dai caratteri di scrittura di alcune lingue slave.
8) Idolatria:
h) Sostanza incendiaria che bruciava anche nell’acqua e che veniva irrorata con sifoni sulle navi nemiche.
9) Cesaropapismo:
i) Movimento religioso che vietava il culto delle immagini e ne propugnava la distruzione.
10) Cirillico:
j) Funzionari che governavano le province più occidentali dell’impero e che univano autorità civile e militare.
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Quali trasformazioni caratterizzarono l’assetto territoriale e amministrativo dell’impero bizantino durante il regno di Eraclio?
2) Quali furono le conseguenze della politica iconoclasta promossa da Leone III e da suo figlio Costantino V?
3) Che differenze c’erano tra la visione platonica del potere imperiale e quella aristotelica? In che epoche prevalsero?
4) Per quale motivo fu importante per l’impero bizantino promuovere la cristianizzazione delle popolazioni slave?
5) Per quale motivo è possibile sostenere che la politica economica dell’impero bizantino era di tipo statalista e centralista?
6) Che politica perseguiva la burocrazia imperiale riguardo alla grande proprietà fondiaria? Che conseguenze ebbe questa politica?
7) Quali rapporti si stabilirono tra Stato bizantino e Chiesa, e tra clero d’Oriente e clero d’Occidente?
Capitolo 19 L’impero bizantino
271
PARTE IX
Verso una nuova Europa
C
on i prossimi capitoli usciamo dalla tarda Antichità per addentrarci in pieno nel
Medioevo. È un mondo ormai del tutto diverso da quello antico. A partire dalla
metà dell’VIII secolo si assiste alla formazione di un grande Stato: l’impero
carolingio, nato dalle conquiste dei re dei Franchi e specialmente di Carlo Magno. Il regno franco diventa
così grande e potente che il papa decide di farsi proteggere da Carlo Magno, anziché dall’imperatore
bizantino, e nell’800, a Roma, gli riconosce il titolo di imperatore. In tutti i territori dell’impero, Carlo e i suoi
successori, chiamati i Carolingi, impongono strutture di governo simili, aiutano la rinascita culturale, vigilano
sulla preparazione degli uomini di chiesa, diffondono un’unica scrittura, la bella minuscola carolina.
Ma le conseguenze più durature del loro governo vanno cercate nelle ricchezze e nel
potere che i nobili e i vescovi di tutte le regioni acquistano al servizio dell’impero. Nobiltà e Chiesa traggono
poi particolare vantaggio della crisi che colpisce lo Stato carolingio, a partire dalla metà del IX secolo.
L’Europa è dilaniata da lotte interne fra i discendenti di Carlo Magno, che si combattono per conquistare la
corona imperiale, mentre il territorio è devastato da incursioni di razziatori stranieri: Saraceni, Vichinghi e
Ungari. In questa situazione di crisi, la potenza dell’aristocrazia e della Chiesa fa sì che l’impero si frammenti
in regni indipendenti, e poi continui a disgregarsi in unità sempre più piccole. Nell’anno Mille, i territori un
tempo unificati da Carlo Magno sono divisi fra re, all’atto pratico molto deboli, e migliaia di
signorie di varie dimensioni, sottoposte a nobili, vescovi e monasteri. I signori sono padroni
delle signorie, ma non come semplici proprietari terrieri: sul loro territorio comandano,
organizzano la difesa, amministrano la giustizia, riscuotono le imposte e svolgono tutte le
funzioni tipiche dello Stato. Le signorie sono insomma piccoli Stati in proprietà.
Ma non è solo l’impero che si disgrega: è tutto un mondo che cambia.
I gradini più alti della società sono occupati da una nobiltà dedita al combattimento a
cavallo, numerosa, violenta e molto aggressiva. Si diffondono il vassallaggio e la
concessione di feudi che legano i nobili fra loro e al re. Per la massa della
popolazione l’età carolingia e la successiva età delle signorie rappresentano un
peggioramento. I contadini sono costretti a lavorare di più e a consegnare una parte
maggiore del raccolto ai signori e ai proprietari. Grazie alle loro fatiche, però, la
produzione e i commerci iniziano una crescita destinata a durare per molti secoli.
Vengono creati innumerevoli nuovi villaggi, chiese e castelli, utilizzati per
proteggere e dominare le campagne.
I maggiori protagonisti di questa storia, lo Stato e le
aristocrazie, compaiono per la prima volta anche in regioni settentrionali, come l’Irlanda e
la Scandinavia, e in tutta l’Europa orientale, popolate fino ad allora da società semplici e
poco organizzate. Nel contempo prosegue la conversione al cristianesimo di nuovi popoli. Il continente
europeo inizia a definirsi come un mondo caratterizzato da alcuni elementi comuni: la cavalleria, le
signorie, i vassalli e i feudi, un certo tipo di potere regio, un reticolo di chiese, monasteri e vescovi. È un
mondo sempre più colmo di energie. Si sta preparando alla crescita interna e alle aggressioni verso
l’esterno, come le crociate, che caratterizzeranno i secoli successivi al Mille.
Capitolo 20
L’impero
di Carlo Magno
1. L’ascesa dei Carolingi e il papato
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Da ministri a re di un grande Stato
RE
Fino all’inizio dell’VIII secolo l’Europa occidentale aveva continuato a subire molte invasioni. L’ultima, molto grave, era stata quella degli Arabi in Spagna nel 711. Proprio nell’VIII secolo, però, avvenne una svolta importante: iniziò un processo inverso, un processo di espansione dell’Occidente cristiano.
Questo cambiamento avveniva in un momento in cui la popolazione e l’economia, dopo
la gravissima crisi dei secoli precedenti, mostravano segni di ripresa. Tuttavia le cause dell’espansione dell’Occidente non possono venire ricercate nello sviluppo dell’economia, che
era ancora debolissimo, e neanche in una crescita demografica, che era appena agli inizi. Piuttosto, i fattori che, nel corso dell’VIII secolo, diedero all’Occidente cristiano una forza e un dinamismo inimmagiI confini dell’impero carolingio
nabili ancora poco tempo prima furono di natura politicoMARE
militare: lo sviluppo dei Franchi e la nascita di un grande
DEL NORD
dominio statale che andava dalla Catalogna, nella Spagna
FRISIA Brema
SASSONIA
orientale, fino alla Carinzia, ad est di Vienna, e dalla ToTURINGIA
Colonia
scana meridionale fino al confine fra Germania e DanimarAquisgrana
Fulda
ca. Si formò allora uno Stato, detto carolingio, che fino a
A
Magonza
SI
Reims
R A Würzburg
Treviri U S T
TRIA
S
oggi è restato il più grande Stato mai esistito in Europa doParigi
MARCA N E U
Metz A Lorsch
Ratisbona
DI Rennes
po la fine dell’impero romano, fatta eccezione per i domìni
Strasburgo
BAVIERA
BRETAGNA Tours
Salisburgo
BORGOGNA ALEMAGNA
conquistati per pochi anni da Napoleone all’inizio del XIX
San Gallo
Poitiers
CARINZIA
Coira
secolo e da Hitler durante la Seconda guerra mondiale.
AQUITANIA Lione
Milano
La formazione di questo nuovo grande Stato avvenne atVenezia
Pavia
GUASCOGNA Tolosa
PROVENZA
traverso numerosi eventi. Una premessa necessaria fu la
SETTIMANIA Arles
creazione di un unitario regno dei Franchi compiuta nel
Nizza
MARCA DI
DUCATO
SPAGNA
688 a opera di un potente ministro dei re della dinastia meDI SPOLETO
Barcellona
Roma
rovingia, il maestro di palazzo Pipino di Héristal. Pipino
Benevento
DUCATO
riuscì a unificare tutti i diversi regni in cui fino ad allora era
Napoli
DI
BENEVENTO
stato diviso il dominio dei Franchi, e impose la sua autorità
sopra l’aristocrazia di quel popolo, molto ricca e per questo
MAR
ME
DIT
ER
molto potente e turbolenta. Il potere effettivo era nelle sue
RA
NE
mani, piuttosto che in quelle del re, e dopo la sua morte
O
Regno franco nel 771
conquiste di Carlo Magno
(714) passò in quelle del figlio Carlo Martello (714-741),
aree di influenza dell’impero carolingio
divenuto famoso in tutta Europa per aver sconfitto un contingente di Arabi a Poitiers nel 732 [cfr. cap. 17.4].
G
N
O
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A
274
Parte IX Verso una nuova Europa
Non deve meravigliare quindi che, alla fine, un figlio di Carlo Martello, Pipino detto il
Breve (era di bassa statura), abbia deciso di assumere anche formalmente il titolo regio: nel
751 depose l’ultimo esponente dei Merovingi. Nasceva una nuova dinastia regia che fu poi
detta, dal nome di Carlo Magno, dei Carolingi.
Perché il papato appoggiò i Carolingi?
Il papato e la Chiesa influirono molto sul processo di ascesa dei Carolingi fino al trono
dei Franchi, dando alla dinastia legittimazione e sostegno ideologico. Va infatti sottolineato che pur detenendo nei fatti tutto il potere, sia Pipino di Héristal, che il figlio Carlo Martello e il nipote Pipino il Breve erano formalmente solo i maestri di palazzo, cioè i ministri
dei re Merovingi. Per più di mezzo secolo i maestri di palazzo non erano stati in grado di
sottrarre il titolo regio ad una dinastia che, secondo le antiche credenze dei Franchi, deteneva facoltà quasi magiche [cfr. cap. 17.5]. Pipino il Breve decise che, dopo tre generazioni di potere effettivo, era giunto il momento di cambiare le cose. Si appoggiò allora al papa. L’autorità del papa sulla Chiesa era a quei tempi forte, ma soltanto di tipo politico e morale, non amministrativo e giuridico come oggi: solo tre-quattro secoli più tardi il papato
sviluppò poteri reali di comando e di controllo sopra le chiese e gli altri vescovi della Cristianità occidentale. Proprio di un’autorità morale aveva però bisogno Pipino.
Perciò nel 751 scrisse al papa Zaccaria. Gli pareva corretto che il titolo di re dei Franchi toccasse a chi non aveva reale potere? E il papa rispose quel che Pipino voleva sentirsi dire: il titolo spettava a chi aveva l’effettiva autorità. Forte di questo parere, subito Pipino si fece acclamare re da un’assemblea di nobili, e poi ottenne che tre anni dopo, nel 754,
il successore di Zaccaria, Stefano, affrontasse il lungo viaggio da Roma fino in Gallia per
consacrare il nuovo re con un unguento sacro. Fra i papi e i sovrani carolingi si era stabilito un rapporto destinato a portare all’incoronazione di Carlo Magno a imperatore, compiuta dal papa qualche decennio più tardi.
I papi furono pronti a rispondere alle richieste di Pipino perché nella prima metà
dell’VIII secolo la loro situazione, in Italia, era drasticamente mutata. A partire dall’invasione dei Longobardi, nel 568, Roma e il Lazio facevano parte delle regioni restate sotto il
governo dell’imperatore di Bisanzio. La capacità del lontano imperatore di governare e difendere le province italiane era però scarsa, e i re longobardi si erano minacciosamente
espansi nei territori bizantini. Avevano conquistato la Romagna, e con re Liutprando si erano spinti a poche decine di chilometri da Roma: si erano poi ritirati nel 728, consegnando
il Lazio settentrionale al papa, con la “donazione di Sutri”. Per i pontefici, continuare a confidare nella protezione di Bisanzio era ormai impossibile.
Con l’imperatore, del resto, era scoppiato anche un conflitto religioso, la cosiddetta
“iconoclastia” [cfr. cap. 19.2]. Quando l’imperatore bizantino Leone III (717-741) aderì all’iconoclastia e ordinò la distruzione di tutte le immagini sacre, il papa si rifiutò di accettare la decisione imperiale. Il contrasto con l’impero era divenuto esplicito, e aveva diminuito ancora di più la già debole protezione bizantina su Roma. Occorreva trovare dei
nuovi sostenitori, e la scelta non poteva che cadere sui Franchi, il popolo più potente dell’Occidente cristiano.
1. Chi furono gli artefici dell’unificazione e del rafforzamento del regno franco? 2. Che ruolo svolse la
Chiesa nel passaggio dalla dinastia merovingia a quella carolingia?
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
275
2. La conquista di un impero
e il ruolo del vassallaggio
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Carlo: da conquistatore a imperatore
Statuetta equestre di
Carlo Magno
IX sec.
Musée du Louvre, Parigi
L’iconografia della statua
equestre richiama alla
memoria i fasti imperiali e
la potenza militare dei
grandi imperatori e
condottieri romani.
Dalmatica imperiale
detta “di Carlo
Magno”
X sec.
Biblioteca delle Arti
Decorative, Parigi
Ricevuta l’unzione
del pontefice,
l’imperatore non può
più essere considerato
un semplice laico; in
virtù della consacrazione
egli è ormai associato alla
gerarchia ecclesiastica,
investito da sacralità e
venerazione. Nelle funzioni
di diacono assiste alla messa
papale, e in questa
occasione indossa una
tunica, la dalmatica.
Questa dalmatica è detta
di Carlo Magno perché si
pensava l’avesse
indossata l’imperatore
per la sua incoronazione
nell’800; studi più recenti
la datano invece all’inizio
del X secolo.
276
La famiglia di Pipino già prima di raggiungere il titolo regio aveva dato prova di buone
capacità militari quando Carlo Martello sconfisse gli Arabi a Poitiers. Tutta la forza e la volontà di conquista dei nuovi re dei Franchi risultarono evidenti quando salì al trono Carlo
Magno, il figlio maggiore di Pipino il Breve
(morto nel 768). Carlo Magno regnò dal 768
all’814 (per i primi tre anni, cioè fino al 771,
dovette dividere il potere con il fratello Carlomanno). Carlo fu un grande conquistatore, impegnato quasi ogni anno del suo lungo regno in
vittoriose campagne militari. Oltre che nel regno dei Longobardi in Italia, conquistato nel
774 a re Desiderio, Carlo spinse i suoi eserciti
in Spagna orientale, sottraendo agli Arabi la Catalogna fino a Barcellona. Soprattutto, però,
Carlo si indirizzò verso nord e verso oriente. La
conquista più difficile fu quella dei vicini dei
Franchi, i pagani Sassoni, che popolavano la
parte settentrionale dell’attuale Germania e che
tante volte furono sconfitti, si sottomisero, e poi
tornarono a ribellarsi e di nuovo a venire sconfitti. Carlo sottomise anche i Bavari, nella Germania meridionale, e poi ancora più a est gli
Àvari e una parte della penisola balcanica, che
apparteneva all’impero bizantino.
A sancire il grande cambiamento che Carlo
Magno aveva determinato nella politica europea
venne anche un titolo altisonante: l’incoronazione
a imperatore. Carlo fu incoronato da papa Leone
III, a Roma, il giorno di Natale dell’anno 800.
Il vassallaggio, un’efficace gestione delle
clientele
Era stata realizzata un’espansione impressionante e ricca di conseguenze. Questa espansione
non dipese soltanto dalle capacità strategiche di
Carlo Magno, ma anche da tanti altri fattori: dalla potenza dell’esercito dei Franchi; dall’organizzazione amministrativa che il nuovo Stato seppe
darsi; dal ruolo importante nel funzionamento
dello Stato che fu assunto da vescovi, monasteri
e altre strutture della Chiesa. Fra tutti, il fattore
Parte IX Verso una nuova Europa
principale fu la potenza della nobiltà dei Franchi: una nobiltà che Carlo Magno seppe tenere
sotto controllo e legare a sé con le guerre di conquista e le cariche di governo.
Nella seconda parte del capitolo approfondiremo l’analisi di tutti questi elementi che determinarono la forza dapprima del regno e poi dell’impero carolingio. Fin d’ora occorre
però spiegare uno di questi fattori: la diffusione dei rapporti di vassallaggio e di feudo. Essi vennero usati per stabilire e rafforzare l’alleanza fra Carlo e i nobili, oppure anche fra
i nobili più potenti e i loro seguaci. Erano i primi passi del feudalesimo, un fenomeno destinato a caratterizzare buona parte dell’età medievale. Con Carlo Magno, vassallaggio e
feudo si diffusero molto fra i Franchi e presso tutte le popolazioni da essi conquistate. Poi,
per molti secoli, restarono un aspetto importante delle relazioni politiche, cioè dei rapporti che facevano capo ai potenti di ogni tipo, dal piccolo nobile su su fino al re.
Di che si trattava? Il vassallaggio e il feudo furono un modo sviluppato presso i Franchi
per dare maggiore forza e visibilità alle clientele che legavano re e nobili franchi fra loro e
con gli uomini liberi più potenti. L’ingresso nella
clientela di un nobile, come anche in quella del re,
avveniva prestando un giuramento pubblico e solenne di vassallaggio. Davanti ai dignitari della corte regia (se si giurava al re) o a tutta la clientela di un
nobile (se era lui a ricevere il giuramento), un uomo
giurava fedeltà. Il legame stabilito dal giuramento
veniva considerato molto stretto. Secondo molti, doveva addirittura essere più importante dei più intimi
legami di parentela, come quelli con i fratelli.
Chi prestava il giuramento veniva chiamato vassus, vassallo; chi lo riceveva senior, signore. Il giuramento era detto omaggio. L’etimologia di questi
termini aiuta a capire quanto il legame fosse stretto.
Vassus in origine voleva dire ‘ragazzo’, giovane garzone; senior sta per ‘il più anziano’: il rapporto di
vassallaggio doveva dunque essere come quello di un giovane della famiglia con il membro
anziano, il capofamiglia. Prestare l’omaggio voleva dire essere l’uomo (homo) del signore.
Il vassallaggio comportava obblighi per entrambe le parti. Il vassallo doveva essere fedele al suo signore, e aiutarlo in molti modi: accompagnarlo nei combattimenti o a riunioni
importanti di nobili, consigliarlo, fare di tutto per il suo bene. Anche il signore doveva assistere il vassallo. Lo aiutava se era attaccato da nemici e lo proteggeva in qualsiasi occasione.
Il signore, inoltre, ricompensava il vassallo con doni. In quei tempi (ma in fin dei conti
anche nel mondo odierno, sebbene molto meno!), chi voleva proclamare la propria superiorità doveva fare grandi doni, troppo grandi perché il beneficiato potesse anche solo pensare di ricambiarli. Essere generosi e donare a piene mani era un obbligo per chiunque volesse conservare un seguito di fedeli. Ma il dono migliore era quello che stabiliva un legame protratto nel tempo, obbligando chi lo riceveva a restare fedele se non voleva perderlo:
di qui la pratica di concedere al vassallo una terra del signore non in piena proprietà, come
quando si fa un regalo, ma attraverso un dono revocabile, chiamato beneficio (in latino) o
feudo (con termine di origine germanica).
Il dono consisteva di solito in terra e contadini, piuttosto che in denaro. Nessuno poteva essere potente e fare politica senza la terra, e senza i contadini che la lavoravano. In un’epoca in cui le tasse erano assenti o molto scarse e il mercato limitato, per assicurarsi a lun-
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
Il vassallo rende omaggio
al suo signore
XIV sec.
Miniatura dall’Archivio
Dipartimentale di
Perpignan, Francia
Nel complesso sistema di
relazioni che legavano i
signori feudali ai propri
sudditi, il gesto di “rendere
omaggio” significava
confermare la dipendenza di
un uomo da un altro: in
cambio della promessa di
fedeltà il vassallo otteneva
la promessa di protezione e,
spesso, anche
l’assegnazione di un feudo.
277
Carlo: il nome, la nascita, gli amori
I contemporanei di Carlo Magno si sarebbero stupiti a sentirlo cambiati i modi di sposarsi in uso presso i Franchi, con l’effetto
chiamare così. Per loro, era semplicemente Carlo, o meglio Karo- di definire come legittimo uno solo dei due tipi di matrimonio
lus in latino e Karl in “lingua Theotisca”, cioè nel dialetto germa- che fino ad allora erano stati usati. La tradizione dei popoli gernico antenato del tedesco odierno, in quel tempo parlato dai Fran- manici prevedeva infatti due diversi tipi di matrimonio: sia il
chi che vivevano nella parte orientale del regno (i Franchi della “matrimonio pubblico”, formale e impegnativo, sia il “matrimoparte occidentale, viceversa, parlavano la “lingua Romana”, cioè nio d’amore”, meno stringente e facilmente revocabile. Ora, il
una via intermedia fra il latino e il francese odierno). Il sopranno- matrimonio fra Berta e Pipino il Breve non era stato un “matrime di “Magno” fu dato a Carlo soltanto dopo la morte. Durante la monio pubblico”, solenne e proclamato a tutta la popolazione,
vita dell’imperatore l’aggettivo Magnus (‘il Grande’) fu utilizza- ma un “matrimonio d’amore”, celebrato in privato, di fronte a
to per distinguerlo da uno dei sui figli, che era anch’egli chiama- poche decine di persone. La Chiesa si opponeva alla tradizione
to Carlo. E poi compariva all’inizio delle sue lettere e degli altri dei due tipi di matrimonio, e cercava di convincere i cristiani ad
documenti: «Io Carlo, il grande imperatore, ordino che...». Era avere una sola moglie, e a non divorziare. Ma il matrimonio non
dunque un aggettivo riferito alla carica imperiale, non al nome. era stato ancora definito come un sacramento, e le nozze avveCon il passare del tempo, però, il ricordo di questo personaggio in nivano senza alcun intervento dei sacerdoti. Furono proprio Careffetti grandioso fece sì che l’aggettivo venisse attribuito a lui, e si lo Magno e poi il figlio Ludovico il Pio a favorire uno sviluppo
incollasse al suo nome. Dunque l’inizio dei suoi documenti fu let- della liturgia e della teologia, che spostò il confine fra matrimoto in modo diverso: “Io Carlo il Grande, imperatore, ordino che...”. nio lecito e illecito: e il “matrimonio d’amore” finì per venire
Era una lettura sbagliata, ma causata dalla prestigiosa memoria del considerato come illegittimo.
personaggio. Anche fuori dai confini dell’impero, la sua fama era Carlo Magno ebbe cinque mogli, almeno sei concubine e un
tale che tuttora, presso gli Slavi, proprio dal nome Karl deriva la gran numero di figli (venti quelli noti a distanza di un millennio
parola che significa, in quelle lingue, “re”: kral in ceco e korol’ e due secoli, ma certamente molti altri). Questi numeri ci aiutain polacco.
no a capire quanto fosse diverso il mondo di allora. Le donne si
Cosa sappiamo di Carlo Magno? Pare fosse molto alto. Secondo sposavano in giovane età, e morivano con frequenza di parto.
il suo biografo, Eginardo, arrivava ai sette piedi, cioè oltrepassa- La Chiesa, poi, non era ancora riuscita a imporre l’idea della
va il metro e novanta. Per quei tempi era molto, e saremmo tenta- monogamia. Per i potenti, era normale avere più di una compati di non prestare fede alla notizia se non fosse che lo scheletro tro- gna di vita. Inoltre era ancora possibile cambiare la moglie levato un secolo e mezzo fa nella tomba di Carlo misurava per l’ap- gittima, se questa non dava figli oppure se lo richiedeva la conpunto 192 centimetri. La sua lingua
venienza politica.
materna fu quella dei Franchi orienCarlo Magno infatti divorziò più
tali, cioè la “theotisca”, ma imparò
volte. Il suo primo matrimonio era
presto anche il latino e la lingua “rostato un “matrimonio d’amore”, almana” parlata nelle parte occidentale
l’epoca considerato legittimo (e ledell’attuale Francia.
gittimo venne appunto definito adEra nato nel 742, forse in aprile. Ma
dirittura dal papa). Però durò poco
sono date approssimative, perché,
tempo, e gli diede un solo figlio.
come sempre nel Medioevo, il calcoOccorreva stabilire stretti rapporti
lo dell’età esatta era difficile. Non si
con il re dei Longobardi Desiderio,
faceva attenzione alla data di nascita
e dunque Carlo ripudiò la prima
in un mondo dove la mortalità infanmoglie e sposò la figlia di re Desitile era altissima e dove solo i più colderio. Ne ignoriamo il nome, anche
ti sapevano seguire la tecnica, oggi
se spesso ci piace chiamarla con il
così scontata, di numerare gli anni a
nome di fantasia, Ermengarda, che
partire dalla nascita di Cristo. Pochisle diede Alessandro Manzoni tanto
simi, dunque, conoscevano il proprio
tempo dopo nel suo dramma Adelanno di nascita.
chi. Anche questo matrimonio venIl nome della madre era Berta o Berne tuttavia sciolto nel giro di un antrada. Apparteneva a una famiglia
no, poiché si profilava la violenta
importante, alleata con quella del
conquista del regno di Desiderio, e
marito e padre di Carlo, Pipino il
occorreva avere le mani libere. La
Breve. Era un marito solo in parte,
terza moglie durò più a lungo: spova detto. Anzi, un secolo più tardi il
satasi come sempre in quel tempo
matrimonio fra i genitori di Carlo
giovanissima, a tredici anni, morì a
Magno sarebbe stato senz’altro conventicinque anni di età, dopo avere
siderato illegittimo, e il bambino, di
messo alla luce almeno nove figli.
