SCOVAZZI QUESTIONI GENERALI SULLA TUTELA DEI DIRITTI UMANI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 1. LA NOZIONE DI DIRITTI UMANI Un tempo il sovrano, tramite i suoi agenti, poteva fare tutto quello che voleva. Il sovrano era al di sopra della legge. Non c’era parlamento che potesse imporgli delle regole e non c’era giudice che potesse sindacare e condannare le sue azioni. Il bene del sovrano era il bene dello Stato, perché il sovrano era lo Stato. A partire dal secolo XIX, si sono formate norme che miravano a tutelare le persone, intese come singoli individui, da abusi commessi a loro danno da parte di coloro che esercitano il potere pubblico. Queste sono le norme relative ai diritti umani. Tali norme non riguardano i rapporti tra i privati cittadini (per cui se un uomo uccide un altro uomo, interviene il diritto penale e non i diritti umani), ma i rapporti tra gli individui privati e quelli che impersonano lo Stato (es. poliziotto che tortura un uomo). I diritti umani si fondano sul presupposto che la persona umana non può essere ridotta a un mezzo per la realizzazione di superiori interessi, quando questi interessi si confondono con l’interesse di un gruppo che non esita ad uccidere, torturare o rubare per mantenere i privilegi e le immunità attribuite a chi esercita il potere. In uno Stato, degno di questo nome, il rispetto dei diritti umani costituisce obiettivo fondamentale. Nella sentenza GODINEZ CRUZ c. HONDURAS la Corte interamericana dei diritti umani ha evidenziato che i diritti umani sono UN ATTRIBUTO INNATO DELLA DIGNITA’ UMANA E, IN QUANTO TALI, PREVALGONO SU QUALSIASI ALTRA FINALITA’ DELLO STATO, perché nessuna attività dello Stato può fondarsi sul disprezzo della dignità umana. Il collegamento tra diritti umani e uguale dignità va inteso nel senso che gli individui che impersonano lo Stato non possono considerarsi più degni degli individui che impersonano solo loro stessi e nel senso che lo Stato non può discriminare i cittadini, considerando alcune categorie (es. giovani, ricchi) più degne di altre (vecchi, poveri). 2. L’AFFERMAZIONE DEI DIRITTI UMANI NEI SISTEMI DI DIRITTO NAZIONALE Sul piano giuridico, l’affermazione dei diritti umani avvenne prima nell’ambito di alcuni sistemi di diritto nazionale e successivamente nell’ambito del diritto internazionale. Uno strumento precursore in materia di diritti umani, rimasto per lungo tempo isolato, è la MAGNA CHARTA (1215). Alcune tra le sue clausole riguardavano diritti che il re si impegnava a garantire ai sudditi come il diritto a non essere punito, se non in base ad un processo, o il diritto di lasciare il proprio paese. Nel XVII sec., trovarono affermazione le concezioni del GIUSNATURALISMO, in base alle quali vi è un insieme di norme non scritte e desumibili dalla natura stessa dell'essere umano (diritto naturale) alle quali devono conformarsi anche le norme poste dal sovrano. La configurazione di un sistema di norme ideali servì come strumento per minare e poi rovesciare le imposizioni di stampo assolutista, che venivano avvertite come sempre più opprimenti, e per facilitare l'inserimento di 1 norme sui diritti umani nei sistemi di diritto interno di vari stati come confermano gli esempi che seguono. Il 16 dicembre 1689, il parlamento di Inghilterra adottò il BILL OF RIGHTS. Tale atto normativo, che ancora oggi viene citato come precedente in procedimenti giudiziari, è una proclamazione di diritti che devono essere riconosciuti dal sovrano ai sudditi (diritto di eleggere i membri del parlamento, libertà di parola in parlamento). Il 4 luglio 1776 13 Stati uniti d'America dichiararono la loro indipendenza dalla Gran Bretagna. Nella Dichiarazione sono contenuti vari importanti enunciati (diritto alla vita, diritto alla libertà e alla ricerca della felicità). Pochi anni dopo, l'assemblea nazionale francese, dopo aver considerato che il disprezzo dei diritti dell'uomo è causa di disgrazie pubbliche, adottava la dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789), dove sono esposti i diritti naturali, inalienabili, sacri dell'uomo. Nel secolo XIX e ancor di più nel secolo XX, norme sui diritti umani furono sempre più frequentemente inserite nelle Costituzioni. 3. L’AFFERMAZIONE DEI DIRITTI UMANI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE 3.a. IL TRATTAMENTO DEGLI STRANIERI. Più TARDIVA è l’affermazione dei diritti umani nel diritto internazionale. Solo con la CARTA DELLE NAZIONI UNITE (1945), la materia dei diritti umani ha una specifica collocazione. Due sono le ragioni di tale ritardo: 1. le norme di diritto internazionale sono poste dai Governi (dagli apparati destinatari degli obblighi da esse previsti) e non dai Parlamenti (organi rappresentativi di individui). 2. si riteneva poi che il modo con cui lo Stato trattasse i propri cittadini rientrava nella sfera di competenza interna (o giurisdizione domestica). Si riteneva quindi che le norme di diritto internazionale non potessero avere per oggetto la tutela di individui aventi la nazionalità dello Stato. Prima si credeva che uno Stato poteva presentare un reclamo presso un altro Stato solo se il secondo aveva maltrattato delle persone che avevano la cittadinanza del primo, nell’esercizio della cd. PROTEZIONE DIPLOMATICA (cioè la difesa da parte di uno Stato dei diritti di un proprio cittadino mediante un intervento diplomatico sul piano internazionale). Una volta che decideva di ammettere nel suo territorio stranieri, lo Stato era tenuto a accordare loro un trattamento che non poteva scendere al di sotto di un livello minimo, risultante da norme consuetudinarie. Non si riteneva, per la barriera posta dalla sfera di competenza interna, che norme di diritto internazionale potessero vincolare uno Stato con riguardo al trattamento che esso riservava ai propri cittadini. Interventi di altri Stati avvenivano solo per scopi umanitari. Le norme di diritto internazionale relative al trattamento degli stranieri non possono considerarsi norme di diritti umani propriamente intese. Il loro scopo non è tutelare individui, ma stranieri. 3.B. Il TRATTAMENTO DELLE MINORANZE. Un primo, seppure parziale progresso verso il superamento della concezione secondo la quale il diritto internazionale non può occuparsi di come uno Stato tratta i propri cittadini si ebbe con alcuni trattati dopo la I Guerra Mondiale, nei quali furono inserite norme relative ai diritti da attribuire ai cittadini di uno Stato che appartenevano a determinate minoranze etniche o 2 religiose. Queste norme si erano rivelate necessarie a seguito dei numerosi mutamenti territoriali previsti dai Trattati di pace. Venivano quindi poste norme di diritto internazionale attraverso le quali si decideva come lo stato doveva trattare i propri cittadini, seppure relativamente alle solo minoranze. Norme sulla tutela delle minoranze sono contenute anche in trattati adottati in tempi recenti (es. art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici o la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali). Esse riguardano non tutti gli individui, ma solo una categoria di essi. Bisognava fare un passo avanti: dalla tutela dei diritti delle minoranze a quella di tutti gli individui. 3.C. LA CARTA DELLE N.U. E GLI STRUMENTI SUCCESSIVI Solo con la fine della II guerra mondiale si ebbe una completa affermazione dell’idea che la persona umana richiede di essere tutelata anche sul piano del diritto internazionale. L’impulso venne dalla Carta delle N.U. (1945), che annovera tra i fini dell’organizzazione la promozione del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di sesso, razza, lingua o religione. È questa una condizione necessaria per assicurare la pace e la sicurezza interazionali (fine delle N. U.). Attraverso le disposizioni della Carta, si capisce che il modo in cui lo Stato tratta i propri cittadini non è più solo una questione di diritto interno. Già dall'inizio dell'attività, le Nazioni Unite hanno promosso l'adozione di numerosi strumenti internazionali relativi ai diritti umani e diretti alla tutela degli individui sul piano universale, in qualunque stato si trovino. Nel 1948 venne adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione universale dei diritti umani. Questa costituisce uno strumento di grande importanza perché ha dimostrato la volontà delle Nazioni Unite di occuparsi in modo permanente della materia dei diritti umani. Vista come un catalogo di diritti umani, la dichiarazione si caratterizza per un apprezzabile livello di protezione. L'articolo 18 tutela il diritto dell'individuo di cambiare religione. Tale diritto non figura nel Patto internazionale sui diritti civili e politici. La dichiarazione però non prevede meccanismi internazionali per la verifica del modo in cui gli Stati adempiono agli obblighi in essa enunciati. Dalla dichiarazione universale discendono il patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) e il patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966). 