Questo libro fornisce informazioni accurate e competenti sull’argomento trattato. Con la sua vendita né l’editore né l’autore sono tenuti a rendere servizi psicologici o di altra natura professionale. Se fosse necessaria un’assistenza, è consiliabile rivolgersi a un esperto. Titolo originale: Resilient. How to Grow an Unshakable Core of Calm, Strength and Happiness © 2018 by Rick Hanson and Forrest Hanson This translation published by arrangement with Harmony Books, an imprint of the Crown Publishing Group, a division of Penguin Random House LLC Tutti i diritti sono riservati. Traduzione di Elena Cantoni per Studio editoriale Littera, Rescaldina (MI) Grafica di copertina: Silvia Virgillo • puntuale www.giunti.it © 2018 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165, 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4, 20123 Milano – Italia ISBN 9788809882751 Prima edizione digitale: dicembre 2018 Sommario Introduzione Prima parte ~ COMPRENSIONE Compassione Mindfulness Apprendimento Seconda parte ~ RISORSE Grinta Gratitudine Sicurezza Terza parte ~ REGOLAZIONE Calma Motivazione Intimità Quarta parte ~ RAPPORTI Coraggio Aspirazioni Generosità Ringraziamenti Bibliografia Ai nostri genitori Ho aderito al movimento del potenziale umano negli anni Settanta, e oggi lavoro come psicologo clinico, con una formazione professionale nelle tecniche di mindfulness e un aggiornamento costante sugli sviluppi delle neuroscienze. Questo libro riassume ciò che ho imparato su come aiutare le persone a guarire dal passato, affrontare il presente e costruirsi un futuro migliore. La psicologia e la medicina insegnano che il nostro cammino nella vita dipende da tre fattori cruciali: come gestiamo le sfide, proteggiamo le nostre vulnerabilità e potenziamo le nostre risorse. Questi fattori si localizzano in tre sedi diverse: il mondo, il corpo, la mente. Combinando fattori e sedi, si hanno nove metodi per migliorare la vita. Ciascuno ha la sua importanza, ma il potenziamento delle risorse mentali incide in modo unico sulla nostra vita. È l’ambito che offre le opportunità maggiori, perché in genere possiamo esercitare più influenza sulla nostra mente che sul nostro corpo o sul mondo. E il suo impatto è ineguagliato, perché la mente ci segue ovunque andiamo. Non sempre possiamo contare sul mondo o sulle altre persone, a volte nemmeno sul nostro corpo. Ma è sempre possibile contare sui duraturi punti di forza programmati nel nostro sistema nervoso, e questo libro vi insegnerà a coltivarli. Le risorse mentali come la determinazione, l’autostima e la bontà ci rendono resilienti, cioè capaci di affrontare le avversità e di superare gli ostacoli nel perseguimento delle opportunità. La resilienza ci aiuta a guarire dai lutti e dai traumi, ma non solo. Favorisce anche l’appagamento, un senso profondo di felicità, amore e pace. E il sistema si alimenta da sé: interiorizzando le esperienze di appagamento potenziamo le nostre risorse interiori, diventando sempre più resilienti. L’appagamento e la resilienza si rafforzano a vicenda in un circolo virtuoso. La chiave per trasformare le esperienze effimere in risorse interiori durature è già custodita dentro il vostro cervello. È la neuroplasticità positiva, e io vi insegnerò a sfruttarla per coltivare un benessere resiliente. CAMBIARE IL CERVELLO Cambiare la mente in meglio significa migliorare il cervello. Il nostro cervello si riplasma di continuo in funzione delle esperienze. Ogni volta che stimoliamo un suo «circuito», lo rafforziamo. Si impara a diventare più calmi e comprensivi così come si apprende qualsiasi altra cosa: con l’esercizio costante. Le risorse mentali si sviluppano in due fasi. In primo luogo bisogna sperimentare in modo diretto ciò che vogliamo coltivare, per esempio la riconoscenza, la sensazione di essere amati o la sicurezza di sé. Il secondo passo – secondo in ordine cronologico, non per importanza – consiste nel convertire quell’esperienza transitoria in un cambiamento definitivo del sistema nervoso. Senza un mutamento permanente non può esserci guarigione, crescita o apprendimento. Non basta avere accesso a esperienze utili e gratificanti. È questo il principale punto debole di buona parte della psicologia positiva, dei corsi di formazione, del life coaching e della psicoterapia: le persone fanno esperienze benefiche, ma la maggior parte di queste scivola via, senza radicarsi nel cervello. Con un piccolissimo sforzo, invece, possiamo far sì che lascino tracce durature, e in questo libro troverete molti sistemi efficaci per riuscirci, anche nel flusso ordinario della vita quotidiana. Potrà sembrare complicato, ma in realtà il concetto è semplice e intuitivo. Il funzionamento stesso del cervello – i cui neuroni si attivano regolarmente da cinque a cinquanta volte al secondo – permette di coltivare resilienza e appagamento un numero incalcolabile di volte ogni giorno. È questione di un minuto, ma serve costanza. Bisogna allenare il cervello come un muscolo, accumulando molti piccoli sforzi nel corso del tempo. Potete contare sui risultati perché ve li sarete meritati. PERCORRERE IL SENTIERO È un cliché, ma non significa che non sia vero: la vita è un viaggio. Nel corso del nostro lungo cammino avremo bisogno di viveri e di equipaggiamenti, e in queste pagine ho raccolto tutti i migliori di cui sia a conoscenza. Scoprirete come coltivare e come mettere a frutto queste risorse interiori, adattandole alle vostre esigenze personali. E una volta arricchita la vostra scorta di risorse, sarete in grado di contribuire meglio anche all’appagamento degli altri. Tutti abbiamo delle esigenze. Se restano insoddisfatte, è naturale sentirsi stressati, preoccupati, frustrati e feriti, e vivere in modo meno gratificante. Potenziando la vostra resilienza imparerete a soddisfare le vostre esigenze a fronte delle sfide della vita, e di conseguenza sperimenterete una felicità più duratura. Ogni essere umano ha tre bisogni fondamentali – sicurezza, gratificazione e socialità – radicati nella nostra antica storia evolutiva. Certo, il nostro habitat è cambiato moltissimo negli ultimi duecentomila anni, ma il nostro cervello è rimasto sostanzialmente lo stesso. L’apparato neurale che ha permesso ai nostri antenati di rispondere al proprio bisogno di sicurezza trovando un riparo, al bisogno di gratificazione procacciandosi il cibo e di socialità forgiando legami con gli altri esseri umani è lo stesso del nostro cervello odierno. Esistono quattro sistemi essenziali per soddisfare le nostre esigenze: la comprensione della realtà, l’acquisizione di risorse, la regolazione di pensieri, emozioni e comportamenti, e l’instaurazione di rapporti efficaci con gli altri e con il mondo esterno. L’applicazione di questi quattro sistemi ai nostri tre bisogni primari ci permette di individuare i dodici punti di forza interiori che affronteremo nei capitoli di questo libro: Comprensione Risorse Regolazione Rapporti Sicurezza Compassione Grinta Calma Coraggio Gratificazione Mindfulness Gratitudine Motivazione Aspirazioni Socialità Apprendimento Sicurezza Intimità Generosità Potete sviluppare queste risorse psicologiche passo dopo passo, proprio come si fa quando si percorre un sentiero. Il cammino comincia dalla compassione – verso se stessi, in primo luogo, perché è essenziale partire dal riconoscimento dei propri bisogni profondi e dalla volontà di soddisfarli – e si conclude con la generosità, perché coltivando il bene dentro di voi avrete di più da dare anche agli altri. A mano a mano che potenziate questi punti di forza e acquisite resilienza, vi sentirete meno ansiosi e irritabili, meno delusi e frustrati, e guarirete sempre più dall’isolamento, dalla tristezza, dal rancore. E affronterete gli assalti della vita con pace, tranquillità e amore radicati nel profondo del vostro essere. COME USARE QUESTO LIBRO In questo libro esploreremo gli aspetti concreti – il come – dell’esperienza, dello sviluppo e del buon uso delle risorse mentali indispensabili per un benessere resiliente. Troverete idee utili sul cervello, metodi pratici, strumenti per potenziare punti di forza specifici, consigli per la vita quotidiana ed esempi tratti dal mio vissuto personale. Ciascuno di noi ha necessità proprie, perciò ho cercato di offrirvi un assortimento di soluzioni più ampio possibile, affinché possiate scegliere da soli quelle che funzionano meglio nel vostro caso individuale. Potete usare il libro in diversi modi. Per esempio potete affrontare un capitolo al mese, per un anno intero di crescita personale. Oppure iniziare da un’esigenza particolarmente significativa per voi – la sicurezza, poniamo – e concentrarvi sui capitoli che la trattano. I dodici punti di forza si sostengono in modo reciproco come i nodi di una rete. Se trovate che alcuni vi riguardano in modo particolare siete liberissimi di cominciare la lettura da quelli. I principi e le tecniche esposti nel capitolo dedicato alla mindfulness e in quello sull’apprendimento sono le colonne portanti su cui si basa anche tutto il resto. Quando il libro propone un esercizio, potete sperimentarlo durante la lettura, oppure leggerlo ad alta voce, registrarlo, e poi riascoltarlo come fosse una sorta di meditazione guidata. Questo volume non sostituisce la psicoterapia e non si propone come trattamento per alcun disturbo. Tuttavia già solo il fatto di arrivare al cuore dei problemi può contribuire a risolverli. Siate pazienti con voi stessi, soprattutto quando affrontate gli esercizi pratici. E adattate sempre il mio approccio alle vostre esigenze personali. Si possono trarre informazioni preziose da molte fonti diverse, comprese la scienza, la psicologia clinica e la meditazione. Il terreno da coprire era già molto vasto, perciò ho semplificato il più possibile le spiegazioni di ambito neurologico, ho evitato di trattare terapie o metodi di formazione specifici e non ho nemmeno tentato di riassumere l’enorme letteratura accademica sulla resilienza, l’appagamento o i tanti temi correlati. Per chi desidera approfondire ho aggiunto una sezione bibliografica, e vi invito anche a consultare le slide, gli articoli e il molto materiale disponibile gratuitamente al sito www.rickhanson.net. Sul fronte della meditazione la tradizione che conosco meglio è quella buddista, perciò ne ho tratto alcune idee e metodi. Questo libro si basa sul mio programma esperienziale online, Foundations of Well-Being (www.thefoundationsofwellbeing.com), ma non ne segue la struttura in modo puntuale. Per chiarezza, il libro è scritto in prima persona, nella voce di Rick Hanson. Tuttavia i pensieri e le parole di Forrest sono presenti in ogni pagina. Il suo contributo in termini di intuizioni e chiarimenti è stato inestimabile, e per me è stato un onore e un piacere collaborare con mio figlio. Perciò in realtà questo è un progetto a quattro mani. Insieme, io e Forrest abbiamo cercato di offrirvi un libro utile, efficace e sincero. Buona lettura! COMPASSIONE Se io non sono per me, chi è per me? E se non ora, quando? RABBI HILLEL Una delle esperienze più importanti della mia vita mi è capitata a sei anni. La mia famiglia viveva nell’Illinois, in una casa circondata dai campi di mais. Una sera sono uscito e sono rimasto a lungo a guardare i rivoli d’acqua raccolti nei solchi dei trattori e la mia casa. Ero triste e abbacchiato per la rabbia che vi albergava. Sulle colline vedevo brillare le luci di altre abitazioni, in cui forse vivevano famiglie più felici della mia. Oggi che sono adulto so che in realtà i miei genitori erano brave persone, che mi volevano bene e che da tanti punti di vista la mia è stata un’infanzia privilegiata. Mio padre faceva un lavoro faticoso e mia madre era sempre indaffarata ad accudire me e mia sorella. Non ricordo di preciso quale evento domestico avesse causato il mio stato d’animo, quella sera; con ogni probabilità si era trattato di un normale litigio. Ma conservo un ricordo nitidissimo della sensazione che ho provato: un senso di cura per me stesso. Ero infelice e, per la prima volta, mi sono reso conto che le mie emozioni avevano importanza, e che mi serviva aiuto per sentirmi meglio. Molti anni dopo ho scoperto il nome di quel sentimento. Si chiama compassione, e consiste nel riconoscimento di una sofferenza – nostra o altrui – accompagnato dal desiderio di alleviarla. Ricordo distintamente di aver capito che sarebbe dipeso da me superare il disagio e passare oltre, per approdare ad altre luci, nuove persone, una maggiore felicità. Amavo i miei genitori e non provavo rancore per nessuno. Ma ero per me. E presi la decisione – allora con la comprensione di un bambino, in seguito da adulto – di condurre la vita migliore possibile. Il mio cammino personale verso l’appagamento, quindi, è cominciato con la compassione, ma si tratta di un’esperienza quasi universale. La compassione verso se stessi è fondamentale, perché se ignoriamo il nostro disagio e non proviamo il desiderio di risolverlo non è facile compiere lo sforzo necessario per diventare più felici e resilienti. La compassione è sia un’emozione sia uno stimolo all’azione. La ricerca sperimentale dimostra che, quando la proviamo, nel cervello si attivano le aree preposte alla pianificazione – cioè ci prepariamo ad agire. La compassione è una risorsa psicologica, un punto di forza interiore. In questo capitolo impareremo a coltivarla e metterla a frutto per noi stessi, mentre nei prossimi scopriremo come offrirla agli altri. ESSERE PER SE STESSI Le persone danno il meglio di sé quando si sentono trattate con rispetto e affetto. Funziona anche quando trattiamo bene noi stessi. Quasi tutti siamo buoni amici del prossimo. Ci facciamo carico del suo dolore, vediamo i suoi lati migliori, ci impegniamo a comportarci in modo leale e generoso nei suoi confronti. E con noi stessi, invece? Spesso siamo i nostri peggiori nemici: critici severi, pieni di dubbi e di incertezze, più distruttivi che costruttivi. Immaginate di trattarvi come fareste con un amico. Di riservare a voi stessi il medesimo atteggiamento incoraggiante, affettuoso e comprensivo; di aiutarvi a guarire e a crescere. Come sarebbe la vostra vita se poteste sempre contare su un alleato simile? Se foste meno critici e apprezzaste di più le vostre buone intenzioni e il vostro buon cuore? PERCHÉ È UN BENE ESSERE BUONI CON NOI STESSI Essere buoni con se stessi aiuta a capire le ragioni per le quali è giusto e importante essere nostri alleati. Altrimenti rischiamo di ricadere in convinzioni come queste: «È da egoisti pensare ai miei bisogni», «Non merito di essere amato», «In fondo sono una brutta persona», «Se sogno troppo in grande farò fiasco». Il principio fondante di tutte le morali insegna a trattare il prossimo con rispetto e compassione. Ebbene, il «prossimo» comprende anche voi. La regola aurea è una strada a doppio senso: dovremmo concedere a noi stessi ciò che accordiamo al prossimo. Una seconda regola insegna che più abbiamo potere su qualcuno, più è nostro dovere trattarlo con la massima cura. Un chirurgo, per esempio, esercita un potere enorme sui suoi pazienti, di conseguenza ha la responsabilità di assisterli al meglio delle sue possibilità. Ora, chi è la persona sulla quale esercitate la massima influenza? Voi stessi, sia in questo preciso istante sia in futuro – la persona che sarete tra un minuto, tra una settimana o tra un anno. Se vi assumeste la responsabilità di avere cura e comprensione per voi stessi, come cambierebbe il vostro modo di trattarvi e di vivere ogni giorno? Inoltre, trattarsi bene aiuta anche gli altri. Più le persone si sentono appagate, più diventano pazienti, collaborative e premurose. Immaginate quanto potreste rendervi utili al prossimo se foste meno stressati, preoccupati e suscettibili, e più sereni, realizzati e comunicativi. Esistono alcuni sistemi pratici per interiorizzare l’importanza di trattare noi stessi con rispetto e compassione. Per esempio, potete esprimerla scrivendo qualche semplice frase – «Io sto dalla mia parte», «Mi impegno a essere mio alleato», «Anch’io conto» – da leggere ad alta voce o da tenere sempre sotto gli occhi. Potete visualizzare di spiegare a qualcuno la vostra decisione di prendervi cura di voi stessi. Oppure immaginare un amico, un mentore, o persino una fatina buona che vi convince a stare dalla vostra parte. IL SENTIMENTO DI CURA PER NOI STESSI Quando, nel 1969, lasciai l’Illinois per frequentare l’università a Los Angeles, ero una persona iper-razionale e molto chiusa. Era una strategia per proteggermi dalla tristezza, dalle delusioni o dall’ansia, ma il tentativo di evitare emozioni negative mi aveva reso incapace di provare alcunché. Dovevo tornare in contatto con me stesso per guarire e crescere. Negli anni Settanta in California era esploso il movimento del potenziale umano e, a dispetto di alcuni dei suoi lati bizzarri (i gruppi di autocoscienza, la pratica dell’urlo primordiale, i collettivi in cui ciascuno metteva a nudo la propria anima a richiesta…), io mi ci buttai a capofitto. Poco alla volta imparai a sintonizzarmi con le mie emozioni e con le sensazioni del mio corpo. Soprattutto cominciai a essermi amico: a prestarmi attenzione, a trattarmi con affetto e sostegno invece di guardarmi con freddezza e giudicarmi in modo critico. Il nuovo atteggiamento mi faceva stare meglio, perciò ho continuato. Quando mi concentravo sulle esperienze positive, avevo l’impressione di allenare un muscolo che ogni volta diventava più forte. La costanza nell’esercizio, gli incoraggiamenti e la comprensione che riservavo a me stesso tramutarono quel nuovo atteggiamento in una predisposizione naturale. Molti anni dopo, come psicologo, ho capito come funzionavano quei miei sforzi intuitivi. Concentrarsi e immergersi nell’esperienza di una risorsa interiore – per esempio la sensazione di essersi amico – è un metodo efficacissimo per radicarla nel cervello. E quella risorsa resta per sempre a nostra disposizione. Nei capitoli dedicati alla mindfulness e all'apprendimento spiegherò nel dettaglio come trasformare pensieri e sensazioni in risorse durature, le fondamenta di una resilienza autentica. Il concetto di base è semplice: in sostanza si tratta di scegliere l’elemento che vogliamo sviluppare – per esempio la compassione o la gratitudine – e poi di concentrarsi a percepirlo per un tempo prolungato, in modo da consolidarne l’esperienza e radicarla nel sistema nervoso. È questo il processo essenziale del cambiamento cerebrale positivo. Per farvene un’idea provate l’esercizio descritto nel box. Bastano pochi minuti, ma potete prolungarlo per un effetto più duraturo. Come tutti i suggerimenti contenuti nel libro, siete liberi di adattarlo secondo le vostre esigenze personali. Inoltre, nel flusso della vita quotidiana, prestate attenzione ai momenti in cui assumete un atteggiamento di cura o di sostegno per voi stessi, concentratevi e immergetevi in quella sensazione per qualche istante, lasciando che si radichi in voi. SIATE I MIGLIORI ALLEATI DI VOI STESSI Scegliete un episodio in cui vi siete schierati dalla parte di qualcuno: quella volta in cui avete aiutato un bambino, incoraggiato un amico, assistito un genitore anziano malato. Richiamate alla memoria le sensazioni del vostro stato fisico in quel frangente – la postura delle spalle o l’espressione del volto – e tutto ciò che avete pensato e provato: l’istinto di protezione, la determinazione, lo slancio anche intenso nei confronti dell’altro. Quando avrete ricostruito come ci si sente a schierarsi dalla parte del prossimo, applicate lo stesso atteggiamento anche a voi stessi. Avvertite a fondo la sensazione di essere il vostro migliore alleato, una persona sempre al vostro fianco e pronta ad accudirvi, aiutarvi, proteggervi. Prendete coscienza delle vostre esigenze e dell’importanza di soddisfarle. È probabile che in voi sorgano anche altre reazioni, come la convinzione di non meritare certe attenzioni. Non preoccupatevi, è normale. Prendetene nota e lasciate che scorrano via, tornando a concentrarvi sul senso di affetto nei vostri confronti. Immergetevi nell’esperienza, assaporandola a fondo. Riportate alla memoria le situazioni del passato in cui vi siete schierati dalla vostra parte. Forse vi stavate facendo forza durante un periodo difficile sul lavoro, oppure stavate parlando con qualcuno che vi feriva. Cercate di sperimentare le sensazioni fisiche e le emozioni che avete provato, e i pensieri che vi sono passati per la testa («Non è giusto che in ufficio debba sempre occuparmi io di tutto», poniamo). Concentratevi sull’esperienza e lasciate che vi riempia la mente. Sperimentate cosa vuol dire concentrarsi sul proprio benessere. Lasciate che i sentimenti, i pensieri e le intenzioni di essere amico di voi stessi mettano radici e diventino parte della vostra persona. ABBIATE COMPASSIONE PER LA VOSTRA SOFFERENZA La compassione consiste nella partecipazione alla sofferenza altrui – che si tratti di un lieve disagio (psicologico o fisico) o di un dolore straziante – accompagnata dal desiderio di intervenire per alleviarla. Offrire compassione abbassa i livelli di stress e rilassa il corpo. Riceverne vi rende più forti, permettendovi di riprendere fiato e ritrovare l’equilibrio e le energie necessarie ad andare avanti. Offrendo compassione a voi stessi sperimenterete i benefici che derivano dal dare compassione e dal riceverne. Negli altri sapete sempre riconoscere i sintomi della fatica o dello stress: impegnatevi a identificarli anche in voi stessi. La sofferenza altrui vi commuove: provate compassione anche per la vostra. Potete offrire a voi lo stesso supporto che siete in grado di dare agli altri. Tanto meno avvertite solidarietà da parte del mondo e tanto più sarà importante donarne a voi stessi. Questo non significa autocompatirvi o crogiolarvi nel vostro dolore. Avere compassione per le proprie difficoltà è un punto di partenza, non di arrivo. Molte ricerche, tra le quali quelle di Kristin Neff, dimostrano che la compassione verso se stessi rende più resilienti, capaci di riprendersi meglio da una situazione difficile. Ci rende meno autocritici e rafforza la nostra autostima, favorendo l’ambizione e l’intraprendenza, non l’indolenza e la pigrizia. Nella compassione per la sofferenza personale c’è un senso di comunanza con i nostri simili. Il dolore, la malattia, la morte sono esperienze che riguardano ogni essere umano. Capita a tutti di perdere una persona amata, di sentirsi fragili. È come in quella canzone di Leonard Cohen: There is a crack in everything / That’s how the light gets in. C’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce. Tutti portiamo dentro una ferita. Tutti abbiamo bisogno di compassione. SFIDE ALLA COMPASSIONE DI SÉ Eppure per molti è difficile provare compassione di sé. In parte dipende dagli automatismi del nostro sistema nervoso. Il cervello è progettato per modificarsi in funzione delle esperienze, specialmente quelle negative, soprattutto se avvenute durante l’infanzia. È normale, quindi, interiorizzare l’atteggiamento che i nostri genitori e le altre persone hanno avuto nei nostri confronti. Se tendevano a schernire o punire le nostre debolezze e a ignorare i nostri bisogni, noi ripetiamo la stessa dinamica con noi stessi. Io, per esempio, ho avuto la fortuna di crescere con genitori molto coscienziosi e attenti, e sono loro riconoscente. Al tempo stesso, però, erano anche molto critici e poco comprensivi, quindi io ho adottato un atteggiamento identico con me stesso. Sono sempre stato partecipe del dolore altrui, ma il mio tendevo a reprimerlo, e poi mi stupivo che non guarisse mai. IMPARARE LA COMPASSIONE Ho dovuto imparare ad avere compassione per il mio dolore. Nella vita si imparano un sacco di cose – ad andare in bicicletta, a chiedere scusa a un amico, a mantenere la calma nei momenti di crisi. Ma come si verifica l’apprendimento? La chiave per potenziare qualsiasi risorsa psicologica, compresa la compassione, è sperimentarla più volte fino a modificare in modo duraturo una struttura o una funzione neurale. È un po’ come registrare una canzone con un vecchio mangianastri: mentre ne facciamo esperienza, questa lascia una traccia fisica nel nostro sistema nervoso. Ogni volta che vi capita di provare una sensazione piacevole o positiva – come portare a termine un incarico impegnativo in ufficio, o sdraiarsi sul divano alla fine di una lunga giornata – impegnatevi a notarla. Potete anche ricreare in modo intenzionale la situazione necessaria a sperimentare la risorsa che volete potenziare, per esempio il senso di essere dalla vostra parte. Assaporate l’emozione il più a fondo possibile e prendetevi qualche istante per avvertirla in ogni suo aspetto. Tanto più spesso ripeterete l’esercizio, tanto più saldamente la risorsa psicologica sarà impressa in voi stessi. Per potenziare questo sentimento, prendetevi qualche minuto per provare l’esercizio descritto nel prossimo box. Sviluppando compassione per voi stessi, potrete averla a disposizione nel momento del bisogno. COMPASSIONE DI SÉ Riportate alla memoria un episodio in cui vi siete sentiti benvoluti da qualcuno – un amico, un animale domestico, un’entità spirituale. Va bene qualsiasi attenzione positiva che avete ricevuto: accoglienza, considerazione, rispetto, affetto o amore. Rilassatevi e rivivete nel dettaglio ciò che avete provato. Se un altro pensiero vi distrae, non preoccupatevi: tornate a concentrarvi su quell’emozione. Lasciatevi invadere, assorbitela come una spugna. Pensate poi a qualcuno che vi suscita compassione – un bambino malato, un amico alle prese con un divorzio, un profugo all’altro capo del mondo. Avvertite il senso del loro dolore, delle loro preoccupazioni e sofferenze. Concentratevi sulla sensazione di solidarietà e comprensione. Mettetevi una mano sul cuore e formulate mentalmente un augurio («Che la tua sofferenza possa finire», «Che tu possa trovare lavoro», «Che tu possa guarire»). Abbandonatevi totalmente alla compassione, lasciate che vi riempia e scorra dentro di voi. Ora che avete sperimentato a fondo la sensazione della compassione, applicatela a voi stessi. Identificate con precisione il vostro senso di stress, stanchezza, sfiducia o infelicità e poi donatevi la stessa compassione che prestereste a un amico in una situazione analoga. Tenete a mente che tutti soffrono e non siete soli con il vostro dolore. Potreste posarvi una mano su una guancia o sul cuore e, a seconda della vostra situazione, formulare una preghiera per voi stessi («Che io possa smettere di soffrire», «Che questo periodo difficile possa passare», «Che io possa smettere di angosciarmi», «Che io possa guarire»). Immaginate la compassione come una tiepida pioggerellina che scende su di voi, placandovi e accarezzando ogni punto dolente del corpo e dell’anima. IMPARARE AD ACCETTARE LA REALTÀ Una volta io e un mio amico scalammo la parete orientale del monte Whitney, in California. Il tragitto di ritorno dalla vetta al campo base passava da un crepaccio pieno di neve. Era ottobre e la neve si era tramutata in una lastra di ghiaccio, costringendoci a rallentare e a procedere con enorme cautela. Infine calò il buio e il rischio diventò troppo grande. Per evitare incidenti fatali decidemmo di fermarci. Passammo la notte all’addiaccio, tremando di freddo su un piccolo spuntone di roccia, avvolti in una coperta termica e con i piedi infilati negli zaini. La situazione non era ideale, ma dovevamo affrontare la realtà. Negarla o incaponirsi a proseguire la marcia poteva costarci la vita. In cima a quella montagna avere cura di me significava riconoscere e accettare il mondo che mi circondava. L’accettazione può convivere con altre reazioni. Possiamo indignarci per un’ingiustizia senza per questo negarne la realtà. E ammettere un dato di fatto non significa arrendersi o compiacersi. Possiamo prendere atto della realtà senza smettere di impegnarci per cambiarla. Sul monte Whitney ho dovuto anche accettare quanto stava accadendo dentro di me. Ero infreddolito, stanco e preoccupato. Sforzarmi di reprimere quelle sensazioni avrebbe aggiunto stress a una situazione già angosciante, facendomi sentire anche peggio. A volte è utile cercare di deviare i pensieri o i sentimenti in una direzione più sana e felice, ma solo se prima li abbiamo riconosciuti e accettati, altrimenti non servirà a niente: avremo soltanto messo una maschera a ciò che proviamo. Se non accettiamo la verità in noi stessi, non potremo capirci fino in fondo, e senza comprensione non è possibile trovare soluzioni efficaci. La nostra interiorità è come una grande casa, e rifiutarsi di accettare parti di noi è come chiuderne a chiave le stanze. «Mi sento vulnerabile, ma non voglio che gli altri mi credano debole. Perciò chiuderò la porta sulla mia fragilità», «Quando mi emoziono troppo mi capita di commettere errori: perciò ora chiuderò la stanza della passione e butterò via la chiave». Come vi sentireste se spalancaste tutte le stanze della vostra interiorità? Potrete comunque vigilare su ciò che contengono, e decidere di volta in volta se dare sfogo a quelle emozioni e mostrarle al mondo oppure no. Accettare ciò che avete dentro non vi rende impotenti: al contrario, rafforza la vostra capacità di esercitare il controllo su voi stessi. Per rendervene conto provate l’esercizio illustrato nel box. ACCETTARSI Guardatevi intorno, concentrate lo sguardo su un aspetto della realtà… e accettatelo. Sperimentate la sensazione di accettare qualcosa. Pensate a un amico e alle sue molte sfaccettature. Sperimentate cosa si prova accettando i vari aspetti della sua personalità. Non vi sentite più calmi, aperti, rilassati? Prendete coscienza delle vostre sensazioni, cercando di accettarle senza modificarle o accentuarle. Riuscite ad accettare la sensazione del respiro così com’è? Se nella mente affiorano pensieri giudicanti, riuscite ad accettare anche quelli? Consolidate l’esperienza con qualche frase: «Accetto questo pensiero», «Accetto questo dolore», «Accetto il fatto di sentirmi riconoscente, o triste». Se avvertite una resistenza rispetto a una certa emozione, riuscite ad accettare la vostra stessa resistenza? Se state attraversando un periodo difficile, ricordate di essere dalla vostra parte e attivate la risorsa della compassione per voi stessi. Siate consapevoli dell’accettazione come esperienza in sé, un atteggiamento o un orientamento che osserva la realtà delle cose con sguardo fermo, che riceve senza opporsi. Lasciate che il senso di accettazione vi pervada. Concentrate il pensiero sui vari aspetti di voi stessi, quelli che apprezzate e quelli che non vi piacciono. Provate a definirli a parole: «Una parte di me ama i dolci», «Una parte di me si sente sola», «Ho un lato ipercritico», «Una parte di me si sente giovane», «Un’altra sente il bisogno di essere amata». Ora esplorate la sensazione di accettare tutti questi aspetti della vostra personalità, cominciando da quelli più facili. Se per alcuni avvertite resistenza, non preoccupatevi: affrontateli più avanti. Provate a dar voce ai vostri pensieri: «Accetto la parte di me che ama i miei figli», «Accetto la parte di me che lascia i piatti sporchi nel lavabo», «Accetto la parte di me che subiva il bullismo a scuola», «Accetto la parte di me che cova rancore». L’accettazione suscita una sensazione di distensione, come un’apertura progressiva nel profondo del proprio essere. Potete rafforzarla abbracciandovi, cullandovi tra le braccia. Immergetevi in questa sensazione e lasciate che vi riempia. GODERSI LA VITA Se un’azienda farmaceutica brevettasse il piacere, la pubblicità del medicinale imperverserebbe in televisione. Le esperienze piacevoli – accarezzare un gatto, bere un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa, sorridere a un amico – riducono gli ormoni dello stress, rafforzano il sistema immunitario e contribuiscono a placare il senso di frustrazione o di preoccupazione. L’incremento del senso di piacere potenzia il rilascio di neurotrasmettitori chiave, comprese dopamina e norepinefrina, e degli oppioidi endogeni. Alcuni circuiti localizzati nei recessi profondi del cervello, per esempio i gangli basali, usano l’aumento di dopamina per assegnare priorità alle azioni che suscitano appagamento, e per spingerci a perseguirle. Quindi, se volete aumentare la vostra motivazione nel raggiungere determinati obiettivi – come un’attività fisica costante, un’alimentazione più sana, un progetto impegnativo sul lavoro –, concentrarvi sugli aspetti divertenti vi spingerà naturalmente a perseguirli. La norepinefrina ci fa sentire più vigili e coinvolti. Durante una riunione noiosa identificare un qualsiasi aspetto piacevole vi aiuterà a non distrarvi. Gli oppioidi rilasciati dall’organismo, comprese le endorfine, abbattono lo stress e funzionano da analgesici naturali per il dolore fisico ed emotivo. Dopamina e norepinefrina collaborano per classificare le esperienze come «positive» e per consolidarle come risorse durature nel cervello. Poniamo per esempio che desideriate essere più pazienti con i famigliari o i colleghi. Per potenziare questa risorsa interiore, individuate situazioni in cui sperimentare la pazienza, concentrandovi sui suoi aspetti più gratificanti, come il piacere di sentirsi calmi e rilassati. Al pari di tutte le risorse interiori, la pazienza è uno stato mentale, e sperimentarne l’appagamento contribuisce a tramutarla in una caratteristica positiva, saldamente radicata nel cervello. Trarre piacere dalla vita è un modo molto efficace di prendersi cura di sé. Provate a elencare alcuni semplici piaceri quotidiani. Nel mio caso la lista comprenderebbe l’aroma del caffè, le conversazioni con i miei figli, la vista dei ciuffi d’erba che crescono da una crepa nel marciapiede. Ora preparate la vostra. Non puntate troppo in alto, ma concentratevi piuttosto sulle piccole opportunità concrete di godere del presente anche nei periodi più bui: l’affetto che provate per un amico, il senso di rilassatezza quando inspirate a fondo e poi espirate, il piacere di scivolare nel sonno dopo una lunga giornata. A prescindere da quanto ci accade intorno, è sempre possibile trovare uno spazio di gioia dentro di noi: il ricordo di un’esperienza divertente, un sogno, il calore del vostro buon cuore. Questi piccoli modi di trarre piacere dalla vita sono la conferma di una lezione importante: i grandi risultati derivano quasi sempre da un accumulo di elementi minuscoli. Un proverbio tibetano insegna: «Se ti prendi cura dei minuti, non dovrai preoccuparti degli anni». Qual è il minuto più importante della vita? Secondo me è il prossimo. Non abbiamo il potere di cambiare il passato, ed esercitiamo un’influenza limitata sulle ore e i giorni a venire. Ma il minuto subito dopo questo – e quello dopo, e quello dopo ancora – è sempre ricchissimo di opportunità. Riuscite a intravedere un modo di essere alleati di voi stessi, di avere cura delle vostre sofferenze, di trarre piacere da ciò che vi circonda o risiede dentro di voi? Qualcosa da cui potreste guarire, qualcosa di nuovo da imparare? Minuto dopo minuto, passo dopo passo, risorsa dopo risorsa, è sempre possibile potenziare la nostra positività interiore. Per il bene nostro e del prossimo. CONCETTI CHIAVE La compassione consiste nella sincera vicinanza alla sofferenza altrui e nel desiderio di intervenire per alleviarla. Possiamo donare compassione agli altri e a noi stessi. La compassione è una risorsa psicologica, un punto di forza interiore che possiamo accrescere con il tempo. Il metodo per potenziare le risorse interiori consiste nel ripeterne l’esperienza fino a radicarla in modo indelebile nel nostro sistema nervoso. Essere alleati di voi stessi e prendervi cura del vostro dolore vi renderà più resilienti, più forti e sicuri. Accudire voi stessi vi permette di accudire meglio anche gli altri. Accettare la realtà delle cose – e di voi stessi – aiuta ad affrontarla in modo più efficace, evitando lo spreco di energie causato dalla resistenza e dallo stress. I momenti quotidiani di piacere arricchiscono la vita. Abbattono lo stress, vi mettono in sintonia con gli altri e potenziano la capacità di imparare dalle esperienze, tramutandole in risorse durature. Le piccole cose si accumulano. Un’esperienza ripetuta molte volte al giorno cambierà per sempre il vostro cervello. MINDFULNESS Un’educazione capace di l’educazione par excellence. sviluppare l’attenzione sarebbe WILLIAM JAMES La mindfulness è la capacità di restare concentrati sul momento presente invece di astrarsi sognando a occhi aperti, rimuginando o lasciandosi distrarre dalle interferenze esterne e interiori. Tutti riusciamo a essere consapevoli del qui e ora, ma solo per un battito di ciglia. Il segreto è conservare la mindfulness nel tempo, una pratica che, come dimostrato da numerose ricerche, riduce lo stress, tutela la salute e migliora l’umore. È facile acquisire uno stato di consapevolezza quando sediamo in meditazione su un cuscino sorseggiando una tazza di tè caldo. La faccenda si complica quando siamo stressati o turbati emotivamente, come capita, per esempio, durante un litigio con una persona amata. Insomma, proprio quando ne avremmo più bisogno, la mindfulness ci sfugge di mano. Per rafforzare questa risorsa cominceremo da alcuni esercizi pratici, che aiutano a sviluppare un’attenzione stabile e costante, e a trovare il nostro equilibrio, per evitare di venire distratti o dirottati dalle esperienze stressanti o dolorose. Poi esploreremo tre metodi fondamentali per ascoltare e guidare la nostra mente, illustrando il ruolo giocato dalla mindfulness in ciascuno di essi. Dopodiché impareremo a usare la mindfulness per soddisfare le nostre tre esigenze fondamentali: sicurezza, gratificazione e socialità. Nella sezione conclusiva del capitolo approfondiremo le due modalità con cui il cervello reagisce alle difficoltà, e il contributo della mindfulness per gestirle conservando la pace, la serenità e la benevolenza, invece di lasciarsi sopraffare dalla paura, dalla frustrazione e dalla sofferenza. FERMEZZA MENTALE Il nostro sistema nervoso è progettato per cambiare in funzione delle esperienze – il termine tecnico è neuroplasticità sinaptica – e l’esperienza dipende dall’attenzione. Secondo un vecchio detto, «siamo ciò che mangiamo». La regola vale per il corpo, ma possiamo parafrasarla anche per la mente: «siamo ciò cui prestiamo attenzione». E voi a cosa prestate attenzione? Riuscite a identificare e concentrarvi sui molti aspetti utili e piacevoli di una giornata, e ad assimilarli? Oppure vi lasciate sopraffare dall’ansia, dall’autocritica e dai risentimenti, permettendo che diventino parte di voi? Per convertire le esperienze passeggere in risorse interiori durature dobbiamo imparare a concentrare l’attenzione per un tempo sufficiente a consolidarle nel sistema nervoso. Purtroppo abbiamo tutti la tendenza a distrarci, lasciando che la mente vaghi da un pensiero all’altro senza fermarsi mai. I motivi sono molteplici. Alcuni sono esterni: oggi viviamo in un mondo caratterizzato da ritmi accelerati, dal bombardamento di informazioni, dal multitasking e innumerevoli stimoli. Altri sono interni: lo stress, l’ansia, la depressione e i traumi interferiscono con la concentrazione. Infine ci sono i motivi personali: alcuni di noi sono per natura più inclini alla distrazione. COME FUNZIONA LA MINDFULNESS La mindfulness è essenziale per regolare l’attenzione in modo da trarre il massimo dalle esperienze positive e limitare l’impatto di quelle negative o dannose. Ci permette di richiamare l’attenzione e di indirizzarla dove è più utile. In pali, la lingua del buddismo delle origini, il termine che designa la mindfulness è sati, la cui radice richiama la facoltà della memoria. Quando attiviamo la mindfulness siamo attenti invece che smemorati, concentrati e raccolti invece che distratti e svagati. La concentrazione può riguardare un ambito molto circoscritto, come infilare un ago, o molto vasto, per esempio l’intero flusso di coscienza. E si può applicare sia agli eventi del mondo esterno sia a quelli interiori – un camion che ci supera durante un temporale o la nostra sofferenza quando qualcuno ci delude. Lo stato di mindfulness non esclude la presenza di altri stati mentali – per esempio la compassione di sé se stiamo soffrendo o la cautela se il sorpasso del camion è rischioso –, ma non cambia la nostra esperienza o il nostro comportamento. Recepisce e accoglie, senza giudicare o orientare. Contiene le nostre reazioni entro una consapevolezza aperta che non è mai perturbata da ciò che la attraversa. Grazie alla mindfulness potrete prendere la giusta distanza dalle vostre stesse reazioni, e osservarle conservando la pace e l’equilibrio interiori. Questo non significa che dobbiate semplicemente contemplare in modo passivo tutto ciò che vi capita. Si può mantenere la mindfulness anche mentre si comunica con gli altri, si prendono decisioni, si agisce. RAFFORZARE LA MINDFULNESS Possiamo paragonare la mindfulness a una sorta di muscolo mentale, che si rafforza con l’esercizio quotidiano. Sul lungo termine, l’abitudine a un allenamento costante vi infonderà una consapevolezza del presente stabile e incrollabile. Riscoprire l’attenzione Vi è mai capitato di perdervi nei vostri pensieri – che si tratti di una preoccupazione economica o del giudizio critico di un amico – e poi di avere l’impressione di «riscuotervi», come risvegliandovi dal sonno? La mindfulness corrisponde a quel risveglio. La consapevolezza del presente si può esercitare in qualsiasi momento: mentre andate al lavoro, guardate fuori dalla finestra o ripensate alla vostra giornata prima di addormentarvi. Ovunque accada, la sensazione è sempre la stessa: siete tornati a casa. Siete nel qui e ora, saldamente ancorati al momento presente. È importante anche diventare coscienti di quando non siete consapevoli. Allenatevi a cogliere per tempo i momenti di distrazione. Per farlo, potreste scegliere una melodia delicata e piacevole e programmarla sul cellulare affinché durante la giornata suoni in orari casuali, per rammentarvi di ritrovare la consapevolezza. Con la pratica vi capiterà sempre più spesso di essere già in uno stato di mindfulness quando si attiva la suoneria. Ridurre le distrazioni Potrebbe essere utile anche usare la funzione «non disturbare» del cellulare per limitare le interruzioni di sms e chiamate in arrivo. L’attenzione è un bene personale. Nel limite del possibile, non permettete agli altri e alla frenesia del mondo di sottrarvela senza il vostro permesso. Cercate di rallentare i ritmi, dedicandovi a una sola attività alla volta e prestando a ciascuna la vostra piena attenzione. Incorporate la mindfulness nella vostra giornata Concentratevi sulla respirazione mentre parlate con gli altri o sbrigate le vostre incombenze. Quest’abitudine vi aiuterà a conservare l’equilibrio interiore e la consapevolezza del presente. Ripetete l’esercizio più volte nel corso della giornata. Potete anche stabilire momenti specifici – la pausa pranzo, per esempio – in cui concedervi un attimo di sosta, riordinare i pensieri e radicarvi nel presente. Per allenare ancora di più l’attenzione, sono molto utili anche passatempi come il bricolage o l’enigmistica, attività che richiedono concentrazione. Meditazione Esistono moltissime tecniche, tradizioni e scuole di meditazione, laiche e religiose, e a volte è difficile scegliere quella più adatta a noi. A mio parere, il tipo migliore è sempre quello che vi risulta più congeniale. Perciò scegliete il metodo che trovate più gradevole e più consono al vostro stile di vita. Potete impegnarvi a dedicare alla meditazione uno o più minuti ogni giorno, persino l’ultimissimo istante prima di addormentarvi. Io, per esempio, ho scelto proprio questo metodo, e devo essere sincero: mi ha cambiato la vita. Ho cominciato nel 1974, e nella mia esperienza la meditazione più potente è sempre la più semplice, perciò vi consiglio di sperimentare quella illustrata nel box. UNA SEMPLICE MEDITAZIONE Appartatevi per qualche minuto in un posto tranquillo. Trovate una posizione comoda – seduti, in piedi o sdraiati. Potete anche camminare lentamente, all’aperto oppure avanti e indietro in una stanza. Concentratevi su qualcosa che vi aiuti a restare nel momento: una sensazione, una parola o una percezione. In questo esempio userò il respiro, ma potete adattare i miei suggerimenti in base alla vostra scelta. Prendete coscienza della sensazione fisica del respiro: concentratevi sull’espressione del volto, sull’aria che riempie il torace e l’addome e si diffonde in tutto il corpo. Puntate l’attenzione sul passaggio dell’aria mentre inspirate e poi espirate… e proseguite così, respiro dopo respiro. Respirate in modo profondo ma naturale, magari contando mentalmente fino a quattro o a dieci, e poi da capo. Se perdete il conto, ripartite dall’inizio. Oppure ripetete a bassa voce: «Inspiro… espiro… dentro… fuori». I pensieri cercheranno di distrarvi, invadendovi la mente. È normale, dovete solo richiamare l’attenzione sul respiro. Respirate e rilassatevi. Coglierete suoni e pensieri, ricordi e sensazioni: non tratteneteli. Lasciate che attraversino la vostra consapevolezza senza distrarvi. L’obiettivo non è zittire la mente, ma prendere le distanze da ogni distrazione. Non opponete resistenza a quelle spiacevoli e non permettete a quelle piacevoli di assorbirvi. Il vostro obiettivo è di essere semplicemente nel presente, rinunciando ai rimpianti del passato e alle preoccupazioni per il futuro. Qui e ora non avete problemi da risolvere, nessun impegno da rispettare, nessuna maschera da indossare. Avvertite a fondo il senso di distensione e riposo, sincronizzando tutto il corpo al ritmo del respiro. Senza fretta né sforzo, cercate di lasciarvi pervadere dal senso di pace. Poi, di nuovo in modo naturale, dall’appagamento. E infine, quando sarete pronti, dall’amore. Insieme alla consapevolezza potreste provare anche altre emozioni, per esempio dolore o preoccupazione; state tranquilli, è normale. Mantenete la concentrazione sul respiro, e presto quelle sensazioni se ne andranno da sole. Prestate attenzione al senso di benessere e alle emozioni positive che vi riempiono, diventando parte di voi. E accoglietene i benefici. TROVARE UN RIFUGIO La mindfulness ci dà accesso alle parti più profonde di noi. Di solito è un’esperienza molto gratificante, ma a volte, se ancora non siamo pronti, è come aprire la porta di una cantina piena di insidie e di trappole. Quando ho iniziato il college, negli anni Sessanta, essere «in sintonia» con se stessi e le proprie emozioni era quasi un imperativo. A me sembrava assurdo. Ero pieno di insicurezze e di emozioni dolorose: per quale motivo avrei dovuto «sintonizzarmi» con esse? Semmai volevo rifuggirle. Mi rendevo conto che non era sano tenerle chiuse, ma avevo paura di liberarle. Prima di affrontarle dovevo trovare un modo per sentirmi al sicuro. Mi serviva un rifugio. Mi tornò in mente un’abitudine che avevo durante l’infanzia. Da bambino uscivo di nascosto e mi avventuravo negli agrumeti e sulle colline che circondavano la nostra casa. Camminare all’aperto e arrampicarmi sugli alberi mi rilassava, mi faceva sentire più forte, e al ritorno portavo quei sentimenti con me, come se avessi le colline e i frutteti ancora dentro e potessi trovarvi riparo quando avevo bisogno di aiuto e conforto. Così al college ricorsi di nuovo a quella sensazione per trovare il coraggio di esplorare i recessi oscuri della mia cantina mentale… che alla riprova dei fatti si rivelarono molto meno terribili di quanto avessi temuto. LOCALIZZATE I VOSTRI RIFUGI Per «rifugio» intendo qualsiasi cosa vi faccia sentire protetti e al sicuro e vi risollevi l’umore. A volte la vita è dura, e ci infligge esperienze difficili o dolorose, perciò tutti abbiamo bisogno di un riparo. Conoscete già il vostro? Potrebbe trattarsi di un animale domestico o di una persona. Io trovo rifugio in mia moglie, e Forrest nei suoi amici. Potreste scegliere anche un luogo fisico – il vostro bar preferito, una chiesa, una biblioteca o un parco. O magari un oggetto – una buona tazza di caffè, un morbido maglione, un buon libro alla fine della giornata –, oppure un’attività: la passeggiata con il cane, suonare la chitarra, rilassarvi con un programma televisivo prima di andare a letto. Esistono anche rifugi intangibili. Io ho sempre trovato conforto nel ricordo delle mie camminate all’aria aperta, degli agrumeti che circondavano la mia casa d’infanzia o dei boschi che ho visitato da adulto. Nel vostro caso potrebbe essere il ricordo della cucina della nonna, o la sensazione di un nipotino che si è addormentato tra le vostre braccia. A molti la sfera del sacro e del divino offre un profondo senso di sicurezza. Anche le idee possono costituire un rifugio, per esempio le scoperte degli scienziati o la saggezza dei santi, o la semplice consapevolezza che i vostri figli vi vogliono bene. Un altro rifugio chiave è la fiducia nei nostri lati migliori. Non significa ignorare quelli meno positivi, ma soltanto prendere coscienza della vostra bontà, affabilità e generosità di fondo, delle vostre buone intenzioni, delle vostre capacità e del vostro impegno. Anche questi sono aspetti reali di voi, e una fonte affidabile di conforto. USARE I RIFUGI Nel corso della giornata, trovate rifugio nel piacere della doccia mattutina, nella complicità dei colleghi di lavoro, nella musica che ascoltate tornando a casa o nella gratitudine verso la vita che provate prima di addormentarvi. Potete anche ritagliarvi momenti di rifugio specifici, per esempio adottando l’esercizio illustrato nel box. Sostate nel vostro rifugio e prendete coscienza di ciò che provate: un senso di distensione, di rassicurazione e di sollievo. Concentratevi sulla sensazione per qualche istante. Notate quali aspetti del rifugio sono in grado di suscitarvi quelle emozioni. Lasciate che la serenità vi invada e si radichi dentro di voi, in modo che diventi una risorsa sempre disponibile quando ne avete bisogno. Se nel corso di una meditazione siete sopraffatti da emozioni angoscianti, visualizzate il vostro rifugio e concentratevi sul senso di sicurezza che vi procura. Sarà come osservare una tempesta da un luogo riparato. Prima o poi il temporale passerà senza scalfire il nucleo di tranquillità dentro di voi. TROVATE PROTEZIONE NEL RIFUGIO Scegliete il vostro rifugio – per esempio l’immagine di una bellissima radura, il ricordo di una persona amata, la saggezza di un proverbio. Apritevi ai sentimenti e alle sensazioni che vi suscita. Prendete coscienza della sicurezza che vi infonde, e lasciatevi pervadere. Dategli un nome: «Io trovo rifugio in…». Concentratevi sulle vostre emozioni e lasciate che si diffondano dentro di voi. Stilate un elenco di rifugi diversi. Sperimentate il vostro rifugio non come qualcosa di esterno a voi, ma come una presenza interiore. Esprimete un augurio ad alta voce: «Che io possa diventare come…», «Che io possa irradiare sicurezza come…», «Che io possa diventare un’ispirazione come…». Considerato in questi termini, il rifugio si tramuta in energia positiva, come una corrente benefica che vi accompagna. Trovate rifugio nella gratitudine, nell’affetto dei vostri cari, nella vostra generosità e rettitudine… in tutto ciò che amate. Abbandonatevi al vostro rifugio. Fate sì che viva dentro di voi. ACCETTAZIONE, DISTACCO, ASSIMILAZIONE La psicologia clinica, il life coaching, i corsi di formazione, i laboratori di crescita personale e le diverse tradizioni contemplative offrono una miriade di tecniche per diventare persone più felici, espansive, competenti e sagge. Ma per quanto vari e molteplici, tutti questi approcci si possono riassumere in tre categorie: i tre metodi fondamentali per riorientare la nostra mente. Primo: accettare la realtà. Si tratta di prendere coscienza delle nostre emozioni e delle nostre esperienze così come sono, accogliendo il dolce insieme all’amaro. Potete approfondire i vari aspetti di un evento – le sensazioni, i pensieri, i desideri che vi suscita –, compresi quelli più delicati – per esempio il dolore che tanto spesso si cela dietro la rabbia. Mentre la osservate, è possibile che l’esperienza si trasformi in qualcosa di diverso, ma voi non avete fatto alcuno sforzo per cambiarla. Secondo: ridurre la negatività, prevenendo, smorzando o interrompendo tutto ciò che è doloroso o dannoso. I metodi sono molteplici: sfogarsi con un amico, distogliere la mente dai pensieri autocritici, smettere di comprare i biscotti che alimentano la dipendenza dallo zucchero, oppure adottare tecniche di rilassamento per alleviare la tensione. Terzo: incrementare il positivo, creando, sviluppando o preservando tutto ciò che è piacevole e benefico. Potete accelerare il respiro per attivare l’energia del corpo, ricordare i momenti felici con gli amici, pensare in modo realistico e propositivo a un problema di lavoro, oppure motivarvi a cambiare alimentazione immaginando quanto vi sentireste meglio mangiando cibi più sani. In poche parole, la capacità di affrontare gli ostacoli, guarire e raggiungere la serenità consiste nell’allenarsi in tre attività cruciali: accettazione, distacco, assimilazione. La mindfulness è sempre essenziale perché senza l’attenzione della presenza mentale non saremmo in grado di accettare la realtà, distaccarci dal negativo e aprirci al positivo. Inoltre i tre atteggiamenti operano di concerto. Per esempio potete usare il terzo – incrementare il positivo – per sviluppare una risorsa interiore come la compassione di sé, in modo da prendere più facilmente le distanze dalle emozioni dolorose, e liberarvene. Immaginate la vostra mente come un giardino. Esistono tre modi di averne cura: osservarlo, eliminare le erbacce e seminare fiori. L’osservazione è fondamentale, e a volte non possiamo fare altro. Quando capitano eventi terribili, l’unica soluzione è accettare la realtà e aspettare che passi. Tuttavia guardare non basta: serve anche impegno. La mente risiede nel cervello, un sistema fisico che non cambierà in meglio per conto suo. Non è sufficiente contemplare il giardino perché spariscano le erbacce e sboccino i fiori. SUPERARE UNA CRISI Le tre modalità di orientamento della mente forniscono una mappa passo-perpasso per superare una crisi. Poniamo che vi sentiate stressati, feriti o arrabbiati. Cominciate dall’accettazione. Prestate attenzione a quanto sta accadendo dentro di voi. Sintonizzatevi sulle sensazioni fisiche, magari sull’oppressione al petto o sul nodo allo stomaco. Esplorate le vostre emozioni, i pensieri, i desideri. Cercate anche di sondare gli aspetti più profondi, le esperienze alla radice della vostra vulnerabilità, per esempio una separazione recente e la paura di ricominciare. Cercate di accettarle senza opporre resistenza, anche se vi suscitano disagio. Trattate il vostro dolore come farebbe un amico, in modo affettuoso e compassionevole. Poi, quando ve la sentite, passate al distacco. Inspirate ed espirate lentamente, lasciando che ogni respiro liberi il corpo dalla tensione. Potete adottare anche altre tecniche per sfogarla: parlare con un amico, urlare sotto la doccia, piangere oppure visualizzare un fiume di luce che vi attraversa e trascina via con sé ogni tristezza e sensazione dolorosa. Distogliete la mente dal circolo vizioso dei pensieri negativi. Ritrovate il senso delle proporzioni, ragionando con voi