Carlo Magno e una delle sue mogli
sec.
conseguenza, un bastardo. Perché IX
Dopo di allora Carlo Magno non diquesta strana affermazione? Duran- Miniatura da un manoscritto di epoca carolingia; Biblioteca
vorziò più, ma si risposò ogni volta
te il regno di Carlo Magno erano dell’Abbazia St. Paul im Lavanttal, Carinzia, Austria
che la moglie moriva.
278
Parte IX Verso una nuova Europa
go nel tempo un buon gruppo di sostenitori, che senso aveva ricorrere solo a stipendi, pensioni o vitalizi? La moneta era rara e in certe fasi era davvero difficile mettere insieme le
somme da pagare. D’altra parte, il mercato dei prodotti agricoli funzionava ancora molto
male, e in certe situazioni, quando per esempio il raccolto era cattivo, poteva accadere che
anche chi disponeva di denaro non riuscisse a trovare nessuno disposto a vendergli gli approvvigionamenti necessari. Non ci sono dubbi: il modo migliore per conquistarsi dei sostenitori era dare loro della terra. Ovunque, vediamo così nobili e re impegnati nel trovare
terre e distribuirle ai propri sostenitori. A dare loro dei benefici, o feudi.
Queste elargizioni di terra erano temporanee. I benefici o feudi duravano fin quando resisteva il rapporto fra il potente e il suo sostenitore. Se il vassallo non andava in guerra, o peggio ancora se si ribellava, il beneficio gli veniva sottratto. Ma poteva perderlo anche se il suo
signore (senior) moriva, e gli eredi preferivano dare ad altri sostenitori la terra. Naturalmente spesso la relazione di vassallaggio, e dunque anche la concessione di terra in beneficio, durava nel tempo, trasmettendosi dai padri ai figli. In età carolingia, però, non era una relazione ereditaria. Lo diventerà solo nei secoli successivi, come vedremo nel prossimo capitolo.
1. Quali territori conquistò Carlo Magno? 2. Come spiegano il rapporto di vassallaggio le parole vassus,
senior e omaggio? 3. Per quale motivo le elargizioni di terre erano più preziose del denaro?
3. L’eredità di Carlo Magno
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Lotte per il potere
Nella cultura, nella religione, nell’economia, nella politica e quasi in ogni campo, l’impero carolingio ha lasciato una duratura eredità in molte regioni europee, lo vedremo nel
corso del capitolo. E non a caso, proprio in Carlo Magno alcuni storici individuano “un paGenealogia carolingia
Carlo Martello
† 741
Pipino il Breve
maestro di palazzo
re dei Franchi dal 751
† 768
Carlo Magno
† 814
Pipino
re d’Italia
† 810
Carlomanno
† 771
Ludovico I il Pio
re d’Aquitania
poi imperatore
† 840
Lotario I
imperatore
† 855
Ludovico il Germanico
re dei Franchi orientali
† 876
Ludovico II
re d’Italia e imperatore
† 875
Carlo il Grosso
imperatore
† 888
Carlo il Calvo
re dei franchi occidentali
poi imperatore
† 877
dre dell’Europa”. Riflettiamo però in primo luogo sull’eredità dell’impero: non bisogna infatti credere che l’impero sia sopravvissuto intatto per secoli. Già durante il regno del figlio e successore di Carlo, l’imperatore Ludovico il Pio (814-840), iniziarono le difficoltà.
Creava problemi, in primo luogo, l’idea radicata tra i Franchi che i diversi figli maschi legittimi avessero tutti diritto alla medesima quota dell’eredità paterna. Quando salì al trono, Ludovico il Pio aveva tre figli. Per evitare che l’impero fosse suddiviso al momento della sua
morte, emanò nell’817 una disposizione, l’Ordinatio imperii (‘Ordinamento dell’impero’), che
proclamava suo unico successore il primogenito, Lotario, assegnando agli altri due fratelli
quote molto minori. Dopo l’830, i figli minori si ribellarono al padre e al fratello primogenito.
Verso la frammentazione dell’impero
no
Re
Era l’inizio di una serie di guerre interne, rese tanto più pericolose e devastanti da quella
che, fino ad allora, era stata la maggiore causa della potenza carolingia, e cioè il numero e la
forza delle famiglie aristocratiche. Finché i sovrani erano stati capaci di indirizzare verso l’esterno, in campagne di conquista, i desideri di bottino e ricchezza dei nobili, la forza dell’aristocrazia era stata un fattore positivo. Ma ora che le lotte si spostavano all’interno dell’impero, divenendo lotte civili, proprio la potenza delle aristocrazie diveniva un fattore di grande pericolo per il governo e la società, poiché ognuno dei contendenti alla corona poteva contare su
un vasto gruppo di nobili seguaci molto aggressivi e desiderosi di combattere.
Nell’843, tre anni dopo la morte di Ludovico il Pio, si giunse infine a un accordo, sancito
con il trattato di Verdun, che stabiliva una spartizione dei territori. Al figlio minore di Ludovico, Carlo il Calvo, fu assegnata la parte occidentale dei possessi appartenuti al padre (Francia
La divisione dell’impero dopo il trattato di Verdun
e Catalogna), mentre al secondo, detto Ludovico
il Germanico, fu data la parte orientale, la Germania. Al primogenito Lotario restò una lunga striscia di territori intermedi, che dall’Olanda a nord
MARE
DEL
giungeva a meridione fino a Roma. Come aveva
NORD
stabilito l’Ordinatio imperii dell’817, il titolo di
imperatore restava a Lotario (840-855): ma ormai
era un attributo onorifico, privo di ogni reale capacità di comando sui regni dei fratelli.
Aquisgrana
Nel trentennio successivo a Verdun le lotte inParigi
Verdun
testine furono meno accentuate, anche se mai asOCEANO
Strasburgo
ATLANTICO
senti. L’idea di impero restava, anche se era inDan
ubio
tesa solo come un coordinamento fra regni indipendenti (a un certo punto ce ne furono ben
sette!). Le lotte ripresero con maggiore intensità
Pavia
dopo l’875, alla morte dell’imperatore Ludovico
II, ultimo figlio di Lotario. Nell’881 Carlo il
Grosso, figlio di Ludovico il Germanico, approRoma
fittò della morte senza eredi dei fratelli e dei cugini, e riuscì a riunificare l’impero. Ma era un imRegno di Carlo il Calvo
pero incomparabilmente più debole di quello apMA
Regno di Lotario I
RM
partenuto al nonno Ludovico il Pio, per non parEDI
Regno di Ludovico il Germanico
TER
RAN
lare del bisnonno Carlo Magno. Come vedremo
EO
nel prossimo capitolo, il potere centrale era incaRoda
no
a
Elb
280
Parte IX Verso una nuova Europa
pace di difendere il territorio da una serie di incursioni e di attacchi che provenivano dall’esterno dell’impero, a opera di Vichinghi, Saraceni e Ungari. Carlo il Grosso fu deposto
nell’887, e l’anno dopo, alla sua morte, l’impero venne frammentato in modo definitivo.
1. Che cosa decretava l’Ordinatio imperii? 2. Che cosa sancì il trattato di Verdun?
4. Spiegare la potenza dei Franchi:
strategia e politica
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
In una sola campagna di guerra, nel 773-774, la monarchia dei Longobardi fu distrutta per
sempre. Sotto il dominio dei Carolingi passarono tutti i territori del regno, che comprendevano grosso modo l’Italia settentrionale e centrale. Fu una delle tante vittorie di Carlo Magno. Osserviamola un po’ più in dettaglio per cercare di capire il segreto di tanti successi.
Vediamo, in primo luogo, i fatti. Nell’estate 773, Carlo Magno fece radunare il suo esercito vicino a Ginevra, lo divise in due parti e intraprese da due direzioni (dai valichi del
Moncenisio e del Gran San Bernardo) il difficile passaggio delle Alpi. Le potenti fortificazioni, chiamate “chiuse”, che sbarravano poco prima dell’ingresso nella Pianura Padana le
strade che scendevano dai monti, vennero aggirate senza colpo ferire. Le truppe di re Desiderio, suocero di Carlo Magno (o meglio, ex suocero, perché Carlo aveva ripudiato la figlia di Desiderio sposata pochi anni prima; cfr. scheda, p. 278) si rinchiusero nella capitale
del regno dei Longobardi, Pavia. Iniziò un assedio durato fino al giugno del 774. Allo stremo, re Desiderio si arrese e venne mandato prigioniero oltralpe. Carlo si installò nel suo
palazzo e distribuì ai propri guerrieri il tesoro della monarchia longobarda.
Da questi eventi traiamo una prima conclusione, e cioè l’indubitabile abilità strategica
di Carlo Magno. Tante volte egli divise le sue truppe per prendere con una manovra a tenaglia il nemico (operazione difficile, perché a quei tempi coordinare il movimento di grandi contingenti era molto complesso). Più ancora che nella strategia, però, in questo come
in altri casi Carlo appare abile in politica. Lo si sarà notato, la resistenza dei Longobardi fu
minima. Le fonti non ricordano né un nobile, né una città (tranne Pavia) che lottarono contro gli invasori. Ci viene detto soltanto che Desiderio si rinchiuse nella capitale con
i guerrieri che gli restavano. E i
duchi e gli altri grandi nobili
longobardi? Non sembra che
abbiano opposto una grande
resistenza, e anzi si sottomisero con prontezza al nuovo
padrone, conservando spesso
tutti i loro beni. La vittoria del
774 non provocò nessuna immigrazione massiccia di Franchi vincitori, e nessuna espropriazione sistematica dei vinti. Scesero in
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
La corona ferrea dei re
d’Italia
VII-VIII sec.
Tesoro del Duomo, Monza
Con la caduta di Desiderio,
Carlo Magno si proclamava
“re dei Franchi e dei
Longobardi”; secondo la
tradizione in
quest’occasione
l’imperatore cinse la
cosiddetta “corona ferrea”,
emblema del potere dei re
d’Italia fino a quel
momento, e così chiamata
perché ha all’interno una
piccola fascia di ferro
ricavata, si credeva, da uno
dei chiodi usati per la
crocifissione di Cristo.
281
Cavalieri carolingi
all’attacco
XI sec.
Miniatura dal manoscritto
del De Universo di Rabano
Mauro; abbazia di
Montecassino
Questa miniatura, che
illustra come fossero i
cavalieri carolingi a distanza
di due secoli dal fatto, è
tratta da un manoscritto
posteriore appunto di due
secoli alla redazione
dell’opera del De Universo
di Rabano Mauro, una delle
opere enciclopediche più
rilevanti composte in epoca
carolingia. Abate erudito,
teologo e autore di una
vastissima produzione
letteraria, Rabano Mauro fu
arcivescovo di Magonza e
successore del suo maestro
Alcuino di York alla guida
della cosiddetta rinascenza
culturale carolingia.
Italia solo un numero ristretto di personaggi legati a Carlo Magno, che occuparono una serie di cariche e posizioni di comando; ma la maggioranza dei nobili longobardi riuscì a mantenere il proprio ruolo. Ne deduciamo che erano avvenute delle trattative politiche, e Carlo era stato abile nel convincere l’aristocrazia longobarda.
Si trattò dunque di un successo da attribuire solo alle capacità strategiche e politiche di
Carlo Magno? Sbaglieremmo a crederlo. In Italia come in Sassonia e in tanti altri scenari
militari, la ragione principale delle vittorie carolingie va cercata nella superiorità militare. I Franchi disponevano, in quell’epoca, di un esercito più numeroso, più armato e più efficace.
1. Come reagì la nobiltà longobarda all’invasione dei Franchi? Che cosa se ne può dedurre?
5. Spiegare la potenza dei Franchi:
la macchina militare
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Sfatiamo subito un mito: un tempo gli storici credevano che la superiorità militare dei Franchi dipendesse da
un nuovo accorgimento tecnico, la staffa. La staffa consente in effetti al cavaliere, soprattutto se dotato di una
pesante corazza, di ancorarsi meglio al cavallo, e di manovrare con più facilità. Invece le indagini archeologiche
mostrano che all’epoca di Carlo Magno la staffa in Occidente era ancora poco diffusa. Certamente solo una minoranza dei cavalieri già ne faceva uso.
Altri mutamenti erano invece più importanti. Era avvenuto, per esempio, un cambiamento nelle forme di
reclutamento dei militari. Nei primi tempi del regno
dei Franchi tutti gli uomini liberi erano tenuti a combattere nell’esercito del re. Il grosso dei combattenti era
costituito da piccoli proprietari di terra, che non avevano le risorse per acquistare un cavallo e tanto meno per
un’armatura o una spada lunga. Combattevano a piedi, protetti da uno scudo di legno e armati di coltelli, lance, giavellotti e ascie da lancio (le temibili franciske). Solo pochi riuscivano a mettere insieme tutta questa attrezzatura; alcuni, poi, nemmeno avevano una vera e propria arma, e andavano a combattere muniti solo di bastoni.
Già prima della nascita di Carlo Magno, il reclutamento dell’esercito era cambiato. Il
numero di quanti erano chiamati a farne parte era diminuito, ma era molto migliorata la qualità delle loro armi e del loro addestramento. In guerra andava ormai solo una minoranza
di quelli che potevano combattere a piedi, mentre gli altri dovevano contribuire con denaro e viveri. Coloro che partivano, scelti fra i più abbienti e aiutati dai vicini che restavano a casa, erano molto meglio armati di un tempo. Tutti, per esempio, avevano un arco. Ma
il cambiamento principale riguardava i cavalieri. Adesso erano molti di più, e molto meglio
armati.
282
Parte IX Verso una nuova Europa
I cavalieri erano più numerosi, poiché con le guerre vittoriose era cresciuta la ricchezza dell’aristocrazia e dei guerrieri, che partecipavano alla spartizione dei bottini sottratti ai nemici e ai doni elargiti dai sovrani. Si dividevano in cavalleria leggera, armata
sempre di lancia, scudo, spada lunga e spada corta, e in cavalleria corazzata. Ai cavalieri
che possedevano terreni lavorati da almeno una dozzina di famiglie contadine, Carlo Magno faceva obbligo di acquistare, oltre alle armi, una costosa brunia, cioè una corazza di
cuoio ricoperta di placche di metallo. Un nucleo di alcune migliaia di cavalieri corazzati
costituiva la principale forza d’urto dell’esercito.
La maggiore ricchezza permetteva anche di allestire tutta la complessa logistica richiesta da una spedizione militare. In genere, occorreva portare con sé i rifornimenti per parecchi mesi di campagna. Sapendo che il carro allora in uso, tirato da una coppia di buoi,
poteva portare poco più di mezza tonnellata di farina o vino, è stato calcolato che una forza di diecimila uomini, dei quali tremila cavalieri, doveva essere accompagnata da più di
seimila carri, tirati da dodicimila buoi!
1. Come veniva reclutato l’esercito al tempo di Carlo Magno? 2. Da chi era composta la cavalleria?
6. Spiegare la potenza dei Franchi:
la ricchezza
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Sarà chiara, a questo punto, una differenza importante fra
l’esercito dell’impero carolingio e gli eserciti dell’impero
romano e di tanti altri Stati moderni e contemporanei: la
gran parte dei soldati appiedati e dei cavalieri, delle loro armi e degli approvvigionamenti non era pagata dallo Stato,
ma veniva fornita dai combattenti stessi. Chi era chiamato
nell’esercito, vi andava a proprie spese, con le proprie armi e le proprie provviste. Per avere un esercito potente, era
dunque importante che i combattenti avessero un buon patrimonio, oppure risorse di altro tipo.
Per capire questo punto, confrontiamo la situazione dei
Longobardi e quella dei Franchi nel 773-774. Nel regno dei
Longobardi erano rari i grandissimi proprietari di terre, che
possedevano diverse centinaia o persino migliaia di mansi
(il termine, come vedremo, indica il podere affidato a una
famiglia contadina). Prevalevano i medi e i piccoli proprietari. Così, l’esercito era composto soprattutto da combattenti appiedati (i piccoli proprietari), da cavalieri leggeri (i
medi proprietari) e da un certo numero di cavalieri meglio
attrezzati (i grandi proprietari). Molti di costoro spesso si
incontravano per la prima volta solo al momento del combattimento. Presso i Franchi, invece, i grandi e i grandissimi proprietari erano molto più numerosi. Con le loro
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
Nobile-guerriero franco
IX sec.
Chiesa di San Benedetto,
Malles Venosta, Bolzano
L’affresco, proveniente dalla
chiesa di San Benedetto in
Val Venosta, raffigura il
dignitario carolingio cui si
deve la committenza
dell’edificio. Estrazione
sociale e risorse
economiche permettevano ai
nobili di disporre di
un’attrezzatura militare, qui
testimoniata dalla grossa
spada.
vaste terre, soprattutto i nobili più ricchi riuscivano non soltanto a comprare le migliori
attrezzature per sé stessi, ma anche a circondarsi di un gruppo numeroso di sostenitori, ai
quali distribuivano armi e cavalli. Reclutati fra i medi e i piccoli proprietari dei dintorni,
questi sostenitori formavano la “clientela” dei grandi nobili, erano i loro “vassalli”. Da
essi ricevevano terre, doni, e appunto armi e cavalli. Così, quando ciascuno di questi grandi nobili era convocato nell’esercito del re, non vi andava da solo, ma con tutta la sua clien-
Campi e fiumi di ferro
[Noktero Balbulo, Gesta Karoli Magni imperatoris, p. 44; trad. a
cura degli autori]
La
voce
PA
SSA
TO
del
A distanza di oltre un secolo dalla conquista del
regno dei Longobardi, ancora restava la memoria
dell’impressionante diseguaglianza di esercito e di
attrezzatura tra Franchi e Longobardi. Ormai veniva
però deformata in racconti più o
meno di fantasia. Uno di questi ci è
fornito dal monaco Notker. Egli
immagina che nel 773 re Desiderio
assista all’arrivo dell’esercito di
Carlo Magno dall’alto di una torre
di Pavia. A spiegargli la
disposizione delle truppe nemiche
è un disertore franco, Uggieri. Il
racconto descrive bene lo stupore e
la paura che i Longobardi, come
tutti i nemici dei Carolingi,
dovettero provare di fronte
all’ampiezza degli
approvvigionamenti, al numero
degli armati e soprattutto alla
frequenza con cui costoro potevano
permettersi di utilizzare il ferro,
materiale a quel tempo costoso.
E vedendo arrivare carri e provviste in
grandissimo numero, re Desiderio disse a Uggieri: «C’è Carlo in questa grande armata?». «Non ancora», gli rispose.
Venendo poi l’esercito di semplici combattenti, raccolti dall’immenso impero,
il re disse con sicurezza a Uggieri: «Certo Carlo si trova tra queste truppe». Rispose Uggieri: «Ma non ancora, non
Parte IX Verso una nuova Europa
ancora». Allora il re cominciò ad agitarsi e a dire: «Che faremo, se verrà con forze ancora maggiori?». Disse Uggieri: «Vedrai! Quanto a noi, non so cosa ci accadrà». Ed ecco che apparve la guardia del corpo, tutta serrata; e vedendola Desiderio, stupefatto, disse: «Questo è Carlo». E
Uggieri: «Non ancora, non ancora. [...] Quando vedrai
una messe di ferro spuntare nei campi, e il Po e il Ticino
neri di ferro inondare le mura della città, quello sarà forse il segno che Carlo sta arrivando».
Non ebbero il tempo di finire,
quand’ecco che da occidente apparve
un temporale simile a una nube nera,
che trasformò la luce del giorno in
paurosa ombra [...]. E allora videro il
ferreo Carlo, con un elmo di ferro, alle
braccia maniche di ferro, il ferreo petto e le larghe spalle coperti da una corazza di ferro, una lancia di ferro levata alta con la sinistra, mentre la destra
era protesa verso la invitta spada. [...]
E tutti coloro che lo precedevano, lo affiancavano e lo seguivano imitavano,
secondo i loro mezzi, quello stesso armamento. Il ferro riempiva i campi e le
pianure. I raggi del sole si riflettevano
nella schiera di ferro. Al gelido ferro si
inchinava il popolo raggelato. Echeggiava il confuso clamore dei cittadini:
«Oh, il ferro! Ohimè, il ferro!»
La cosiddetta “spada di Carlo
Magno”
VIII-X sec.
Kunsthistorisches Museum, Vienna
Questa bella spada di epoca carolingia è
una delle numerose spade attribuite a
Carlo Magno. In questo caso si sostiene
che sia stata ritrovata nella tomba
dell’imperatore ad Aquisgrana.
tela. Si muoveva con decine, a volte con centinaia di cavalieri che il nobile stesso aveva
contribuito ad armare al meglio. Queste truppe, inoltre, erano addestrate a combattere fianco fianco, cosa che le rendeva molto più formidabili nel combattimento.
1. Qual era la grande differenza tra l’esercito longobardo e quello franco?
7. L’organizzazione
dell’impero carolingio
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Conti e marchesi
Il territorio dell’impero di Carlo Magno era diviso in un gran numero di province, circa seicento, chiamate contee. A capo di ogni provincia veniva inviato un funzionario, chiamato conte, che godeva della fiducia del sovrano. In genere, il conte era scelto nel numeroso gruppo di nobili che facevano parte del seguito del sovrano, e gli avevano giurato vassallaggio. In questi casi, fra il conte e l’imperatore esistevano due legami, che si rafforzavano a vicenda: il rapporto pubblico, cioè quello che lega il funzionario al capo dello
Stato; e un rapporto più personale, del vassallo verso il suo senior.
A piacimento del sovrano, il conte poteva restare in carica a lungo, anche tutta la vita, o
venire spostato in un’altra contea dopo poco tempo. Assieme ai suoi aiutanti, svolgeva nella
propria contea tutti i compiti dello Stato. Amministrava la giustizia e manteneva l’ordine pubblico; comunicava e faceva rispettare le leggi e gli ordini dell’imperatore; reclutava i combattenti per l’esercito, e li guidava di persona fino al luogo scelto dall’imperatore per iniziare la campagna militare. Inoltre amministrava le proprietà del fisco regio: cioè le terre, sempre molto estese, che in ciascuna provincia appartenevano alla corona. Nella sua contea, poteva fare affidamento sul sostegno dei sudditi fedeli al sovrano, e in particolare di quelli che
le fonti dell’età di Carlo Magno chiamano ‘vassalli del signore’, i vassi dominici. Questi erano i vassalli diretti dell’imperatore, ricompensati attraverso la concessione in beneficio di
una qualche proprietà della corona nella contea, e dunque particolarmente pronti a ubbidire.