1. Altri trattati in materia di diritti umani sono: la convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati (1951), la convenzione di New York sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale etc… 2. Tra gli strumenti giuridici rilevanti sul piano mondiale si devono menzionare anche i numerosi trattati che riguardano più o meno direttamente la materia dei diritti umani e che sono stati adottati su iniziativa delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite: l'organizzazione internazionale del lavoro (ILO), l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'istruzione la scienza e la cultura (Unesco). 3. Parallelamente a livello universale si è manifestata la tendenza a garantire la protezione dei diritti umani anche a livello regionale. È da segnalare ad esempio la dichiarazione americana dei diritti e dei doveri umani (Bogotà, 1948) adottata nel quadro dell'organizzazione degli Stati americani alcuni mesi prima della dichiarazione dei diritti umani. Si segnala ancora la Convenzione europea dei diritti umani (Roma 1950). Ad essa 3 hanno fatto seguito 14 protocolli addizionali che ampliano l'insieme dei diritti garantiti dalla convenzione. Proprio per la loro più stretta partecipazione, gli strumenti adottati sul piano regionale possono spesso realizzare una più efficace protezione dei diritti umani. Mancano tuttavia trattati regionali di tutela dei diritti umani in buona parte dell'Asia e in Oceania. Per le vittime di violazioni dei diritti umani in questi continenti, l'unico riferimento è dato dai trattati di portata universale, sempre che lo Stato interessato li abbia ratificati. Vi sono poi i trattati regionali che riguardano specifici diritti umani: la carta sociale europea (Torino 1961) la convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (Strasburgo 1987) etc… 4. L'obiettivo della protezione dei diritti umani è stato inoltre perseguito a livello internazionale anche mediante l'approvazione di numerosi strumenti di diritto soffice (soft law) che, pur sprovvisti di valore obbligatorio, forniscono linee guida o parametri indicativi anche ai fini dell'adozione di norme di diritto nazionale. Tra i vari esempi, si possono menzionare i principi base e le linee guida sul diritto un rimedio e alla riparazione per vittime di gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani. 5. Una tutela sia pure indiretta dei diritti umani si realizza tramite trattati impongono agli stati di prevenire e reprimere con strumenti di diritto penale condotte lesive di diritti umani fondamentali. Si pensi ad esempio alla convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. 6. Una tutela indiretta dei diritti umani è anche assicurata dagli strumenti che creano organi internazionali per giudicare individui imputati di crimini internazionali. Si pensi ad esempio al tribunale penale internazionale e al tribunale internazionale per il Ruanda. Di recente, per consentire lo svolgimento di processi nei confronti di individui imputati di crimini internazionali, sono stati istituiti alcuni tribunali cosiddetti ibridi. Essi operano a livello nazionale, ma sono composti anche di giudici stranieri e sono regolati da uno statuto proprio, diverso da quello dei tribunali nazionali. Es: tribunale speciale per la Sierra Leone creato con un accordo del 2002 tra la sierra Leone e le Nazioni Unite. In presenza di un così ampio numero di trattati che garantiscono i diritti umani, i giuristi si sono spesso chiesti se anche l'individuo possa oggi considerarsi un soggetto di diritto internazionale. Non sembra il caso di soffermarsi su di una questione che porta a prolungate elaborazioni teoriche. Basti osservare che la finalità dei trattati sui diritti umani è di tutelare effettivamente l'individuo nei confronti degli Stati. Questo porta a vedere nell'individuo il titolare di veri propri diritti. L'attribuzione di diritti direttamente all'individuo è conforme non solo all'obiettivo, ma anche alla formulazione delle norme sui diritti umani. Si pensi ad esempio all'articolo tre della convenzione europea, secondo il quale nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, Il quale va inteso prima di tutto nel suo significato letterale come diretto ad obbligare lo Stato a non torturare un individuo, il quale è correlativamente titolare del diritto non essere torturato. 4. L’ATTEGGIAMENTO DEGLI STATI VERSO I DIRITTI UMANI 4 È eccessivo pensare che, a causa del loro obiettivo di limitare gli abusi di chi esercita il potere in nome dello Stato, i diritti umani siano sempre e immancabilmente sgraditi agli Stati. Resta però il fatto che i diritti umani appaiono oggi tutelati in misura molto varia. In uno stato totalitario, richiedere che i diritti umani siano rispettati equivale a mettere in discussione la legittimità delle autorità e a minare il potere stesso che esse esercitano. Di qui il rischio che lo Stato ricorra a gravi violazioni di diritti umani, nell'ambito di una deliberata politica diretta a terrorizzare gli oppositori. Oggi, massicce violazioni dei diritti umani di solito non si verificano negli stati dove si è affermato un regime democratico e dove le autorità hanno da tempo compreso che gli assassini, le torture ed il terrore non sono gli strumenti utilizzabili per mantenere il potere. Ma anche in questi casi si possono incontrare più o meno aperte resistenze all'applicazione di alcune norme sui diritti umani. Va anche detto che se da tempo si sta verificando un progresso verso una sempre maggiore tutela dei diritti umani, negli ultimi anni si è avuta una brusca inversione di tendenza, soprattutto in vari stati di consolidata democrazia. Esistono vari modi in cui gli Stati possono indirettamente ostacolare l'applicazione dei diritti umani: ad esempio, non ratificare i trattati relativi, oppure ratificarli, ma con l'apposizione di riserve nel contenuto. Non sempre tali espedienti portano al risultato desiderato: la non partecipazione ai trattati non cancella l'obbligo dello stato di osservare le norme sui diritti umani che siano vincolanti in forza del diritto internazionale generale. Quello che oggi nessuno Stato osa fare, per ragioni politiche, è dichiarare apertamente un suo programma di non osservanza dei diritti umani. Anche gli stati responsabili delle peggiori violazioni di diritti umani sono costretti a dichiarare ufficialmente in pubblico il loro sincero e profondo rispetto per tali diritti. Così essi contribuiscono, senza volerlo, al rafforzamento del carattere obbligatorio del sistema internazionale di tutela dei diritti umani, dato che le norme generali del diritto internazionale non rispecchiano ciò che uno stato fa ma ciò che dice di fare. 5. I diritti civili e politici e I diritti economici, sociali e culturali. Nel corso del tempo, il catalogo di diritti umani si è in generale ampliato sia quantitativamente che qualitativamente. Ai tradizionali diritti di natura civile si sono aggiunti quelli di natura economica sociale e culturale. Nel 1966 furono contestualmente adottati nell'ambito delle Nazioni Unite due trattati dedicati a diverse categorie di diritti: il patto sui diritti civili e politici e il patto sui diritti economici, sociali e culturali. La distinzione era in gran parte dovuta agli scontri ideologici tra stati occidentali e stati orientali. I primi erano portati a privilegiare i diritti civili e politici, i secondi i diritti economici sociali e culturali. In ambiti regionali, i trattati relativi alle due categorie di diritti sono stati adottati in anni diversi. Si pensi alla CEDU, la quale è stata seguita da protocolli aggiuntivi riguardanti diritti economici sociali culturali e dalla carta sociale europea. L'attuazione dei diritti economici sociali e culturali che hanno natura sia individuale sia collettiva spesso comporta lo stanziamento di ingenti mezzi finanziari da parte dello stato. Questo spiega 5 perché, in vari casi, gli Stati accettino di assicurare il godimento di questi diritti soltanto in misura compatibile con la loro organizzazione e le loro risorse. La natura progressiva di molti obblighi in materia economica sociale culturale non significa però che gli Stati siano autorizzati a ritardare indefinitamente la loro attuazione, né che si siano liberi di trascurare i settori più vulnerabili della popolazione. La difficoltà da parte degli Stati di riconoscere pienamente i diritti economici sociali e culturali riguarda non soltanto gli aspetti sostanziali della materia, ma anche quelli procedurali, soprattutto quando si tratta di istituire meccanismi giudiziari che possono accertare la violazione da parte degli stati di diritti umani, che si sono impegnati a garantire. Così, mentre già nel 1966 è stato adottato un protocollo facoltativo al patto sui diritti civili e politici che attribuisce agli individui il diritto di presentare comunicazioni al Comitato dei diritti umani, soltanto nel 2008 è stato aperto alla firma un corrispondente protocollo facoltativo al patto sui diritti economici sociali e