stessi per smascherare le conclusioni esagerate o erronee. Cercate di vedere il quadro generale: con ogni probabilità, l’evento negativo sarà soltanto un breve capitolo nel lungo libro della vostra vita. Liberatevi degli impulsi problematici – per esempio la voglia di reagire con rabbia – prendendo coscienza dei danni che potrebbero causare a voi stessi e agli altri. Visualizzateli come una pietra che stringete tra le dita e immaginate di lasciarla cadere. Infine, quando siete pronti, assimilate il positivo. Riconoscetevi il merito di avere affrontato un’esperienza difficile, e apritevi alla soddisfazione di averla superata. Lasciate che la distensione e il sollievo si propaghino in tutto il vostro corpo. Notate o focalizzate la mente sulle emozioni positive che in modo naturale rimpiazzano quelle negative, per esempio il senso di sicurezza che vi invade appena l’ansia se ne va. Concentratevi su pensieri benefici invece che su quelli sbagliati e dannosi. Domandatevi se potete trarre un insegnamento dall’esperienza difficile, per esempio un modo per essere meno severi con voi stessi o più utili agli altri. Se è possibile trarne una lezione positiva, impegnatevi a metterla in pratica, magari adottando un comportamento diverso – per esempio uscire di casa in anticipo per arrivare puntuali in aeroporto o evitare di discutere di questioni economiche con il partner prima di andare a letto. Nella scelta tra accettazione, distacco e assimilazione, fidatevi del vostro istinto. È come nella favola in cui Riccioli d’Oro passava in rassegna i letti degli orsi, scartando il materasso troppo duro e quello troppo soffice per individuare quello che le era congeniale. La tempistica giusta dipenderà dall’esperienza che dovete affrontare. Poniamo che siate in macchina e vi sentiate stressati. Un pensiero critico vi attraversa la mente, e voi ne riconoscete al volo il tono («Ecco che ricomincio ad arrabbiarmi con gli altri per come guidano»). In situazioni come questa, potete passare subito al distacco. Sapete già dove porta il circolo vizioso, perciò è inutile indugiare: interrompete il flusso negativo concentrandovi su un pensiero positivo. Talvolta, però, gli eventi della vita sono così dirompenti che il meglio che si possa fare è cercare di accettarne la realtà. Poniamo che abbiate perso il vostro partner: potrebbero volerci anni prima di passare alla seconda e alla terza fase – distacco e assimilazione –, prendendo le distanze dal passato e accogliendo una nuova persona nella vostra vita. Non permettete al mondo di mettervi fretta: rispettate il vostro ritmo personale. Io ho fatto il mio ingresso nell’età adulta portandomi dentro un secchio intero di lacrime. Non potevo liberarmene di punto in bianco, così mi sono preso il tempo necessario per svuotarlo un cucchiaio alla volta. Se nel passaggio alla seconda e terza fase avete l’impressione che il distacco e l’assimilazione siano superficiali o forzati, tornate alla prima fase, concentrandovi sullo stato di presenza mentale. Forse avete a disposizione altre esperienze che potrebbero assorbirvi, qualcosa che vi rassicuri e vi rigeneri. A volte il processo di accettazione, distacco e assimilazione porterà alla luce uno strato più profondo della vostra psiche. In quel caso potete usare le tre fasi per indagarlo, superarlo e scavare persino più a fondo. Conservate lo stato di mindfulness e imparate a conoscere sempre meglio il vostro giardino, eliminando le erbacce e coltivando nuovi fiori. TENETE CONTO DELLE VOSTRE ESIGENZE Poco dopo la nascita di Forrest i miei genitori vennero a trovarci. Mia madre era emozionatissima per l’arrivo del suo primo nipotino. Lo sollevò dalla culla e se lo avvicinò al volto, facendogli mille moine – «Ma che bel bambino sei? Quanto sei carino!» Lui però non riusciva ancora a reggere da solo la testa, così cominciò a infastidirsi. Mia madre continuò imperterrita a parlargli tenendolo sollevato in aria, mentre lui era sempre più agitato. «Mamma» le dissi, «forse Forrest preferirebbe essere sorretto. Prova a tenerlo appoggiato su un braccio.» «Ma figurati!» ribatté lei. «È troppo piccolo per sapere cosa vuole.» Restai allibito da quelle parole, e insistetti che invece il bambino sapeva benissimo cos’era meglio per lui, visto che era rimasto tranquillo finché lei l’aveva tolto dalla culla. «A chi importa quel che vuole lui?» replicò lei, senza scomporsi. «Importa a me» borbottai tra i denti, e recuperai mio figlio. L’aneddoto contiene messaggi complessi. Mia madre è una persona molto espansiva, e la nascita di Forrest l’aveva entusiasmata. Il suo atteggiamento era lo specchio dei due principi cui si era affidata nel crescere i suoi stessi figli: l’idea che i bambini non possono ancora sapere di cosa hanno bisogno, e che – quand’anche fosse – le loro esigenze non contano molto rispetto a quelle degli adulti. Non sarebbe realistico pretendere che le nostre esigenze – da piccoli o da grandi – vengano sempre soddisfatte. Non sarebbe nemmeno sano, perché alcuni dei nostri impulsi sono dannosi. Tuttavia, in fondo a ogni impulso c’è un bisogno sano. Mia madre aveva bisogno di sentirsi vicina alla sua famiglia, di dare e ricevere amore, di sentirsi apprezzata e rispettata. Di per sé tutte queste esigenze sono perfettamente normali. Perciò le sue intenzioni erano buone ma, tra l’entusiasmo di vederci e l’educazione che lei stessa aveva ricevuto, aveva cercato di soddisfare i suoi bisogni in modo problematico, dimostrandosi insensibile nei confronti del nipote, del figlio e della nuora. È difficile distinguere tra impulsi superficiali e bisogni autentici, variano da persona a persona, quindi non cercherò di tracciare confini precisi. Ogni creatura vivente – compresi gli esseri umani, per quanto complessi e sofisticati – è motivata dal desiderio di perseguire i propri desideri e soddisfare le sue esigenze. È un istinto fondamentale e non aggirabile. Perciò acquisire una consapevolezza più profonda dei nostri impulsi e bisogni – e dei pensieri e delle emozioni che ne scaturiscono – può aiutarci ad accettarli in modo più lucido e a soddisfarli con maggiore efficacia. CAPIRE IL BISOGNO Prestate attenzione alle vostre esperienze di bisogno. Potrà trattarsi di una semplice preferenza, di un’aspirazione, di richieste o pretese più o meno impellenti. Notate in particolare il condizionamento che deriva dalla reazione degli altri ai vostri desideri e bisogni. In genere, quando le persone che ci circondano soddisfano o approvano le nostre esigenze, ci sentiamo bene. Se invece le ignorano, le sviliscono o le intralciano, è naturale convincersi che i nostri bisogni non contino, che siano inadeguati o rappresentino addirittura qualcosa di cui vergognarsi – e di conseguenza che noi stessi non abbiamo importanza, che ci sia qualcosa di sbagliato in noi, come un’inclinazione che dovremmo reprimere o nascondere. I residui di queste esperienze vengono immagazzinati nel cervello sotto forma di apprendimento emotivo, sociale e somatico. È un condizionamento che comincia alla nascita, quando il soddisfacimento dei nostri bisogni più elementari dipende dalla capacità degli adulti di intuirli nel modo corretto, e di rispondere con affetto ed efficacia. Il bambino giudicherà i propri bisogni in base alla reazione degli adulti, perseguendo apertamente quelli che ha imparato a considerare legittimi, dissimulando quelli non autorizzati, reprimendo e soffocando quelli ritenuti inaccettabili. Attivando la mindfulness potrete esplorare la vostra interiorità per comprendervi meglio. Prendetevi un po’ di tempo per riflettere su queste domande: In che modo i vostri genitori reagivano alle vostre esigenze? Come avete imparato a giudicare i vostri bisogni durante l’infanzia? Ora che siete adulti, qual è la reazione degli altri ai vostri desideri? Vi sentite spalleggiati nel soddisfarli, oppure ignorati, criticati, ostacolati? E voi come reagite? In che modo il passato condiziona il vostro atteggiamento rispetto ai vostri impulsi e desideri? Per esempio, vi capita di provare impulsi di cui vi vergognate? Ora che ci avete riflettuto, c’è qualcosa che vorreste e potreste cambiare? Per esempio esprimendo i vostri bisogni in modo più chiaro, o perseguendoli con un atteggiamento più assertivo? LE TRE ESIGENZE DI BASE La mindfulness rispetto al passato aiuta a conoscersi meglio nel presente e a trovare sistemi più efficaci per soddisfare i nostri bisogni futuri. Dunque, quali sono le vostre esigenze? Gli psicologi le classificano in molti modi diversi. Per semplicità, io le ho riassunte in tre categorie fondamentali: 1. Il bisogno di sicurezza, che spazia dalla sopravvivenza pura e semplice alla possibilità di esprimerci senza timore di critiche. Per soddisfare questa esigenza evitiamo le situazioni di rischio, per esempio stando attenti a non toccare una piastra incandescente o tenendoci alla larga da certe persone. 2. Il bisogno di gratificazione, che va dal mangiare a sufficienza alle soddisfazioni più grandi della vita. Per rispondere a questa esigenza ricerchiamo esperienze premianti, per esempio inspirando il profumo delle rose, portando a termine un compito, avviando un’attività in proprio. 3. Il bisogno di socialità, che si estende dalla sessualità alla sensazione di essere apprezzati e amati. Per andare incontro a questa esigenza coltiviamo legami con il prossimo, scrivendo un sms a un amico, comunicando, dimostrando comprensione. Ogni specie animale, esseri umani compresi, le persegue a suo modo, ma le esigenze di base sono universali. Sono radicate nella vita stessa, e le tecniche che adottiamo per soddisfarle si fondano sull’evoluzione del sistema nervoso negli ultimi seicento milioni di anni. Il processo è stato lungo e complesso ma, per semplificare, possiamo immaginare il cervello come una casa a tre piani. Il pianterreno è il livello più antico, e corrisponde al tronco encefalico, che si è sviluppato durante la fase rettiliana dell’evoluzione ed è concentrato sulla sicurezza. Il suo obiettivo è soddisfare il bisogno più elementare in assoluto: la sopravvivenza. Il primo piano è la regione subcorticale, che comprende ipotalamo, talamo, amigdala, ippocampo e gangli basali. Questa parte si è formata nella fase evolutiva dei mammiferi, cominciata circa duecento milioni di anni fa, e ci aiuta a perseguire in modo più efficace il soddisfacimento dei bisogni. L’ultimo piano è la neocorteccia, sorta con l’avvento dei primati circa cinquanta milioni di anni fa, il cui volume si è triplicato da quando i primi ominidi hanno cominciato a dotarsi di utensili, due milioni e mezzo di anni fa. La specie umana è diventata la più sociale del pianeta grazie alla neocorteccia, la regione neurale preposta a empatia, linguaggio, pianificazione concertata e compassione, tutte modalità complesse per soddisfare il nostro bisogno di socialità. In un certo senso è come se avessimo un intero zoo dentro la testa. Il cervello umano odierno conserva ancora incorporate le soluzioni ai problemi di sopravvivenza approntate dai nostri progenitori ancestrali quando nuotavano nelle profondità oceaniche, sfuggivano ai dinosauri o si scontravano con le altre tribù nell’Età della pietra. Le varie parti del cervello collaborano tra loro per il soddisfacimento delle nostre esigenze, ma alcune sono preposte a funzioni specializzate, plasmate nel corso della nostra storia evolutiva. Per tornare alla metafora dello zoo, è come se dentro la testa ospitassimo una lucertola, che si immobilizza o fugge davanti a un pericolo, un topolino a caccia di formaggio e una scimmia in cerca del suo gruppo di appartenenza. ABBRACCIARE LE NOSTRE ESIGENZE A volte è imbarazzante ammettere di avere dei bisogni. Anche se la nostra cultura di appartenenza premia la forza e l’autosufficienza, la realtà è che tutti abbiamo bisogno di molte cose per sopravvivere, prosperare ed essere felici: dall’aria che respiriamo alla cortesia degli estranei alle infrastrutture della civiltà. I veri duri hanno il coraggio di ammettere la dipendenza fondamentale di ogni essere umano. Non si conquista la salute fisica e mentale negando, «superando» o trascendendo i bisogni ma, al contrario, avendo cura delle esigenze nostre e altrui. Per questo è tanto importante abbracciare proprio gli impulsi che siamo più spesso portati a reprimere. Cercate di essere consapevoli delle vostre esigenze, indagandole in ogni sfaccettatura e prendendo coscienza dei vari modi in cui sono rimaste insoddisfatte. Nella vita quotidiana prestate attenzione al vostro bisogno di: Sicurezza. Notate le situazioni in cui vi sentite a disagio, irritati o sopraffatti. Cercate di distinguere i rischi reali dalle ansie infondate. Quando siete pronti, passate alle fasi di distacco e assimilazione, per esempio ricorrendo al vostro rifugio e affrontando per quanto possibile il mondo da un luogo di pace interiore. Gratificazione. Imparate a riconoscere le situazioni in cui vi sentite annoiati, delusi, frustrati o sofferenti. Indagate l’esperienza e poi concentratevi sugli aspetti della vostra vita che vi suscitano gratitudine. Puntate a trovare un senso di soddisfazione personale. Socialità. Analizzate le situazioni in cui vi sentite feriti, rancorosi, invidiosi, isolati o inadeguati. Poi richiamate alla memoria gli episodi in cui vi siete sentiti amati e apprezzati, sia da voi stessi sia dagli altri. Trovate riposo nel flusso di benevolenza che si irradia da voi al mondo e viceversa. RICETTIVITÀ O REATTIVITÀ La vita contraddice di continuo le nostre esigenze, tuttavia possiamo trovare un senso di soddisfazione anche mentre ci impegniamo a superarne gli ostacoli. Data la mia passione per l’alpinismo, per esempio, mi sono capitate spesso situazioni ad alto rischio, magari mentre ero aggrappato a un sottile spuntone di roccia che sporgeva su uno strapiombo. Il mio bisogno di sicurezza era chiaramente a repentaglio. Al tempo stesso, però, non mi sono mai sentito davvero in pericolo. Arrampicandomi spesso, mi trovo a mio agio in montagna, e mi fidavo del mio compagno di cordata. Ero vigile, cauto e attento, con tutti i sensi in allerta – e me la godevo un mondo. Anche nella vostra vita potete trovare molti esempi di situazioni precarie o pericolose che avete affrontato senza perdere la calma interiore, e persino traendone soddisfazione. La vita è turbolenta e imprevedibile, ricca di magnifiche opportunità che però richiedono molto impegno, e a volte è inevitabile uscirne sconfitti o feriti. Capita a tutti di trovarsi in difficoltà. La differenza consiste nel modo di gestirla. Ed è ben diverso affrontare un ostacolo conservando la certezza di trarne una gratificazione almeno parziale dei nostri bisogni oppure avvertendo un’insoddisfazione radicale. ZONA VERDE, ZONA ROSSA Quando sperimentiamo un soddisfacimento sufficiente dei nostri bisogni, proviamo un senso di pienezza e di equilibrio. La mente e il corpo ritrovano il loro stato di quiete – una condizione che io definisco «ricettiva» o «zona verde». Il corpo è in pausa, e può risparmiare le forze, ricaricare le energie, riparare i danni e riprendersi dallo stress. La mente avverte un senso di pace, soddisfazione e amore – termini generali che corrispondono alle nostre esigenze di sicurezza, gratificazione e socialità. Quando invece riteniamo che un’esigenza fondamentale sia rimasta insoddisfatta, proviamo un senso di mancanza e agitazione: qualcosa non va, non siamo in pace. Il corpo e la mente passano dallo stato ricettivo a quello «reattivo», o «zona rossa». Il corpo attiva le reazioni di fuga, lotta o paralisi, e tutti i nostri apparati – il sistema immunitario, ormonale, cardiovascolare e digerente – scattano in massima allerta. La mente è invasa da paura, frustrazione e sofferenza – termini generali che corrispondono al mancato soddisfacimento dei bisogni di sicurezza, gratificazione e socialità. Siamo in uno stato di stress, di disturbo, di disfunzione. I confini tra modalità ricettiva e reattiva sono sfocati per definizione. Eppure conosciamo tutti per esperienza la differenza tra affrontare un ostacolo sentendoci sicuri di noi stessi e delle nostre capacità oppure in preda al nervosismo e alla preoccupazione. Qui di seguito trovate uno schema riassuntivo delle due diverse modalità. STATO DI SODDISFAZIONE DELLE ESIGENZE PRIMARIE Bisogno Soddisfatto da Sede del cervello Stadio evolutivo Ricettività Reattività Sicurezza Allontanamento Tronco encefalico Rettiliano Pace Paura Mammifero Soddisfazione Frustrazione Gratificazione Avvicinamento Regione subcorticale Socialità Legami Neocorteccia Primati/umani Amore Sofferenza Può capitare che due bisogni essenziali siano appagati mentre il terzo resta insoddisfatto. Nel caso di una coppia di genitori, per esempio, il rapporto difficile con un figlio adolescente potrebbe frustrare il bisogno emotivo di legami senza scalfire il senso di sicurezza personale o la capacità di trovare gratificazione in altri ambiti. Quando un’esigenza entra nella zona rossa, la modalità reattiva potrebbe sconfinare, attivandosi anche per gli ambiti rimasti nella zona verde. Nel nostro esempio, la preoccupazione dei genitori per la mancata comunicazione con il figlio potrebbe tramutarsi in ansia per la sua incolumità o il suo andamento scolastico. In modo speculare, il senso di competenza in un ambito può contribuire a spegnere l’allarme in un altro. I genitori potrebbero fare tesoro del proprio senso di sicurezza personale per trovare rassicurazioni nei confronti del figlio, o mettere a frutto le proprie risorse per aiutarlo a scuola. A volte la situazione è tale che l’unica soluzione è ritagliarsi un minuscolo rifugio dentro di noi, per conservare la calma e la forza interiore anche quando l’agitazione o l’angoscia minacciano di scompensare tutti gli equilibri. Per quanto piccolo, quel santuario è un salvavita, perché poco alla volta vi permetterà di ritrovare le energie necessarie a riemergerne e rimettere ordine nel resto della mente. Ricettività e reattività non sono soltanto l’effetto dell’appagamento o della frustrazione dei bisogni. Sono anche modi diversi per soddisfare le nostre esigenze. Un esempio dal libro Perché alle zebre non viene l’ulcera?, di Robert Sapolsky, illustra questa dinamica. Immaginate di essere parte di un grande branco di zebre in Africa. Vi trovate in una radura e, pur restando vigili alla possibilità di un agguato, pascolate con calma e interagite con i vostri simili: siete in modalità ricettiva. Di punto in bianco i leoni attaccano e il vostro branco scatta in modalità reattiva, disperdendosi in ogni direzione, incalzato dai predatori… Quale che sia l’esito finale, appena l’attacco finisce le zebre tornano in modalità ricettiva, affrontando con calma la vita nella savana. L’esempio riassume una legge universale. In natura, l’esistenza è fatta di lunghi periodi di gestione delle esigenze in modalità ricettiva, interrotti da emergenze fondate di stress reattivo e poi, appena possibile, dal ritorno di tutti i sistemi nella zona verde. In modalità ricettiva ci sentiamo bene perché stiamo bene: il corpo è protetto e sazio, la mente serena e appagata. Per contro, la sensazione della modalità reattiva è terribile perché il disagio è reale: il corpo è agitato e insoddisfatto, la mente invasa dall’ansia, dall’irritabilità, dalla delusione, dalla sofferenza e dal risentimento. La reattività ci abbatte, la ricettività ci rigenera. Certo, le avversità sono anche un’opportunità per sviluppare resilienza, tolleranza allo stress, persino crescita post-traumatica, ma affinché lo stress diventi occasione di apprendimento bisogna attivare le risorse della reattività, come la determinazione e la concentrazione sullo scopo, un approccio sempre dispendioso in termini di energie. Per contro, la vita quotidiana offre moltissime occasioni di sperimentare e sviluppare risorse mentali senza doversi scontrare con le avversità. Basta fare tesoro degli innumerevoli momenti di quiete, gratitudine, entusiasmo, autostima o bontà verso gli altri che viviamo ogni giorno. Gran parte delle situazioni di paura, frustrazione o dolore sono soltanto sgradevoli e stressanti, e non portano alcun beneficio. È vero che dobbiamo affrontare le avversità e imparare da esse, ma io credo che in genere la loro utilità venga sopravvalutata. A lungo andare le esperienze reattive ci logorano, rendendoci più fragili e vulnerabili, mentre quelle ricettive potenziano la nostra resilienza. La modalità reattiva si è evoluta come soluzione immediata e a breve termine ai problemi di sopravvivenza, non come stile di vita. Oggi non dobbiamo più proteggerci dalle tigri dai denti a sciabola, eppure gli stress quotidiani della fretta, del multitasking, del bombardamento di stimoli ci spingono comunque nella zona rossa. E a quel punto diventa difficile uscirne, a causa di quello che gli psicologi chiamano «pregiudizio negativo». LA TENDENZA ALLA NEGATIVITÀ I nostri antenati dovevano procacciarsi «carote» – cibo e prole – e sfuggire al «bastone», per esempio i predatori, i conflitti interni al clan o le aggressioni da parte di gruppi estranei. Entrambi sono importanti, ma in genere, per sopravvivere, evitare i bastoni è più importante. Nel Serengeti preistorico, una carota mancata non significava morte certa: c’era ancora la possibilità di procacciarsene un’altra il giorno dopo. Ma se non riuscivi a scampare a un bastone… be’, allora era proprio finita. Per questo il nostro cervello è programmato per: 1. Prestare la massima attenzione ai segnali negativi: nel mondo, nel nostro corpo e nella nostra mente. 2. Concentrarsi sul dettaglio negativo perdendo di vista il quadro generale. 3. Reagire in modo esagerato agli eventi negativi. 4. Registrare con immediatezza ogni esperienza negativa nella memoria emotiva, somatica e sociale a lungo termine. 5. Affinare la sensibilità a ogni scarica di cortisolo, l’ormone dello stress, diventando sempre più reattivo alle esperienze negative, che a loro volta attivano nuove scariche di cortisolo, determinando un circolo vizioso. In parole povere, il nostro cervello reagisce alle esperienze negative come il velcro, e a quelle positive come il teflon. Se durante una giornata, sul lavoro e nei rapporti sociali, vi capitano nove esperienze positive e una sola negativa, è molto probabile che i vostri pensieri si concentrino su quest’ultima. Nella vita quotidiana gli eventi piacevoli, utili e benefici sono la regola – bere una tazza di caffè, portare a termine un’incombenza domestica o professionale, infilarsi sotto le coperte con un bel libro –, eppure il cervello se li lascia scivolare addosso, trattenendo soltanto le eccezioni negative. Noi siamo programmati per lasciarci condizionare da ogni esperienza negativa e per trascurare quelle positive. Per milioni di anni il pregiudizio negativo è stato essenziale alla sopravvivenza, ma oggi è come un disturbo universale dell’apprendimento: il cervello umano è costruito per il massimo rendimento in un habitat da Età della pietra. Ad aggravare gli effetti di questa tendenza innata contribuisce un’evoluzione cerebrale più recente: le reti neurali delle strutture corticali mediane che permettono alla nostra mente di viaggiare nel tempo, riflettendo sul passato e pianificando il futuro. Queste reti hanno la tendenza a rimuginare. Gli altri animali non si fissano sulle esperienze negative già trascorse: imparano la lezione e passano oltre. Noi invece continuiamo a riviverle all’infinito, lasciandoci condizionare dalla preoccupazione («Scommetto che anche stavolta finirà male»), provando gli stessi rancori («Come ha osato trattarmi in quel modo?») e abbandonandoci all’autocritica («Sono proprio un idiota!»). Dal punto di vista del cervello, il pensiero ossessivo di un evento negativo lo fa «accadere» di nuovo, e dunque lo consolida nella mente. È come se camminassimo in tondo su un terriccio morbido: ogni giro scava un solco più profondo. TORNARE A CASA E RESTARCI Non possiamo prescindere dalle tre esigenze fondamentali, e nemmeno dalla triplice struttura del nostro cervello – rettiliano-mammifero-primate – plasmata dall’evoluzione. Abbiamo però la possibilità di decidere in che modo rispondere alle nostre esigenze: possiamo attivare la zona verde o quella rossa, conservando il senso di pace, appagamento e amore, oppure lasciarci assillare dalla paura, dalla frustrazione e dalla sofferenza. La modalità ricettiva è il nostro stato naturale, la condizione in cui corpo e mente sono equilibrati e in quiete. È l’essenza del benessere, e la base di una resilienza duratura. Spesso permettiamo agli eventi di turbarci, catapultandoci nella zona rossa. E a quel punto abbiamo la tendenza a restarci, a causa del pregiudizio negativo e dell’inclinazione a rimuginare. Così ci ritroviamo sfrattati a vita, privati per sempre della nostra vera casa. Non è colpa nostra. È stata la biologia a renderci così, un dono ambivalente di Madre Natura. Ma non siamo tenuti ad accettarlo in modo passivo. LASCIARE LA ZONA ROSSA A volte le sfide della vita richiedono di necessità una risposta reattiva. Bisogna reagire in fretta per evitare una macchina o affrontare una persona aggressiva. Gli esseri umani hanno la scorza dura, e possono tollerare un breve transito nella zona rossa. Il consiglio, però, è di lasciarla appena possibile. Un buon metodo per riuscirci è ricorrere alle tre tecniche seguenti di riorientamento mentale. Accettazione Prestate attenzione alle prime avvisaglie di malessere, quando cominciate a sentirvi sotto pressione, a disagio, esasperati, frustrati, stressati o agitati. Prendete coscienza del vostro stato fisico e mentale, dando un nome a ogni sensazione: «Mi sento teso… preoccupato… offeso… triste». La riflessione incrementa l’attività della corteccia prefrontale (la parte del cervello dietro la fronte), che contribuisce all’autocontrollo. Esprimere le emozioni a parole riduce anche l’attività dell’amigdala – che funziona come un sistema di allarme dentro il cervello –, aiutandovi a calmarvi. Riflettete sulle esperienze che possono avervi resi più sensibili o vulnerabili a certi eventi: la rabbia inconsulta che vi prende quando vi sentite emarginati dai colleghi d’ufficio potrebbe essere radicata nel senso di isolamento provato a scuola. Individuate le sensazioni che vi attraversano senza riviverle o lasciarvi trascinare, ma conservando uno stato di consapevolezza distaccata. Le reazioni della zona rossa non vi coinvolgono: sono immagini che scorrono sullo schermo di un cinema mentre voi sedete in ultima fila. Distacco Ora passate alla seconda fase. Prendete coscienza del fatto che in genere i pensieri e le emozioni reattivi sono dannosi, per voi stessi e per gli altri. Analizzateli con cura per decidere se è davvero il caso di coltivarli o se invece non sia meglio liberarvene. Inspirate ed espirate lentamente, rilassando il corpo, e apritevi al flusso delle sensazioni. Potete sfogare l’ansia, la rabbia o il dolore parlando con un amico, piangendo, urlando, o semplicemente decidere di lasciare che tutte queste emozioni scorrano via. Siate scettici rispetto alle congetture, alle aspettative e alle convinzioni all’origine del vostro stato di ansia, di stress, di frustrazione o di rabbia. Riesaminate il vostro giudizio sulla situazione e la vostra interpretazione delle intenzioni altrui, e scrollatevi tutto ciò che ora, a mente fredda, vi appare falso, allarmistico o meschino. Assaporate a fondo la sensazione di uscire dalla zona rossa. Assimilazione Apritevi a tutto ciò che vi suscita un senso di appagamento. Richiamate alla mente le situazioni passate in cui avete affrontato un problema con competenza e sicurezza. Concedetevi un piccolo piacere: una doccia calda, una mela, un brano musicale. Il piacere attiva il rilascio di oppioidi endogeni che placano e rilassano le funzioni cerebrali. Concentrate la mente su un pensiero che vi suscita gratitudine e felicità, magari un’immagine che vi fa sorridere. Entrate in contatto – reale o immaginario – con una persona a voi cara. Avvertite la sensazione di essere amati e riconoscete l’affetto che provate per gli altri. Eliminate tutti i pensieri infondati e concentratevi sui giudizi e i punti di vista accurati, utili e saggi. Assaporate a fondo l’ingresso nella zona verde. POTENZIARE LE RISORSE RICETTIVE Quasi tutti sperimentiamo la modalità ricettiva mille volte al giorno, ma in genere ce ne accorgiamo appena. Perciò attivate la mindfulness, concentrandovi sulle tante occasioni in cui le vostre esigenze vengono soddisfatte. Nel respirare, per esempio, prendete nota dell’abbondanza d’aria a vostra disposizione. In questo preciso momento, qui e ora, siete al sicuro – e con ogni probabilità sarà lo stesso anche nell’istante successivo. Quando terminate un compito – spedite un’email, finite di pettinare vostra figlia, riempite il serbatoio dell’auto – assaporate la soddisfazione di un lavoro ben fatto. Notate il sorriso dei passanti o ricordate una persona cara, focalizzandovi sul senso di appartenenza al mondo. Prestate attenzione alle esperienze della zona verde, abbiatene cura, prolungatele nel tempo. Assimilatele, concentrandovi per qualche secondo affinché lascino una traccia sempre più profonda nella vostra mente. In questo modo rafforzerete il senso di pienezza e di equilibrio che sta alla base della modalità ricettiva, riducendo nel contempo le sensazioni di mancanza e suscettibilità che innescano quella reattiva. Far proprie le esperienze della zona verde potenzia le nostre risorse interiori, attivando un circolo virtuoso che favorisce nuove esperienze dello stesso tipo e dunque nuove occasioni di potenziamento. In questo modo riuscirete ad affrontare ostacoli sempre più ardui, conservando la calma anche quando il mondo intero è in preda al panico, e custodendo al vostro interno un nucleo di benessere e resilienza che niente potrà scalfire o sopraffare. Davanti a una difficoltà, domandatevi quale esigenza primaria è in gioco – la sicurezza, la gratificazione o la socialità –, in modo da poter chiamare a raccolta le risorse specifiche più adatte a risolvere il problema (più avanti scopriremo come). E ricordate: ogni volta che le attivate, ripetendone l’esperienza, le risorse interiori si radicano più in profondità nel vostro sistema nervoso. Se la mente è come una barca a vela, sviluppare le nostre risorse interiori è come allungare la chiglia della nostra mente. Resa stabile ed equilibrata, la nostra barca potrà avventurarsi in mare aperto con la certezza di poter far fronte a qualsiasi corrente o tempesta si profili all’orizzonte. CONCETTI CHIAVE Il cervello viene plasmato dalle esperienze, che a loro volta dipendono da ciò cui prestate attenzione. Attivando la mindfulness potrete approfondire l’esperienza delle vostre risorse interiori, per esempio la compassione e la gratitudine, e radicarle nel vostro sistema nervoso. I tre modi principali di attivare e orientare la mente sono: accettazione della realtà, riduzione di ciò che è negativo e doloroso, assimilazione di quanto è positivo e appagante. Tutte le creature viventi hanno tre esigenze di base – sicurezza, gratificazione, socialità – che soddisfano evitando i pericoli, perseguendo le esperienze premianti e forgiando legami. Sia le esigenze sia i nostri modi di soddisfarle sono collegati a parti diverse del cervello: il tronco encefalico (parte primitiva, rettiliana), la regione subcorticale (mammifera) e la neocorteccia (primati/umani). Si accede alla serenità appagando i desideri, non negandoli. Quando le nostre esigenze ottengono una soddisfazione sufficiente, corpo e mente entrano nella zona verde, la modalità ricettiva, in cui regna un senso di pace, tranquillità e amore. Quando ci sentiamo insoddisfatti, entriamo nella zona rossa, attivando la modalità reattiva di fuga-lotta-paralisi e provando un senso di paura, frustrazione e dolore. La ricettività è il nostro stato naturale, ma spesso ci ritroviamo catapultati nella zona rossa a causa dell’inclinazione innata del cervello a trattenere come il velcro le esperienze negative e a rimbalzare come il teflon quelle positive. Per rimanere nella zona verde, prendete coscienza delle esperienze che soddisfano le vostre esigenze, potenziando di conseguenza le vostre risorse interiori. In questo modo potrete affrontare difficoltà sempre più ardue mantenendovi in uno stato di ricettività. APPRENDIMENTO Non sottovalutate il bene, pensando: «A me non capiterà mai». La cisterna dell’acqua si riempie goccia a goccia. Allo stesso modo il saggio si riempie di bene, raccogliendolo poco alla volta. DHAMMAPADA, IL CAMMINO DEL DHARMA In vista di una lunga escursione bisogna preparare viveri e scorte. In modo analogo, nel cammino della vita servono risorse psicologiche, come compassione e coraggio. Ma come inserire quest’armamentario nel nostro «zaino» neurale? LA CURVA DELLA CRESCITA Ci riusciamo grazie all’apprendimento. Il termine è ampio, e va ben oltre la semplice memorizzazione delle tabelline. Ogni cambiamento duraturo di umore, prospettiva o comportamento deriva da un apprendimento. Fin dalla primissima infanzia noi impariamo buone abitudini, talenti e capacità di interazione. Anche la guarigione, il recupero e lo sviluppo sono forme di apprendimento. Solo un terzo circa delle nostre caratteristiche è determinato dal DNA, mentre gli altri due sono appresi. È un’ottima notizia, perché significa che disponiamo di un ampio margine operativo per decidere il tipo di persona che saremo. Immaginate di voler diventare più posati, più saggi, più felici e più resilienti. Poiché da bambino ero appassionato di fumetti, io penso a queste risorse interiori come a un assortimento di superpoteri. L’apprendimento dei superpoteri è il potere più super di tutti, un vero moltiplicatore di risorse. Dunque, per potenziare le nostre capacità di crescita personale, esamineremo più a fondo questo processo. COME SI IMPARA Ogni forma di apprendimento comporta un cambiamento nella struttura o nelle funzioni neurali. Tali cambiamenti avvengono in due fasi, che chiamerò attivazione e installazione. La prima corrisponde a un’esperienza, per esempio la sensazione di essere apprezzati. Ogni esperienza – tutti i pensieri, le emozioni, i sogni a occhi aperti, le preoccupazioni, qualsiasi cosa attraversi la nostra coscienza – si fonda su processi neurali, e corrisponde a uno stato specifico di attività mentale. Nella seconda fase l’esperienza si radica nella memoria a lungo termine: lo stato transitorio viene installato come tratto definitivo (uso la parola «tratto» in senso lato). In neurologia c’è un detto basato sulle ricerche di Donald Hebb: «I neuroni che si attivano in contemporanea si collegano tra loro». Più spesso si ripete l’attivazione simultanea, più diventa saldo il collegamento. In parole povere, le risorse psicologiche si sviluppano con il ripetersi di un’esperienza, che con il tempo si tramuta in un cambiamento permanente nel cervello. Si potenziano l’ottimismo, la sicurezza o la forza di volontà installando ripetutamente le sensazioni positive di gratitudine, competenza o determinazione. In modo analogo, impariamo a rimanere in modalità ricettiva – nella zona verde, dominata dal senso di pace, appagamento ed espansività – interiorizzando molte esperienze di sicurezza, gratificazione e socialità. L’AUTOSUFFICIENZA È la base di ogni guarigione, formazione e crescita personale. Potete applicarla allo sviluppo delle capacità comunicative, alla motivazione, alla pace mentale o a qualsiasi altra risorsa vogliate potenziare. Il segreto è sempre lo stesso: l’autosufficienza. Nella vita anche le situazioni più appaganti, il lavoro più sicuro, le relazioni più stabili possono cambiare. Presto o tardi qualcosa andrà storto. Ma ciò che avete dentro resta costante. Così com’è impossibile disimparare ad andare in bicicletta, le risorse interiori che avete appreso sono destinate a crescere nel corso del tempo. E più la vostra vita è dura e priva di sostegni esterni, più sarà importante ricercare ogni giorno le occasioni anche minime di assaporare e assimilare esperienze piacevoli e utili. Purtroppo è raro che qualcuno ci insegni in modo esplicito questo processo di interiorizzazione positiva. A scuola, sul lavoro e nei corsi di formazione si imparano un mucchio di cose, ma nessuno ci insegna a imparare. Imparando a imparare acquisirete la struttura essenziale su cui fondare la vostra serenità e resilienza. PACE A TE! Ho riassunto le fasi di questo processo di consolidamento neurale nell’acronimo PACE: Attivazione 1. Positività: sperimentate un evento positivo, notandolo nella realtà o creandolo voi stessi. Installazione 2. Arricchimento: immergetevi totalmente nell’esperienza, avvertendola appieno. 3. Comprensione: coglietene gli effetti e accoglieteli dentro di voi. 4. Elasticità (facoltativo): collegate l’esperienza positiva a quelle negative, dolorose o dannose del passato, per placarle ed eliminarle. L’attivazione corrisponde alla prima fase dell’apprendimento. Sostanzialmente si tratta di prestare attenzione e di prendere coscienza di un’esperienza positiva. La fase di installazione avvia la trasformazione dell’esperienza in un tratto duraturo radicato nella mente, e quella della comprensione completa il processo. L’ultimo passo, l’elasticità, riguarda le esperienze sia positive sia negative, ed è facoltativo per due motivi: perché per l’apprendimento bastano i primi tre e perché a volte non siamo pronti ad affrontare i residui delle esperienze negative. Nelle prossime pagine esploreremo ogni fase nel dettaglio, illustrando anche come moltiplicare le esperienze positive e rafforzarne il radicamento. Imparerete a identificare e sviluppare le risorse di cui più avete bisogno, e scoprirete come impiegare la fase di elasticità per alleviare e persino eliminare per sempre i pensieri, le emozioni e i comportamenti più dolorosi e inibenti, compresi quelli che risalgono all’infanzia. FAVORIRE LE ESPERIENZE BENEFICHE Passate in rassegna i momenti della vostra giornata-tipo: quali eventi vi sono rimasti più impressi? L’automobilista che vi ha tagliato la strada, il piatto rotto, un incarico frustrante sul lavoro? Oppure il piacere di fare colazione, la soddisfazione di aver tenuto fede a un impegno, la bellezza del tramonto? Pensate ai vostri rapporti con gli altri: che cosa richiama maggiormente la vostra attenzione, i momenti di ordinaria armonia oppure quell’unico commento critico? In genere sono gli episodi negativi a spiccare. Dato il pregiudizio negativo del cervello, le esperienze dolorose o spiacevoli si impongono in primo piano alla coscienza, mentre quelle piacevoli e utili sfumano in sottofondo. Questo atteggiamento potrebbe essere vantaggioso in un ambiente molto ostile, ma in circostanze normali logora la mente e il fisico. Il fatto è che il nostro cervello ragiona più in termini di sopravvivenza immediata che di benessere e felicità duraturi. Perciò spostarne l’attenzione sulle esperienze positive non fa altro che ristabilire il giusto equilibrio. Non si tratta di vedere tutto in rosa o il bicchiere mezzo pieno. In realtà è puro e semplice pragmatismo: la vita è spesso difficile, quindi abbiamo bisogno di risorse mentali per affrontare gli ostacoli, e per costruirle dobbiamo riorientare il processo di apprendimento del cervello. Il processo comincia sperimentando i punti di forza interiori che volete sviluppare: in primo luogo notando e concentrandovi sulle esperienze positive già presenti nella vostra vita; in secondo luogo creandone di nuove, per esempio attivando il vostro senso di compassione di sé o praticando la meditazione. Esploriamo ciascuna di queste due fasi. RICONOSCERE I GIOIELLI CHE CI CIRCONDANO A quasi tutti capitano esperienze positive nel corso della giornata, in genere piaceri semplici e di breve durata. Per esempio, è piacevole bere un bicchiere d’acqua quando si ha sete, o infilare un maglione se fa freddo. È raro passare un giorno intero senza provare simpatia per qualcuno. Vi accorgete di queste esperienze, prendendone coscienza in modo intenzionale, oppure lasciate che vi scivolino addosso senza notarle? Ogni giorno è come un sentiero costellato di minuscole pietre preziose: i piccoli eventi positivi della vita. È facile trascurarle e persino calpestarle. Ma poi la sera ci domandiamo: «Perché non mi sento più ricco? Come mai continuo a provare un vuoto dentro?». Le pietre preziose sono già a portata di mano. Perché non raccoglierle? Se un’esperienza è piacevole, in genere significa che fa bene a voi e magari anche agli altri. Non trascurate i piaceri quotidiani come irrilevanti e banali, come se il senso della vita risiedesse soltanto nelle avversità e nella fatica. Semmai è il contrario. Le esperienze positive ci nutrono, quelle negative esauriscono le nostre energie. Certo, sul lungo periodo certi piaceri possono rivelarsi dannosi, come mangiare troppi dolci. E alcune risorse psicologiche derivano in parte dalle esperienze sgradevoli. Per esempio, possiamo rafforzare la nostra coscienza morale attraverso il rimorso e un giusto senso di colpa. Ma in generale, se una cosa è piacevole, significa che è una gemma e che merita di essere raccolta. Le nostre esperienze si costituiscono di cinque elementi, e ciascuno rappresenta un gioiello con cui potete arricchire la vostra mente e la vostra vita. I cinque elementi sono: i pensieri (le credenze, le immagini), le sensazioni (le percezioni, i suoni), le emozioni (i sentimenti, gli umori), i desideri (i valori, le intenzioni) e le azioni (la postura, l’espressione del viso, il movimento o il comportamento). L’esperienza della gratitudine, per esempio, potrà comprendere il pensiero di un regalo ricevuto da un amico, la sensazione di rilassamento, l’emozione di contentezza, il desiderio di esprimere il proprio apprezzamento e l’azione di scrivere un biglietto di ringraziamento. Nel corso di un’esperienza positiva è possibile che la vostra consapevolezza colga anche altre cose, per esempio una fitta alla schiena mentre accarezzate il vostro gatto. Ma l’aspetto negativo non elimina quello positivo. Entrambi sono reali – l’esperienza piacevole e quella sgradevole, il dolce insieme all’amaro. Potete accettare il lato brutto e concentrarvi ad assimilare quello bello. Non si tratta di pensiero positivo, ma di pensiero realistico: la capacità di vedere l’intero mosaico del mondo intorno a voi e la complessità delle vostre esperienze, a dispetto della tendenza del cervello a fissarsi sulle poche tessere negative trascurando quelle belle e preziose. CREATE VOI STESSI QUALCHE GIOIELLO Notare i pensieri, le sensazioni, le emozioni, i desideri e le azioni piacevoli e utili dentro e intorno a voi è la via maestra per assimilare positività. Queste esperienze sono già disponibili, e sono reali e autentiche. Perché non approfittarne? In aggiunta, potete crearne di nuove e altrettanto benefiche, per esempio facendo esercizio fisico oppure ricordando una persona che vi apprezza. Esistono molti metodi diversi per generare questo tipo di esperienza. Primo, cercate fatti positivi. Si tratta di tutti quegli elementi che promuovono il vostro benessere e la vostra serenità, oltre a quelli altrui. Potete trovarne ovunque: nella vostra quotidianità, nella cronaca, nel mondo che vi circonda, nel passato, nella vita del prossimo. Oppure nella vostra interiorità: riflettete sui vostri talenti, le vostre competenze, le vostre buone intenzioni. I fatti positivi sono presenti anche nei momenti peggiori, per esempio l’aiuto che ricevete dal prossimo in un periodo di lutto. Secondo, generate fatti positivi passando all’azione. Potrà trattarsi di un gesto molto ordinario, come cambiare posizione sulla sedia per mettervi più comodi, oppure qualcosa di più grande, come prestare ascolto a un amico per conoscerlo meglio. I fatti sono reali e affidabili. Non state inventando niente. Individuato un fatto positivo, trasformate il semplice riconoscimento in un’esperienza concreta. Consideratene gli aspetti pratici, prendete coscienza della sua realtà e fondatezza. Tenete a mente le sensazioni che vi suscita, spesso un senso di distensione e di apertura. Entrate in sintonia con le emozioni che provate, per assaporare l’esperienza in tutta la sua ricchezza. Per approfondire questa pratica, provate l’esercizio illustrato nel box. Terzo, evocate un’esperienza positiva, per esempio rilassandovi, chiamando a raccolta il vostro senso di determinazione o liberandovi di un risentimento. Come abbiamo detto, il cervello è plasmato dalle esperienze, perciò tanto più spesso un’esperienza del passato viene richiamata alla mente e interiorizzata, tanto più sarà facile riattivarla anche nel presente. Resterà registrata in modo indelebile nella vostra interiorità, permettendovi di riviverla ogni volta che lo desiderate, così come si riascolta una canzone amata premendo il pulsante di un jukebox. Ogni giorno della vita ci offre innumerevoli opportunità di sperimentare emozioni e pensieri benefici e sensazioni e desideri positivi, sia presenti sia evocati dal passato. Già il fatto stesso di prendere coscienza di questa verità è un’esperienza positiva! CREARE UN’ESPERIENZA POSITIVA L’esercizio che vi propongo si concentra sulla contentezza, ma il metodo vale per qualsiasi esperienza positiva vogliate creare per voi stessi. Pensate a una realtà che vi rende felici. Potete scegliere qualcosa di grande o piccolo, presente o passato: un oggetto, un evento, uno stato mentale o fisico, una relazione, un’entità spirituale, o l’intero universo. Concentratevi sulle sensazioni del corpo e apritevi alla contentezza… alla gratitudine… alla consolazione… alla felicità. Avvertirete l’allentamento della tensione, la riduzione progressiva dello stress e della frustrazione. Esprimete il pensiero in modo esplicito: «Sono una persona fortunata perché…». Esplorate l’esperienza in ogni suo elemento, prendendo coscienza delle reazioni fisiche… delle emozioni, come il sollievo o la serenità… dei desideri, per esempio l’impulso di esprimere gratitudine… delle azioni, come il sorriso che vi distende le labbra. Concentrate la mente su ogni aspetto della vostra vita che vi procura contentezza, e approfonditene l’esperienza seguendo lo stesso metodo. TRASFORMARE IL POSITIVO IN UNA RISORSA DURATURA Quando la vostra mente vi propone una melodia piacevole, accendete il registratore e incorporatela al vostro repertorio mentale prima che fugga via. Possiamo imparare qualcosa anche dai pensieri e dalle sensazioni più effimere, ma la gran parte delle esperienze potenzialmente benefiche che ci capitano nel corso di una giornata passa inosservata, e svanisce senza lasciare traccia: non cambia la nostra prospettiva o il nostro stato d’animo, non arricchisce il nostro patrimonio di risorse interiori. Succede anche con la psicoterapia, con i programmi di life coaching e di formazione. Nel mio lavoro di analista ero tormentato e mortificato dall’evidenza che gran parte delle intuizioni potenzialmente risolutive che i miei pazienti conquistavano a caro prezzo non portava a cambiamenti definitivi. La colpa era mia, non loro. I professionisti del mio settore non hanno difficoltà ad attivare stati mentali desiderabili nei loro assistiti. Il problema sorge quando si tratta di installarli come tratti definitivi nel cervello. La maggiore opportunità di autentica guarigione non consiste nel perseguire metodi più efficaci per dare alle persone un più ampio accesso alle esperienze positive, ma nel perfezionare la conversione di quelle già disponibili in cambiamenti duraturi della struttura e delle funzioni neurali. Che siate analisti o pazienti, la tecnica dell’installazione resta identica. La formula è molto semplice: si tratta di arricchire e assimilare l’esperienza. Arricchire l’esperienza significa riviverla nella mente, sperimentarla appieno; assimilarla significa incorporarla in noi stessi. Nel cervello l’arricchimento equivale al potenziamento di un particolare modello di attività mentale/neurale, mentre l’assimilazione equivale a un processo di innesco, sensibilizzazione e incremento di efficienza dell’apparato di memorizzazione. A prima vista potrà sembrare un concetto astruso, ma in realtà si tratta di un processo naturale e intuitivo, al quale ricorriamo di continuo e in modo del tutto spontaneo. Ci capita ogni giorno di soffermarci ad assaporare un’esperienza e di accoglierla in noi stessi. Accade in modo quasi inconsapevole: il processo dura qualche istante, e le fasi di arricchimento e assimilazione tendono a confondersi tra loro. Ma quando ci stiamo impegnando a imparare qualcosa di nuovo – compreso l’apprendimento stesso – è utile suddividere il processo nelle sue fasi costitutive ed esaminarle singolarmente. Poi, nella pratica, queste torneranno a ricomporsi in un intero, permettendovi in questo modo di chiamare a raccolta le vostre risorse positive ogni volta che lo desiderate. ARRICCHIMENTO Esistono cinque modi di arricchire un’esperienza: 1. Prolungarla. Concentratevi sull’esperienza per cinque, dieci o più secondi. Più a lungo quei neuroni si attivano in simultanea, più il loro collegamento ne uscirà rafforzato. Evitate le distrazioni e rimanete concentrati, se i pensieri tendono a vagare richiamateli sull’esperienza. 2. Intensificarla. Apritevi all’esperienza, lasciando che si espanda nella vostra mente. Alzate il volume, per così dire, assaporandola a fondo e abbandonandovi all’emozione che vi suscita. 3. Espanderla. Notatene gli elementi periferici. Se per esempio vi state concentrando su un pensiero positivo, esaminate le sensazioni o le emozioni che ne derivano. 4. Rinnovarla. Il nostro cervello è un radar sensibilissimo alle novità: è progettato per apprendere dal nuovo e dall’imprevisto. Perciò ricercate gli aspetti che rendono un’esperienza interessante o insolita. Immaginate di sperimentarla per la prima volta. 