Come avveniva per il vassallaggio di molti conti, anche in questo caso vassallaggi e benefici aiutavano molto il sovrano a esercitare il proprio potere sulle aristocrazie e sui diversi territori dell’impero. In ogni contea, i vassi dominici erano i nobili più attenti agli ordini e ai desideri del sovrano.
Nelle aree di frontiera, dove l’impero confinava con i pagani, le contee erano troppo piccole per opporre una buona difesa a eventuali invasori. Vennero allora raggruppate in province più grandi, dette marche, con a capo un funzionario chiamato marchese. Per controllare l’operato di conti e marchesi, il sovrano nominava degli inviati speciali, missi dominici (cioè ‘inviati del signore’) che, muniti di pieni poteri, ricevevano l’incarico di recarsi in
una o più province al fine di effettuare controlli e di porre rimedio alle situazioni sbagliate.
“Sovranità itinerante” e ruolo del clero
Se conti e contee costituivano la principale struttura statale sul territorio, come era articolato, al centro, lo Stato carolingio? Al centro vi era la corte del sovrano, con i suoi uffici. I
principali erano la cancelleria, la cappella e il palatium. La cancelleria era l’ufficio incarica-
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
285
cittadinanza
Nascita dell’Europa?
“Re e padre d’Europa”: così, poco prima dell’incoronazione imperiale dell’800, un poeta di corte definiva Carlo Magno. Ma cosa era l’Europa, e davvero nacque solo con Carlo Magno?
Come la intendiamo oggi, cioè per indicare le regioni che vanno dalla penisola iberica fino alle grandi pianure russe, l’idea di Europa in effetti è un’invenzione medievale. Il termine, in realtà, era stato coniato
dagli antichi Greci. Ma essi lo usavano per definire i loro territori posti
a occidente dell’Asia Minore, e in primo
luogo la stessa Grecia. Designava dunque un’area geografica molto diversa da
ciò che oggi chiamiamo Europa. Proprio
con l’età di Carlo Magno il termine non
soltanto incominciò a essere usato con
frequenza, ma intraprese il lungo cammino destinato a fargli assumere il significato odierno. Alla fine del periodo medievale, nel XV secolo, Europa indicava grosso modo le stesse regioni di oggi.
Qual è stato allora il ruolo di Carlo Magno
nello sviluppo dell’idea di Europa? In primo luogo, Carlo Magno ha unificato in
un’unica organizzazione politica uno spazio molto vasto, che dal Lazio andava fino
al Mare del Nord, e da Barcellona fino a
Vienna. Era uno spazio molto diverso da
quello dell’impero romano, il quale aveva
al centro il Mediterraneo: il centro di questo nuovo mondo si era allontanato dalle
rive del Mediterraneo, spostandosi a settentrione delle Alpi. Era un mondo, inoltre,
dove proprio il dominio unitario di Carlo
Magno determinava la diffusione di forme
di governo e di cultura molto simili. Proprio
a questa nuova realtà iniziò a essere applicato il termine di Europa, che dunque in
una prima fase voleva dire sostanzialmente “i domini di Carlo Magno”.
Nei secoli successivi il termine Europa conobbe alterne fortune, con momenti di
eclissi e altri di successo. Nel suo insieme,
comunque, si andò affermando sempre
più, ed estendendo a sempre nuove regioni. Ma in quei secoli fu soprattutto importante un altro fenomeno, che gli sto-
286
Parte IX Verso una nuova Europa
rici chiamano «europeizzazione dell’Europa». Con questa espressione
un po’ strana, essi vogliono descrivere un processo di diffusione, nelle regioni che oggi chiamiamo Europa, di tutta una serie di elementi
comuni che hanno finito per dare una somiglianza di base a tutto il
continente, al di là delle tante differenze politiche, culturali e di lingua.
Oggi ci sembra normale, per esempio, che esistano università, che le
città siano dotate di un proprio comune, che ai bambini si dia il nome
di santi, che le leggi fondamentali seguano determinati princìpi (per
esempio, l’idea che l’imputato è innocente se non se ne prova la colpevolezza), che esistano Stati nazionali e
via dicendo. Ebbene, questi elementi tipici della civiltà europea sono nati nel
Medioevo, e durante il Medioevo si sono
diffusi nel continente. Attraverso un processo di più secoli, avvenne così che le
strutture di base della società, della politica e della cultura prendessero in tutta
l’Europa tratti abbastanza simili.
Più ancora che essere un’espressione
geografica, volta a indicare una certa
parte del mondo, l’Europa era divenuta
una civiltà lacerata al suo interno da infinite divisioni, ma pur sempre caratterizzata da una serie di elementi comuni,
che la rendevano ben diversa dai mondi circostanti. Proprio con Carlo Magno
era iniziata la diffusione di questi elementi comuni, quel processo, cioè, di
“europeizzazione” di quello che oggi
chiamiamo Europa.
Statua di Carlo Magno
XI-XII sec.
Chiesa abbaziale di Müstair, Svizzera
Carlo Magno divenne per le generazioni
successive il modello della regalità. Questa
statua fu realizzata per la chiesa abbaziale
di Müstair tra l’XI e il XII secolo e
raffigura il sovrano non nelle sue
sembianze reali (alla sua epoca i Franchi
portavano i baffi e non la barba), ma come
s’immaginava che dovesse apparire un
sovrano universale. Il suo aspetto trasmette
difatti prestigio e potenza, qualità
sottolineate dalle insegne imperiali con cui
il sovrano è fregiato: la corona, il globo
sormontato dalla croce, simbolo del potere
universale consacrato da Dio, e lo scettro,
su cui è presente un giglio, elemento
simbolo della regalità per i sovrani
francesi a partire dall’epoca carolingia.
La Cappella Palatina
Particolari dell’interno e del
trono imperiale
790-800
Aquisgrana
Carlo Magno fece edificare
il Palazzo di Aquisgrana sul
modello delle costruzioni
imperiali di Roma, Ravenna
e soprattutto Costantinopoli.
Accanto agli edifici della
reggia e agli annessi servizi
militari e amministrativi,
sorgeva la Cappella,
consacrata da papa Leone
III nell’805 (è l’unica parte
ancora intatta del complesso
originale), collegata al
palazzo da una galleria
lunga duecento metri. Al
suo interno è conservato il
trono marmoreo di Carlo
Magno, posto
significativamente di fronte
all’altare, a simboleggiare la
concezione sacrale del
potere dell’imperatore.
to di redigere le leggi e tutti i documenti del sovrano. La cappella raggruppava i sacerdoti e
i chierici che dicevano messa alla presenza del re, e che lo aiutavano in tutto quello che riguardava il controllo delle chiese e in tante altre incombenze. Il palatium non era un edificio,
ma l’insieme dei collaboratori personali del sovrano: i nobili a lui più vicini (e suoi vassalli),
i responsabili delle finanze, della giustizia, della stalla regia, delle dispense e via dicendo.
Ai nostri occhi di uomini moderni, in questa struttura mancava un elemento che siamo
abituati a pensare come indispensabile per qualsiasi Stato: la capitale. Carlo Magno amava
soggiornare ad Aquisgrana, e vi costruì alcuni importanti edifici. Ma non fu mai una capitale, dove risiedeva stabilmente e dalla quale governava lo Stato. Per gran parte della sua
lunga vita, Carlo Magno viaggiò attraverso l’impero.
Non dobbiamo sorprenderci. Per oltre mezzo millennio, dalla fine dell’impero romano
fino al XII secolo, in Europa occidentale tutti i re e gli imperatori erano privi di una capitale (poche le eccezioni, fra cui il regno dei Longobardi in Italia, che aveva a Pavia la capitale). Questi sovrani erano itineranti, cioè si spostavano continuamente nel loro regno, assieme a tutti gli uffici e a tutto il loro seguito. Questa “sovranità itinerante” aveva
diverse buone ragioni. Permetteva di consumare sul luogo i prodotti delle ingenti proprietà
che la corona possedeva in ogni provincia, risparmiando sui trasporti. Era l’occasione per
praticare in posti nuovi il principale passatempo di nobili e sovrani, cioè la caccia. Soprattutto, però, la presenza fisica del sovrano era il modo migliore per esercitare in una provincia il potere regio. Quando il re arrivava, ascoltava le lamentele dei sudditi, esaminava
l’amministrazione dei conti, giudicava le cause irrisolte, puniva i violenti e i ribelli. Per governare con una simile efficacia, un sovrano lontano, chiuso nelle mura della sua remota
capitale, avrebbe avuto bisogno di schiere di funzionari, di poliziotti e di amministratori. E
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
287
Monastero benedettino di San Giovanni Battista a Müstair
801
Müstair, Svizzera
Carlo Magno promosse la costruzione di numerosi monasteri,
conventi e abbazie che non solo sancissero la cristianizzazione
e la definitiva conquista dei territori, ma svolgessero anche la
funzione di centri di potere e di diffusione dell’ideologia
imperiale. Il Monastero di Müstair, per esempio, fu costruito
per volere dell’imperatore al fine di presidiare l’arco alpino e
quelle zone che oggi stanno tra la Svizzera, il Tirolo e la
Germania.
Abbazia benedettina di Echternach
VIII sec.
Echternach, Lussemburgo
Questa abbazia, fondata da Pipino di Héristal all’inizio
dell’VIII secolo, ottenne il titolo di “abbazia reale” da Pipino il
Breve, requisito che garantiva ai suoi possedimenti l’immunità
da ogni intromissione dei funzionari pubblici. Il centro conobbe
grande splendore con il suo terzo abate, Beornrado, uno dei più
validi collaboratori di Carlo Magno, grazie al quale
nell’abbazia fu allestita un’ottima officina di copia degli antichi
manoscritti (scriptorium).
all’epoca di Carlo Magno mancavano i denari per pagarli, le vie di comunicazione per restare in contatto frequente con loro, le scuole per insegnare a leggere e scrivere a così tanta gente!
Se i Carolingi mancavano di una capitale e di un apparato burocratico, disponevano però
della Chiesa: una vera e propria colonna portante dello Stato furono infatti i vescovi, gli
abati, i chierici. Protettori e propagatori del cristianesimo, i Carolingi per governare l’impero si servivano ampiamente del clero. Per mantenere l’ordine pubblico, per diffondere le
leggi imperiali, per amministrare la giustizia e anche per convocare l’esercito i sovrani facevano affidamento anche su vescovi e abati oltre che sui loro funzionari. Bisogna considerare che ancora mancava la distinzione, divenuta comune solo in epoche successive, fra
Stato e Chiesa. Viceversa i sovrani intervenivano ampiamente sia in questioni religiose, sia
nella nomina di vescovi e altri chierici importanti. In ogni provincia del vasto impero, così, proprio i vescovi, gli abati dei monasteri e i chierici delle chiese erano il personale amministrativo più colto e più pronto a rispondere agli ordini del sovrano.
1. Quali compiti svolgeva il conte in nome del re? 2. Che ruolo svolgeva il clero all’interno della struttura
dello Stato?
8. Proprietari e contadini
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Centralità dell’economia rurale
Cosa sappiamo dell’economia in età carolingia? Un dato certo è che stava allora avvenendo un cambiamento di fondo. Proprio quando nasceva Carlo Magno, la popolazione e
l’economia dell’Europa occidentale stavano uscendo da un movimento negativo, un movi-
288
Parte IX Verso una nuova Europa
mento di calo della popolazione e di semplificazione del tono della vita economica, che andava avanti da secoli, ed era stato causato dalla crisi dell’impero romano e dall’immigrazione delle popolazioni barbariche. La fine di questa fase negativa segnava l’inizio, ancora lentissimo, sia della crescita dell’economia – destinata a durare, salvo poche interruzioni, fino ai nostri giorni –, sia dell’aumento di popolazione, che si protrasse per sei secoli,
fino alle grandi pestilenze del XIV secolo.
Un secondo elemento sicuro era l’importanza dell’agricoltura. Fra tutte le attività economiche, la coltivazione della terra fu quella principale, che produceva la maggior parte del
reddito e che faceva lavorare la stragrande maggioranza della popolazione. Nella massa
enorme dei coltivatori, una minoranza erano piccoli e medi proprietari, che abitavano in casa propria, zappavano la propria terra e, se necessario, ricorrevano all’aiuto di contadini privi di terre in proprietà.
I contadini senza terra erano di solito la maggioranza. Lavoravano soprattutto nelle grandi proprietà, appartenenti al sovrano, ai nobili, a monasteri, chiese e vescovi. Ogni grande
patrimonio era articolato in aziende agrarie dette (i due termini hanno lo stesso significato) curtes (curtis al singolare) o villae (villa al singolare). I proprietari più ricchi arrivavano a possedere decine di curtes (usiamo d’ora in poi questo termine, che era quello più comune in Italia, mentre in Francia si usava più spesso quello di villa), quelli di minore importanza ne avevano solo una. L’abitudine di organizzare le grandi proprietà secondo il sistema della curtis si diffuse molto in età carolingia, e questo fece aumentare le entrate dei
proprietari.
L’organizzazione interna della curtis
Ogni azienda agraria, naturalmente, era diversa dalle altre. Poteva essere più o meno
grande, su suoli fertili o poco produttivi, con molto o con poco bosco, e via dicendo. Tutte
Calendario dei mesi
830
Miniatura dal ms. 387, f. 90v;
Österreichische Nationalbibliothek, Vienna
In questa miniatura di epoca carolingia
sono raffigurate le attività svolte in
campagna da contadini e nobili durante
l’intero anno: i contadini seminano i campi,
lavorano la terra, raccolgono i frutti e
allevano gli animali, mentre i nobili signori
si dedicano alle attività di svago, come la
caccia.
La coltivazione della vite
X sec.
Miniatura dal Salterio di Stoccarda, ms.
bib. Man. 23, f. 96v; Württembergische
Landesbibliothek, Stoccarda
Questa miniatura illustra due contadini
intenti nella coltivazione della vigna
mentre dall’alto la mano di Dio scende a
benedire il loro lavoro; più in basso si
raffigura la vanificazione della coltivazione
a opera di un cinghiale, simbolo della
selvatichezza distruttrice. La coltura della
vigna ha un posto di rilevanza
nell’iconografia medievale data
l’importanza simbolica del vino nel
cristianesimo.
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
289
Vivere in un manso
Grazie agli scavi archeologici, in alcuni casi possiamo farci un’idea di come vivevano i contadini di un manso. In un villaggio poco a nord di Parigi, gli archeologi hanno trovato i resti delle tre case contadine dove abitavano i massari di altrettanti mansi, che appartenevano a una curtis della ricca abbazia di Saint Denis. Le case erano abbastanza spaziose, lunghe una dozzina di metri e larghe la metà. In ognuna abitava una coppia di sposi con i loro figli,
in media è stato calcolato quattro o cinque. La stalla per gli animali era dentro l’edificio, e comunicava direttamente con il locale dove vivevano gli uomini. Poco male, perché si poteva così utilizzare il calore degli animali. Per cucinare e scaldarsi vi era anche, al centro del pavimento in terra battuta, un focolare pavimentato in pietra per accendere il fuoco. Dunque la casa era calda, ma certamente fumosa, poiché per fare uscire il fumo non v’era un camino, ma solo un buco in mezzo al tetto.
Per costruire questi edifici non erano stati utilizzati mattoni o pietre, ma solo legno, terra e paglia. Questa assenza di vera e propria
muratura non ha nulla di sorprendente. A quei tempi, e in verità
ancora per molti secoli, si costruivano ottime case, talvolta a più
piani, utilizzando per la struttura portante travi di solido legno di
quercia o faggio. Le pareti erano fatte intrecciando legni sottili e
Tetto di paglia
Stalla
290
Colmo in argilla
Piano per il fuoco
Parte IX Verso una nuova Europa
flessibili (per esempio il salice) per formare un graticciato, che veniva poi coperto con argilla e fango misti a paglia. La paglia, poi,
era usata anche per il tetto.
Fuori dalle case vi erano un forno scavato nel terreno, e zone per
attività artigianali. A una prima casa era annessa una forgia per i
metalli: oltre a coltivare campi, chi vi abitava sapeva fare semplici lavori da fabbro. Un’altra casa aveva all’esterno, sotto una
tettoia, un telaio dove le donne tessevano la lana e soprattutto (dicono i resti ritrovati) il lino. Nelle tombe, l’altezza media dei sepolti è di 1,65 metri per gli uomini e 1,56 per le donne: meno di
oggi, ma in fondo la stessa altezza media dei soldati italiani che,
all’inizio del XX secolo, combattevano nella Prima guerra mondiale.
L’attrezzatura di questi contadini era molto semplice. Per cucinare, si usava il forno per il pane oppure delle pentole di coccio poggiate sulle braci del focolare. Nessun recipiente era di metallo,
troppo costoso. L’elevato costo del metallo faceva sì che anche gli
attrezzi per coltivare fossero prevalentemente in legno. Il ferro era
impiegato solo per la scure e per la falce, e non per attrezzi che noi
siamo abituati a immaginare possibili solo in ferro. Per esempio
anche la zappa era tutta in legno, come pure gli aratri.
Foro per il fumo
Giaciglio
Lo spaccato di un manso
Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere
Telaio
però presentavano una struttura simile, basata sulla divisione in due parti del territorio coltivabile: il dominico e il massaricio.
Il dominico o pars dominica (cioè ‘la parte del signore’) veniva coltivata direttamente
per il profitto del padrone. Un amministratore la faceva lavorare da una squadra di schiavi.
Di solito era meno grande della restante parte della curtis, detta massaricio o pars massaricia, che era divisa tra famiglie di contadini dipendenti, chiamati “massari”. Ogni famiglia
aveva in affitto una casa con la stalla, un orto, una vigna e qualche campo. La concessione
di questi beni veniva di solito effettuata per periodi molto lunghi, e anzi in genere casa e
terre passavano di padre in figlio. Il massaro concessionario poteva coltivare liberamente
campi e orto, come meglio preferiva, con l’aiuto dei familiari. La casa e gli altri beni concessi venivano detti manso: di fatto erano una piccola azienda contadina quasi indipendente.
Abbiamo detto quasi indipendente. In cambio della concessione del manso, ogni contadino doveva versare un canone di affitto, costituito da pochissimo denaro e da una quantità maggiore dei prodotti ricavati dai campi. Inoltre doveva andare a lavorare, gratis, nell’altra parte della curtis, cioè nel dominico. Per alcune settimane l’anno, di solito al tempo
della mietitura, della vendemmia e in tutti i momenti in cui la coltivazione della terra richiedeva la presenza di molti lavoratori, schiere di massari lavoravano assieme agli schiavi del dominico, sotto la direzione degli amministratori, per produrre i raccolti destinati a
finire direttamente nei magazzini del padrone. Queste giornate di lavoro gratuito e obbligatorio si chiamano corvées.
Questo tipo di organizzazione, per quanto strana possa sembrare oggi, aveva in quei tempi una propria razionalità. Rispetto all’età antica, il numero degli schiavi si era ridotto. Le
cause di questa riduzione erano tante: la contrarietà della Chiesa alla schiavitù dei cristiani, oppure le liberazioni compiute dai padroni per ricompensare gli schiavi migliori o per
guadagnare la salvezza della propria anima, oppure le fughe degli schiavi o altre ragioni
ancora. Coltivare la grande proprietà ricorrendo soltanto a schiavi, come si faceva nei latifondi dell’età antica, era ormai impossibile o molto antieconomico. Dunque era meglio
dividere in mansi una parte della proprietà, perché in tal modo si ottenevano almeno due
vantaggi: da un lato, senza alcuna fatica nei magazzini del padrone arrivavano i prodotti
versati dai massari come canone; dall’altro lato, quando la coltivazione del dominico richiedeva tante braccia, si ricorreva, gratuitamente, alle corvées.
1. Quali elementi caratterizzavano l’economia in epoca carolingia? 2. Com’era organizzata internamente
la curtis? Quali erano gli obblighi dei “massari”?
9. Commerci e monete
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Traffici a lunga distanza, mercati, autoconsumo
Anche in età carolingia, l’economia non era fatta soltanto di agricoltura. Certo, la coltivazione della terra era l’attività di gran lunga più importante, ma esistevano i commerci e
le monete. Occupiamoci innanzitutto dei commerci, distinguendo quelli internazionali da
quelli locali.
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
291
La famiglia aristocratica in età carolingia
Oltre che della famiglia di re e nobili, ci piacerebbe parlare di
quella della gente comune. Ma per quest’epoca remota le notizie
sono davvero poche. Per i contadini, che erano la parte di gran
lunga maggiore della popolazione, le poche fonti attestano che
la famiglia più diffusa era costituita, proprio come oggi, da una
coppia di coniugi con i loro figli. Nei rari censimenti, la media
dei figli per famiglia oscilla fra i 2,6 e i 4. Ma le incertezze sono
tante. Per esempio, perché i figli maschi risultano molto più numerosi delle femmine? Forse chi redigeva i censimenti era meno interessato a registrare le bambine, oppure esse abbandonavano la famiglia molto presto, andando in spose giovanissime.
Addirittura, alcuni storici hanno pensato che nelle famiglie troppo numerose le neonate venissero uccise.
Siamo più informati, invece, sulla famiglia degli aristocratici.
Contava un numero molto maggiore di figli e, come si è visto, vi
erano talvolta più di una moglie o di una concubina. Inoltre spesso nella stessa dimora vivevano i genitori e i figli sposati e già
adulti. Ma spostiamo l’attenzione sull’altro significato che ha, in
italiano, il termine famiglia: quando cioè utilizziamo la parola
per indicare, fra coloro che ci sono legati per via di sangue, quelli che noi sentiamo più vicini, a cui più ci rivolgiamo per aiuto,
per affetto, per assistenza. Si tratta di quella che, con maggiore
precisione terminologica, viene chiamata la parentela.
E qui balza agli occhi una differenza fra il modo di concepire la
parentela dei nobili dell’età di Carlo Magno, e il modo con il
quale la parentela veniva invece
concepita sia nell’antica Roma che
più tardi, a partire dal 1000 fino a
pochi decenni fa. Per le aristocrazie di Roma come per quelle dell’ultimo millennio, i parenti per
eccellenza sono coloro che portano il medesimo cognome: coloro
cioè che sono legati per via maschile. Ancora oggi nelle monarchie, come in Inghilterra, un nobile eredita il proprio titolo dal padre. I nobili vanno fieri della propria genealogia, e si inorgogliscono della lunga serie dei loro antenati.