culturali, che prevede la possibilità di presentare comunicazioni individuali al Comitato dei diritti economici sociali e culturali. A parte le difficoltà pratiche, la distinzione tra le due categorie di diritti appare dovuta a fattori occasionali senza che essa possa pregiudicare il carattere unitario della nozione di diritti umani. Anzi, la stretta relazione esistente tra diritti civili e politici e diritti economici, sociali e culturali va intesa come una manifestazione del concetto di indivisibilità dei diritti umani. In molti casi, non si può avere una reale tutela dei diritti civili e politici se essa non è accompagnata dalla garanzia dei diritti economici, sociali e culturali. Un esempio che dimostra in modo significativo il legame tra le due categorie di diritti è rappresentato dalla decisione della commissione africana dei diritti umani del 27 ottobre 2001. La corte doveva giudicare del pregiudizio subito dalla popolazione degli Ogoni a causa della concessione da parte della Nigeria dei permessi per lo sfruttamento petrolifero ad una società straniera. La commissione accertò la violazione della carta africana. In particolare, essa rilevò l'importanza del diritto all'alimentazione e l'obbligo dello stato di non permettere a privati di distruggere o contaminare le fonti di alimentazione della popolazione Ogoni. A livello europeo, la CORTE EDU ha assicurato la tutela dei diritti di natura economica o sociale in via indiretta, ossia accertando violazione di diritti di contenuto diverso che trovano protezione nella convenzione europea. Ad es. nelle sent rese per i casi Lopez Ostra c. Spagna il diritto dell'individuo ad un ambiente salubre è stato tutelato dalla corte tramite l'accertamento di violazioni da parte dello Stato del diritto al rispetto della vita privata e familiare. La Corte interamericana dei diritti umani ha interpretato in modo ampio il diritto alla vita, intendendolo non solo come il diritto dell'individuo a non essere privato arbitrariamente dell'esistenza ma anche come diritto ad accedere alle condizioni sociali che consentano un'esistenza degna. In definitiva, più che insistere su una separazione artificiale tra le due categorie di diritti, occorre sottolineare che i diritti umani, comunque vengano qualificati non costituiscono una lista chiusa. 6 Con l'evolversi dei tempi il catalogo si amplia e vengono riconosciuti nuovi diritti (esempio: il nuovo diritto a non essere sottoposto alla sparizione forzata). 6. Diritti umani relativi e diritti umani assoluti La maggior parte dei diritti umani ha un carattere relativo, nel senso che ad un diritto riconosciuto all'individuo si accompagnano delle eccezioni, che consentono allo stato di escludere o limitare la tutela del diritto in questione, qualora si tratti di far valere alcune esigenze espressamente previste alle norme stesse. Lo schema tipico delle norme dei trattati sui diritti umani prevede un primo paragrafo, dov'è enunciato il diritto, e un secondo paragrafo, dove sono elencati i casi in cui eccezionalmente lo Stato può escludere o limitare tale diritto. Si pensi ad esempio alla libertà di espressione che può essere limitata in alcune situazioni (non si può gridare al fuoco nella sala affollata di un cinema). Si pensi al diritto alla vita e ai casi in cui lo Stato può ricorrere all'uso della forza con l'effetto di uccidere un individuo. Tra la regola e l’eccezione c’è un rapporto di specialità. Le eccezioni vanno interpretate in senso restrittivo, con la conseguenza che una determinata situazione, se non cade specificamente nella apposita eccezione, ricade nella regola. Resta però il fatto che alcuni diritti umani sono enunciati in modo assoluto. Pertanto essi non ammettono eccezioni. Tra di essi vanno compresi il divieto di genocidio, di tortura, di sparizioni forzate e di schiavitù. Dal carattere assoluto della norma che vieta la tortura, il tribunale penale internazionale nel caso Furundzija ha fatto derivare anche l'obbligo degli Stati di non adottare norme di diritto interno che autorizzino o tollerino la tortura o che concedano amnistia ai responsabili di un simile comportamento. 7. Diritti umani derogabili e diritti umani inderogabili In situazioni di emergenza che minacciano la vita della nazione, alcuni trattati sui diritti umani prevedono di uno Stato parte possa temporaneamente derogare a vari diritti riconosciuti all'individuo. Il termine corretto da utilizzare sembrerebbe essere sospendere piuttosto che derogare. La struttura delle disposizioni riguardanti la deroga è pressoché identica. Esse indicano le situazioni nelle quali lo Stato parte può procedere alla deroga, precisano le condizioni procedurali per la deroga, elencano alcuni diritti, il cosiddetto nocciolo duro, che non possono mai venire drogati. I diritti umani aventi carattere assoluto non possono mai essere derogati, ma può anche verificarsi il caso in cui diritti di natura relativa siano dichiarati inderogabili. Non vi è pertanto coincidenza tra diritti assoluti e diritti inderogabili, nel senso che nel catalogo dei diritti inderogabili ricadono non solo i diritti assoluti ma anche qualche diritto relativo. 7 Le norme inderogabili del patto sui diritti civili e politici riguardano il diritto alla vita, il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti, il divieto di schiavitù, il divieto di privazione della libertà per debiti eccetera. Nel caso degli altri diritti, quelli derogabili, per poter invocare la deroga, devono concorrere due condizioni: l'esistenza di una emergenza pubblica che minaccia la vita della nazione e la comunicazione al segretario generale delle Nazioni Unite da parte dello stato interessato dei diritti cui essa intende derogare e delle ragioni di tale deroga. Il Comitato dei diritti umani, nel commento generale numero 29 del 31 agosto 2001, ha chiarito che, quando invoca una deroga ad 1 o + diritti garantiti dal patto, uno Stato parte deve porsi l'obiettivo principale di revocare la deroga stessa nel più breve tempo possibile. Il comitato ha ricordato che, nel derogare ai diritti elencati nel patto, gli Stati devono attenersi strettamente al principio di proporzionalità: le deroghe devono corrispondere alla gravità della situazione e la loro portata deve essere il più possibile limitata. Sullo Stato che intende avvalersi della deroga incombe l'onere di provare l'esistenza di una situazione così grave da giustificare tale misura, ma anche l'adeguatezza della misura stessa in relazione alle circostanze esistenti. Relativamente alla CEDU, è possibile dire che le norme inderogabili riguardano il diritto alla vita, il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, il divieto di schiavitù e il principio di irretroattività della legge penale. La corte europea dei diritti umani ha chiarito che uno Stato può avvalersi della deroga se esiste una situazione eccezionale di crisi o di emergenza, cioè un pericolo attuale o imminente e concreto che minacci l'insieme della popolazione di uno Stato o costituisca una minaccia per la vita organizzata della comunità che compone lo Stato. Occorre anche rispettare alcuni requisiti procedurali: la deroga deve essere comunicata al segretario generale del consiglio di Europa mediante un atto ufficiale Che indichi chiaramente quali sono le misure che lo Stato intende adottare e quali sono i motivi. Nell'ambito del sistema americano di protezione di diritti umani, la possibilità di deroga è prevista all'articolo 27 della convenzione americana. L’articolo 27 stabilisce quali sono i diritti e libertà inderogabili e dispone che non possono essere sospese le garanzie giudiziarie indispensabili per la protezione di tali diritti. Viene così stabilito un legame tra l'aspetto sostanziale e quello giudiziario della tutela dei principali diritti umani. Non ha infatti molto senso stabilire che un diritto non può essere derogato se non possono essere pienamente applicati gli strumenti processuali che servono a tutelare tale diritto e a reprimere le sue violazioni. La corte Interamericana si è pronunciata su tale disposizione stabilendo che non può mai essere derogato dagli stati lo strumento dell'habeas corpus (espressione utilizzata inizialmente nel diritto anglosassone e poi anche in altri sistemi per indicare l'ordine, emesso da un giudice, che una persona arrestata gli sia presentata per poter verificare la legalità della situazione). Diversamente dai trattati appena menzionati, nessuna disposizione della carta africana sui diritti umani prevede che i diritti in essa riconosciuti possano venire derogati. 8 In una decisione del 1995, La commissione africana dei diritti umani e dei popoli sembra escludere la possibilità di deroghe. In una decisione del 2007, invece, la Corte Africana sembra ammettere la possibilità che taluni diritti della Carta vengano derogati. 