5. Valorizzarla. Per imparare qualcosa dobbiamo sentirci coinvolti. Prendete coscienza degli aspetti dell’esperienza che vi riguardano in modo diretto, tutto ciò che la rende importante e utile per voi. Ciascuno di questi metodi incrementa l’impatto di un’esperienza, a maggior ragione se ne attivate più di uno. Ma non è obbligatorio usarli tutti ogni volta. Spesso basta riflettere su un’esperienza per qualche istante, esaminandone gli effetti emotivi e fisici, e poi passare alla successiva. ASSIMILAZIONE Esistono tre modi di contribuire all’assimilazione di un’esperienza: 1. L’intenzione di incorporarla. Prendete la decisione consapevole di accogliere l’esperienza come parte di voi. 2. La percezione di incorporarla. Immaginate che l’esperienza sia un olio tiepido assorbito dalla pelle, o una pietra preziosa che custodite nello scrigno del vostro cuore. Abbandonatevi alla sensazione di assimilarla, lasciando che diventi parte di voi. 3. La gratificazione. Concentratevi su ogni aspetto piacevole, rassicurante, utile o promettente dell’esperienza. La percezione di piacere attiverà il rilascio di due neurotrasmettitori – dopamina e norepinefrina – che contribuiranno a segnalare l’esperienza come un elemento da registrare nella memoria a lungo termine. I primi tre passi del processo PACE – positività, arricchimento, comprensione – sono l’essenza dell’apprendimento. Se lo immaginiamo come un fuoco, allora le varie fasi corrispondono rispettivamente all’atto di trovare o di accendere un falò, di proteggerlo e alimentarlo, e infine di riscaldarsi alle sue fiamme. Sono tecniche cui potete ricorrere in qualsiasi momento, soffermandovi su di esse nel corso di una giornata per dieci o trenta secondi, oppure ritagliandovi qualche minuto per dedicarvi a un esercizio specifico, come quello suggerito nel box. L’obiettivo non è cercare di trattenere le esperienze. Il flusso della coscienza è in costante mutamento, perciò ogni tentativo di arginarlo ci condanna al fallimento e alla frustrazione. Ciò che invece possiamo fare è indurre con dolcezza gli elementi benefici a emergere dalla corrente. La felicità è come una magnifica creatura selvatica che ci osserva dal margine della foresta. Se cerchiamo di avvicinarci, fugge. Ma se ci sediamo, accendiamo il fuoco e lo alimentiamo con qualche rametto, sarà lei a venire da noi, e a restare. ARRICCHIRE E ASSIMILARE L’ESPERIENZA DELL’AFFETTO Concentratevi sull’immagine di qualcuno che vi è caro – un amico, un bambino, il vostro partner, un animale domestico. Lasciatevi assorbire dal senso di intimità, di apprezzamento, di rispetto, di compassione, di amore che vi suscita. Ora passate alla fase di arricchimento. Prolungate l’esperienza evitando le distrazioni e richiamando i pensieri quando cominciano a vagare; mantenete la concentrazione, un respiro dopo l’altro. Apritevi all’esperienza, lasciando che vi riempia e acquisisca intensità. Espandetela esplorando i vari aspetti dell’affetto che provate: i pensieri… le sensazioni… le emozioni… i desideri… le azioni che vi ispira (per esempio il gesto di mettere una mano sul cuore). Rinnovate l’esperienza attivando curiosità ed entusiasmo. Analizzate i molti modi in cui questo affetto vi riguarda, la sua importanza e la sua utilità nella vostra vita. Ora passate alla fase di assimilazione. Prendete la decisione esplicita di accogliere l’esperienza. Percepite il suo calore che vi invade, diventa parte di voi. Concentratevi sugli aspetti che la rendono positiva: il piacere di dare e ricevere affetto, il senso di apertura al mondo, l’appagamento. Immergetevi nelle sensazioni, incorporandone l’esperienza. COLTIVARE LE RISORSE NECESSARIE I miei genitori erano persone buone e animate dalle migliori intenzioni, ma il lavoro li impegnava molto, e per vari motivi – inclusa la mia ritrosia personale – da piccolo io mi sentivo poco compreso. Per crescere, i bambini hanno bisogno di nutrirsi di una densa «zuppa» di empatia, mentre io ho dovuto accontentarmi di un brodino leggero. Inoltre avevo cominciato la scuola con un anno di anticipo, e sia la differenza di età sia il mio temperamento da nerd cospirarono a isolarmi dai compagni. In termini di bisogni primari, potevo dirmi relativamente soddisfatto sul fronte della sicurezza e della gratificazione, mentre restavo carente nell’ambito della socialità. Con l’andare del tempo anche i problemi più minuscoli si accumulano e si aggravano; così, al momento di partire per il college, mi sembrava di avere un gran vuoto nel cuore, un enorme cratere dolente. Non sapevo come rimediare. La cautela e l’impegno mi facevano sentire al sicuro, ma non riempivano il vuoto. Studiare mi piaceva e ottenevo buoni risultati che soddisfacevano il mio bisogno di gratificazione, ma anche questo non placava la mia terza esigenza fondamentale. Il mio deficit di socialità era come lo scorbuto, una carenza vitaminica specifica: avevo bisogno di vitamina C e cercavo di compensare con la A e la B (altrettanto utili, ma non sufficienti). Poi, a metà del primo anno di università, tutto cambiò. Avevo cominciato a notare, percepire e assimilare scorte sociali – per esempio il gruppo che mi invitava al suo tavolo in mensa, o il compagno che si fermava a chiacchierare prima di una lezione. Finalmente avevo trovato la cura per il mio malessere, la mia vitamina C. Pian piano, l’accumularsi delle esperienze quotidiane positive riempì il vuoto del mio cuore. Dunque, qual è la vostra vitamina C? INDIVIDUARE LE VOSTRE RISORSE CHIAVE Le tre esigenze fondamentali ci offrono una struttura di massima per identificare le risorse interiori più essenziali per ciascuno di noi. Quando le avrete individuate, potrete concentrarvi a trovare ogni giorno occasioni per sperimentarle e potenziarle. Chiarire un problema Se andate dal medico, la prima domanda che vi rivolgerà sarà: «Dove senti dolore?». Magari la vostra difficoltà è esterna: un conflitto con qualcuno, un lavoro stressante, una malattia. Oppure è di origine psicologica, per esempio la tendenza all’autocritica o la paura dell’abbandono. A volte un problema esterno ne acuisce uno interno, come quando una tensione nei rapporti interpersonali risveglia il nostro senso d’inadeguatezza. Se provate un disagio che non riuscite a definire, provate a esaminare la situazione dal punto di vista dei bisogni primari: vi sentite insoddisfatti sul fronte della sicurezza, della gratificazione o della socialità? È possibile che il problema li riguardi tutti, ma in genere uno in particolare tenderà a spiccare. La sofferenza, la paura, la paralisi – spesso accompagnate da ansia, rabbia o senso d’impotenza – sono sintomi di una carenza nell’ambito della sicurezza. Un intralcio al perseguimento dei vostri obiettivi, un fiasco, una perdita economica, una vita priva di piaceri – magari tormentata da un senso di delusione, frustrazione o noia – indicano che l’ambito più carente è quello della gratificazione. I conflitti interpersonali, l’isolamento, il lutto, l’umiliazione – in genere accompagnati da un senso di solitudine, di sofferenza emotiva, di rancore, invidia, inadeguatezza o vergogna – sono sintomi di una carenza affettiva, e ricadono dunque nel campo della socialità. Prestate un’attenzione particolare alle esigenze che tendete a reprimere: se per esempio, nell’ambito della socialità, vi sentite in colpa quando gli altri vi trattano male. Identificare le risorse utili Servono risorse interiori adeguate per compensare il deficit di un bisogno specifico. Se la vostra macchina è a secco, la soluzione giusta è un pieno di benzina, non un cambio di pneumatici. Quello che segue è un elenco delle principali risorse mentali legate a ogni bisogno primario; le analizzeremo nel dettaglio nelle prossime pagine. Sicurezza: essere alleati di voi stessi, determinazione, grinta, autonomia, sentirsi spalleggiati, valutazione accurata delle minacce, consapevolezza che qui e ora non corriamo alcun pericolo, calma, distensione, pace interiore. Gratificazione: gratitudine, contentezza, piacere, appagamento, lucidità rispetto agli obiettivi, entusiasmo, passione, motivazione, aspirazione, senso di adeguatezza, senso delle proporzioni. Socialità: compassione per gli altri e di sé, empatia, bontà, autostima, assertività, perdono, generosità, amore. Se avete freddo, qualsiasi tipo di giacca calda può risolvere il problema. In modo analogo, una qualsiasi delle risorse sopraelencate contribuisce a soddisfare il bisogno primario cui è correlata. Combinandole, la probabilità di risolvere il problema si moltiplica. Spesso, però, può essere utile affinare al massimo il collegamento tra risorsa e bisogno. Per esempio, quand’ero piccolo mi capitava spesso di essere scelto per ultimo nelle squadre sportive. La cura migliore per il senso di vergogna e inadeguatezza lasciato da quelle esperienze è stata la conferma delle mie capacità e della mia resistenza fisica tratta dalla pratica dell’alpinismo. Rileggete l’elenco di risorse alla luce della vostra difficoltà personale, e del bisogno (o bisogni) primario al cuore del problema: qualcuna trova una risonanza particolare dentro di voi? Chiedetevi: Quale di queste risorse mi sarebbe più utile se mi concentrassi a potenziarla? Quale di queste risorse potrebbe aiutarmi a mantenermi in modalità ricettiva nell’affrontare il mio problema? Se le avessi attivate in passato, quale di queste risorse avrebbe migliorato la mia situazione attuale? Di quali esperienze sento più profondamente la mancanza? Le risposte a queste domande vi orienteranno verso una o più risorse specifiche: la vostra vitamina C. E ricordate: l’amore è un multivitaminico, un toccasana universale. Contribuisce al nostro senso di sicurezza, come quando un bambino spaventato riceve un abbraccio, o un amico ci accompagna alla macchina in un parcheggio buio. L’amore ci appaga. E ci fa sentire in comunicazione con il mondo. Perciò, se non riuscite a identificare una risorsa specifica per il vostro problema, non preoccupatevi: in una forma o nell’altra, provate con l’amore. INTERIORIZZARE LE RISORSE CHIAVE Una volta identificata la risorsa chiave, usate le fasi del processo PACE per sperimentarla più e più volte, fino a installarla nel vostro sistema nervoso. Forse ne siete già dotati, e dovete soltanto rendervene conto e prenderne coscienza. Poniamo che siate insicuri del vostro rendimento sul lavoro, e che vi siate resi conto che per guarire da questo timore potrebbe esservi utile il rispetto dei colleghi. Magari loro stanno già compiendo piccoli gesti o esprimendo commenti che dimostrano riconoscimento e apprezzamento nei vostri confronti, e che finora, però, vi sono passati quasi inosservati. Prestate attenzione e attivate la mindfulness per imparare a notarli. Per potenziare una risorsa interiore potete anche crearne l’esperienza. Proseguendo con l’esempio dei colleghi, potete ricercare attivamente fatti che dimostrano il loro rispetto per voi – il senso di cameratismo, il tono di approvazione con cui vi parlano oppure la frequenza con cui chiedono la vostra opinione. Oppure potete agire in prima persona, facendovi avanti e partecipando di più alle riunioni. Quando vi imbattete in un’opportunità di sperimentare la risorsa interiore di cui avete bisogno, soffermatevi e concentratevi sull’esperienza, per assaporarne e interiorizzarne i benefici. Una volta sperimentata la risorsa, passate alla fase di installazione dell’apprendimento. Come abbiamo visto, potete arricchire l’esperienza prolungandola, lasciando che vi riempia la mente, aprendovi alle percezioni che vi suscita, esplorandone i lati nuovi o insoliti, e identificandone gli aspetti più pertinenti e importanti per la vostra situazione personale. Infine assimilatela prendendo la decisione esplicita di accoglierla dentro di voi, avvertendo appieno la sensazione di incorporarla e assaporandone gli elementi più piacevoli e gratificanti. CONCENTRATEVI SULLE ESPERIENZE, NON SULLE CIRCOSTANZE ESTERNE Ogni occasione di sperimentare e potenziare una risorsa mentale chiave è preziosa. Individuate le esperienze che vi servono e, quando le trovate, impegnatevi ad assimilarle. È normale pensare a queste risorse in termini di persone, eventi o situazioni esterne. Ma ciò che conta, in realtà, è quello che provate dentro di voi. Beninteso, ciascuno di questi aspetti ha valore in sé e bisogna averne cura, ma nei termini del nostro discorso possiamo considerarli come mezzi per un fine, cioè le esperienze benefiche che stiamo ricercando. Poniamo il caso di una persona che sia alla ricerca di un rapporto sentimentale. Per quale motivo sente il bisogno di questa «condizione»? In parte perché ne trarrebbe esperienze di affetto, autostima, gioia e molto altro ancora. Tutti dovremmo impegnarci a migliorare le circostanze di vita nostre e del prossimo, ma spesso si tratta di un processo molto lento, e non è detto che vada a buon fine. Per contro, se spostiamo l’attenzione dai mezzi al fine, dalle condizioni esterne all’esperienza interiore, ecco che davanti a noi si apre una miriade di possibilità. Nel nostro esempio, anche in mancanza di un partner la persona in questione potrebbe comunque sperimentare affetto, autostima e gioia. Non intendo sminuire il valore dei rapporti sentimentali o di qualsiasi altra condizione esterna. Ma quando queste ultime non sono alla nostra portata, possiamo comunque trovare un modo per sperimentarne almeno alcuni aspetti benefici. Inoltre il nostro cervello interiorizza le esperienze a prescindere dalle circostanze. Quando il vostro iPod interiore suona una canzone, potete registrarla comunque, quale che sia la sua fonte. Ciò significa anche che potete assimilare le esperienze cruciali che vi sono mancate durante l’infanzia, anche se quel tempo è passato da un pezzo. La distinzione tra circostanze esterne ed esperienza interiore, tra mezzi e fini, è molto importante, e perderla di vista è spesso all’origine di tensioni e infelicità. Se ci lasciamo ossessionare dall’idea di perseguire una certa condizione esterna – come una nuova macchina o una promozione sul lavoro – senza tener conto del bisogno essenziale da cui scaturisce, ci priviamo della possibilità di soddisfare quel bisogno con esperienze diverse. Che cosa conta davvero: la vettura nuova o il senso di comfort e sicurezza che potremmo trarne? Desideriamo la promozione in sé oppure il senso di gratificazione e appagamento che ne deriverebbe? In altre parole, l’infelicità non dipende dalla mancanza di una macchina nuova o dalla mancata promozione, ma dal fatto di non sentirsi al sicuro, a nostro agio, competenti o realizzati. Una volta chiariti il vostro vero obiettivo e le esperienze più utili a soddisfarne l’esigenza, potrete concentrarvi su quelle già esistenti oppure sollecitarle voi stessi. Magari non sarà possibile ricreare fino in fondo la condizione esterna alla base della carenza – come il fatto di sentirsi accettati e accuditi da un genitore premuroso durante l’infanzia o amati da un partner nel presente –, ma di sicuro potrete assimilarne l’esperienza sotto un’altra forma, per esempio attraverso l’affetto di un amico o il rispetto di un collega. Certe ferite non guariranno mai del tutto, e non è detto che possiate colmare completamente il vuoto nel vostro cuore, ma un miglioramento è sempre meglio di niente. E chissà che, con il tempo, l’accumulo di piccole esperienze simili a quella che desiderate non possa davvero soddisfare il vostro bisogno. USATE I FIORI PER ELIMINARE LE ERBACCE Quando al college cominciai ad assimilare il positivo intorno a me, a volte provavo due sensazioni simultanee e contrastanti. Da un lato mi nutrivo delle dimostrazioni di apprezzamento che ricevevo dal prossimo, dall’altro continuavo ad avvertire il sottofondo di inadeguatezza che avevo interiorizzato durante l’infanzia. Quando accadeva, le nuove esperienze positive non si limitavano a riempire un vuoto nel presente, ma incidevano anche sui retaggi negativi del passato, riducendoli e rimarginando vecchie ferite. Questa è l’essenza della fase di elasticità del processo PACE. Sembra cervellotico, ma in realtà la dinamica di influenza reciproca tra presente e passato è un fatto molto comune. Se siete preoccupati per qualcosa, parlarne con un amico vi rassicura. Se avete un problema sul lavoro, il ricordo di un vecchio successo vi tranquillizza. Un conoscente vi insulta, e la certezza dell’affetto di vostro nonno lenisce l’offesa. Quando attivate la prima delle tre modalità principali di orientamento della mente, accettando una realtà negativa con piena consapevolezza, la serenità acquisita collegherà in automatico l’esperienza negativa ad altre che ne placano il disagio. SFRUTTARE LA NEUROPSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Questo tipo di collegamento è uno strumento molto potente. Il cervello apprende per associazione e, quando la nostra coscienza accoglie due stati in modo simultaneo, questi si condizionano a vicenda. Il segreto è accertarsi che l’esperienza positiva resti in primo piano rispetto a quella dolorosa o nociva. In questo modo il negativo non potrà contaminare il positivo, ma sarà quest’ultimo a purificare il primo. Vista la sua tendenza alla negatività, il vostro cervello ha dato la priorità di assimilazione alle esperienze stressanti, soprattutto incamerandole nella memoria cosiddetta implicita: i residui di esperienze vissute plasmano le vostre aspettative, il vostro modo di relazionarvi agli altri e il vostro senso di identità. Le scorie del passato condizionano il presente, ma ricorrendo all’elasticità potete ridimensionarle e persino sradicarle. Quando riemerge dagli archivi della memoria, il materiale negativo diventa instabile, e in aggiunta la memoria stessa si apre ad accogliere il nuovo materiale positivo acquisito dalla coscienza. A quel punto, attraverso un processo neurale di consolidamento, è possibile modificare il materiale negativo grazie all’azione delle nuove influenze positive. Le prime tre fasi del processo PACE seminano i fiori nel giardino della mente. La quarta li usa per eliminare le erbacce. AFFINARE L’ELASTICITÀ Per attivare la fase dell’elasticità dobbiamo imparare a concentrare la presenza mentale su due stati diversi, mantenendo in primo piano il materiale positivo ed evitando che quello negativo prenda il sopravvento. La pratica della mindfulness contribuirà a potenziare questo tipo di duplice attenzione. Se il negativo comincia a conquistare la scena, mettetelo da parte concentrandovi soltanto sul positivo. In un secondo momento, quando avrete riconquistato l’equilibrio e il distacco, potrete permettere al negativo di riaffiorare alla coscienza. Queste esperienze hanno una durata piuttosto breve – in genere una trentina di secondi –, ma volendo potete prolungarle. Individuate materiali positivi con un collegamento diretto a quelli negativi, così come nelle pagine precedenti avete associato a dei problemi specifici delle risorse chiave. Le esperienze di quiete e distensione, per esempio, sono un antidoto naturale all’ansia e al nervosismo; gli episodi di inclusione vissuti nel presente contribuiscono a rimarginare la ferita delle emarginazioni passate. Se le scorie negative risalgono a un periodo molto remoto della vostra vita, cercate di concentrarvi sugli aspetti non verbali, tattili, rassicuranti e confortanti del materiale positivo. Esistono due modi di accedere alla fase di elasticità. In genere l’avvio consiste in qualcosa di positivo, per esempio la consapevolezza di una risorsa chiave. Mentre ne approfondite l’esperienza, richiamate alla mente il materiale negativo che la risorsa è adatta a esorcizzare. Oppure potete cominciare da un’esperienza di disagio, stress o negatività, per esempio l’ansia acuta che provate prima di una presentazione sul lavoro. Ricorrete alla sequenza di accettazione, distacco e assimilazione: una volta presa coscienza della sensazione e assunta la giusta distanza, individuate un’esperienza positiva in grado di sostituire quella di cui vi siete appena liberati, per esempio il senso di calma che deriva dalla certezza di parlare a un pubblico davvero interessato alla vostra opinione. Finora avete fatto ricorso alle prime tre fasi del processo PACE. Se lo desiderate, potete passare alla quarta, portando il materiale positivo a contatto con le scorie o i depositi di materiale negativo per eliminarli in modo definitivo. Il materiale negativo, però, va maneggiato con cura. Se rischia di sopraffarvi, limitatevi a sviluppare le risorse adatte ad affrontarlo attivando soltanto le prime tre fasi del processo PACE. Poi, quando vi sentirete pronti, passate all’ultima, ricorrendo ai metodi seguenti di intensità progressiva. Conoscenza Il modo più sicuro e meno intenso di affrontare il materiale negativo è di lasciarlo affiorare alla coscienza solo in forma astratta – soltanto l’idea dell’esperienza vissuta: per esempio, la semplice consapevolezza di aver perso un genitore da piccoli. Tenete l’idea ai margini della coscienza, come un elemento di sfondo, e riempite la mente dell’esperienza ricca e piacevole del qui e ora, puntando i riflettori della consapevolezza sulla positività del presente. Percezione Poi, quando sarete pronti, provate ad avvertire la sensazione dell’esperienza negativa, per esempio il senso di lutto e di mancanza che avete provato perdendo un genitore. Conservate quelle percezioni come un elemento secondario, sfocato e meno attivo rispetto al materiale positivo. Se la negatività comincia a occupare troppo spazio nella coscienza, tornate a concentrarvi esclusivamente sull’esperienza positiva. Contatto Infine, visualizzate l’esperienza positiva che entra in contatto e penetra il materiale negativo. È il modo più intenso di affrontarlo, e potrebbe essere il più efficace, ma è anche il più rischioso. Perciò siate prudenti, e distogliete subito l’attenzione dal negativo se avete l’impressione che vi stia coinvolgendo troppo. Potete immaginare l’esperienza positiva come una luce che inonda e riempie gradatamente il vuoto dentro di voi, oppure come un unguento che rimargina le ferite. Rivedere il passato dalla prospettiva del presente potrebbe smentire o correggere convinzioni inibenti o dolorose. Il vostro sé adulto potrebbe abbracciare, consolare e rassicurare il vostro bambino interiore. La compassione di sé contribuisce a guarire la sofferenza. Chiamate a raccolta la vostra inventività e creatività. Siate buoni alleati di voi stessi, attivando esperienze positive e tenendole in primo piano nella mente. Usate l’immaginazione e fidatevi del vostro intuito. Durante uno di questi esercizi, per esempio, io ho visualizzato l’immagine di una marea crescente d’amore che lambiva la spiaggia della mia mente, ricoprendola con le sue ondate. UN PROCESSO DI ELASTICITÀ Quello che segue è un modello di cui potrete avvalervi per affrontare i pensieri, le sensazioni, le emozioni o i desideri dolorosi o dannosi – cioè tutto ciò che abbiamo definito «materiale negativo». Prima di cominciare preparate il materiale positivo di cui avrete bisogno: le esperienze benefiche, le risorse interiori, la vostra personale vitamina C. Ricordate di distogliere l’attenzione dal negativo appena avete l’impressione che stia diventando preponderante, di restare buoni alleati di voi stessi e di adeguare la pratica alle vostre esigenze. Per portarla a termine potrebbero servire diversi minuti, prendetevi tutto il tempo necessario. 1. Positività. Concentratevi sulla sensazione di essere alleati di voi stessi. Poi richiamate alla mente un’esperienza positiva. Potete rivivere il ricordo di un evento reale, un momento della vostra vita in cui vi siete sentiti particolarmente al sicuro, appagati o amati. Oppure evocate il tipo di situazione o circostanza in cui vi sentireste così. Potete usare i ricordi o la visualizzazione, purché vi immergiate appieno nell’esperienza. 2. Arricchimento. Concentratevi sul materiale positivo. Se i pensieri cominciano a vagare, richiamateli a voi. Collaborate attivamente a rendere più intensa la percezione dell’esperienza che avete evocato, lasciando che vi invada la mente. Esploratela in ogni aspetto: mentale, fisico o emotivo. Riconoscetene il valore, l’importanza e la pertinenza personali. 3. Comprensione. Avvertite l’esperienza che vi pervade, vi penetra, diventa parte di voi. Accoglietela, lasciandovi riempire dal suo calore. Individuatene gli aspetti più gratificanti, piacevoli e terapeutici. 4. Elasticità. Quando vi sentite pronti, prendete coscienza del materiale negativo, continuando però a lasciarlo sullo sfondo e mantenendo quello positivo in primo piano. Potete passare con il pensiero dall’uno all’altro, ma se possibile cercate di includerli simultaneamente nel vostro stato di consapevolezza. Conservate nella mente l’idea del materiale negativo per qualche respiro, non perdendo di vista la percezione dell’esperienza positiva. Poi, senza lasciarvi sopraffare, provate ad avvertire le sensazioni suscitate dall’esperienza negativa, ma sempre in modo più smorzato, meno intenso e coinvolgente rispetto a quelle positive. Esploratele per qualche respiro, trovando conforto e rifugio nell’intensità del positivo e al tempo stesso avvertendo la presenza del negativo sullo sfondo della coscienza. Poi, senza fretta, visualizzate il positivo che entra in contatto con il negativo e lo penetra. Potete immaginarlo come un’onda che colma il vuoto dentro di voi e ne allevia il dolore… come un calore rassicurante che lenisce la sofferenza… come una luce che scaccia le ombre… come la vostra compassione e il vostro affetto di adulto che abbracciano il vostro io bambino, confortandolo e magari rassicurandolo con qualche frase. Avvertite l’azione del positivo che circonda il negativo, lo avvolge, lo solleva, lo rimuove e lo allontana dalla vostra mente. Evitate le elaborazioni astratte o intellettuali: cercate di attenervi quanto più possibile all’esperienziale. Se il materiale negativo diventa preponderante o troppo coinvolgente, distogliete l’attenzione per concentrarla solo sull’esperienza positiva. Una volta ritrovata la serenità, se volete, potrete tornare ad avvertire la presenza del negativo. Infine lasciate che il negativo vi abbandoni, e godete appieno della sensazione di pace, quiete e appagamento della positività. Ve la siete meritata. CONCETTI CHIAVE Le risorse interiori si acquisiscono attraverso un processo di apprendimento che comprende due fasi: l’attivazione e l’installazione. Per prima cosa bisogna scegliere una risorsa specifica, trovare un’esperienza corrispondente e successivamente convertirla in un cambiamento duraturo delle strutture e delle funzioni neurali. Senza l’installazione non può esserci apprendimento, guarigione o crescita. Rafforzando la vostra capacità di installazione potrete potenziare la vostra curva di apprendimento e applicare le stesse competenze a qualsiasi risorsa vogliate sviluppare. Non si tratta di pensare positivo, ma di ragionare in modo realistico, tenendo conto del complesso mosaico della realtà, che, oltre a problemi e difficoltà, comprende anche una quantità incalcolabile di esperienze rassicuranti, piacevoli e utili. Potete sviluppare risorse interiori attraverso le quattro fasi del processo PACE: attivare un’esperienza positiva (piacevole, benefica), arricchirla, comprenderla e (facoltativo) collegarla elasticamente al materiale negativo di cui volete liberarvi. Ricorrete al processo PACE per potenziare le risorse mentali di cui avete più bisogno. Identificate quelle adeguate al vostro problema specifico usando lo schema delle tre esigenze primarie: sicurezza, gratificazione e socialità. L’ultima fase del processo PACE è uno strumento potente per placare, ridimensionare e persino rimuovere il materiale negativo attraverso l’azione di quello positivo. Si può imparare ad apprendere. L’apprendimento è la risorsa interiore che permette il potenziamento di tutte le altre. GRINTA La vera forza risiede nell’anima e nello spirito, non nei muscoli. ALEX KARRAS La grinta è una perseveranza ostinata e tenace, l’ultima risorsa che ci aiuta a resistere quando ogni altra energia si è esaurita – e quando finisce anche lei allora sì che siamo in guai seri. L’ho imparato sulla mia pelle durante un’escursione invernale con il mio amico Bob. Ci eravamo avventurati nelle foreste californiane del Sequoia National Park, inerpicandoci in salita con le racchette da neve. Il nostro bagaglio di esperienze, in montagna e in altri ambienti ostili, ci aveva dotato di una buona dose di resistenza, ed entrambi eravamo certi di rientrare entro sera. Bob è un uomo di formidabile vitalità, perciò era lui a fare da apripista, tracciando e battendo il sentiero. Procedevamo di buon passo per non farci sorprendere dal buio, ma al tramonto la meta era ancora lontana e abbiamo dovuto accamparci. Eravamo sfiniti e Bob era in preda a un tremito incontrollabile. Aveva bruciato troppe energie senza rifocillarsi, e quei brividi erano il primo sintomo dell’ipotermia, la fase iniziale dell’assideramento. Bob aveva esaurito le sue energie e ciò metteva a repentaglio il suo bisogno primario di sicurezza. Sparito il sole, la temperatura era precipitata, e anch’io ero stremato. Abbiamo allestito in fretta e furia un riparo di fortuna, ci siamo infilati nei sacchi a pelo e abbiamo acceso il fornello per scaldare acqua e cibo. Presto Bob ha smesso di battere i denti, e dopo un po’ abbiamo iniziato a sentire che le nostre forze stavano tornando. Dopo una notte passata al gelo, al mattino abbiamo smontato il campo e lentamente siamo tornati alla civiltà. Ma sulla via del ritorno abbiamo prestato molta più attenzione a non dare fondo a tutte le nostre risorse. Quell’esperienza drammatica mi ha insegnato quant’è importante potenziare resistenza e tenacia per affrontare sia le sfide di tutti i giorni sia gli imprevisti. Non fosse stato per la grinta accumulata con la pratica e l’addestramento, io e Bob potevamo davvero lasciarci la pelle. Inoltre l’episodio mi ha anche costretto a prendere coscienza del fatto che le risorse non sono inesauribili: strada facendo bisogna ricordarsi di riempire il serbatoio, per non rischiare di ritrovarsi a secco. La grinta si compone di molti elementi diversi. Per potenziarla e rinnovarla dentro di voi, cominceremo indagando l’autonomia, cioè la coscienza di non essere inermi di fronte agli ostacoli. Dopodiché esamineremo i vari aspetti della determinazione, comprese la pazienza e la fermezza. Infine analizzeremo alcuni metodi per incrementare la vitalità, tra cui l’accettazione e il rispetto del proprio corpo. Ai lettori che desiderano approfondire l’argomento, consiglio il libro Grinta, di Angela Duckworth, e le sue ricerche su questa facoltà interiore. AUTONOMIA L’autonomia è la consapevolezza di essere una causa piuttosto che un effetto. Scegliere un maglione azzurro invece che rosso, o ascoltare qualcuno e pensare: «No, non sono d’accordo» sono esempi di autonomia. In questo stato siete attivi invece che passivi, prendete l’iniziativa, afferrate il timone invece di lasciarvi trascinare dalla corrente. Si tratta di un elemento cruciale per la grinta, perché senza la certezza profonda di poter superare un ostacolo tendiamo ad arrenderci prima ancora di averci tentato. Quando la vita ci atterra, l’autonomia è il primo appiglio cui ci aggrappiamo per rialzarci. DISIMPARARE L’IMPOTENZA L’impotenza è il contrario esatto della grinta. Le ricerche di Martin Seligman e altri colleghi dimostrano la facilità con cui le esperienze di vulnerabilità, paralisi e sconfitta possono condizionarci, inculcandoci un senso di impotenza. È il caso dei bambini tormentati dai bulli o delle vittime di un’aggressione. O delle situazioni caratterizzate da uno squilibrio tra responsabilità e risorse, per esempio il dipendente di un’azienda che dopo il licenziamento dei colleghi si ritrova a farsi carico del lavoro di tre persone. Se protratte nel tempo, anche le forme più sottili di impotenza possono indurci alla rassegnazione, per esempio quando, dopo innumerevoli tentativi falliti, rinunciamo a sollecitare comprensione ed empatia da parte del partner. Un senso crescente di pessimismo, futilità e disperazione abbatte il nostro umore, la nostra capacità di reazione e le nostre ambizioni, esponendoci a un grave rischio di depressione. Di solito servono svariate esperienze di efficacia personale per compensare un solo episodio di impotenza: ecco un’altra dimostrazione della tendenza del cervello alla negatività. Per prevenire l’insorgere del senso di impotenza o per liberarsene, esercitatevi in attività in cui siete voi a prendere le decisioni o a dominare gli eventi. Sperimentatele a fondo, assimilando appieno la sensazione di essere un protagonista attivo: il martello invece dell’incudine. Concentratevi in particolare sulle situazioni in grado di trasmettervi la percezione profonda di un risultato ottenuto o di un progresso reale. Un sollevamento in più del bilanciere nella sala pesi della palestra, per esempio, o una postura di yoga tenuta dieci secondi più a lungo del solito. La decisione di dare un taglio a una conversazione che non sta portando da nessuna parte. O al contrario, se a una riunione la vostra proposta non è stata recepita e apprezzata, la decisione di alzare la mano e intervenire di nuovo per ribadirla. Ci sono momenti in cui osserviamo con lucidità e franchezza un aspetto della nostra vita – una relazione sentimentale, la nostra situazione abitativa, l’educazione impartita ai figli – e ci rendiamo conto che c’è bisogno di un cambiamento radicale. E, per quanto difficile e doloroso, scegliamo di cambiare. Anche questa è autonomia. QUANDO L’AUTONOMIA È LIMITATA Quando le circostanze limitano il vostro margine di azione, concentratevi su ciò che è possibile, per quanto piccolo, e sulla sensazione di autonomia che ne deriva. Poniamo per esempio che abbiate un problema di salute: magari potete comprenderlo meglio cercando informazioni su internet. In una discussione con un famigliare potete concentrarvi sul fatto che la scelta tra cosa dire o non dire dipende da voi. Più sono soverchianti le forze che vi schiacciano, più diventa fondamentale trovare modi per sperimentare la vostra autonomia. Anche quando non possiamo esercitare alcuna influenza sulle circostanze esterne, è ancora possibile agire su quanto accade dentro, nella nostra mente. Salvo situazioni di sofferenza estrema, fisica o emotiva, abbiamo sempre la facoltà di spostare l’attenzione su qualcosa di più piacevole o utile. Quando sono dal dentista, per esempio, io mi impongo di visualizzare le mie camminate nelle radure di montagna dello Yosemite National Park, in California. Spetta a noi anche decidere il nostro modo di interpretare circostanze e rapporti, badando per esempio a non perdere il senso delle proporzioni. Minore è il potere esterno che ci è concesso e più dobbiamo ricordarci di esercitare quello interiore. Nel prendere decisioni ragionate dentro di voi, cercate di riconoscere e sperimentare la sensazione di questa libertà di scelta. Molto di quanto accade nella vita sfugge al nostro controllo. Tuttavia, la nostra reazione agli eventi dipende quasi interamente da noi. Se è possibile esercitare questo controllo nelle situazioni più spaventose e terribili, allora senz’altro sarà possibile nella normale vita quotidiana. Riflettete su questa testimonianza di Viktor Frankl, un superstite dell’Olocausto: Tutti noi che abbiamo vissuto l’esperienza dei campi di concentramento ricordiamo prigionieri che passavano di baracca in baracca per confortare gli altri, o che donavano l’ultimo boccone di pane a un compagno. Magari erano una minoranza, ma rappresentano comunque la dimostrazione che persino un individuo spogliato di tutto conserva un’ultima libertà umana: anche nelle circostanze più estreme possiamo ancora scegliere il nostro atteggiamento, la nostra strada. BADATE ALLE CAUSE È sempre meglio concentrare l’attenzione su ciò che dipende da noi rispetto a ciò che sfugge al nostro controllo. Nel mio giardino, per esempio, cresce un melo. Nel corso degli anni mi sono impegnato a potarlo e annaffiarlo, ma non ho mai potuto imporgli di fruttificare. Nella vita è così: possiamo impegnarci a intervenire sulle cause, ma non spetta a noi determinare i risultati. Possiamo dedicare cure e affetto ai nostri figli, ma non decidere cosa diventeranno da grandi. Possiamo trattare le persone con rispetto e dedizione, ma non costringerle ad amarci. Possiamo seguire una dieta sana, fare sport e osservare le regole della prevenzione, ma non per questo saremo immuni dalle malattie. Dobbiamo annaffiare il melo nella consapevolezza che la nostra sfera di influenza non può andare oltre. Magari non sarà possibile creare in modo diretto la situazione che desideriamo, ma possiamo comunque operare sui processi che potrebbero favorirla. Questa consapevolezza produce un senso sia di padronanza sia di pace. È nostra responsabilità agire sulle cause che ricadono sotto il nostro controllo, esercitare il potere di cui disponiamo. Il resto non dipende da noi. Prendetevi un momento per riflettere sugli ambiti principali della vostra vita, per esempio la salute o le relazioni, e individuate gli aspetti semplici e realistici su cui potreste agire per determinare un miglioramento. Sul fronte del benessere fisico potreste impegnarvi a fare ogni mattina una colazione bilanciata, alzarvi dalla scrivania e sgranchirvi le gambe a intervalli regolari, andare a letto a un’ora ragionevole la sera. Possono sembrare dettagli irrilevanti, ma spesso sono proprio i dettagli a fare la differenza. Se dall’analisi del vostro quotidiano emergono aspetti che avete trascurato, arricchite e assimilate questa consapevolezza, per tramutarla in una molla che vi spinga all’azione. E alla fine di ogni giorno riconoscetevi il merito del vostro impegno: avete fatto del vostro meglio. A nessuno si può chiedere di più. Assaporate anche il senso di pace che ne deriva. Per tornare alla metafora del melo, molti di noi passano la vita a pretendere che i semi diano frutti. Ma se ci fissiamo su un risultato specifico, sarà sufficiente il minimo intoppo a farci sentire frustrati e autocritici. La verità è che ogni evento è il risultato di innumerevoli cause interconnesse sulle quali non siamo in grado di esercitare alcun controllo. È un pensiero che all’inizio spaventa, dandoci l’impressione di essere in balia degli eventi. Ma, una volta ammessa e accettata, questa verità allenta la tensione, dona serenità e infonde una determinazione ancora più ferrea all’azione. DETERMINAZIONE Nella vita capita a tutti di imbattersi in qualche difficoltà, e la determinazione è la risorsa da cui traiamo la forza necessaria a resistere, affrontare gli ostacoli e superarli: possiamo essere profondamente feriti, sentirci fragili e ciononostante conservarla intatta. Anzi, alcune delle persone più determinate che io abbia mai conosciuto erano proprio quelle che si trovavano nelle situazioni più disperate, come un amico haitiano alle prese con una povertà estrema, o un altro che sta diventando cieco. E si può essere determinati senza perdere il sorriso e la leggerezza. Riflettete su questa definizione di Thích Nhất Hạnh, militante per la pace, monaco e maestro buddista: «La determinazione è una nuvola, una farfalla, e un bulldozer». La determinazione consiste in quattro aspetti distinti: risoluzione, pazienza, persistenza e tenacia. Seguite i passi del processo PACE per sperimentare appieno ciascuno di questi elementi nel vostro quotidiano, e per potenziare la vostra determinazione interiore. RISOLUZIONE La risoluzione consiste nell’essere orientati a un fine. Senza una destinazione precisa persino il motore più potente gira a vuoto. Per prendere coscienza della risoluzione riportate alla mente le occasioni passate in cui vi siete impegnati per conseguire un obiettivo. Che tipo di espressione assume il vostro volto quando vi prefissate un traguardo importante, nel momento in cui decidete di arrivare fino in fondo? È probabile che il vostro atteggiamento sia serio e solenne, la postura e lo sguardo inflessibili. Concentratevi su questa sensazione, lasciando che vi riempia per una decina di secondi o più, per sentir crescere dentro di voi la sua percezione precisa. Beninteso, bisogna anche essere adattabili nel perseguimento degli obiettivi. Io, per esempio, ho la tendenza a fissarmi troppo sui dettagli, perdendo di vista il quadro generale. Vivere un’esperienza di risoluzione autentica è come andare in barca a vela, virando secondo la direzione del vento e sfruttando le correnti per arrivare alla meta. E, strada facendo, abbiate cuore. Altrimenti la risoluzione rischia di diventare fredda e dispotica, come un capoufficio prepotente che vi sgrida di continuo. La risoluzione comprende la passione, l’intensità, ma anche la gioia. Pensate a qualcosa che «dovreste» fare ma che continuate a rimandare, e poi prendetevi del tempo per immaginare l’obiettivo in modo più «appassionato». Se vi sentite coinvolti, il vostro impegno all’azione tenderà ad aumentare in modo organico. Assimilate il nuovo senso di risoluzione. PAZIENZA La mia immagine esemplare della pazienza deriva da una scena cui assistetti da ragazzo. Era tardi, e dalla mia finestra vidi un operaio che camminava lento sul marciapiede. Non so se stesse rincasando oppure fosse diretto in fabbrica per il turno di notte, in ogni caso aveva un’aria sfinita. Tuttavia, non smetteva di camminare. Guardandolo pensai ai miei genitori e alle tante persone che continuano a fare la cosa giusta e a rispettare gli impegni a dispetto della fatica, attivando in se stessi la pazienza di proseguire sulla propria strada, un passo alla volta. Nella mia vita ho commesso molti errori a causa dell’impazienza, lasciandomi irritare dal tempo necessario a ottenere un risultato, pretendendo troppo da me stesso e dagli altri, o saltando a conclusioni affrettate. La pazienza autentica non ignora i problemi, ma sa che la vita è piena di ritardi e intoppi, e che a volte l’unica strategia sensata è l’attesa. Potrà sembrare una virtù modesta, ma la pazienza è l’essenza di due elementi vitali per la salute mentale e il successo. Il primo è il differimento della gratificazione, ossia la disponibilità a rimandare un piacere immediato in favore di una maggiore soddisfazione futura. Il secondo è la tolleranza al disagio, cioè la capacità di sopportare un’esperienza dolorosa senza aggravarla, evitando per esempio di «automedicarsi» con l’eccesso di cibo e alcol. Pensate a un aspetto frustrante o esasperante della vostra vita, e immaginate di affrontarlo con maggiore pazienza. Come vi sentireste? Riuscireste a raggiungere un senso di accettazione della realtà di fatto, a tollerare lo stress o il dolore, un respiro o un passo dopo l’altro? Che cosa dentro di voi potrebbe aiutarvi a essere più pazienti? Per esempio potreste concentrarvi sulla consapevolezza che, anche quando i vostri desideri non vengono esauditi, la vita continua, e ha ancora moltissimo da dare. Potreste impegnarvi a non soffermarvi sui motivi di irritazione, rammentando a voi stessi che questo momento difficile è soltanto un episodio di passaggio nel cammino ben più lungo della vostra esistenza. Quali sono i vantaggi di potenziare la pazienza? Come minimo vi sentirete meglio, e anche gli altri troveranno più gradevole la vostra compagnia. Mentre ci riflettete, attivate la fase di comprensione del processo PACE, avvertendo a fondo la pazienza che vi riempie e vi trasforma. Potete ricorrere anche alla fase di elasticità, richiamando alla mente l’esasperazione e la frustrazione dovute a una situazione o un rapporto specifici e visualizzando la pazienza che placa e mitiga queste reazioni e scioglie la rabbia che alberga in voi. PERSISTENZA Ora vi racconterò una favola che esiste in molte culture. Una volta un gruppo di rane cadde in un secchio di panna. Tutte cercarono di scappare arrampicandosi sui lati del secchio, ma il metallo era troppo liscio, così a un certo punto le rane smisero di tentarci, e annegarono. Una soltanto non si rassegnò, e continuò a nuotare, muovendo le zampe a un ritmo metodico per tenersi a galla. E lentissimamente, con quel mulinare continuo, la panna si trasformò in burro, una superficie solida grazie alla quale la rana poté finalmente saltar fuori dal secchio e salvarsi. Mi piace questa favola e l’idea che, a prescindere da quello che si vuole, si può continuare a perseverare, anche solo nella propria interiorità. Se pure i vostri sforzi non avranno i risultati sperati, in cuor vostro saprete di aver fatto tutto il possibile, e già questo è un conforto e un motivo di soddisfazione. Di solito sono proprio gli sforzi minuscoli che si protraggono nel tempo a fare la differenza. Immaginate di dover spingere una grossa barca in acqua. Se prendete la rincorsa e vi scontrate con la barca a tutta velocità, rischiate di farvi male e di non combinare niente. Se invece vi chinate e spingete con metodo e senza fretta, l’operazione andrà a buon fine. Nella vostra vita attuale c’è qualcosa che potreste migliorare esercitando un impegno moderato ma persistente? Magari semplicemente ricorrendo alla «spinta» costante di una successione di interazioni brevi ma positive potrete potenziare l’autodisciplina necessaria a fare più esercizio fisico o a meditare, oppure a ricucire uno strappo nel rapporto con il partner o un figlio adolescente. Si compiono grandi imprese con i piccoli gesti metodici. Immaginate per esempio di voler scrivere un libro, ma di averci rinunciato perché l’impresa vi sembrava superiore alle vostre forze. E se invece vi prefissaste di scrivere due pagine ogni giorno? In questo modo l’obiettivo sembra subito più abbordabile, non trovate? Perseverando un giorno dopo l’altro, allo scadere di un anno vi ritrovereste con un manoscritto completo. A volte la cosa più importante è persistere dentro di voi. Ho conosciuto persone che hanno continuato a impegnarsi con coraggio nelle circostanze più dure – un lavoro ad alto rischio, per esempio –, ma che si sono arrese quando la situazione riguardava i rapporti affettivi. Anche in questo caso il segreto è aprirsi agli altri un passo alla volta. Se temete di mostrarvi vulnerabili indugiate nella sensazione di paura per il tempo di un respiro in più, senza chiudervi subito appena vi sentite esposti. Osservate i risultati. Con ogni probabilità la catastrofe che temevate non si è verificata. Al contrario, voi vi sentite meglio e l’altro pure. Poi registrate e interiorizzate la sensazione di aver corso un piccolo rischio senza che cascasse il mondo. Costruite passo dopo passo su questo senso di sicurezza. TENACIA La volontà attinge la sua forza a qualcosa di antico e selvaggio che risiede nel profondo del nostro essere. Io l’ho capito a diciannove anni grazie a un’esperienza molto intensa. Ero tra gli accompagnatori di una comitiva di bambini in un’escursione sulle montagne dello Yosemite National Park. Era primavera inoltrata, ma le notti erano ancora molto fredde. Verso mezzogiorno ci siamo fermati per un pranzo al sacco sulla sponda di un fiume, in un prato costellato di grossi macigni, poi abbiamo ripreso il cammino. Dopo diversi chilometri uno dei bambini si è reso conto di aver dimenticato la giacca sul prato, e io mi sono offerto di andare a recuperarla. Ho lasciato lo zaino alle guide e sono tornato indietro, dando appuntamento a tutti al campo base. Una volta arrivato al prato e recuperata la giacca, però, non riuscivo più a ritrovare il sentiero. Ho iniziato a cercarlo, avventurandomi in direzioni diverse e perdendomi tra i macigni e gli alberi del bosco. Ero completamente solo, isolato dagli altri, con una maglietta leggera addosso e senza cibo. Ormai stava calando il buio, e iniziavo a farmi prendere dal panico. Poi, d’un tratto, mi sono sentito invadere da una strana sensazione di forza. Dentro di me era scattato l’istinto di sopravvivenza. Era un’emozione intensa e forte, ma non crudele o malvagia. Quando un falco affamato scende in picchiata su una lepre, non lo fa per cattiveria o per vendetta, ma per la determinazione a mantenersi in vita. Al fuoco di quell’istinto il panico è evaporato, e io ho ritrovato le energie per riprendere le ricerche. Alla fine sono riuscito a individuare il sentiero giusto e, molti chilometri dopo, ho raggiunto i miei amici accampati per la notte. L’emozione provata quel giorno, l’ostinazione a non cedere, è diventata una risorsa consapevole, e in seguito mi ha infuso il coraggio necessario in molte circostanze diverse. Per paradosso, a volte proprio la consapevolezza di avere quella forza dentro di me mi ha aiutato a porgere l’altra guancia: ho usato un istinto animale per conservarmi umano. Perché di fatto noi siamo animali, creature abbastanza forti e agguerrite da aver conquistato la vetta della catena alimentare. Certe religioni e scuole di psicologia o pedagogia insegnano che la nostra ancestrale «cantina» mentale è popolata di bestie malvagie e primitive che vanno sempre tenute chiuse a chiave. Beninteso, è giusto esercitare l’autocontrollo, ma non c’è alcun motivo di provare paura o vergogna per l’«animale» che risiede nel profondo di noi. Richiamate alla memoria un’esperienza positiva vissuta grazie alla vostra forza e tenacia primitive: quando avete difeso una persona più debole, siete riusciti a cavarvela in un luogo selvaggio, o avete gestito un’emergenza. Immaginate di applicare la stessa intensa determinazione a una circostanza difficile del vostro quotidiano. In passato io sono stato spesso troppo docile, troppo inibito. Forse anche a voi, come a me, potrebbe tornare utile aprire le gabbie e liberare almeno un po’ il vostro animale interiore. VITALITÀ Pensieri ed emozioni sono radicati nelle sensazioni e nei movimenti fisici. Gli psicologi hanno scoperto che lo sviluppo cognitivo dei bambini è plasmato dal sistema sensomotorio, e che lo stato mentale e umorale degli adulti è fortemente condizionato da piacere e dolore, energia e fatica, salute e malattia. Anche il giudizio sul nostro corpo e il trattamento che gli riserviamo incidono molto sul nostro benessere. Io ho sprecato anni giudicando il mio corpo troppo magro o troppo grasso, pieno di difetti e carenze, e al tempo stesso imponendogli un ritmo di lavoro frenetico e spronandolo senza pietà. Se il nostro corpo non ci piace, tendiamo per default a trattarlo male. Se non ne abbiamo cura, lui perde vitalità, e a quel punto addio grinta e resilienza. Dobbiamo imparare ad accettare, apprezzare e accudire il nostro corpo: è un amico, non una bestia da soma. ACCETTARE IL CORPO Come vedete il vostro fisico? Le persone tendono spesso a eccedere nell’autocritica, a provare imbarazzo o persino vergogna del proprio corpo. In parte questo è dovuto al condizionamento esterno che, fin dalla prima infanzia, ci impone un modello di fisico «ideale». Ripensate ai messaggi comunicati nel corso degli anni dai vostri genitori, dai compagni di scuola, dagli amici, dalla pubblicità e dai media. Di fatto sono ben pochi gli uomini e le donne che corrispondono a quel canone, ma noi lo interiorizziamo comunque e di conseguenza ci avviliamo ogni volta che ci guardiamo allo specchio. A quel punto diventa fin troppo facile lasciarci ossessionare dalle diete o dalla palestra, cadendo vittime di dimagrimenti a yo-yo o addirittura di un disturbo alimentare. Per imparare ad accettare il vostro corpo richiamate alla mente una persona che amate o rispettate. Quanto conta il suo aspetto esteriore per le emozioni che vi suscita? Probabilmente ben poco. Pensate anche ai nuovi incontri. Quanto tempo impiegate ad andare oltre la superficie per concentrarvi sulla personalità? In genere è questione di un minuto. Noi ci angosciamo tanto per il giudizio del mondo, ma in realtà gli altri pensano al nostro aspetto quanto noi al loro… cioè pochissimo! Come vi sentite sapendo che la stragrande maggioranza delle persone non considera importanti le apparenze? E che agli occhi degli altri andiamo già benissimo così? Provate a rifletterci, lasciandovi riempire da questa nuova consapevolezza. Quando il pensiero torna a fissarsi su un presunto «difetto» del vostro corpo, riportatelo sull’immagine che gli altri hanno di voi. Sviluppate attivamente questa convinzione, la certezza che gli altri ci apprezzano così come siamo. Potete ripetervi frasi come queste: «Le persone che mi circondano hanno altro cui pensare… non passano il loro tempo a giudicare il mio aspetto… magari qualcuno sarà più critico, ma a tutti gli altri piaccio così come sono…». Apritevi alla sensazione di sollievo e rassicurazione che questi pensieri vi suscitano. Rilassatevi e lasciate che questa nuova rivelazione vi pervada. Poi passate alla fase successiva, e provate ad accettare il vostro corpo così come lo accettano gli altri. Non c’è niente di male a prefissarsi obiettivi realistici per essere più sani e in forma. Questo però non significa respingere il vostro corpo nella sua realtà attuale. Prendete un particolare che vi piace, magari le dita o gli occhi, accettatelo, e lasciatevi invadere da questa sensazione. Ora ripetete il processo con ogni parte del corpo, cominciando dai piedi e salendo fino al volto. Potete guardarvi in uno specchio o anche solo richiamare la vostra immagine alla mente. Evitate giudizi o confronti. Se una parte del vostro fisico vi disturba, lasciate perdere e passate oltre. Ripetete ad alta voce: «Piede sinistro, io ti accetto… Piede destro, vai bene così come sei… Polpaccio sinistro, ti accetto… Polpaccio destro, anche tu non hai niente che non va…». Lasciate che questo senso di accoglienza cresca fino a colmarvi. Respirate a fondo. Smettete di giudicarvi. Potete ricorrere all’ultima fase del processo PACE per contribuire a potenziare la serenità dell’accettazione e a placare la tendenza all’autocritica. APPREZZARE IL CORPO Ora che avete accettato il vostro corpo, riuscite ad apprezzarlo? Immaginate di avere un amico che vi somiglia come una goccia d’acqua – nel fisico oltre che nei talenti, nelle capacità, nel buon cuore, in tutte le vostre virtù. Attribuitegli la vostra stessa preoccupazione, vergogna o tendenza all’autocritica rispetto al suo corpo. Quali consigli ragionevoli, comprensivi e incoraggianti potreste offrirgli per convincerlo a non angosciarsi tanto per il suo aspetto? Scriveteli su un foglio e rileggeteli, ripetendoli a voi stessi mentalmente o ad alta voce. E provate anche l’esercizio illustrato nel box. GRAZIE, CORPO Come per tutti gli esercizi del libro, quello che segue è soltanto uno schema da adattare secondo le vostre esigenze, ascoltando voi stessi ed evitando qualsiasi elemento vi susciti disagio. Fate qualche respiro profondo, rilassatevi ed evocate la sensazione di essere alleati di voi stessi. Richiamate alla mente le persone che vi apprezzano, che vi vogliono bene e vi amano, e fatevi riscaldare dal loro affetto. Immaginate la vostra vita come un film che comincia dall’infanzia e arriva fino al presente. Mentre visualizzate il vostro trascorso, concentratevi sulle occasioni in cui il corpo vi ha protetti e sostenuti. Ogni fisico ha i suoi limiti, i suoi difetti, le sue disabilità o malattie, e ciononostante si prende cura di noi in mille modi. Immaginate che il corpo stesso elenchi tutto ciò che ha fatto per voi: «Ho sviluppato gli occhi per darti la vista… Ho costruito un cervello prodigioso affinché tu potessi pensare e sognare… Le mie braccia e le mie mani ti hanno permesso di stringere le persone che ami… Grazie a me hai potuto camminare e lavorare, danzare e cantare, godere di innumerevoli piaceri…». Passate in rassegna le parti del vostro corpo, dai piedi alla testa, e cercate di esprimere la vostra gratitudine, magari con frasi come queste: «Piedi, vi ringrazio di avermi trasportato nel mondo… Cosce, grazie di avermi sorretto… Cuore e polmoni, grazie infinite per ogni battito, per ogni respiro… Petto e braccia, collo e spalle, testa e capelli, grazie di tutto il vostro aiuto…». Immaginate il vostro corpo nei giorni a venire. Visualizzatevi in situazioni diverse nel corso dell’anno prossimo – con gli amici, al lavoro o a una cena di famiglia – e sperimentate la sensazione di accettare il vostro fisico in ciascuna di queste occasioni: assaporate a fondo il piacere di piacervi. Non è meraviglioso rapportarvi al vostro fisico in questo modo? Lasciate che la sensazione vi riempia e vi avvolga. ACCUDIRE IL CORPO La salute fisica contribuisce in misura enorme alla resilienza, e tutto ciò che minaccia il nostro corpo mette a repentaglio il bisogno primario di sicurezza. Io sono uno psicologo, perciò non mi spingerò a darvi consigli medici, ma per le regole di base basta il buonsenso: seguire una dieta equilibrata e nutriente; concedersi il giusto riposo notturno; fare un regolare esercizio fisico; ridurre al minimo o eliminare le sostanze intossicanti; osservare le norme della prevenzione e intervenire con tempestività nel caso di un possibile problema di salute. Lo sapevate già, vero? Be’, il segreto è attivare le risorse di autonomia e determinazione per mettere in pratica queste buone norme. Rileggete l’elenco: una di queste voci richiede una vostra particolare attenzione? Se c’è un ambito che finora avete trascurato, riflettete sulle conseguenze rispetto al vostro modo di essere in una giornata qualsiasi… su come vi sentite rispetto agli altri… sul vostro stato tra uno, dieci o vent’anni… Quanto inciderà l’aspetto che ora state trascurando sulla qualità della vostra vita futura? Quando si tratta della salute, abbiamo tutti la tendenza a rimandare. È fin troppo facile dire: «Comincerò domani». Ma poi i giorni si susseguono e diventano anni. Finché un infortunio, una malattia, un fattore di stress particolarmente acuto ci coglie in uno stato fisico debilitato, e diventa davvero distruttivo, come un ramo caduto su una casa già divorata dalle termiti. Non si tratta di pensieri morbosi, ma di sproni all’azione: dobbiamo renderci conto che la pista di decollo non è infinita, e che in merito a certi comportamenti bisogna prendere il volo subito, se vogliamo guadagnare in salute e longevità. Immaginate il senso di benessere che potreste ricavare da una routine più sana. Prendetevi il tempo necessario ad avvertire la nuova energia che provereste… il senso di autostima… l’apprezzamento degli altri… gli anni in più da trascorrere insieme agli amici e alla famiglia. Se temete di non avere la costanza necessaria a proseguire nel nuovo regime, riportate l’attenzione su un’esperienza del passato in cui la vostra persistenza vi ha premiato. Usate i cinque aspetti della fase di arricchimento del processo PACE per potenziare l’esperienza: concentratevi, rendetela più intensa, apritevi alla sensazione fisica che vi suscita, identificate aspetti nuovi o diversi e riconoscetene il valore personale. Tutto questo agirà da stimolo, portando il cervello a consolidare nuove abitudini. E infine, naturalmente, mettetele in pratica. Individuate i piccoli espedienti in grado di aiutarvi. Se per esempio vi state impegnando a ridurre il consumo di carboidrati, a pranzo preparatevi un’insalata con qualche ingrediente proteico, ed evitate di comprare biscotti. Se avete bisogno di riposare di più, spegnete il televisore entro le dieci di sera. Se vi serve più esercizio fisico, organizzate qualche passeggiata settimanale con un amico. Se l’alcol è una tentazione, non tenetene in casa. E nel praticare le nuove abitudini, anche le più banali, soffermatevi ad assaporarne fino in fondo i benefici. So quant’è difficile adottare comportamenti diversi dal solito. Io stesso ho avuto le mie difficoltà. Ma le probabilità di successo aumentano in misura esponenziale quando «badiamo alle cause». Possiamo riuscirci in tre fasi: riconoscendo la necessità di un cambiamento, intraprendendo azioni adeguate e interiorizzando le gratificazioni. Continuate ad annaffiare l’albero di mele, e presto ne raccoglierete i frutti. CONCETTI CHIAVE Bastano pochi episodi in cui ci siamo sentiti in trappola, vulnerabili o sconfitti per produrre un’«impotenza appresa» che ci rende incapaci di reagire, sminuisce le nostre ambizioni e ci espone al rischio di depressione. Perciò è importante concentrarsi su ciò che possiamo fare, anche se solo nella nostra mente, soprattutto se siamo alle prese con una situazione o un rapporto difficili. In molti ambiti della vita possiamo badare alle cause ma non controllare i risultati. Prenderne atto favorisce sia il senso di responsabilità sia la pace interiore. Usate il processo PACE per interiorizzare e potenziare le risorse di risoluzione, pazienza e persistenza. A volte la salute mentale viene definita in termini di repressione della nostra natura animale originaria. Il rischio, però, è di chiudere in gabbia parti primitive e meravigliose di noi stessi. La capacità di attingere a un istinto più ancestrale e intenso ci rende più resilienti. La visione che abbiamo del nostro corpo e il trattamento che gli riserviamo condizionano il suo stato di salute e le sue energie vitali, che a loro volta influiscono