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DOROTHY

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DOROTHY
7 Settembre.
Mi accorgo di quel corpo sottile che ha oscurato lo spillo di luce tra porta e stipite. Una parte
di me muore, l’altra risorge a nuova vita. La scossa mi porta indietro, una manciata di anni
fa…
Mia moglie aveva un sorriso.
Un sorriso che riempiva e colorava la mia vita sbiadita.
Un sorriso in cui credetti di scorgere frammenti di eternità.
Un moto spensierato che si sprigionava spontaneo dalle sue labbra. E che, maledico il fato, si
esaurì nel momento più importante.
La sua luce adamantina fu divorata dal nulla la notte in cui il piccolo Vincenzo venne
presentato al mondo.
Il mio Vincenzino.
E io, sconvolto ed estasiato, riversai tutto il mio amore di marito su quel prezioso miracolo che
aveva gli occhi turchese della mia amata.
Ma non bastò.
Senza figura materna e con una casa troppo grande per essere scaldata dalle mie lunghe
assenze, Vincenzino crebbe insicuro, accompagnato, fin da subito, da un carico di paure che
si fecero spazio, penetrando come acciaio nel burro e dominando il suo fragile carattere.
Nel mazzo composto dalle sue tante fobie, una in particolare aveva preso il sopravvento sulle
altre: quella per i ragni.
Solo a sentirne parlare si irrigidiva, diventando duro come il piombo e bianco come il gesso.
Aracnofobia la chiamava il dottore.
Feci quello che potei: La nostra casa era un enorme specchio, lucida e profumata in ogni
angolo; zanzariere di diverse misure erano collocate su qualunque tipo di apertura che
permetteva di accedere al mondo esterno; il mio grazioso giardino divenne una lingua di
cemento sterile; e le grandi stanze, arredate in un confuso melange vittoriano, vennero
puntualmente saturate da enormi quantità di insetticida.
Vincenzino maturò lento, mentre io tentavo di costruire un castello compatto e invalicabile
attorno alle sue debolezze.
Feci quello che potei.
Feci quello che potei, finché non caddi in quel dannato fosso.
L’incidente avvenne durante una passeggiata in alta montagna. Persi conoscenza e mi
ritrovai in un letto d’ospedale. I dottori mi dissero che non avevo subito nessuna lesione
grave, a parte qualche escoriazione e una leggera commozione cerebrale. Tornai a casa
dopo un paio di giorni e… iniziarono i dolori alla schiena.
All’inizio fu solo una piccola fitta che si presentava sporadicamente. Normale, pensai, ero
caduto da più di tre metri e mi era andata fin troppo bene; poi il dolore cominciò a presentarsi
sempre più spesso e con intensità via via crescente. Finché un giorno, logorato dal dolore
continuo intorno alle scapole, picchiai mio figlio. Fu la prima volta che accadde e i motivi non
li ricordo neppure più.
Mi trascinai così, un cencio umano, per settimane; finché una mattina, dopo una notte di
tremori e spasmi infernali, durante i quali meditai anche di togliermi la vita, i dolori cessarono
di colpo. Cancellati dalla luce del sole che, penetrando sottile e insistente nella mia stanza, mi
carezzò il viso smagrito e madido di sudore.
Era il 4 aprile.
E fu un giorno meraviglioso, benedetto dal Signore, perché in quella stessa giornata conobbi
anche Dorothy. La mia fonte di gioia, la mia tenera dispensatrice di piacere.
Ero pronto per amare ancora.
Un nuovo benessere e un nuovo inizio.
Io, Dorothy e Vincenzino.
Ma le cose mutano, la macchina, purtroppo, non si ferma.
Ci sono momenti in cui ci piacerebbe fermare la giostra, congelare l’istante, rimanere attaccati
per l’eternità al capezzolo dell’attimo gioioso.
Ma la ruota del destino è indipendente da volontà e desiderio. Lei gira gira gira e se ne frega.
Punto e a capo.
Dorothy.
All’inizio tollerò lo strano comportamento di Vincenzino. Ma l’equilibrio durò poco. Pian piano
la sua pazienza si corrose. Cominciò con l’eliminare tutte le zanzariere presenti nella nostra
grande casa, con grande disappunto e tremito del mio ragazzo.
Le ragnatele si ripresentarono ad arredare con dolce eleganza gli angoli alti delle pareti e
Vincenzino cominciò a muoversi per la casa indossando occhi spaventati e una felpa con il
cappuccio sempre alzato.
Io e Dorothy litigavamo spesso a causa di mio figlio. E lei, inoltre, cominciò a esprimere il
desiderio forte di avere una figlia.
Un po’ per volta, tutto ciò che risultava letale agli insetti scomparve dalla casa. Dorothy mi
impedì di comprare altro. E Vincenzino si abituò a portare sempre con sé uno
scacciamosche; comprato con i suoi pochi risparmi e che non avrebbe, comunque, mai avuto
il coraggio di usare.
I primi ragni riapparvero in fretta.
Una mattina, Vincenzino, dopo aver bevuto un sorso del suo latte, spezzò la sua brioche: e
dall’interno della pasta gialla ne schizzò fuori uno piccolo che zampettò veloce lungo la
tavola. Vincenzino si ritrasse rabbrividendo e dopo pochi secondi vomitò quel poco che aveva
in corpo.
Era stata Dorothy. L’avrebbe guarito, mi disse.