8. I diritti umani in tempo di guerra A partire dalla seconda metà del secolo 19º, si è formato, tramite la conclusione di trattati multilaterali, un sistema di norme che tutelano i diritti di individui coinvolti in un conflitto. Questo sistema si basa prevalentemente su due norme generali: 1. Lo Stato belligerante non può dirigere la violenza bellica contro i civili; 2. Lo Stato belligerante non può usare, nei confronti dei combattenti nemici, armi che creano sofferenza eccessiva, rispetto all'obiettivo di mettere fuori combattimento l'avversario. Questo insieme di norme è oggi designato con il nome DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO e si applica non solo ai conflitti armati internazionali ma anche ai conflitti armati interni. Qual è il rapporto tra diritto internazionale umanitario e diritto internazionale dei diritti umani? Al quesito sono state date varie risposte. Alcuni hanno fatto riferimento al concetto di specialità (l’applicazione del diritto umanitario esclude l’applicazione dei diritti umani). Altri al concetto di complementarietà (l’applicazione del diritto umanitario non esclude l’applicazione dei diritti umani). Quest’ultimo concetto esprime al meglio il rapporto tra questi due rami del diritto internazionale, poiché evoca una situazione di norme che, in una determinata situazione (la guerra), si sommano ad altre. Al contrario, il concetto di specialità potrebbe essere inteso nel senso che l'esistenza di uno stato di guerra escluda l'applicazione del diritto internazionale dei diritti umani. I diritti umani si applicano sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Anche il fatto stesso che i trattati danno la possibilità agli Stati di derogare ai diritti umani in tempo di guerra, dimostra la circostanza che in generale tali diritti si applicano in tempo di guerra. La complementarietà dei diritti umani con il diritto umanitario è stata ribadita dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione numero 2675. Il tribunale penale per l'ex-Jugoslavia nella sentenza resa il 10 dicembre 1998 per il caso Furundzija, ha messo in evidenza che il divieto di tortura è rafforzato dallo stesso divieto previsto dal diritto internazionale dei diritti umani. Il pericolo della configurazione di un rapporto di specialità è dimostrato dal fatto che qualche Stato, giocando su una particolare interpretazione di questo concetto, è arrivato a sostenere che a presunte violazioni commesse in tempo di guerra si applicasse solo il diritto internazionale umanitario. Pertanto, non potrebbero trovare applicazione quelle norme (dei trattati sui diritti umani) che prevedono la competenza a conoscere della violazione da parte di un organo internazionale. 9 Il rapporto di complementarietà tra i due settori del diritto internazionale permette anche di evidenziare che le norme di diritto internazionale dei diritti umani possono essere interpretate alla luce del diritto internazionale umanitario, per meglio a determinare il loro contenuto. A favore di un'applicazione complementare del diritto internazionale dei diritti umani con quello umanitario si è espressa la Corte Interamericana dei diritti umani, che ha dichiarato opportuno ispirarsi alle norme di diritto internazionale umanitario per specificare il contenuto delle norme internazionali sui diritti umani. Si pensi ad esempio al caso Hermanas Serrano Cruz c. El Salvador. El Salvador sosteneva che la Corte americana fosse incompetente, facendo leva su un rapporto di specialità tra diritto internazionale umanitario e diritti umani. Respingendo la tesi dello Stato, la Corte ha affermato di poter utilmente richiamare le norme di diritto internazionale umanitario come strumento di interpretazione della Convenzione americana. Con la sentenza sul caso Masacre de Santo Domingo c. Colombia la Corte ha valutato un bombardamento aereo di civili da parte della aeronautica colombiana ai danni del villaggio di Santo Domingo. Nell'occasione, un elicottero militare sganciò sull'abitato sei bombe. Poco dopo, i militari a bordo di un altro elicottero spararono su coloro che cercavano dare aiuto ai feriti. La Colombia aveva negato la competenza della Corte interamericana sostenendo che le violazioni lamentate dei ricorrenti rientrassero nel diritto internazionale umanitario e non anche nel campo del diritto internazionale dei diritti umani. Questa eccezione preliminare fu respinta dalla Corte interamericana che riaffermò la propria competenza a conoscere di casi di violazioni verificatesi nel contesto di conflitti armati, ai quali il diritto internazionale umanitario si applica insieme al diritto internazionale dei diritti umani. La Corte fece riferimento, per giudicare, sia ai principi del diritto internazionale consuetudinario, sia all'articolo 3 della Convenzione, che alle quattro convenzioni di Ginevra del 1949. La Corte richiamò il principio consuetudinario di distinzione, in base al quale le parti in conflitto devono distinguere i combattenti dai civili e limitare i propri attacchi ai soli combattenti. La Corte invocò anche il principio consuetudinario precauzionale, che richiede che le operazioni militari nel contesto di conflitti armati vengano realizzate prendendo tutte le precauzioni per non colpire civili. Concluse che il bombardamento di Santo Domingo era contrario ai principi consuetudinari sopra richiamati. Tale conclusione derivava dal fatto che sia il bombardamento che l'arma prescelta avevano comportato un massacro di civili. La Corte ritenne sussistente anche una violazione del diritto all'integrità personale. Analogamente il Comitato dei diritti umani si è riferito al concetto di complementarietà tra i due sistemi e ha specificato che i diritti e le libertà fondamentali contenute nel Patto sui diritti civili e politici continuano ad applicarsi a prescindere dall'esistenza di una situazione di conflitto. 10 La Corte europea dei diritti umani, nella sentenza sul caso Isayeva c Russia, relativa ai bombardamenti effettuati dalla Russia, durante il conflitto svoltosi in Cecenia, ha affermato che l'uccisione indiscriminata di civili costituiva una privazione arbitraria della vita. In altre sentenze, pur senza pronunciarsi mai direttamente sulla relazione esistente tra il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale umanitario, ha fatto riferimento a norme che appartengono a quest'ultimo al fine di meglio interpretare le disposizioni della Convenzione. 9. Diritti umani e diritto dei trattati Diversamente dagli altri, i trattati relativi alla protezione dei diritti umani sono conclusi non tanto per creare diritti ed obblighi reciproci tra Stati, ma per attribuire ai singoli individui diritti nei confronti degli Stati. L’oggetto e lo scopo principale dei trattati sui diritti umani determinano alcune importanti conseguenze circa le norme del diritto internazionale dei trattati ad essi applicabili. 9.A Interpretazione Secondo la regola generale di interpretazione dei trattati un trattato deve essere interpretato: 1. in buona fede, 2. secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo (articolo 31 comma uno della convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). Anche i trattati in materia di diritti umani vengono interpretati conformemente al loro scopo, che è quello di tutelare gli individui. Pertanto, se due diverse interpretazioni della stessa disposizione sono ammissibili in base alla lettura testuale, va prescelto il significato che è più favorevole all'individuo. Il criterio secondo il quale un trattato deve essere interpretato in modo tale che, da esso, derivi la minore limitazione della sovranità dello Stato, deve cedere di fronte al criterio che privilegia l'oggetto e lo scopo del trattato, in considerazione del fatto che i trattati sui diritti umani sono volti proprio a limitare la sovranità dello Stato nei confronti degli individui. Sono numerose le pronunce nelle quali un organo internazionale di tutela dei diritti umani risolve un problema interpretativo ricorrendo al significato più favorevole per l'individuo. Si pensi alla sentenza della corte EDU, che dovette interpretare l'articolo 5 paragrafo 3 della Convenzione europea, relativo alla durata ragionevole della carcerazione preventiva. Non risultava chiaro se, ai fini della determinazione della ragionevolezza del periodo di privazione di libertà di un arrestato, andasse calcolata anche la durata della carcerazione preventiva. La Corte scelse il significato risultante dal testo francese che meglio conciliava i due testi (inglese e francese). Se il testo inglese infatti permetteva due interpretazioni, il testo francese ne permetteva una sola. 9. B. Efficacia soggettiva 11 Come tutti i trattati, anche i trattati relativi alla tutela dei diritti umani obbligano soltanto le parti che li hanno sottoscritti e non possono obbligare Stati terzi. In alcuni casi, si pone il problema di stabilire se uno Stato parte possa rispondere per la condotta di uno Stato terzo. Uno Stato parte può essere responsabile di una violazione di un trattato sui diritti umani qualora esso consapevolmente cooperi affinché un comportamento vietato da tale trattato sia tenuto da uno