sui nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri comportamenti. Così come in genere non vi preoccupate troppo dell’aspetto esteriore degli altri, allo stesso modo gli altri non criticano il vostro. Accettate il vostro corpo così com’è e concentratevi ad apprezzarne tutte le virtù. Siate tempestivi nell’adottare buone abitudini. È fin troppo facile rimandare a domani. Domandatevi: che cosa posso fare di utile per la mia salute oggi stesso? GRATITUDINE Pimpi notò che, anche se il suo cuore era molto piccolo, poteva contenere una quantità piuttosto grande di gratitudine. A.A. MILNE La gratitudine e le altre emozioni positive apportano molti importanti benefici. Contribuiscono alla salute rafforzando il sistema immunitario e proteggendo l’apparato cardiocircolatorio. Ci aiutano a superare un lutto o un trauma. Allargano la nostra visuale, permettendoci di vedere il quadro generale e di riconoscere le opportunità. Ci incoraggiano a essere ambiziosi. E ci avvicinano al prossimo. Spesso passiamo la vita protesi verso le felicità future, un atteggiamento che nel presente produce stress e stanchezza. La gratitudine ci permette di stare bene adesso, e in questo capitolo esploreremo quattro sistemi per svilupparla: dire «grazie», assaporare i piaceri, sentirsi realizzati e provare felicità per gli altri. DIRE «GRAZIE» Riportate alla mente una situazione recente in cui, a voce o solo con il pensiero, avete ringraziato una persona o un’entità superiore: per un invito a cena, un abbraccio, un cielo stellato. L’emozione della gratitudine produce automaticamente un senso fisico di serenità, di appagamento, di soddisfazione. Pensate ai doni che avete ricevuto: l’amicizia e l’amore, l’istruzione, la vita stessa o il cosmo, sorto oltre tredici miliardi di anni fa. E questo è soltanto l’inizio. Anche nei momenti più difficili o dolorosi c’è sempre moltissimo di cui essere grati. Come esperimento, provate a concentrarvi su un dono ricevuto e immaginate di dire «grazie». La gratitudine è un piacere già di per sé, e in aggiunta le ricerche di Robert Emmons e altri colleghi hanno dimostrato che produce moltissimi benefici: più ottimismo, felicità e autostima; meno invidia, ansia e depressione; più compassione, generosità e disponibilità al perdono; rafforzamento dei rapporti; meno solitudine; miglioramento della qualità del sonno; maggiore resilienza. MODI PER SVILUPPARE LA GRATITUDINE Non si tratta di sottovalutare o negare la realtà dei fastidi, delle malattie, di un lutto o delle ingiustizie, ma di prendere coscienza delle tante cose positive che persistono a dispetto di quelle negative: i fiori e il sole, la gentilezza delle persone, l’acqua fresca, il facile accesso alla conoscenza e alla saggezza, la luce che possiamo accendere semplicemente schiacciando un interruttore. Prendete nota della vostra riluttanza ad accogliere questi doni, per esempio per il timore di abbassare la guardia o di perdere di vista i problemi. È importante non dimenticare mai che possiamo provare profonda gratitudine e al tempo stesso rimanere vigili rispetto agli imprevisti. Se la vita vi mette di fronte una difficoltà, analizzatela a fondo per riconoscere i doni che potrebbero celarsi anche nel dolore. Io e mia moglie, per esempio, soffriamo molto la mancanza dei nostri figli che, ormai grandi, non vivono più con noi. Questo, però, non ci impedisce di sentirci grati per gli adulti che sono diventati. Una delle scoperte più notevoli della ricerca in questo campo è il valore di celebrare i doni della vita insieme al prossimo. Ricordo il pomeriggio in cui ho assistito a uno spettacolo organizzato dall’asilo di mia figlia. Fu un’esperienza magnifica condividere con mia moglie e con tanti altri genitori la tenerezza e la commozione per le scenette e le canzoncine interpretate dai bambini, e trovare un senso di comunità nella gratitudine per i nostri figli e per i loro insegnanti. Prendete l’abitudine di coltivare questo sentimento ogni giorno. Per esempio, incollate un promemoria sulla scrivania o sul cruscotto della macchina che vi rammenti di dire «grazie» di ciò che ricevete. Tenete un diario delle cose per cui vi sentite riconoscenti, o scrivete una lettera di ringraziamento a qualcuno. Un metodo molto potente, la cui efficacia è dimostrata da esperimenti scientifici, consiste nel riflettere su tre benedizioni della vostra vita ogni sera, prima di addormentarvi. Tramutate la consapevolezza di quei doni in un senso di apprezzamento, di rassicurazione, persino di venerazione e di gioia. Usate le fasi del processo PACE per immergervi in queste sensazioni e assorbirle appieno. Prolungatene l’esperienza con l’esercizio illustrato nel box. UN ESERCIZIO DI GRATITUDINE Fate qualche respiro profondo e rilassatevi. Pensate a una persona che apprezzate. Quali sono le attenzioni specifiche che vi ha riservato? Lasciate che il ricordo di quei doni si tramuti in un senso profondo di gratitudine, e immergetevi in questa emozione. Pensate ai tanti privilegi di cui avete goduto nella vita: i vostri talenti naturali… il luogo e il tempo della vostra nascita… i vostri genitori… un colpo di fortuna. Senza nulla togliere al valore del vostro impegno, apritevi a un sentimento di gratitudine per la vostra fortuna. Riflettete sui doni della natura: i fiori… gli alberi… gli uccelli… le infinite forme di vita nell’oceano. Con il pensiero o a voce alta dite «grazie» al mondo. Lasciate che la gratitudine vi riempia e si irradi all’esterno. Considerate gli innumerevoli strumenti di uso quotidiano inventati o costruiti dagli altri nel presente o in un passato remoto: la ruota… le spille da balia… gli smartphone… la salsa di soia… i lampioni e la segnaletica stradale. L’umanità ci ha regalato tutto questo, e merita di essere ringraziata. Risalite la lunga concatenazione di eventi che sono dovuti accadere per dar forma alla galassia della Via Lattea… il sistema solare… il nostro meraviglioso pianeta… il miracolo della vita, sorta tre miliardi di anni fa… l’avvento della specie umana… la nascita dei vostri nonni e quella dei loro figli… l’incontro che ha dato vita a voi. Tutti questi elementi hanno contribuito a rendere possibile la vostra esistenza. Risalendo il fiume del tempo, le cose di cui essere grati sono davvero infinite. Wow! Grazie! ASSAPORARE I PIACERI I piaceri possono comprendere un bel panorama, un’idea interessante, una serata con gli amici. I piaceri sani scacciano quelli malsani: dopo una mela avremo meno voglia di caramelle. Se state attraversando un periodo stressante o difficile, un semplice sollievo come l’ascolto di un brano musicale sposterà l’ago del vostro stressometro interno dalla zona rossa a quella verde. Usando le fasi del processo PACE per interiorizzare l’esperienza delle gioie quotidiane, con l’andare del tempo proverete un appagamento interiore sempre più profondo, e di conseguenza sentirete meno il bisogno di gratificazioni esterne. Purtroppo molti di noi si condannano a un’esistenza povera di piaceri. A volte il motivo è di natura generale. Come ha scritto Søren Kierkegaard, «spesso abbiamo la tendenza a inseguire il piacere con una fretta tale da superarlo senza averlo visto». La nostra è una società frenetica, e serve un impegno intenzionale per rallentare e soffermarci ad assaporare un piacere. Altre cause possono essere di natura individuale, e forse vi riguardano in modo diretto. Magari avete dei pensieri come: «Ho il dovere di dare piacere agli altri; ciò che provo io non conta», «Come oso godere di questo piacere quando tante persone soffrono?». Oppure può trattarsi di un fatto di educazione: spesso ci viene insegnato a vergognarci di alcuni piaceri, e questo ci inibisce. Se individuate in voi una resistenza, un blocco rispetto a questo tema, potete scioglierlo ricorrendo alle tre modalità di orientamento della mente: Accettazione. Esplorate il blocco attivando la mindfulness e la compassione per voi stessi, indagatene con curiosità le origini e l’evoluzione. Distacco. Rilassate le tensioni fisiche provocate dalla resistenza, smentite le credenze su cui si basa il blocco (per esempio elencando i motivi per cui sono sbagliate), prendete la decisione consapevole di non lasciarvi condizionare. Assimilazione. Ripetete i concetti positivi che smentiscono le credenze alla base del vostro blocco (per esempio dicendovi: «Anch’io merito di provare piacere»), immaginate la sensazione benefica che provereste nel concedervi un piacere. A volte la vita è talmente dolorosa da sembrarci del tutto priva di gratificazioni. Ma se accettiamo la realtà del dolore – ricorrendo alla mindfulness, alla compassione di noi stessi e alle altre risorse interiori che ci aiutano a sopportarlo – possiamo liberare uno spazio per il piacere. Con la mente meno concentrata sulla resistenza al dolore possiamo recuperare la lucidità necessaria a riconoscere e a godere di tutto il resto. Concedersi un piacere è una manifestazione di autonomia. E persino nei momenti più difficili si possono trovare opportunità di appagamento: un sorso d’acqua che ci disseta, il canto di un uccello, il ricordo di una gentilezza ricevuta, l’erba che cresce tra le crepe del cemento. Non dimenticherò mai il giorno in cui ho visitato un ospedale per disabili. Stavo percorrendo il reparto e, svoltato un angolo, mi sono trovato davanti a un giovane malato. Soffriva di un gravissimo ritardo mentale e non era in grado di camminare, eppure ha accolto il mio arrivo con un sorriso radioso. Traboccava di gioia per la semplice vista di un altro essere umano. DIARIO DEI PIACERI Più la vita è dura, più è importante sperimentare e interiorizzare le risorse psicologiche, compreso il senso del piacere. Un modo semplice per riuscirci è tenere un diario anche solo mentale delle piccole gratificazioni quotidiane. Riflettete sui tanti piaceri sensoriali goduti durante la giornata. La vista dei grattacieli, dei volti, dei sassi. Il suono della musica, dell’acqua, di una risata. Il sapore della frutta, del tè, del formaggio. La carezza di un tessuto morbido, di un bambino, del cuscino. Il profumo delle arance, della cannella, delle rose, del curry. Il piacere di muoversi, stiracchiarsi, camminare, correre. Prendete in considerazione anche i piaceri mentali o emotivi: la soddisfazione di aver terminato un cruciverba o appreso un’informazione interessante. La meditazione e la preghiera possono dare un profondo appagamento, come pure suonare uno strumento o sperimentare una nuova ricetta. È un piacere accettare se stessi, e liberarsi dei pensieri negativi e delle emozioni dolorose. E non dimentichiamo i piaceri sociali. Ridere con un amico, coccolare un bambino, conseguire un traguardo di squadra, approfondire una conoscenza sono tutte esperienze gratificanti. Alcuni dei piaceri più profondi sono di ordine morale: il senso della propria integrità, la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta anche se è costata fatica. Prestate attenzione alle occasioni di piacere nel corso di una giornata, e provate ad annotarle. Scommetto che rileggendole, la sera, vi sorprenderete del loro numero. O, più semplicemente, dedicate qualche minuto prima di addormentarvi a ripensare alla vostra giornata, e a riassaporarne le tante esperienze piacevoli. SENTIRSI REALIZZATI Ogni creatura vivente porta dentro di sé un’architettura di obiettivi, dai microscopici processi di regolazione interna di ogni singola cellula fino alle nostre aspirazioni più alte e nobili. Per sua natura la vita punta a un fine. L’esperienza di raggiungere un traguardo ci fa sentire bene, riduce lo stress e consolida la motivazione positiva. È la conferma che stiamo compiendo dei progressi, e questo contribuisce a mantenerci ricettivi – cioè nella zona verde – nella nostra quotidianità. Alcuni obiettivi si esauriscono in un unico esito – alzarsi dal letto la mattina, trovare un’intesa con un collega, lavare i piatti dopo cena. Altri comportano un processo continuativo – essere una persona onesta, imparare e crescere, avere cura della nostra salute. Se ci pensate bene, vi renderete conto che ogni giorno conseguite una miriade di obiettivi, sia di esito pratico sia continuativi. Nell’attraversare una stanza, per esempio, ogni passo compiuto è un obiettivo raggiunto. Può sembrare banale, ma per un bambino che sta imparando a camminare, già solo reggersi in piedi è una conquista. In una conversazione, ogni parola capita ed espressione decifrata è un traguardo. Al lavoro, ogni email letta, ogni sms inviato, ogni contributo a una riunione è un successo. Poiché nella vita quotidiana ci prefissiamo di continuo traguardi grandi e piccoli, avremo anche innumerevoli occasioni di sperimentare la soddisfazione di averli conseguiti. In questo modo potremo acquisire un senso profondo di realizzazione personale che ci aiuterà a tollerare le critiche e a dipendere meno dal giudizio altrui. Spesso l’egocentrismo e l’arroganza celano un complesso di inferiorità e di inadeguatezza. Sentirci realizzati ci aiuta a superare la paura del fallimento e a prenderci meno sul serio. Il consolidamento del senso di successo interiore deriva dall’esperienza reiterata dei tanti piccoli obiettivi che riusciamo a raggiungere, non dai grandi trofei esteriori, come una macchina costosa parcheggiata nel garage. SENTIRSI FALLITI Innumerevoli volte al giorno tutti noi conseguiamo una miriade di obiettivi sia di esito pratico sia continuativi, eppure la gran parte delle persone non si sente realizzata. In parte è per il pregiudizio negativo del cervello. Quando non raggiungiamo un traguardo, dentro di noi scatta l’allarme rosso: la produzione di dopamina crolla, riducendo il senso di benessere e scatenando ansia, tensione, ostinazione. E quando l’obiettivo è raggiunto, spesso non ce ne accorgiamo nemmeno. A volte sbrighiamo un compito dopo l’altro in uno stato di ottundimento e di disattenzione, o siamo talmente concentrati a preoccuparci del prossimo ostacolo che continuiamo a correre senza renderci conto di aver tagliato il traguardo. Se conseguite un successo, quanto spesso vi soffermate ad assaporarlo, sia pure solo per un momento? Il timore di esporsi al ridicolo, di venire accusati di superbia o puniti per essere emersi dal gruppo blocca il nostro senso di realizzazione. Perciò, quando avvertiamo un senso di soddisfazione, è essenziale rallentare e assimilarlo davvero per farlo sedimentare nel nostro sistema nervoso. Nella vita di una persona il numero dei veri fallimenti è infinitesimo rispetto a quello degli obiettivi raggiunti. Eppure il nostro cervello si concentra sulle sconfitte e sulla sofferenza che ci provocano, le radica in profondità nella memoria, cancellando una quantità di soddisfazioni legittime e meritate. Essere cresciuti con genitori ipercritici, per quanto affettuosi, di certo non aiuta. Come pure vivere nel contesto di un’azienda – o di una società – che spinge a puntare sempre più in alto. Appena guadagnato il primo dollaro bisogna subito portare a casa il primo migliaio. E raggiunto quello, il traguardo diventa diecimila. Non appena otteniamo una promozione eccoci incalzati a conquistarne un’altra. Vinto un campionato, dobbiamo mirare subito al prossimo. Lavoriamo di più, ci impegniamo di più, diamo il 110%… ma non è mai abbastanza. Il traguardo continua a spostarsi qualche metro più in là. È vero che il timore di fallire può essere motivante, per un bambino come per un amministratore delegato. Ma a lungo andare le sensazioni negative logorano, portando a un rendimento inferiore. Per contro, un senso ragionevole di successo ci mantiene ambiziosi, ci aiuta a rimetterci in piedi dopo un passo falso e a dare il massimo. Poiché di fatto passiamo da un successo all’altro centinaia di volte al giorno, meritiamo di sentirci realizzati. SUCCESSI QUOTIDIANI Cercate di notare i molti traguardi che conseguite ogni giorno. Prestate attenzione ai piccoli esiti pratici, come cucinare un pasto, mettere una nuova risma di carta nella stampante o leggere una fiaba a un bambino. Anche i risultati più infinitesimi – mangiare un cucchiaio di zuppa, poniamo – comportano tutta una serie di successi intermedi: reggere la posata, immergerla nella fondina, portarla alle labbra senza rovesciarla, deglutire la zuppa e ricominciare da capo. Ciascuno di questi piccoli trionfi è un’occasione per sentirsi realizzati. Prendete atto dei progressi verso i grandi obiettivi pratici: educare i figli, studiare per la laurea, risparmiare per la pensione. Il processo si compone di piccolissimi passi, ma nel corso del tempo i vostri sforzi si accumulano, ed è una soddisfazione sapere che state coprendo grandi distanze. Riconoscetevi il merito dell’impegno costante verso gli obiettivi continuativi. Anche oggi vi siete comportati da persone oneste e avete agito in modo adeguato in casa e sul lavoro. Pensate anche a tutti i disastri che avete evitato: non siete scivolati in bagno, vi siete ricordati di spegnere il gas, evitando così un incendio. Sembra sciocco, ma anche questi sono successi che meritano apprezzamento. Persino quando la vita è dura e dolorosa, è possibile trarre un senso di soddisfazione da tanti piccoli obiettivi raggiunti. Più vi sentite falliti in certi ambiti, più diventa importante riconoscere le vostre vittorie in altri. Prestate attenzione a quei successi, apritevi alla sensazione che vi suscitano e assimilatela usando le fasi del processo PACE. E, per sfruttarne appieno i benefici, provate l’esercizio illustrato nel box. ESERCITARSI A SENTIRSI REALIZZATI Fate qualche respiro e rilassatevi. Chiamate a raccolta la sensazione di essere alleati di voi stessi. Ripensate a ciò che avete fatto oggi, ai piccoli obiettivi pratici realizzati, come alzarsi dal letto, bere un bicchiere d’acqua, sbrigare le faccende di casa o le pratiche al lavoro. Apritevi alla sensazione dei successi che avete ottenuto, assaporandone il piacere, la rassicurazione, la conferma di quanto valete. Arricchite queste esperienze prolungandole il più possibile… avvertitele nel corpo… riconoscetene l’importanza nella vostra vita personale. Assorbitele, seguite il loro percorso mentre vi pervadono e diventano parte di voi… analizzatene gli aspetti più piacevoli. Prendetevi il merito dei progressi verso gli obiettivi più vasti: coltivare un giardino, approfondire una conoscenza, qualificarsi per una promozione. Lasciate che ciascuno di questi meriti diventi un’esperienza di successo. Arricchitela e assimilatela in voi stessi. Siate consapevoli del conseguimento costante degli obiettivi continuativi: il fatto di continuare a respirare e a vivere… di essere persone affabili e giuste… di aver fatto del vostro meglio… di godervi la vita. Prendete atto dei vostri successi e apritevi all’appagamento che ne deriva. A mano a mano che il senso di successo si stabilizza, potrete ricorrere alla fase di elasticità per collegarlo al «materiale negativo» – le delusioni, le preoccupazioni, le tensioni o il senso di inadeguatezza. Concentratevi sul successo, tenendolo in primo piano nella coscienza, e distogliete l’attenzione dai materiali negativi se diventano predominanti. Visualizzate il positivo che entra in contatto con il negativo e illumina i recessi oscuri della memoria in cui si annidano le frustrazioni, fino a spazzare via i fallimenti percepiti in passato, magari nell’infanzia. Lasciate che il senso profondo di realizzazione li plachi, li lenisca, vi restituisca il giusto senso delle proporzioni. Infine concentratevi soltanto sulle emozioni positive liberandovi di tutto il resto. PROVARE FELICITÀ PER GLI ALTRI Pensate a un’occasione in cui avete sentito ridere un bambino, un amico condividere una buona notizia, o avete scoperto che un collega è guarito da una grave malattia. Si tratta di episodi di gioia altruistica, che consiste nel provare felicità per gli altri ed è una reazione radicata nella nostra lunga evoluzione come specie sociale. I nostri antenati cacciatori-raccoglitori vivevano insieme in piccoli clan in cui la sopravvivenza di ciascuno dipendeva da quella del gruppo. Perciò la pressione selettiva ha favorito lo sviluppo sia della compassione per la sofferenza del prossimo sia della gioia per la sua buona sorte. Se le risorse sono scarse – i posti di lavoro, poniamo – potrà anche capitarci di competere, ma in circostanze anche solo ragionevolmente eque siamo tutti capaci di apprezzare e rispettare i successi altrui. E gran parte delle situazioni della vita non sono competitive: il fatto che una persona goda di buona salute, abbia un matrimonio felice e figli beneducati non impedisce a un’altra di avere le stesse cose. UNA FELICITÀ SEMPRE A PORTATA DI MANO Per parafrasare il Dalai Lama, se si è capaci di rallegrarsi delle gioie altrui, si può sempre essere felici, perché ci sarà sempre una persona felice accanto a voi. Certo, è più facile condividere le gioie di un parente, di un amico o di chi ci tratta bene, ma possiamo farlo anche per un conoscente antipatico, o persino per un estraneo. Ci si può rallegrare per gli individui o i gruppi, per un vicino di casa o per chi vive all’altro capo del mondo, per un animale domestico, per ogni creatura vivente. Così come esistono vari tipi di «prossimo», ci sono anche un numero infinito di gioie altrui di cui godere. Si può essere felici di un evento recente capitato a qualcuno o del proseguimento di una situazione positiva, come la salute, la prosperità, gli affetti famigliari. Dell’apprendimento continuo di un bambino. Di un miglioramento nel quotidiano di una persona cui volete bene. Già solo il fatto che le persone siano vive è un motivo sufficiente per gioire con loro. Ripensate a un episodio in cui qualcuno si è dimostrato davvero contento per voi – magari perché avevate ottenuto una promozione oppure perché il timore di una malattia si era rivelato infondato – e riportate alla mente la commozione per la sua reazione. Ora ribaltate la situazione: il sostegno, il riconoscimento e la partecipazione di quella persona sono precisamente i doni che fate agli altri quando siete felici per loro. Il beneficio è reciproco: la gioia altruistica è un bene per l’altro e per voi. Risolleva l’umore, allarga il cuore e ci fa sentire in contatto con il mondo. Quando siete felici per gli altri, loro lo avvertono, e questo rinsalda e approfondisce i legami. UN ANTIDOTO CONTRO LA DELUSIONE E L’INVIDIA Nell’affollamento delle nostre città è facile dimenticare che l’ambiente sociale più naturale per un essere umano è una comunità di circa cinquanta persone. È in questo modo che la nostra specie ha vissuto per gran parte della sua evoluzione, compresi i due milioni di anni dominati dall’Homo habilis che ha preceduto il sapiens. Perciò abbiamo sviluppato un cervello e una mente adattati a una situazione molto specifica: i piccoli gruppi. In un piccolo gruppo – una tribù dell’Età della pietra, una classe di terza media, i colleghi d’ufficio – è essenziale conoscere la propria posizione rispetto agli altri. Per questo ci confrontiamo di continuo con alleati e rivali, sentendoci sicuri e all’altezza quando riusciamo a cavarcela meglio di loro, e deprimendoci quando non accade. Sui social network confrontiamo il film della nostra vita – con tutti i suoi fiaschi, così dolorosamente lampanti – con quello dell’esistenza altrui, accuratamente montato per metterne in mostra soltanto i successi. È la ricetta perfetta per coltivare la delusione, il senso di inferiorità e l’invidia. L’antidoto naturale a queste emozioni negative è la felicità per gli altri. La gioia altruistica ci distoglie dalle nostre amarezze e dai pensieri autocritici, orientando il nostro umore in una direzione più positiva. Ma pensare alla buona sorte altrui può condurre a confronti dolorosi che bloccano la nostra capacità di gioire per il prossimo. Per superare il blocco, riconoscete le benedizioni che avete ricevuto, le gioie vissute, i traguardi raggiunti, l’aiuto offerto agli altri. Tutto ciò che avete di buono nella vostra vita resta tale, anche se un altro ha qualcosa di meglio. Ricordate che ogni accadimento nelle vite altrui è il risultato di un vasto fiume di concause. Molte di esse sono del tutto casuali, come un colpo di fortuna nella lotteria del DNA o il ceto sociale dei genitori. Dunque è inutile prendere sul personale i loro «alti» e «bassi». Cominciate dalle persone per cui vi viene più spontaneo gioire. Quando siete contenti della loro buona sorte, soffermatevi ad assimilarne la sensazione. Con la pratica svilupperete l’abitudine di sentirvi felici per gli altri, un modo affidabile e generoso per essere sempre felici voi stessi. CONCETTI CHIAVE Noi perseguiamo la felicità futura, ma spesso quest’aspirazione rende stressante il presente. La tensione verso la felicità di domani ci rende infelici oggi. Provando gratitudine possiamo essere felici adesso. Dire «grazie», essere grati del positivo non significa ignorare il negativo. Anzi, i benefici della gratitudine per la salute fisica e mentale ci rendono più resilienti e capaci di affrontare meglio le sfide. Spesso si liquidano i piccoli piaceri come irrilevanti, ma in realtà sono un modo rapido ed efficace per ridurre lo stress o superare una crisi. I piaceri sani scacciano quelli malsani. Più vi sentite appagati dentro di voi, meno tenderete a ricercare le gratificazioni esterne. A causa del pregiudizio negativo noi tendiamo a notare ogni minimo fallimento, lasciando passare inosservati i mille successi che conseguiamo ogni giorno. Ricercate le occasioni di provare un senso di successo con la maggior frequenza possibile, assimilate l’esperienza e usatela per compensare le delusioni e guarire dal senso di inadeguatezza. Se siete capaci di rallegrarvi per le gioie altrui, potrete sempre essere felici voi stessi! SICUREZZA Troppe persone sopravvalutano ciò che non sono e sottovalutano ciò che sono. MALCOLM FORBES Quando ho cominciato a scrivere questo libro, una coppia di amici ha avuto una bambina. Da allora sono passati mesi, e adesso la piccola sta imparando a camminare. I suoi genitori vigilano affinché non si faccia male, ma intervengono il meno possibile, lasciando che raggiunga da sola ciò che le suscita interesse o curiosità. Se però cade e piange, accorrono per risollevarla e consolarla. Entro il primo anno di vita la bambina avrà sperimentato migliaia di interazioni in cui i suoi adulti di riferimento si sono dimostrati disponibili e incoraggianti e in cui lei si è sentita capace e appagata. L’essenza di queste esperienze si radicherà nel suo sistema nervoso, costruendo le risorse necessarie a soddisfare il suo bisogno di socialità. È un processo di apprendimento che prosegue per tutta l’infanzia fino alla vita adulta e che, oltre ai genitori, coinvolge una lunga serie di maestri: fratelli e coetanei, insegnanti e datori di lavoro, amici e nemici. Se ci sentiamo abbastanza protetti e sollecitati, acquisiamo un senso di sicurezza, di valore e di competenza che ci aiuta ad affrontare le difficoltà, soprattutto nei rapporti. Sviluppiamo fiducia in noi stessi, negli altri e nel mondo. Ma se abbiamo subito troppe critiche, se siamo stati respinti, se non abbiamo sperimentato abbastanza incoraggiamento e sostegno, tendiamo a diventare insicuri, autocritici e fragili di fronte alle avversità. In breve, meno resilienti. Per aiutarvi a incrementare il vostro senso di sicurezza, comincerò analizzando l’evoluzione del cervello sociale e le conseguenze di un attaccamento sicuro o insicuro. In seguito passerò a esaminare i metodi per potenziare la fiducia in voi stessi e per riuscire a conservare l’equilibrio emotivo. Infine illustrerò una serie di tecniche per tenere testa al vostro critico interiore e per rafforzare la vostra autostima. IL CERVELLO SOCIALE I rapporti interpersonali e la loro importanza nella nostra vita sono il risultato della lunga e lenta evoluzione del cervello sociale, cominciata con la comparsa dei mammiferi. Diversamente dalla gran parte dei rettili e dei pesci, i mammiferi hanno cura dei propri piccoli, spesso si legano al compagno – a volte per la vita –, vivono in gruppi e collaborano con i propri simili. Una vita sociale tanto complessa richiede uno strumento potente di elaborazione dati, perciò i mammiferi hanno sviluppato un cervello più grosso rispetto a quello dei pesci e dei rettili. Inoltre sono gli unici animali a essere dotati di neocorteccia, una regione composta da sei strati sovrapposti di tessuti neurali – ricchissima di connessioni e circonvoluzioni – e sede dell’elaborazione di esperienze complesse, della comunicazione e del ragionamento. Tutte queste capacità sociali hanno permesso ai mammiferi di prosperare in una quantità impressionante di ambienti diversi – le foche nei mari antartici, i topi nei deserti più aridi, i pipistrelli nell’oscurità delle grotte – e a uno in particolare di imporsi come specie dominante del pianeta. Com’è tipico della spirale evolutiva, i benefici adattativi dei rapporti reciproci hanno favorito lo sviluppo di un cervello più sociale, che a sua volta ha reso possibile interazioni sempre più complesse che hanno reso necessarie capacità neurali sempre più potenti. Nei primati, il rapporto tra socialità e spessore della corteccia è direttamente proporzionale: più la specie è sociale (più numeroso il gruppo famigliare e più intricata la rete di alleanze e rivalità), più è grande la corteccia. Nel caso degli umani, il volume del cervello si è triplicato dai tempi dei nostri antenati habilis – circa due milioni e mezzo di anni fa –, e gran parte degli elementi «aggiunti» è preposta a facoltà importanti per la socialità, come l’empatia, il linguaggio, la pianificazione concertata, la compassione, il pensiero morale. A mano a mano che il cervello cresceva, l’infanzia si prolungava. Il cervello di uno scimpanzé neonato è già la metà di quello di un adulto, mentre il nostro – alla nascita – ha appena un quarto delle dimensioni che raggiungerà. I cervelli «sovradimensionati» dei nostri antenati ominidi avevano bisogno di più tempo per arrivare a piena maturazione, e la loro lenta fase di crescita ha prolungato il periodo di dipendenza del bambino dalla madre. La cura necessaria ai figli impediva alle madri ominidi di procacciarsi il cibo da sole, di fuggire o difendersi da un predatore, rendendole a loro volta dipendenti dagli altri: il compagno, la famiglia, il clan. Questo ha determinato l’evoluzione dei rapporti di coppia, l’investimento paterno nella cura della prole e lo sviluppo del «villaggio» necessario ad allevare i bambini. Dipendere dagli altri potrà sembrare una debolezza, ma in realtà è la nostra forza più grande. Tutti i successi della specie umana, dalla sua propagazione ai quattro angoli del globo fino all’allunaggio, sono la conseguenza della dipendenza reciproca: dei bambini dai genitori, di un genitore rispetto all’altro, delle famiglie rispetto alla comunità, e delle comunità dai molti adulti non impegnati ad allevare figli propri. La base della sicurezza è la fiducia, la capacità di confidare nel prossimo. L’affidabilità degli altri ci permette di sviluppare la fiducia in loro oltre che in noi stessi. Se invece le persone che ci circondano si sono dimostrate inaffidabili è inevitabile provare vergogna, sentirci inadeguati, dubbiosi, sviluppare persino dei complessi. Questo vale soprattutto durante l’infanzia, quando la nostra dipendenza è più forte e più spiccata la nostra vulnerabilità alle esperienze negative. ATTACCAMENTO SICURO E INSICURO La nostra sopravvivenza non dipende soltanto dalla disponibilità di aria, acqua e cibo. Abbiamo anche bisogno di scorte sociali, soprattutto da giovani, quando siamo letteralmente affamati di empatia, di cure competenti e d’amore. Il nostro bisogno di sentirci accuditi è biologico. Di più: abbiamo bisogno di autostima, di sentirci degni di accudimento. È un’esigenza universale che però non sempre viene soddisfatta, poiché si rivolge a interlocutori – genitori, fratelli o coetanei – che a loro volta hanno esigenze proprie. A ogni nuovo incontro, un bambino pone le stesse domande implicite: «Mi hai notato? Mi vuoi bene? Avrai cura di me?». Le fondamenta stesse della nostra psiche consistono nelle risposte ottenute a queste domande in un numero incalcolabile di esperienze vissute durante l’infanzia. Entro il secondo anno di vita, gli effetti cumulativi delle molte esperienze con le persone più prossime si coagulano in un fondamentale stile di attaccamento. Dalle elementari al liceo, le nostre interazioni sono improntate al nostro stile di attaccamento primario, e tendono a rinforzarlo. Salvo un cambiamento radicale (come nel caso di una svolta significativa di crescita personale), questo stile continua a operare nel profondo di noi anche negli affetti dell’età adulta, e in particolare nei rapporti di coppia. In estrema sintesi, quando i genitori e gli altri adulti di riferimento sono attenti e reattivi ai loro bisogni e si mostrano affettuosi e competenti – cioè forniscono in modo affidabile un flusso «sufficiente» di scorte sociali –, i bambini sviluppano un attaccamento sicuro. Si sentono amati e degni d’amore, e hanno la capacità di consolarsi e regolarsi da soli. Le persone che hanno interiorizzato questa sicurezza di fondo non hanno paura di esplorare il mondo, tollerano le separazioni, si riprendono più in fretta dalle perdite e dalle delusioni. Si sentono a loro agio nel manifestare sentimenti e bisogni, perché hanno sperimentato spesso una risposta positiva alla loro domanda. Non si aggrappano agli altri e non li respingono. Confidano che il loro bisogno di affetto sarà soddisfatto, e basano il loro sistema di attaccamento sulla modalità ricettiva. In poche parole, sono sicuri di sé. Se invece il bambino è accudito da persone spesso indisponibili, insensibili, fredde, respingenti, punitive o violente, svilupperà un attaccamento insicuro. (Ne esistono di tre tipi: evitante, ambivalente e disorganizzato, ma in questa sede non possiamo approfondirne le distinzioni.) Le persone con questo stile di attaccamento si sentono inadeguate, indegne e incerte del proprio valore agli occhi del prossimo. Date le esperienze passate, dubitano che gli altri si dimostreranno affidabili e attenti, perciò tendono a mantenere le distanze senza aspettarsi granché, oppure ad aggrapparsi e diventare dipendenti. Poiché non hanno ricevuto attenzioni sufficienti, non hanno imparato ad attivare la compassione di sé e, avendo interiorizzato ripulsa e scherno, saranno aspramente autocritiche. Di conseguenza saranno meno resilienti e capaci di sostenere lo stress e affrontare le avversità. La loro affettività è radicata in un’insoddisfazione di fondo, perciò nei loro rapporti avranno la tendenza a scivolare in modalità reattiva. PROFONDAMENTE SICURI DI SÉ Per necessità i modelli concettuali tracciano distinzioni nette, ma la realtà è molto più sfocata. Gli stili di attaccamento sicuro e insicuro sono i due estremi di uno spettro vasto quanto quello cromatico, con il verde brillante a un’estremità, il rosso acceso all’altra, e un numero pressoché infinito di sfumature intermedie. Ma quale che sia il vostro posizionamento sullo spettro, è sempre possibile progredire verso l’estremo di una maggiore sicurezza, sia nei rapporti privilegiati sia con le persone in genere. La plasticità del sistema nervoso che ci rende così vulnerabili alle esperienze negative ci permette anche di guarire e crescere grazie a quelle positive, e nel tempo di sviluppare un attaccamento agli altri più sicuro, quindi più centrato sulla zona verde. ASSORBITE LA SENSAZIONE DI ESSERE ACCUDITI Le esperienze del presente potranno non compensare tutto ciò che ci è mancato in passato, da bambini o da adulti, ma almeno in parte possono soddisfare esigenze prima disattese. L’accudimento si manifesta in cinque forme principali di intensità crescente: inclusione, attenzione, apprezzamento, affetto e amore. A lungo andare, l’interiorizzazione reiterata del senso di accudimento può gettare le basi di un attaccamento più sicuro. Nel corso delle vostre giornate prestate attenzione ai piccoli episodi in cui gli altri vi dimostrano interesse, amicizia, gratitudine, empatia, rispetto, affetto o amore. Una stessa relazione può anche comprendere aspetti negativi, ma ciò non toglie che quelli positivi siano reali. Attivate le fasi del processo PACE per tramutare la consapevolezza di quelle attenzioni in un’esperienza profonda, prolungatela per l’arco di qualche respiro, e assimilatela. In genere si tratterà di episodi brevi e blandi, ma restate vigili per cogliere quelli più intensi, per esempio un momento di profonda intesa con il partner. Esperienza dopo esperienza, sinapsi dopo sinapsi, svilupperete la certezza di essere apprezzati, benvoluti e amati: una base solida per la sicurezza autentica. Per prolungare e approfondire l’esperienza provate l’esercizio illustrato nel box. SENTIRSI ACCUDITI Pensate alle persone importanti della vostra vita. Concentrate l’attenzione sull’affetto che provate per loro, e sull’appagamento che a loro volta potrebbero provare grazie alle vostre cure. Ora ribaltate la situazione e riflettete sull’appagamento suscitato in voi dall’affetto degli altri, riconoscendo che il bisogno di cure è naturale, e che dunque è perfettamente sano e accettabile che anche voi ne proviate l’esigenza. Pensate a qualcuno che vi vuole o vi ha voluto bene. Può trattarsi di un individuo o di un gruppo, di un animale domestico o di un’entità spirituale: ogni forma di affetto conta. Riconoscete i molti modi in cui il mondo vi ha accudito e continua a farlo. Lasciate che questa consapevolezza si tramuti in un’esperienza di inclusione… attenzione… apprezzamento… affetto… amore. Concentratevi su queste sensazioni. Se si intromettono pensieri o sensazioni diverse distogliete l’attenzione per focalizzarla di nuovo sul senso delle cure ricevute. Arricchitene l’esperienza, proteggetela, prolungatela. Avvertitela nel vostro corpo, magari appoggiando una mano sul cuore. Assaporate appieno la consolazione, il conforto, il piacere che vi suscita. Se lo desiderate, ricorrete alla quarta fase del processo PACE per collegare il senso di accudimento che provate adesso con le esperienze passate di esclusione o delusione, di inadeguatezza o vergogna. Assimilate l’affetto del prossimo come un balsamo lenitivo per le ferite ancora aperte. Riconoscetevi degni di attenzioni e di cure, lasciando che questa certezza vi invada come una luce, scacciando le ombre del dubbio. Come sempre in questa fase, ponete l’accento sulle esperienze positive e, se il materiale negativo si rivela intrattabile, distogliete l’attenzione per tornare a concentrarla sul positivo. SVILUPPARE UNA «NARRAZIONE COERENTE» Le ricerche dimostrano che un attaccamento insicuro da bambini determina rapporti analoghi anche nell’età adulta. Un passo cruciale per prendere coscienza e liberarvi di questa dinamica è sviluppare un resoconto realistico, integrato e «coerente» di quanto vi è accaduto da piccoli e della misura in cui può avervi condizionato. Questo tipo di autoanalisi è un processo graduale che può richiedere mesi, persino anni. Io rifletto sulla mia infanzia da moltissimo tempo, e continuo a scoprire elementi nuovi ed episodi illuminanti. Immaginate che a raccontare la vostra storia sia un narratore giusto e comprensivo, che ne segua gli eventi di anno in anno, dalla nascita fino al momento in cui siete usciti di casa. Pensate ai vostri genitori e alle persone che hanno inciso sulla vostra vita come a individui complessi, ricchi di sfaccettature e di impulsi contraddittori. Cercate di valutare con obiettività le sofferenze, i lutti, gli stress, i maltrattamenti o i traumi che avete vissuto, e i loro effetti su di voi. Ma impegnatevi anche a riconoscere l’amore, l’amicizia, l’affetto, la lealtà e il sostegno che avete ricevuto. Fate un passo indietro e osservate il passare degli anni, notando gli eventi e le vostre reazioni e ricostruendone le cause. Prendete coscienza delle tracce lasciate da infanzia e adolescenza: i punti di forza che avete sviluppato, le ferite ancora aperte. Siate compassionevoli con voi stessi, ma anche imparziali. Esaminate la vostra storia ricercando gli aspetti che vi accomunano agli altri, gli elementi condivisi con il resto dell’umanità. Per quanto dolorosa e disfunzionale sia stata la vostra infanzia, comprenderla in modo chiaro e coerente è sempre fonte di sicurezza. Per affrontare questa riflessione in modo strutturato, provate l’esercizio suggerito nel box. RIFLETTERE SULL’INFANZIA Adattate le domande suggerite qui di seguito al vostro vissuto personale. In molti casi non sarà possibile rispondere con un ricordo specifico, ma è probabile che conserviate una sensazione fisica o un’intuizione in grado di illuminarvi. Potete anche ricorrere alle informazioni fornite dalle persone che vi conoscevano da piccoli. Attivate la compassione quando vi soffermate su un episodio problematico o doloroso. Com’è stato il vostro primo anno di vita? Siete nati prematuri? Avete avuto problemi di salute? I vostri genitori erano sensibili alle vostre esigenze? Come reagivano al vostro pianto? Vostro padre o vostra madre soffrivano di depressione o alcolismo? Erano una coppia felice? Com’è stata la vostra primissima infanzia, e gli anni dell’asilo? Che cosa accadeva quando dicevate «no»? E, se avevate fratelli e sorelle, in che modo la loro presenza ha influito su di voi? Com’era il rapporto dei vostri genitori, e in che modo condizionava l’atmosfera in casa? Come vi sentivate alle elementari? Eravate popolari? Avevate molti amici? Vi sentivate inclusi? Siete stati vittime di bullismo? E durante l’adolescenza vi sentivate sicuri o insicuri? In che modo i cambiamenti del vostro corpo hanno inciso sulla vostra vita sociale? In quel periodo andavate d’accordo con i vostri genitori? Vi sentivate ascoltati e supportati da loro? Ripensando al passato, trovate esperienze specifiche che vi hanno cambiato? Magari un divorzio, un susseguirsi di traslochi, una difficoltà economica, una malattia o un lutto in famiglia, un fratello disabile, un contesto sociale di povertà e pregiudizio. Avete subito traumi, compresi abusi, incidenti, morti improvvise? Potevate contare sulle cure e la protezione di una persona speciale, come un nonno, un maestro, un migliore amico? Quali sono gli effetti di tutto questo sulla persona che siete adesso e sui vostri rapporti con gli altri? AIUTATE GLI ALTRI A SVILUPPARE UN ATTACCAMENTO SICURO A VOI Quando sono diventato papà, mi è capitata una cosa straordinaria. Ho scoperto che amare i miei bambini non soltanto era un bene per loro, ma anche un toccasana per le ferite che mi portavo dentro. È quasi una magia: offrendo ciò che non abbiamo ricevuto, lo riceviamo in cambio. Esistono rapporti relativamente superficiali e altri profondissimi, per esempio il legame con il nostro compagno di vita. Nell’uno o nell’altro caso, impegnatevi a essere affidabili, empatici e attenti, affinché gli altri possano sentirsi al sicuro con voi. Magari loro stessi devono ancora elaborare le proprie forme di attaccamento insicuro, ma almeno voi avrete fatto la vostra parte. In questo modo incrementerete le possibilità di venire trattati in modo adeguato, e di cogliere e interiorizzare esperienze in grado di potenziare un nucleo di sicurezza dentro di voi. Inoltre, trattare gli altri come vorremmo essere trattati esercita una sorta di misterioso potere taumaturgico. È come una guarigione. E la prova che, qualunque cosa vi sia accaduta in passato, la vostra identità profonda è rimasta illesa: siete ancora capaci di voler bene, ancora capaci di amare. NON SCAGLIATE FRECCE Richiamate alla mente un episodio in cui qualcuno vi ha trattato ingiustamente: che cosa avete provato? Forse sorpresa, dolore, rabbia. E poi cosa avete pensato? In genere la reazione è una cascata di emozioni e di pensieri. Magari, com’è capitato a me, siete rimasti svegli tutta la notte a rimpiangere di non aver risposto per le rime. UNA DOPPIA FERITA Il Buddha descrisse questa dinamica di reazione iniziale e secondaria come prima e seconda freccia. La prima è il dolore fisico ed emotivo, che non si può evitare. L’emicrania, l’influenza, la nostalgia di un amico, il turbamento per aver ricevuto una critica ingiusta durante una riunione di lavoro sono tutti eventi che fanno parte della vita. La seconda freccia è quella che scagliamo noi in reazione alla prima, aggiungendo dolore superfluo a quello inevitabile. Gli esempi di questa seconda freccia sono il rimuginare ossessivo su un’incomprensione di poco conto o un’offesa, il rancore e i risentimenti. Sono questi la fonte di gran parte delle nostre sofferenze, soprattutto nei rapporti umani. Il loro unico risultato è di acuire la nostra stessa agitazione e di spingerci ad azioni di cui in seguito dovremo pentirci. A volte è possibile prevenire la prima freccia cambiando un elemento esterno, per esempio cercando un lavoro meno stressante o trascorrendo meno tempo con un parente difficile. Inoltre, come abbiamo visto negli altri capitoli del libro, possiamo sviluppare un nucleo interiore sempre più robusto di pace, appagamento e amore che agisca da ammortizzatore per gli shock della vita. In questo modo le situazioni o i rapporti che prima vi causavano dolore o angoscia non potranno più scalfirvi. Tuttavia, a dispetto dei nostri sforzi, ci troveremo comunque a incassare qualche freccia. Vi è cascato un mattone sul piede: fa male, inutile discuterne. Qualcuno vi ha rimproverato con particolare durezza: è normale che vi sentiate mortificati e feriti. Certe reazioni non si possono reprimere, ma potete gestirle ricorrendo alle tre strategie di orientamento mentale. Primo, accettate l’esperienza, prendendone atto con mindfulness, senso di curiosità e compassione di sé. Secondo, assumete il distacco da tensioni ed emozioni, liberandovi di tutti i pensieri e gli impulsi controproducenti. Terzo, attivate l’assimilazione, ricercando gli aspetti positivi e sostituendo il negativo di cui vi siete liberati con qualcosa di utile o piacevole. ESERCIZI PER LA SECONDA FRECCIA Possiamo evitare che dopo la prima freccia si scateni una raffica di seconde. Poiché queste dipendono dalla nostra mente, la decisione spetta a noi. Per cominciare, valutate le prime frecce con il giusto senso delle proporzioni. Sono una parte naturale e inevitabile della vita, e non è proprio il caso di aggravarle. Certo, è spiacevole se un temporale improvviso guasta il picnic domenicale, ma non per questo ci mettiamo a inveire contro la pioggia. Se accettiamo la prima freccia per ciò che è, argineremo il flusso di seconde frecce. È come schiacciare un interruttore che spegne un circuito. Il senso delle proporzioni è importante soprattutto nell’ambito dei rapporti. Per esempio, è naturale preoccuparci del giudizio degli altri, e sentirci feriti se ci criticano: questo è il dolore della prima freccia. Per imparare a fermarvi qui vi propongo di riflettere sull’evoluzione umana, io l’ho trovato molto utile. L’altruismo – cioè dare agli altri a scapito di sé – è molto raro nel regno animale. Esiste infatti il rischio che il beneficiario si approfitti dell’individuo altruista, riducendone le probabilità di sopravvivenza, sopprimendo così l’evoluzione di questa capacità nella specie. Negli uomini, invece, l’altruismo – aiutare un estraneo, tuffarsi in un fiume per salvare un cane altrui – ha potuto svilupparsi perché il cervello sociale ha consentito ai nostri antenati di capire gli altri e di preoccuparsi moltissimo del loro giudizio. Per chi vive in piccoli gruppi, e a volte ai limiti della sussistenza, la reputazione personale è una questione di vita o di morte. Immaginate di trovarvi nella savana africana, circa centomila anni fa: se ieri avete condiviso il vostro cibo con un compagno, e oggi lui si rifiuta di condividere il proprio, tutti i membri del vostro clan lo verranno a sapere, e mai più qualcuno si arrischierà a offrire un boccone a quella persona. Chi approfittava della generosità altrui non poteva farla franca, e pagava lo scotto del proprio egoismo. È l’importanza che attribuiamo all’opinione altrui che ci rende tanto vulnerabili all’imbarazzo, alla delusione e alla vergogna ma è anche ciò che ci rende capaci di altruismo. In modo analogo, tutte le nostre vulnerabilità alle emozioni sociali «negative», come la solitudine, l’invidia, la gelosia, il risentimento e l’indignazione, sono aspetti necessari della natura profondamente sociale della nostra specie, la stessa che ci ha donato l’amicizia, la compassione, l’amore e il senso di giustizia. Una volta presa coscienza di questo fatto, le prime frecce dei rapporti ci risulteranno meno incomprensibili e allarmanti: sono un dolore normale e naturale, come quello fisico. Imparando a considerarle come il risultato di milioni di anni di evoluzione non ci sembreranno più tanto personali, penetranti e dolorose. Il dolore che procurano serve uno scopo ben preciso. Soffrirne è come compiere un piccolo sacrificio per il bene della «squadra» umana. Acquisita questa nuova prospettiva sulla prima freccia, cercate di controllare il vostro impulso a reagire scagliandone una seconda. (Nei capitoli successivi indagheremo alcuni metodi di interazione più efficaci.) Fate un respiro profondo, prendete le distanze e riconoscete le seconde frecce per ciò che sono in realtà: una sofferenza superflua. Osservate la loro tendenza a surriscaldarvi, l’insistenza a battere sempre sullo stesso chiodo. Quando vi accorgete che state continuando a rimuginare su un torto subito, concentrate l’attenzione sulla compassione di sé, e poi sulle risorse chiave che corrispondono al problema, per esempio portando i pensieri sulle persone che vi amano. Se non siete voi ad alimentarlo, il fuoco delle seconde frecce non impiega molto a spegnersi da solo. Smettendo di pensare al torto che avete subito, presto finirete per dimenticarlo. E, soprattutto, prestate attenzione all’insorgere del vostro critico interiore, un vero maestro nel lancio di seconde frecce. TENERE TESTA AL CRITICO INTERIORE Dentro tutti noi dialogano due atteggiamenti o «voci» opposte, una incoraggiante e l’altra critica, una che ci risolleva e l’altra che ci abbatte. È un fenomeno perfettamente normale, non psicotico. Entrambe queste voci svolgono una funzione utile. Il consolatore offre consigli e rassicurazione. Il critico ci aiuta a riconoscere i nostri errori e a correggerci. Ma nella maggior parte di noi il critico è dominante, e scaglia seconde frecce a ripetizione. Ci rimprovera, ci umilia, è sempre scontento e trova da ridire su tutto. È gigantesco e potente laddove il consolatore è debole e inerme, e le sue mortificazioni continue logorano il nostro buon umore, la nostra autostima, e in ultima analisi la nostra resilienza. Per fortuna esistono metodi efficaci per ristabilire il giusto equilibrio, tenendo a freno il critico e potenziando il consolatore. USATE LA MINDFULNESS CONTRO L’ECCESSO DI AUTOCRITICA Attivando la mindfulness, prestate attenzione al tipo di critiche che rivolgete a voi stessi. Notate la tendenza a schernire o sminuire il vostro dolore, le vostre esigenze e i vostri diritti. Osservate i piccoli flussi di pensiero che sviliscono i vostri successi: «Capirai, mica hai combinato niente d’importante… comunque il risultato non è perfetto… stavolta ti è andata bene, ma che dire di tutte le altre in cui hai fallito?». Notate i modelli ripetitivi con cui il dubbio o lo scoraggiamento abbattono le vostre speranze e distruggono i vostri sogni. Badate alla rabbia sproporzionata, e ascoltatevi per capire se la voce interiore assume un tono aspro, sarcastico, avvilente, come una persona che vi sgrida. Identificate la tendenza al perfezionismo. Siate consapevoli dei rimproveri eccessivi e moralistici: «Vergognati, sei una persona cattiva». Nell’osservare i pensieri che scorrono nella vostra mente cercate di definirli: «autocritica», «svilimento del mio dolore», «rimproveri e autoflagellazione». C’è qualcosa nelle parole, nel tono o nell’atteggiamento del vostro critico interiore che vi suona familiare? Vi ricorda qualcuno, magari un genitore, un fratello maggiore, un allenatore? Cercate di ricostruire le origini della vostra tendenza all’autocritica, magari risalendo all’infanzia o all’adolescenza. La risposta a queste domande vi permetterà di conoscervi meglio e di diventare consapevoli del dogmatismo, dell’intransigenza e dell’assurdità di gran parte dei giudizi del critico interiore. E, prendendone le distanze, smetterete di identificarvi con lui: fa parte di voi, ma non è voi. Visualizzandovi come uno spettatore esterno che osserva il critico senza perdere la calma, lo renderete meno aggressivo e più ragionevole. RAFFORZATE IL CONSOLATORE Quando il critico interiore comincia a prendervi di mira, il consolatore è al tempo stesso un rifugio e un alleato. È una parte di voi che vi difende e vi incoraggia anche quando le critiche provengono dall’esterno, o quando affrontate eventi stressanti, dolorosi, persino drammatici. È una fonte preziosa di sicurezza e resilienza. A partire dalla primissima infanzia noi sviluppiamo il consolatore interiorizzando le esperienze vissute con persone accudenti reali: i genitori, le maestre d’asilo, i bambini più grandi. Ma se il loro sostegno è stato solo sporadico o magari contraddittorio – per esempio un genitore al tempo stesso affettuoso e ipercritico –, allora il consolatore non riesce ad acquisire la forza necessaria. A prescindere dal vostro passato, potete comunque costruirvi un consolatore efficace attivando le fasi del processo PACE per interiorizzare le esperienze in cui gli altri vi dimostrano apprezzamento, per realizzare una base durevole di sicurezza interiore. In modo analogo, nelle situazioni in cui voi stessi vi prestate le cure giuste (per esempio rammentandovi che aver commesso un errore non è la fine del mondo), notate e assimilate l’esperienza per potenziare il consolatore interiore. Potrà sembrarvi sciocco, ma è utile persino immaginare un «collegio difensore» dentro di voi, composto da diverse figure guida, ognuna delle quali rappresenta una specifica forma di sostegno e saggezza. Il mio è costituito da mia moglie e i miei figli, i maestri di roccia tosti ma comprensivi, parecchi buoni amici e persino qualche personaggio immaginario, come Gandalf del Signore degli anelli, Spock di Star Trek, e la fata madrina buffa e grassoccia della Bella Addormentata. Dico sul serio: li ho inseriti tutti nel mio collegio difensore. E voi chi vorreste nel vostro? Quando il critico interiore comincia a scaldare i motori o la vita diventa difficile, appellatevi al consolatore. Avvertitene la presenza nella mente e nel corpo, prendete nota del suo atteggiamento e dei suoi consigli. Potete attribuirgli le fattezze di una persona che vi ha voluto molto bene e concentrarvi sulla sensazione di accoglienza, protezione, conforto e guida che vi trasmetteva. E, ogni volta che il consolatore vi parla, focalizzatevi sull’esperienza per assimilarla: sarà un’ulteriore occasione per rafforzare la voce incoraggiante dentro di voi. RESPINGETE IL CRITICO Appena riconoscete il tono o le parole tipiche del critico interiore, osservatelo con distacco. Consideratelo colpevole fino a prova contraria. Spetta a voi decidere se credergli e schierarvi con lui o se dubitare e prendere le distanze. Il critico interiore è un amalgama di tutte le persone che vi hanno giudicato con cattiveria, scherno o