Ma nel periodo compreso fra la fine della civiltà romana e l’XI secolo, i nobili non pensavano in
questo modo. Per loro, i parenti
principali non erano per forza
quelli legati per via maschile, e tutti discendenti da un antenato maschio comune. I nobili di quel tempo davano invece eguale importanza ai parenti per via femminile,
sia a quelli della madre, che a quelli della moglie o, talora, anche di
una sorella. Terre, appoggi politici,
aiuti economici e militari circolavano non soltanto di maschio in
maschio, ma anche attraverso le
292
Parte IX Verso una nuova Europa
donne. La concezione della parentela dava dunque pari importanza ai maschi come alle femmine. Più degli avi defunti, più
della discendenza da uno stesso antenato, contavano i parenti vivi, di qualsiasi tipo. Per questa ragione, il gruppo dei parenti con
i quali si avevano i rapporti più stretti cambiava del tutto a seconda dei casi. Potevano contare soprattutto i fratelli e figli, certo. Ma se per esempio un nobile sposava una donna appartenente a un casato importante, cessava di fare affidamento sui parenti per via maschile, e di fatto entrava a fare parte della parentela
della moglie. Non di rado i suoi figli ricevevano i nomi comuni
a quella famiglia e talora, se necessario, al loro nome proprio si
aggiungeva il matronimico (si diceva cioè “Carlo figlio di Berta”, e non, usando il patronimico, “Carlo figlio di Pipino”). Quest’uso era tanto più naturale in quanto il cognome, che per noi
identifica la famiglia, all’epoca non esisteva neppure: tutti avevano solo il nome di battesimo (quando parliamo della famiglia
dei Merovingi o dei Carolingi, usiamo un nome inventato da noi
per comodità, ma non si tratta di un cognome).
Una coppia di sposi regali
XI sec.
Miniatura dal manoscritto del De Universo di Rabano Mauro;
abbazia di Montecassino
I commerci internazionali, cioè i traffici su lunghe distanze, erano molto minori che nel mondo
antico. Proprio all’inizio dell’età carolingia percepiamo però alcuni elementi di ripresa. A venire
sempre più spesso percorsa da navi cariche di merci e a riempirsi di un numero crescente di portimercato era soprattutto un’area nuova, che il mondo antico aveva trascurato: il Mare del Nord. Esso metteva in comunicazione l’Inghilterra meridionale, la costa nordorientale dell’impero carolingio,
la Danimarca, e le economie delle regioni retrostanti. Gli scavi archeologici mostrano che i nuovi
porti-mercato, detti emporia, crebbero rapidamente soprattutto alle foci dei principali fiumi. L’emporium più grande fu forse Dorestad, nell’attuale
Olanda (ma può anche essere un’impressione sbagliata, dovuta al fatto che è stato quello scavato con
maggiore ampiezza). Oltre che nei traffici a lunga
distanza, la popolazione di questi emporia era impegnata in attività artigianali.
Lo sviluppo di questi centri si interruppe nel corso del IX secolo. La crisi fu dovuta alle devastazioni causate dai Vichinghi, che studieremo nel prossimo capitolo, ma nasceva anche dal fatto che, sul
Mare del Nord, gli interlocutori economici dei
Franchi avevano ancora economie poco attive. Invece nelle regioni del Mediterraneo appartenenti
all’impero carolingio le potenzialità per il commercio internazionale erano rese molto maggiori dalla
presenza, sulle altre sponde del mare, di economie
ben sviluppate, come quelle degli Arabi e dei Bizantini. A partire dall’inizio del IX secolo,
soprattutto in Italia il numero dei porti internazionali si accrebbe, iniziando un processo di
sviluppo dei traffici a lunga distanza destinato a durare per secoli e secoli. Il migliore esempio è Venezia, che proprio allora cominciava a manifestare la sua vocazione per il commercio internazionale.
Tutti restiamo molto colpiti dai commerci internazionali, che riguardano merci esotiche e
di valore. Tuttavia va detto che, per la vita economica, molto più importanti erano i commerci
locali, dove venivano scambiati i prodotti di una piccola area. Gli scambi internazionali interessavano una quantità modesta di merci, di solito di grande valore, e dunque arricchivano
solo pochi mercanti; agli scambi locali, invece, partecipava una gran massa di persone, che
scambiavano una quantità di merci infinitamente superiore, pur se di valore minore.
Non dobbiamo immaginare, peraltro, che le cose fossero come oggi, quando compriamo tutto quello che ci serve. Sia per i grandi proprietari che per i contadini, un grande spazio aveva l’autoconsumo, cioè l’abitudine di mangiare quello che era prodotto nei propri
campi e di usare i tessuti, i vestiti e gli attrezzi fabbricati in casa. Per esempio, secondo gli
archeologi gli abitanti di tre mansi rinvenuti nei pressi di un villaggio poco a nord di Parigi consumavano la grandissima parte dei prodotti agricoli che restavano loro dopo aver pa-
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
Due diversi mezzi di
trasporto
XI sec.
Miniatura dal De Universo
di Rabano Mauro; abbazia
di Montecassino
Questa miniatura illustra
due mezzi di trasporto
diffusi in epoca carolingia:
un carro nobiliare trainato
da cavalli, e un carro rurale
trainato da buoi, molto
comune tra i contadini o tra
i mercanti che trasportavano
merce da vendere.
293
gato il canone ai padroni; inoltre usavano la lana e indossavano i panni tessuti nel telaio che
avevano in casa [cfr. scheda, p. 290]. Però sia pure raramente, magari appena un paio di volte l’anno, andavano nel più vicino posto dove si teneva un mercato (un villaggio, oppure
un incrocio di strade, o il porto lungo un fiume). Qui i “massari” vendevano qualche gallina o qualche prodotto eccedente il loro fabbisogno, o una stoffa tessuta dalle loro donne. E
in questi mercati andavano anche gli amministratori delle curtes dei dintorni, per vendere
i prodotti che restavano nei magazzini dopo aver provveduto al mantenimento del padrone,
della sua famiglia e di tutto il gruppo dei suoi schiavi.
In questi mercati, proprio in età carolingia si iniziava a percepire un’aria nuova. Le merci portate a vendere erano meno scarse di un tempo, e più persone si recavano a comprarle. I prodotti dell’artigianato divenivano meno rudimentali. Stava cominciando a crescere
l’economia quotidiana, di base, cioè quella che coinvolgeva la gran massa della popolazione, e non solo pochi mercanti internazionali.
Le leve della crescita
Denario in argento con
l’effige di Carlo Magno
VIII-IX sec.
Fitzwilliam Museum,
Cambridge
Questo cambiamento era determinato da tanti fattori. Contavano la pace interna garantita dallo Stato, la diffusione del sistema delle curtes, la lenta crescita della popolazione.
L’elemento principale, comunque, era la crescita di numero e di ricchezza degli aristocratici: il che vuol dire che aumentavano il numero e le risorse dei consumatori più abbienti. I risultati della crescita economica, cioè, avvantaggiavano i più ricchi, e questo era
uno stimolo positivo per l’economia. Per comprendere la ragione di quella che ci può apparire un’ingiustizia basta pensare che, se le nuove ricchezze fossero state distribuite in modo egualitario, sarebbero andate in piccolissime quote soprattutto ai contadini, che costituivano la stragrande maggioranza. Ora un contadino, sempre alle prese con la fame, avrebbe utilizzato i piccoli guadagni aggiuntivi per mangiare di più. Invece un nobile più
ricco non mangiava di più (già si nutriva più che a sufficienza), ma utilizzava le
nuove risorse per comprare merci nuove e di maggiore pregio. Così facendo,
stimolava gli artigiani a produrre meglio e di più, e i mercanti a intensificare i loro traffici. Stimolava cioè la crescita economica.
A tutto questo processo economico, i re e gli imperatori carolingi
contribuirono molto, ma in modo indiretto. Garantirono la pace e fecero arricchire i nobili. Vi furono anche interventi diretti e espliciti di politica economica, come il tentativo di imporre un sistema di misure
unitario, valido per tutto l’impero, e soprattutto l’introduzione di una
nuova moneta, il denaro (denarius) di argento. Era una moneta di buona qualità, in grado di favorire i commerci. Da una libbra di argento (circa 400 grammi) venivano creati 240 denari, contenenti ognuno 1,7 grammi di argento. Dodici denari erano considerati pari al solidus, il soldo d’oro, la moneta principale dell’antico impero romano e, ora, dell’impero bizantino; perciò si prese l’abitudine di dire “un soldo” invece di dire “12 denari”. Poiché
dalla libbra si coniavano 240 denari, si prese anche l’abitudine di dire “una libbra” (in italiano, “una lira”) per indicare una somma di 240 denari.
1. Che cos’era l’autoconsumo? Che parte della produzione vi era destinata? 2. In che modo la ricchezza
dell’aristocrazia stimolava la crescita economica?
294
Parte IX Verso una nuova Europa
10. La rinascita carolingia
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E Pur se era in grado di leggere il latino, la sola lingua a venire messa per iscritto in quel
tempo, Carlo Magno non sapeva scrivere: all’epoca, era un’abilità difficile riservata a pochi tecnici, come oggi saper programmare un computer. Sia Carlo che gli altri sovrani carolingi si preoccuparono molto però di stimolare la cultura. L’insieme dei loro provvedimenti portò a un miglioramento così marcato del livello culturale che è stato definito come
un “rinascimento carolingio”.
Il termine “rinascimento” o “rinascita” indica che una delle preoccupazioni maggiori dei
sovrani carolingi fu quella di fare “rinascere” almeno in parte la cultura letteraria antica. Tuttavia lo scopo principale di questa politica non era astrattamente culturale, ma religioso: si trattava di garantire che i sacerdoti e i monaci fossero in grado di leggere e interpretare in modo corretto i testi sacri. I chierici ben preparati erano inoltre indispensabili per il funzionamento di tutta la burocrazia dello Stato.
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
Una pagina della Historia
Langobardorum
IX sec.
Museo Archeologico
Nazionale, Cividale
del Friuli, Udine
La Historia
Langobardorum, scritta in
latino da Paolo Diacono,
racconta in sei libri la storia
del popolo longobardo dalle
origini al suo apice,
raggiunto nel 747 con la
morte del re Liutprando.
L’opera fu redatta da Paolo
Diacono nell’abbazia di
Montecassino nei due anni
successivi al ritorno dalla
corte di Carlo Magno, dove
era stato chiamato in quanto
esperto di grammatica.
295
Quando Pipino il Breve ottenne il
titolo di re, nel 751, la situazione era
catastrofica. L’educazione era quasi
scomparsa, e la vita culturale ridotta
pressoché a niente. Il latino che veniva scritto nel regno franco era così
zeppo di errori grammaticali e ortografici da risultare quasi incomprensibile. Occorreva rilanciare la cultura e,
soprattutto, il sistema educativo con lo
scopo di garantire il funzionamento
della Chiesa e, più in generale, la corretta celebrazione della messa e degli altri uffici sacri.
L’iniziativa culturale di Pipino
venne proseguita e molto ampliata dal
figlio Carlo Magno. Prima ancora di
diventare imperatore, Carlo chiamò
presso la sua corte i maggiori intellettuali del tempo. Dall’Italia venne per
esempio Paolo Diacono, che ha scritto
una famosa Storia dei Longobardi.
L’intellettuale di maggiore spicco fu il
chierico inglese Alcuino di York, che
fra le tante cose si preoccupò di organizzare una scuola di corte (Schola
palatina), e di provvedere alla creazione o alla riforma delle scuole presenti presso le cattedrali di molte città.
Carlo Magno aveva del resto i mezzi
per ricompensare questi intellettuali:
ad Alcuino furono assegnate cinque
abbazie, e si diceva che avesse possedimenti così immensi da permettergli
di viaggiare attraverso tutto l’impero
facendo sempre tappa nelle sue proprietà.
Il successo di questi sforzi è indubbio. Il livello culturale e morale del
clero migliorò molto, e con esso la capacità di guidare il popolo cristiano.
L’uso della scrittura e della lettura si
diffuse. Vennero copiati in nuovi manoscritti non soltanto i testi sacri, ma
anche le opere di molti letterati dell’Antichità. Fu persino elaborata una
nuova scrittura, che è poi il modo di
Una pagina dalla Bibbia
di Alcuino
IX sec.
British Museum, Londra
La cosiddetta “Bibbia di
Alcuino” è una delle prime
trascrizioni della Bibbia a
opera della Schola palatina
di Carlo Magno.
Pagina da un codice
miniato in minuscola
carolina
IX sec.
Dal Salmo 91 dell’Antico
Testamento
296
Parte IX Verso una nuova Europa
tracciare le lettere che ancora oggi usiamo per la stampa. Quando Carlo Magno salì al trono, si usavano molte scritture diverse e complicate da leggere, perché piene di ghirigori e
svolazzi. Alla morte dell’imperatore, invece, in tutto l’impero ormai veniva utilizzata una
scrittura fatta di lettere uniformi, bene allineate e molto più leggibili: la cosiddetta minuscola carolina.
1. Qual era lo scopo della politica culturale carolingia? 2. Che cosa era la “minuscola carolina”?
11. Fu un governo efficiente?
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Tanti elementi attestano l’importanza del periodo che va dall’incoronazione di Pipino il Breve nel 751 fino alla frammentazione definitiva dell’impero nell’887-888. Per
esempio l’eredità carolingia continuò a essere evidente, nei secoli successivi, nei
modi con cui si amministrava la giustizia, nella diffusione di conti e contee, nelle forme con cui si scrivevano leggi e documenti, nella cultura, nel tipo di moneta usata,
nei termini utilizzati per descrivere incarichi di governo e in tanti campi ancora. Dai
Carolingi proveniva l’idea stessa che in Europa occidentale vi dovesse essere un’autorità suprema, esercitata da un imperatore e collegata strettamente al papato romano.
L’importanza dell’età carolingia nella storia europea è dunque fortissima. Tuttavia dobbiamo anche notare i limiti dello Stato creato dai sovrani carolingi. Forse essi furono troppo ambiziosi, cercando di imporre regole e strutture di governo che non erano adatte a quei
tempi, e che infatti entrarono in crisi nel giro di breve tempo. La contraddizione principale, comunque, già l’abbiamo più volte ricordata: lo stimolo fornito alla aristocrazia dalla politica di Carlo Magno e degli altri sovrani. Per effettuare le conquiste e per governare i vasti territori, i Carolingi fecero affidamento su tantissime famiglie nobili e su monasteri e vescovati, che erano sotto il controllo di abati e vescovi nati in quelle stesse famiglie. Favorire l’ascesa di una nuova famiglia potente, dare a essa immensi beni e importanti
cariche, insediare alcuni suoi membri alla guida di vescovati e di monasteri: tutto questo
aiutava l’imperatore a fare rispettare le proprie leggi e la propria volontà in ogni angolo dell’immenso impero. Allo stesso tempo, però, era pericoloso. Quegli stessi personaggi, così
cresciuti in ricchezze e potere, potevano a un certo punto cessare di ubbidire agli ordini del
sovrano, e rendersi autonomi. E proprio questo accadde appena il potere centrale fu messo
in difficoltà dalle contese interne alla famiglia carolingia e dagli attacchi che iniziarono a
provenire dall’esterno dei confini della Cristianità. Si apriva un’altra epoca.
1. Quale fu il grande limite dello Stato strutturato da Carlo Magno?
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
297
Altri
Asia, Africa e America
fra VIII e X secolo
sorti misero insieme un esercito male
armato, ma forte di tre o quattrocentomila uomini!
In Asia
In Africa
Nel periodo trattato in questo capitolo, anche l’India fu direttamente coinvolta nello stesso fenomeno – l’espansione islamica – che già aveva interessato l’impero bizantino, la penisola iberica e la Francia meridionale.
All’inizio dell’VIII secolo gli Arabi, dopo essersi impadroniti della Persia,
terminarono la conquista dell’Afghanistan, penetrando poi nell’attuale
Pakistan. Erano desiderosi di invadere
anche l’India, che era una regione popolosa, ricca, con vasti commerci internazionali e con materie prime da
favola (proprio in India si trovava la
sola miniera di diamanti conosciuta in
quel tempo). Sembrava del resto una
preda facile, poiché il re Harsha, che
aveva costruito un impero esteso su
tutta l’India settentrionale e sul Nepal,
era morto nel 647 e da allora l’India si
era divisa in molti regni, spesso in lotta fra loro o minati da guerre di successione fra i sovrani.
Tuttavia la conquista islamica, limitata
alle regioni settentrionali e occidentali dell’immensa penisola indiana, fu
lentissima, richiese svariate guerre e
venne realizzata nell’arco di oltre tre
secoli. I conquistatori cercarono di
diffondere l’islamismo, ma la conversione fu accettata da una parte soltanto della popolazione. L’induismo e
il buddismo restarono le religioni più
diffuse, a fianco di altri culti, come per
esempio quello degli zoroastriani (seguaci della religione di Zarathustra, il
filosofo vissuto in Persia orientale nell’VIII secolo a.C., o forse ancora prima). In India meridionale, poi, in quest’epoca l’influenza islamica fu del tut-
Parte IX Verso una nuova Europa
to assente. Esistevano qui regni grandi e molto prosperi, guidati da famose dinastie come quelle dei Pallava
prima, e dei Chola dopo.
Come in Europa occidentale, ma a
un livello molto maggiore, anche in
Cina l’epoca studiata in questo capitolo vide la riunificazione sotto un vasto Stato delle regioni che si erano
frammentate in regni indipendenti in
seguito alle invasioni del V secolo. Rispetto a quello di Carlo Magno, l’impero costituito dalla dinastia Tang
(618-907) fu tuttavia incomparabilmente più grande, più popoloso e
più avanzato dal punto di vista dell’economia, della capacità di governo,
delle conoscenze tecniche e sotto
molti altri aspetti. La struttura statale
si avvaleva di una folta schiera di funzionari reclutati non in base ai legami della famiglia con l’imperatore,
ma secondo il loro successo negli
studi. Questi funzionari erano detti
mandarini, e ottenevano la carica solo dopo avere superato un difficile
esame.
La struttura dello Stato era complessa.
A fianco dei mandarini, vi erano i governatori militari delle diverse province e i funzionari di ogni tipo, civili e
militari. Il peso di tutti questi apparati
statali gravava sulla popolazione contadina, che era di conseguenza obbligata a pagare imposte elevate. Proprio il malcontento dei contadini fu la
causa di periodiche rivolte, che finirono per indebolire il potere imperiale.
Durante la sollevazione più grande,
avvenuta nella provincia dello Shantung nell’874-880 e comandata dal
mercante di sale Huang Chao, gli in-
Anche in Africa la storia di questi secoli fu molto condizionata dall’espansione della religione islamica.
Tuttavia tranne che nell’Africa settentrionale, conquistata dagli eserciti
arabi, l’Islam si diffuse in modo pacifico. La Somalia fu la prima regione a
convertirsi alla nuova religione, secondo alcuni già alla fine del VII secolo, in seguito ai continui contatti
che marinai e mercanti avevano con
la vicina penisola arabica. I territori
degli attuali Etiopia e Sudan restarono invece cristiani; anzi i regni che in
Nubia (oggi Sudan) avevano preso il
posto dello scomparso regno di Kush
sconfissero nel 652 gli arabo-musulmani che dall’Egitto tentavano di
proseguire la conquista verso meridione. Più a sud, sulle coste dell’Oceano Indiano fra gli attuali Kenya,
Tanzania e Mozambico l’influsso sulle locali popolazioni bantù di mercanti e immigrati musulmani fu tale
da determinare la nascita di popolazioni che si consideravano nuove, diverse dai Bantù, e presero il nome di
Swahili. Nell’Africa occidentale subsahariana, infine, i secoli VIII e IX videro il massimo sviluppo del cosiddetto impero del Ghana, situato negli attuali Mauritania e Mali, che controllava i commerci di oro e altre
merci preziose che dal cuore dell’Africa attraversavano il Sahara.
Nelle Americhe
Nel continente americano stava nel
frattempo proseguendo la civiltà
Maya, che era articolata come sappiamo in una serie di città-stato. Pro-
zione delle piogge verificatasi a partire dall’800 circa. Il tutto sarebbe stato poi aggravato dalla rivolta dei contadini, testimoniata dalle tracce di
saccheggi e distruzioni presenti in alcuni templi. Ma in realtà le ragioni
della scomparsa della civiltà maya restano ancora incerte. Per spiegarla, si
è giunti a chiamare in causa anche le
credenze religiose: i Maya avrebbero
pensato di essere giunti alla fine del
mondo, e, presi dal terrore, sarebbero fuggiti, dando vita a una disordinata emigrazione di massa.
Le Guardie d’onore di un principe
Tang
VII-X sec.
Questa pittura murale, ritrovata
all’interno della camera sepolcrale di
Li Xian, un principe della dinastia
Tang, raffigura le Guardie d’onore,
ovvero le guardie personali addette
alla difesa del sovrano. Raffigurate
armate e con eleganti divise da
palazzo, le guardie vegliano sulla
“nuova dimora” del principe con la
loro fedele e minacciosa presenza.
Impero bizantino
Impero
Tang
va
lla
Pa
Chola
Espansione islamica
nte
Diffusione della civiltà
maya
sw
ahi
li
Impero
del Ghana
Ge
prio per questo periodo, però, gli
scavi archeologici hanno rivelato la
comparsa di gravissime difficoltà. Alcune città situate nella parte meridionale del territorio dei Maya, soprattutto nella penisola messicana
dello Yucatan, iniziarono a declinare
rapidamente, e spesso vennero abbandonate da tutti gli abitanti.
Storici e archeologici discutono molto intorno alle cause di questa decadenza. Vi è chi ha pensato all’invasione di nuovi popoli provenienti dal
Sud, chi a devastanti epidemie. Le
spiegazioni ritenute oggi più probabili sono però diverse. Si pensa che
l’intero sistema sia collassato in seguito a un eccessivo sfruttamento
della terra, lavorata con metodi di
coltivazione primitivi che non prevedevano né periodi di riposo per il
suolo, né la rotazione delle colture.
Con ancora maggiore probabilità, un
duro colpo venne dalla forte diminu-
Territori cristiani
Diffusione delle lingue
bantù
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
299
SINTESI
1. L’ascesa dei Carolingi e il papato
Nell’VIII secolo iniziò un processo di espansione dell’Occidente cristiano. Per avviare questo processo fu decisivo lo sviluppo
del regno dei Franchi e la nascita dello Stato carolingio. Nel VII secolo il regno era stato unificato grazie a Pipino di Héristal, maggiordomo (e cioè ministro del re), ma di fatto detentore del potere reale. Questo potere fu trasmesso al figlio Carlo Martello, prima, e al nipote Pipino il Breve, poi. Pipino fece il passo successivo, incoronandosi re dei Franchi e dando vita alla dinastia dei Carolingi. La Chiesa di Roma, distante da Bisanzio e pressata dai Longobardi, influì molto sull’ascesa dei Carolingi, dando loro legittimazione e sostegno
ideologico in cambio di protezione. Pipino fu consacrato re da papa Stefano nel 754.
2. La conquista di un impero e il ruolo del vassallaggio
A Pipino il Breve successe il figlio Carlo Magno, che regnò dal 768 all’814 e portò il regno franco alla sua massima espansione. Furono sottratte la Catalogna agli Arabi e l’Italia centro-settentrionale ai Longobardi, mentre a Nord-est venivano sottomessi i Sassoni, i Bavari e gli Àvari. Nell’800 Carlo fu incoronato imperatore da papa Leone III. L’espansione del regno dipese da molteplici fattori, il più importante dei quali fu certamente la potenza della nobiltà franca, che Carlo Magno riuscì a legare a sé grazie ai rapporti di
vassallaggio e di feudo. Questi erano un modo per rafforzare i rapporti di clientela che legavano il re e i nobili franchi tra loro e con i
più potenti fra gli uomini liberi. Il vassallaggio era il risultato di un giuramento pubblico e solenne e comportava obblighi reciproci fra
le due parti. Il signore ricompensava il vassallo con elargizioni temporanee di terra e contadini, il feudo.