Stato terzo. Ad esempio, nella sentenza Soering c. Regno Unito, il Regno Unito si sarebbe reso responsabile di una violazione dell'articolo 3 della convenzione Europea dei diritti umani (divieto di trattamenti inumani e degradanti) se avesse estradato un individuo negli Stati Uniti (Stato terzo) dove egli il rischiava di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti. 9.C Efficacia territoriale Secondo la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, a meno che a una diversa intenzione risulti dal trattato o sia altrimenti stabilito, un trattato vincola ciascuna delle parti rispetto all'insieme del suo territorio (articolo 29). Questa norma nulla dice circa la questione se un trattato si possa applicare anche al di fuori del territorio di tale Stato. Una simile questione va affrontata alla luce dell'oggetto e dello scopo del trattato. Dalla natura stessa dei trattati in materia di diritti umani, i quali hanno per scopo quello di regolamentare i comportamenti tenuti dagli Stati nei confronti degli individui, sembra potersi dedurre che è assolutamente irrilevante il luogo nel quale questi comportamenti sono tenuti. In altre parole, i trattati sui diritti umani tutelano gli individui, Indipendentemente dal luogo dove la violazione è, o può essere, compiuta dallo Stato. Può accadere ad esempio che gli agenti di uno Stato operino in un altro Stato su autorizzazione di quest'ultimo. In questi casi, lo Stato risponde per le violazioni dei diritti umani compiute dai suoi agenti, anche se la condotta è avvenuta al di fuori del suo territorio. Nei casi di azioni extra territoriali, la responsabilità sorge in capo a due Stati, se vi è la complicità dello Stato sul cui territorio la violazione del diritto umano si è compiuta. Altrimenti, la responsabilità ricade sul solo stato che ha operato. UN PROBLEMA PARTICOLARE HA POSTO LA DETERMINAZIONE DELL’EFFICACIA TERRITORIALE DELLA CEDU. Secondo la Convenzione europea, le parti devono assicurare ad ogni individuo, entro la loro giurisdizione, i diritti previsti dalla convenzione. È sorprendente come la corte europea non abbia subito fatto propria l'unica interpretazione plausibile di una norma che semplicemente prevede che gli Stati parte devono assicurare i diritti tutelati dalla convenzione a tutti gli individui che vengono a tiro di comportamenti tenuti dagli agenti dello Stato, ovunque essi operino. La corte ha oscillato tra estremi opposti, senza che vi sia una logica che possa spiegare conclusioni radicalmente diverse, in casi che richiedevano di venire trattati allo stesso modo. 12 1. Nella sentenza resa per il caso Loizdou c. Turchia, la corte rilevò che il concetto di giurisdizione non si limita al territorio di uno Stato parte, ma si estende anche al caso in cui uno Stato, in conseguenza di un'azione militare, eserciti un controllo effettivo del territorio di un altro Stato. Nel caso di specie, era in discussione il diritto di proprietà su immobili situati a Cipro, la quale era stata occupata militarmente dalla Turchia. 2. Ad una diversa conclusione, è giunta la corte nella sentenza resa per il caso Bankovic c Belgio. La corte dichiarò inammissibile il ricorso presentato dai familiari dei 16 civili uccisi e da persone rimaste ferite nel bombardamento aereo del 1999 presso la stazione radiotelevisiva di Belgrado. La corte, in particolare, concluse che la convenzione europea si applicasse soltanto quando la violazione fosse avvenuta nel territorio degli Stati parte. Essa si basò, nello specifico, sul significato della parola giurisdizione. Giustificò la propria interpretazione sulla base dei lavori preparatori alla CEDU. Non spiegò, però, per quale ragione essa dette alla parola giurisdizione lo stesso significato della parola territorio. Non spiegò perché essa non interpretò la convenzione alla luce del suo oggetto e del suo scopo. Poco convincenti sono stati poi gli sforzi della corte di distinguere il caso in esame dal precedente, come se bombardare uno Stato non costituisse l'esercizio di un controllo ben più effettivo rispetto che attuare un'occupazione militare. La Corte è arrivata a configurare un doppio criterio di protezione dei diritti umani (LA CEDU è ESISTENTE O INESISTENTE A SECONDA DI DOVE UNO STATO OPERA) che non trova sostegno in alcuna disposizione della convenzione e che contraddice la stessa natura del concetto di diritti umani. 3. L'interpretazione restrittiva dell’ambito di applicazione della convenzione europea data nel caso appena esaminato è così assurda che la stessa Corte nella giurisprudenza successiva ha preferito giungere a conclusioni opposte senza peraltro mai riconoscere l'errore commesso in precedenza. In sentenze successive, la corte europea dei diritti umani ha evidenziato che l'articolo uno della convenzione europea va interpretato nel senso che uno Stato parte non è autorizzato a fare in territorio altrui quello che non può fare nel proprio e che la responsabilità di uno Stato parte può insorgere anche riguardo a comportamenti tenuti dei propri agenti in territorio altrui. In sent successive, la corte si è dichiarata competente anche per violazioni commesse in territorio straniero (vedi caso Saadon e Mufdhi c. Regno Unito). In questo modo, la Corte ha garantito una effettiva tutela dei diritti degli individui che non si trovano in uno Stato parte della convenzione europea. 4. Nel caso Medvedyev c. Francia, la grande camera della corte ha fornito ulteriori indicazioni in materia di applicazione extraterritoriale della convenzione europea. Il caso riguardava l'abbordaggio in alto mare da parte delle forze speciali francesi di una nave battente bandiera cambogiana sospettata di essere utilizzata per il traffico di stupefacenti. 13 La corte ha evidenziato che la propria competenza sussiste quando la violazione attribuita allo Stato parte ha natura "continua ed ininterrotta", ma non esiste quando la violazione ha natura "istantanea". Persistendo nel tentativo di giustificare il suo precedente macroscopico errore, la corte è giunta all'assurdo, dato che la convenzione non distingue in alcun modo violazioni continue e violazioni istantanee. 5. Anche nella sentenza Al-SKEINI c. Regno Unito, la Corte affermò l'applicazione della convenzione europea a comportamenti tenuti dagli agenti di uno stato, in un territorio di uno Stato non parte. Il caso riguardava la mancata indagine sull'uccisione, da parte delle truppe britanniche di occupazione dell'Iraq, di cinque iracheni e sul maltrattamento e l'uccisione in custodia di un sesto iracheno. La corte, ha ricostruito la precedente giurisprudenza sulla extra territorialità, distinguendo tra due diverse nozioni di giurisdizione, l’una basata su un modello spaziale (esercizio di poteri pubblici su un territorio di un altro stato con il consenso di quest'ultimo; situazioni di occupazione militare) e l'altra su modello personale (esercizio di poteri fisici su di una persona da parte degli agenti dello Stato operanti all'estero). La corte ha affermato che la Convenzione era pienamente applicabile nel caso di specie, basandosi soprattutto sul fatto che le potenze occupanti svolgevano di fatto funzioni di governo in Iraq. DIFFERENTI SONO LE PROBLEMATICHE SORTE CON RIGUARDO ALLA VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA TERRITORIALE DEL PATTO SUI DIRITTI CIVILI E POLITICI E DELLA CONVENZIONE AMERICANA: Il patto sui diritti civili e politici stabilisce che ogni Stato parte deve rispettare i diritti di tutti gli individui che si trovano all'interno del suo territorio e/o che sono soggetti alla sua giurisdizione. Il comitato dei diritti umani ha chiarito che i diritti riconosciuti dal patto devono essere garantiti a tutti gli individui che sono sottoposti alla giurisdizione di uno Stato parte anche al di fuori del territorio di quest'ultimo, per il solo fatto che si trovino in suo potere o sotto il suo effettivo controllo a prescindere da come tale controllo sia acquisito. La corte internazionale di giustizia ha chiarito che ha la disposizione in esame si interpreta nel senso di riguardare quegli individui che siano contemporaneamente presenti sul territorio di uno Stato parte e sottoposti alla sua giurisdizione, e nel senso di riguardare anche coloro che, pur non trovandosi fisicamente nel territorio di uno Stato parte, siano comunque sottoposti alla sua giurisdizione. (Nel caso concreto, la corte respinge la tesi più volte espressa da Israele, secondo la quale il patto non si applica agli individui residenti nei territori sottoposti alla propria occupazione.) Secondo l'articolo 1, paragrafo 1, della convenzione americana i diritti previsti si applicano a ogni persona che è sottoposta alla giurisdizione di uno Stato parte. La Corte Interamericana dei diritti ha fatto propria la teoria secondo la quale i diritti umani previsti dalla convenzione americana possono trovare un'applicazione extraterritoriale. 