crudeltà. Il loro era un comportamento sbagliato: perché replicarlo con voi stessi? Discutete con lui, con la ferma intenzione di uscire vincenti dal dibattito. Scrivete una delle sue accuse ricorrenti (per esempio: «Sei un fallito») e poi smentitela, appellandovi ai molti episodi in cui vi siete dimostrati capaci e competenti. Visualizzate i membri del vostro collegio difensore che si fanno avanti a contestarlo. Alleatevi con loro, non con lui. Incoraggiatevi con frasi convincenti e utili, per esempio: «Questa critica ha un fondo di verità, ma tutto il resto è esagerato e falso», «Sono le stesse cose che mi ripeteva sempre _____. Lui/lei si sbagliava, perciò si sbaglia anche il critico», «Ciò che mi dice non mi è d’aiuto, non sono tenuto a prestargli ascolto». Cercate di considerare il critico come una figura priva di credibilità, per esempio visualizzandolo come il cattivo caricaturale di un cartone animato della Disney. Spingetelo ai margini della vostra coscienza, fuori dal nucleo centrale del vostro essere, come il partecipante fastidioso che a una riunione si ostina a sparare sentenze cui nessuno dà retta. Usate la quarta fase del processo PACE per avvertire il senso di rassicurazione e incoraggiamento che vi pervade e spazza via la sensazione di inadeguatezza e vergogna da ogni angolo della vostra interiorità. Sentite la calma e la quiete che vi invadono. Trovate riposo nella serenità di sapervi capaci e sicuri di voi. PRENDETE COSCIENZA DEL VOSTRO VALORE Pensate a un conoscente che reputate buono. Non serve che sia un santo, basta che si tratti di una persona fondamentalmente onesta e gentile. Ora trovatene un’altra. Vedete con quanta facilità sapete riconoscere le virtù degli altri, anche quando li conoscete poco? Sappiate che quasi tutti sono proprio come voi: anche loro vedono e riconoscono gli aspetti positivi del prossimo. E sanno benissimo che voi siete una brava persona. Lasciatevi pervadere dalla consapevolezza che il giudizio degli altri su di voi sia come il vostro su di loro. E che gli altri vi giudicano bene perché siete buoni. Non li state ingannando o truffando. Senz’altro avrete difetti e mancanze, ma per loro non è questo che conta. Le persone importanti della vostra vita riconoscono le vostre virtù. Riuscite a vedervi così come vi vedono loro, e a comprendere che la vostra natura profonda è buona e degna? Molti non ne sono capaci. È facile individuare le qualità altrui, e magari ammettere razionalmente che gli altri vi attribuiscono intenzioni e un cuore buoni. Eppure è stranamente difficile guardarsi con i loro occhi. È come un tabù, qualcosa di vietato. Ma per quale motivo? Se è giusto riconoscere la bontà di fondo degli altri, e se loro riconoscono la nostra, che c’è di male a riconoscerla e ad ammetterla noi stessi? Nel corso di una giornata cercate di notare i momenti in cui gli altri vi attribuiscono onestà, competenza, impegno o cura verso il prossimo; per lo più si tratterà di episodi effimeri, ma saranno comunque reali. E cercate di vedere i vostri lati migliori così come vedete quelli altrui. Elencateli come farebbe un osservatore obiettivo: «impegno», «affabilità», «capacità di ammettere gli errori», «competenza», «collaborazione», «capacità di tollerare le avversità», «disponibilità». Siate consapevoli dell’integrità e dei buoni sentimenti che albergano in voi anche quando non si manifestano o non vengono espressi. Lasciate che la certezza del vostro valore intrinseco cresca e vi pervada. Immergetevi in questa sensazione. Ripetete l’esercizio più volte. Quali che siano gli alti e i bassi della vostra vita, i vostri successi o inciampi, gli amori felici o infelici, la consapevolezza di essere una persona fondamentalmente buona è un rifugio sicuro, in cui trovare conforto e forza. L’essenza del vostro valore non risiede nei traguardi conseguiti, nella fama o nel successo, ma nella vostra bontà. CONCETTI CHIAVE Gli esseri umani si sono evoluti grazie alla loro reciproca dipendenza. Se le persone della nostra vita, in particolare quando eravamo bambini, si dimostrano affidabili e attente, noi sviluppiamo sicurezza e stabilità. Se invece gli altri sono freddi o respingenti, ci sentiamo insicuri e perdiamo resilienza. A prescindere da quanto vi è accaduto in passato, potete sviluppare fiducia in voi stessi nel presente. Per riuscirci, ricercate le occasioni in cui vi sentite accuditi e assimilatene l’esperienza, sviluppate una «narrazione coerente» della vostra infanzia, siate affidabili, empatici e disponibili nei confronti degli altri. Di fronte a una situazione difficile, spesso aggraviamo il dolore iniziale aggiungendo una seconda ondata di reazioni. Queste seconde frecce sono la fonte di gran parte delle nostre sofferenze, soprattutto nei rapporti umani: prestate attenzione alle vostre reazioni per prenderne le distanze ed evitare di alimentarle. Il critico interiore è un arciere instancabile di seconde frecce. Magari cerca di aiutarci, ma di fatto esagera, riversandoci addosso una valanga di rimproveri e derisione. Se gli date retta, eroderà la vostra autostima, intralciando la vostra ripresa da una delusione o da una battuta d’arresto. Rafforzate il consolatore interiore e respingete il critico. Per voi è normale riconoscere l’essenziale bontà degli altri. Be’, anche loro vedono la vostra. Incoraggiatevi a riconoscere che siete una brava persona. Qualunque cosa accada dentro o fuori di voi, la base di una sicurezza duratura è la certezza della bontà che costituisce il vostro nucleo più profondo. CALMA Voi siete il cielo. Tutto il resto è un fenomeno meteorologico. PEMA CHÖDRÖN Una volta io e Forrest siamo andati a fare rafting sul fiume Klamath, nella California settentrionale. Insieme alla nostra guida abbiamo superato una serie di rapide, lasciandoci inzuppare dagli spruzzi, divertendoci un mondo. E imparando una lezione preziosa. Le rapide erano pericolose, e minacciavano il nostro bisogno primario di sicurezza. Tuttavia ricordo bene il volto della guida: nell’affrontare la corrente e gli ostacoli intorno a noi, aveva un’espressione attenta ma sicura, vigile ma rilassata. Irradiava calma, la risorsa mentale che ci aiuta a restare nella zona verde quando un rischio presente o futuro ci minaccia. Capita a tutti di dover affrontare un dolore fisico o emotivo, e per molti la situazione è cronica. Siamo anche costantemente circondati dalla prospettiva di un dolore futuro – dai camion che ci superano avvicinandosi troppo alla nostra auto all’irritazione improvvisa che leggete sul viso del vostro partner. Persino il perseguimento di opportunità comporta dei rischi. A mia memoria, una delle volte in cui ho avuto più paura è stata quando ho rivelato alla mia prima fidanzata che ero innamorato di lei senza sapere come avrebbe reagito. (La risposta: «Anch’io».) Forse, come la mia guida di rafting, siete già capaci di conservare la calma quando affrontate un dolore o la sua minaccia. Tuttavia le reazioni più comuni sono quelle biologiche di fuga, lotta o paralisi, accompagnate da varie combinazioni di: paura: disagio, nervosismo, ansia, allarme, panico; rabbia: esasperazione, irritazione, frustrazione, indignazione, collera; impotenza: senso di vulnerabilità, di fragilità, di sconfitta, di futilità; blocco. È normale di tanto in tanto provare paura, rabbia o senso di impotenza. Il problema sorge quando queste reazioni diventano invasive o croniche, o incidono sul nostro benessere, sui rapporti o sul lavoro. Poiché la sicurezza è un’esigenza vitale, è altrettanto importante imparare a regolare la nostra risposta, per affrontare il dolore e la sua minaccia con calma e fermezza. In questo capitolo analizzeremo i metodi per rilassarci e recuperare l’equilibrio, per valutare le minacce in modo accurato, per sentirci meno esposti e per spegnere la collera. (Per un approfondimento sul senso di impotenza tornate alla sezione sull’autonomia del capitolo dedicato alla grinta.) DISTENSIONE ED EQUILIBRIO Come ha detto Alan Watts, la vita è tortuosa. Le cose cambiano di continuo, nel corpo e nella mente, in meglio o in peggio. Per giunta viviamo in un mondo sempre più imprevedibile, incerto, complesso e ambiguo, le cui ondate ci percuotono ogni giorno. UNO STATO DI SANO RILASSAMENTO Le onde interiori e del mondo esterno minacciano il nostro equilibrio, perciò il sistema nervoso autonomo si incarica di conservarlo attraverso i suoi sistemi parasimpatico e simpatico. Immaginateli come il pedale del freno e dell’acceleratore di un’automobile. Il sistema nervoso parasimpatico, che «rilassa ed elabora», è stato il primo a evolversi. Quando si attiva, il battito cardiaco rallenta, il corpo recupera le energie e si ripara. Un’attivazione estrema può produrre uno stato di paralisi, per esempio la sensazione di non riuscire a parlare, l’equivalente umano della reazione animale di «fare il morto». Ma in condizioni normali l’attività del sistema parasimpatico genera un senso di benessere, di rilassamento e di equilibrio. Il sistema nervoso simpatico, invece, schiaccia a tavoletta. Prepara il corpo all’azione accelerando il battito cardiaco e inviando al flusso sanguigno scariche di ormoni come adrenalina e cortisolo. E, insieme al corpo, anche la mente ingrana la quarta, con pensieri e sentimenti sempre più intensi. Come vedremo nel prossimo capitolo, se associata a emozioni positive come felicità, amore o sicurezza, l’attivazione del sistema simpatico è una fonte magnifica di passione e resilienza. Uno stato sano di quiete fisica e mentale richiede una sostanziosa attività parasimpatica con appena un tocco di attivazione simpatica per conservare il giusto dinamismo. Ma quando l’azione del sistema simpatico si combina a emozioni negative come rabbia o paura, le reazioni di fuga o lotta possono risultare stressanti o angoscianti. Logorano il corpo e la mente, mettendo a dura prova i rapporti. Purtroppo l’enfasi della cultura contemporanea su un dinamismo incessante attiva sempre al massimo il nostro sistema nervoso simpatico, lasciando ben poco spazio alle pause di recupero parasimpatico. L’attivazione del sistema simpatico può anche avere cause individuali, per esempio una personalità particolarmente ambiziosa o uno stato di agitazione dovuto a un trauma pregresso. Ma quasi tutti soffriamo di stress cronico, da blando a moderato, vivendo costantemente in una sorta di «zona rosa». Certo, potremmo rallentare e affannarci di meno, ma non è cosa facile, considerata la quantità dei nostri impegni in casa e sul lavoro. Se vi giostrate tra mille responsabilità diverse e simultanee, vi sarà utile imparare ad attivare il sistema parasimpatico, per evitare il sovraccarico. Uno dei metodi più efficaci è praticare il rilassamento con regolarità. DARSI UNA CALMATA I sistemi parasimpatico e simpatico funzionano come un’altalena: se uno sale, l’altro scende. Quando vi rilassate, l’attivazione parasimpatica incrementa, riducendo di conseguenza quella simpatica e la produzione di ormoni dello stress. Ricorrendo alle fasi del processo PACE per interiorizzare le esperienze di rilassamento, acquisirete un atteggiamento meno ansioso, irritabile e teso. In circostanze difficili o ansiogene ritroverete più in fretta la calma e l’equilibrio interiore. È facile rilassarsi nelle situazioni di quiete, per esempio durante una passeggiata nei boschi. Ma non è solo allora che ne abbiamo bisogno. Un giocatore di basket che lancia un tiro libero nei tempi supplementari dev’essere in grado di rilassarsi, lasciandosi guidare dalla memoria muscolare. Nei frangenti più estremi, per citare Adam Savage, «le persone calme sopravvivono, quelle tese muoiono». L’ho imparato sulla mia pelle a sedici anni, quando ho rischiato di annegare durante un’immersione in apnea nell’Oceano Pacifico. Dopo aver trattenuto il fiato il più a lungo possibile, ho cercato di tornare in superficie attraversando un banco di alghe, invece sono rimasto impigliato. Mi sono fatto prendere dal panico, ma più mi dibattevo, tentando di divincolarmi, più restavo avviluppato. Ormai non avevo più aria nei polmoni ed ero certo di morire. Poi, non so come, ho sentito nella testa una voce che non dimenticherò mai: «Datti una calmata». Mi sono rilassato di colpo. Mentre mi dimenavo, avevo perso il boccaglio, la maschera mi si era attorcigliata intorno al collo e non avevo più una pinna. Ero sott’acqua da parecchio tempo ma, una volta ritrovata la calma, i miei movimenti sono diventati più efficaci: sono riuscito a liberarmi da quel groviglio e infine a riemergere in superficie, spalancando la bocca per respirare a pieni polmoni. Ancora oggi ci sono aspetti di quell’esperienza che non capisco – chi o che cosa mi ha suggerito di calmarmi? –, ma uno era chiarissimo: conservare la freddezza in una situazione difficile è vitale. Per acquisire un atteggiamento di quiete interiore e accorciare i tempi di recupero dopo un episodio di stress, impegnatevi a praticare tecniche di rilassamento più volte alla settimana. Ritagliatevi anche dei piccoli momenti di relax nel corso della giornata, soprattutto quando l’ago del vostro stressometro comincia a salire verso il giallo, l’arancione o il rosso. La nostra è una cultura sovraeccitata, perciò dobbiamo essere noi a decidere consapevolmente di rilassarci. Esistono molti modi per ritrovare la calma e la distensione, e in larga misura saranno efficaci sia se praticati per un tempo prolungato sia se di breve durata. Qui di seguito troverete qualche suggerimento. Ricordate di usare il processo PACE per assimilare e radicare l’esperienza dentro di voi. Estendere l’espirazione Il sistema nervoso parasimpatico (SNP) è preposto all’espirazione, che rallenta il battito cardiaco, mentre quello simpatico gestisce l’inspirazione, che lo accelera. Prolungando l’espirazione attiverete automaticamente l’SNP. Estendete l’espirazione per una serie di più respiri, contando lentamente dentro di voi per accertarvi che duri più a lungo della fase di inspirazione. Per esempio, contate fino a tre quando incamerate l’aria e fino a sei quando la liberate. Sciogliere la tensione Scegliete un punto chiave del corpo, per esempio il diaframma o i muscoli della mascella, e concentratevi a rilassarlo. Visualizzate il respiro che lo pervade, oppure la luce o l’energia che lo attraversa, trascinando via la tensione. Potete anche ricorrere al rilassamento progressivo: cominciando dai piedi, rilassate in modo sistematico ogni parte del corpo fino ad arrivare alla testa (o viceversa, dalla testa ai piedi). Biofeedback In commercio esistono diversi apparecchi da polso o collegati al lobo dell’orecchio che misurano il battito cardiaco e il ritmo di respirazione. Seguito in tempo reale, il feedback del vostro corpo vi guiderà in modo naturale verso uno stato di quiete, e potrete tenere traccia dei vostri progressi. Alcuni di questi dispositivi puntano a migliorare la variabilità cardiaca, cioè i cambiamenti di intervallo tra un battito e l’altro, registrando il rallentamento del ritmo cardiaco che si verifica quando attiviamo il sistema nervoso parasimpatico attraverso l’espirazione prolungata. Un incremento di variabilità indica una maggiore attivazione del sistema parasimpatico: uno stato associato a un miglioramento dell’umore, a un rafforzamento del sistema immunitario e a una maggiore resilienza allo stress. Muoversi Lo yoga, il Tai Chi, il Qi Gong, la meditazione in movimento, la danza, il canto e altre forme strutturate di esercizio fisico sono al tempo stesso rilassanti ed energizzanti. Potete anche scegliere un’attività quotidiana, come rastrellare le foglie o piegare la biancheria, e concentrarvi a svolgerla in modo tranquillo e sereno, attivando la mindfulness per restare in sintonia con il vostro corpo. La visualizzazione In genere lo stress è alimentato da processi verbali interni. Sono le voci che si preoccupano del futuro, rimuginano sul passato e trovano da ridire sul presente. Nella maggior parte delle persone la base neurale del linguaggio si trova nell’emisfero sinistro del cervello, mentre quello destro è preposto alle immagini e ad altre forme di elaborazione olistica. (Per i mancini è il contrario.) I due emisferi si limitano a vicenda: l’attivazione dell’uno riduce quella dell’altro. Perciò concentrarsi su un’immagine inibirà l’attività verbale, contribuendo a rilassarvi. Il metodo della visualizzazione si può impiegare in vario modo. Potete richiamare alla mente il ricordo di un luogo molto bello che avete visitato, e ripercorrerlo con il pensiero. Oppure immaginarvi in una situazione tranquilla e rilassante, magari mentre siete seduti sulla sponda di un lago o camminate su una stradina di campagna. Potete ripensare a un ambiente in cui vi sentivate al sicuro, per esempio la casa dei vostri nonni, cercando di ricordarne ogni più piccolo dettaglio. Oppure visualizzare nuvole bianche e vaporose, e voi che le attraversate in volo come un uccello. RICONOSCERE LA PARANOIA DA TIGRI DI CARTA A volte la paura è facile da riconoscere, segnalata dal nervosismo o dal panico. Per gran parte del tempo, però, opera da dietro le quinte, esercitando un potere occulto. Per esempio è in azione nelle persone che si tengono ai margini delle situazioni sociali, che procrastinano una sfida nella speranza di evitarla, che si sentono emotivamente inibite e non osano esprimersi o distinguersi dal gruppo. La paura è potente perché è vitale per la sopravvivenza. Il timore con cui reagiamo oggi a eventi secondari attiva lo stesso apparato neuro-ormonale che ha permesso ai nostri antenati di affrontare minacce letali, e di sopravvivere. I DUE ERRORI Con l’evoluzione del sistema nervoso, gli animali metaforicamente parlando – commettere due tipi di errori: potevano – 1. credere che dietro un cespuglio fosse in agguato una tigre, quando non era così; 2. credere che il cespuglio non nascondesse niente, quando invece la tigre c’era ed era pronta all’attacco. Qual è il costo del primo errore? Un’ansia superflua, spiacevole ma non fatale. E quello del secondo? Probabilmente la morte. Per questo i nostri antenati hanno sviluppato una forte tendenza a commettere innumerevoli volte il primo errore, per evitare di compiere il secondo anche una volta sola. La «paranoia da tigri di carta» è un tratto adattativo. La conseguenza è che quasi tutti sopravvalutiamo i rischi e sottovalutiamo la nostra capacità di gestirli. Questa inclinazione opera sottotraccia nella nostra mente, e la difficoltà stessa di prenderne coscienza la rende ancora più potente. Io a scuola ero un piccolo nerd, e per molti anni della mia vita di adulto ho continuato a dare per scontato che, se in qualche modo mi fossi fatto notare, l’avrei pagata cara. Ho impiegato molto a capire che stavo proiettando sul presente un timore del passato, e che in realtà la maggioranza delle persone non è né aggressiva né respingente. Quando un pregiudizio è radicato, noi notiamo e interiorizziamo tutte le informazioni e le esperienze che lo confermano, ignorando o liquidando come irrilevanti quelle che lo smentiscono. Prima di superare la mia percezione sbagliata dei gruppi, ai miei occhi non contavano le molte volte in cui venivo incluso, mentre bastava il minimo episodio di emarginazione per convincermi che le mie paure erano giustificate. ANSIA SUPERFLUA Ovviamente è importante riconoscere le minacce reali e sviluppare risorse per gestirle. Ma in genere le nostre angosce sono superflue e controproducenti. Tendiamo a vedere noi stessi, il mondo che ci circonda e il futuro attraverso le lenti della paura. Anche quando la ragione ci dice che non c’è nulla da temere, proviamo comunque un vago nervosismo sottopelle, la sensazione che qualcosa potrebbe andare storto da un momento all’altro. L’ansia funziona da segnale di pericolo, ma per la maggior parte del tempo è soltanto un’interferenza, come un allarme antifurto che non smette di suonare: un rumore di fondo, sgradevole ma privo di significato. Quali sono i costi? L’ansia è stressante e spossante, provoca un senso di malessere. Martellati dai falsi allarmi, rischiamo di non notare i pericoli reali, in particolare quelli che, nati sottotraccia, crescono col tempo come la progressiva distanza che può allontanare marito e moglie. L’ansia ci porta a reagire in maniera incontrollata, spaventando gli altri, che a loro volta reagiscono per eccesso, confermando le nostre paure. Invece di concentrare le nostre risorse sul conseguimento delle opportunità, la paura le sposta sul tentativo di evitare minacce ingigantite. Ci mette sulla difensiva, ci induce a valutazioni paralizzanti, ci immobilizza. Nei rapporti spinge a chiudersi nel «noi», assumendo atteggiamenti diffidenti e aggressivi nei confronti degli «altri». Tutto questo erode la nostra resilienza. SENTIRSI AL SICURO La paura sorge quando una minaccia ci sembra superiore alle nostre forze. A volte la sproporzione è reale, per esempio quando arriva una bolletta e non abbiamo i soldi per pagarla. Ma a causa della paranoia da tigri di carta, spesso siamo noi a ingigantire le difficoltà e a sminuire le risorse con cui potremmo gestirle. Anche una volta compreso che le paure irrazionali condizionano la nostra vita, può risultare molto difficile liberarsene. Di fatto molte persone hanno paura di non aver paura. Perché in quel caso abbasserebbero le difese, e bum!, accadrebbe senz’altro qualcosa di terribile. Per essere al sicuro dobbiamo ridurre le minacce reali e incrementare le risorse effettive. Per sentirci al sicuro dobbiamo smettere di ingigantire i problemi e cominciare a riconoscere la nostra capacità di risolverli. E a quel punto non sarà più necessario temere la mancanza di paura. Diamo per scontato che il primo processo sia già in corso: state riducendo le minacce reali e sviluppando risorse efficaci per affrontarle. Il passo successivo sarà accertarvi che la vostra valutazione dei problemi sia accurata, riconoscere l’adeguatezza delle vostre competenze e acquisire un senso ragionevole di sicurezza interiore. VALUTAZIONE ACCURATA DEI PROBLEMI Scegliete qualcosa che vi spaventa. Potrebbe trattarsi di una malattia, di un problema economico, di un conflitto interpersonale. Oppure di qualcosa che avete evitato per timore di esporvi, come parlare in pubblico o esprimere con franchezza le vostre esigenze all’interno della coppia. Potete identificare una o più paure specifiche semplicemente riflettendoci, oppure scrivendole o parlandone con qualcuno. Quant’è grosso il problema? Siate precisi e concreti sull’entità della sfida. Disegnatele intorno un vero e proprio perimetro, affinché non diventi nebulosa e soverchiante. Per esempio, invece di una definizione generica come «problema di salute», potreste precisare: «Ho la pressione alta». In questo modo circoscriverete il problema nello spazio e nel tempo. Quali aspetti della vostra vita ne sono condizionati, e quali invece restano intatti? Quanto spesso si verifica, e fino a che punto è rilevante? Quant’è probabile? Forse il vostro stato di salute è davvero compromesso da un problema reale, come una malattia cronica. Ma in genere l’ansia non riguarda una situazione presente, ma qualcosa che potrebbe capitare: non la sofferenza che proviamo, ma il timore di provarla. Per esempio pensiamo: «Potrei ammalarmi», oppure: «Se esprimo la mia rabbia, nessuno mi vorrà più». Se ciò che vi preoccupa è una possibilità che non si è ancora concretizzata, chiedetevi: «Quante probabilità ci sono che accada davvero?». Magari nel vostro passato la probabilità che l’evento temuto si verificasse era davvero alta, a causa delle persone con cui vivevate o che conoscevate. Nel frattempo, però, la situazione è cambiata, ed è molto probabile che la percentuale di rischio si sia abbassata. Sarebbe davvero una catastrofe? Ora domandatevi: «Che tipo di esperienza avrei se la mia paura si avverasse?». Poniamo per esempio che temiate di venire respinti se vi dimostrate più vulnerabili o più assertivi. Ora immaginiamo che l’evento temuto si verifichi. Che cosa provereste? In una scala da 0 a 10, dove 10 equivale al peggior scenario possibile, assegnate un voto alla vostra sofferenza. E quanto a lungo durerebbe? In passato, certe esperienze vengono vissute come catastrofiche, soprattutto durante l’infanzia, perché i bambini hanno un sistema nervoso immaturo e avvertono le sensazioni in modo più acuto. Oggi però siete adulti, e disponete di molti più ammortizzatori di shock. Perciò esiste la forte probabilità che non stareste così male o non troppo a lungo. Interiorizzate la buona notizia Interiorizzate le informazioni, lasciate che la verità sulle vostre paure vi pervada. Credeteci con tutto il cuore. Lasciatevi convincere. Usate il processo PACE, apritevi al sollievo e alla rassicurazione di questa buona notizia. Assimilatela, permettendole di allentare le tensioni e di spegnere poco alla volta gli allarmi, l’ansia e le diffidenze inutili. RICONOSCETE L’ADEGUATEZZA DELLE VOSTRE RISORSE Ora chiedetevi: posta l’entità reale dell’evento temuto, la probabilità che si verifichi e l’intensità del suo impatto, in che modo potreste affrontarlo? Immaginate per esempio di forare una gomma. Certo, è una bella scocciatura, ma non un problema insormontabile se siete capaci di cambiarla da soli o di chiamare un carro attrezzi. Risorse mentali Pensate a tutte le occasioni passate in cui avete chiamato a raccolta la vostra grinta, sicurezza o compassione, e superato una difficoltà: quelle risorse sono ancora a vostra disposizione per affrontare anche gli ostacoli del presente. Considerate i vostri vari talenti e competenze: quali sarebbero utili per risolvere il problema che avete di fronte? Quali misure potrebbero servire a prevenirlo, a gestirlo o a riprendervi in caso di fallimento? Valutate gli altri strumenti a vostra disposizione – per esempio la mindfulness e il vostro buon cuore – e chiedetevi come potrebbero esservi d’aiuto. Risorse fisiche In passato il vostro corpo si è rivelato uno strumento affidabile. In che modo potrebbe tornarvi utile in futuro? Provate a prendere coscienza della sua vitalità naturale, ad avvertire la sua forza, la sua energia, le sue capacità. Immaginate i vari modi in cui potrebbe aiutarvi a superare la difficoltà che state affrontando. Risorse del mondo esterno Potete fare appello anche alle molte risorse che vi circondano, per esempio gli amici, i famigliari e i conoscenti. In che modo potrebbero aiutarvi? Prendete in considerazione sia l’aiuto concreto sia il sostegno emotivo. Anche gli animali domestici rappresentano una carta preziosa. Le mie preoccupazioni sembrano ridimensionarsi quando ho il mio gatto sulle ginocchia. Per un problema specifico potreste rivolgervi a un professionista: un medico, un avvocato, un commercialista. Esaminate le risorse concrete che possedete e domandatevi come potreste usarle per superare l’ostacolo. Essere consapevoli del proprio arsenale Nel riflettere su tutte queste risorse, lasciate che il pensiero si trasformi in una sensazione di adeguatezza, di rassicurazione e di sollievo. Usate le fasi del processo PACE per arricchire e assorbire questa sensazione. Se lo desiderate, attivate anche la fase di elasticità affinché queste emozioni positive leniscano e sostituiscano l’ansia. ACQUISIRE UN SENSO RAGIONEVOLE DI SICUREZZA INTERIORE Dopo uno dei miei primi allenamenti di arrampicata, mi è capitata un’esperienza strana. Ho fatto un sogno straordinariamente vivido in cui cadevo dalla cima di una montagna e precipitavo a folle velocità verso una lastra di granito. Mi sono svegliato di colpo un istante prima di schiantarmi. Qualche minuto dopo mi sono riaddormentato… e di nuovo lo stesso incubo, con tanto di risveglio di soprassalto un attimo prima dello schianto. Nel corso della notte quel sogno si è ripresentato più volte, tanto che alla fine ho smesso di resistere. Mi sono riaddormentato e ho immaginato di osservare l’intera sequenza come dall’esterno: cadevo lungo la parete e mi sfracellavo a terra. Nel momento dell’impatto mi si è accesa una sorta di lampadina mentale. Ho capito che avevo passato un’intera giornata a imbottigliare la mia paura di cadere, costringendola a esplodere nel sonno. E mi sono reso conto che esisteva un punto di equilibrio ideale in cui potevo provare un’ansia ragionevole senza che ciò mi impedisse di operare con efficacia e serenità, anche a trecento metri di altezza dal suolo. È importante non reprimere i nostri timori o ignorare il messaggio che cercano di comunicarci. Le preoccupazioni ragionevoli sono nostre alleate, e ci tengono alla larga dalle situazioni di rischio. Ma lasciarsi consumare, invadere e inibire dalla paura non è un sistema di difesa efficace. Al contrario, offusca la nostra lucidità, e l’usura che esercita su mente e corpo ci espone a pericoli maggiori. Un po’ di prudenza può rivelarsi molto utile, ma non bisogna permettere all’angoscia di penetrare il nostro nucleo profondo, e di catapultarci nella zona rossa. Uno dei miei detti preferiti del Buddha recita: «Sorsero pensieri dolorosi, ma non invasero la mia mente e non misero radici». Usate la paura; non lasciate che sia lei a usare voi. Come abbiamo visto, è probabile che nella realtà ci sia ben poco da temere. In genere gli eventi che ci preoccupano non sono molto frequenti, le loro conseguenze non saranno catastrofiche, e noi saremo in grado di affrontarli con un’efficacia ben maggiore di quella che ci attribuiamo. Viviamo come se il mondo fosse in allarme arancione, quando in realtà il livello di rischio è al massimo color Chartreuse: un gran secchio di vernice verde con un’unica goccia di giallo. Se vi trovate appesi a una parete di montagna, o in una situazione equivalente, è ragionevole e utile provare un pizzico di paura. Ma nella vita quotidiana cercate di rafforzare in modo attivo il vostro senso di sicurezza. Per approfondirne l’esperienza provate l’esercizio illustrato nel box. SENTIRSI AL SICURO, QUI E ORA Fate qualche respiro profondo e rilassatevi. Notate i sintomi di tensione, disagio o ansia e osservateli con distacco, lasciandoli andare e venire liberamente. Sospingete ogni forma di paura sullo sfondo della consapevolezza, e richiamate in primo piano tutto ciò che vi protegge. Concentrate l’attenzione sulla solidità del terreno sotto i vostri piedi, sulla stabilità della sedia, la robustezza del tetto sopra la vostra testa; sulla protezione degli abiti, delle scarpe, del vostro ambiente circostante. A mano a mano che prendete atto di queste difese, apritevi alla consapevolezza di essere al sicuro. Prendete coscienza della cerchia di protezione più ampia, come la segnaletica stradale e gli ospedali. Rimanete aperti al senso di sicurezza. Avvertitelo, assimilatelo, lasciate che diventi parte di voi. Riconoscete le molte risorse di cui disponete e che potrebbero contribuire alla vostra sicurezza, come le persone che vi vogliono bene e che sarebbero pronte a intervenire in vostro aiuto. Riconoscete anche le vostre risorse interiori, come la resistenza e la determinazione. Apritevi alla sensazione di poter attingere a un vasto arsenale. Nella vita dovrete affrontare molte sfide, ma siete ampiamente attrezzati a gestirle. Avvertite a fondo questo senso di sicurezza. Lasciate che le preoccupazioni superflue scorrano via. Allentate ogni tensione. Lasciatevi pervadere dalla certezza di essere al sicuro. Prendete atto che qui e ora niente vi minaccia. Forse non è stato così in passato, e anche in futuro la situazione potrebbe cambiare, ma in questo momento state bene, siete protetti e pieni di risorse. Magari ai margini della vostra coscienza avvertite un dolore o una sofferenza, ma non siete circondati da pericoli mortali, non ci sono tigri pronte ad aggredirvi. Momento dopo momento, respiro dopo respiro, siete fondamentalmente al sicuro. Il vostro cuore continua a battere e voi siete ancora vivi, ancora al riparo. Lasciate scorrere liberamente pensieri e sensazioni. Abbandonatevi alla quiete del presente. In questo momento state benissimo, e sarà così anche in quello dopo, e in quello dopo ancora. Istante dopo istante, tutto va bene. Immergetevi nella sicurezza del qui e ora. SPEGNERE LA RABBIA La rabbia è una reazione naturale al dolore, alla frustrazione, alle aggressioni e all’ingiustizia. Quand’ero piccolo era una prerogativa esclusiva dei miei genitori, perciò ho impiegato parecchio tempo a capire che sperimentare ed esprimere questa emozione è un modo utile per accettare noi stessi e per difendere i nostri diritti. Nel corso della storia la rabbia legittima di vari gruppi di persone – per esempio i bambini, le donne, le minoranze religiose o etniche – è stata ignorata, liquidata o punita. È importante riservare un margine mentale alla rabbia, soprattutto se in passato vi era stata vietata. Questa emozione mobilita le energie e getta nuova luce sui problemi, permettendoci di vederli con chiarezza. Ma è anche accompagnata da tensione e stress, e rappresenta un rischio per i rapporti. La rabbia frequente o cronica è spossante; è come un acido che corrode la salute fisica e mentale. Di tutte le emozioni che manifestiamo, in genere è quella che attira maggiore attenzione, come un lampeggiante rosso con la scritta PERICOLO. Per giunta noi reagiamo alla rabbia con la rabbia, avviando un circolo vizioso. Cercare di raffreddarla non significa restare passivi di fronte a un’ingiustizia o offrirsi come capro espiatorio. Si può essere comunque forti e autorevoli. Ripensate alle occasioni in cui voi o un altro vi siete comportati in modo determinato, assertivo o appassionato senza perdere le staffe. Il segreto è accettare e usare il dono della rabbia – le sue funzioni positive – scartando invece le reazioni che la accompagnano: gestirla ed esprimerla senza lasciarsi trascinare, e impegnarsi a risolvere i problemi che l’hanno suscitata. ATTIVARE LA MINDFULNESS RISPETTO ALLA RABBIA Spesso la rabbia opera sottotraccia, e riconoscerne la presenza vi permette di assumerne il controllo. Cercate di prestare attenzione alle sue molte sfumature e intensità, dalla leggera esasperazione alla collera violenta. Esplorate l’esperienza della rabbia, analizzando le sensazioni, le emozioni, i pensieri e i desideri che la accompagnano. Si tratta di un sentimento stratificato, e sotto la suscettibilità, l’aggressività e la reattività di superficie spesso si cela un senso di impotenza, vulnerabilità e ansia causato dal mancato soddisfacimento delle esigenze primarie, in particolare quella della sicurezza, poiché la rabbia è la reazione istintiva a una minaccia. Consideratela un messaggero. Che cosa sta cercando di dirvi delle vostre frustrazioni più profonde, delle vostre aspirazioni insoddisfatte, del vostro dolore emotivo? Cercate di accettare le vostre esperienze con compassione. Quando vi aprite a questi materiali sepolti nel profondo del vostro essere e ne prendete coscienza, la rabbia tende a spegnersi da sola. Prestate attenzione alle sue gratificazioni. Le emozioni negative rientrano in quattro categorie fondamentali: tristezza, ansia, vergogna, rabbia – e quest’ultima è la più seduttiva. È raro che a qualcuno piaccia sentirsi abbacchiato, preoccupato o inadeguato, ma l’impeto di energia e di indignazione che proviamo con la rabbia può essere stimolante, efficace (perché focalizza i pensieri e identifica un bersaglio preciso), persino piacevole. Inoltre è un ottimo espediente per nascondere il dolore o la vulnerabilità, dimostrare la propria autorità o forza, scacciare la paura e compensare il senso di mortificazione o debolezza. Nei rapporti la tendenza a litigare o discutere ci permette di tenere le persone a distanza di sicurezza. Un proverbio descrive la rabbia come un amo avvelenato, con una goccia di miele sulla punta. Confesso di aver passato molte ore ad assaporare quel miele, rimuginando sdegnato sui torti che avevo subito. E per tutto quel tempo il veleno si insinuava dentro di me, acuendo il mio stress e la mia agitazione, e dunque preparando l’innesco delle mie successive esplosioni di collera. Attivate la mindfulness per osservare il processo con cui la rabbia si manifesta. In genere possiamo suddividerlo in due fasi: innesco e scintilla. La prima fase è un accumulo di piccoli fattori irritanti. Alcuni sono generici – lo stress, la stanchezza o la fame –, altri più specifici, per esempio gli episodi in cui ci sentiamo incompresi, traditi o maltrattati, che sul lungo termine ci rendono particolarmente suscettibili a un certo individuo. Questi eventi sono come tanti piccoli graffi sul dorso della mano: le prime volte li avvertiamo appena, ma alla centesima cerchiamo di sottrarci o difenderci. Anche i dettagli più trascurabili tendono ad accumularsi, come una catasta di fiammiferi pronti a prendere fuoco. La fase della scintilla li accende, spesso scatenando un rogo del tutto sproporzionato alla causa immediata. Quando i miei figli erano piccoli, per esempio, se ero di buon umore non prestavo la minima attenzione ai giocattoli e alle scarpe sempre sparpagliati sul pavimento. Ma se alla fine di una giornata di lavoro mi sentivo stanco e frustrato (innesco) e inciampavo su una loro macchinina (scintilla), allora bum! Per questo motivo la nostra reazione in genere è sproporzionata: è il risultato di una lunga preparazione. GESTIRE LA RABBIA DENTRO DI NOI Nel capitolo dedicato al coraggio, esploreremo le forme più efficaci di assertività. In questa sezione, invece, vorrei concentrarmi sulle tecniche per gestire la nostra rabbia. Così facendo riuscirete a esprimerla senza perdere il controllo. Riconoscete gli aspetti autolesionistici della rabbia Un proverbio dice che arrabbiarsi con gli altri è come scagliare carboni ardenti a mani nude: entrambe le parti finiscono ustionate. Poiché la rabbia può sembrarci gratificante e giustificata, è utile riconoscerne l’effetto tossico su noi stessi, oltre che sugli altri. Considerate il suo costo nella vostra vita privata, sia oggi sia in passato. Pensate a come vi fa sentire. A come vi condiziona il sonno, il corpo e la salute, e ai suoi effetti nei rapporti con gli altri, a casa o sul lavoro. La rabbia è corrosiva persino quando la imbottigliamo. Un altro proverbio insegna che nutrire rancore è come prendere un veleno e aspettarsi che sia l’altro a morire. Dopo averci riflettuto, stabilite in che modo volete rapportarvi alla vostra rabbia e gestirla. Decidete come affrontarne le cause, per esempio il dolore fisico o l’esperienza di un trattamento ingiusto. E riflettete su come esprimerla. Concentratevi su queste decisioni e impegnatevi a metterle in pratica. Riducete l’innesco Nella vostra vita quotidiana, prestate attenzione alla fase di preparazione della rabbia, e intervenite per tempo. Prima di parlare con vostro figlio dei suoi problemi scolastici, per esempio, prendetevi una pausa per svuotare la mente dai problemi del lavoro, oppure rammentatevi di soppesare bene le parole se avete il mal di schiena. Identificate le persone, gli ambienti o gli argomenti cui siete più suscettibili. Definiteli in modo esplicito, affinché abbiano meno potere su di voi: «Sono nervoso perché stasera sarò a cena dai suoceri», «Sono stufo marcio delle interruzioni continue in questa riunione», «È esasperante che nessuno mi aiuti mai a lavare i piatti». Quando qualcosa va storto, cercate di reagire in modo proporzionato alla scintilla, contenendo l’effetto amplificante dell’innesco. Domandatevi come vi comportereste se la causa immediata – una situazione, un evento, una parola o un tono di voce – si fosse verificata per la prima volta. Misurate la scintilla con accuratezza. In una scala da 0 a 10, quant’è davvero grave? Quanto a lungo dureranno i suoi effetti? È probabile che già domani l’abbiate dimenticata. Non si tratta di sminuirla, ma di considerarla con lucidità. Non so dirvi quante volte mi è capitato di reagire a un evento di gravità 2 come a una catastrofe da 7. Quando l’ho capito, ho imparato ad accettare la mia ondata di rabbia incandescente, ma al tempo stesso a esprimerla in modo adeguato alla causa. E, una volta affrontata la scintilla immediata, impegnatevi a indagare l’accumulo che ha preparato l’innesco. Prendete le distanze dall’indignazione È utile avere valori e punti di riferimento, ma quando aggiungiamo l’indignazione, con il suo dogmatismo e la sua arroganza, alimentiamo la rabbia, scateniamo reazioni negli altri e perdiamo credibilità. L’indignazione è come un fiume in piena che trascina tutto con sé. Cercate di affrontare il problema reale senza abbandonarvi a critiche o giudizi sommari. Per esempio, una cosa è chiedere al convivente di lavare i piatti, ben altra accusarlo di essere pigro, egoista e fannullone. Esaminate l’esperienza dell’indignazione, per imparare a riconoscerne i sintomi – magari un susseguirsi di pensieri giudicanti o la tensione intorno agli occhi – e usarli da segnale d’allarme prima che la situazione vi sfugga di mano. Poiché indignarsi può essere gratificante, richiamate alla mente ciò che avete provato quando un altro ha riversato la propria indignazione su di voi, e usate quel ricordo come stimolo per scansare l’amo avvelenato, senza abboccare. Immaginate di descrivere la causa reale del vostro stato d’animo in tono fermo e accurato, includendo i suoi effetti su di voi o ciò che vorreste cambiare, ed escludendo il senso di indignazione dall’equazione. Preparate un resoconto obiettivo e, quando vi sentite pronti, condividetelo con la persona interessata. Siate cauti nell’additare difetti I miei genitori erano ipercritici. Anche loro erano stati educati così, perciò tendevano ad assumere un atteggiamento giudicante e ad additare subito il minimo difetto altrui. Erano animati dalle migliori intenzioni, e credevano davvero di rendersi utili. L’effetto su di me, però, è stato di rendermi ipersensibile alle critiche, e di abituarmi a ricercare difetti negli altri, in particolare nelle persone che mi facevano arrabbiare. Per quanto comprensibile, questa reazione ha complicato i miei rapporti, caricandoli di una quantità di tensioni e conflitti inutili. Pensate a una relazione importante, e notate se la vostra mente comincia subito a cercare il pelo nell’uovo, individuando ogni minimo gesto o parola sbagliata. Poi domandatevi: quanti di questi dettagli contano davvero? In genere ci lasciamo irritare da cose che in realtà non danneggiano né noi né i nostri cari. Un esempio zen lo spiega alla perfezione. Un monaco anziano partì per un lungo viaggio insieme a un discepolo più giovane. Entrambi avevano fatto voto di castità. Lungo il cammino si imbatterono in una bellissima donna, ferma sulla sponda fangosa di un fiume. Il monaco anziano si offrì di portarla in braccio dall’altra parte. Lei accettò l’offerta, poi lo ringraziò e se ne andò per la sua strada, e i due monaci ripresero il cammino. Per tutta l’ora successiva il monaco più giovane continuò a rimuginare sull’accaduto. Si chiedeva come avesse potuto il suo maestro stringere quel corpo morbido tra le braccia, sentire il suo respiro caldo sulla pelle e si convinse che avesse compiuto un peccato terribile inspirando il profumo dei suoi splendidi capelli lunghi. Infine, quando non ne poté più, diede voce alle sue critiche. Il monaco anziano lo ascoltò con pazienza, poi sorrise dolcemente e replicò: «Io quella donna l’ho lasciata sull’altra sponda del fiume. Tu invece hai continuato a portarne il peso fin qui». L’attenzione ossessiva alle mancanze altrui è come un peso caricato sulle spalle: lasciatelo sulla sponda del fiume e vi sentirete molto più leggeri. Rallentate Nel nostro cervello le informazioni scorrono lungo una serie di percorsi, come l’acqua nei canali e nel letto di un fiume. I dati sensoriali passano in gran parte attraverso il talamo, che ha la funzione di centralina subcorticale, smistando gli stimoli e indirizzandoli verso l’amigdala – che, tra le altre cose, è il nostro antico sistema di allarme – e verso la corteccia prefrontale (la parte più recente del cervello dal punto di vista evolutivo), che presiede al pensiero complesso, alla pianificazione preventiva e alla sensibilità empatica nei confronti degli altri. Poiché si trova accanto al talamo, l’amigdala elabora i dati in anticipo rispetto alla corteccia prefrontale, e la sua natura improntata all’«agisci adesso, riflettici dopo» è alla base delle nostre reazioni istintive. E il suo condizionamento investe anche le interpretazioni e le analisi che, a distanza di uno o due secondi, la corteccia inizia a elaborare. Questa è l’amigdala: efficacissima nelle situazioni di immediato pericolo, ma anche fonte di agitazione inutile, di reazioni eccessive e di dolorosi conflitti interpersonali. La mia esperienza personale e professionale, come analista di coppia, non fa che confermarlo. La comunicazione funziona molto meglio se tiriamo il freno. Concedete a voi stessi e al vostro interlocutore il dono del tempo: l’intervallo necessario a riprendere fiato. Riflettete sul vero significato delle parole dell’altro, lasciate che la prima reazione di fuggi-o-lotta si stemperi, riconoscete e trattenete le risposte o le azioni impulsive di cui in seguito potreste pentirvi. Quei pochi secondi di silenzio vi permetteranno di non subissare l’altro con una raffica di accuse e repliche ad alta intensità emotiva. E daranno anche al vostro interlocutore il tempo per riflettere e prevenire uno scatto istintivo dovuto all’azione dell’amigdala. Se necessario, mettete in standby l’interazione: guardate fuori dalla finestra, mangiate qualcosa, uscite a fare una lunga passeggiata. Non state accantonando il discorso, l’avete soltanto sospeso per tornare ad affrontarlo in modo più produttivo a distanza di un’ora o un giorno. Cercate di non parlare o agire per rabbia Essere arrabbiati è perfettamente legittimo. La rabbia è un sentimento naturale, il segnale che le vostre esigenze non sono state soddisfatte. E a volte può essere uno stimolo prezioso, servire da molla per difendere la propria vita o quella degli altri. Ciò detto, come esperimento, impegnatevi per un’intera giornata a non parlare o agire per rabbia. È un esercizio che ho provato io stesso, e mi è stato molto utile per abbassare i toni, sintonizzarmi con il dolore o la preoccupazione all’origine della mia collera e comunicarli in modo più sincero, meno critico o aggressivo. Sentite la vostra rabbia, ammettetela apertamente, e affrontate il problema da cui scaturisce. Ma esercitatevi a separarla dagli altri pensieri che occupano la vostra mente, affinché non diventi la forza che controlla le vostre parole e i vostri comportamenti. Il dolore e il timore di una sofferenza incombente sono una realtà inevitabile e minacciano la nostra esigenza primaria di sicurezza. Perciò capita a tutti di provare paura e rabbia. Attivando la calma e la fermezza riuscirete a gestire queste correnti come un esperto di rafting. CONCETTI CHIAVE Due rami del sistema nervoso collaborano per permetterci di conservare l’equilibrio. Il sistema parasimpatico ci calma, favorendo rilassamento ed elaborazione, mentre quello simpatico ci carica, preparandoci alle reazioni istintive di lotta o fuga. Il ritmo della vita moderna favorisce un’attivazione cronica del sistema simpatico, causando stress al corpo e alla mente, e tensioni nei rapporti. Siate costanti nel ricercare occasioni per attivare il sistema parasimpatico, per esempio praticando esercizi di rilassamento o meditazione. Noi tendiamo a reagire a pericoli immaginari o ingigantiti per prevenire il rischio di non notare quelli reali. È una paranoia da tigri di carta, che provoca ansie superflue e che per giunta ci distrae, riducendo la nostra capacità di riconoscere e affrontare le minacce reali. Analizzate le vostre paure per cogliere la sopravvalutazione del rischio e la sottovalutazione delle risorse adeguate a gestirle. Prendete coscienza del fatto che qui e ora siete sostanzialmente al sicuro. Esercitatevi a potenziare il vostro senso di sicurezza ragionevole. La rabbia genera tensione, logora il corpo e la mente e alimenta i conflitti. Si può essere autorevoli e assertivi senza abbandonarsi alla collera. La rabbia emerge in due fasi: l’innesco e la scintilla. Agite con tempestività per ridurre l’innesco, e reagite in modo proporzionato alla scintilla. Evitate l’indignazione e le critiche, e imponete un ritmo più lento alle interazioni per non lasciarvi dirottare dall’amigdala. MOTIVAZIONE Saggezza è scegliere una felicità maggiore rispetto a una minore. BUDDHA La resilienza non si esaurisce nella capacità di gestire lo stress e di riprendersi da un trauma. Le persone resilienti sono in grado di perseguire le opportunità a dispetto degli ostacoli. Non rimandano il positivo, correggono il negativo e vanno avanti senza stressarsi troppo. Per accedere a questo tipo di resilienza bisogna regolare l’apparato motivazionale del cervello. Perciò in questo capitolo impareremo a godere dei piaceri senza sviluppare dipendenze, a trarre energia dalle passioni sane e a orientarci verso il positivo. In una parola, parleremo di desiderio. Il desiderio è intrinseco a ogni aspetto della vita: è la speranza che la sofferenza abbia fine e persino l’aspirazione a trascendere i desideri. Dunque la domanda cruciale è: come desiderare nel modo giusto? PIACERE E BISOGNO Immaginate di aver cenato da un amico. Ogni portata era più deliziosa della precedente, e voi avete mangiato tutto, compreso il dessert. Infine l’amico domanda: «Ti è piaciuto il dolce?». Naturalmente voi rispondete: «Sì, era squisito». A quel punto lui chiede: «Ne vuoi ancora?». La vostra risposta sarà: «Grazie, no. Sono pienissimo!». Avete goduto a fondo del piacere del cibo e non ne sentite più il bisogno. Ora immaginate un giocatore che continua a inserire monete in una slot machine e ad abbassare la leva. Ho osservato spesso queste persone nei casinò: hanno un’espressione stanca e annoiata, non sorridono nemmeno nelle rare occasioni in cui vincono. La loro persistenza è compulsiva, e non procura piacere. Continuano a sentire un bisogno che non trova mai soddisfazione. Il piacere e il bisogno sono esperienze ben distinte. Persino gli apparati neurologici che li regolano sono diversi. Per esempio, una regione detta nucleus accumbens, collocata nella zona subcorticale del cervello, contiene un piccolo centro che modula il senso del piacere, e un altro che produce la percezione del bisogno. LA SOGLIA In questo capitolo userò il termine «bisogno» in un senso molto specifico, intendendo uno stato di ripetitività, urgenza, ostinazione o dipendenza vera e propria dovuto a un senso di mancanza e malessere. Il bisogno è sintomo di una carenza. È normale apprezzare le cose piacevoli, come una cena con gli amici. Il problema sorge quando passiamo dal piacere al bisogno, continuando a mangiare anche dopo esserci saziati. Questo passaggio segna lo sconfinamento dalla zona verde a quella rossa, da un senso profondo di appagamento e di equilibrio alla percezione di un deficit, la sensazione che ci manca qualcosa. È molto utile accorgersi di questo transito in tempo reale. Prestando attenzione, potrete perseguire i piaceri e le opportunità senza il peso dello stress legato al bisogno. Si dice che godere senza volere è il paradiso, mentre volere senza godere è l’inferno. Nel primo caso la gratificazione è massima. Non avvertiamo tensione, non cerchiamo di trattenere il piacere e non ne temiamo la fine. Restando nel momento presente siamo liberi dal bisogno. È un’attivazione naturale delle fasi di arricchimento e comprensione del processo PACE, che contribuisce a installare l’esperienza nel sistema nervoso. Si impara e si trae di più dai piccoli piaceri quotidiani quando li apprezziamo qui e ora. Henry David Thoreau ha scritto: «Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose delle quali può fare a meno». È un bene rimanere nell’ambito del piacere senza scivolare nel bisogno, ma non sempre è facile. Il consumismo è il motore delle economie moderne, e a volte si ha l’impressione che le più grandi menti della nostra generazione pensino solo a escogitare sistemi più efficaci per inventare nuovi bisogni. Se anche spegniamo il televisore, e ci teniamo alla larga dai social network e dai grandi magazzini, dobbiamo comunque fare i conti con un cervello costruito per volere gratificazioni. VOLERE DI PIÙ Le tendenze innate della nostra mente, cioè la nostra natura umana, sono il risultato di un’evoluzione durata centinaia di milioni di anni. Vivendo in un habitat povero di risorse, i nostri antenati hanno sviluppato un sistema motivazionale che li spingeva al soddisfacimento dei bisogni essenziali, come il cibo o il sesso. Questo meccanismo è stato utile alla sopravvivenza, ma significa che oggi siamo in balia di una sorta di agenzia pubblicitaria interiore che ci reclamizza il piacere che potremmo trarre da questa o quella esperienza. Quando fate una scelta, attendete con ansia un evento o vi prefissate un traguardo, attivate la mindfulness per analizzare la gratificazione che la mente promette al loro conseguimento. Poi, a obiettivo raggiunto, esaminate la gratificazione reale. In genere sarà inferiore alle aspettative. E anche quando si dimostra all’altezza, è comunque destinata a finire. La cena era buona, il vestito nuovo è elegante, è stata una soddisfazione portare a termine quel progetto di lavoro. Poi però il piacere è passato. E adesso? Le gratificazioni attese sono spesso deludenti, e persino le esperienze più soddisfacenti sono effimere. Questi due dati di fatto possono produrre un senso di carenza cronica, l’impressione costante che ci manchi qualcosa. La carenza ci spinge a inseguire subito il prossimo oggetto luccicante, una nuova esperienza di piacere. Anche quando siete rilassati, senza problemi impellenti da risolvere o mancanze da soddisfare, noterete che al fondo della mente si attiva una sorta di sistema automatico di bisogno. Persino in un momento di perfetto appagamento il cervello si ostina a cercare qualcosa di nuovo da volere. Con ogni probabilità questa tendenza si è evoluta per stimolare i nostri antenati a tenere sempre gli occhi aperti per cogliere nuove opportunità. Ma la conseguenza di questo meccanismo automatico è un senso di irrequietezza, il sospetto costante che il piacere provato qui e ora in realtà non sia sufficiente. La fame di nuove gratificazioni ci impedisce di apprezzare ciò che abbiamo per concentrare l’attenzione su ciò che ci manca. È un paradosso tragico radicato nella nostra natura: ricerchiamo la soddisfazione con una mente strutturata per l’insoddisfazione, perciò l’appagamento resta sempre a un passo di distanza. GODERE SENZA VOLERE Ci sono momenti in cui serve una reattività intensa per far fronte a un bisogno vitale. Alcuni anni fa è scoppiato un incendio sulle colline dietro il nostro quartiere. C’era il rischio di un’evacuazione, e la mia casa era in pericolo. Così mi precipitai all’interno per recuperare l’essenziale, nel caso in cui avessimo dovuto abbandonarla. Il cuore mi batteva all’impazzata, e avevo l’adrenalina a mille. Si trattava del picco di stress da zona rossa necessario a gestire la situazione. Poi il mio allarme iniziò a rientrare e a poco a poco tornai nella zona verde: erano arrivati i pompieri e avevano spento l’incendio prima che si propagasse. A volte la reazione da bisogno è necessaria, ma ha sempre un costo, che può variare da una vaga sensazione di tensione e contrazione al logoramento del corpo e dei rapporti. Ecco alcuni metodi efficaci per