3. L’eredità di Carlo Magno
Alla morte di Carlo Magno furono evidenti i problemi connessi alle regole di successione della monarchia franca. Il successore, Ludovico il Pio, tentò di trasmettere l’impero al figlio maggiore, ma i figli minori si ribellarono. Iniziò un periodo di guerre civili in
cui la potenza delle famiglie aristocratiche ebbe un peso enorme. Nell’843 i fratelli si misero d’accordo e con il trattato di Verdun l’impero fu diviso fra i tre figli di Ludovico. L’idea di impero restava, ma era intesa solo come coordinamento fra regni indipendenti e i conflitti tra le varie parti continuarono per decenni. Nell’881 Carlo il Grosso riuscì brevemente a riunificare l’impero, ma dopo la sua morte (887) l’impero venne frammentato in modo definitivo.
4. Spiegare la potenza dei Franchi: strategia e politica
Per ottenere i suoi grandi successi Carlo Magno seppe combinare abilmente strategia militare e contatti politici. Questo fu evidente nella conquista del regno dei Longobardi nel volgere di un solo anno. Le operazioni belliche furono condotte con un uso sapiente della strategia, ma è accertato che la resistenza fu minima. C’è quindi da supporre che ci furono abili trattative politiche per sottomettere pacificamente l’aristocrazia longobarda, che mantenne i propri beni e il proprio ruolo.
5. Spiegare la potenza dei Franchi: la macchina militare
Non è da dimenticare, comunque, la superiorità militare dei Franchi. Al tempo di Carlo Magno il reclutamento dell’esercito era
cambiato, il numero dei soldati diminuito, ma era migliorata la qualità dell’armamento e dell’addestramento. Grazie alla maggiore ricchezza dell’aristocrazia franca, erano aumentate le unità di cavalleria, e l’intero corpo dei cavalieri si divideva in cavalleria leggera e cavalleria corazzata.
6. Spiegare la potenza dei Franchi: la ricchezza
L’esercito carolingio, a differenza di molti eserciti che lo avevano preceduto, non era armato e approvvigionato dallo Stato, ma
dagli stessi combattenti. La potenza militare dell’esercito risiedeva, dunque, nel fatto che era composto in gran parte dai membri della
ricchissima aristocrazia franca che forniva ai propri vassalli gli armamenti migliori.
7. L’organizzazione dell’impero carolingio
Al centro dell’impero vi era la corte del sovrano con i suoi uffici, i più importanti dei quali erano la cancelleria, la cappella e il
palatium. La corte imperiale era itinerante e non esisteva una vera e propria capitale. Il territorio era diviso in un gran numero di province che si chiamavano contee ed erano governate dai conti. Questi svolgevano nella propria contea tutti i compiti dello Stato. Nelle
zone di frontiera le contee vennero raggruppate in marche, rette da un marchese. A controllare l’operato di conti e marchesi erano inviati
periodicamente i missi dominici. La Chiesa rappresentò una colonna portante dello Stato carolingio. I vescovi e il clero affiancavano i
funzionari imperiali nell’amministrazione dei territori.
8. Proprietari e contadini
In epoca carolingia la popolazione e l’economia cominciarono a mostrare una certa ripresa. L’agricoltura era ancora la principale attività produttiva. La grande maggioranza dei contadini era senza terra e lavorava nelle numerose aziende in cui erano ripartiti i
300
Parte IX Verso una nuova Europa
patrimoni agrari. Queste aziende erano chiamate curtes e il loro territorio coltivabile era diviso in due parti. La parte più piccola era il
dominico, ed era coltivata direttamente per il profitto del padrone. La parte più grande era rappresentata dal massaricio ed era divisa tra
famiglie di contadini dipendenti, i massari. Questi dovevano pagare un canone d’affitto al padrone ed erano obbligati a prestare giornate di lavoro gratuito nel dominico, le cosiddette corvées.
9. Commerci e monete
I commerci internazionali ricominciarono, in questo periodo, a svilupparsi. Un numero crescente di porti-mercato apparve nell’area del Mare del Nord, anche se i commerci più vivaci continuavano nel Mediterraneo. La parte più importante era svolta dai commerci locali, sebbene gran parte della produzione fosse comunque destinata all’autoconsumo. A fare leva sulla crescita furono certamente la ricca aristocrazia, che stimolava i commerci e la produzione artigianale, e gli interventi dello Stato, che introdussero un sistema di misure unitario e una nuova moneta, il denaro d’argento.
10. La rinascita carolingia
I sovrani carolingi si preoccuparono molto di stimolare la cultura. Questa politica culturale ha fatto parlare di “rinascimento” o
“rinascita” carolingia, anche se lo scopo principale di questa politica era religioso. Si voleva garantire la preparazione culturale del clero, indispensabile per il funzionamento della burocrazia dello Stato. Il livello culturale e morale del clero migliorò. L’uso della scrittura e della lettura si diffuse. Vennero ricopiati i testi sacri e le opere di molti letterati dell’Antichità. Fu anche elaborata una nuova scrittura fatta di lettere uniformi, bene allineate e molto più leggibili, la cosiddetta “minuscola carolina”.
11. Fu un governo efficiente?
L’influenza che il periodo carolingio esercitò sulla storia europea è stata enorme. L’eredità di questo periodo è chiara negli assetti territoriali, nell’amministrazione, nella giustizia e nella cultura dei secoli seguenti. Tuttavia, il grande peso attribuito da Carlo Magno alle famiglie aristocratiche, che aumentarono il proprio potere, si rivelò un limite notevole, e portò alla fine dell’unità imperiale e
alla frammentazione politica.
ESERCIZI
Gli eventi
1. Indica con una crocetta quali tra queste espressioni ritieni corrette:
❏ a) Il papato, intimorito dalle ambizioni della dinastia carolingia, cercò la protezione dei sovrani longobardi.
❏ b) Il signore elargiva appezzamenti di terra ai propri vassalli per stabilire con loro un legame solido e protratto nel tempo.
❏ c) Con l’emanazione dell’Ordinatio imperii l’imperatore Ludovico il Pio scongiurò definitivamente la frammentazione dell’impero.
❏ d) L’aristocrazia longobarda non oppose una grande resistenza all’invasione franca e ottenne di mantenere gran parte dei propri privilegi.
❏ e) L’esercito carolingio era composto principalmente da piccoli proprietari terrieri armati e approvvigionati dallo Stato.
❏ f) Le province poste ai confini dell’impero carolingio erano raggruppate in grandi contee governate da un conte nominato dal re.
❏ g) I rappresentanti del clero aiutavano i funzionari imperiali a mantenere l’ordine pubblico e ad amministrare la giustizia.
❏ h) La rinascita economica che caratterizzò l’epoca carolingia mise in primo piano la produzione artigianale a scapito di quella agricola.
❏ i) Lo Stato carolingio introdusse una nuova moneta, il denaro d’argento, e cercò di imporre un sistema di misure unitario.
❏ j) All’epoca di Carlo Magno fu introdotta la “minuscola carolina”, un nuovo tipo di scrittura dalla quale derivano le lettere oggi usate per la stampa.
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
301
Le coordinate spazio-temporali
2. Per descrivere gli eventi più importanti che caratterizzarono il regno dei Franchi e la dinastia carolingia,
completa il seguente schema introducendo le informazioni mancanti:
Maggiordomo
del re franco
.....................................
Nel .................. riuscì a unificare il regno dei Franchi.
...................................
CARLO
MARTELLO
Nel 732 ...............................................................................
..............................................
Maggiordomo
del re. Nel 751 ............
............................
.....................................
Nel ............ fu consacrato re con un unguento sacro
da papa Stefano.
768-............
CARLO
MAGNO
Regnò per tre anni con il fratello ................................ .
Conquistò il regno dei ............................ . Sottrasse la
...................................... agli Arabi. Sottomise i Sassoni,
i ........................ e gli Avari. Nell’.............. fu incoronato
imperatore del papa.
817-............
........................................
Emanò l’............................................. , che proclamava
come unico successore il primogenito ..................... .
Ma i fratelli minori si ribellarono.
CARLO
IL CALVO
..............................
LOTARIO
Mantenne il ................................
.................................... e ottenne
una fascia di terra che andava
dall’Olanda alla .........................
Ottonere la parte .......................
.................................. dell’impero
(............................... e Catalogna)
302
Parte IX Verso una nuova Europa
Ottonere la parte orientale
dell’impero
(............................... )
I tre fratelli scatenarono una guerra civile.
Nell’.............. sottoscrissero il ........................
......................... , che pose fine per un certo
periodo alle ostilità.
3. Sulla carta muta indica l’estensione del
regno franco, i territori conquistati da Carlo
Magno e la divisione dell’impero dopo il
trattato di Verdun; quindi rispondi alle seguenti
domande:
MARE
DEL NORD
a) In che modo Carlo Magno riuscì a conquistare il regno dei
Longobardi?
b) Quali fattori portarono alla frammentazione dell’impero
carolingio?
c) Vi era una capitale fissa nei regni europei? Perché?
MAR
ME
DIT
ER
RA
NE
I concetti
4. Definisci sinteticamente i seguenti termini e rispondi alle domande:
Termine
Definizione
Vassallaggio:
Feudo:
Contea:
Marca:
Vassi dominici:
Missi dominici:
Cancelleria:
Cappella:
a) Come funzionava il vassallaggio?
b) Per quale motivo le elargizioni di terra erano più preziose di quelle di denaro?
c) Che durata aveva la concessione dei feudi? Perché?
d) Che relazione lega il vassallaggio alla ripartizione territoriale dell’impero?
Capitolo 20 L’impero di Carlo Magno
303
O
L’elaborazione scritta
5. Usando i termini elencati di seguito descrivi in un breve testo scritto (max 20 righe) il funzionamento del
sistema delle curtes:
a) Curtes/Villae;
b) Dominico;
c) Massaricio;
d) Massari;
e) Manso;
f) Corvées.
L’esposizione orale
6. Rispondi alle seguenti domande:
1) Quali fattori determinarono il successo dell’espansione carolingia?
2) Come si presentava il quadro economico dell’impero? Quali fattori contribuirono alla crescita economica?
3) Per quali motivi si diffuse il sistema curtense?
4) Per quale motivo i sovrani carolingi favorirono la rinascita culturale?
5) Che rapporti legavano il papato e il clero alla dinastia carolingia?
6) Come si svilupparono le relazioni tra sovrano e aristocrazia durante il periodo carolingio? Quale limite rappresentarono questi rapporti per la storia e
lo sviluppo dell’impero?
304
Parte IX Verso una nuova Europa
Capitolo 21
L’età dei signori
1. Divisioni all’interno
e incursioni dall’esterno
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Dalle ceneri dell’impero carolingio ai regni indipendenti
Il principale argomento di questo capitolo è la nascita di un mondo nuovo, molto diverso
da quello di Carlo Magno dal punto di vista politico, sociale ed economico. Le maggiori trasformazioni dipesero da un lento processo di frammentazione: l’impero carolingio si divise in
regni, e questi a loro volta si divisero in innumerevoli nuclei di potere autonomi o semiautonomi che gli storici, riprendendo una parola già usata dai contemporanei, chiamano “signorie”.
Il lungo processo che portò alla nascita delle signorie iniziò alla metà del IX secolo, quando l’impero carolingio venne colpito da una grave crisi. Questa crisi ebbe diversi aspetti, che
come sempre succede si sommarono fra loro.
All’inizio, come sappiamo, a dare problemi fuRegni postcarolingi
rono le successioni al trono, complicate dal
fatto che secondo le usanze dei Franchi tutti i
figli maschi avevano diritto a ereditare una
parte del patrimonio del padre: dunque i figli
di un imperatore rifiutavano l’idea che l’intero
impero andasse solo al fratello maggiore. Questi contrasti di successione causarono guerre
REGNO
fra i diversi esponenti della dinastia dei CaroDEI FRANCHI
ORIENTALI
lingi, e alla fine portarono alla creazione di regni indipendenti [cfr. cap. 20.3]. I principali
furono i regni dei Franchi occidentali (l’attuaREGNO
DEI FRANCHI
le Francia centro-settentrionale), dei Franchi
OCCIDENTALI
REGNO
orientali (l’odierna Germania), d’Italia (dalle
DI
BORGOGNA
Alpi fino al Lazio), di Borgogna (nella Francia
centro-orientale) e di Provenza (nella Francia
REGNO
meridionale). Dopo la morte di Carlo il GrosDI
so, nell’888, nessuno tentò più di riunificare
PROVENZA
l’impero costruito da Carlo Magno.
Alla divisione e alle lotte fra i vari regni si
sommarono presto anche altri contrasti interni, che scoppiavano violenti quando la corona di uno di questi regni era contesa fra più
aspiranti.
Capitolo 21 L’età dei signori
REGNO
D’ITALIA
305
Oltre a seminare distruzioni e morte, le lotte interne minarono la capacità di difesa del
mondo carolingio. Nessuno fu in grado di bloccare una serie di attacchi e di minacce di invasione provenienti da tre direzioni: dalle coste meridionali del Mediterraneo, da oriente e
da settentrione.
L’Occidente cristiano sotto attacco
Da sud venivano gli assalti dei Saraceni. Il nome Saraceni, nato nell’Antichità per indicare gli Arabi del deserto, adesso designava tutte le popolazioni musulmane che vivevano sulle coste meridionali e le isole del Mediterraneo [cfr. cap. 18.1]. Le incursioni saracene avvenivano soprattutto via mare: i combattenti sbarcavano all’improvviso, si dirigevano con rapidità verso l’interno, colpivano e saccheggiavano i loro obiettivi e poi si davano
alla fuga. Così avvenne nell’846 con la basilica di San Pietro in Vaticano, spogliata di ogni
tesoro da un contingente di Saraceni sbarcato a Ostia. Approfittando della debolezza militare degli Stati nati dalla disgregazione dell’impero carolingio, i Saraceni svilupparono anche nuove tecniche di aggressione: anziché ripartire, crearono delle basi fortificate all’interno del territorio cristiano, dalle quali muovevano per compiere nuove razzie e richiedere pagamenti di riscatti. La base saracena più forte fu quella di Frassineto, situata in Provenza, che i Saraceni conservarono per oltre ottant’anni, dall’890 al 972-973.
Le scorrerie causarono distruzioni e perdite immense. Negli ultimi decenni del IX secolo uno dopo l’altro i principali monasteri dell’Italia centrale vennero presi, saccheggiati e
Gli attacchi
del IX-X secolo
ISLANDA
FAERÖER
Lechfeld 955
AN
Lincoln
Londra
Novgorod
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Danesi
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NORD
Sv
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BRITANNIA
IRLANDA
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A
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SHETLAND
i
OCEANO
ATLANTICO
Confini del mondo cristiano
all’inizio delle invasioni
Attacchi saraceni
Direzioni della grande
invasione ungara del 937
Spedizioni normanne
Battaglie
Colonia
RUSSIA
DI KIEV
IA
D
AN
M
OR
Treviri
Kiev
Parigi
N
FRANCIA
Lechfeld 955
Ungari
Pisa
Roma
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LEA
BA
Saraceni
306
MAR
NERO
Frassineto
EMIRATO DI
CORDOVA
Cordova
Parte IX Verso una nuova Europa
Bari
Taranto
IMP
BIZA ERO
NTIN
O
MAR
MEDITERRANEO
Attacco saraceno
XI sec.
Dalla Cronaca di Giovanni
Scilitze; Biblioteca
Nazionale di Madrid
In questa miniatura è
raffigurato uno degli
avvenimenti più importanti
della conquista araba della
Sicilia: l’occupazione di
Siracusa da parte dei
Saraceni, che nell’878 dopo
un lungo assedio fecero
breccia nelle mura della
città e se ne
impossessarono.
distrutti, e lo stesso accadde a molti altri monasteri del Nord italiano e dell’attuale Svizzera. Nelle zone vicine alle basi saracene e in quelle più di frequente razziate i villaggi vennero abbandonati e le campagne restarono incolte. Molte città si salvarono solo rassegnandosi a pagare pesanti tributi. La potenza dei Saraceni era aumentata anche dal
fatto che venivano reclutati come mercenari dai cristiani. Per esempio
nel 941 i Saraceni di Frassineto occuparono i passi delle Alpi occidentali su ordine del re d’Italia Ugo; in questo modo il re riuscì a prevalere contro un contendente al trono, ma i Saraceni restarono poi
per anni a taglieggiare i viaggiatori. Nella seconda metà del X secolo cessò la fase più intensa delle incursioni saracene, ma il pericolo di qualche loro scorreria rimase in realtà presente lungo
le coste italiane e francesi molto a lungo, per tutto il Medioevo
e l’età moderna.
La minaccia che proveniva da Oriente erano gli Ungari. Questa
popolazione nomade di cavalieri, formatasi nelle pianure della Russia orientale, dopo una lunga migrazione nell’894-897 si stabilì nei
territori che in età romana formavano la provincia della Pannonia,
e che da allora presero il nome di Ungheria. Da qui l’esercito ogni
anno, con l’arrivo della buona stagione, partiva in lunghe spedizioni di saccheggio, anche in questo caso rese più gravi dal fatto
che spesso gli assalitori venivano reclutati come mercenari nei
conflitti interni alla Cristianità. Le incursioni cessarono solo dopo
la metà del X secolo grazie alle prime conversioni degli Ungari al cri-
Capitolo 21 L’età dei signori
Cavaliere dell’Est europeo
IX sec.
Tesoro di Nagy Szent;
Kunsthistorisches Museum,
Vienna
Questa immagine, tratta
dalla decorazione di brocca
in oro, raffigura un ungaro
o bulgaro di ritorno da una
razzia. Il bottino è
rappresentato da un
prigioniero, da destinare
probabilmente al redditizio
e fiorente mercato degli
schiavi.
307
Pietra di Smiss
IX sec.
Historiska Museet,
Stoccolma, Svezia
Su questa stele funeraria,
trovata a Smiss nell’isola
baltica di Gotland, sono
raffigurati il combattimento
tra due fanti e, in basso, una
nave vichinga carica di
guerrieri.
stianesimo, al rafforzarsi del potere del re di Germania Ottone I e, soprattutto, alla schiacciante vittoria che egli ottenne a Lechfeld, nel 955 (sulla figura di Ottone I torneremo nelle pagine successive, al par. 4).
Per oltre mezzo secolo la Germania e gran parte dell’Italia e della Francia furono più
volte percorse e saccheggiate dagli Ungari. Le incursioni ungare, che avevano un raggio di
azione ancora maggiore di quelle saracene, accrebbero il sentimento di insicurezza della
popolazione dello scomparso impero carolingio. Rispetto a quelle dei Saraceni, le loro conseguenze furono però diverse. Gli Ungari infatti non crearono delle basi stabili nel territorio da saccheggiare, e quindi potevano passare anni fra un’incursione e l’altra; inoltre la loro tecnica di combattimento, basata sulla cavalleria e l’arco, era poco efficace contro le
fortificazioni di città e castelli. Così, mentre i Saraceni provocarono l’abbandono di villaggi e campagne, gli Ungari stimolarono la creazione di migliori
difese.
Rimane da parlare degli attacchi che provenivano da nord. I protagonisti, in questo caso, erano i popoli stanziati in Danimarca e nella
penisola scandinava e che sono noti con due nomi famosi: Normanni, cioè ‘uomini del Nord’, e Vichinghi, che in antico scandinavo significa ‘spedizione’. Sulle loro barche agili e robuste, che
potevano sia risalire i grandi fiumi che affrontare l’oceano, questi
avventurieri raggiunsero mete molto lontane, alla ricerca di terre da
colonizzare, popolazioni da taglieggiare e beni da razziare oppure,
se non si potevano ottenere con la forza, da acquistare. I battelli vichinghi si diressero verso aree disabitate e remote, come l’Islanda
e la Groenlandia, verso i fiumi della Russia fino al Mar Nero, e
verso occidente. I saccheggi colpirono Inghilterra, Irlanda, Germania, Francia, e qualche volta anche regioni del Mediterraneo
come la Catalogna, la Provenza e la Toscana. Per un certo periodo, i Normanni riuscirono a conquistare l’Inghilterra nordorientale, e poi si insediarono stabilmente in una regione situata
sulle coste francesi della Manica, che da loro ha preso il nome
di Normandia.
Questa regione era destinata ad avere grande importanza
nella storia d’Europa. Conquistata da una serie di bande normanne indipendenti, la Normandia venne unificata dal capo
normanno Rollone. Carlo il Semplice, re dei Franchi occidentali, decise allora di far buon viso a cattivo gioco, e nel 911 riconobbe a Rollone il diritto di governare la regione con il titolo dapprima di conte e poi di duca; in cambio ottenne il giuramento di vassallaggio. In breve tempo, i conquistatori della Normandia si integrarono nel mondo dei Franchi, acquisendone lingua e costumi, ma conservando una grande potenza militare: dopo il 1000 proprio
dalla Normandia partiranno (lo vedremo il prossimo anno) le truppe che conquistarono sia
la vicina Inghilterra, sia un’area lontana, l’Italia meridionale.
1. Quali fattori interni determinarono la crisi dell’impero carolingio? 2. Quali erano le differenze tra le
scorrerie di Saraceni, Ungari e Vichinghi?
308
Parte IX Verso una nuova Europa
2. Il potere si frammenta
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Ereditare il titolo di conte
Il lungo periodo di lotte interne e incursioni dall’esterno trasformò la natura delle strutture amministrative create dall’impero carolingio. Avvenne un cambiamento davvero singolare. Da strumenti di governo nelle mani di un potere unitario, quello dell’imperatore, le
istituzioni amministrative divennero fattori che spingevano a frammentare il potere statale
in tanti piccoli nuclei.
Come fu possibile un cambiamento così completo? Per comprenderlo va in primo luogo ricordato che ai tempi di Carlo Magno e dei suoi primi successori il conte mandato ad
amministrare una provincia era potente soprattutto perché godeva della fiducia e dell’amicizia del sovrano, e operava su suo ordine. Spesso gli imperatori spostavano i conti da una
provincia all’altra, a seconda delle necessità. I grandi nobili ai quali venivano conferiti questi incarichi erano rispettati dai sudditi solo fino a quando avevano strette relazioni con
l’imperatore.
Tuttavia già all’epoca degli ultimi imperatori carolingi le cose iniziavano a cambiare.
Conti e marchesi volevano avere tempo sufficiente per avvantaggiarsi di tutte le possibilità che la carica dava loro: grazie ai suoi poteri e ai suoi redditi, nella provincia governata un conte poteva con facilità comprare estese proprietà e far sposare figli e parenti con le
maggiori famiglie della nobiltà locale; e naturalmente
desiderava che la sua carica potesse passare ai discendenti. Per questo conti e marchesi facevano pressione
per venire lasciati ad amministrare la stessa provincia
tutta la vita, e per trasmettere il posto a un figlio. Quando vi riuscivano, il loro potere cessava di dipendere solo dall’incarico ricevuto dal sovrano e acquistava delle
radici locali: in caso di bisogno il conte o il marchese
poteva infatti contare, oltre che sui poteri conferitigli
dal sovrano, anche sulle risorse delle sue terre e sull’aiuto fornito dalle alleanze matrimoniali e dalle parentele che lui stesso o il padre avevano stabilito con i
nobili della provincia.
Le pressioni sui sovrani per ottenere l’ereditarietà
della carica di conte si fecero molto forti, e in effetti numerosi figli furono confermati nell’incarico appartenuto
al padre. Nell’877, quando Carlo il Calvo partì per una
spedizione in Italia dovette emanare una legge importante, il capitolare di Quierzy, in cui stabiliva che se un
conte fosse morto durante l’assenza del sovrano, la contea sarebbe passata provvisoriamente sotto il governo di
suo figlio. Si trattava dunque di una legge relativa a una
situazione specifica, che non va interpretata, come si fa
sbagliando, come la concessione definitiva dell’ereditarietà del titolo di conte. La legge dimostra però che il
problema era molto sentito, e infatti dopo alcuni decenni l’ereditarietà divenne davvero una pratica generale.