14 9.D riserve Anche riguardo ai trattati sui diritti umani va tenuta ferma la norma in base alla quale sono inammissibili le riserve che hanno carattere generale e la norma in base alla quale sono ugualmente inammissibili le riserve che sono incompatibili con l'oggetto e con lo scopo del trattato. Le questioni in tema di riserva sono purtroppo moltiplicate dalla propensione di vari Stati ad accompagnare la loro partecipazione ai trattati sui diritti umani con un così ampio numero di riserve, da mettere in dubbio la loro seria volontà di farsi carico degli obblighi da essa derivanti. Una miniera al riguardo è costituita dalla convenzione sulla eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione nei confronti della donna. Alcune riserve fatte a disposizioni di questo trattato possono sembrare ammissibili (esempio quella in tema di successione al trono, per cui hanno priorità gli uomini). Altre sono incompatibili con l'oggetto e con lo scopo del trattato (La riserva fatta dagli Stati islamici secondo la quale la religione mussulmana prevale sulle disposizioni della convenzione). Dall'analisi dei dati della pratica internazionale si può concludere che la principale particolarità del regime delle riserve sta nel fatto che la apposizione di una riserva inammissibile vincola uno Stato a partecipare all'intero trattato, ivi compresa la disposizione che la riserva intendeva escludere. Sono scartate altre due diverse conseguenze in astratto ipotizzabili: la non partecipazione al trattato dello Stato che ha apposto la riserva inammissibile o la partecipazione al trattato con esclusione della disposizione oggetto della riserva. In considerazione dell'oggetto e dello scopo di questo tipo di trattati, si viene così a determinare un'importante eccezione al principio generale del libero consenso delle parti a vincolarsi al trattato, dato che lo Stato che presenta la riserva inammissibile risulta vincolato a un trattato diverso da quello a cui avrebbe voluto vincolarsi. Al riguardo, in un rapporto del 2006, il Gruppo di lavoro sulle riserve, istituito nell'ambito delle riunioni dei comitati di tutela dei diritti umani (comitati sorti all’interno delle nazioni unite), ha evocato una sorta di "presunzione refutabile" che lo stato autore della riserva intenda essere parte del trattato, pur senza beneficiare della riserva stessa. Il Comitato sui diritti umani ha preso in considerazione l'ammissibilità di riserva al Patto sui diritti civili e politici (Il trattato nulla dice in proposito), giungendo alla conclusione che, alla luce dell'oggetto e dello scopo dei trattati sui diritti umani, sono inammissibili le riserve che riguardano un'ampia serie di diritti tutelati, oltre che dal patto, anche da norme cogenti del diritto internazionale generale. È parimenti inammissibile, secondo il Comitato, una riserva relativa alle disposizioni che racchiudono il nocciolo duro del Patto (cioè essenzialmente i diritti assoluti ed inderogabili). Nello stesso commento (nel quale il Comitato sostenne che i diritti costituenti il nocciolo duro del Patto sui diritti civili e politici non potevano formare oggetto di riserva), il Comitato prese posizione circa la questione dell'effetto di una riserva inammissibile. 15 In vista dell'obiettivo della più ampia tutela dei diritti umani, il Comitato ritenne che una simile riserva dovesse ritenersi come non apposta e che pertanto non pregiudicasse la piena partecipazione al trattato da parte dello Stato. Diversamente dal Patto, la Convenzione Europea contiene una disposizione in materia di riserva (Articolo 57). Essa limita la possibilità di apporre riserve alla sola ipotesi in cui esista in uno stato una norma di legge in vigore che disponga diversamente da quanto previsto da una specifica disposizione della convenzione. Nella sentenza Belilos c. Svizzera, la Corte europea dei diritti umani accertò che una riserva formulata dalla Svizzera all'articolo 6 (diritto a un equo processo) non era ammissibile perché aveva carattere generale e perché non era accompagnata da una breve dichiarazione sulle disposizioni del diritto nazionale relative alla riserva. Dalla invalidità della riserva la Corte fece derivare la conseguenza che la Svizzera era comunque vincolata alla Convenzione. Nella sentenza Loizdou c. Turchia, la Corte europea ritenne invalida la riserva apposta dalla Turchia, la quale stabiliva che la Corte stessa poteva ricevere ricorsi individuali soltanto riguardo ad azioni od omissioni compiute entro i limiti del territorio turco. Nonostante la Turchia affermasse che la riserva era così essenziale da condizionare la sua stessa accettazione della competenza della Corte, quest'ultima ritenne di poter separare la riserva invalida dal resto della dichiarazione di accettazione. La Convenzione americana fa, in tema di riserva, completo rinvio al regime della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. Come rilevato dalla Corte Interamericana, nel parere del 1982, l'articolo 75 dev'essere letto nel senso che sono consentite tutte le riserve che siano compatibili con l'oggetto e con lo scopo del trattato. Nel parere dell'83, la corte Interamericana stabilì che la riserva fatta dal Guatemala relativa all’articolo 4, par. 4, della Convenzione, laddove essa vieta la pena di morte per i reati comuni connessi ai reati politici, non può interpretarsi in modo estensivo come riferita anche l'articolo 4 par. 2, che vieta la reintroduzione della pena di morte nei paesi dove essa era stata precedentemente abolita. In una ulteriore sentenza la Corte Interamericana ritenne in contrasto con l'oggetto e con lo scopo della Convenzione una riserva che restringeva l'accettazione della competenza della Corte solo quando "compatibile con le sezioni pertinenti della Costituzione". Simile riserva aveva carattere generale e subordinava l'applicazione della funzione contenziosa della Corte al diritto interno di uno Stato parte che pretendeva di attribuirsi un potere discrezionale nel decidere in quali casi la Corte avrebbe esercitato la sua competenza. 10. Diritti umani e diritto internazionale generale L'imponente fenomeno della moltiplicazione dei trattati che tutelano in vario modo I diritti umani e altre concordanti manifestazioni della pratica internazionale portano a concludere che diverse norme sui diritti umani hanno acquisito anche il carattere di norme generali di diritto internazionale, obbligatorie per tutti gli Stati, a prescindere dalla partecipazione al trattato. 16 Non è possibile fare un elenco di tale norme. È certo però che hanno acquisito natura generale le norme che tutelano quel nucleo fondamentale di diritti che sono visti dagli Stati come inderogabili. Ad esempio, il tribunale penale internazionale (caso Furundzja) ha stabilito che le norme che vietano la tortura hanno acquisito la natura di norme di diritto internazionale generale. Una questione complessa si pone quando si presenta un conflitto tra norme del diritto internazionale generale che non riguardano i diritti umani e norme di diritto interno o anche di trattati internazionali che riguardano i diritti umani. Un simile conflitto si verifica in concreto con la norma che prevede l'immunità dalla giurisdizione civile di uno Stato estero o l'immunità di alcuni agenti dello Stato dalla giurisdizione civile o penale. La Corte internazionale di giustizia non ha esitato a dare prevalenza alle norme sull'immunità degli Stati e degli agenti di Stato. Nella sentenza resa per il caso Immunità giurisdizionale dello Stato (caso GERMANIA C. ITALIA), la Corte internazionale di giustizia ha affrontato la questione dell'immunità di uno Stato nei confronti di domande di risarcimento dei danni presentate di fronte a organi giudiziari italiani da parte di vittime di crimini di guerra. La Corte concluse che l'Italia aveva violato l'obbligo di rispettare l'immunità dello Stato a seguito di alcune sentenze italiane che avevano condannato la Germania a risarcire i danni subiti. La Corte respinse gli argomenti dell'Italia basati sul fatto che le norme sull'immunità giurisdizionale dello Stato non potevano applicarsi in presenza di crimini di guerra che violavano norme imperative di diritto internazionale generale. La Corte pur rendendosi conto che l'immunità dello Stato avrebbe lasciato le vittima senza alcun rimedio giurisdizionale, si limitò ad auspicare in proposito futuri negoziati tra gli Stati coinvolti. Stupisce l'estremo formalismo del ragionamento della corte, che non vede come le norme sulla tutela dei diritti umani fondamentali e quindi le norme che vietano in modo imperativo crimini che ledono tali diritti, sarebbero prive di efficacia, se non si attribuisse alla presunta vittima il diritto di agire in giudizio per far direttamente valere le proprie ragioni. Sulla stessa linea della corte internazionale di giustizia e si era purtroppo in precedenza attestata la corte europea dei diritti umani nella sentenza del 2001, sul caso al-adsani c. Regno unito, relativo a un procedimento promosso di fronte ai giudici britannici da un cittadino del Kuwait contro il Kuwait, per il risarcimento del danno subito a seguito di torture in questo ultimo stato. La corte ritenne che la norma di diritto internazionale sull'immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile prevalesse sull'articolo sei, paragrafo uno, della convenzione europea, in base al quale chiunque ha diritto a un processo equo di fronte a un tribunale indipendente e imparziale. Anche in questo caso va ribadito che il diritto dello Stato estero o degli agenti di uno Stato estero all'immunità non può prevalere sul diritto dell'individuo ad avere un giudice, nei casi in cui egli sostenga di essere vittima di una violazione di norme sui diritti umani aventi valore imperativo. L'atteggiamento di scarsa sensibilità mostrato a questo riguardo da due organi giudiziari internazionali, richiede di venire riveduto. Va anche considerato che la norma generale sull'immunità non ha carattere assoluto, essa ammette eccezioni, che consentono l'esercizio della giurisdizione (ad esempio per gli atti iure gestionis). 