imparare a vivere apprezzando i piaceri senza compulsione. Attivate la mindfulness per cogliere la tonalità edonica Le esperienze possono essere piacevoli, spiacevoli o neutre. È questa la loro tonalità edonica. Noi apprezziamo e ricerchiamo tutto ciò che ha una tonalità edonica piacevole, respingiamo ed evitiamo ciò che ne ha una spiacevole, e ignoriamo o lasciamo correre il neutro. Prestate attenzione alle diverse tonalità delle vostre esperienze, sia reali sia immaginate, per esempio quando pianificate un incontro, vi preparate a una conversazione difficile o decidete di fare un acquisto. La tonalità edonica piacevole ci attira in modo quasi istantaneo. Attivando la mindfulness possiamo creare uno spazio tra il piacere presunto di un’esperienza e la decisione di perseguirla. È in quello spazio che risiede il nostro margine di azione: non è necessario cadere automaticamente nel bisogno. Esplorate l’esperienza del piacere puro e semplice Provate a sperimentare la sensazione di apprezzare qualcosa senza sentirne il bisogno. Avvertite la distensione del corpo. Osservate l’apertura e la flessibilità dei pensieri. Assimilate l’esperienza di godere di qualcosa senza lo stress di volerlo a tutti i costi. Familiarizzate con il senso profondo di un piacere goduto – assaporare una pietanza, ridere con gli amici – liberandovi da ogni aspettativa o attaccamento. Sperimentate con regolarità questo modo di rapportarvi al piacevole per farlo diventare una seconda natura. Esplorate l’esperienza del bisogno Nel corso di una giornata, attivate la mindfulness per notare la transizione tra un’esperienza piacevole e lo stress di volerla a tutti i costi. Notate l’automatismo del bisogno che scatta al fondo della mente, il sottile senso di irrequietezza che vi spinge a ricercare una nuova gratificazione anche quando siete perfettamente appagati. Imparate a riconoscere gli slogan della vostra agenzia pubblicitaria interiore: «Sarà una sensazione bellissima», «Solo un’ultima volta», «Non lo saprà nessuno», «Sarà emozionante». E, dopo aver ottenuto ciò che volevate, confrontate l’esperienza reale con quella immaginata, e prendete nota della differenza. Visualizzate una sorta di cruscotto mentale in cui il senso del bisogno accende sfilze di lampeggianti rossi. Familiarizzate con i diversi «sapori» del bisogno, prestando un’attenzione particolare a quelli che vi provocano tensione, impellenza, contrazione, urgenza, ostinazione, compulsione o dipendenza. Fate un passo indietro per osservarne i vari aspetti con distacco: i pensieri e le immagini, le sensazioni fisiche, le emozioni, l’espressione del viso, la postura, i comportamenti. Notate la differenza tra bisogno e piacere. Prendete coscienza del fatto che il bisogno è un’esperienza come un’altra, composta da elementi che vanno e vengono. Cercate di visualizzarli come nuvole che scorrono nel cielo della consapevolezza. In questo modo non vi sembreranno più tanto pesanti, concreti e vitali. Notate l’emergere dell’urgenza, dell’ostinazione e degli altri indicatori di bisogno. E notate anche i comportamenti di persuasione e a volte di manipolazione cui ricorrono gli altri per indurvi a volere qualcosa – in genere a vantaggio loro, non vostro. Tornate al piacere Il semplice fatto di desiderare qualcosa non costituisce un problema. Il desiderio è un istinto naturale. Il guaio sorge quando privilegiamo le esperienze di bisogno e ne diventiamo schiavi. Volere qualcosa non equivale a doverlo avere a tutti i costi. Tutto dipende da come scegliamo di rapportarci al bisogno. Siate consapevoli del prezzo pagato in termini di salute, benessere e serenità nei rapporti. Domandatevi se è possibile cambiare il vostro atteggiamento in modo da vivere il più possibile sulla base del piacere invece che del bisogno. Usate le fasi del processo PACE per arricchire e assimilare l’esperienza di questa scelta, affinché vi diventi sempre più spontanea. Se un piacere degenera in bisogno, prendetene le distanze e definitelo in modo esplicito: «Quella birra mi fa proprio gola», «Tengo moltissimo a imporre il mio parere in questa discussione», «Sto passando troppo tempo su questo sito di abbigliamento». Osservate l’esperienza del desiderio senza lasciarvi coinvolgere, magari visualizzandola come un cane innocuo ma insistente che vi tira nella direzione sbagliata. Fate qualche respiro profondo e rilassatevi. Distogliete l’attenzione da ogni sensazione di impellenza, compulsione, necessità. Prendete la decisione di liberarvi dal bisogno. Radicatevi nel senso di appagamento e risoluzione, senza la tensione del «voglio». Sentitevi appagati Ogni esperienza soddisfacente – come la gratitudine, un piacere goduto, un obiettivo conseguito – è un’occasione per sentirsi appagati, almeno per un momento. Oltre a notare le esperienze specifiche, attivate la mindfulness per prendere coscienza del senso di sazietà generale, la certezza che qui e ora ciò che abbiamo è già abbastanza. Provate l’esercizio suggerito nel box. Se interiorizzati, anche gli istanti più blandi e passeggeri di soddisfazione quotidiana costruiranno dentro di voi un senso profondo di appagamento incondizionato, una felicità sostanziale che porterete sempre con voi. In questo modo non vi lascerete più trascinare dalla corsa ai piaceri o alle soddisfazioni. Se capitano, bene. In caso contrario, pazienza: voi siete felici lo stesso. SENTIRSI SAZI Fate qualche respiro profondo e rilassatevi. Notate che i vostri polmoni respirano… che il cuore continua a battere… che siete vivi. In presenza di un dolore, di una malattia o una disabilità, di tristezza e sofferenza, concentratevi su ciò che è sufficiente, su tutto ciò che funziona a dovere. Certo, sarebbe bello avere di più, ma già così può bastare. Lasciate che questo senso di soddisfazione vi pervada. Siate riconoscenti delle ricchezze del mondo naturale, compresi l’ossigeno e il cibo a vostra disposizione. A prescindere da ciò che vi manca, potete comunque godere dell’abbondanza offerta dalla natura, dalle tante creature che rendono possibile la vostra vita. Assimilate la percezione di essere sostenuti, protetti e saziati dalla pienezza della vita. Riflettete sulla vastità della materia… gli innumerevoli atomi che compongono il vostro corpo, già presenti e operativi senza che abbiate fatto nulla per crearli… l’intreccio di materia ed energia, di spazio e tempo, il tessuto stesso da cui avete avuto origine. Trovate quiete in questa pienezza senza cercare di comprenderla, limitandovi a riceverla come un dono. Attivate la mindfulness per cogliere le innumerevoli percezioni che vi attraversano la coscienza in ogni istante… i suoni, le sensazioni, le immagini, le emozioni, i pensieri. Rilassatevi e riconoscete la ricchezza intrinseca e quasi travolgente del quotidiano. Lasciate che il senso di quest’abbondanza vi riempia. Siate consapevoli che tutto passa e che va bene così, perché a ogni esperienza ne succede un’altra. Lasciatevi pervadere fino in fondo da tutto ciò che vi sfiora, e poi lasciatelo andare. Siete già sazi, non vi serve altro. LE PASSIONI SANE Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il sistema simpatico e quello parasimpatico del cervello collaborano, alternandosi come il pedale dell’acceleratore e quello del freno. Il sistema simpatico è attivo nelle reazioni di fuga o lotta, ma anche quando perseguiamo di slancio un’opportunità, quando siamo assertivi, quando facciamo l’amore, esultiamo per i nostri figli e per gli amici. È l’apparato essenziale delle passioni sane. La semplice presenza di elementi stressanti in certe situazioni – da una cena di famiglia a un’opportunità importante sul lavoro – non significa che dobbiate sentirvi stressati. L’attivazione del sistema nervoso simpatico (SNS) non è stressante in sé. La differenza cruciale è la presenza aggiuntiva di un’emozione positiva o negativa. Per semplificare: SNS + emozione positiva = passione sana SNS + emozione negativa = stress malsano LE EMOZIONI POSITIVE E LA ZONA VERDE Per comprendere il rapporto tra emozioni e tensione, ripensate alle vostre esperienze personali. Per cominciare, tornate con la mente a una situazione in cui eravate impegnati nel conseguimento di un traguardo importante che comportava grande stress. Un trasloco in un’altra città, per esempio, o un progetto importante di lavoro. Richiamate alla memoria le emozioni negative che avete provato (come l’ansia, la frustrazione o la rabbia) e il modo in cui hanno acuito il vostro stress. Ora ripensate a un periodo in cui perseguivate un traguardo importante accompagnato da molte emozioni positive. Rievocate il modo in cui queste emozioni hanno ridotto il livello di tensione. Le emozioni positive vi aiutano a restare nella zona verde anche quando accendete al massimo i motori. Poiché il sistema nervoso simpatico si è evoluto per preparare i nostri antenati alla lotta o alla fuga, capita spesso che l’entusiasmo si tramuti all’improvviso in frustrazione o rabbia. Vi faccio un esempio: ricordo la mia eccitazione quando, guardando una partita in televisione, ho visto i San Francisco 49ers segnare una meta, e la repentina irritazione che mi ha invaso quando, da un’altra stanza, mia moglie mi ha rivolto una semplice domanda. L’attivazione del sistema nervoso simpatico equivale a sfrecciare a tutta velocità sull’autostrada: si coprono grandi distanze, ma basta un sassolino a catapultarvi nel fosso. Le emozioni positive, invece, aiutano a non uscire di strada. TROVARE IL PUNTO DI EQUILIBRIO Noi diamo il meglio quando svolgiamo un’attività abbastanza impegnativa da tenere vivo il nostro interesse, ma non tanto difficile da sopraffarci. Per trovare e conservare quell’equilibrio ideale sperimentate questi approcci. Sentitevi a vostro agio quando il corpo scalda i motori Se di fronte a una situazione difficile cominciate ad avvertire tensione o nervosismo, rammentate a voi stessi che è normale agitarsi, respirare più in fretta, sentire l’adrenalina che scorre nelle vene. Interpretando questi segnali come il modo naturale del corpo di affrontare le difficoltà, eviterete di lasciarvi travolgere dallo stress. Riportate alla mente le occasioni del passato in cui avete gestito e superato ostacoli analoghi, e rammentate a voi stessi che state reagendo in modo adeguato. Questo vi aiuterà a conservare la sicurezza e a ridurre la tensione. Motivatevi con le emozioni positive Prima di affrontare una situazione eccitante, intensa o magari un po’ snervante, preparatevi una scorta di emozioni positive. Richiamate alla mente le sensazioni e gli atteggiamenti corrispondenti all’esigenza primaria in gioco, mettendo in pratica i metodi illustrati nella sezione Coltivare le risorse necessarie del capitolo dedicato all’apprendimento. Se per esempio dovete moderare una riunione, ripensate alle esperienze recenti in cui la vostra leadership ha avuto successo o le vostre competenze sono state apprezzate. Così facendo, sarete pronti a reagire a ogni ostacolo con scioltezza e buon umore invece che con tensione e suscettibilità. Durante l’accelerazione restate vigili all’insorgere di emozioni negative Quando ingranate davvero la quinta e sentite montare l’eccitazione, sorvegliate il possibile insorgere di emozioni negative, come frustrazione o rabbia. Siete come un pilota di Formula 1 quando i tecnici alzano la bandiera gialla: potete continuare a correre, ma con cautela. In presenza di emozioni negative, identificatele in modo esplicito: «irritazione», «preoccupazione», «risentimento». L’elaborazione verbale incrementerà il coinvolgimento della corteccia prefrontale, placando di conseguenza l’attivazione dell’amigdala. Cercate di rallentare il ritmo, lasciando una pausa più lunga prima di agire. Con la mente e magari anche con il corpo fate un passo indietro, prendendo le distanze dalla situazione finché l’ago del vostro stressometro interno si sposta dalla zona rossa a quella arancione… poi alla gialla… e infine alla verde. Godetevi il viaggio Nel perseguire un obiettivo ricercate i segni di progresso. Notate le piccole vittorie e il raggiungimento dei traguardi intermedi. Queste iniezioni di successi sono gratificanti per il cervello e aiutano a conservarsi nel giusto equilibrio della passione sana. Se aprendo la mia casella di posta elettronica la trovo intasata di messaggi, io cerco di provare un senso di soddisfazione per ogni email letta e archiviata. In questo modo l’impresa non mi sembra tanto impossibile. GUIDARE LA MENTE Tutti noi abbiamo un elenco di cose che dovremmo fare ma che continuiamo a rimandare, e un altro di cose che dovremmo evitare e in cui invece ricadiamo di continuo (nel mio caso, dovrei essere più costante nell’esercizio fisico e limitare i carboidrati). E anche quando ci attiviamo per perseguire il fine giusto spesso i nostri metodi lasciano a desiderare. Tutti i nostri obiettivi più profondi sono positivi, poiché si radicano nelle esigenze primarie di sicurezza, gratificazione e socialità. Per esempio, alla base del desiderio di mangiare una confezione di biscotti c’è l’esigenza fondamentale di appagamento e conforto; dietro quello di farsi notare la necessità di sentirsi inclusi e apprezzati. Non sono i bisogni profondi a cacciarci nei guai, ma il nostro modo di soddisfarli. Riflettete su un desiderio che vi sta mettendo in difficoltà e domandatevi: «Qual è il suo vero obiettivo?». Una volta trovata la risposta, chiedetevi: «Esiste un modo più efficace di perseguirlo?». Per motivarci verso un traguardo, e perseguirlo con metodi più saggi, è importante prendere misure concrete in grado di favorirne il successo. Se per esempio il vostro obiettivo è fare più esercizio fisico, organizzate una passeggiata mattutina insieme a un amico; se volete ridurre il consumo di zuccheri, evitate di tenere dolci in dispensa. Sono tattiche utili, ma in genere conosciamo già quelle adatte a metterci sulla buona strada… eppure continuiamo a non imboccarla. Dunque, come riuscire ad avviarci nella direzione giusta, allontanandoci da quella sbagliata? IL CIRCUITO MOTIVAZIONALE A questo punto è utile una breve spiegazione dei circuiti motivazionali del nostro cervello. Quando un’esperienza ci appaga, l’area tegmentale ventrale alla sommità del tronco encefalico rilascia più dopamina, indirizzandola a due regioni cerebrali: il nucleus accumbens, nell’area subcorticale, e la corteccia prefrontale, localizzata dietro alla fronte. Nel nucleus accumbens il picco di dopamina attiva segnali dal globus pallidus e dal talamo che ci spingono a conseguire la gratificazione. Nella corteccia prefrontale l’incremento di dopamina concentra l’attenzione sull’attività che ha prodotto la gratificazione, e stimola le funzioni esecutive orientate a capire come prolungarla e intensificarla. In sostanza l’area tegmentale ventrale, il nucleus accumbens e la corteccia prefrontale formano un vero e proprio circuito, che si attiva anche quando intravediamo l’opportunità o la possibilità di una gratificazione. Per innescare il circuito basta rafforzare l’associazione mentale tra le azioni che volete intraprendere e la gratificazione che potrebbe derivarne (più avanti vedremo come). Potete usare lo stesso metodo anche per rimpiazzare vecchie cattive abitudini con comportamenti nuovi e più utili. Per esempio, per evitare di perdere le staffe con un parente o un collega indisponente, potete concentrarvi sul piacere di conservare la calma e l’autocontrollo. In questo modo avrete eliminato un automatismo negativo per potenziarne uno positivo. QUESTIONE DI TEMPERAMENTO Nel consolidare l’associazione mentale tra certi comportamenti e la sensazione gratificante che ne deriva, tenete anche conto del vostro temperamento. Il circuito motivazionale di ciascuno di noi contiene quantità diverse di recettori di dopamina. I neuroni comunicano tra loro attraverso minuscoli spazi detti sinapsi. Quando si attiva, un neurone rilascia neurotrasmettitori che superano lo spazio sinaptico per entrare in contatto con i recettori di altri neuroni. Immaginate i recettori come moli di attracco e i neurotrasmettitori come barchette. Lo spazio che li separa è infinitesimo – nello spessore di un capello potremmo allineare diverse migliaia di sinapsi –, perciò le barchette approdano piuttosto in fretta. L’aggancio tra neurotrasmettitore e recettore condiziona la reazione del neurone ricevente. Quelli con una minor quantità di recettori richiedono una dose di dopamina maggiore per attivare le reazioni corrispondenti. Per dirla in parole povere: un individuo con meno recettori di dopamina dovrà ricevere più gratificazioni per restare motivato. Alcuni di noi riescono a svolgere senza stancarsi anche compiti molto ripetitivi e poco premianti. Altri, invece, perdono interesse in mancanza di stimoli o gratificazioni: è il segno che hanno un minor numero di recettori di dopamina. Si tratta di differenze fisiologiche, uno dei tanti aspetti che determinano la vasta gamma di temperamenti umani. La mia ipotesi è che una varietà di personalità diverse fosse una risorsa preziosa per i nostri antenati. Poiché si stufano prima, gli individui con meno recettori di dopamina potevano aiutare il gruppo ricercando nuove opportunità e idee o metodi innovativi di fare le cose. Perciò una dotazione minore di recettori di dopamina non è un difetto. Significa soltanto che per restare motivati dovremo incrementare tre elementi: la quantità, l’attenzione e la sensibilità alle gratificazioni. Per la verità il loro incremento sarebbe utile a tutti, poiché orienta il cervello – e dunque la mente – nella direzione voluta. Ecco qualche suggerimento per incrementare la dose di gratificazioni: scegliete attività già di per sé più stimolanti e piacevoli (se per esempio il vostro obiettivo è fare più esercizio fisico, meglio uno sport del tapis roulant); aggiungete elementi piacevoli ulteriori (per esempio svolgendo l’attività insieme ad altre persone); variate i dettagli dell’attività (per esempio, se vi siete messi a dieta, sperimentate nuove ricette); concedetevi pause frequenti; chiedete un feedback regolare, soprattutto positivo. EVIDENZIARE LE GRATIFICAZIONI Oltre a escogitare nuovi stimoli, potete mettere in risalto quelli già presenti prestando più attenzione alla gratificazione e potenziando la vostra sensibilità ai loro effetti. Si tratta di un esercizio estremamente utile, soprattutto perché a volte non è proprio possibile creare nuove gratificazioni. Prima Scegliete un’attività che vorreste intraprendere. Visualizzatevi mentre la svolgete, concentrandovi sugli aspetti piacevoli o particolarmente utili per voi. Per convincermi a salire sul tapis roulant io immagino il piacere di staccare mezz’ora dal lavoro, e di ascoltare un po’ di musica o leggere qualcosa mentre corro. Potete anche concentrarvi sulle gratificazioni future, la soddisfazione che proverete dopo aver svolto l’attività. Una volta identificati i «premi», cercate di avvertirli in senso emotivo e fisico, in modo da attivare il rilascio di dopamina. Per tornare all’esempio del tapis roulant, io richiamo alla mente la sensazione di benessere e rilassamento che traggo dall’ascolto della mia playlist preferita: è un pensiero molto più motivante della semplice idea astratta della musica. Se avete già dimestichezza con la pratica del processo PACE per radicare la sensazione di un’esperienza benefica, come ascoltare la musica, vi sarà più facile evocarla a comando. Durante Mentre svolgete l’attività prescelta, concentrate a più riprese l’attenzione sui suoi aspetti piacevoli. Ripetendo l’esercizio scatenerete picchi di dopamina che rinforzano il circuito motivazionale. Ricercate continuamente lati nuovi o sorprendenti dell’attività. Ogni volta che incontra una novità, il cervello scatena il rilascio di dopamina. Anche l’eccitazione e l’entusiasmo possono tornare utili, perché incrementano l’adrenalina, rafforzando l’associazione mentale tra l’attività e le sue gratificazioni. Dopo Portato a termine il compito, concedetevi una pausa per assaporarne i risultati. Quando scendo dal tapis roulant, io mi concentro sulla sensazione di vitalità fisica e sulla soddisfazione di aver fatto qualcosa di buono per la mia salute. Non passate all’attività successiva senza incamerare i «premi» della precedente. Vi siete impegnati per ottenerli, e ve li siete meritati. INCORAGGIATEVI Nelle mie esperienze di arrampicata, le guide si sono sempre dimostrate molto incoraggianti. Mi facevano notare i miei errori, ma si concentravano soprattutto sui miei progressi. Mi spronavano a dare il meglio e alimentavano la mia passione per l’alpinismo. Ma c’è stata anche un’eccezione: una guida che saliva troppo in fretta e strattonava la corda se rallentavo in un passaggio difficile. Ha sottolineato tutte le mie carenze tecniche, ed è rimasta indifferente quando ho superato con perfetta disinvoltura un punto particolarmente arduo. La fune era come un filo del telegrafo che trasmetteva rabbia e rimproveri. Invece di aiutarmi a migliorare, l’intransigenza di quella guida mi ha solo fatto sentire impacciato, timoroso e stressato. Con il risultato di peggiorare la mia performance. Quel tizio era uno scalatore eccellente, ma un pessimo maestro. Dentro la nostra mente accade qualcosa di molto simile. Per scalare le montagne della vita esistono due metodi di base: la severità o l’incoraggiamento. Possiamo fare appello al nostro critico interiore oppure al nostro consolatore. Riflettete sulle differenze tra questi due approcci: Approccio incoraggiante Approccio critico Concentrato sull’obiettivo Sottolinea i miglioramenti Tono gentile Atteggiamento comprensivo Costruttivo Concentrato su ciò che non va Sottolinea gli errori Tono brusco Atteggiamento freddo Distruttivo Nel perseguire un obiettivo notate le vostre reazioni quando adottate l’uno o l’altro approccio. Enfatizzate in modo intenzionale l’atteggiamento e la sensazione di incoraggiamento. Richiamate alla mente le persone che vi hanno aiutato e sostenuto in passato, e immaginate cosa vi direbbero quando commettete un errore. Fate il tifo per voi stessi. Ricorrete con frequenza alle fasi del processo PACE per assimilare l’esperienza dell’incoraggiamento che vi siete dati, affinché vi diventi sempre più naturale. Molte persone si impongono un’autodisciplina ferrea per timore di cedere alla pigrizia. Danno per scontato che solo i rimproveri siano davvero motivanti, quando in realtà è vero il contrario. Cercate di notare le innumerevoli occasioni in cui raggiungete un traguardo grazie agli incoraggiamenti. E prendete coscienza del fatto che a lungo andare l’atteggiamento autocritico tende a peggiorare il rendimento. Lo stress dovuto ai rimproveri che vi infliggete rilascia cortisolo, che indebolisce l’ippocampo e di conseguenza la capacità del cervello di imparare dai comportamenti corretti. Se siete convinti della strada che avete scelto, continuate a percorrerla, anche in mancanza di gratificazioni immediate. È questa l’essenza della motivazione: la capacità di sostenere un’azione prolungata traendo energia da una convinzione profonda. Una volta ho frequentato un seminario di meditazione guidato da Joseph Goldstein, un maestro attento e pragmatico. Durante una pausa gli spiegai ciò che stavo provando e chiesi se ero sulla strada giusta. Lui sorrise e rispose: «Continua a camminare». CONCETTI CHIAVE La resilienza non serve soltanto a superare le avversità. Le persone resilienti sanno perseguire i propri scopi malgrado gli ostacoli che trovano sul cammino. Perciò, per acquisire resilienza, è essenziale imparare a regolare l’apparato motivazionale del cervello. Il piacere è diverso dal bisogno. Il bisogno, caratterizzato da compulsione, urgenza, ostinazione o dipendenza, è stressante e può indurre a comportamenti dannosi. Esplorate l’esperienza di apprezzare qualcosa senza volerlo a tutti i costi. Assimilate con regolarità la sensazione di avere già tutto il necessario per costruire una base solida di appagamento. In questo modo potrete godervi i piaceri e prefissarvi traguardi ambiziosi senza lo stress del bisogno. Il sistema nervoso simpatico ci riempie di energia e di passione. Ma in mancanza di emozioni positive (come la felicità e l’amore) tende a spingerci nella zona rossa dello stress. Quando ingranate la quinta in vista di un obiettivo, prestate attenzione all’insorgere di emozioni negative, e continuate a ricercare nuovi modi per assimilare quelle positive. Il circuito motivazionale è basato sull’attività della dopamina. Non tutti abbiamo la stessa quantità di recettori di dopamina: chi ne ha meno ha bisogno di maggiori gratificazioni per restare motivato. Addestrate il circuito motivazionale potenziando l’associazione mentale tra l’attività che vi siete prefissati e i suoi aspetti premianti. Incrementate la quantità, l’attenzione e la vostra sensibilità alle gratificazioni. Spesso crediamo che la severità sia più motivante, mentre in realtà è vero il contrario. Siate una buona guida per voi stessi, offrendovi incoraggiamento invece che critiche. INTIMITÀ Camminare con un amico al buio è meglio che camminare da soli alla luce. HELEN KELLER Da piccolo ero molto solitario e schivo, e per gran parte del tempo mi sembrava di guardare le persone da una grande distanza, come se mi trovassi dietro una finestra, all’esterno di una casa, e osservassi gli altri chiacchierare e ridere all’interno. Potevo vederli ma non toccarli, sentirli ma non parlare. C’è voluto parecchio tempo prima che trovassi il coraggio di varcare la soglia di quella casa. Poco alla volta mi sono aperto, concedendomi per gradi di conoscere e di lasciarmi conoscere dalle altre persone, ed entrando pian piano in connessione con loro. Questa è la vera essenza dell’intimità. Ciascuno dei nostri rapporti è caratterizzato da un diverso grado di intimità, dall’interazione effimera con un barista a un matrimonio durato cinquant’anni. Le basi dell’intimità sono l’autonomia personale, l’empatia, la compassione, la bontà e la virtù unilaterale. Tutte queste capacità rappresentano l’argomento di questo capitolo, che riguarda in particolare il lavoro su noi stessi. In quello successivo, invece, ci concentreremo sulle interazioni con gli altri. IO E NOI A una maggiore intimità corrispondono maggiori gratificazioni, e maggiori rischi. Quando ci apriamo a un altro, investendo nel rapporto, è inevitabile essere più esposti e vulnerabili. Diventa più facile venire delusi o feriti. Dunque, come godere dei benefici dell’intimità riuscendo a gestirne le sfide? Paradossalmente, per trarre il massimo dal «noi» bisogna restare concentrati sull’«io». Come dice un proverbio inglese: buone recinzioni, buoni vicini. Un forte senso di autonomia – la consapevolezza della propria individualità e competenza – favorisce un’intimità più profonda. Quando vi sentite a vostro agio nella vostra pelle, è più facile aprirvi ai sentimenti altrui. Quando siete appagati, siete più ricettivi alle esigenze del prossimo. La certezza di potervi tirare indietro vi dà il coraggio di farvi avanti. Così come l’autonomia favorisce l’intimità, l’intimità rafforza l’autonomia. I rapporti stretti e premianti ci fanno sentire protetti e consolidano la nostra autostima, promuovendo l’indipendenza e la sicurezza di sé. Autonomia e intimità compongono un circolo virtuoso, alimentandosi a vicenda e potenziando la resilienza. GLI EFFETTI DELLA STORIA PERSONALE A una minore autonomia – quando ci sentiamo sopraffatti, prevaricati o manipolati – corrisponde una minore intimità, soprattutto se la situazione si protrae nel tempo. Tuttavia non sempre è facile restare se stessi nel contesto di un «noi». Provate a chiedervi se riuscite a conservare un senso di autonomia quando gli altri: esigono qualcosa da voi; sono arrabbiati; cercano di convincervi o di condizionarvi; non rispettano la vostra privacy; cercano di dominarvi o controllarvi. Ciascuno reagisce alle situazioni di invadenza o ingerenza secondo il proprio temperamento, e ogni individuo attribuisce una diversa priorità all’autonomia o all’intimità. I vari gradi di socievolezza e di estroversione/introversione sono visibili già nell’infanzia e persistono nell’età adulta. Scherzando si dice che con il primo figlio i genitori insistono sull’«educazione», mentre con il secondo lasciano fare alla «natura». Resta il fatto che l’«educazione» – tutto ciò che vi capita e la vostra reazione, dal primo respiro all’ultimo – ha un peso enorme. Noi cominciamo a esplorare l’indipendenza e l’individualità già da neonati: scegliendo dove puntare lo sguardo, cosa deglutire e cosa sputare, distinguendo il nostro corpo dal mondo circostante, imparando che gli altri hanno pensieri e sentimenti propri. Inutile dire che si tratta di un processo improntato a prova ed errore, un apprendistato progressivo con cui spesso davamo sui nervi al prossimo. E, mentre noi reagivamo al mondo, il mondo reagiva a noi. Alcuni genitori, parenti, maestri e società valorizzano e sostengono l’indipendenza e l’individualità del bambino, altri invece no, e tra i due estremi le sfumature sono infinite. Nel corso del tempo l’accumulo dei mille episodi in cui la manifestazione di individualità e assertività del bambino viene favorita o repressa indirizza la personalità in un senso o nell’altro. Pensate alla vostra storia personale riflettendo su queste domande relative alle vostre esperienze di autonomia. Durante la vostra infanzia, come venivano trattati i vostri fratelli o coetanei quando assumevano atteggiamenti presuntuosi, si incaponivano o si agitavano? E cosa accadeva quando eravate voi a comportarvi così? In che modo quel trattamento vi ha condizionati durante la giovinezza? Ripensate alla vostra vita di adulti e al trattamento che vi hanno riservato gli altri. Siete a vostro agio nell’esprimere la vostra vera natura oppure vi sentite imbarazzati o spaventati? Vi capita di mettere da parte i vostri bisogni per evitare conflitti? Nei casi in cui assumete un atteggiamento fermo e assertivo, gli altri si dimostrano ricettivi oppure no? COLTIVARE L’AUTONOMIA Ora fate un passo indietro e domandatevi in quale misura il vostro passato incide ancora sul presente. È normale interiorizzare il trattamento subito – le esperienze in cui gli altri hanno limitato, represso o mortificato la nostra individualità e indipendenza – e poi replicarlo con noi stessi. Nelle vostre relazioni importanti, quanto è facile: esprimere ciò che pensate e sentite? manifestare un bisogno? restare fermi sulla vostra posizione anche se gli altri non sono d’accordo? difendere i vostri diritti? Qualunque sia il vostro punto di partenza, esistono molti metodi efficaci per rafforzare un sano senso dell’«io» anche in mezzo al «noi». Concentratevi sulla vostra esperienza Notate i momenti in cui la vostra attenzione viene «calamitata» dall’altro e distolta da voi stessi. Quando accade, tornate a concentrarvi sulla vostra esperienza e a radicarvi nel vostro corpo. Ciò che provate non è né giusto né sbagliato, giustificato o ingiustificato. È semplicemente ciò che è, e coltivandone la consapevolezza potrete conservare il vostro equilibrio interiore. Visualizzate un confine tra voi e gli altri Concentratevi a distinguere il vostro spazio personale da quello altrui. Potete tracciare un confine immaginario sul terreno, costruire uno steccato o, se necessario, erigere una parete di vetro infrangibile. Sembrerà sciocco, ma io evoco la voce del capitano Kirk di Star Trek, e mi dico: «Alza lo scudo, Scotty!». Difendete l’autonomia nella vostra mente Richiamate alla memoria episodi in cui vi siete sentiti forti e determinati. Avvertite la percezione fisica di queste emozioni. Ripetetevi frasi come: «Ho il diritto di decidere ciò che è meglio per me», «Non sono tenuto ad accettare le tue idee», «Io e te siamo diversi, e questo è un bene», «Non è obbligatorio fare sempre come dici tu». Per motivi pratici vi capiterà di dover sopportare alcuni comportamenti, per esempio ascoltando gli sfoghi del vostro capo per non perdere il lavoro o sorridendo educatamente alle chiacchiere di un parente irritante per non scatenare un putiferio a una cena in famiglia. Siate però consapevoli di aver scelto voi stessi la strada della pazienza, facendo del vostro meglio nel rispetto dei vostri valori. Convocate gli alleati interiori L’intimità favorisce l’autonomia, perciò chiamate interiormente a raccolta i vostri alleati più stretti: anche solo immaginarne la presenza vi aiuterà a rimanere più saldi. Ripensate alle persone che apprezzano e rispettano la vostra indipendenza. Immaginate la loro reazione se vi vedessero subire un comportamento prevaricante, aggressivo o manipolativo. Appellatevi al «collegio difensore» di cui abbiamo parlato nel capitolo dedicato alla sicurezza. Alzate, per così dire, il volume delle voci che vi sostengono per sovrastare il tono di chi minaccia la vostra autonomia. EMPATIA Empatia significa sintonizzarsi con gli altri e comprenderne le esigenze. Quando siamo ben radicati in noi stessi, possiamo aprirci ai sentimenti altrui senza rischiare di venirne invasi o sopraffatti. L’empatia è essenziale per l’intimità. Aiuta a interpretare toni e sfumature, a valutare le intenzioni, a riconoscere il dolore dietro la rabbia, a leggere gli sguardi. Solo così si può comunicare e interagire in modo efficace. Sul lavoro e altrove, e soprattutto nel nostro mondo multiculturale, l’empatia è vitale per colmare le distanze. Nella formulazione di Dan Siegel, ci aiuta a sentirci sentiti. Ciascuno di noi vive come individuo separato nel proprio corpo, ma tutti siamo mortali e spesso sofferenti. L’empatia ci permette di pensare: «Non sono solo. Ci sono altri accanto a me. Siamo tutti sulla stessa barca, condividiamo la stessa umanità». Empatia non significa necessariamente approvazione o adesione. Potete essere empatici senza rinunciare ai vostri diritti e alle vostre esigenze. Anzi, l’empatia è utilissima nei conflitti, o in generale con le persone che non vi piacciono. Comprendendole meglio, troverete modi più efficaci per interagire con loro. E, sentendosi capiti, i vostri interlocutori saranno più disponibili ad ascoltare voi. EFFETTI DELL’EMPATIA SUL CERVELLO Nel corso dell’evoluzione, ominidi e umani sono diventati sempre più empatici. Nel nostro odierno cervello sociale l’empatia è resa possibile da tre sistemi neurali che si sintonizzano con i pensieri, le emozioni e le azioni degli altri: Pensieri. Collocata dietro la vostra fronte, la corteccia prefrontale vi permette di comprendere le convinzioni, i valori e i progetti del prossimo. Emozioni. Collocata nei lobi temporali (accanto alle tempie), l’insula vi permette di partecipare ai sentimenti altrui. Azioni. Diffusa in varie parti del cervello, una rete di neuroni specchio si attiva sia quando svolgete un’azione (per esempio tendere la mano per prendere una tazza), sia quando osservate lo stesso gesto compiuto da un altro. Tutte queste regioni sono talmente efficienti da svolgere un doppio lavoro: da un lato regolano i vostri pensieri, le vostre emozioni e i vostri comportamenti, e dall’altro vi aiutano a comprendere quelli altrui. COLTIVARE L’EMPATIA Spesso si crede che l’empatia sia un dono innato, che si può possedere o meno. Invece è possibile svilupparla come qualsiasi altra risorsa psicologica. Cominciamo esplorando alcuni metodi efficaci per rafforzarla, e in seguito vedremo come attingere a questa risorsa nelle interazioni con gli altri. Immergetevi a fondo nella vostra interiorità La consapevolezza di sé – e in particolare degli strati più profondi dell’esperienza – rafforza la consapevolezza degli altri. Entrate in sintonia con le varie sfumature delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri che vi attraversano. Cercate di cogliere gli strati più profondi, antichi e vulnerabili sotto la superficie del flusso di coscienza. Sarà come tendere la mano per prendere una foglia che galleggia sull’acqua e rendersi conto che è collegata a un picciolo, poi a un ramo, poi a un tronco ancorato a delle radici. Cercate di notare anche i cambiamenti istantanei nel flusso dei pensieri. In media i neuroni si attivano da cinque a cinquanta volte al secondo, perciò nella nostra mente accadono moltissime cose anche nello spazio di un respiro. Con la pratica la mindfulness diventerà sempre più capillare. Assumete il punto di vista altrui Per potenziare l’empatia è utile lasciare gli ormeggi familiari delle nostre convinzioni e opinioni per avventurarci nel mondo interiore di un’altra persona. Provate a considerare i vostri valori e giudizi con leggerezza, prendendo coscienza del fatto che quanto a voi appare evidente e importante potrebbe non esserlo per gli altri. Riconoscete l’impatto potente esercitato da esperienze di vita diverse dalle vostre, compresi la cultura di appartenenza, le ferite e gli stress. Così come voi siete stati plasmati dal vostro ambiente, lo stesso è capitato anche agli altri. Se in un rapporto importante un particolare argomento ha suscitato conflitti (per esempio la condivisione dei lavori domestici con un convivente), immaginate di affrontarlo muovendo dalle convinzioni, dai valori e dalle esperienze dell’altro. Arricchite il vostro bagaglio di «competenza culturale» L’idea è acquisire più conoscenze e capacità di interazione con persone che appartengono a un gruppo diverso dal vostro. In quanto bianco, maschio, cisgender (cioè identificato con il mio sesso anatomico), etero, americano, normodotato, professionista e di classe media, per me è stato estremamente utile (e, credo, etico) imparare di più sulle persone di diversa provenienza e caratteristiche diverse dalle mie. Mi ha reso consapevole dei miei preconcetti inconsci e più rispettoso delle priorità e delle consuetudini altrui. La competenza culturale ci rende lucidi sul nostro modo di interpretare le parole e le azioni degli altri, e sul loro modo di interpretare noi. Una comprensione più profonda della grande diversità di persone intorno a noi aiuta a trattare il prossimo in modo più empatico. ATTINGERE ALL’EMPATIA NELLE INTERAZIONI Spesso, nelle situazioni quotidiane o con le persone che ci sono familiari, abbiamo la tendenza a inserire il pilota automatico dimenticando di attivare l’empatia. E, se il nostro interlocutore si dimostra critico o giudicante, l’empatia va proprio a farsi benedire. Ci sfugge di mano nel momento in cui ne avremmo più bisogno. Perciò è utile sviluppare un’abitudine intenzionale alla comprensione empatica in tutti i rapporti interpersonali. Prestate attenzione In genere bisogna impegnarsi attivamente per prestare attenzione in modo prolungato, soprattutto quando i pensieri, i sentimenti o i desideri dell’altro sono diversi dai nostri. Riflettete su quanto è raro che gli altri restino presenti e attenti a voi per parecchi minuti di fila – e quanto è bello quando accade. Immaginate di installare un piccolo monitor nella vostra mente che vi avverta della qualità della vostra attenzione. Nel cervello la regione preposta a questa funzione è la corteccia cingolata anteriore. È normale che di tanto in tanto la vostra mente divaghi. Fateci caso e riportatela sul giusto binario. Rimanete aperti Rilassate il corpo, in particolare la zona del torace. Prestate attenzione a ogni sintomo di tensione, agli atteggiamenti difensivi o diffidenti, e provate a liberarvene. Se nell’aprirvi all’altro cominciate a sentirvi a disagio o sopraffatti, ritrovate l’equilibrio nel senso della vostra individualità. Immaginate di essere saldamente radicati a terra, come un albero robusto, e che i pensieri e le sensazioni degli altri vi attraversino come il vento tra le foglie. Rammentate a voi stessi che non siete tenuti a piegarvi alla volontà altrui: state solo ascoltando, non c’è obbligo di approvare. Questo vi aiuterà a essere più ricettivi. Cogliete le microespressioni e i microtoni Per quanto possibile, guardate l’altro negli occhi. Rilevate il disagio suscitato in voi stessi da un contatto oculare prolungato. Senza sconfinare nell’invadenza, provate a sostenere lo sguardo per un secondo o un respiro in più del consueto. È un modo molto profondo di accogliere l’altro. Le ricerche di Paul Ekman e di altri studiosi hanno dimostrato che spesso le emozioni e gli atteggiamenti profondi affiorano in superficie per un istante, manifestandosi in brevissime espressioni facciali, soprattutto nella zona degli occhi e delle labbra. Prestate attenzione a queste microreazioni nel vostro interlocutore, e siate anche consapevoli della sua postura, della rapidità e dell’intensità dei suoi movimenti. Immaginate di assumere la sua stessa espressione o lo stesso linguaggio del corpo, e chiedetevi quali sentimenti o desideri provereste. È un modo per attivare le reti di neuroni specchio nel cervello che si sintonizzano con le azioni dell’altro. In tempi evolutivi recenti la specie umana ha sviluppato la capacità di produrre e cogliere i cambiamenti infinitesimi e istantanei nel tono di voce. La ramificazione più recente nel complesso del nervo vago si estende fino al volto e all’orecchio medio, ed è un elemento chiave del sistema di interazione sociale del cervello e del corpo. Concentrando l’attenzione sui toni vocali dell’interlocutore vi avvarrete di questa parte del sistema nervoso per approfondire l’empatia. Non fermatevi alla superficie Cercate di cogliere le esigenze e le sofferenze più profonde dell’altro. Dietro un’aggressività respingente, per esempio, potrebbe celarsi la paura o il desiderio di intimità. Immaginate che cosa prova il suo corpo, se avverte stanchezza, malessere o dolore. Cercate di immedesimarvi, domandandovi quali sentimenti o emozioni potrebbero spingere voi a comportarvi come il vostro interlocutore. Questa forma di indagine introspettiva attiverà la vostra insula, potenziando l’empatia per la vita emotiva degli altri. Affinate la comprensione Formulare e testare ipotesi è un elemento chiave dell’empatia, ed è un processo che si avvale delle funzioni della corteccia prefrontale. Perciò impegnatevi a formulare ipotesi ragionevoli sullo stato mentale dell’altro. Verificatene la fondatezza cercando indizi di conferma o smentita. Per esempio, riflettete su quanto sapete del temperamento o della storia personale dell’altro: quella che vi era sembrata un’aggressione intenzionale potrebbe rivelarsi un automatismo acquisito durante l’infanzia. Correggete le interpretazioni sbagliate per raggiungere una comprensione empatica più accurata. SCALDARE IL CUORE L’empatia permette di intuire le gioie e i dolori dell’altro. Ma questa intuizione non corrisponde ancora a una vera comprensione e partecipazione. Bisogna aggiungere la compassione e la bontà, risorse che possiamo entrambe sviluppare. Con il tempo tutti sono in grado di diventare più buoni. Oltre agli effetti positivi sui rapporti, allenare (metaforicamente) il muscolo del cuore rilassa il corpo, protegge il sistema immunitario, risolleva l’umore e rende capaci di cura. La compassione presuppone sofferenza, mentre la bontà no. In pratica, sono emozioni intrecciate, perciò le tratteremo insieme. Nel capitolo dedicato alla compassione abbiamo esaminato come attivarle per noi stessi, adesso affronteremo i modi per coltivare un cuore più buono da offrire agli altri. L’esperienza di un cuore buono Quando provate compassione o disponibilità per gli altri, immergetevi nell’esperienza, aprite il corpo ai suoi effetti e sentitela diventare parte integrante di voi. Cercate di ripetere l’esercizio più volte al giorno, facendolo durare per qualche respiro. Riservate anche del tempo a una pratica prolungata, come quella illustrata nel box. COMPASSIONE E BONTÀ Concentratevi e rilassatevi. Riportate alla mente il ricordo di una persona che vi ha aiutato, per esempio un genitore o un maestro. Prendete coscienza delle sue difficoltà personali, dei suoi problemi o delle sue sofferenze. Siatene partecipi, magari formulando pensieri come: «Ti auguro di non soffrire… Prego affinché il tuo dolore passi… Che tu possa godere di buona salute». Intensificate l’esperienza fisica appoggiando una mano sul cuore. Ora passate dalla compassione alla bontà: il desiderio che l’altro sia felice. Evocate dentro di voi un sentimento di amicizia o di amore. Formulate frasi come: «Che tu possa realizzare i tuoi desideri… essere in pace con te stesso… sapere che sei molto amato». Concentrate il pensiero su un partner o un amico. Prendete coscienza delle sue difficoltà, delle sue delusioni e tristezze. Apritevi alla compassione, evocando l’immedesimazione e formulando pensieri come: «Ti auguro che il tuo lavoro diventi meno stressante… Prego affinché le cure mediche possano guarirti». Ricercate dentro di voi un senso di affetto e coinvolgimento. Avvertite la sensazione fisica della compassione e della bontà e lasciate che vi riempia, pervadendovi e radicandosi dentro di voi. Ora concentratevi su una persona che vi è indifferente. Immaginate i suoi lutti, la sua solitudine, il suo dolore… e trovate dentro di voi un senso di compassione, di disponibilità e buone intenzioni. Formulate un augurio: «Che tu possa godere di buona salute… essere al sicuro… risolvere le difficoltà… essere felice». Infine concentratevi sui sentimenti di compassione e bontà in generale, senza focalizzarli su persone specifiche. Immaginate le ondate di solidarietà, affetto, amicizia e amore che si irradiano da voi. Inspirando, avvertite l’amore circostante che vi riempie, e diffondetelo con l’espirazione. Portate la consapevolezza su ogni aspetto positivo, piacevole e prezioso di questa esperienza, e lasciatevi trasportare. Riconoscete la sofferenza Passeggiando per strada vedrete la stanchezza, la tensione e la tristezza sui volti degli altri. La vita non è solo sofferenza, ma capita a tutti di soffrire almeno di tanto in tanto. Eppure, distratti dalla nostra routine e dagli impegni quotidiani, tendiamo a ignorare il dolore altrui, passando oltre con indifferenza. Una volta chiesi a un mio maestro, Gil Fronsdal, quale fosse la missione della sua vita. Lui restò in silenzio per un po’ e poi rispose: «Soffermarmi davanti al dolore». Nell’interagire con gli altri, a casa o sul lavoro, cercate di coglierne i dolori inespressi, le delusioni o le preoccupazioni taciute. Più volte al giorno, guardate un estraneo o pensate a un conoscente lontano e avvertite il peso che porta sulle spalle. È un modo di aprire e addolcire il cuore. Prendete coscienza della nostra umanità comune In genere, siamo più inclini a dimostrare compassione e bontà alle persone che consideriamo affini. Cercate gli elementi in comune con gli altri, soprattutto con chi vi somiglia meno. Richiamate una persona alla mente e pensate: «Come me, provi dolore… Provi delusione e rabbia quando gli altri ti trattano male… Ti preoccupi per i tuoi figli… Come me, aspiri alla felicità». Provate a immaginare come si sentiva da bambino. Scavate al fondo delle credenze e degli stili di vita opposti ai vostri, cercando di individuare i desideri e i sentimenti che vi accomunano. Distinguete l’approvazione dalla compassione Il giudizio morale è distinto dalla compassione. Possiamo provare compassione anche per la sofferenza di chi è causa del proprio male, oppure ne ha causato agli altri. Il mondo sarebbe un posto ben più freddo e crudele se fossimo capaci di provare compassione solo verso chi ci piace. Concentratevi su una persona che vi è difficile capire. Siate consapevoli del vostro atteggiamento critico nei suoi confronti, dei sentimenti di esasperazione o di rabbia che vi suscita. Immaginate di tracciare una linea e di collocare tutte le emozioni negative da una parte. Poi, sull’altro lato, evocate il desiderio che tutti gli esseri viventi possano guarire dalla sofferenza, comprese le persone che vi hanno trattato male o che sono responsabili dei loro stessi problemi. Distinguete analisi e giudizio dalla semplice compassione umana per la sofferenza in ogni sua forma. Riconoscete la verità dell’altro… e trovate dentro di voi il senso di compassione per lui. È un esercizio profondamente morale, e vi aiuterà a sentirvi più liberi e in pace nelle interazioni con quella persona. COMPASSIONE PER LE PERSONE DIFFICILI Rilassatevi e trovate il vostro centro di equilibrio. Richiamate alla mente la sensazione di essere accuditi dagli altri. Sentite nel corpo e nel cuore il loro sostegno. Avvertite la forza e la fermezza profonda dentro di voi. Ora pensate a un rapporto difficile. Prendete coscienza della difficoltà a relazionarvi con quella persona, dell’effetto che ha esercitato su di voi e di come pensate di risolvere il problema. Concentratevi sulle sue sofferenze. È probabile che dobbiate scavare oltre le apparenze per individuare tensioni, stress o infelicità occulte, o addirittura risalire alle esperienze della sua infanzia. Ma tutti abbiamo un dolore. Ed è sempre possibile rispondere con compassione. Immaginate quanto sarebbe diverso il comportamento di quella persona se non si portasse dentro quel dolore. È normale desiderare che le persone indisponenti cambino atteggiamento con voi o con gli altri. Magari vorreste un gesto di scuse, un risarcimento, un ristabilimento della giustizia. Impegnatevi però anche a desiderare che non debbano soffrire inutilmente, che non siano infelici, che non accada nulla di male ai loro cari. Ricercate il senso della vostra bontà interiore e il vostro desiderio di alleviare il dolore altrui. Provate a pensare con assoluta sincerità: «Ti auguro di non soffrire». Cercate le parole che sentite più vere. «Non voglio aggravare il tuo dolore… Spero con tutto il cuore che tu possa trovare la pace.» Evocando la compassione sentirete sciogliersi i nodi di rabbia o agitazione causati dai rapporti difficili. E saprete che i torti subiti non hanno potuto scalfire il santuario interiore del vostro buon cuore. VIRTÙ UNILATERALE Nella mia lunga esperienza di analista, mi è capitato spesso di assistere a una scena che si ripeteva identica nel mio studio. I dettagli e gli attori cambiavano, ma il copione era sempre lo stesso: Persona A: Sono ferito e arrabbiato, e voglio che mi tratti meglio. Persona B: Anch’io sono ferito e arrabbiato, e voglio che mi tratti meglio. Persona A: Lo farò quando tu avrai cambiato atteggiamento. Persona B: D’accordo, ma prima tu! A casa o sul lavoro abbiamo spesso la tendenza a soffermarci sulle mancanze altrui invece di concentrarci a migliorare il nostro atteggiamento. Se continuiamo ad aspettare che siano gli altri a cambiare, ci condanniamo all’impasse, ai circoli viziosi e all’impotenza. E intanto ci maceriamo nella sofferenza, nel risentimento e nel rancore, tutte emozioni che, a causa del pregiudizio negativo, il cervello radica saldamente nella memoria. L’alternativa è la virtù unilaterale, in cui ci affidiamo alle risorse di autonomia, empatia, compassione e bontà per comportarci in modo rispettoso e responsabile anche con chi non lo è. Si tratta di un approccio che semplifica moltissimo i rapporti. Invece di rimuginare all’infinito sull’atteggiamento degli altri, ci concentriamo a correggere il nostro. Questo approccio consolida inoltre il senso di autonomia, poiché pone l’accento sull’ambito in cui possiamo esercitare un’influenza reale, cioè noi stessi. La virtù unilaterale ci fa sentire meglio, distoglie la nostra attenzione dai giudizi negativi e critici, e apre l’accesso alla «beatitudine dell’innocenza»: la certezza di aver fatto tutto il possibile per risolvere il problema. Con questo non voglio dire che dobbiate comportarvi da zerbini. Conservate la compassione per voi stessi, esprimete le vostre esigenze e osservate l’atteggiamento dell’altro sul lungo termine. È la miglior strategia per incoraggiarlo a trattarvi come si deve. Se prendiamo nota di ciò che l’altro ci chiede ed evitiamo di litigare sempre per le stesse cose, in genere anche il nostro interlocutore diventa più ricettivo e ragionevole. E, essendoci presi cura di noi stessi, avremo anche la forza di prenderci cura dell’altro. STILATE IL VOSTRO CODICE La virtù unilaterale comincia dalla consapevolezza di come vorremmo davvero parlare e agire. È il nostro personale «codice di condotta», un insieme di regole che, se pure con qualche condizionamento esterno, in gran parte stabiliamo noi stessi. Concentratevi su un rapporto problematico e complicato. Prendete nota mentale o scritta dei permessi e dei divieti cui vorreste attenervi nel vostro comportamento. Potrebbe trattarsi di standard morali, di approcci più efficaci o del rispetto degli accordi presi. Ecco per esempio alcune delle mie regole: Sì No Ricordare che l’altro ha avuto una giornataccia Cominciare il discorso con un commento Perdere la pazienza Interrompere in continuazione quando l’altro parla positivo Avvertire sempre in caso di ritardo Essere puntuale Ammettere le proprie colpe Prestare aiuto senza che l’altro debba chiederlo Insistere Ostinarsi ad avere ragione Continuare a rivangare il passato Essere ipercritico Prendetevi qualche minuto per immaginare come andrebbero le cose se agiste secondo questo codice, soprattutto nei momenti di conflitto. Ricordate: il suo rispetto non garantisce buoni risultati, ma ne incrementa la probabilità e, a prescindere dalle reazioni dell’altro, voi avrete la certezza di aver fatto tutto il possibile. Spesso le norme di condotta sono talmente ovvie che tendiamo a dimenticarle, mentre è utilissimo tenerle a mente (scriverle è un metodo particolarmente efficace), soprattutto nelle interazioni più spinose. VIVETE IN MODO UNILATERALE È normale di tanto in tanto contravvenire al nostro codice (a me capita spesso), ma non è un motivo sufficiente per abbandonarlo. Magari potreste rileggerlo per accertarvi che le regole siano realistiche e che comprendano tutto ciò cui tenete davvero. Se è il caso, potete riscriverlo e impegnarvi a rispettare la versione aggiornata. Ma il più delle volte, rileggendo il codice, ci accorgiamo che non sono le regole a essere sbagliate: siamo noi a esserci allontanati dalla retta via. Qui di seguito trovate qualche suggerimento per continuare a percorrerla, soprattutto con le persone che più vi intralciano. Colmate la vostra coppa Quando abbiamo cura delle nostre esigenze, diventiamo automaticamente più pazienti e generosi con gli altri. Per quanto buone siano le nostre intenzioni, non si può versare latte da una bottiglia vuota. Ripensate a quanto abbiamo detto sulla necessità di essere alleati di noi stessi, di goderci la vita, di avere cura del nostro corpo. È più facile tenersi alla larga dalla zona rossa se ci sentiamo riposati, sazi e felici. Sgomberate le nubi che offuscano le vostre reazioni Ripensate ai momenti in cui vi è stato difficile attivare la virtù unilaterale, e domandatevi: «Quali fattori hanno contribuito alla mia reazione?». Magari eravate digiuni, avevate dormito poco o abusato di alcol, o forse avevate avuto una giornata stressante sul lavoro. Oppure un trascorso difficile con quella persona vi aveva resi più suscettibili. Riflettete sulle esperienze pregresse – in particolare quelle dell’infanzia – che possono aver influito sul vostro comportamento. Quali che siano i fattori scatenanti, siatene consapevoli, e prestate la massima attenzione alle situazioni in cui rischiano di riaffiorare, per esempio nel discutere un argomento delicato con il partner dopo un bicchiere di vino. Restate concentrati Quando a casa o sul lavoro ci impegniamo a comportarci al meglio, scegliendo con cura le parole e i toni giusti, spesso abbiamo la tentazione