Da quel giorno, mio figlio non toccò più alimenti provenienti dalla cucina. Solo cibo
confezionato.
Cominciò a uscire raramente dalla sua stanza. E sempre più spesso, la mattina, scopriva che
le sue tasche, le maniche, l’interno dei suoi capi erano diventati tane per ragni da terra.
Sempre un’idea di Dorothy.
Mio figlio buttò mezzo guardaroba dalla finestra e prese l’abitudine di chiudere a chiave la
stanza.
Feci la mia parte anch’io.
Gradualmente mi convinsi che la strada intrapresa da Dorothy era quella corretta. Era
necessario ricercare armonia per ottenere una famiglia unita.
Così una sera, decisi di dare un’accelerata al nostro delicato processo di comunione.
Mi presentai nel cuore della notte, di fronte alla sua stanza, con il mio carico faticosamente
recuperato. Entrai con delicata accortezza e mi affiancai al suo letto. Rimasi immobile,
osservando per qualche minuto la sua testolina bionda muoversi senza trovare pace, scossa
da chissà quali visioni notturne.
A un certo punto, si accorse di me. Si accorse del rumore: la sinfonia lieve che proveniva dal
secchio sorretto saldamente dalla mano destra. E aprì i suoi piccoli occhi.
— No Papa, ti prego — disse tremando e aggrappandosi con forza alle lenzuola.
— Devi imparare a non avere paura — gli dissi con affetto. — Fai vedere a Dorothy quanto
sei uomo — conclusi deciso; e poi versai il secchio satollo di ragni e ragnetti, un oceano di
forme e colori, cospargendo di vita tutta la parte superiore del letto.
Il suo corpo si trasformò in sasso, gli occhi bagnati si strinsero con forza, e dalla bocca,
serrata in maniera disperata, uscì un mugolio acuto.
Mentre uscivo dalla stanza, vidi l’enorme sforzo impiegato da mio figlio per tirare le lenzuola
fino a coprirsi il viso, e l’onda caotica e danzante degli aracnidi propagarsi sulla superficie del
suo corpo legnoso celato dal sudario bianco.
Ero orgoglioso. Vincenzino stava crescendo.
Chiusi la porta.
Una figlia, insistette Dorothy, approfittando del mio stato di letizia.
Vincenzino perse il sonno e insieme a esso l’uso della parola.
Nei giorni successivi tentò di fuggire da casa due volte. Tenni tutte le chiavi per me.
Perse la scuola, certo, ma in casa stava imparando finalmente a vivere.
Furono due mesi duri, ma il nostro atteggiamento severo era necessario.
Necessario, sì.
Allo stesso modo di quello che accadrà questa sera. Esco dai miei ricordi e mi concentro sul
presente...
7 Settembre.
Mi accorgo di quel corpo sottile che ha oscurato lo spillo di luce tra porta e stipite. Una parte
di me muore, l’altra risorge a nuova vita. La scossa mi porta indietro, una manciata di anni
fa…
Eccomi.
Da quando ho incontrato Dorothy sono passati all’incirca cinque mesi.
Tanto? Poco?
Un periodo breve, se consideriamo la vita media di un uomo; un tempo che sento smisurato
invece, se faccio un confronto tra l’anima che indosso oggi e quella più leggera che mi
apparteneva fino al 4 aprile.
Forse ad attrarlo è stato il mio discutere concitato con Dorothy. Non lo so, ma non importa.
So solo che sta origliando dietro la porta della mia camera da letto, e un figlio sostenuto da un
po’ di rispetto non deve farlo.
Spalanco l’ingresso, lo afferro e lo spingo dentro.
Rimane pietrificato, scosso da piccole convulsioni. Fili luminosi e argentati ricoprono ogni
cosa, e negli angoli grossi bozzoli nerastri; pieni, gonfi di ragni, zampe, ragni e ancora zampe.
Tutto intorno frammenti d’insetti e corpi interi: libellule, mosche e formiche invischiate e
paralizzate in attesa della merenda.
Voglio una figlia, bisbiglia con insistenza Dorothy.
Mi convinco. Contemporaneamente matura l’idea che Vincenzino abbia bisogno di una
punizione seria.
Utile e dilettevole copulano e mi costringono ad agire.
Blocco mio figlio pancia a terra; mi tolgo la vestaglia da notte e rimango a petto nudo.
Afferro un oggetto che battezzo strumento di redenzione.
Sferro un colpo deciso che gli trapassa la pelle morbida. Apro la sua schiena come un
barattolo di latta, usando il punteruolo d’acciaio come apriscatole.
Vincenzino riacquista la sua voce e urla.
Le prime ondate di lacrime e grida sono il giusto tributo al dolore fisico.
Il resto dei suoi strilli, concentrati nel tempo di un respiro, e il vomito improvviso ed elettrico
che innaffia il pavimento sudicio sono il risultato, invece, dell’immagine catturata dalle sue
iridi.
La vede.
Mentre è schiacciato a terra, i suoi occhi vedono Dorothy uscire dal buco di midollo posto
dietro il mio dorso, la vedono allargare le lunghe braccia pelose e depositare un uovo
molliccio nell’incavo sanguinolento che è diventata la sua piccola schiena.
C’è bisogno di un nuovo equilibrio, mi ribadisco. Diverrà una bella famigliola, la nostra.
La gioia attraversa il mio corpo, una scarica bollente e improvvisa.
— Sorridi Vincenzino — gli dico felice, — presto avrai una sorellina.
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