Capitolo 21 L’età dei signori
Carlo il Calvo
875
Abbazia di San Paolo fuori
le Mura, Roma
In questa pagina miniata
della Bibbia commissionata
da Carlo il Calvo, il sovrano
è raffigurato seduto in
trono, sotto le virtù; alla sua
destra un ministro e una
guardia, alla sua sinistra la
moglie assistita da una
dama.
309
Da funzionari del sovrano a signori autonomi
Abbazia di Santa Maria di
Farfa a Fara Sabina
(Rieti)
VIII-IX sec.
Dopo la fase di declino
dovuta all’invasione
longobarda, l’antico
monastero laziale di Santa
Maria di Farfa (attivo già
nel VI secolo) divenne uno
dei centri monastici più
importanti e ricchi di tutta
l’Europa. Forte
dell’appoggio imperiale (lo
stesso Carlo Magno si
fermò qui prima di essere
incoronato a Roma),
l’abbazia godette di
particolari immunità ed
esenzioni fiscali, e tra VIII
e IX secolo ampliò e
monumentalizzò l’interno
complesso.
310
Gradualmente i conti si resero sempre più indipendenti dal potere dell’imperatore e dei
re. Continuavano a rispettare i sovrani e a cercare di ubbidire ai loro ordini, ma spesso facevano politica anche per conto proprio. Adesso ne avevano gli strumenti perché, dopo decenni che una contea era amministrata dalla stessa famiglia, il conte aveva a sua disposizione, all’interno di quella contea, grandi proprietà fondiarie, amici, parenti e vassalli: tutte fonti di potere locale che lui stesso, il padre e forse già il nonno avevano accumulato con
il tempo. Forte delle sue autonome risorse, un conte poteva anche tentare di contendere per
il trono regio, come per esempio fece Guido, duca di Spoleto, che riuscì a diventare re d’Italia dall’889 all’894. Altri conti s’impadronirono di più province contemporaneamente, creando così grossi “principati” semi-autonomi, come quelli di
Tolosa, Champagne, Fiandra, Baviera,
Sassonia e molti altri.
Numerosi conti si trasformavano
dunque in signori autonomi: quelli che
all’epoca di Carlo Magno erano stati i
funzionari di un’amministrazione unitaria, diventavano una forza che spingeva
alla frammentazione del potere statale.
Ma il processo che portava alla nascita di tanti piccoli nuclei autonomi
di potere non si fermò qui. Le signorie
create dai conti non riuscivano a essere
estese quanto l’antica contea che i loro
antenati avevano governato in qualità di
funzionari dell’imperatore. Sempre più
spesso accadeva che anche nobili, vescovi e grandi monasteri riuscissero a
creare proprie signorie all’interno dei
confini dell’antica contea. In queste signorie, il conte non riusciva più a riscuotere tasse e amministrare la giustizia: erano i signori, adesso, che volevano svolgere per conto proprio queste funzioni. Inoltre molti monasteri e vescovi ottenevano da imperatori e re il cosiddetto privilegio di immunità, che esonerava i loro beni dall’autorità e dal controllo degli ufficiali laici.
Dunque non solo gli antichi funzionari dello Stato si trasformarono in signori autonomi,
ma nacquero anche molte altre signorie a opera di nobili e istituzioni ecclesiastiche. Questa evoluzione fu più rapida in Francia e in Italia, dove la signoria nacque già verso il 950;
in Germania e altre regioni la sua formazione fu più lenta, e avvenne solo dopo il 1050 o
addirittura dopo il 1100. Prima o poi, comunque, la signoria comparve quasi in tutta l’Europa medievale.
1. Per quale motivo conti e marchesi premevano affinché le cariche diventassero ereditarie? 2. Come
avvenne la frammentazione delle antiche contee in numerose signorie?
Parte IX Verso una nuova Europa
3. La signoria
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
Quale potere per il signore?
Descriviamo una signoria e il suo territorio. La prima cosa a colpirci è la presenza di uno
o più castelli. Il loro aspetto è diverso a seconda delle regioni, delle epoche e di chi li ha
costruiti: ma tutti hanno la funzione di difendere i contadini che lavorano nei campi, il bestiame, i raccolti e le altre risorse del territorio. Questa difesa, però, non è curata dal sovrano e dai suoi funzionari, ma da un personaggio che le fonti chiamano dominus, ‘signore’. Di solito costui vive nel castello assieme a parenti, cavalieri amici, combattenti di minore
rilievo e servitori; se è un abate o
un vescovo risiede in un robusto
monastero o nella città vicina.
Il potere del signore si estende
su tutti gli abitanti: sui contadini
che coltivano le terre dello stesso
signore, come sui piccoli proprietari e sui coltivatori dei campi che appartengono a chiese, cavalieri e altri proprietari. Da questo punto di vista il signore è
molto diverso dal proprietario di
una curtis di età carolingia, che
comanda solo chi coltiva le sue
terre [cfr. cap. 20.8]. Egli infatti
vuole ubbidienza, lavoro e pagamenti da tutti, indistintamente.
Il signore, in primo luogo, ha
diritti di tipo militare. Una ristretta parte degli abitanti ha il
dovere di combattere ai suoi ordini a tempo pieno. Si tratta dei
cavalieri, un gruppo di professionisti delle armi che non lavorano
la terra poiché possiedono beni
sufficienti per comprare un destriero, cioè un cavallo da combattimento, la corazza e le armi, e
per avere tempo libero in abbondanza per apprendere le complesse tecniche della guerra a
cavallo. Nelle signorie di ogni parte d’Europa questi cavalieri sono il braccio armato del signore, il suo principale strumento di offesa e di oppressione.
Alcuni obblighi militari gravano però anche sul resto della popolazione. Bottegai, artigiani e soprattutto contadini, che immancabilmente costituiscono la stragrande maggioranza degli abitanti, devono fare a turno la guardia alle mura. In caso di grave pericolo, per rintuzzare gli attacchi mossi al castello dai nemici tutti gli uomini combattono di persona, a
Capitolo 21 L’età dei signori
Castello di Puilaurens,
Francia
X sec.
Il castello di Puilaurens,
situato nei Pirenei orientali,
fu per molto tempo la
fortificazione più
meridionale del regno di
Francia. Le fonti scritte
attestano l’esistenza del
castello già nel 985, quando
il complesso era alle
dipendenze dell’abbazia
catalana di San Michele di
Cuxa. Solo nel XIII secolo
la zona passò sotto controllo
francese.
311
piedi e armati come possono. Se necessario, inoltre, vengono chiamati a lavorare gratis per
il restauro o il miglioramento delle fortificazioni.
Responsabile della difesa e della guerra, il signore è anche a capo della giustizia. Ogni
reato, piccolo o grande che sia, è sottomesso al suo giudizio. Può persino pronunciare condanne a morte. Giudica anche le cause di tipo civile – una lite per una dote, per il possesso
di una terra, per un debito insoluto. Da questo ruolo di giudice il signore ritrae redditi elevati e importanti vantaggi. Di solito i colpevoli sono puniti, piuttosto che con il carcere e le
pene corporali, con ingenti multe e con il sequestro dei beni. E a chi vanno queste condanne? Detratta una piccola quota che spetta come risarcimento alla parte lesa, le multe finiscono nelle mani del giudice, cioè dello stesso signore. La giustizia, di conseguenza, rappresenta una delle migliori entrate del signore. Ma garantisce anche vantaggi ancora più importanti. Dal punto di vista politico, dà modo al signore di controllare e punire chiunque contesti il suo potere. Dal punto di vista simbolico, gli conferisce un prestigio prezioso: convocare in tribunale e punire era in origine una prerogativa dei re e dei suoi funzionari, e dunque il signore che riesce a farlo dimostra di essere, nella sua signoria, quasi un piccolo re.
E questa è proprio la caratteristica fondamentale della signoria. Amministrare la giustizia e organizzare la difesa militare sono le funzioni basilari di ogni Stato. Svolgendo queste funzioni, dunque, il signore esercita nella sua signoria poteri e diritti di tipo “pubblico”, cioè statale. Sono facoltà che ai tempi dei Carolingi come a quelli dell’impero romano erano monopolio del sovrano e dei suoi rappresentanti (e tali sono poi tornate a essere,
un po’ per volta, a partire dal XIII-XIV secolo). Nei secoli di cui parliamo qui, invece, dal
X fino alla fine del Medioevo e anche oltre, la signoria è come uno Stato in miniatura.
Non ci dobbiamo allora meravigliare se, accanto alla difesa e alla giustizia, il signore ha
anche una terza prerogativa tipica di ogni Stato: la facoltà di riscuotere imposte. In que-
Feudalesimo e signoria
Alla televisione, nei film e persino nei libri per la scuola viene spesso riproposto un luogo comune: si dice che i signori fossero i feudatari di re e principi, e si pensa che essi avessero acquistato i loro
poteri appunto grazie a una concessione in feudo. Questa idea risale agli storici del XVIII-XIX secolo, i quali credevano che gli ultimi sovrani carolingi e i loro successori, essendo incapaci di difendere i regni dagli attacchi esterni e di frenare le ambizioni della nobiltà, avessero dato vasti territori in feudo alle famiglie più importanti. Così i principali feudatari avrebbero acquisito il diritto di comandare gli abitanti dei territori loro affidati. Poi, a loro volta, questi feudatari maggiori avrebbero concesso in feudo a propri seguaci parte delle terre e dei poteri ricevuti. Il tutto viene di solito accompagnato da uno schema a piramide: al vertice c’è il re, sotto un
gruppo di alcuni grandi nobili suoi vassalli, e più in basso ancora
un numero elevato di piccoli nobili vassalli dei nobili maggiori.
Questa interpretazione ha il fascino della semplicità, ma è sbagliata. Infatti il feudalesimo ha contribuito alla nascita della signoria soltanto in una piccola minoranza di casi. La maggioranza delle signorie è stata creata da altri fattori, ben più importanti. Insomma, fare del feudo il fattore principale è un po’ come
credere che un singolo ingrediente costituisca da solo l’intera ricetta di una pietanza complicata. E la maggior parte dei signori
non erano affatto “feudatari” di qualcuno.
312
Parte IX Verso una nuova Europa
Il rapporto tra feudo e signoria, in realtà, è diventato stretto soltanto molti secoli dopo, nel tardo Medioevo e in età moderna.
Risale cioè a epoche in cui le signorie si erano già da tempo tutte formate. Oltre che dalla diffusione della signoria, queste
epoche erano caratterizzate dalla rinascita del potere dei re:
proprio per meglio affermare i diritti del sovrani, i loro esperti
di diritto sostennero che ogni facoltà di comando e di governo
apparteneva in linea teorica al sovrano. Stabilirono così una
identificazione della signoria con il feudo. Il loro ragionamento era grosso modo questo: «se noi vediamo che in effetti molti signori esercitano da tempo poteri pubblici, i quali appartengono e debbono appartenere solo al re, dobbiamo pensare che
lo possono fare solo perché, in un passato di cui si è persa conoscenza, li hanno ricevuti in feudo da qualche sovrano; con le
buone o con le cattive, tutti i signori vanno dunque costretti a
riconoscere che le loro signorie sono feudi della corona, o di
qualche principe».
Così ogni signoria divenne un feudo, e i poteri di comandare,
punire e giudicare che i signori esercitavano da tanto tempo come piena proprietà si trasformarono in “poteri feudali”, che il re
assegnava dando in feudo le signorie. A questo punto, ma non
prima – in pratica, dalla fine del Medioevo in poi –, ogni signore era effettivamente un “feudatario”.
sto campo la varietà è massima, perché le signorie sono molto diverse le une dalle altre. Alcune sono grandi quando una provincia italiana
di oggi, altre si limitano a governare su pochi
chilometri quadrati. Cambia anche l’ampiezza
dei poteri del signore: di solito le signorie create dalle famiglie dei conti hanno poteri maggiori di quelle dei semplici grandi proprietari.
Quindi è difficile fare un discorso generale, valido per tutte le situazioni. Alcuni signori possono richiedere tasse solo in caso di spese straordinarie, come quando devono pagare un riscatto,
dare la dote a una figlia o compiere una grande
spesa. In genere però i signori riscuotono molte
imposte: quando riescono a vincere la resistenza
dei sottoposti, tutte le occasioni sono buone per
prelevare una tassa. Si paga per passare con le
merci per i ponti e le strade della signoria, per
comprare e vendere beni, per entrare in possesso
di un’eredità, e per tante altre ragioni. In Campania, per esempio, le viti continuavano a venire coltivate, come nell’Antichità, in filari alti parecchi metri tesi da albero ad albero; per vendemmiare, occorrevano dunque scale: ecco allora i signori inventarsi lo “scalatico”, una tassa
che colpiva i possessori di scale...
La rapacità del ricco
opprime i contadini
1030
Dal De vitiis et virtutibus,
ms. 2077, f. 170r;
Bibliothèque Nationale de
France, Parigi
Questo disegno, tratto da un
manoscritto realizzato
nell’abbazia di San Pietro di
Moissac in Francia, risale
alla prima metà dell’XI
secolo ma è una copia di un
originale del X. La vignetta
è un’ammonizione contro
l’avarizia e contro la
rapacità di coloro che, pur
disponendo di ricchezze,
non distribuiscono
cristianamente i propri beni.
Un piccolo Stato in proprietà
Sappiamo, a questo punto, qual è l’essenza
della signoria. È il diritto a comandare e farsi
ubbidire, la facoltà di giudicare, la cura della
difesa militare e dell’ordine sociale, la possibilità di richiedere imposte e contributi, in denaro, in natura e in lavoro. La signoria è uno Stato in versione locale.
Come ogni Stato degno di tale nome, la signoria è un organismo autonomo. Bisogna intendersi, però. Autonomia non vuole dire che il
signore può agire liberamente in qualsiasi campo e rifiutare ogni autorità superiore. In molti
casi, deve tenere conto delle pretese degli altri
proprietari che possiedono terreni nella sua signoria – chiese, monasteri e cavalieri –, i quali
vorrebbero comandare i contadini che coltivano le loro terre. Il signore si oppone, e spesso
ne nascono contrasti [cfr. scheda, p. 320]. Inoltre
il signore riconosce la superiorità dei sovrani e
La coltivazione della vigna
1030
Miniatura dal De Universo
di Rabano Mauro; abbazia
di Montecassino
La miniatura testimonia
l’altezza raggiunta dalle viti
in alcune regioni (come la
zona di Montecassino, dove
venne miniato questo
scritto), e la scomodità che
ne derivava per il contadino
che doveva vendemmiare.
Capitolo 21 L’età dei signori
313
dei grandi principi. È felice di essere invitato alle cerimonie di re e imperatori, e non manca di portare doni e
dichiararsi pronto a servire in tutto i sovrani. Ma solo
una minoranza di signori lo fa poi per davvero; gli altri
vogliono decidere loro quando e come aiutare il sovrano
e, soprattutto, ritengono che nessuno, nemmeno il re,
possa dire loro come comportarsi all’interno della signoria. I re, di fatto, riescono a comandare solo nei territori che appartengono loro direttamente, dove non sono nate signorie.
Il signore, del resto, non ha nessun bisogno di sostegni esterni per legittimare il proprio potere. Sarebbe un
errore credere che i signori fossero “feudatari” dei re e
dei principi, cioè che avessero ricevuto in feudo da loro
la signoria. Nella grande maggioranza dei casi, i signori
non hanno ricevuto i loro poteri dai sovrani, e non debbono dunque rendere ad essi conto di quanto fanno. La
signoria è una loro proprietà, come se fosse un campo o
una casa. Possono darla in eredità, in dote, in pegno; possono venderla; possono anche rinunciare a parte dei loro
diritti in favore degli abitanti, che pagano per questo alleggerimento della signoria. E tutte queste cessioni ed
alienazioni avvengono di norma liberamente, senza richiedere il consenso di poteri superiori. Questo porta a
una situazione che sarebbe stata giudicata inammissibile
in età romana, carolingia e in tanti altri periodi: l’esercizio di poteri pubblici tipici dello Stato viene privatizzato
ed entra a far parte del patrimonio dei signori. Le signorie non sono solo dei piccoli Stati: sono dei piccoli Stati
in proprietà privata.
Un re attorniato dai
potenti
803-814
Bibliothèque Nationale de
France, Parigi
In questa pagina miniata,
contenuta nel cosiddetto
Breviarium Alaricianum
(una sintesi del Codice
Teodosiano emanata nel 506
dal re dei Visigoti Alarico
II), è dipinto un re franco
assieme ai potenti del
tempo: un vescovo, un
conte e un duca.
1. Per quale motivo la gestione della giustizia era un’attività importante per il signore? 2. Come era
concepita la signoria da parte dei signori stessi?
4. Gli Stati postcarolingi
e l’impero degli Ottoni
E V E N T I E P R O TA G O N I S T I
I Capetingi in Francia e le sorti del regno d’Italia
Nella Francia centro-settentrionale, che all’epoca costituiva il regno dei Franchi occidentali, il potere dei re crollò abbastanza rapidamente. Già all’inizio del X secolo la gran
parte dei conti e dei marchesi tributava ai sovrani solo un riconoscimento formale; per il
resto, si comportavano come dei principi autonomi. I re continuavano a venire scelti fra i
discendenti di Carlo Magno, ma contavano ben poco. Nel 987, con l’incoronazione di Ugo
314
Parte IX Verso una nuova Europa
Il regno di Francia all’avvento dei Capetingi
REGNO
D’INGHILTERRA
Londra
CONTEA
DI
FIANDRA
REG
Parigi
OIS
CONTEA
DI NEVERS
Domìni diretti
del re di Francia
Signorie locali
DU
CA
TO
DI
GU
IE
NN
A
CONTEA
DELLA MARCA
ANIA
Bourges
OCEANO
ATLANTICO
GERM
BL
DI
CONTEA
D’ ANGIÒ
CONTEA DI
CHAMPAGNE
Orléans
DU
BO CATO
RG
OG DI
NA
EA
NT
CONTEA
DI
BRETAGNA
DI
DUCATO
DI
NORMANDIA
NO
CONTEA
DI VERMANDOIS
CO
Capeto, iniziò la nuova dinastia dei Capetingi,
destinata a regnare per tre secoli e mezzo e a rendere la monarchia francese il più forte Stato
d’Europa. Ma questo era ancora un futuro lontano: Ugo Capeto governava solo sulle terre di proprietà personale della famiglia e su pochi altri
territori.
Per i re italiani le cose andarono appena un
poco meglio. Nell’888 un’assemblea di nobili incoronò re d’Italia Berengario I marchese del
Friuli. In teoria Berengario fu re fino al 924, ma
in realtà spesso il suo potere fu ridotto a nulla da
una serie di avversari, che talora riuscirono a
strappargli anche il titolo regio. Il primo a sottrargli il trono fu Guido, duca di Spoleto, che dopo due anni di durissimi scontri ottenne dal papa
e dalla maggioranza della nobiltà italiana la corona di re. A Guido seguì il figlio Lamberto, e poi
altri contendenti al trono, ma nel 905 tornò a prevalere Berengario, che regnò senza troppe contestazioni fino al 924, quando venne assassinato.
Il gran numero di sovrani, contendenti al trono, deposizioni e ritorni al potere rendono difficile raccontare le vicende del regno d’Italia sotto
Berengario I e i suoi successori; chiedere a uno
studente di impararle sarebbe poi una crudeltà
inutile. Accontentiamoci allora di notare due cose. La prima è che le lotte cessarono solo dopo il
951, quando la corona del regno d’Italia fu presa
da quello che era il più potente sovrano del tempo: Ottone I di Sassonia, re di Germania. La seconda è che durante queste lotte alcune famiglie
nobili scomparvero, ma molte altre trovarono
modo di accumulare potere combattendo per uno
o l’altro dei contendenti; le città italiane, da parte loro, cercarono di organizzarsi per conto proprio intorno ai propri vescovi. Il potere del re si
indeboliva, mentre cresceva quello di nobili e di
altre realtà locali, come le città.
CONTEA
D’ALVERNIA
Lione
CONTEA DI
GEVAUDAN
CONTEA
DI
PROVENZA
CONTEA
DI
TOLOSA
Tavoletta eburnea
con Ottone
imperatore
X sec.
Musei del Castello
Sforzesco, Milano
La tavoletta in
avorio raffigura
l’imperatore Ottone
I con la moglie
Adelaide e il figlio
Ottone II
inginocchiati ai
piedi di Gesù seduto
in trono tra san
Maurizio (protettore
della dinastia
imperiale) e la
Vergine.
L’impero ottoniano: un progetto troppo
ambizioso
Nel regno dei Franchi orientali, che ormai
iniziava a esser chiamato regno di Germania, i
sovrani restarono invece abbastanza forti. Anche
qui molti conti, marchesi e duchi divennero semiautonomi, e talvolta i re faticavano a imporre la
Capitolo 21 L’età dei signori
315
propria autorità. Ma nessuno metteva in discussione il loro diritto di continuare a ricevere, come accadeva al tempo dei Carolingi, l’aiuto militare da tutti gli uomini liberi del regno. Il
forte esercito a loro disposizione permise ai sovrani dei Franchi orientali di combattere con successo gli Ungari e, in seDUCATO
DI
guito, di concepire l’ambizioso progetto di ricreare l’impero.
SASSONIA
MARCA
La salita al trono di Enrico I di Sassonia, nel 919, segnò l’iniDEL NORD
LORENA
zio della dinastia sassone, chiamata anche ottoniana. Il più
DUCATO
DI
importante membro della dinastia fu infatti Ottone I (936FRANCONIA
MORAVIA
BOEMIA
973) che, durante il suo lungo regno, rafforzò l’autorità regia,
MARCA
DUCATO
estese i suoi poteri anche al regno d’Italia nel 951, e infine
D’AUSTRIA
DI
DUCATO
venne incoronato imperatore a Roma nel 962.
SVEVIA
DI
BAVIERA
REGNO
Il nuovo impero si presentava come la restaurazione di
DI
MARCA
BORGOGNA
quello di Carlo Magno. Aveva in effetti un programma in parDI CARINZIA
REGNO
D’ITALIA
te simile. I simboli e i rituali seguiti a corte erano gli stessi;
come quello carolingio, utilizzava molto vescovi e abati per
l’amministrazione imperiale; infine, si poneva come princiDUCATO
DI
pale compito quello di difendere la Chiesa, controllandola e
PATRIMONIO
SPOLETO
DI
sforzandosi di migliorarne i costumi. Non a caso Ottone I, riSAN PIETRO
Il regno di Germania
prendendo una vecchia legge carolingia mai applicata da olalla morte di Enrico (936)
tre un secolo, impose al papa di venire confermato dall’impeImpero ottoniano
alla morte di Ottone I (973)
ratore prima di essere consacrato (il Privilegium Ottonianum del 962). Inoltre voleva esPossedimenti in Italia
sere
un impero universale che, come quello dell’antica Roma, aspirava a comandare l’indell’impero bizantino
Territori sottoposti
tero mondo. Per sottolineare questi aspetti gli storici usano la definizione Sacro romano
alla protezione dell’impero
impero (che in realtà compare nei documenti solo dopo il 1000): sacro, per sottolineare la
funzione di proteggere la religione; e romano perché si ricollegava idealmente alla grandezza della Roma antica.
La realtà fu invece più modesta. Sia sotto Ottone I che sotto il figlio Ottone II (973-983)
e il nipote Ottone III (983-1002) l’impero ottoniano restò molto più piccolo di quello carolingio, comprendendo soltanto l’Italia centro-settentrionale e il regno di Germania. Gli
imperatori, inoltre, dovevano lasciare ai duchi e agli altri nobili un’ampia autonomia, al
punto che rinunciarono a emanare leggi valide per tutti i sudditi e a organizzare un sistema
di giustizia unico per l’intero impero. Piuttosto che governare direttamente, l’imperatore si
avvaleva della mediazione di chi era già potente nelle diverse province.