di criticare chi invece non lo fa. Magari la critica assumerà una forma non verbale – un’occhiata al cielo o un sorrisetto sarcastico –, ma in ogni caso avrete espresso un giudizio. Nel prossimo capitolo esamineremo le tecniche per affrontare esplicitamente i problemi con gli altri, ma è importante sottolineare fin d’ora che questa categoria di commenti «silenziosi» è il peggiore dei mondi possibili: sono manifestazioni troppo vaghe per soddisfare le vostre esigenze e, al tempo stesso, abbastanza provocatorie e indisponenti da scatenare un litigio. Molto meglio restare concentrati sulle vostre responsabilità e sul rispetto del vostro codice di condotta. Tenete conto delle richieste e dei reclami altrui In alcune famiglie o culture è quasi tabù esprimere un desiderio o un disagio. Ma, poiché dipendiamo gli uni dagli altri, chiedere è una necessità. E, quando il trattamento ricevuto non ci soddisfa o ci rende infelici, è importante sentirci in diritto di farlo notare, in parole povere, di protestare. Ripensate a un episodio in cui qualcuno ha soddisfatto una vostra richiesta o un vostro reclamo. Come vi siete sentiti? L’atteggiamento dell’altro ha appianato i rapporti? Comportandovi in modo analogo offrirete gli stessi benefici agli altri, semplificando le interazioni. Per lo più le richieste e i reclami di cui siamo oggetto riguardano pensieri, parole o gesti relativamente semplici e fattibili: «Vorrei che ricordassi il nostro anniversario», «Mi agito molto quando alzi la voce», «Potresti riavvitare il tappo del dentifricio?», «Voglio che mi ascolti quando ti parlo». Soddisfare questo tipo di esigenze potrà costarvi tempo e attenzione, ma è un prezzo ben inferiore a quello che si paga in tensioni e conflitti. Inoltre il vostro atteggiamento renderà l’altro più disponibile a prestare ascolto a voi. È raro riuscire a comunicare in modo perfetto, perciò spesso le richieste saranno espresse con eufemismi, giri di parole o esagerazioni, e magari mescolate a questioni secondarie, moralismi, accuse, autogiustificazioni, pretese e minacce. Ricordate che non siete tenuti a concordare e non lasciatevi distrarre dal pagliaio che circonda l’unico ago davvero cruciale. Fate il possibile per individuare il problema reale, stabilite fino a che punto potete ragionevolmente soddisfare la richiesta, e attenetevi con costanza al comportamento prescelto. Immaginate cosa provereste se gli altri vi trattassero così. Agendo con virtù unilaterale (oltre che in modo autonomo, empatico, compassionevole e buono) getterete le basi di rapporti sani, collaborativi e appaganti. CONCETTI CHIAVE Tutti i rapporti e non soltanto quelli sentimentali comportano un certo grado di intimità. Conservare un forte senso dell’«io» anche in mezzo al «noi» favorisce l’intimità. Possiamo coltivare questo senso di autonomia istituendo un chiaro spazio personale e avendo ben chiara la nostra individualità nella mente. L’empatia è necessaria per l’intimità. Varie reti neurali nel cervello ci aiutano a entrare in sintonia con i pensieri, le emozioni e i comportamenti altrui. Sviluppando l’empatia potremo attivarla più facilmente nelle interazioni con gli altri. Compassione e bontà sono risorse psicologiche e dunque si possono potenziare. Riconoscete la sofferenza altrui, concentratevi sulla vostra umanità comune, distinguete l’approvazione dalla compassione e interiorizzate in modo consapevole il senso di apertura e di calore per gli altri. Concentrarsi sulle mancanze altrui crea impasse e risentimenti. Molto meglio praticare la virtù unilaterale: concentratevi sulle vostre responsabilità e sul vostro codice di condotta personale, a prescindere dal comportamento di chi vi circonda. In questo modo potrete godere della «beatitudine dell’innocenza», ridurrete i conflitti e incrementerete la probabilità che anche gli altri vi trattino come si deve. CORAGGIO Il saggio è pacato, affabile e impavido. DHAMMAPADA, IL CAMMINO DEL DHARMA In montagna ho corso grandi rischi. Eppure i peggiori momenti di ansia li ho provati nelle situazioni sociali. Credo valga per molti di noi. È nelle relazioni interpersonali che abbiamo bisogno di più coraggio, una parola che riporta a «cuore». In questo capitolo esploreremo i metodi per difendere la nostra individualità conservando la sicurezza e la certezza interiore di essere al sicuro. Cominceremo imparando a parlare dal cuore in modo efficace e rispettoso di noi. Poi passeremo a indagare l’assertività, per concludere con strategie per riparare i rapporti. PARLARE DAL CUORE Pensate a una persona che vi è cara: il partner, un figlio, un fratello, un genitore, un collega. Quando vi siete sentiti traditi, irritati o feriti, siete riusciti a parlarne? E siete riusciti a esprimere il vostro rispetto o amore per l’altro? Avete ammesso i vostri torti nei suoi confronti? Le emozioni imbottigliate producono risentimento e isolamento, e tacendo perdiamo l’opportunità di scoprire la verità attraverso il dialogo. Spesso in un rapporto ci tratteniamo dal dire apertamente cosa ci fa stare bene o male e ciò che vorremmo cambiare. Siamo come barche che procedono in parallelo, e ogni comunicazione mancata è come un grosso macigno che precipita in acqua, sollevando onde che ci allontanano l’uno dall’altro. Pensate al peso di tutto il non detto nei vostri rapporti. Quali effetti ha esercitato su di voi e sugli altri? A volte aprirsi è impossibile, fuori luogo o rischioso. Sono momenti in cui è essenziale avvalerci delle nostre risorse interiori, come la compassione di sé. Altre volte il dialogo sarebbe possibile, ma il pensiero di esporci ci spaventa. Per giunta servono competenze specifiche per parlare di un problema senza aggravarlo. In tutte queste situazioni è essenziale poter contare sul coraggio interpersonale, per rimanere al sicuro e parlare dal cuore con saggezza. LA SICUREZZA PRIMA DI TUTTO La comunicazione autentica comporta dei rischi, per esempio la vulnerabilità emotiva, e sollevare un problema può mettere in crisi un rapporto. Ecco alcuni suggerimenti per tutelare al massimo la nostra sicurezza. Riconoscere i rischi Purtroppo molti rapporti sono oscurati dalla violenza o dalla sua minaccia. Se è il vostro caso, parlatene con qualcuno che possa aiutarvi, per esempio un medico, un sacerdote o uno psicologo; potete anche rivolgervi a un numero verde, a un centro di assistenza o ad altre risorse analoghe. L’aggressività fisica non è ammissibile, e la vostra incolumità è prioritaria: accertatevi di essere protetti prima di affrontare qualsiasi altro problema. Esiste anche il rischio che le vostre parole vengano usate contro di voi, come nel caso di un processo per la custodia dei figli dopo un divorzio. Esaminate a fondo la situazione per assicurarvi che la vostra ingenuità o il vostro ottimismo, per quanto teneri, non vi inducano a una fiducia malriposta. Dopo averci riflettuto, potrete comunque decidere di parlare, ma nella piena consapevolezza delle conseguenze. Se invece è il vostro interlocutore a essere fragile, badate a non sconvolgerlo inutilmente. Nel mio caso, per esempio, da adulto ho evitato di sollevare certi problemi con i miei genitori. Ormai erano anziani e li avrei solo fatti soffrire inutilmente. Siate consapevoli della vostra verità Prendete coscienza di ciò che pensate, sentite e desiderate dal rapporto. Dedicate del tempo a chiarirvi le idee. Immaginate di esprimere tutto ciò che avete nel cuore a un amico o magari a un’entità spirituale. Scrivete una lettera senza spedirla. Se necessario, parlatene con una terza persona, per esporre i fatti e riflettere su una possibile soluzione. Parlare di parlare Spesso le conversazioni autentiche su problemi importanti divagano, si surriscaldano, si raffreddano, ma infine giungono a destinazione. Non preoccupatevi se il dialogo è caotico e non segue un copione perfetto. Tuttavia, se non vi sentite al sicuro ad affrontare certi argomenti, o il discorso deraglia e non sembra approdare a nulla, potrebbe essere utile parlare con l’altro del vostro modo di comunicare. I buoni rapporti si basano sul dialogo, ed è difficile ripararli se l’interazione non migliora. Preparatevi alla conversazione riflettendo sui fattori che nella vostra esperienza reciproca hanno favorito una buona comunicazione e su quelli che invece l’hanno intralciata. Poi, al momento di affrontare il discorso, concentratevi sulle regole cui entrambi dovrete attenervi da adesso in poi. Così facendo diminuirete il rischio che il dialogo si riduca a uno scambio di accuse o a un litigio sul passato. Per esempio, potreste stabilire di: concedere a ciascuno pari tempo per parlare; evitare gli argomenti spinosi prima di andare a dormire; non alzare la voce o formulare minacce; evitare i litigi davanti ai bambini. Accertatevi di interpretare le parole allo stesso modo, per esempio che sia chiaro a entrambi cosa di preciso significa «alzare la voce» o «litigio». Potete anche adottare una regola di «time out», che permetta a ciascuno di chiedere una pausa di qualche minuto o anche di una notte intera, con la ferma intenzione di riprendere l’argomento il giorno dopo. Stabilite le regole, prestate la massima attenzione a rispettarle per primi. Se l’altro le trasgredisce, parlatene e cercate di tornare sul giusto binario. Se necessario, potete anche interrompere la discussione. In situazioni particolarmente difficili mi è capitato di dire al mio interlocutore: «Voglio davvero parlare con te, ma se continui a usare quel tono mi costringi ad andarmene». Non potete imporre a un altro di trattarvi in un certo modo, però potete chiederlo. Poi osservate la sua reazione. Spetterà a voi decidere se la risposta vi soddisfa e se il discorso – o il rapporto – può proseguire, oppure chiudersi definitivamente. CONDIVISIONE DELLE ESPERIENZE E RISOLUZIONE DEI PROBLEMI Gran parte della comunicazione consiste semplicemente nel condividere con l’altro la nostra esperienza: «Ho molto apprezzato la tua presentazione alla riunione», «Ho fame», «Mi arrabbio quando si dà per scontato che sarò io a lavare i piatti», «È un bellissimo tramonto», «Sono preoccupato per nostro figlio». Un altro tipo di comunicazione riguarda la risoluzione di problemi, per esempio: «Questa è la mia strategia per il nostro nuovo prodotto», «Per favore, fai una telefonata al pediatra», «Vorrei che smettessi di contraddirmi durante le riunioni del personale», «Negli ultimi tempi stai rincasando troppo tardi per cenare con me e i bambini», «Se smetti di interrompermi, poi mi sarà più facile ascoltare ciò che hai da dire». Entrambi questi tipi di discorso sono importanti, e in molte interazioni tendono a mescolarsi. Tuttavia sono molto diversi, come potete vedere nella seguente tabella. Condividere esperienze Risolvere Problemi L’ effetto di qualcosa su di me Che cosa dovremmo fare per affrontarli «Questo è ciò che provo...» «Questa è la situazione...» «Io sono...» «Tu sei...» Personale, soggettivo Impersonale, oggettivo Concentrato sui processi e i rapporti Concentrato sugli esiti e le soluzioni Coinvolto Distaccato L’ esperto indiscusso sono io Gli altri possono vedere in modo diverso la situazione presente o i piani per il futuro La mia verità ha valore in quanto tale Persuasione, influenza, insistenza Naturalmente è importante risolvere i problemi, e ne parleremo più avanti. Ma il «discorso sui problemi» spesso degenera in litigio, soprattutto se il tema è delicato o se esiste un pregresso di comunicazioni mancate. Per contro, il «discorso sull’esperienza» si muove su un terreno meno minato. Se dico: «È un male quando accade X», l’altro potrebbe non essere d’accordo; ma se dico: «Io soffro quando accade X», è più difficile essere contestati. Di per sé, manifestare un’esperienza personale non equivale ad avanzare una richiesta, perciò è meno probabile che provochi resistenza nell’altro. E, se parlate a partire dalla vostra esperienza, rendete più facile all’interlocutore esprimere la propria. La condivisione di esperienze è già una comunicazione valida di per sé. Inoltre, se un discorso sui problemi diventa teso o polemico, spostarlo sulle esperienze – magari esprimendo le sensazioni suscitate dall’interazione stessa – può contribuire a placare gli animi. Se le vostre conversazioni tendono a oscillare da un tipo di comunicazione all’altro, può essere utile chiarire in modo esplicito la transizione. Sappiamo tutti quant’è irritante quando, intendendo semplicemente spiegare ciò che proviamo, ci sentiamo rispondere con una «soluzione» al nostro problema. A dispetto delle migliori intenzioni, è un atteggiamento che trasmette messaggi impliciti di superiorità: «La so più lunga di te», «Io sono il maestro e tu l’allievo», «Io sono una persona equilibrata e tu no». Per contro, è altrettanto frustrante quando puntiamo a risolvere un problema pratico e l’altro continua a divagare sui sentimenti. È come se, ballando, ciascuno seguisse un ritmo diverso: l’uno il charleston e l’altro il tango. Perciò, in modo esplicito o tacito, cercate di concordare il tipo di conversazione che volete intavolare, affinché i vostri passi di danza trovino la giusta sincronia. Spesso la strategia migliore è iniziare con un discorso sull’esperienza per poi passare a quello sui problemi. «Comincia dalla sintonia»: questo motto, quando i miei figli erano piccoli, mi ha aiutato a essere un padre e un marito migliore. Affrontare un’interazione con empatia, compassione e cura dell’altro è un modo per creare coesione, come pure esprimere la propria esperienza invece di formulare analisi o impartire consigli. Quando ci sentiamo in sintonia, diventa più facile risolvere i problemi insieme. PARLARE CON SAGGEZZA I rapporti si basano sulle interazioni, che a loro volta si fondano sulla comunicazione. Immaginate il dialogo come una partita di tennis. Quando un’affermazione dell’interlocutore manda la palla nella vostra metà campo, potete scegliere vari «colpi» di risposta. Alcuni sono più saggi di altri. «Saggezza» è una parola altisonante, ma io la intendo come una combinazione di efficacia e bontà. Quando arriva il vostro turno di parlare, puntate il più possibile a intavolare un discorso saggio. Dopodiché spetterà all’interlocutore dare la sua risposta, rispedendo la palla oltre la rete e offrendovi un’altra possibilità di scegliere il colpo più saggio. È un modo di applicare alle interazioni la virtù unilaterale, che sottolinea sia la responsabilità personale sia la serenità mentale che deriva dalla consapevolezza di aver fatto del nostro meglio. Per il bene vostro e della comunicazione è anche utile ridurre gli «irritanti» elementi collaterali – un certo tono di voce o una parola sbagliata – che rischiano di distogliere l’attenzione dell’altro, deviandola su questioni secondarie. Ma in pratica che cosa significa parlare con saggezza? Pensate a un rapporto o a un’interazione recente che negli ultimi tempi vi sta mettendo in difficoltà – per esempio una situazione in cui le conversazioni degenerano in litigi o in silenzi raggelanti – e provate ad applicare i suggerimenti proposti qui di seguito. Stilate una lista di caratteristiche del «discorso saggio» Io ho trovato molto utili queste caratteristiche che, per la tradizione buddista, contraddistinguono il discorso saggio. 1. Benintenzionato. Punta ad aiutare, non a ferire l’altro; non nasce dall’intenzione di essere ostili. 2. Vero. Non sempre è necessario dire tutto, ma qualunque cosa si dica deve essere accurata e sincera. 3. Benefico. Piacevole o utile per l’altro, per sé o per entrambi. 4. Tempestivo. Pronunciato nel momento e nelle circostanze più adatte. 5. Mai aggressivo. Si può essere assertivi, appassionati o coinvolti senza che tono e parole diventino sarcastici, ostili o offensivi. E, se possibile, bisognerebbe rispettare una sesta regola. Il discorso dovrebbe essere: 6. Opportuno. Soppesate con attenzione la disponibilità dell’altro, e poi decidete in modo consapevole se parlare o no. Se l’interazione ha preso la piega giusta, proseguitela. Se però diventa troppo accesa o spinosa, verificate di esservi attenuti alle regole di saggezza. In particolare accertatevi di non essere scivolati nell’aggressività. Spesso a ferire o a provocare gli altri non è tanto cosa diciamo, ma come lo diciamo. Esercitatevi nella pratica del discorso saggio prestando attenzione alle sensazioni fisiche che vi suscita, all’espressione del viso, al tono di voce, ai gesti e alla postura. Replicatene l’esperienza più volte, arricchendola e assorbendola, affinché questo tipo di comunicazione vi diventi sempre più spontaneo e automatico. Parlate per voi È un classico consiglio quello di usare frasi che iniziano con «io», non con «tu». Un atteggiamento aperto e sincero sollecita una risposta analoga. Evitate di dire all’altro ciò che pensa, sente o desidera, con frasi come: «Lo hai fatto apposta», «Stai cercando di minare la mia autorità all’interno del gruppo», «Tu te ne freghi», «Stai proiettando l’immagine di tua madre su di me», «Pensi soltanto a te stesso». Concentratevi invece su affermazioni come: «Quando hai fatto X, mi sono sentito ferito», «Mi sento messo in discussione», «Non mi sento rispettato». Comunicazione non violenta (CNV) Si tratta di una forma di discorso strutturato sviluppata da Marshall Rosenberg. L’argomento è complesso e consiglio a tutti di approfondirlo, ma la formula di base è semplice: «Quando succede X mi sento Y perché ho bisogno di Z». La prima parte – X – va descritta nel modo più fattuale possibile, così come farebbe un osservatore esterno. Per esempio: «Quando la presentazione che consegni è incompleta…», «Quando rincasi mezz’ora dopo l’orario di cena…», «Quando parlo e tu non mi guardi…», «Se non prendi mai l’iniziativa del sesso… », «Quando tuo padre critica il mio modo di educare i bambini e tu non mi difendi…». Evitando invece affermazioni come: «Quando fallisci nei tuoi compiti…», «Quando non ti prendi cura della famiglia…», «Quando ti distrai come al solito…», «Quando mi dimostri che non ti piaccio…», «Quando mi sacrifichi per il quieto vivere con tuo padre». Il secondo elemento – Y – riguarda la vostra esperienza personale. Esprime ciò che provate, sentite e desiderate senza avanzare opinioni, giudizi o soluzioni. Proseguendo gli esempi riportati per X, dovreste continuare con formule tipo: «…mi preoccupo per la buona riuscita del progetto…», «…mi arrabbio e mi agito perché temo di non potermi fidare delle tue promesse…», «…mi sento solo…», «…soffro la tua lontananza…», «…mi irrigidisco e mi angoscio per il futuro del nostro matrimonio». Evitando invece di dire: «…sei pigro e inaffidabile…», «…so che preferisci restare in ufficio invece di tornare a casa…», «…non sai ascoltare…», «…non mi vuoi…», «…mi consideri un pessimo genitore…». La terza parte del discorso – Z – esprime l’esigenza umana, universale e comprensibile alla base di ciò che provate. Nel caso dei nostri esempi: «…ho bisogno di potermi fidare dei miei collaboratori», «…i nostri figli devono sapere che li consideri una priorità», «…ho bisogno di sentire che gli altri si accorgono di me», «…ho bisogno di sentirmi desiderato come amante, non soltanto utile come genitore», «…ho bisogno di sapere che stai dalla mia parte». E non: «…devi darti una regolata e cominciare a prendere sul serio questo lavoro», «…i nostri figli non sanno che farsene di un genitore assente», «…esigo che tu mi dia ragione», «…dobbiamo fare sesso due volte la settimana», «…devi piantarla di parlare con tuo padre». Lo schema del discorso non violento non è obbligatorio per intrattenere una conversazione proficua, ma se un’interazione comincia a uscire dal seminato, assumendo toni ostili o divagando dal tema in esame, in genere questo approccio migliora la comunicazione. Conservate gli altri nel cuore Nella foga del momento capita di lasciarci trascinare dal nostro ottovolante emotivo e di considerare le cose soltanto dalla nostra prospettiva, perdendo di vista lo stato psicologico dell’altro. Magari il nostro interlocutore è preoccupato per i suoi figli, esasperato dai colleghi o stressato da problemi economici. Il comportamento degli altri può essere condizionato da molti fattori – un mal di testa insistente, un autobus arrivato in ritardo, i residui delle esperienze d’infanzia – che non dipendono da noi. Il loro atteggiamento esercita un impatto, ma non sempre è il caso di prenderlo sul personale. È comunque utile tenere a mente le priorità e suscettibilità altrui. Se per esempio sono persone ansiose, perché scatenare allarmi inutili? Se giudicano offensive certe parole, trovatene altre per esprimervi. Se un amico è stato trascurato o abbandonato da piccolo, è comprensibile che reagisca male a una mancanza che a voi potrebbe sembrare irrilevante, come un lieve ritardo a un appuntamento. Alcuni di noi attribuiscono grande importanza all’autonomia, mentre altri tengono di più all’intimità. Se appartenete a una categoria e il vostro interlocutore all’altra, cercate un modo per rispettare la sua priorità senza sacrificare la vostra. In un certo senso ce ne andiamo tutti in giro con alcune domande sospese come fumetti sopra la testa: «Mi rispetti?», «Mi farai del male?», «Capisci il mio dolore?», «Sei con me o contro di me?», «Mi vuoi bene?». Le relazioni funzionano meglio quando offriamo risposte sincere e rassicuranti ai dubbi che assillano l’altro. Spesso basta soltanto una parola, uno sguardo o una carezza. A volte sarà inevitabile escludere qualcuno dal nostro ambiente lavorativo, dalla nostra cerchia di amicizie o dal nostro letto. Magari l’unica soluzione sarà allontanare del tutto una persona dalla nostra vita. Ma è proprio necessario scacciarla anche dal cuore? ASSERTIVITÀ Persino nelle relazioni più collaborative e armoniose serve assertività, anche se espressa solo in modo allusivo o indiretto. Potrà trattarsi di un’argomentazione persuasiva per presentare un progetto di lavoro o di chiedere in modo più esplicito un aiuto in casa quando gli accenni impliciti non hanno funzionato. Se temete di apparire egoisti o prepotenti, guardatevi intorno: gli altri manifestano liberamente i propri bisogni, dunque è naturale che lo facciate anche voi. (Qui intenderò «bisogno» nell’accezione più generale di un desiderio, uno scopo, un’intenzione o una necessità ordinaria, non più nel senso ristretto e problematico di «carenza» che abbiamo visto nel capitolo dedicato alla motivazione.) Le relazioni filano lisce quando tutti vogliamo la stessa cosa, ma quanto spesso accade? I miei genitori, per esempio, avevano gusti opposti in fatto di programmi televisivi, e la faccenda fu motivo di litigio finché trovarono un compromesso: nei giorni dispari la decisione su cosa guardare sarebbe spettata alla mamma, e nei giorni pari al papà (da matematico, mio padre sottolineava ridendo che l’accordo avrebbe concesso alla mamma sette giorni extra ogni anno). Anche accollarsi ciascuno la propria parte di mansioni e responsabilità contribuisce al buon andamento dei rapporti, ma di nuovo: quant’è frequente? Se basta una piccola osservazione o un correttivo discreto a ristabilire gli equilibri, ottimo. In caso contrario, ecco qualche suggerimento utile per appianare le difficoltà interpersonali. CHIARITE I FATTI Spesso il dato di fatto non è poi così evidente, oppure ciascuno lo interpreta in modo diverso. Quale che sia il problema, cercate in primo luogo di trovare un accordo sui fatti pertinenti. È un buon sistema per restringere il campo e per basare il discorso sulla realtà obiettiva. Per esempio, quante volte un collaboratore è arrivato tardi in ufficio? Quante parole offensive sono state pronunciate durante una discussione? Quanto tempo vostro figlio dedica ai compiti? Si può dissentire sul significato dei fatti, ma i fatti in sé non si discutono. Da soli o col vostro interlocutore, osservate per un giorno o una settimana la situazione reale. Potreste scoprire che vi eravate preoccupati per un evento secondario o che capita di rado. Oppure trovare prove ulteriori a conferma della vostra tesi, che la renderanno più persuasiva. CHIARITE I VALORI Una volta appurati, i fatti vanno correlati ai valori: priorità, principi e preferenze. Una coppia di genitori, per esempio, potrebbe concordare sul fatto che le cene in famiglia sono diventate una rarità, ma dissentire sulla loro importanza. Spesso tendiamo a credere che i valori di base siano lampanti e condivisi da tutti («Ovvio che dovremmo cenare più spesso tutti insieme»), quando in realtà non è così («Ovvio che non dovremmo costringere i ragazzi a cenare con noi»). Riflettete sull’aspetto di un dato problema che conta davvero per voi, e sul perché. Se possibile, chiaritevi anche i valori dell’altro. Cercate di scavare negli strati profondi del temperamento, dell’educazione, delle credenze religiose e della storia personale alla base delle convinzioni di ciascuno. Mettete a confronto le rispettive posizioni per evidenziare i punti di accordo e disaccordo. Ecco alcuni suggerimenti per il passo successivo: spiegate la vostra posizione e i vostri desideri rispetto ai valori dell’altro; preparate un’argomentazione a favore dei vostri valori; proponete una distinzione nelle sfere di influenza, con un ambito governato dai vostri valori (per esempio: l’impostazione grafica dei documenti sul lavoro, il tempo limite di televisione per i bambini) e un altro in cui valgono quelli dell’interlocutore (per esempio: l’organizzazione delle riunioni in ufficio, il tempo che i figli devono dedicare ai compiti); non prendetevi troppo sul serio (se per l’altro qualcosa conta moltissimo e per voi meno, perché non accontentarlo?); sacrificate un valore per soddisfarne un altro (per esempio, potreste abbassare un po’ i vostri standard sull’ordine in casa per giocare più spesso con i bambini); prendete posizione (se per voi un valore è davvero importante, potrebbe valere la pena di insistere, accettando le conseguenze). TENETE GLI OCCHI PUNTATI SUL TRAGUARDO Concentratevi sul risultato che volete ottenere senza disperdere le energie in altre questioni. Nel corso di una terapia famigliare, per esempio, mi è capitato il caso di un padre che sentiva un bisogno disperato di comunicare con il figlio adolescente, un ragazzo ombroso e molto chiuso. All’inizio di ogni sessione l’uomo si impegnava a rapportarsi al giovane in modo disteso e accogliente, e il figlio cominciava ad aprirsi. Poi, però, infilava nel discorso un consiglio benintenzionato ma implicitamente critico, e subito il ragazzo si richiudeva a riccio. Con il tempo il padre imparò a mantenere le interazioni sul binario di una comunicazione paritaria e positiva. Dopotutto era il rapporto reciproco a importargli davvero, non impartire consigli. Pensate alle situazioni in cui cercate di parlare di un argomento e l’interlocutore replica con una questione secondaria o un commento provocatorio. Come reagire? In genere la cosa migliore è lasciar correre, tornando alla questione principale. Quando succede a me, richiamo alla mente la battuta di un vecchio film di Guerre stellari: «Occhi sul bersaglio! Occhi sul bersaglio!». CONSOLIDATE I GUADAGNI Immaginate di aver cercato di spiegare a un amico che la situazione che si è creata tra di voi vi ferisce, e che infine si sia chiarita: probabilmente la cosa migliore è chiudere il discorso invece di affrontare un altro problema nel vostro rapporto. Oppure che abbiate discusso fino a tardi con il partner e siate riusciti a dimostrargli che vostro figlio ha davvero difficoltà a imparare a leggere. Magari è una buona idea rimandare all’indomani la ricerca di soluzioni: servirà una mente fresca per affrontare un altro probabile disaccordo. Se il problema è complesso, non è il caso di incaponirsi a chiarirlo con un’unica conversazione: sollevando questioni a raffica rischiamo che l’altro si senta sopraffatto o messo in discussione. Perciò in genere la cosa migliore è accontentarsi del risultato ottenuto, per esempio una profonda intesa emotiva o un chiaro accordo sui comportamenti futuri. Poi, a tempo debito, potrete puntare a un nuovo progresso. CONCENTRATEVI SUL FUTURO Mia madre aveva un gran cuore, e spesso manifestava la sua attenzione per gli altri impartendo consigli. Ma quando i miei figli erano piccoli, i suoi suggerimenti sulla loro educazione rischiavano di dare sui nervi a me e a mia moglie. Così le chiesi se in futuro poteva aspettare che fossimo noi a chiederle un consiglio. Lei rispose: «Quando mai ho detto a qualcuno come deve vivere?». Se avessi colto la sua provocazione, di sicuro ci saremmo impelagati nell’ennesima delle nostre discussioni. Invece, per una volta, conservai la lucidità e replicai: «Okay, allora non sarà un problema», e passai ad altro. Nei giorni successivi la vidi spesso pronta a spiegarci come essere genitori migliori, e poi mordersi la lingua. Cambiò davvero. Aveva recepito il messaggio senza bisogno di litigare. A volte è necessario tirare in ballo il passato, per spiegare il suo impatto su di noi, o come esempio di ciò che vorremmo cambiare in futuro. Spesso, però, questo tipo di conversazione degenera in litigio senza approdare a niente. È fin troppo facile dissentire sul passato: la memoria è inaffidabile, ciascuno ricorda o dimentica dettagli diversi, oppure li offusca o li nega per giustificarsi. Per giunta concentrarsi sul passato, che comunque è irreparabile, distoglie l’attenzione da ciò che invece possiamo cambiare: ciò che dovrà accadere d’ora in poi, le parole più piene di speranza che io conosca. Individuate una questione chiave e cercate di rispondere alle seguenti domande. Come cambierebbe la situazione se l’altro vi prestasse un ascolto autentico? Se rispettasse i vostri desideri e agisse di conseguenza? Se vi parlasse in modo diverso? Se vi desse ciò che chiedete? Ora spiegate all’interlocutore ciò che vorreste d’ora in poi. Includete anche ciò che intendete cambiare in voi stessi: nel vostro modo di pensare, di esprimervi, di comportarvi. Descrivete tutto attenendovi il più possibile a fatti specifici, senza rivangare il passato o assumere toni critici. Potreste ricorrere a una versione modificata di comunicazione non violenta: «D’ora in poi, se riusciamo a fare X, io mi sentirò Y, perché ho bisogno di Z». Oppure, sempre che sia lecito parlare in nome dell’altro, potreste dire: «D’ora in poi, se riusciamo a fare X, io e te ci sentiremo Y, perché entrambi abbiamo bisogno di Z». Se il vostro interlocutore si mette sulla difensiva, replicando con un esempio del passato, non lasciatevi coinvolgere, e riportate la conversazione sul giusto binario. CHIEDETE SENZA PRETENDERE La comunicazione consta di tre elementi principali: il contenuto, la tonalità emotiva e una dichiarazione implicita sulla natura del rapporto reciproco. In genere prestiamo molta attenzione a formulare i contenuti, ma più spesso sono la tonalità emotiva e il messaggio implicito sul rapporto a esercitare l’impatto maggiore. Se esprimo una richiesta in forma di comando – per esempio: «Rispondi al telefono», «Passami il sale», «Devi…», «Non devi…» –, mi attribuisco un ruolo di superiorità nel rapporto, ed è quasi certo che l’altro si irriti. A quel punto sarà più difficile risolvere il problema in questione. Chiedere invece di pretendere contribuisce a tenere il discorso sul giusto binario, evita bracci di ferro e divagazioni su questioni secondarie. Significa riconoscere e accettare una realtà di fatto, cioè che non possiamo imporre comportamenti a nessuno. E favorisce l’assunzione di autonomia e di responsabilità da parte dell’altro. Se accetta un accordo, lo avrà fatto liberamente, senza costrizioni, e sarà molto più probabile che lo rispetti. A volte è utile esprimere una richiesta con dolcezza e cortesia, affinché l’altro sia più disposto a soddisfarla. In altri casi sarà necessario essere più decisi e saldi sulle proprie posizioni. Io penso spesso all’autorevolezza morale di personaggi come Nelson Mandela, e alla particolare dignità e gravità con cui hanno sostenuto la propria causa. Immaginate di incarnare una persona che ammirate, e avvertite il cambiamento che quell’immedesimazione produce in voi. Poi, nel parlare di un problema con il vostro interlocutore, lasciatevi trasportare da questa sensazione, traendone sicurezza e assertività. In ogni caso, che la vostra richiesta sia garbata o autorevole, in seguito spetterà a voi decidere se la risposta è stata soddisfacente oppure no. PRENDETE ACCORDI CHIARI Spesso un tacito accordo è più che sufficiente a raggiungere un’intesa. Ma se continuano a emergere incomprensioni o l’altro non sembra davvero determinato a mantenere l’impegno preso, potrebbe essere utile un chiarimento più esplicito. In primo luogo, ribadite nel modo più chiaro possibile l’accordo. Siate specifici e concreti. Esplicitate il significato delle parole troppo vaghe, come «cercare», «aiutare», «presto», «bello». Chiedete all’altro come cambierebbe la situazione se l’accordo venisse rispettato. Se necessario, mettetelo per iscritto, per esempio con un’email che riassuma il nuovo piano o un elenco di regole appeso al frigorifero. In secondo luogo, riflettete su ciò che voi stessi potete fare per facilitare o permettere il rispetto dell’accordo da parte dell’altro. Che cosa potete dare per ottenere ciò che volete? Se necessario, chiedete all’interlocutore: «Posso aiutarti in qualche modo?», «C’è qualcosa che vorresti da me?», «Quali circostanze ti renderebbero più facile aderire con costanza all’impegno preso?». Spesso la risposta sarà strettamente correlata al tema dell’accordo. Per esempio, aiutare un collega con un problema di computer potrebbe consentire a quella persona di adeguarsi al rapporto di cui avete bisogno. In altri casi la richiesta potrebbe essere più vaga. Tutte le relazioni comportano una certa forma di contrattazione. Non si tratta di un rigido do ut des, ma di un semplice dato di fatto: «Se tu te ne infischi delle mie esigenze, a me non viene voglia di soddisfare le tue». Invece di concentrarci sui presunti «doveri» astratti, è più efficace adottare un approccio pragmatico, un compromesso in cui noi offriamo qualcosa in un certo ambito e l’interlocutore ci accontenta in un altro. RIPARARE I RAPPORTI In bicicletta l’equilibrio è sempre precario, e bisogna correggere di continuo l’inclinazione per non smettere di pedalare. È così anche in ogni rapporto: con gli amici, i colleghi, i parenti o il partner. Persino nei momenti migliori è sempre in atto un processo naturale di correzione – o riparazione – per chiarire le piccole incomprensioni e superare gli attriti ordinari. A volte, però, le divergenze sono più gravi, e allora servirà un intervento più concreto per appianare i conflitti, ristabilire la fiducia reciproca o magari cambiare un aspetto del rapporto. Se sentite il bisogno di apportare aggiustamenti, intendetelo come un segnale di allarme giallo: serve un ritocco che con ogni probabilità andrà a buon fine. Se però in una relazione importante l’altro oppone resistenza al vostro impegno di ricucire lo strappo o la lacerazione – se si ostina a lasciare le cose come stanno, anche in presenza di un guasto –, intendetelo come un allarme rosso: tra voi c’è davvero qualcosa che non va. Nelle loro ricerche sui rapporti di coppia, John e Julie Gottman hanno identificato la capacità e disponibilità alla «riparazione» come un indicatore primario della soddisfazione reciproca e della longevità del rapporto. Per affrontare i segnali di allarme giallo o rosso, usate i metodi suggeriti qui di seguito. VERIFICATE DI AVER CAPITO LA SITUAZIONE Quando ci sentiamo feriti o arrabbiati è facile trascurare un dettaglio importante, fraintendere una parola, equivocare uno sguardo o saltare a conclusioni sbagliate. A me è capitato spesso. Le nostre reazioni agli altri sono plasmate da valutazioni – la nostra visione delle cose e il nostro modo di interpretarle – e da attribuzioni: i pensieri, i sentimenti e le intenzioni che attribuiamo all’altro. Se per esempio un amico ha ignorato il mio invito a pranzo, potrei pensare che non abbia voglia di vedermi, e sentirmi offeso e irritato. Ma se scopro che in realtà non ha mai ricevuto l’sms dell’invito, la mia interpretazione cambia: si è trattato di un equivoco, tutto qui. Può essere doloroso renderci conto che spesso la nostra visione dei fatti è solo parziale, e ci induce a reazioni di scatto di cui in seguito dovremo pentirci. Perciò prendetevi il tempo necessario a indagare i fatti. Che cosa è accaduto in realtà? Qual era il contesto più vasto? L’analisi potrebbe mostrarvi gli eventi in una luce più neutra, se non addirittura positiva. Se avete l’impressione che l’altro non abbia rispettato un accordo, domandatevi: si era davvero impegnato a onorarlo? Magari non vi siete capiti. Forse il vostro convivente potrebbe aver inteso «sistemare la cucina» nel senso di «mettere i piatti in lavastoviglie», non di pulire e asciugare il lavello e i fornelli. Se qualcuno cerca di spiegarvi qualcosa, non è detto che vi consideri stupidi. Magari sta solo cercando di aiutarvi, sia pure in modo superfluo. Acquisita una comprensione chiara della situazione, potreste decidere di lasciar correre. Forse a irritarvi è stato un episodio di poco conto, e porlo esplicitamente come «problema» potrebbe peggiorare le cose. Se il problema è davvero grave, siate realistici sulla probabilità concreta di risolverlo intavolando il discorso. Oppure potrebbe trattarsi di una questione di gravità relativa o media, e potreste decidere di affrontarla subito, prima che si aggravi. ABBIATE COSCIENZA DEL VOSTRO VALORE Una volta stabilito che serve un correttivo, siate buoni alleati di voi stessi. Se qualcuno vi ha avvilito, deluso, ignorato, trattato con sufficienza, se si è rimangiato la parola, vi ha trascurato, ha invaso la vostra privacy, sparlato di voi, vi ha minacciati, usati, sfruttati, discriminati, traditi, vi ha mentito o aggredito, è normale che vi sentiate offesi. Meritate giustizia e rispetto come chiunque altro. I precedenti, il contesto e qualunque cosa abbiate fatto voi non sminuiscono le responsabilità dell’altro. Se ha tradito la vostra fiducia – nelle piccole cose o in modo tale da porre in dubbio la sua stessa affidabilità – dovrà dimostrarsi degno di riconquistarla. Alcune persone, per esempio, sono puntigliosissime nel rispettare gli impegni di lavoro e considerano di secondaria importanza quelli presi con i famigliari, gli amici o il partner, sebbene siano questi i rapporti davvero importanti. Le relazioni si basano sulla fiducia, e la fiducia sull’affidabilità. È assolutamente legittimo voler sapere con certezza fino a che punto possiamo contare sull’altro. Mettere gli altri di fronte alle loro responsabilità non vi rende «deboli», «dipendenti», «isterici» o «lagnosi». E soprattutto non c’è niente di male a sentirsi una «vittima» se siete stati vittimizzati! Chissà perché questa parola ha acquisito una sfumatura dispregiativa – anche questo un modo di incolpare la vittima –, quando in realtà è soltanto la descrizione di un evento. Se attraversando la strada un pedone viene investito da un automobilista ubriaco, di fatto è una vittima, e non ha motivo di vergognarsene. Usate i metodi suggeriti nei capitoli precedenti per identificare e superare la tendenza a sminuire o giustificare i torti che subite per mano degli altri. PARLATE CHIARO Se decidete di affrontare il discorso, muovete dalla convinzione interiore che i vostri sentimenti sono importanti, e che avete il diritto di esigere rispetto e affidabilità. Usate il processo PACE per potenziare in voi questa certezza. Senza censurarvi, provate ad avviare un discorso riparativo, improntato a calma e saggezza. In questo modo incrementerete la probabilità che l’altro recepisca il messaggio. Se è questo il caso, ammettete la vostra parte di responsabilità. Spiegate al vostro interlocutore l’impatto che il suo comportamento esercita su di voi. È comprensibile che per timore di esporvi vi siate trattenuti dal confessare agli altri che vi hanno ferito. Ciò detto, non è umiliante affermare un dato di fatto: «È accaduto questo, mi ha ferito, e non mi sembra giusto». Difendendo la vostra dignità personale acquisirete autorevolezza e una maggiore capacità di ricucire gli strappi. È possibile che la vostra rimostranza metta l’altro a disagio, e spetterà a voi giudicare se ne vale la pena o no. A volte il quieto vivere potrà sembrarvi preferibile alla verità. Ma quale che sia la vostra scelta, ricordate in primo luogo che voi valete; che in passato siete stati disponibili a sopportare il disagio di essere messi in discussione, perciò è legittimo che chiediate la stessa disponibilità all’altro; e che nel tempo i problemi irrisolti, anche piccoli, tendono ad accumularsi. Privilegiando sempre l’armonia a discapito della verità si rischia di non ottenere né l’una né l’altra. RIFONDATE IL RAPPORTO SU BASI PIÙ ADEGUATE I rapporti si fondano sulla fiducia, sul rispetto e sull’impegno. Una relazione più grande delle sue fondamenta diventerà instabile, come una piramide rovesciata. Se a casa o sul lavoro voi vi comportate in modo equo ma ricevete in cambio un trattamento ingiusto, se siete aperti e vulnerabili e la vostra sincerità viene usata contro di voi, è possibile che il rapporto vada ripensato. Poniamo che abbiate cercato di riparare i guasti e che le cose non siano migliorate, o che, per un motivo o per un altro, abbiate deciso che non vale la pena di provarci. E adesso? Scegliete un rapporto che vorreste ripensare e immaginate che sia cominciato come un cerchio di possibilità (potete anche disegnarlo su un foglio). Ora domandatevi quali aspetti vorreste ridimensionare, escludere o orientare in una direzione diversa. Magari vi siete resi conto che a una determinata persona non è più il caso di concedere prestiti, che è meglio vederla per un caffè invece che di sera, o che sulla politica proprio non vi intendete. Individuato il correttivo che desiderate, ridisegnate il cerchio eliminando gli aspetti insoddisfacenti del rapporto, per ottenere una struttura o un perimetro più adatti a voi. È possibile che la necessità di ridimensionare una relazione vi causi delusione, tristezza, frustrazione o disincanto. Prendete coscienza dei vostri sentimenti e siatene compassionevoli. A volte non è possibile correggere un rapporto problematico, per esempio con un genitore anziano e bisognoso di cure o un collega che non potete evitare di incontrare sul lavoro. Ma anche quando la realtà è inalterabile resta quantomeno la possibilità di agire su voi stessi, prendendo una certa distanza mentale per limitare l’impatto che l’altro ha su di voi. In genere, però, qualche cambiamento è fattibile, sia spiegando all’altro la decisione presa sia semplicemente cominciando a comportarvi in modo diverso. A quel punto gli sviluppi possibili saranno tre. Primo, il vostro nuovo atteggiamento determinerà un serio impegno dell’altro a correggersi. Se il rapporto riprende un andamento soddisfacente, riflettete sull’ipotesi di riportare il «cerchio» alle dimensioni originarie. Secondo, la persona direttamente interessata o i partecipanti indiretti (per esempio i parenti) cercheranno di convincervi a tornare alla situazione precedente. Ricordate che avete il pieno diritto di cambiare un rapporto che non vi soddisfa, e rammentate i motivi della vostra decisione. Terzo, la persona interessata accetta il nuovo approccio oppure non ha voce in capitolo. Per esempio, nessuno ha il diritto di imporvi di rispondere a una telefonata o a un’email se voi avete scelto il silenzio. Salvo nel caso di persone che dipendono da voi, per esempio un bambino o un paziente, avete sempre il diritto di spostare un rapporto su un piano diverso. È possibile che la decisione comporti un certo grado di durezza, ma comprenderà anche un aspetto di cura per l’altro: se non vi sentite a vostro agio o felici per come stanno andando le cose, le altre persone di solito lo intuiscono. Agendo per il nostro bene spesso facciamo anche il bene dell’altro. CONCETTI CHIAVE Il coraggio serve soprattutto per relazionarci con gli altri. Una comunicazione aperta e autentica è fondamentale affinché un rapporto sia davvero significativo, ma ciò comporta anche dei rischi. Tutelatevi riconoscendo i pericoli concreti, stabilendo regole di dialogo e distinguendo tra un discorso volto alla «soluzione dei problemi» e uno incentrato sulla «condivisione dell’esperienza». Un discorso saggio è benintenzionato, vero, benefico, tempestivo, non aggressivo e, se possibile, opportuno. Per acquisire la giusta assertività, chiarite i fatti e i valori pertinenti. Concentratevi sull’obiettivo, consolidate i risultati e ponete l’accento su ciò che dovrà accadere d’ora in poi. Chiedete senza pretendere e siate specifici sugli accordi. Tutti i rapporti sono in costante evoluzione, e di tanto in tanto richiederanno un aggiustamento. Occhi aperti se il partner di un rapporto importante non è disponibile a operare cambiamenti positivi: forse è il segno che la relazione va ridimensionata. Prima di suggerire correttivi, esaminate con calma l’accaduto. Nel parlarne, siate alleati di voi stessi, senza vergognarvi di dire che vi sentite delusi, feriti o trattati ingiustamente. Se necessario, ripensate il rapporto, portandolo a una forma o a una dimensione più agevole per voi. ASPIRAZIONI Dimmi, che cosa pensi di fare della tua unica vita, selvaggia e preziosa? MARY OLIVER Vivere significa puntare al futuro. Noi tendiamo sempre verso qualcosa: il prossimo incontro, l’impegno successivo, una nuova sensazione, il prossimo respiro. In questo capitolo ci concentreremo sulla soddisfazione del bisogno primario di gratificazione attraverso il conseguimento degli obiettivi che più ci stanno a cuore, per esempio approfondire il rapporto con il partner, ottenere un lavoro migliore o coltivare un nuovo modo di essere a casa o sul lavoro. In particolare analizzeremo i metodi per perseguire questi scopi conservando un atteggiamento equilibrato rispetto ai risultati. RENDERE ONORE AI NOSTRI SOGNI Giorno dopo giorno la nostra vita viene plasmata da una miriade di fattori. Alcuni sono fuori dalla nostra sfera di controllo, come il luogo di nascita o il patrimonio genetico; gli studi sullo sviluppo in età adulta, però, dimostrano che moltissimo dipende anche da noi: dal nostro modo di affrontare i cicli di stabilità e cambiamento, dalla capacità di trarre sostegno da maestri e mentori… e dalla volontà di realizzare i nostri sogni, compresi quelli d’infanzia. CIÒ CHE SAPEVATE DA PICCOLI I bambini, persino i più piccoli, sanno moltissime cose, anche se non sono ancora in grado di articolarle. Già nella primissima infanzia, per esempio, io intuivo in modo acuto e doloroso l’infelicità degli altri – i miei famigliari, i bambini o gli adulti in generale. Non che il mio ambiente fosse tragico, beninteso, ma intorno a me avvertivo una quantità di tensioni, preoccupazioni e suscettibilità inutili. Ricordo anche distintamente il desiderio struggente di comprendere perché le persone fossero tanto infelici, e la voglia di aiutarle a guarire. Crescendo, quel desiderio è diventato il mio principio guida. Ogni volta che l’ho messo da parte o dimenticato ho smarrito la strada. E voi? Tornate con la memoria alla prima infanzia, scavando negli strati profondi della vostra psiche. Che cosa vedevate intorno a voi e quali erano i vostri desideri? Che cosa sapevate da piccoli, prima di riuscire a esprimerlo a parole? Da ragazzi e da giovani quali erano le vostre ambizioni, i progetti più strampalati, le vostre speranze segrete? Ripensate al tipo di persona che immaginavate al vostro fianco e al tipo di persona che sognavate di diventare. Ora riflettete su cosa ne è stato di quei sogni. Tutti ne abbiamo trascurati o rimandati almeno alcuni. Quei sogni dimenticati sono ancora presenti dentro di noi, come una moneta in fondo a un pozzo. A volte ci sono ottimi motivi per rinunciare a un desiderio. Spesso, però, abbiamo la tendenza a liquidarli come infantili o sciocchi, oppure a rimandarli all’infinito. È fin troppo facile, purtroppo, scoraggiarci da soli, abbandonando progetti che potrebbero rendere molto felici noi e gli altri. Tenendo a mente il potenziale dei nostri sogni, esploriamo alcuni fattori che potrebbero averne intralciato la realizzazione. L’impatto degli altri È nella nostra natura lasciarci condizionare dalle opinioni altrui. Riflettete sull’influenza che i genitori, gli amici e gli insegnanti hanno esercitato sui vostri sogni. Pensate a chi vi ha incoraggiato e aiutato e a chi invece vi ha ridicolizzato, ha dubitato di voi o vi ha ostacolato. Quali effetti hanno avuto questi atteggiamenti? Per esempio, oggi vi sentite a vostro agio a confidare un sogno a qualcuno? Ora riflettete sul vostro modo di giudicare i vostri sogni, e domandatevi: «È davvero ciò che penso, oppure ho preso in prestito l’opinione di qualcun altro? Che cosa voglio io?». L’esperienza temuta Spesso chiudiamo un sogno nel cassetto per paura di vivere un’esperienza terribile, per esempio trattenendoci dal corteggiare qualcuno per timore di venire respinti. Ciò che ci spaventa forma una sorta di recinto invisibile che circoscrive il nostro spazio vitale. Prendetevi un momento per riflettere sui limiti che le paure hanno imposto alla vostra vita. Ricostruite le esperienze accadute a voi o agli altri, e quelle che pensavate potessero accadere. Riflettete anche sul vostro temperamento. Alcuni, per esempio, temono soprattutto le minacce al bisogno primario di socialità, perciò la loro massima priorità sarà evitare ogni esperienza correlata alla vergogna, per esempio la sensazione di aver commesso un errore o di essere mal giudicati. Altri, invece, hanno paura di ciò che minaccia il loro bisogno di sicurezza, dunque faranno l’impossibile per evitare le esperienze correlate all’ansia, come i viaggi di lavoro in aereo. Pensate a un momento cruciale della vostra vita in cui avete scelto di rinunciare a un sogno. Quali esperienze stavate cercando di evitare? E oggi? Vi trattenete dall’esprimervi o esporvi per paura che accada qualcosa di terribile? Immaginate quanto più vasta sarebbe la vostra vita se foste disposti a correre quei rischi. Le paure gettano una lunga ombra sui nostri sogni. Ma in genere sono radicate nell’infanzia, mentre nel presente è molto meno probabile che si realizzino e, quand’anche fosse, non sarebbero dolorose e devastanti quanto temiamo. Pensate a qualcosa che conta molto per voi e che avete rimandato, e chiedetevi: «Che cosa sto cercando di evitare?». Immaginate le situazioni o le interazioni sognate, e poi cercate di scavare più a fondo, per individuare l’esperienza imbarazzante o stressante che temete possa capitarvi se vi concedeste di viverle. Una volta identificata, cercate di rispondere a queste domande: Qual è la probabilità reale che si verifichi? Se anche va tutto storto, fino a che punto ne soffrirò davvero? E per quanto tempo? Ho i mezzi per affrontare ciò che temo? A quali risorse interiori potrei fare appello? Quali sarebbero i benefici per me o per gli altri se realizzassi il mio sogno? O se anche solo mi impegnassi nel suo perseguimento? Considerati i benefici potenziali, non vale forse la pena di rischiare? L’essenza del sogno Magari adesso state pensando: «Be’, io da piccolo sognavo di diventare un divo del cinema. Stai dicendo che devo sfondare a Hollywood per essere felice?». Niente affatto. Dobbiamo indagare la vera essenza del sogno. «Essere una star» è soltanto il mezzo, invece ciò che conta sono i fini: la fama, per esempio, o il piacere di esprimere il proprio talento, o il successo economico. È questo il significato autentico del sogno. Spesso ci concentriamo sui mezzi invece che sui fini dei nostri sogni, e questo ci distoglie dalla loro vera realizzazione. Sceglietene uno importante della vostra vita e domandatevi: quali sono gli elementi emotivi o interpersonali che ne costituiscono l’essenza? Esistono modi alternativi di realizzarla, di conseguire il fine cui il sogno aspirava, che magari finora non avete esplorato? E come sarebbe dedicarsi davvero a quel fine? A prescindere dalle vostre paure o dai limiti che vi siete imposti in passato, provate ad abbandonarvi alla sensazione del sogno. Immaginate, per così dire, che sia il sogno a sognare voi, che vi attraversi e vi pervada. Approfonditene l’esperienza; assimilatela e radicatela nella vostra interiorità. Provate a sperimentarne appieno l’essenza. E poi domandatevi cosa provereste dicendo «sì» al sogno. AMARE, LAVORARE, GIOCARE Per agire concretamente in funzione dei vostri sogni, concentratevi sui tre ambiti fondamentali della vita: Gli affetti. Le amicizie, i rapporti sentimentali, l’amore per i figli, la compassione, l’altruismo. Il lavoro. La professione, la carriera, la cura della casa, il servizio reso agli altri. Il gioco. La creatività, la fantasia, il divertimento, gli hobby, l’entusiasmo, la meraviglia, l’incanto. Valutate attentamente tutti i campi, tenendo conto anche delle loro sovrapposizioni. In quali vi sentite più realizzati? Quali, invece, non vi soddisfano appieno? Un modo efficace per massimizzare la vostra realizzazione nei vari ambiti della vita è potenziare il grado in cui ciascuno di essi si basa su: I vostri gusti. Le attività, le situazioni o i temi che vi danno piacere. I vostri talenti. Le abilità innate e naturali di qualsiasi tipo: scrivere, riparare motori, il senso dell’umorismo, la leadership, la capacità di conservare la calma nei momenti di stress, l’abilità ai fornelli o la musica. I vostri valori. Le cose che ritenete importanti, per esempio i bambini o l’ambiente. Immaginate i vostri gusti, talenti e valori come circonferenze. La sovrapposizione di due circonferenze è positiva, di tre è il migliore dei mondi possibili. Se per esempio il vostro lavoro riguarda un’attività che vi dà piacere in se stessa, per la quale siete portati e che per voi conta davvero, è molto probabile che professionalmente vi sentiate realizzati. Certo, anche altri fattori potrebbero incidere sulla vostra soddisfazione, per esempio il mercato del lavoro, ma, una volta soddisfatti gli elementi fondamentali, di solito il resto viene da sé. Tornate a concentrarvi sui tre ambiti della vita, e cercate di individuare alcune misure concrete per incrementare ciò che vi piace, che vi riesce, che vi è prezioso. Nell’ambito degli affetti, per esempio, se una relazione a lungo termine ha perso le sue attrattive, potreste parlarne con il partner ed esplorare eventuali soluzioni. O in quello del lavoro magari potreste applicare i vostri talenti al servizio degli altri, per esempio entrando a far parte di una società no profit. Per tenere nella giusta considerazione i vostri gusti, talenti e valori personali, è possibile che dobbiate abbandonare il sentiero battuto per imboccarne uno meno convenzionale. Se chiedete a un bambino che cosa farà da grande, è probabile che dia una risposta ben precisa: il dottore, il cantante o l’astronauta. Molti adulti, invece, non si sentono chiamati a un mestiere in particolare. Non è escluso che questa mancanza di «vocazione» sia un tratto biologico, poiché i nostri antenati cacciatori-raccoglitori erano generalisti, non specialisti di un’unica professione. Quando alla fine della nostra vita ripenseremo al passato, è probabile che essere stati fedeli alla nostra vera natura e aver corso dei rischi per realizzare i nostri sogni si riveli la scommessa più sicura in assoluto. FATE BUON