17 Nella giusta direzione si sono mosse alcune corti nazionali che hanno negato l'immunità degli Stati in casi in cui si discuteva di violazioni di norme imperative sui diritti umani. Esempio: Caso ferrini c. Germania, ove la corte di cassazione ha stabilito che il rispetto dei diritti inviolabili della persona ha assunto il ruolo di principio fondamentale anche nell'ordinamento internazionale. Nella sentenza sul caso A. c. Pubblico Ministero della confederazione, il tribunale penale federale svizzero ha affermato la giurisdizione Svizzera nei confronti di un ex ministro della difesa algerino imputato per crimini di guerra. Le sentenze nazionali da ultimo richiamate costituiscono esempi di un'evoluzione progressiva dei diritto internazionale in una direzione imposta da considerazioni elementari di logica e di giustizia. Purtroppo esse sono state contraddette dalle sentenze della corte internazionale di giustizia. 11. Il doppio livello di protezione dei diritti umani 11. A. Aspetti sostanziali Grazie alla progressiva affermazione della materia di diritti umani sul piano internazionale, accade di frequente che norme relative allo stesso diritto si trovino, sia nei diritti nazionali, sia in trattati internazionali. In queste occasioni si crea un doppio livello di protezione di molti diritti umani. Il rapporto tra norme relative allo stesso diritto umano operanti in sistemi giuridici diversi deve essere letto sulla base dell'obiettivo tipico delle norme relative ai diritti umani: proteggere la parte più debole (l'individuo) nei confronti della parte più forte (lo Stato). E quindi deve prevalere la norma che meglio protegge i diritti spettanti all'individuo. Di norma, almeno negli stati ispirati a principi democratici, accade che il livello di protezione garantito dalle norme interne è più elevato del livello di protezione garantito dalle norme internazionali. Ma non è detto che questo si verifichi sempre. Si pensi ad esempio al tema della durata dei processi: il diritto italiano presenta gravi lacune, invece la convenzione europea fa riferimento al concetto della "durata ragionevole". Questo ha consentito alla corte europea dei diritti umani di sviluppare una consistente giurisprudenza in tema di ragionevole durata del processo basata sui criteri della complessità del procedimento, della condotta del ricorrente e della condotta dell'autorità giudiziaria. L'esistenza di un doppio livello di protezione, quello interno e quello internazionale, assicura una tutela più effettiva dei diritti umani (questo risultato può però essere conseguito soltanto se i giudici nazionali siano disposti ad abbandonare quell’atteggiamento che li porta a trascurare l'applicazione dei trattati in vigore per il loro stato e se essi non esitino ad utilizzare anche la possibilità offerta dalle norme di diritto internazionale). In numerosi trattati è contenuta una clausola che fa salvo il livello di protezione maggiore previsto dalle norme interne. 11. B. Aspetti procedurali (previo esaurimento delle vie di ricorso interne) 18 Se, sul piano sostanziale, vale il criterio della migliore protezione, sul piano procedurale, per quanto riguarda il rapporto tra gli strumenti procedurali del diritto interno e quelli del diritto internazionale, si applica invece la condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne: un caso può essere portato di fronte ad un'istanza internazionale soltanto dopo che l'individuo interessato abbia esaurito gli strumenti giudiziari che il diritto nazionale gli offre per porre rimedio alla violazione che egli ritenga di avere subito. La condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne deve essere letta con flessibilità e senza eccessivi formalismi. Nel valutare l'esistenza di vie di ricorso, occorre tener conto della situazione particolare del ricorrente. Bisogna tener conto del contesto specifico in cui gli organi giudiziari nazionali si trovano ad operare, non potendosi addebitare all'individuo il mancato esperimento dei ricorsi, in situazioni in cui gli organi giudiziari nazionali non sono notoriamente in grado di funzionare con le dovute garanzie di indipendenza, imparzialità e speditezza. La convenzione americana ha cura di precisare che la condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne non si applica se il diritto interno non fornisce adeguate garanzie di correttezza, accessibilità e durata. Sia il protocollo facoltativo al patto sui diritti civili e politici, sia la carta africana specificano che la condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne non si applica qualora tale procedura sia irragionevolmente prolungata. 12. Diritti umani e diritto italiano Le norme di diritto internazionale relative alla protezione dei diritti umani devono essere applicate negli ordinamenti di diritto interno, come quello italiano. L'adattamento del diritto italiano a tali norme avviene: In modo automatico, in forza dell'articolo 10 della Costituzione, se esse sono norme di diritto internazionale generale; oppure in forza di apposita procedura di adattamento, se esse sono norme contenute in trattati, di cui l'Italia è parte. 12. A. Questioni formali Complesse questioni formali si pongono riguardo all'adattamento del diritto italiano ai trattati sui diritti umani. Ci si chiede quale sia il rapporto tra le norme di tali trattati e le norme di diritto interno. Talvolta, il conflitto tra norme di diritto interno e norme di trattati sui diritti umani è soltanto apparente e può essere risolto in via interpretativa. Per i casi in cui il conflitto rimane insanabile, in via interpretativa, deve essere considerato il fatto che le norme della convenzione europea e del patto sui diritti civili e politici, pur essendo tali trattati recepiti attraverso legge, non sono modificabili da una legge ordinaria. Le norme del trattato mantengono infatti la loro natura originaria e gli obblighi, che esse pongono, si estinguono solo a seguito del verificarsi di una causa di estinzione del trattato, prevista dal diritto internazionale. 19 Questa "forza di resistenza speciale" dei trattati, è ora riconosciuta dall'articolo 117 della costituzione, il quale stabilisce che: la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Alle norme dei trattati è riconosciuta ora il rango di norma interposta (rango intermedio tra la Costituzione e la legge). Le norme della convenzione europea non assumono il rango di norme costituzionali, poiché l'ordinamento interno non può essere modificato da fonti esterne. La corte costituzionale ha evidenziato che: se vi è un conflitto insanabile tra una norma della convenzione europea ed una norma successiva interna, il giudice non può direttamente disapplicare la norma interna, ma deve sollevare di fronte alla corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale. Le norme della convenzione europea devono essere interpretate secondo il significato ad esse dato nelle sentenze della corte europea dei diritti umani. Nelle sentenze 348 e 349 del 2007, la corte costituzionale italiana ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme del diritto italiano che prevedevano, nel caso di espropriazione, il diritto dell’espropriato ad un'indennità oscillante nella pratica tra il 50% ed il 30% del valore di mercato di un bene espropriato, a causa della loro non conformità al “criterio dell'indennizzo avente un ragionevole legame con il valore del bene”, prescritto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Le conclusioni generali cui è giunta la corte costituzionale circa il rapporto tra trattati sui diritti umani e diritto interno sollevano perplessità. È criticabile l'orientamento della corte costituzionale, secondo il quale, nell'ipotesi di conflitto tra norma interna e norma convenzionale, debba essere esperito giudizio di legittimità costituzionale. Non è criticabile invece l'affermazione secondo la quale restano ferme (e non cedano direttamente dinanzi le norme della CEDU o le norme di altri trattati in materia di diritti umani) le norme dell'ordinamento costituzionale italiano, poiché potrebbe accadere che queste prevedano una tutela maggiore dei diritti umani, rispetto a quanto fanno i trattati internazionali. Appare criticabile, inoltre, la scelta di attribuire sempre al diritto dell'unione europea totale primato sul diritto interno e di non attribuire mai tale primato ai trattati internazionali in materia di diritti umani. In tal modo, la corte costituzionale ha trascurato che è difficile accettare che le norme fondamentali sui diritti umani valgano meno di una qualsiasi norma comunitaria. Il ragionamento seguito dalla Corte costituzionale in materia di rapporto tra diritto interno e norme internazionali in materia di diritti umani appare criticabile sotto un altro punto di vista: la corte costituzionale ha ancorato i trattati comunitari all'art. 11 della costituzione, prevedendo che tale disposizione non possa trovare applicazione per i trattati in materia di diritti umani. Tale ragionamento appare fallace nella misura in cui si considera che l'art 11 Cost. è stato scritto in un funzione della carta delle nazioni unite. 