Questa impossibilità di un diretto governo imperiale e la necessità di ricorrere a poteri locali che fungessero da mediatori fra la corona e i sudditi era particolarmente forte nel
regno d’Italia. Quando l’imperatore era presente, la forza del suo esercito vinceva facilmente ogni oppositore. Ma presto l’imperatore ripartiva, perché i suoi luoghi di soggiorno
abituali erano lontani, al di là delle Alpi. Così la politica tornava a venire dominata dalle
forze potenti localmente: i conti e gli altri grandi nobili, ma anche i vescovi.
Come mai i vescovi, che in teoria erano soltanto i capi della chiesa cittadina, avevano
questa importanza politica? Essa derivava da un’evoluzione secolare e, infine, dalla crisi
dell’impero carolingio. Fin dalla tarda Antichità, i vescovi erano nominati fra le famiglie
più importanti della città. Da molti secoli i ceti dirigenti delle città erano soliti discutere i
problemi comuni più importanti in presenza di questi personaggi così prestigiosi dal punto
di vista religioso, e tutti di buona famiglia. Poi, con le lotte di successione fra i carolingi e
il ripetersi di attacchi nemici, il ruolo dei vescovi era molto cresciuto: nei momenti di emer-
L’impero degli Ottoni
316
Parte IX Verso una nuova Europa
genza, quando nessun aiuto poteva venire dal sovrano e dai suoi rappresentanti,
spesso era toccato ai vescovi assumersi il
compito di organizzare la difesa, di curare il restauro di mura e fortificazioni e di
prendere altre decisioni importanti.
In questo modo molti vescovi avevano
acquisito un potere locale sulle città. Per
governare il regno d’Italia, di conseguenza, gli imperatori ottoniani si appoggiarono spesso anche ai vescovi, donando
loro terre e beni e, soprattutto, assegnandogli diritti di governo, come la facoltà di
amministrare la giustizia all’interno della
città e nel territorio più vicino alle mura.
Naturalmente queste concessioni avevano avuto l’effetto di aumentare ulteriormente il potere vescovile assieme a quello dei ceti dirigenti cittadini che eleggevano il vescovo e lo assistevano. Non solo i signori delle campagne, ma anche
molte città stavano dunque diventando
centri di potere semiautonomi.
Ecco perché il Sacro romano impero
della dinastia degli Ottoni fu un organismo politico peculiare. Ogni tanto interveniva con forza, eliminando brutalmente
avversari e sudditi infedeli; di solito però
era un potere distante, che in Italia come
in Germania si limitava a coordinare i poteri locali di conti, nobili e vescovi cittadini. Non meraviglia che gli insuccessi
siano stati numerosi. Ottone II fallì nel
tentativo di battere i Saraceni e i Bizantini
dell’Italia meridionale, e quando nel 983 il
trono passò al figlio ancora bambino, Ottone III, gran parte della nobiltà tedesca si
ribellò. Ottone III venne educato dal più
grande intellettuale del tempo, Gerberto
d’Aurillac, che probabilmente contribuì a
fargli elaborare un progetto politico molto
ambizioso, che prevedeva una radicale
riforma del potere imperiale. Divenuto
adulto, Ottone III lasciò a sé stessa la
Germania e si stabilì a Roma. Il suo programma era tanto vasto quanto irrealistico: restaurare l’impero romano sottomet-
Capitolo 21 L’età dei signori
Il villaggio e l’abbazia di
Conques, Francia
Durante il X secolo
l’abbazia benedettina di
Conques, nella Francia
meridionale, crebbe molto
di importanza e attorno a
essa si andò organizzando
un villaggio, come mostra
l’assetto urbanistico attuale
che ha conservato intatto
l’impianto di età medievale.
Ottone III in trono
fine X sec.
Bayerische Staatsbibliothek,
Monaco
Nella miniatura di questo
Evangeliario (prodotto in
monastero di Reichenau)
Ottone III è ritratto con
tutte le insegne che
rappresentano il suo potere:
lo scettro, il globo e la
corona. Il sovrano è seduto
in trono e affiancato a
destra dai nobili guerrieri e
a sinistra dai rappresentati
del clero.
tendo tutti i sovrani e i potenti del mondo cristiano, promuovendo allo stesso tempo una
riforma spirituale basata sulla stretta collaborazione fra papato e impero. A questo scopo Ottone III fece eleggere papa il suo precettore Gerberto d’Aurillac, che assunse il nome di Silvestro II (999-1003). Ma la nobiltà romana si ribellò, lo cacciò dalla città e lo costrinse a rifugiarsi in un monastero nel quale morì, ancora giovanissimo, nel 1002.
1. Qual era il potere dei re nel regno dei Franchi occidentali e nel regno d’Italia? 2. Qual era il progetto
politico degli imperatori ottoniani? 3. Che ruolo politico svolgevano i vescovi?
5. Il castello,
centro di potere
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Perché si costruirono così tanti castelli?
I secoli posteriori alla fine dell’impero carolingio furono molto condizionati da una realtà
che, a ragione, consideriamo come tipicamente medievale: il castello. Va detto che i castelli non erano una novità: già ne erano stati costruiti in passato in molte parti d’Europa a opera dello Stato, e avevano aiutato i re e i loro funzionari a controllare strade, porti e altri luoghi strategici, oppure a dare protezione, in caso di emergenza, agli abitanti delle campagne
Montarrenti
Uno scavo archeologico durato diversi anni ha permesso di ricostruire l’evoluzione del castello di Montarrenti, vicino Siena. All’inizio Montarrenti è un villaggio di
contadini senza molte differenze sociali interne, come
mostra il fatto che tutti abitano in case costituite da un’unica piccola stanza. Probabilmente il villaggio nasce nel
VII-VIII secolo, quando i contadini che vivevano sparsi nelle campagne vicine decidono di andare a stare assieme sulla collina, occupandone i fianchi e la cima con
le loro piccole case. Presto costruiscono una palizzata in
legno per chiudere in basso l’accesso al villaggio (fig.
1). Già in età carolingia si osserva un cambiamento significativo: sulla parte più alta del villaggio un personaggio a noi sconosciuto ma molto più ricco e potente
degli altri abitanti sostituisce le piccole case contadine
con un grosso edificio in muratura, e poi circonda con
mura di pietra tutta quest’area posta in cima alla collina.
Più tardi in questa zona sorge anche una torre alta e robusta, mentre più un basso un circuito murario in muratura prende il posto della palizzata che circondava e difendeva il villaggio. Anche le case dei contadini vengono edificate in muratura. Il risultato finale di questa lunga evoluzione è un castello signorile: sui fianchi della
collina vivono i sudditi del signore, protetti dalle mura
e controllati dal signore, che abita più in alto, in un grosso edificio dotato di una torre e di una seconda cinta di
mura (fig. 2).
318
Parte IX Verso una nuova Europa
1
2
Evoluzione dell’abitato di
Montarrenti, da villaggio alto
medievale a castello signorile
Disegno ricostruttivo di D. Spedaliere
circostanti. Questi castelli della tarda Antichità e dell’epoca dei regni romano-barbarici furono però abbastanza pochi e rimasero sempre nelle mani dei re e dei loro rappresentanti.
Le cose cambiarono del tutto con le lotte interne e gli attacchi dall’esterno dell’età
postcarolingia. I pericoli si moltiplicavano e i sovrani si rivelavano incapaci di bloccarli:
così sempre più di frequente i contadini e i proprietari subivano razzie a opera di Vichinghi, Saraceni e Ungari, e ancora più spesso da parte delle truppe dei contendenti al trono
che si combattevano. In questa nuova realtà, ci si rese conto che ogni territorio doveva organizzare la difesa per conto proprio, senza più attendere la protezione del sovrano. E la
migliore difesa era, in quel tempo, costruire un castello.
All’inizio, nella seconda metà del IX secolo e al principio del X, i nuovi castelli vennero
costruiti soprattutto da pochi personaggi importanti: conti, vescovi e abati di grandi monasteri. I nobili di minore rilievo e talvolta le comunità di contadini tuttalpiù dotarono le loro
abitazioni e i loro villaggi di qualche piccola difesa. In alcune regioni, come la Toscana, gli
abitanti delle campagne erano andati a vivere assieme sulla cima delle colline, dove era possibile difendersi sbarrando con una palizzata i punti di più facile accesso. A partire dal 950 la
spinta a costruire veri e propri castelli divenne fortissima, diffondendosi anche al di fuori del
ristretto gruppo di conti e grandi istituzioni religiose. Ormai tutti i maggiori proprietari cercavano di trasformare le proprie aziende in castelli. Gli scavi archeologici datano proprio a
quest’epoca la costruzione ex novo di molti castelli; dove già esistevano villaggi e residenze
aristocratiche solo sommariamente protetti, in questo periodo nacquero difese molto più efficaci e robuste. I documenti scritti per descrivere i grandi patrimoni smisero di elencare le semplici aziende agrarie, e iniziarono a menzionare soltanto castelli: avere un castello era adesso la
sola cosa che realmente contava.
Castel Tasso a Vipiteno,
Alto Adige
XI sec.
Realizzato nell’XI secolo,
l’impianto originario di
Castel Tasso prevedeva un
grande recinto difensivo con
all’interno un massiccio
torrione costruito nel punto
più alto del dislivello.
Proteggere e pretendere
A seconda dei casi l’aspetto materiale del castello era diverso. In alcune regioni i castelli erano fortezze destinate a ospitare
soltanto il proprietario con il suo seguito di servitori e di combattenti. In altre regioni, come per esempio l’Italia centrale e altre parti dell’Europa meridionale, il castello era un villaggio circondato da difese, dove oltre al signore e al suo seguito abitavano anche contadini e artigiani. Anche il tipo di difese cambiava a
seconda dei luoghi e del periodo. Nelle zone pianeggianti, alcuni
castelli erano costruiti sopra piccole colline artificiali, chiamate
motte. Quasi tutti, all’inizio, avevano palizzate in legno, che via
via vennero migliorate con fossati, torri e altre difese; infine, ma
quasi sempre solo dopo il 1000 o anche il 1100, le cinte in legno
furono sostituite da mura di pietra o mattoni.
Nel giro di poche generazioni, tutto l’Occidente si coprì di un
manto serrato di fortificazioni. Il loro aspetto materiale poteva
cambiare molto, ma il castello svolgeva sempre due funzioni fra
loro collegate: proteggeva un territorio e consentiva a chi assolveva questo compito basilare di accrescere il suo potere. Alla ricerca di pace sociale e sicurezza, la popolazione delle campagne
doveva confidare non nel sovrano lontano, ma soltanto in chi era
potente in quel territorio e in quel dato villaggio, vi aveva co-
Capitolo 21 L’età dei signori
319
struito un castello, e lo utilizzava per la difesa ma anche per dominare gli abitanti. Sempre
di più contava soltanto chi possedeva un castello e un seguito di armati. Costui era ormai
nella posizione di intensificare il proprio potere, e tutta una serie di redditi a esso legati. Non
assicurava forse la difesa di tutti? Poteva per questo richiedere un compenso crescente, imporre tasse, lavori obbligatori, aiuti militari; e poteva anche pretendere di garantire la pace interna al castello amministrando la giustizia. Gradualmente, attraverso un processo durato a volte più di un secolo, il castello permetteva così anche a chi non discendeva da una
famiglia di conti di acquisire quei poteri di governo locale che abbiamo visto caratterizzare
la signoria, e che i discendenti dei conti avevano fatto propri per primi.
1. Per quale motivo dal IX secolo si moltiplica la costruzione di castelli? 2. Quali funzioni fondamentali
svolgeva il castello?
6. Nobili e cavalieri
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
I cavalieri, professionisti delle armi
Il diffondersi dei poteri signorili e il disgregarsi dello Stato cambiarono i rapporti fra i
gruppi sociali. Nacque una netta distinzione fra chi subiva la signoria, i contadini, e chi invece esercitava i poteri signorili, cioè il signore e suoi collaboratori. Usare le armi divenne un privilegio riservato solo a chi comandava, e vietato a tutti gli altri. Tranne che in alcune zone (per esempio in Spagna, vicino al confine con i territori musulmani), non era più
sufficiente essere un uomo libero per esercitare il diritto/dovere di combattere: ormai solo
Ordine o disordine signorile?
L’epoca delle signorie è stata a lungo considerata un’età di anarchia. Fu in effetti un periodo della storia europea in cui anche
gli imperatori e i re più potenti riuscivano a comandare solo in
alcuni momenti e su alcune aree del loro regno. Fra gli stessi signori, inoltre, erano frequenti i contrasti e gli scontri. A causarli poteva essere il desiderio di impossessarsi della signoria di un
vicino meno potente, o almeno di imporgli il pagamento di tributi e il riconoscimento della sua subordinazione.
Molti conflitti nascevano anche all’interno stesso di una signoria. Il signore era il maggiore proprietario fondiario della zona,
ma in molti casi un certo numero di terreni appartenevano ad altri proprietari. Chiese grandi e piccole possedevano un loro patrimonio di terre, che davano in affitto a coltivatori; in molte signorie vi erano anche le proprietà di monasteri, di qualche nobile e di cavalieri, che facevano la stessa cosa. Di conseguenza
poteva accadere che un uomo avesse più signori. Vi era il signore principale, che controllava il castello e pretendeva di comandare e giudicare tutti gli abitanti. Ma le chiese maggiori, i
monasteri e i proprietari nobili diversi dal signore erano gelosi
dei contadini che coltivavano le loro terre situate all’interno della signoria. Le possibilità di un contrasto erano numerose. A chi
320
Parte IX Verso una nuova Europa
doveva ubbidire l’abitante di una signoria, al signore generale o
a chi era proprietario delle terre che il contadino coltivava? Chi
dei due aveva diritto a ricevere per primo i suoi pagamenti se
c’era la carestia e il raccolto era scarso?
Innumerevoli sono dunque le occasioni di conflitto, all’esterno
e all’interno della signoria. E tuttavia il mondo signorile riesce
bene anche a garantire un proprio ordine. Il tribunale del signore non è soltanto uno strumento di prevaricazione, ma anche un
luogo dove il contadino tiranneggiato da un compaesano più
forte o prepotente può ottenere giustizia. Con la sua autorità,
poi, il signore riesce a organizzare con maggiore efficacia le iniziative collettive, come la costruzione di una chiesa o la complessa bonifica di una palude. L’ordine signorile è osservabile
anche nelle relazioni interne al mondo dei nobili. Il signore controlla e disciplina in primo luogo il proprio seguito di armati. Limita i desideri di saccheggio e avventura dei cavalieri più poveri, imponendo loro di astenersi dal razziare i territori dei signori con i quali non è in guerra. Egli stesso stabilisce delle relazioni con altri signori. Ottiene che quelli meno potenti gli giurino fedeltà e vassallaggio, e a sua volta si dichiara fedele di signori più forti.
chi apparteneva all’élite poteva farlo. Le tecniche di combattimento cambiarono, e s’incentrarono tutte sulla cavalleria. Solo la minoranza di chi possedeva armi e cavalli e aveva
imparato a usarli con un costante esercizio faceva parte dell’élite guerriera. Il termine miles, che nel latino classico indicava quello che era allora il combattente per eccellenza, cioè
il soldato appiedato, passò a indicare il cavaliere, che era adesso il solo a usare le armi.
I cavalieri avevano le origini più diverse. Molti, naturalmente, erano figli di cavalieri e di
signori. Altri venivano dalle classi inferiori: servi fedeli ai quali un nobile potente aveva dato armi e cavalli, oppure contadini ricchi che volevano entrare a
far parte del seguito del signore. Il passaggio alla condizione di cavaliere era dichiarato con una cerimonia
pubblica, che nel periodo qui studiato rimase molto
semplice e sbrigativa: davanti agli altri cavalieri, il
giovane riceveva le sue armi e il diritto a fare parte del
gruppo privilegiato della cavalleria.
Come cambiano i valori del ceto aristocratico
Come già in età carolingia, tutti i nobili potenti
avevano proprie clientele di seguaci, che di solito
gli giuravano fedeltà, prestavano l’omaggio come
vassalli e ricevevano in cambio doni o feudi. Ma dopo la fine dello Stato carolingio e la nascita delle signorie le clientele militari erano cresciute di numero e avevano in parte cambiato di significato. Un
nobile dei tempi di Carlo Magno usava la sua clientela soprattutto nell’esercito imperiale e, più in generale, per essere potente e ben visto dal sovrano.
Adesso invece le clientele servivano quasi soltanto
per fare una politica locale: per distinguersi rispetto ai proprietari dei castelli vicini e, soprattutto, per
fare funzionare meglio la signoria, opprimendo e
dominando i contadini. Inoltre in questo mondo più
localizzato mutavano anche i valori dei grandi nobili: il punto di riferimento non erano più i costumi
del sovrano e della sua corte, ma lo stile di vita dei
cavalieri, con i quali il signore viveva e che lo accompagnavano in tutte le occasioni. Era uno stile di
vita fatto di violenza, gusto per la razzia e la sopraffazione, pretesa di comandare. I soprannomi
che alcuni di questi personaggi si davano rivelano bene questa mentalità: per esempio, Pelavicino (‘tosa il vicino’), Guastavillani (‘rovina i contadini’), Maltolti (‘prende ingiustamente’). Anche se avevano ricchezze molto diseguali, signori e cavalieri appartenevano
tutti al ceto aristocratico.
Rapine e razzie
IX sec.
Manoscritto 412, f. 1v;
Biblioteca Municipale di
Valenciennes, Francia
1. Chi poteva entrare a far parte dell’élite guerriera? 2. Quali valori esprimeva lo stile di vita dei cavalieri?
Capitolo 21 L’età dei signori
321
7. Ingabbiare i contadini
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Una condizione comune: la soggezione al signore
L’aratura
1030
Miniatura dal De Universo
di Rabano Mauro; abbazia
di Montecassino
322
In questa nuova realtà, a perdere furono in primo luogo le comunità di contadini indipendenti. La protezione garantita a tutti gli uomini liberi dal sovrano andava svanendo, e
prima o poi quasi tutte queste comunità furono costrette ad accettare il
dominio di un signore. Questi poteva
essere un grosso proprietario dei dintorni, che aveva costruito un castello
sulla sua azienda e, ben protetto dalle
mura e spalleggiato dalla sua clientela di cavalieri, aveva costretto i contadini a rinunciare alla loro indipendenza, imponendo loro – proprio come un mafioso dei giorni nostri – la
sua protezione. In altri casi il signore
era comparso dall’interno stesso del
villaggio attraverso una lunga evoluzione: generazione dopo generazione
una famiglia di contadini aveva accumulato terre, era divenuta grande
proprietaria, era entrata nel seguito di
qualche potente e, alla fine, era riuscita a imporre il suo dominio sui vicini. Tutte le strade conducevano comunque allo stesso risultato: dopo il
1000 nell’Europa occidentale diviene
difficile trovare quei villaggi di piccoli proprietari contadini ancora diffusi in numerose regioni dell’impero
carolingio.
Sotto il dominio signorile, molti proprietari contadini furono obbligati a vendere, donare o comunque a cedere al signore la piena proprietà delle loro terre. Se volevano continuare a coltivarle, dovevano adesso pagare un canone di affitto. In ogni caso anche chi
restava proprietario era obbligato a pagare le imposte e gli altri contributi signorili. In
questa evoluzione, a guadagnarci furono soltanto i contadini di condizione non libera,
per la verità numerosi ormai solo in poche zone. Invece la situazione dei contadini liberi andava peggiorando. Adesso liberi e non liberi erano accumunati dalla soggezione al
signore, tanto che con il passare del tempo le antiche distinzioni fra liberi e non liberi erano state dimenticate, e tutti gli abitanti si erano fusi in un unico gruppo di sudditi del signore.
La condizione della popolazione rurale, nel complesso, subì un peggioramento. I contadini vennero come ingabbiati in un nuovo sistema che li sottoponeva a maggiori controlli
e li obbligava a pagare di più, a causa dei canoni di affitto e delle tasse vecchie e nuove
che i signori imponevano loro.
Parte IX Verso una nuova Europa
Chi se ne avvantaggiò?
Per far fronte alle richieste signorili furono dunque costretti a
lavorare più a lungo e in modo più
produttivo. Iniziarono ad adottare
nuove tecniche, come il sistema
della rotazione triennale, che
A
B
consentiva di ridurre il terreno lasciato a riposo per riacquistare la
fertilità consumata dalle semine,
aumentando così la superficie che
veniva coltivata ciascun anno. Fino ad allora, infatti, i contadini
semine autunnali
avevano lasciato il campo a riposemine primaverili
A 1° anno
so un intero anno, dopo avere preB 2° anno
C
levato il raccolto: ogni campo vecampo a riposo (maggese)
C 3° anno
niva dunque coltivato solo un anno su due. Con la rotazione triennale, invece, le terre erano coltivate due anni su tre, e due anni su tre ciascuno dei tre campi ospitava una coltura diversa,
permettendo al terzo di restare a riposo. Il contadino divideva infatti la sua terra in tre campi: nel primo, che era stato lasciato a riposo tutto l’anno precedente, seminava in autunno
i cereali migliori, come il grano e la segale, che richiedono il terreno più fertile; nel secondo, che l’anno precedente aveva ospitato il grano, seminava in primavera piselli, fave e altri legumi, che possono crescere anche su terreni di media fertilità, come appunto quelli che
La rotazione biennale
Disegno di A. Baldanzi
Pettine in avorio
IX sec.
Musée du Louvre,
Parigi
Questo prezioso
pettine in avorio è
decorato a rilievo
con una scena che
raffigura Sansone
mentre uccide un
leone.
Acquamanile in
cristallo
XI sec.
Musée du Louvre,
Parigi
Il possesso di
oggetti come
questo
acquamanile,
realizzato in
cristallo di rocca e
filigrana d’oro,
indicava in maniera
inequivocabile la
ricchezza e il lusso
raggiunto dal suo
proprietario.
Capitolo 21 L’età dei signori
323
l’anno precedente hanno dovuto dare le loro sostanze nutrienti al grano; il terzo campo, invece, che nei due anni precedenti aveva ospitato dapprima il grano e poi i legumi, esaurendo così la sua capacità di far crescere bene le piante, veniva lasciato riposare per ricreare
la fertilità del suolo.
Col crescere delle pretese dei signori, la vita dei contadini divenne più dura, ma per l’andamento complessivo dell’economia questo fu un bene. Secondo un meccanismo che abbiamo visto cominciare a funzionare in età carolingia, crebbero le entrate dei più ricchi, in
questo caso i signori laici e i cavalieri, e di conseguenza aumentò anche la loro domanda
di beni [cfr. cap. 20.9]. Nelle casse di questi potenti vi erano adesso più soldi da spendere
in prodotti di pregio e di lusso. L’artigianato specializzato e il commercio ne ebbero grande impulso, e a sua volta l’aumento del numero e della ricchezza di artigiani e mercanti stimolò nuove produzioni e nuovi commerci.
L’affermarsi della signoria e il peggioramento della situazione contadina aiutarono dunque l’economia europea ad accelerare quel processo di ripresa che era cominciato già nell’VIII secolo, ma che era proseguito a ritmi lentissimi. La svolta si nota intorno al 950. Il
numero dei villaggi inizia a moltiplicarsi, sintomo chiaro di un aumento della popolazione.