USO DEL TEMPO A VOSTRA DISPOSIZIONE Un proverbio dice: «Le giornate si trascinano, ma gli anni volano». Un’ora, soprattutto se ci si annoia, può sembrare infinita. Intanto, però, i secondi passano e non ritornano più. Per giunta non possiamo sapere cosa ci riserva il futuro, magari un incidente o una malattia dietro l’angolo. Come ha sottolineato Stephen Levine, ciascuno di noi arriverà a un punto in cui gli resterà soltanto un anno da vivere, ma nessuno può sapere quando avrà varcato quel confine. La vita è fragile, effimera e preziosa. Non è un pensiero lugubre, semmai uno stimolo a celebrare i giorni a nostra disposizione e a impegnarci per viverli al meglio. Molti anni fa mi stavo lagnando con un amico, Tom, sul tempo che avrei dovuto impiegare per finire il dottorato, e poi per completare i vari tirocini per l’abilitazione alla professione di psicologo. Avevo superato i trent’anni, ed ero stufo di vivere da studente. «Prima di esercitare» dissi «potrei avere già quarant’anni» (un tempo pensavo che a quarant’anni si avesse già un piede nella fossa). «Pensi di arrivarci, ai quaranta?» mi chiese Tom. La domanda mi colse di sorpresa. «Be’, spero proprio di sì» risposi. «E come intendi arrivarci?» concluse lui. Da allora ho ripensato spesso a quel dialogo. A volte certe aspirazioni sono davvero impossibili. Per esempio, potrebbe essere troppo tardi per cambiare carriera o avere un figlio. Ma capita fin troppo spesso di dare per scontato che un’opportunità sia perduta per sempre, quando non è così. Richiamate alla memoria un desiderio che coltivate da molto tempo – lanciare un’attività in proprio, riprendere a cavalcare, incontrare un amore, vedere il Partenone –, poi pensate al futuro, tra cinque o dieci anni, e domandatevi: «Conto di arrivarci a quell’età? E come vorrò essere?». Ora immaginate di trovarvi alla fine della vostra vita e di guardarvi indietro: che cosa sarete felici di aver fatto nei giorni della vostra esistenza? Mentre ci riflettete, potreste scoprire dentro di voi un impulso bruciante, magari la voglia di dare un’ultima grossa spinta alla carriera o di dar vita a un nuovo progetto. Oppure sentite il richiamo di un obiettivo più piccolo: un volontariato in ospedale, meditare più spesso, riconciliarvi con un parente, tornare in chiesa, vedere il Grand Canyon, imparare a suonare il pianoforte, andare a vivere più vicino ai nipoti, impegnarvi nella politica locale. O forse ciò che conta davvero per voi non è qualcosa di specifico, ma un modo di essere: diventare meno ansiosi, più tolleranti con voi stessi, più espansivi, più spensierati. Qualunque sia la vostra aspirazione, fatela diventare una priorità. Magari scrivetela su un foglio, create un collage che la illustri, richiamatela alla mente ogni giorno. Poi pianificate le misure da prendere per realizzarla e concentratevi sui benefici che voi e gli altri potreste trarne. Usate il processo PACE per interiorizzare l’associazione tra azione e gratificazione e potenziare la vostra determinazione ad agire. Assimilate la decisione fino in fondo. E infine agite per far avverare il vostro sogno. Considerate ogni giorno letteralmente come un’opportunità unica nella vita. ASPIRARE SENZA ATTACCAMENTO Molti anni fa ho trascorso una settimana a scalare nel Colorado insieme al mio amico Bob e alla nostra guida, Dave. Il primo giorno ero nervosissimo, e non sono riuscito a salire una parete intermedia (grado 5.8) che Bob ha superato con perfetta disinvoltura. Quella sera Dave ha chiesto a entrambi quali fossero i nostri obiettivi per la settimana. Io ho risposto: «Voglio raggiungere il grado 5.11» – un livello davvero difficile. Di Bob vi ho parlato nel capitolo sulla grinta – è lo stesso amico che ha rischiato di morire assiderato facendo da apripista nella neve fresca –, perciò sapete già che è un tipo molto determinato, ambizioso e competitivo. E davanti alla mia risposta si è inalberato: «Sei matto. Non puoi farcela. E, quando fallirai, ci resterai malissimo». Lo diceva per il mio bene. Voleva proteggermi dalla delusione e dall’imbarazzo che avrebbe provato lui se si fosse trovato nei miei panni. Ma per me era proprio il contrario. Il fatto stesso di essermi prefissato un obiettivo superiore alle mie forze mi rendeva invulnerabile al fallimento: non avrei provato nessuna vergogna se avessi mancato il traguardo, mentre se l’avessi raggiunto sarebbe stato un vero trionfo. Abbiamo continuato a esercitarci ogni giorno con Dave, e poco alla volta mi sono accorto che miglioravo. A metà settimana il mio obiettivo non sembrava più tanto folle, e Bob ha cominciato a entusiasmarsi per me. L’ultimissimo giorno, ho scalato un crepaccio di grado 5.11, arrivando in cima senza commettere errori. È stata un’esperienza esaltante, e per me l’esempio perfetto di cosa si prova ad aspirare senza attaccamento: a sognare in grande, impegnandosi con tutte le forze a realizzare il sogno ma già riconciliati con qualsiasi esito. Non che sia facile, anzi. Come si fa a ingranare la quinta… rimanendo nella zona verde? PENSATE IN TERMINI DI CRESCITA L’espressione «mentalità di crescita» deriva dalle ricerche di Carol Dweck sulle persone che si concentrano più sul proprio apprendimento e miglioramento che sui risultati ottenuti. Giocando a tennis con un avversario molto più forte di noi, per esempio, potrebbe rivelarsi proficuo puntare al perfezionamento del rovescio piuttosto che alla vittoria. Le persone che ragionano in questo modo tendono a essere più felici, più resilienti e più efficaci. Pensate a un obiettivo ambizioso e a come cambierebbe la vostra visione del successo se lo ridefiniste in termini di crescita, attribuendo più valore alle competenze, alla comprensione o alla conoscenza che potreste acquisire. Considerando questi risultati vincereste comunque la partita, a prescindere dal «punteggio» finale. Inoltre è un atteggiamento che ci incoraggia a puntare in alto. Spesso si realizzano imprese straordinarie mettendoci appena un piccolo sforzo in più. I grandi obiettivi attivano la nostra concentrazione, ci ispirano e ci motivano a tenere duro. È controintuitivo, ma più è ambizioso il traguardo, più è probabile riuscire a raggiungerlo. SAPPIATE CHE NON C’È NIENTE DI MALE A PERDERE Capita a tutti di fallire. Non sempre le cose vanno per il verso giusto. Un apologo zen narra di un maestro che aveva aiutato molte persone a compiere grandi progressi. Era vecchio quando gli domandarono come avrebbe riassunto la sua vita. Con un sorriso amaro lui rispose: «Un fallimento dopo l’altro». Nessuno raggiunge un successo importante senza affrontare insuccessi. Se vi capita, sarete in ottima compagnia. Come vi sentireste se, puntando a un traguardo molto ambizioso, arrivaste soltanto a metà strada? Magari provereste una punta di delusione, l’impressione di aver sprecato energie, il timore del giudizio altrui. Però non sarebbe la fine del mondo, dico bene? La vita continuerebbe, i vostri amici vi vorrebbero ancora bene, e in futuro potrebbero capitarvi altre opportunità. A causa del pregiudizio negativo, il cervello si fissa sugli aspetti della nostra vita che sarebbero interessati dal nostro fallimento, ignorando del tutto i moltissimi che resterebbero immutati: l’affetto dei nostri cari, la comodità del nostro letto, la dignità e il rispetto di sé che derivano dalla consapevolezza di aver fatto del proprio meglio e di essere rimasti fedeli a noi stessi. Cercate in fondo al cuore la capacità di accettare i risultati del vostro impegno, quali che siano. Potrebbero non piacervi, ma va bene anche così. Alcuni temono che accettare la possibilità di una sconfitta li renderà passivi e rinunciatari. In realtà più si è disponibili a fallire, più aumentano le probabilità di successo. La paura di un fiasco è un peso, un po’ come avere un mattone nello zaino mentre procedete nel vostro percorso di vita: le preoccupazioni distolgono l’attenzione dal traguardo e vi fanno sprecare energie. Accettando la possibilità di una sconfitta migliorerete le chance di vittoria. NON PRENDETELA TROPPO SUL PERSONALE Siate coscienti del fatto che molte delle cause di successo o fallimento non dipendono da voi. È stato grazie al mio impegno se in Colorado sono riuscito a raggiungere il grado 5.11, ma, oltre a quello, ci sono stati molti altri fattori esterni: l’abilità di Dave come guida, l’amicizia e il sostegno di Bob e le perfette condizioni meteorologiche della giornata. Anche se non vogliamo ammetterlo, la verità è che gran parte di ciò che plasma la nostra vita sfugge completamente al nostro controllo, per esempio i fattori ambientali, genetici, storici, culturali o economici. Spesso gli eventi più importanti sono determinati dal puro caso: un incontro fortuito, il nostro curriculum capitato nelle mani giuste, un automobilista distratto che ci taglia la strada. Quando ci lasciamo ossessionare dal confronto con gli altri, dal bisogno di approvazione o dalla competizione, diventiamo vittime di una mentalità egocentrica, che produce tensioni e ci priva del sostegno degli altri. Inoltre genera un attaccamento stressante e possessivo a un risultato circoscritto, riducendoci come Gollum del Signore degli anelli, aggrappato al suo «tesssoro». LASCIATEVI TRASPORTARE DALLE ASPIRAZIONI Possiamo puntare a un traguardo immaginandolo come un fine esterno e distante, per esempio la vetta di una montagna da cui ci separa un’ardua parete a strapiombo. Magari per un po’ teniamo botta, ma la scalata è spossante. Un approccio diverso consiste nell’abbandonarsi all’aspirazione e lasciare che sia lei a trascinarci, come un torrente in piena durante il rafting. In questo caso la nostra forza di volontà sarà impegnata a cedere all’aspirazione, rendendo più agevole e sostenibile lo sforzo. Per capire cosa si prova, scegliete un’aspirazione. Immaginatela come un oggetto separato ed esterno a voi, un obiettivo lontano che vi affannate a raggiungere. La sentite la fatica? Ora immaginate la stessa aspirazione come uno scopo già presente dentro di voi, una forza che vi solleva, vi dà energia e vi porta con sé. È una sensazione ben diversa. Usate le fasi del processo PACE per interiorizzarla. Scegliete altre aspirazioni, e per ciascuna assimilate il senso di leggerezza e di esultanza che deriva dal lasciarsi trascinare. Arricchite e assorbite queste esperienze, affinché tale approccio all’aspirazione diventi una seconda natura. FATE LA VOSTRA OFFERTA Molti aspetti del nostro modo di amare, lavorare e giocare sono una sorta di offerta agli altri. Pensate a tutto ciò che date in casa, sul lavoro, agli amici, agli estranei e al mondo. Noi tutti doniamo moltissimo ogni giorno, anche se sul momento non ce ne rendiamo conto. Vista in questa prospettiva, la vita ci appare più semplice, più leggera, più coinvolgente. Persino i gesti più ordinari e banali assumono nuovo significato e valore. La tensione si allevia. E, invece di preoccuparci del comportamento altrui, ci concentriamo sul nostro. Io l’ho imparato molti anni fa, parlando con un amico. Stava seguendo l’apprendistato per diventare monaco in un centro buddista di San Francisco, e presto avrebbe dovuto tenere il suo primo sermone. Per lui l’evento era importantissimo, sacro. Io, però, avevo letto sul giornale che buona parte del pubblico nel suo centro era costituito da senzatetto: persone in cerca di riparo e calore, non di illuminazione spirituale. Perciò, tra lo scherzo e la provocazione, gli chiesi se non fosse una perdita di tempo preoccuparsi tanto di un discorso destinato a gente che non lo avrebbe nemmeno ascoltato. Il mio amico mi guardò perplesso. Sedevamo l’uno di fronte all’altro, e lui fece il gesto di deporre qualcosa ai miei piedi. «Il mio compito è fare un’offerta» disse. «Mi impegno a preparare un buon sermone, magari inventando una battuta o un aneddoto per tenere vivo l’interesse. Ma la mia parte finisce qui. Il resto è fuori dal mio controllo. Ciò che il destinatario farà della mia offerta dipenderà da lui.» Il tono non era freddo o supponente, come se la reazione degli altri lo lasciasse indifferente, ma calmo e realistico. E proprio il fatto di non cercare di imporsi all’apprezzamento degli altri gli dava maggiori possibilità di entrare davvero in sintonia con loro. Ripensate all’esempio del mio melo in giardino. Possiamo scegliere un alberello robusto, piantarlo nel luogo adatto e annaffiarlo nel corso degli anni, ma non costringerlo a dare frutti. Possiamo avere cura delle cause, non controllare i risultati. La nostra parte consiste nell’offerta. SIATE CONSAPEVOLI DI COSA OFFRITE È facile perdere di vista ciò che davvero vogliamo offrire, soprattutto nelle situazioni complesse o nei rapporti interpersonali. Magari ci lasciamo condizionare da ciò che gli altri vorrebbero da noi, o continuiamo per inerzia a interpretare un ruolo già acquisito. Perciò è utile distinguere con lucidità i nostri veri doveri, compiti, impegni o scopi con una data persona o in una certa circostanza da ciò che invece non ci compete. Per esempio, diventando genitori, io e mia moglie Jan abbiamo dovuto stabilire chi dei due si sarebbe occupato di cosa. Io ho l’abitudine di scrivere elenchi di ciò che devo fare, e questa pratica mi ha aiutato molto a sviluppare una sorta di definizione mentale del mio ruolo di marito e di padre. In questo modo sapevo ogni giorno quali fossero le mie incombenze specifiche, e non dovevo preoccuparmi in continuazione di trascurare qualcosa. Potrà sembrarvi un approccio un po’ meccanico, ma nella pratica rende tutto più naturale, informale e flessibile – e infinitamente più chiaro e liberatorio. Si prova un gran senso di pace sapendo di aver fatto la propria parte, e che tutto il resto non ci riguarda. Poniamo che abbiate a che fare con un figlio adolescente, un partner o un altro famigliare. Quali sono le vostre responsabilità nei loro confronti, e cosa invece dipende da loro? Con un figlio adolescente, per esempio, potreste decidere che è vostro dovere insistere affinché finisca i compiti, magari aiutarlo a studiare, stabilire delle punizioni se salta le lezioni. Ma solo lui può effettivamente imparare. A un partner potete offrire amore, attenzione e affetto, ma, per quanto possa farci soffrire, spetterà a lui ricambiare il vostro amore. Spesso ci lasciamo ossessionare dal tentativo di manipolare la scatola nera dentro la mente degli altri, per indurli a pensare, sentire o amare in un certo modo. È una fonte di frustrazioni e conflitti enormi. Potete esprimere un’opinione o una raccomandazione, spiegare le vostre ragioni. Questa è la vostra offerta. La decisione su cosa farne è una prerogativa dell’altro. Soprattutto non possiamo rendere felice nessuno, nemmeno i nostri figli. Capita spesso di sentirci responsabili dell’umore o dello stato d’animo di alcune persone specifiche, in particolare i membri della nostra famiglia. Certo, possiamo prendere misure ragionevoli, da un semplice «Come stai?» all’iniziativa di portare un bambino da un terapista. Ma, per quanto possa spezzarci il cuore, spetta all’altro decidere se accettare o respingere la nostra offerta. Oppure immaginate di dovervi occupare di un progetto di lavoro. Stabilite tutto ciò che potete e dovete fare… e poi tracciate un confine. Questa è la vostra offerta. Vale anche per la carriera in generale: il vostro compito è essere presenti, preparati, disponibili ad apprendere e a dedicare il tempo, la costanza e l’impegno necessari. Una volta accertato di non aver trascurato nulla di ciò che vi compete, successo e fallimento saranno determinati da innumerevoli altri fattori esterni al vostro controllo. Potete presentare al meglio un prodotto, ma non costringere il cliente a comprarlo. Potete aprire un negozio, ma non imporre alla gente di entrarci. Non permettete alla preoccupazione di ciò che non dipende da voi di ostacolarvi nella cura di ciò che ogni giorno è alla vostra portata. TROVATE UN TERRENO FERTILE A volte la nostra offerta è come un seme gettato su un terreno roccioso. Riflettete sulle vostre attività e i vostri rapporti, e interrogatevi sulla presenza di uno o più di questi indicatori di terreno poco fertile: dare a un amico più di quanto ricevete; fare sforzi estremi per tenere a galla un’impresa; aiutare persone che non desiderano essere aiutate; ogni sforzo di migliorare le cose le peggiora; scegliere sempre lo stesso tipo di persona aspettandosi risultati diversi; impegnarsi con tutte le forze e ottenere soltanto briciole; l’impressione di parlare a vuoto; curare i sintomi senza affrontare la malattia o la disfunzione. Quando riversate tutte le vostre energie in qualcosa che non dà i frutti sperati, potete sentirvi tristi o delusi. Magari vorreste continuare a impegnarvi, nella speranza che prima o poi la situazione cambierà. Non è escluso che funzioni, ma in genere a svelarci qualcosa sul futuro è proprio il passato. Scavate dentro di voi: forse in cuor vostro sapete già che le cose non miglioreranno. Esiste una forma sana di disincanto, è come riscuotersi da un sortilegio. Abbiamo tutti molti doni e talenti, ma il tempo a nostra disposizione è limitato. Sforzarsi di coltivare rose sul cemento è una fatica ingrata che altrove potrebbe dare risultati migliori, per voi e per gli altri. Pensate ai rapporti, alle situazioni o alle attività che potrebbero offrirvi un terreno più fertile. Non cercate garanzie, ma maggiori probabilità di successo. Spesso il nostro intuito ci aiuta, suggerendo: «Prova questo». Riflettete sul vostro temperamento, i vostri talenti innati, la vostra natura profonda: chi potrebbe trarre un vero vantaggio dai vostri doni? In quali circostanze o attività dareste il meglio di voi? Quale tipo di persona tende sempre ad apprezzarvi? In quali contesti siete più a vostro agio? Ripensate a un periodo della vostra vita in cui vi siete sentiti davvero realizzati. Magari le settimane estive che eravate soliti trascorrere nella fattoria della zia, uno spettacolo allestito a scuola, un discorso tenuto a un convegno di lavoro, un’appassionata lettera di protesta scritta a un giornale. Oppure un’esperienza di guida con i boy scout, un’analisi finanziaria, il lavoro in un maneggio, il volontariato per i senzatetto, la realizzazione di un sito web. Una volta che avete identificato l’esperienza giusta, analizzatela nel dettaglio. Quali aspetti l’avevano resa tanto soddisfacente? Ora riflettete sul modo di sviluppare quelle stesse caratteristiche nei rapporti, nelle situazioni o nelle attività del presente, per contribuire a renderli terreni più fertili per voi. Riflettete anche sull’ipotesi di una nuova relazione, situazione o attività più adatta a voi: che vi aiuti a crescere e a realizzarvi, che vi lasci spazio per respirare e fiorire. Se è giusto augurare terreno fertile a vostro figlio o a un amico, allora è legittimo ricercarlo anche per noi stessi: per la vita preziosa, selvaggia e unica a nostra disposizione. CONCETTI CHIAVE Da giovani coltiviamo tutti speranze e sogni per il futuro. Cosa ne è stato dei vostri sogni di allora? Noi ci allontaniamo dai nostri sogni per diversi motivi, ma spesso la causa è la paura di vivere un’esperienza terribile. Immaginate quanto più vasta sarebbe la vostra esistenza se decideste di correre il rischio. Individuate il meraviglioso punto di intersezione tra le tre circonferenze: i vostri gusti, i vostri talenti, i vostri valori. Una giornata potrà sembrarvi lunga, ma gli anni volano. Vivete fino in fondo il tempo a vostra disposizione. Puntate in alto rimanendo neutrali sui risultati, sviluppate una mentalità di crescita, sappiate che non c’è niente di male a fallire, e non prendetevela troppo quando accade. Offrite ciò che potete, sapendo che il resto non dipende da voi. GENEROSITÀ Chi dona vedrà crescere la sua virtù. DĪGHA NIKĀYA Com’è tipico di tanti bambini, da piccolo Forrest andava matto per i dolci. Una sera, quand’era all’asilo, lo portammo al ristorante, e al momento del conto il cameriere gli regalò un grosso leccalecca. Al tavolo accanto, una coppia anziana lo osservava con aria divertita, e per scherzare l’uomo allungò una mano e chiese: «Me lo regali?». Ci aspettavamo tutti che Forrest rifiutasse categoricamente di cederlo. Invece guardò lo sconosciuto per qualche secondo… e gli tese il suo leccalecca. L’uomo restò di stucco. Poi rivolse a Forrest un gran sorriso e disse: «Mille grazie davvero, ma ho cambiato idea. Te lo lascio». Gli altri avventori che avevano seguito la scena si abbandonarono a un «Oooh» collettivo. Si era trattato di un episodio di poco conto, il piccolo gesto di un bambino in un ristorante affollato, ma la generosità di Forrest aveva commosso tutti. A prima vista la generosità sembra più una virtù che una risorsa mentale, ma in realtà ci rafforza, perché consolida dentro di noi un senso di pienezza costante e ci mette in sintonia con gli altri. È un comportamento che attiva un circolo virtuoso: la generosità verso gli altri è un dono per noi, perché ci permette di dare ancora di più. Abbiamo già esplorato molti modi di colmare la nostra coppa, acquisendo ricchezze per riempire anche quella degli altri – le loro mani e i loro cuori. In questo capitolo affronteremo innanzitutto le tecniche per riconoscere e allargare la generosità quotidiana. Poi analizzeremo il giusto equilibrio tra compassione ed equanimità, che vi permette di donare agli altri senza esaurire le vostre risorse. Infine ci occuperemo di uno dei doni più importanti e difficili: il perdono verso gli altri e verso voi stessi. Concluderemo con la manifestazione più straordinaria della generosità: allargare la cerchia del «noi» per includere un numero sempre maggiore di «loro». DONI QUOTIDIANI L’essenza della generosità risiede nell’altruismo, cioè dare senza aspettarsi nulla in cambio. Come abbiamo visto nel capitolo sulla sicurezza, è raro in natura, per il rischio che gli altri se ne approfittino. La grande eccezione alla regola è la nostra specie, l’Homo sapiens. Con l’evoluzione, le capacità sociali dei nostri antenati si erano dotate di radar sempre più accurati per riconoscere e punire gli scrocconi. Al tempo stesso, la generosità di un individuo – la disponibilità a condividere il proprio cibo e a unire le forze contro un aggressore – incrementava la probabilità di sopravvivenza dei compagni che condividevano il suo patrimonio genetico. Perciò la tendenza all’altruismo fu tutelata e favorita, diventando parte integrante del nostro DNA. Da molti punti di vista potremmo definirci Homo beneficus: l’umano generoso. Oggi la generosità è tutt’intorno a noi: nel barattolo delle mance sul bancone di un bar, nelle raccolte di beneficenza, ma anche nei doni non finanziari. Pensate a quante volte in un giorno normale donate attenzione, pazienza, aiuto o incoraggiamento: consolate un collega che ha avuto una giornata difficile, raccogliete un rifiuto dal marciapiede, organizzate un evento scolastico. Nei confronti dei bambini, dei parenti, degli amici o del partner siete disponibili a compiere veri e propri sacrifici, soddisfacendo le loro esigenze a discapito delle vostre. Questo non significa che si debba cedere alle pressioni, lasciarsi sfruttare o manipolare. La generosità forzata danneggia voi e gli altri, che perdono l’opportunità di fare un uso migliore dei vostri doni. Acquisita la sicurezza di sapersi proteggere dagli eccessi, siamo liberi di dare ancora di più. Perciò sentitevi autorizzati a cambiare qualcosa in un rapporto sbilanciato e donate in modo consapevole, senza subire pressioni. Ciò che date non viene sminuito da ciò che non date o che ricevete dagli altri. Nel corso di una giornata soffermatevi a notare alcuni dei tanti doni che fate al prossimo. Avvertite ciò che provate, e lasciate che il senso di generosità vi pervada. Cercate di riconoscere la vostra disponibilità e il vostro altruismo, e sperimentate l’emozione che vi suscitano: l’apertura, la fiducia, l’amore. La felicità che si prova nel dare aiuta a fare di più. Per questo soffriamo quando non possiamo donare ciò che abbiamo da offrire: l’amore che non possiamo esprimere, un talento che non abbiamo modo di mettere a frutto. La tristezza di molte persone deriva dalla convinzione di non avere un ambito cui dare un contributo. È importante trovare canali in cui lasciar fluire i nostri doni, soprattutto quelli all’apparenza più banali e quotidiani. È straordinaria la facilità con cui possiamo arricchire l’esistenza degli altri, anche soltanto con un piccolo complimento o prestando ascolto un po’ più a lungo del solito. Concentratevi su una persona della vostra vita e trovate nuovi modi per dimostrarvi comprensivi o disponibili; prendete coscienza di ciò che provate e dell’effetto che suscitate nell’altro. Pensate a un amico, a un famigliare o a un collega. C’è qualcosa che vi sentireste di dare – una dimostrazione di affetto, un aiuto pratico, un’offerta di scuse – e ancora non avete osato farlo? Forse avete buone ragioni per trattenervi. Ma a volte siamo così concentrati su ciò che vorremmo dare – preoccupandoci della reazione dell’altro, rimuginando su ogni minimo dettaglio o aspettando in eterno il momento giusto – da intralciarci da soli. Provate a distogliere l’attenzione da voi stessi per concentrarla sull’altro: di cosa ha davvero bisogno? Che cosa gli manca? Soffre? E, se sì, in che modo potreste alleviare il suo dolore? COMPASSIONE EQUANIME La parola «compassione» deriva dal latino e significa «soffrire con». Il cuore dell’essere umano ha la capacità di provare la sofferenza altrui come se fosse propria. Ma come partecipare al dolore degli altri senza sentirci travolti o invasi, o rischiare il burnout? Per sostenere la compassione serve l’equanimità, una sorta di ammortizzatore tra il nucleo della nostra identità profonda e ciò che attraversa la nostra consapevolezza. Alcune esperienze sono «prime frecce», per esempio il sentimento della sofferenza altrui. L’equanimità impedisce che diventino «seconde frecce», prevenendo il rischio della reattività da zona rossa. Conserva la nostra lucidità rispetto al quadro generale, permettendoci di vedere il dolce insieme all’amaro, e le molte cause – in gran parte impersonali – all’origine di quella sofferenza. Come esempio, una mia insegnante citava l’esperienza di un viaggio in barca lungo il Gange. Era l’alba, e i primi raggi del sole illuminavano di rosa le torri sulla sponda sinistra e il fumo delle pire funerarie su quella destra. Diceva che bisogna sviluppare un cuore abbastanza grande per contenere entrambi questi aspetti della vita, e abbastanza saggio per mantenerli in equilibrio. Restando equanimi potremo partecipare al dolore del prossimo senza lasciarci travolgere, e dunque senza chiuderci in un atteggiamento difensivo. In queste pagine abbiamo esplorato molti modi per sviluppare l’equanimità in generale. Per associarla alla compassione, aiuta restare centrati nel proprio corpo, prendendo coscienza della sensazione del respiro quando avvertiamo il dolore dell’altro. Riflettete sul fatto che la sofferenza è parte di una vasta rete di cause ed effetti; non per giustificarla o sminuirla, ma per osservare il quadro più ampio con spirito di accettazione e comprensione. Sperimentate ciò che si prova lasciandosi toccare nel profondo dal prossimo, ma conservando al tempo stesso la stabilità interiore di una consapevolezza imperturbabile. Lasciate che questa sensazione vi pervada, in modo da poter attingere alla sua calma in futuro. Di fronte all’enormità delle sofferenze umane potreste sentirvi sopraffatti da un senso di disperazione e impotenza. Se vi accade, potrebbe essere utile compiere un gesto di aiuto, perché l’azione placa l’angoscia. Un apologo racconta di due persone che, passeggiando su una spiaggia, si trovarono davanti migliaia di stelle marine agonizzanti, portate a riva dalla marea. Senza smettere di camminare, uno dei due cominciò a chinarsi e a raccoglierle per ributtarle in mare. Dopo un po’ l’altro gli disse: «Sono troppe. Il tuo gesto non cambia niente». Lui rispose: «Cambia per quelle che raccolgo». Pensate alle persone che vi circondano, comprese quelle che conoscete solo di vista. C’è qualcuno per cui un vostro gesto potrebbe fare la differenza? Anche le piccole cose possono esercitare un grande impatto. Considerate tutte le creature viventi, umane e non, e chiedetevi se qualcuna vi sta rivolgendo un appello. Prestando ascolto e intervenendo alleggerirete il vostro carico, opponendo al senso di impotenza la certezza di aver restituito un’altra stella marina al mare. Riflettete anche su quanto avete fatto per gli altri in passato o state facendo adesso. Immaginate il vostro aiuto come un sasso gettato nell’acqua, che irradia centri concentrici sempre più vasti e misteriosi. Accogliete nella vostra consapevolezza entrambe le verità – la coscienza di aver donato qualcosa e quella della vasta sofferenza che continua a esistere –, affinché l’una aiuti il vostro cuore a rimanere aperto all’altra. PERDONARE GLI ALTRI E VOI STESSI Poniamo che abbiate subito un torto o un’ingiustizia, o che li abbiate commessi nei confronti di un altro. Ne avete preso coscienza e avete gestito le conseguenze. E adesso? Se ve la sentite, provate a ricorrere alla generosità del perdono. LA PIENA AMNISTIA Esistono due tipi di perdono. Il primo è la piena amnistia. Il passato viene cancellato e si ricomincia da zero. Niente risarcimenti, castighi o compensazioni. Potete continuare a giudicare sbagliato, immorale o criminoso l’accaduto, ma provate benevolenza o persino affetto per il responsabile. L’ingranaggio della giustizia proseguirà per la sua strada, ma nel vostro cuore non coltivate alcun rancore o risentimento. Comprendete le forze che hanno spinto il «colpevole» a comportarsi in quel modo, tenete nel giusto conto i suoi lati buoni e umani e siete disposti a offrirgli una seconda possibilità. Il perdono in ogni sua forma è un gesto unilaterale, una scelta personale, ma è anche condizionato dalla reazione dell’altro. È più facile perdonare chi ammette le proprie colpe, si dimostra pentito, cerca di rimediare o si impegna concretamente per evitare di ricascarci. A volte, però, sebbene l’altro abbia messo in atto tutti questi comportamenti, a voi non sembra giusto concedergli la piena amnistia. Magari non esiste pentimento in grado di cancellare ciò che vi ha fatto. Oppure lo ritenete possibile in futuro, ma non adesso. Forse siete sotto shock, la ferita è ancora aperta e il dolore troppo intenso. Magari volete prendervi un po’ di tempo per accertarvi che l’altro non vi stia manipolando, implorando il vostro perdono… per poi trattarvi di nuovo nello stesso identico modo. Oppure per essere sicuri di non accelerare i tempi perché sono gli altri a insistere, magari spingendovi a lasciar correre e sminuendo la gravità di ciò che avete subito. Quale che sia il motivo, a volte la piena amnistia non è proprio possibile, anche se voi stessi sentite il bisogno di passare oltre, per smettere di rivangare l’accaduto e di riviverne di continuo il dolore e la rabbia. PERDONO SENZA COINVOLGIMENTO In questo caso torna utile il perdono senza coinvolgimento. Questo tipo di perdono non cancella il torto, non prevede né comprensione né un ritorno al rapporto precedente. L’asticella è molto più bassa. La persona che decidete di perdonare potrebbe persino negare di avervi fatto del male, o incolpare voi dell’accaduto. In ogni caso voi non siete più coinvolti: avete chiuso con l’evento e girato pagina. È un modo per affrontare la situazione in modalità ricettiva – la zona verde – a prescindere dall’atteggiamento dell’altro. Il perdono senza coinvolgimento vi permette anche di chiedere una compensazione o di imporre un castigo, ma per senso di giustizia, non per rancore o vendetta. Affrontate le conseguenze del torto subito come una prima freccia, senza aggiungerne una seconda: recriminazioni, risentimenti, o il bisogno che amici e parenti si schierino dalla vostra parte. La decisione di limitare, ridimensionare o mettere fine al rapporto con il responsabile deriva dalla necessità di proteggervi, non dalla volontà di ferirlo. Il ricordo del torto potrebbe ancora farvi soffrire, ma la vostra attenzione non torna a battere di continuo sul tasto dolente. Non portate il peso dell’ingiustizia subita sulle spalle. A volte si concede il perdono senza coinvolgimento e con il tempo si approda alla piena amnistia, ma non è detto che debba accadere per forza. Se immaginiamo il perdono come una casa a due piani, sapere che non siamo costretti a salire la scala che porta al piano superiore (la piena amnistia) ci facilita l’ingresso al pianterreno. LE BASI DEL PERDONO Entrambe le forme di perdono si basano su tre condizioni fondamentali. Primo: i tempi devono essere maturi. Il processo segue le stesse fasi teorizzate da Elisabeth Kübler-Ross per l’elaborazione del lutto: Negazione. «Non riesco a credere che sia accaduto.» Rabbia. «Come hai osato trattarmi in quel modo?» Negoziazione. «Senti, ammetti di aver sbagliato e non parliamone più.» Depressione. «Mi sento triste, ferito e frustrato.» Accettazione. «Quel che è accaduto è stato brutto, ma è andata così, e adesso voglio passare oltre.» L’ultima fase segna il passaggio verso il perdono attivo. Quando ci arrivate, usate il processo PACE per radicarla in voi. Secondo: serve la verità. Non si può perdonare senza aver definito con chiarezza l’evento, il suo impatto su di voi e sugli altri, i sentimenti profondi che vi ha suscitato. Sulla base dei vostri valori personali, domandatevi: «Qual è stato il torto, e perché lo considero tale?». Giudicate i fatti dalla vostra prospettiva, ma in modo obiettivo, senza sminuirli o ingigantirli. Abbiate compassione per l’effetto che hanno prodotto su di voi. In altre parole, ditevi la verità. Se lo desiderate, potete anche esprimerla (in parte o per intero) con persone terze. Quando subiamo un’ingiustizia, la certezza che qualcuno sta dalla nostra parte – testimoni diretti o indiretti dell’accaduto e disposti a vederlo dal nostro punto di vista – ci rassicura e aiuta a consolarci e a riprenderci, anche quando il fatto in sé è irreparabile. Apritevi alla comprensione e alla cura di chi vi circonda, ricevetele e assorbitele come un unguento lenitivo. Se ve la sentite, potreste parlare anche con la persona che volete perdonare, e in questo vi saranno utili i metodi illustrati nei capitoli dedicati all'intimità e al coraggio. Quando avrete spiegato l’accaduto e il suo impatto su di voi è possibile che l’altro ci rifletta e vi chieda scusa in modo sincero. Se però incontrate una resistenza, con giustificazioni e controaccuse, chiedetevi: «Che cosa voglio dire per il mio bene?». Lo scopo non è persuadere o cambiare l’altro: questo esula dalla vostra sfera di influenza. Il vostro fine è stabilire un fatto, esprimervi con libertà e senza paura, e prendere posizione per voi stessi – tutti fattori che possono contribuire al perdono. Terzo: riconoscere il costo di un perdono negato. Ogni volta che mi sono rifiutato di perdonare qualcuno, l’ho pagata in risentimento e amarezza, sensazioni che hanno danneggiato me e gli altri. Il ritornello dell’ingiustizia subita può diventare un tormento nei rapporti interpersonali. SCIOGLIERSI DAL COINVOLGIMENTO Poste queste basi, quando vi sentite pronti, passate al perdono senza coinvolgimento. Ecco alcuni metodi efficaci. Scegliete di perdonare Prendete la decisione chiara e lucida di perdonare. Cercate di restare concentrati sui benefici che questo gesto porterà a voi e agli altri. Attivate la mindfulness per prendere coscienza delle gratificazioni occulte – quelli che gli psicologi chiamano «guadagni secondari» – che vi tengono ancorati al rancore, come il compiacimento dell’indignazione. Assumete il punto di vista dell’altro Senza sminuire le colpe dell’altro, cercate di vedere le cose dal suo punto di vista. Che cosa l’ha spinto ad agire così? Magari i suoi valori e standard sono diversi dai vostri, e quello che ai vostri occhi è una mancanza gravissima per lui ha meno importanza. Potete continuare a credere nei vostri valori e al tempo stesso riconoscere che gli altri potrebbero averli violati in buona fede. Inoltre è possibile che in quel momento la persona in questione fosse affamata, stanca, malata, agitata o stressata. Forse aveva appena ricevuto una notizia terribile. Oppure non era proprio in grado di comportarsi meglio di come ha fatto. Prendere in considerazione questi fattori non giustifica un comportamento sbagliato, ma permette di capirlo più a fondo per accedere alla pace mentale. Assumetevi la responsabilità della vostra esperienza Gli altri sono responsabili del proprio comportamento, ma la nostra reazione dipende da noi. Se dieci persone di parti diverse del mondo avessero subito il vostro stesso torto, è probabile che ciascuna l’avrebbe percepito a suo modo. Questo non significa che le nostre reazioni siano sbagliate. Si tratta solo di riconoscere che sono plasmate dalla nostra mente. Ammetterlo non toglie validità alla vostra esperienza personale, ma vi permette di valutare la situazione con maggiore leggerezza e di prendere le distanze. Stabilite il da farsi A seconda di ciò che vi è accaduto, potreste decidere di scrivere una lettera, di non partecipare a un evento di famiglia, di rivolgervi a un avvocato, di smettere di confidarvi con qualcuno, di cambiare idraulico o semplicemente di attendere l’evoluzione degli eventi. Gli altri penseranno a sé; voi concentratevi a decidere per voi stessi. Stabilire un piano d’azione e sapere di averlo, e di non essere inermi, vi permetterà di ritrovare la calma e l’equilibrio, facendo spazio per il perdono. Liberatevi dai pensieri negativi Il perdono senza coinvolgimento non esclude la chiusura dei rapporti, e nemmeno un’azione di giustizia. Ma presuppone l’assenza di sentimenti ostili o vendicativi. Per liberarvene, prendete coscienza della sensazione fisica del rancore, e poi usate la tecnica dell’espirazione prolungata, immaginando di espellere il risentimento con il respiro. Visualizzatelo come un macigno che lasciate cadere a terra. Potete anche raccogliere un sasso e scagliarlo lontano. Oppure scrivere una lettera – magari in cui riversare amarezza, accuse e rabbia – e poi strapparla, bruciarla e gettare le sue ceneri al vento. Usate la fase di elasticità del processo PACE per servirvi delle esperienze positive come antidoto per la negatività. Un metodo molto potente per spingere il rancore ai margini della consapevolezza è evocare la presenza di tutte le persone che vi vogliono bene. Avvertite il senso di liberazione e perdono fino in fondo, per assaporarne ogni aspetto. Immergetevi nell’esperienza, arricchitela, lasciate che vi riempia la mente, percepitela con il corpo, individuatene i lati nuovi o sorprendenti, riconoscetene il valore e la rilevanza nella vostra vita personale. Sentite il perdono che vi pervade e concentratevi sulle sue emozioni più positive. Respirate a fondo e affrancatevi dal coinvolgimento. CONCEDERE LA PIENA AMNISTIA Molti anni fa, quando i miei figli erano piccoli, l’albero del vicino si abbatté sul nostro giardino e sfondò la staccionata. Noi chiedemmo al vicino di occuparsene e lui promise di farlo, ma poi passarono settimane e mesi senza che accadesse nulla. Gli facevo presente il problema, lui sorrideva e annuiva, ma continuava a rimandare, e intanto io sentivo crescere la rabbia. Il mio rancore, però, non aiutava né me né la mia famiglia, così cominciai a concentrarmi sul perdono senza coinvolgimento. «È soltanto un albero caduto» mi dissi. «La nostra casa è indenne e tutti noi siamo illesi.» Non era proprio il caso di aggravare il problema con il risentimento. Poi stabilii il mio piano d’azione, compresa una lettera educata ma ferma, in cui informavo il vicino che la mia compagnia assicurativa si sarebbe messa in contatto con lui. Il giorno dopo la consegna della lettera (e cinque mesi dopo il fatto), il vicino chiamò un’impresa che sgomberò l’albero dal nostro giardino. I nostri rapporti, però, non si erano ristabiliti. Serviva un passo in più: la piena amnistia. Così mi concentrai a pensare al nostro vicino come a un essere umano, non come a una caricatura monodimensionale («Quel cretino»). Era un signore anziano che viveva da solo in una casa cadente, con il prato secco e invaso dalle erbacce, e non riceveva mai visite da nessuno. Ricordai che gli piacevano i procioni, e che spesso lasciava in giardino del cibo per loro. E che a Halloween, quando i nostri bambini bussavano alla sua porta, li copriva di caramelle. Con ogni evidenza era una brava persona, e magari aveva rimandato la faccenda dell’albero per problemi economici, per una malattia o per semplice vecchiaia. Provai compassione per lui, e compresi i molti fattori che potevano aver ritardato la soluzione del problema. Rammentai il suo tentativo impacciato di chiedere scusa, e mi vergognai di me stesso per averlo liquidato in malo modo. Visualizzai l’albero dallo spazio: solo un granello microscopico nell’economia generale del cosmo. E sentii tutto il peso morale dell’insegnamento del Buddha: «Alcuni non si rendono conto che un giorno tutti dovremo morire. Ma chi ne prende coscienza si impegna nella riconciliazione di ogni controversia». Così, grado per grado, raggiunsi il livello della piena amnistia, e ristabilii i rapporti di buon vicinato. La morte del nostro vicino, avvenuta qualche anno dopo, mi suscitò una tristezza sincera, insieme al sollievo di aver fatto in tempo a riconciliarmi con lui. Quell’esperienza mi aveva insegnato alcune lezioni preziose. Guardate la persona nella sua interezza Quando siamo scioccati, feriti o arrabbiati, è facile ridurre l’altro soltanto al gesto terribile che ha compiuto. Ma un essere umano è molto di più, è la somma delle sue buone intenzioni, delle mille esperienze della sua vita, delle sue speranze e dei suoi sogni. Prendendo coscienza dell’intero sarà meno difficile perdonare la parte. Tutti soffriamo, anche le persone che ci feriscono. Tener conto del loro dolore, dei loro lutti e stress non cancella e non giustifica il torto che ci hanno inflitto, ma provare compassione per il peso che portano sulle spalle aiuta a perdonare quello che hanno scaricato sulle nostre. Come scrisse Henry Wadsworth Longfellow: «Se potessimo leggere la storia segreta dei nostri nemici, noi troveremmo nella vita di ciascuno dispiaceri e sofferenze tali da disarmare tutta la nostra ostilità». A volte riceverete una richiesta di scuse diretta e sincera. In altri casi il responsabile non ammetterà il suo sbaglio, ma rivelerà con l’atteggiamento la consapevolezza di aver sbagliato. Per quanto impliciti e imperfetti, cercate di apprezzare gli sforzi di riaprire le comunicazioni, di ricucire gli strappi e di meritare il vostro perdono. Assumete una visuale più ampia Collocate l’accaduto nel contesto completo della vostra vita, compresi i tanti rapporti con gli altri e le vostre varie attività. Pensate ai molti minuti e agli anni e alle parti della vostra vita che l’accaduto non ha nemmeno scalfito. Assumete una prospettiva ancora più vasta, cercando di vederlo come un vortice di eventi determinato da una miriade di fattori, come un mulinello d’acqua in un grande fiume di concause. All’inizio potrà sembrarvi una prospettiva astratta, ma presto riconoscerete la verità di questa visione: ogni evento è immerso in una moltitudine di accadimenti e cause in costante mutamento. Comprendere questa visione e sentirla appieno vi indurrà in modo naturale a liberarvi del rancore, mettendovi sulla via della piena amnistia. PERDONARE SE STESSI Per molti è più facile perdonare gli altri che se stessi. La compassione, il senso delle proporzioni, la visione della persona nella sua interezza, l’abbandono delle emozioni negative, la possibilità di ricominciare da zero: come si può donare tutto questo a se stessi con la medesima indulgenza che riserviamo agli altri? Il primo passo è assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Ammettetele fino in fondo, a voi stessi e magari con un altro. È difficile perdonare qualcuno se continua a sostenere di non aver fatto nulla di male. In modo analogo, è impossibile perdonare se stessi se non si riconosce la propria colpa. Accettare ciò di cui si è responsabili significa prendere coscienza – tra sé e, se necessario, con l’altro – di ciò di cui non si è responsabili. Se per esempio in una scala da 0 a 10 il mio gesto ha gravità 3, posso assumermene la responsabilità sapendo che ogni reazione da 10 era sproporzionata ai fatti. Riconosciuta la vostra colpa, apritevi a un giusto senso di rimorso. La misura del «giusto» dipenderà da voi, in proporzione a ciò di cui siete responsabili. Se il gesto è di gravità 3, 3 sarà anche la giusta entità del rimorso – non 4, né tantomeno 10. Sperimentate la sensazione del rimorso, lasciandola scorrere dentro di voi. A volte si attiva una spirale in cui un primo strato ne libera un secondo… poi un altro… e un altro ancora… fino ai livelli più profondi del nostro essere. Sperimentare a fondo il rimorso crea uno spazio in cui diventa possibile perdonarsi. Nel contempo, sforzatevi di offrire una riparazione e fate del vostro meglio per rimediare. Se possibile aggiustate il guasto, impegnatevi a compensare e ad agire con integrità in futuro. L’altro potrebbe respingere i vostri tentativi di riconciliazione o dubitare della vostra sincerità, ma se continuate a dar prova delle vostre buone intenzioni con il tempo potrebbe arrivare al perdono senza coinvolgimento, o addirittura alla piena amnistia. Il punto, però, non è fare bella figura o conquistare l’approvazione altrui. Vi comportate così perché è la cosa giusta da fare. Riflettete anche sulle cause più vaste delle vostre azioni. Mentalmente, per iscritto o parlandone con qualcuno, indagate i modi in cui il vostro comportamento rispecchia la vostra storia personale, la vostra cultura, il vostro stato di salute, il vostro temperamento, i modelli offerti dai vostri genitori o altre persone, le tensioni e gli stress cui siete sottoposti, e la vostra vita immediatamente prima del vostro gesto. Considerate l’evoluzione del vostro cervello e l’influenza sulle vostre azioni della lucertola, del topino e della scimmia (metaforici) che vivono dentro la vostra testa. Risalite alle fonti del fiume di concause che ha determinato il mulinello del vostro comportamento… i vostri genitori, i vostri nonni e bisnonni, e i secoli e i millenni che li hanno preceduti. È una visione delle cose che ci dà il senso della nostra pochezza e al tempo stesso ci libera. Se le mie azioni sono il risultato di così tante forze, allora non possono essere soltanto colpa mia. E, per quanto grave, il mio torto è soltanto una particella minuscola del vasto quadro generale. Se possibile, chiedete perdono. Potrà sembrarvi rischioso o mortificante, ma di solito parlare dal cuore apre anche il cuore dell’altro. Se non potete farlo direttamente con la persona implicata, rivolgetevi ai suoi cari, o ai vostri. Immaginate che gli amici, i parenti e altre persone importanti nella vostra vita (compresi i defunti) siedano intorno a voi e vi concedano il perdono. Se siete religiosi, chiedete il perdono di Dio. E infine perdonate voi stessi. A mente o ad alta voce, ditevi: «Ti perdono». Oppure scrivetevi una lettera. A me è capitato spesso di dirmi: «Rick, l’hai combinata grossa. Hai davvero ferito quella persona. Però poi ti sei assunto le tue responsabilità, ti sei pentito, hai fatto il possibile per rimediare e ti stai impegnando a non ricascarci. Perciò ti perdono». Trovate le parole più adatte a voi, e nel pronunciarle sperimentate a fondo il senso di liberazione e sollievo che vi pervade. Concedetevi una seconda possibilità. Offritevi il dono della piena amnistia. ALLARGARE LA CERCHIA DEL «NOI» Nella vita quotidiana, distinguiamo di continuo le persone in due categorie: i miei simili e i diversi, quelli che appartengono al nostro gruppo (per genere, nazionalità, religione o fede politica) e gli estranei, «noi» e «loro». Gli studi dimostrano che tendiamo a essere generosi con chi appartiene alla prima cerchia e critici, indifferenti o ostili con i membri della seconda. Il conflitto «noi» contro «loro» si manifesta nelle famiglie, a scuola, in ufficio, in politica, nelle guerre «fredde» e «calde». Noi siamo creature tribali, plasmati da un’evoluzione di milioni di anni che ci ha resi collaborativi rispetto ai membri del nostro clan e diffidenti e aggressivi con gli estranei. Pensate agli «altri» della vostra vita: i parenti antipatici, le persone di un’altra razza o credo, i vostri avversari politici. Nell’immaginarli, prestate attenzione alla vostra reazione, notando l’insorgere di ogni sintomo di timore, ansia o sospetto. Sul piano individuale, classificare un gruppo intero di persone come «altro» produce tensioni, blocca le opportunità di amicizia e collaborazione e alimenta i conflitti. Per l’umanità nel suo complesso, la dinamica del «noi» contro «loro» poteva andare bene nell’Età della pietra, ma in un mondo con miliardi di persone interconnesse i danni inflitti agli altri finiscono sempre per ricadere su di noi. Allargare la cerchia del «noi» non è soltanto un gesto altruistico: va a vantaggio di tutti. Cominciate da una persona che vi vuole bene, e assimilate la sensazione di essere apprezzati, amati, rispettati. Poi pensate a qualcuno che soffre, e avvertite la compassione. Aprite il vostro cuore all’amore che vi riempie e si irradia verso l’esterno. Spostate il pensiero sul vostro gruppo di appartenenza. Esplorate il senso del «noi»: la sua percezione fisica, i pensieri, le emozioni, gli atteggiamenti e le intenzioni che vi suscita. Siate consapevoli di ogni sentimento di cameratismo, amicizia o lealtà verso i membri della vostra cerchia. Ora cominciate a espanderla per includere nuove persone. Prendete coscienza delle somiglianze con chi finora vi era sembrato diverso: «Anche tu, come me, soffri di emicranie… apprezzi la buona tavola… ami i tuoi figli… sei mortale». Scegliete una somiglianza e visualizzate l’intera umanità che la condivide insieme a voi. Ripetete la visualizzazione con un elenco di somiglianze. Concentratevi su un gruppo di persone che percepite come minaccioso o aggressivo. Ora immaginateli da piccoli. Considerate le forze che li hanno plasmati, trasformandoli negli adulti che sono oggi. Riflettete sulle difficoltà che, come voi, hanno incontrato nel corso della loro vita. Avvertite il peso che portano sulle spalle: le preoccupazioni, i lutti, il dolore. Provate compassione per loro. Prendete coscienza del fatto che le nostre sofferenze ci accomunano tutti in un grande «noi». Immaginate un cerchio che contenga i vostri cari. Ora estendetelo alla vostra famiglia allargata… ai parenti più lontani… al vicinato… agli amici degli amici… ai colleghi… agli abitanti della vostra città… della vostra nazione… del continente… del mondo intero. Includete chi vi somiglia e chi è diverso. Le persone che temete o contestate. I ricchi e i poveri, i vecchi e i giovani, i conoscenti e gli sconosciuti. Espandetelo ancora di più per accogliere ogni forma di vita… le creature della terra, del mare e dell’aria… le piante e i microbi. Tutti condividiamo un unico pianeta vivente. Appartiene a tutti noi. A proposito di cerchi, eccoci tornati al punto di partenza: la compassione per voi stessi e per gli altri. La compassione autentica è attiva, non passiva; si apre alla sofferenza e offre un aiuto per alleviarla. Per offrire aiuto con generosità, donate ciò che avete dentro, le risorse interiori come la grinta, la gratitudine e le altre che abbiamo esplorato insieme. Più le accrescete, più avrete da dare. E, quando vi donate al mondo, il mondo vi ricambia, aiutandovi a diventare sempre più resilienti. CONCETTI CHIAVE Gli esseri umani sono altruistici per natura. La generosità non riguarda soltanto il denaro. Prendere coscienza dei tanti doni che offrite agli altri vi aiuta a donare ancora di più. Per aprirci alla compassione senza sentirci sopraffatti dalla sofferenza degli altri dobbiamo acquisire equanimità, un equilibrio che si coltiva collocando il dolore in un quadro più vasto, prodigandoci entro le nostre possibilità e riconoscendo l’aiuto che abbiamo già prestato. Esistono due tipi di perdono. Anche senza concedere una piena amnistia potete liberarvi dal risentimento assumendo il punto di vista dell’altro, scegliendo intenzionalmente di voltare pagina e rinunciare alla malevolenza. Per concedere una piena amnistia, pensate all’altro come a una persona complessa e fondamentalmente buona. Attivate la compassione, riconoscete il rimorso e osservate l’evento come un mulinello in un vasto fiume di concause. Per concedere la piena amnistia a voi stessi, assumetevi la responsabilità delle vostre azioni, provate il giusto rimorso, rimediate, chiedete perdono e decidete attivamente di concederlo a voi stessi. Innumerevoli volte al giorno dividiamo le persone in «noi» e «loro», e tendiamo a collaborare con i primi e a temere o aggredire i secondi. Espandere la cerchia del «noi» per includere tutti gli altri è una manifestazione di generosità e un gesto necessario affinché il mondo possa vivere in pace. A mano a mano che potenziate le vostre risorse interiori, come la compassione e il coraggio, sentirete crescere dentro di voi un benessere resiliente. È una ricchezza che potete donare agli altri, affinché a loro volta abbiano di più da dare a voi, in una magnifica spirale ascendente. RINGRAZIAMENTI Questo libro si è avvalso di una vasta letteratura scientifica su benessere, resilienza, neuroplasticità e molti altri temi correlati. Le nostre fonti sono troppe per citarle tutte, ma vorremmo quantomeno esprimere la nostra rispettosa gratitudine a Richard Davidson, Jim Doty, Angela Duckworth, Carol Dweck, Daniel Ellenberg, Barbara Fredrickson, Christopher Germer, Paul Gilbert, Timothea Goddard, Elisha Goldstein, Linda Graham, Jon Kabat-Zinn, Todd Kashdan, Dacher Keltner, Suniya Luthar, Sonja Lyubomirsky, Ann Masten, Kristin Neff, Stephen Porges, Sandra PrinceEmbury, Martin Seligman, Michelle Shiota, Dan Siegel ed Emiliana SimonThomas. Abbiamo anche tratto saggezza e sostegno da alcuni maestri chiave, compresi Tara Brach, Gil Fronsdal, Jack Kornfield, Ajahn Pasanno e Sharon Salzberg. Siamo grati ai colleghi che hanno contribuito a creare il programma online Foundations of Well-Being, tra cui Jenna Chandler, Karey Gauthier, Laurel Hanson, Michelle Keane, Marion Reynolds, Andrew Schuman, Carisa Speth, Matt States, e soprattutto Stephanie e David Veillon. Ringraziamo i lettori che ci hanno offerto un prezioso feedback sulle varie stesure di questo libro e su altri scritti: Penny Fenner, Elizabeth Ferreira, Emma Hutton-Thamm, Lily O’Brien, Michael Taft, oltre alla nostra straordinariamente capace e comprensiva agente, Amy Rennert. È stato un assoluto piacere e un privilegio lavorare con Donna Loffredo, nostra editor presso Harmony Books, che insieme ai suoi colleghi ha avuto un ruolo essenziale nella realizzazione di questo libro. Un grazie speciale e tutto il nostro affetto a Jan e Laurel Hanson. BIBLIOGRAFIA Il benessere, la resilienza e gli argomenti specifici trattati nei capitoli di questo libro sono temi molto vasti, cui hanno contribuito tantissimi individui e associazioni. Quello che segue è un elenco solo parziale di articoli, libri, siti web e organizzazioni che potrebbero interessarvi. 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