Nuovi campi vengono strappati ai boschi; le menzioni di mercati e mercanti divengono meno rare; nelle città si nota una vitalità economica ancora modesta, ma già promettente. Fu
su queste basi che, dopo il 1000, l’economia e la popolazione europee iniziarono a crescere a ritmi sostenuti e per un lungo periodo.
1. In che condizioni vivevano i piccoli proprietari terrieri sottoposti alle signorie? 2. Come funzionava la
rotazione triennale?
Le armi del debole
Di fronte allo strapotere del signore e dei suoi cavalieri, come potevano i contadini impedire alle tasse e alle altre richieste di aumentare senza fine? A volte in effetti non vi riuscirono; alcuni signori introdussero le tasse cosiddette ad arbitrio, per cui era loro
diritto insindacabile stabilire l’ammontare di una tassa e la sua frequenza. Di solito però ci accorgiamo che le pretese signorili venivano in qualche modo limitate dai sottoposti, che talvolta riuscivano anzi a ottenerne una diminuzione. Ma i mezzi concreti con
cui questo avveniva non vengono descritti dalle fonti a nostra disposizione, che rispecchiano tutte le opinioni dei signori. Quello
che sappiamo è che la resistenza contadina violenta, basata sulla
rivolta, era una strategia perdente. La vittoria poteva esser solo di
breve periodo. Magari i contadini inferociti riuscivano a uccidere
il signore e bruciarne il castello; ma subito scattava la solidarietà
degli altri signori, e non vi era scampo. Tutte le rivolte contadine
conosciute vennero represse nel sangue.
Questo è uno dei casi in cui l’antropologia viene in aiuto della storia. Qualche decennio fa un antropologo americano, James Scott,
andò a vivere alcuni anni in un remoto villaggio della Malesia dove i rapporti fra contadini e élite locale assomigliavano molto a
quelli fra contadini medievali e i loro signori. Scrisse un libro intitolato Le armi del debole, dove illustrava le tecniche di resistenza che anche contadini così duramente assoggettati erano in
324
Parte IX Verso una nuova Europa
grado di portare avanti. Il primo modo di resistere era fare appello a una concezione mentale comune nella Malesia come nel
mondo medievale: il valore legittimante della consuetudine, cioè
l’abitudine di considerare giustificato tutto ciò che già avveniva
nel passato, e solo quello. Un’imposizione nuova, non sancita
dalle antiche consuetudini, è illegittima, e può essere più facilmente contestata. Ma anche nei casi in cui fare appello alla consuetudine è impossibile, il malcontento contadino dispone di armi efficaci. I contadini non possono uscire allo scoperto, e contestare apertamente il signore; ma se sono d’accordo fra loro, e nessuno denuncia il compagno, i contadini insoddisfatti praticano
piccoli sabotaggi. Nottetempo qualcuno rompe il mulino del signore, o apre il cancello della sua stalla facendo scappare il bestiame; oppure, del tutto inaspettatamente, va a fuoco il fieno destinato ai cavalli dei cavalieri. Contro questo tipo di sorda resistenza ben poco possono il signore e i suoi collaboratori. Essi
dunque debbono tenere conto dei reali rapporti di forza, di quanto cioè riescono a far accettare, con le lusinghe e con la violenza,
ai loro sottoposti. Anche perché i contadini disperati hanno pur
sempre a loro disposizione la più elementare forma di ribellione:
fuggire di nascosto, rinunciando alla casa e ai campi, ma liberi di
cercare un villaggio con un signore meno oppressivo o, magari,
senza signori affatto!
8. Papato, chiese e monasteri
nell’età dei signori
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Chiese e monasteri nei domìni dei grandi signori
Se per un verso, come sappiamo, non mancarono in questo periodo signorie nate per iniziativa di vescovi o abati di grandi monasteri [cfr. par. 2], per l’altro, fra IX e X secolo, la
crisi di imperatori e re fece mancare il sostegno del potere statale alla Chiesa. I sovrani smisero di sorvegliare e stimolare la
preparazione culturale di vescovi e sacerdoti, che decadde molto. Ancora più grave si rivelò la
pressione sulle istituzioni ecclesiastiche da parte dei signori
grandi e piccoli. Essi ebbero anche un ruolo positivo, perché oltre a costruire castelli e fondare
villaggi fecero innalzare un gran
numero di nuove chiese, donando le terre necessarie a mantenere i sacerdoti che vi amministravano il culto. Tuttavia chiese e
terre restavano, in questo caso,
parte del loro patrimonio: erano
chiese private. I signori sceglievano liberamente i sacerdoti
e usavano il patrimonio della
chiesa come una loro proprietà,
decidendo come amministrare i
campi e, se ne avevano bisogno,
vendendoli come un loro bene
qualsiasi. In una situazione solo
leggermente migliore si trovavano molti piccoli monasteri,
fondati in gran numero dalle famiglie nobili, perché i fondatori
spesso mantenevano il diritto di
nominare l’abate e di intervenire nella vita monastica. Per scegliere sacerdoti e abati i signori
badavano soprattutto agli interessi della famiglia, e poco si curavano della preparazione culturale e del livello morale: ai
loro occhi era molto meglio che
nella chiesa della signoria predicasse un sacerdote rozzo e im-
Capitolo 21 L’età dei signori
Chiesa di Santa Maria
“foris portas”, esterno
IX sec.
Castelseprio, Varese
La fuga in Egitto,
affresco in Santa Maria
“foris portas”
IX sec.
Castelseprio, Varese
Le recenti ricerche
scientifiche che hanno
interessato la Chiesa di
Santa Maria “foris portas” a
Castelseprio hanno
permesso di datare alla metà
del IX secolo il complesso e
i magnifici affreschi che
decorano l’interno. Secondo
alcuni studiosi, a
commissionare l’opera fu il
conte Giovanni del Seprio,
figlio del conte di Milano.
325
morale, ma fedelissimo al signore e magari suo parente, piuttosto che un sacerdote ben preparato e desideroso di seguire solo la propria coscienza e gli ordini del vescovo.
Il papato in difficoltà
Abbazia dei Santi Pietro e
Paolo, Cluny
1115-1120
Cluny, Francia
Del più antico impianto
dell’abbazia di Cluny oggi
si conserva solo parte del
braccio meridionale con una
delle due grandi torri
campaniere gemelle.
L’intervento dei laici nelle istituzioni ecclesiastiche aveva effetti negativi anche nella
nomina dei vescovi e dello stesso papa. Spesso l’elezione dei vescovi veniva contesa fra le
principali famiglie nobili; altre volte era effettuata dal sovrano, che mirava a rafforzare la
sua influenza nella città inviandovi un vescovo pronto a ubbidire ai suoi ordini. Anche il
vescovo di Roma, il papa, si trovava in una situazione simile. L’antica capitale imperiale
si era enormemente ridotta e impoverita, e contava solo 20-25.000 abitanti; tuttavia la gravissima crisi che dopo la fine dell’impero romano aveva colpito anche tutte le altre città faceva sì che Roma restasse di gran lunga il centro più popoloso dell’Europa occidentale. L’aristocrazia romana, di conseguenza, era più numerosa e potente di quella delle altre città,
e le lotte per la nomina del vescovo ancora più intense. Si giunse anche a episodi sorprendenti, come quello del Natale 896, quando il nuovo papa fece disseppellire e processare il
cadavere del suo predecessore, Formoso, che era stato un suo acerrimo rivale.
A lungo il papato venne monopolizzato da membri della famiglia Crescenzi; alla fine del
X secolo gli imperatori, soprattutto Ottone III, riuscirono a imporre la nomina di alcuni papi
tedeschi, ma ben presto il trono papale tornò a essere conteso fra la nobiltà romana, e il suo
prestigio continuò a diminuire. L’intervento degli imperatori ebbe però
almeno un effetto duraturo: fino ad allora il papa eletto conservava, proprio
come qualsiasi vescovo, il suo nome
di battesimo; invece i papi tedeschi
imposti dagli imperatori scelsero di
“romanizzare” il loro nome per meglio farsi accettare dalla popolazione.
Abbandonarono dunque il loro nome
di battesimo, e assunsero il nome di
un papa del passato. Da allora l’adozione di un nuovo nome è divenuta
una consuetudine di tutti i papi.
Le scelte dei monaci di Cluny
La situazione di decadenza della
Chiesa suscitava insoddisfazione
soprattutto nei maggiori monasteri,
che raccoglievano quasi tutti gli intellettuali e gli uomini di cultura del
tempo. Comparvero gruppi di monaci decisi a riformare, cioè migliorare, la vita monastica. Il gruppo più
famoso fu quello di un monastero
francese, Cluny, fondato nel 910 in
Borgogna. I monaci cluniacensi curarono molto la preparazione cul-
326
Parte IX Verso una nuova Europa
turale e, soprattutto, il rigore morale e il
culto. La preghiera divenne una cerimonia solenne, collettiva, cantata e sfarzosa.
In un’Europa assediata dalla violenza e
che si ricopriva di fortezze, i monasteri
dovevano diventare fortezze della preghiera, al cui interno gli eserciti dei monaci, pregando giorno e notte, combattevano ininterrottamente la battaglia contro
il Male. Questo nuovo modo di interpretare il monachesimo ebbe subito grande
successo, e in tutta l’Europa nacquero
monasteri che si rifacevano a Cluny e si
sottomettevano al suo abate.
Di fronte a vescovi e sacerdoti poco
preparati e, spesso, più interessati alla gestione dei beni e alla vita politica che non
alle questioni religiose, i monaci cluniacensi si proponevano come i campioni del
vero cristianesimo. Propugnavano la castità più assoluta, e ritenevano sbagliato il
matrimonio dei preti, che in quel tempo
era una pratica comune e accettata dalle
gerarchie della Chiesa. La propaganda
monastica condannò anche il comportamento dei laici: ai principi e ai cavalieri, che governavano con la spada, i monaci ricordavano che chi si sporca le mani di sangue è destinato a bruciare nell’inferno. Solo chi rispettava i monaci e i loro consigli poteva sperare di salvarsi. L’influsso dei monaci crebbe
moltissimo, e nell’XI secolo contribuì in modo determinante a quel processo di complessiva riforma della Chiesa che studieremo il prossimo anno.
Un cavaliere disarcionato
precipita all’inferno
1130 ca.
Abbazia di Sainte-Foy,
Conques, Francia
1. Che rapporto legava i signori ai rappresentanti del clero? 2. Qual era la situazione della Chiesa di
Roma? 3. Quale forma di monachesimo proponevano i monaci cluniacensi?
9. Donne e potere
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Regine nel X secolo
Nella storia dei rapporti fra le donne medievali e il potere, il X secolo rappresenta un caso a parte. Prima di allora pochissime donne avevano avuto un’importanza politica; e comunque queste rare eccezioni furono costituite perlopiù da regine che erano potenti non in
prima persona, ma per l’influenza che esercitavano sul marito. La stessa cosa si può dire
per i secoli del tardo Medioevo. Il X secolo, invece, è ricco di regine e donne dell’aristocrazia che agivano autonomamente sulla scena politica.
Capitolo 21 L’età dei signori
327
Pornocrazia romana
[Liutprando di Cremona, Antapodosis, libro II, cap. 48; trad. a cura degli autori]
La
voce
PA
SSA
TO
del
A volte si pensa che il Medioevo sia stato l’età
dell’odio per le donne e per la sessualità, ma è una
delle tante esagerazioni relative a un’epoca che, in
realtà, non fu più misogina e sessuofobica di molte
altre. Tipico dell’età medievale è semmai il fatto che la
gran parte degli scritti giunti fino a noi furono prodotti
da intellettuali ecclesiastici e soprattutto da monaci,
cioè da un ambiente che in effetti nutriva la massima
ostilità contro il sesso e le donne. Le nostre
conoscenze di molti eventi politici del tempo
dipendono dunque da scrittori ossessionati dalla
visione del sesso come peccato e delle donne come
esseri tentatori, che con le loro arti di seduzione
portano gli uomini all’inferno.
Quest’ambiente attaccò con violenza il potere
raggiunto da alcune donne del X secolo. Per monaci e
alti ecclesiastici non vi erano dubbi: il successo
politico era dovuto solo al sesso. Era una tecnica di
denigrazione delle donne potenti già praticata tante
volte in passato, a partire dagli scritti su Messalina,
Poppea e altre donne delle famiglie imperiali prodotti
dagli storici romani favorevoli al senato. La cosa grave
è che gli storici moderni, anche loro maschi e sotto
sotto misogini, fino a qualche tempo fa hanno
creduto a tutte le falsità di questi denigratori.
Pensarono che davvero la vita politica romana del X
secolo fosse tutta determinata dalla facilità con cui
Teodora, Marozia e altre donne potenti usavano il
proprio corpo per guadagnare sostenitori, e
coniarono un termine specifico, “pornocrazia”, cioè
‘governo delle prostitute’, per designare il sistema
politico romano del tempo. Diedero così pieno
credito a racconti del tutto inverosimili come quello
qui riportato, scritto verso il 960 dal vescovo
Liutprando di Cremona per denigrare Roma e la sua
politica, del quale era un grande avversario.
Teodora, impudente puttana, nonna dell’Alberico che da
poco [954] è passato di vita, teneva la monarchia della città
di Roma con energia da uomo (cosa che è vergognosissima solo da dire). Ella ebbe due figlie, Marozia e Teodora,
non solo a lei pari, ma anche più pronte all’esercizio di Venere. Commettendo con papa Sergio III un orribile adulterio, Marozia generò Giovanni XI, che dopo la morte di papa Giovanni X occupò il trono pontificio. Dal marito Alberico di Spoleto ebbe Alberico da poco morto, che si appropriò
Parte IX Verso una nuova Europa
La Grande prostituta sulla bestia a sette teste
1000 ca.
Dal Codex Beatus, Archivio Capitolare, Seus d’Urgell,
Spagna
Gli autori cristiani utilizzarono spesso in chiave allegorica
la figura femminile per rappresentare il peccato, la
tentazione, il pericolo. In questa miniatura, tratta da uno
dei molti manoscritti dei Commentari dell’Apocalisse del
monaco Beatus di Liébana, ad assumere le sembianze di
donna è la città del male (la Babilonia dell’Apocalisse),
raffigurata nelle vesti della “Grande prostituta” a cavallo
di una creatura mostruosa e adornata di oro e pietre
preziose. La mano regge la coppa che contiene tutte le
nefandezze del mondo.
La Lussuria che danza
X sec.
Dalla Psicomachia, British Museum, Londra
Il disegno tracciato su questo manoscritto (una copia
illustrata della Psicomachia di Prudenzio, autore cristiano
del IV secolo) raffigura la danza della Lussuria e i
cavalieri che, per seguirla, hanno abbandonato le armi.
ingiustamente del principato della medesima città di Roma.
Quanto a Teodora, meretrice svergognata, essa conobbe
Giovanni, ministro della Chiesa di Bologna, e arse violentemente per la bellezza del suo aspetto, sì che non solo volle,
ma anche spinse più volte costui a fornicare con lei. [Fatto
nominare Giovanni arcivescovo di Ravenna,] Teodora, per
non godere troppo di rado degli amplessi del suo amante
a causa delle duecento miglia che separano Ravenna da
Roma, lo costrinse ad abbandonare l’arcivescovato e a
usurpare (oh, infamia!) il sommo pontificato romano [con
il titolo di papa Giovanni X].
Diploma di matrimonio
dell’imperatrice Teofano
972
Niedersächsisches
Staatsarchiv, Wolfenbüttel,
Germania
Il certificato di matrimonio
tra Ottone II e la
principessa greca Teofano
attesta, oltre alla lista dei
doni, che alla sposa fu
conferito il titolo di
imperatrice. Il certificato è
realizzato su pergamena con
caratteri d’oro su sfondo
porpora, colore riservato
agli imperatori, mentre la
cornice è decorata con una
teoria di animali stilizzati.
A volte questo era reso possibile dalle grandi donazioni matrimoniali che, soprattutto
in Italia, i sovrani elargivano alle loro spose. Per esempio quando nel 938 Adelaide, figlia
del re di Borgogna, andò sposa a Lotario II, re d’Italia, ricevette vaste proprietà sparse in
tutto il regno; e assieme a questi beni acquisì anche la fedeltà di molti nobili. La conseguenza fu che alla morte di Lotario II, nel 950, chiunque volesse divenire re d’Italia doveva in qualche modo controllare Adelaide. Si rivelò però impossibile imporle scelte estranee
ai suoi progetti. Appoggiata dalle sue vaste clientele, la vedova riuscì a resistere alle pressioni di vari pretendenti (uno addirittura la imprigionò in un castello, da cui Adelaide fuggì
con l’aiuto dei suoi seguaci). Come secondo marito scelse infine il più potente sovrano del
tempo, il re di Germania Ottone I: fu proprio grazie a questo matrimonio che Ottone divenne re anche del regno d’Italia e in seguito imperatore.
La forza delle relazioni
Nel X secolo, la presenza di donne potenti non è circoscritta alle famiglie reali, ma riguarda anche le signorie e altre realtà politiche. In questi casi, l’anomala potenza di alcune donne derivava dall’affermarsi di una politica svolta in prevalenza a livello locale, sulla base delle relazioni di clientela e di parentela. Va infatti osservato che in una monarchia
o un principato tutta una serie di norme rendono impossibile alle donne un esercizio diretto del potere. La Legge Salica [cfr. cap. 17.7], utilizzata da molti sovrani per stabilire i diritti ereditari, prevedeva per esempio che le donne potessero ereditare solo se erano morti
tutti i maschi della famiglia.
Capitolo 21 L’età dei signori
329
Le cose vanno diversamente in una signoria e nelle altre realtà dove la politica non è sottoposta a regole precise, ma si basa sulle relazioni di alleanza e parentela: in questi casi le
donne più intraprendenti hanno la possibilità di usare i propri beni, le proprie alleanze e le
proprie abilità sociali per crearsi un ampio gruppo di sostenitori.
A Roma, per esempio, nei primi decenni del X secolo spicca la figura di Marozia, figlia
del più influente aristocratico romano del tempo, Teofilatto, e della nobile Teodora. Sposata più volte con i massimi personaggi della politica italiana, fra cui lo stesso re Ugo di Provenza, Marozia dal 925 fino al 932 divenne la guida del principale partito politico di Roma
e infine assunse direttamente il dominio della città con il titolo di senatrice dei Romani.
Per spiegare questo potere, e per odio politico, gli avversari dissero che era l’amante di papa Sergio III, la madre di papa Giovanni XI, nonché la mandante dell’assassinio di papa
Giovanni X ordinato allo scopo di ottenere l’elezione al papato del suo nuovo amante, Leone VI. Marozia infine fu allontanata dal potere da un suo stesso figlio, Alberico, che valendosi anche delle relazioni di clientela messe in piedi dalla madre governò Roma e controllò il papato fino alla morte, nel 954.
1. In che modo le donazioni matrimoniali potevano accrescere il potere delle donne aristocratiche?
2. Da che cosa derivava la potenza di alcune donne aristocratiche?
Architettura islamica a
Saragozza, Spagna
IX sec.
10. Alla periferia dell’Europa
I S T I T U Z I O N I , S O C I E T A , C U LT U R E
Spagna e Inghilterra
In età carolingia, il cuore d’Europa aveva definitivamente smesso di
coincidere con il Mediterraneo e si era spostato più a nord, nelle zone delle odierne Francia e Germania, oltre che nell’Italia centro-settentrionale.
In questo capitolo fino ad ora abbiamo parlato soprattutto di queste regioni. Ma cosa accadeva nelle altre parti del continente?
Nella Spagna centrale e meridionale fioriva una civiltà avanzata, quella dell’emirato musulmano di Cordova, che proprio nel X secolo toccava il suo apogeo. Lo sviluppo delle produzioni artigianali, delle tecniche agricole, dei sistemi amministrativi e della cultura era qui incomparabilmente superiore a quello di qualsiasi altra regione europea. Passeranno ancora secoli prima che l’Occidente cristiano raggiunga uno sviluppo analogo.
Sempre in Spagna, alcuni piccoli Stati cristiani governavano i territori risparmiati dall’occupazione araba. La Catalogna settentrionale, dopo il dominio di Carlo Magno, era passata sotto il governo di una dinastia
locale di conti; in Navarra e Asturie v’erano due regni. Alla fine del IX secolo iniziò un lentissimo processo di espansione dei territori cristiani. Nel
secolo successivo i conti di Catalogna attaccarono a più riprese l’emirato
di Cordova; il re delle Asturie divenne anche re di Leon e conquistò la
contea di Castiglia. Dopo il 1000 proprio la Castiglia fu il centro del reame e il fulcro del processo di riconquista cristiana della penisola iberica.
Parte IX Verso una nuova Europa
In Inghilterra fra IX e X secolo il principale problema
furono gli attacchi vichinghi provenienti dalla Danimarca. La resistenza venne portata avanti con successo da re
Alfredo il Grande, morto nell’899, e dai suoi successori,
che riuscirono a cacciare i Danesi e dotarono l’isola di un
fitto reticolo di castelli e di una buona flotta. In questo modo i re anglosassoni tennero a bada i Danesi per tutto il X
secolo.
Europa settentrionale e orientale
In Danimarca e nella penisola scandinava la società vichinga andava nel frattempo cambiando. Il cambiamento
era dovuto, in primo luogo, al moltiplicarsi degli attacchi
mossi all’Europa cristiana. Le cause che spinsero a questi
attacchi vanno cercate all’interno del mondo vichingo. All’inizio del IX secolo l’introduzione delle vele e di solidi
scafi aveva permesso alle navi di affrontare il mare aperto. I mercanti vichinghi che così raggiungevano porti lontani si resero conto che spesso le difese erano deboli ed era
possibile prendere con la forza i beni, anziché acquistarli.
Le scorrerie divennero una moda. Prima di mettersi a fare i contadini nelle fattorie dei loro padri, i giovani scandinavi ansiosi di gloria e di bottino vi dedicavano alcuni
anni. Altri vichinghi, poi, decidevano di imbarcarsi e andare a combattere lontano perché non accettavano i cambiamenti che stavano avvenendo in patria: la società scandinava diveniva più diseguale, nasceva l’aristocrazia e si
andavano formando alcuni regni, come quelli di Danimarca e Norvegia. Intorno al 965, i loro re divennero cristiani e cercarono di convertire al cristianesimo anche i
sudditi.
Stati e aristocrazia andavano nascendo anche nell’Europa orientale. Nella pianure della Russia alla fine del IX
secolo gruppi di mercanti vichinghi e di popolazioni slave indigene crearono un regno che aveva come capitale
Kiev. Anche il mondo degli Slavi che vivevano più ad occidente si trasformava: alle piccole tribù senza grandi differenze interne si andavano sostituendo società più estese,
dove nascevano gruppi aristocratici agiati e, presto, anche
i primi semplici Stati. I più importanti furono i regni di Polonia e Boemia.
La nave di Oseberg
fine VIII sec.
Universitetets Oldsaksamling, Oslo, Norvegia
La nave scoperta nel tumulo di Oseberg è un esempio della tipica nave
vichinga, veloce e potente. Le sue dimensioni ridotte (circa 21 metri) la
fanno ritenere più un’imbarcazione per brevi spostamenti che una vera e
propria nave da guerra, le cui dimensioni sfioravano i trenta metri.
Il rostro a forma di drago della nave di Oseberg
fine VIII sec.
Universitetets Oldsaksamling, Oslo, Norvegia
1. Qual era la situazione politica in Spagna tra X e XI secolo?
2. Quali cambiamenti caratterizzarono il mondo scandinavo e
l’Europa orientale?
Capitolo 21 L’età dei signori
331
La scoperta dell’America
Fra le imprese dei Vichinghi vi sono anche la colonizzazione di una
remota regione d
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