20 Alcune sentenze dei giudici ordinari italiani, memorabili per la loro portata innovativa, hanno affermato la possibilità del giudice di applicare direttamente le norme in materia di diritti umani (contraddicendo quindi al volere della Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale ogni qual volta una norma interna si ponga in contrasto con una norma in materia di diritti umani ed il contrasto sia insanabile a livello interpretativo). Si pensi ad esempio alla sentenza resa dal tribunale di Roma nel 1984: il giudice applica direttamente l'articolo cinque della convenzione europea, in base al quale chiunque sia stato vittima di un arresto o di una detenzione in violazione articolo cinque stesso può far valere il suo diritto a un risarcimento. Si pensi ancora alla decisione della corte di cassazione numero 32.678 del 2006 nella quale il giudice di legittimità italiano ha disposto per un condannato la restituzione nel termine per proporre appello contro una sentenza penale passata in giudicato, resa in contumacia in violazione di quanto disposto dall'articolo sei della convenzione. 12. B. Questioni sostanziali Le norme dei trattati sui diritti umani di cui l'Italia è parte, devono essere obbligatoriamente osservate dagli organi esecutivi e giudiziari. Esistono esempi nei quali le disposizioni della convenzione sono state mal interpretate e quindi male applicate dai giudici italiani. Si pensi all'ordinanza della corte di cassazione 5 giugno 2002, numero 8157, nella quale è stata dichiarata la carenza di giurisdizione dei giudici italiani circa la domanda di risarcimento dei danni da parte delle vittime di un bombardamento condotto nel 1999 in Jugoslavia dalle forze aeree degli Stati membri della Nato. La corte ha ritenuto che le norme della convenzione fossero applicabili soltanto nei rapporti tra gli Stati e che le modalità di conduzione delle ostilità rientrassero in una funzione politica Che nessun giudice poteva sindacare. Molto criticabile è la tendenza a non applicare le norme dei trattati sui diritti umani perché si ritiene che esse abbiano natura programmatica e non immediatamente percettiva, in quanto lontane dal modello di un atto interno, completo nei suoi elementi essenziali. Come se coloro che redigono un trattato internazionale dovessero avere in mente i modelli degli atti interni italiani, completi dei loro elementi essenziali. Anche la corte costituzionale ha mal interpretato le disposizioni della convenzione. Sent n 62 del 1992: la corte costituzionale ha constatato che il patto internazionale sui diritti civili e politici non era stato ancora ratificato da un numero sufficiente di Stati per renderlo operante come trattato multilaterale. In realtà, il patto era già entrato in vigore. SENT n. 106 del 2009: il caso riguardava l’acquisizione di documenti e testimonianze nel corso di un procedimento penale per sequestro di persona, pendente di fronte il Tribunale di Milano, e coinvolgeva un gruppo di agenti dei servizi segreti italiani e americani. La Corte costituzionale è arrivata alla conclusione che il segreto di Stato, che pure non riguarda il reato di sequestro in sé accertabile dall’autorità giudiziaria competente nei modi ordinari, copre i rapporti tra servizi segreti italiani e stranieri e gli assetti organizzativi del SISMI (servizio per le info e la sicurezza nazionale), con particolare riferimento alle direttive e agli ordini che sarebbero stati impartiti dal suo direttore agli appartenenti al medesimo 21 organismo, pur se tali rapporti, direttive e ordini siano in qualche modo collegati al fatto del reato stesso. La corte ha così legato inscindibilmente il segreto di Stato al concetto di sicurezza dello Stato, qualificando quest'ultimo come interesse preminente su ogni altro in tutti gli ordinamenti statali. Appare però ben difficilmente accettabile il fatto che, secondo la corte, il segreto di Stato, che non è menzionato in alcun articolo della costituzione, prevalga incondizionatamente sul principio della tutela giurisdizionale. Per di più, la corte non ha dedicato alcune effettiva considerazione relativa all'importanza dei diritti umani che I fatti in discussione di fronte al tribunale di Milano coinvolgevano. In realtà, nel procedimento di fronte al tribunale di Milano, nei confronti di un gruppo di agenti dei servizi segreti italiani e americani, non si discuteva soltanto del reato di sequestro di persona pluriaggravato a danno del cittadino egiziano Abu Omar, rifugiato politico in Italia. Si discuteva di qualcosa di ben più sinistro, cioè di una delle più disgustose violazioni dei diritti umani: la sparizione forzata a fini di tortura, attuata nella forma di una consegna straordinaria. Suscita un istintivo senso di ribellione scoprire che la costituzione italiana consenta al segreto di Stato di coprire anche le più disgustose violazioni di diritti umani. Resta quindi molto memorabile, ma purtroppo in una ben agghiacciante direzione, l'implicito sostegno dato dalla corte costituzionale italiana all'eventualità che chiunque in Italia possa impunemente sparire per essere torturato all'estero, purché tutto questo avvenga a seguito di un accordo (segreto) tra servizi italiani e servizi stranieri. Tale amara constatazione è soltanto attenuata ma non eliminata dal meritorio sforzo compiuto alla successiva sentenza della corte di cassazione del 19 settembre 2012, numero 46.340, che, decidendo in terzo grado sul medesimo procedimento, ha fornito un'interpretazione restrittiva di quanto deducibile dalla più volte richiamata sentenza della corte costituzionale numero 106 del 2009. La corte di cassazione ha ritenuto che la sentenza della corte costituzionale in questione non avesse fatto calare un sipario nero su tutto il materiale probatorio a carico degli agenti del sismi, restando sindacabile dal potere giudiziario l'operato dei singoli agenti. La corte di cassazione ha anche ritenuto, richiamando la pertinente giurisprudenza della corte europea dei diritti umani, che non possono essere motivo di tardiva tutela nel processo gli atti, i fatti e le notizie coperte da segreto di Stato che siano stati già divulgati sul larga scala. Per quanto riguarda gli organi del potere legislativo, un esempio di prolungato inadempimento, da parte dell'Italia, degli obblighi internazionali assunti mediante la partecipazione a un trattato, concerne la mancata previsione del diritto penale italiano del reato di tortura. L'articolo 4 della convenzione internazionale contro la tortura e altri trattamenti appena inumani o degradanti obbliga gli Stati parte a codificare gli atti di tortura come autonomo reato nel proprio diritto penale e a sanzionarli con pene adeguate. L'Italia, benché la convenzione sia entrata in vigore il 12 febbraio 1989, non ha ancora inserito il reato di tortura nel proprio codice penale. 22 Nonostante la violazione di tale preciso obbligo internazionale sia stata ripetutamente rilevata da parte di organismi internazionali che si occupano di diritti umani, l'Italia continua giustificarsi sostenendo che sono sufficienti le fattispecie di reato già inserite nel codice penale. Nel 2010, l'Italia è stata sottoposta all'esame periodico in materia di diritti umani nel contesto del consiglio dei diritti umani e, che pure ha constatato che, in materia di tortura, l'Italia continua a disattendere i propri obblighi internazionali. Ancora più evidenti sono le numerosissime violazioni compiute dall'Italia circa il diritto alla durata ragionevole del processo (art. 6 CEDU). Una massa di violazioni (del diritto ad una durata ragionevole del processo, che è avvenuta in ragione di procedimenti giudiziari lunghissimi), come quella che si è registrata in Italia, richiedeva adeguati interventi di tipo legislativo diretti a meglio organizzare la funzione giudiziaria e non poteva di certo essere eliminata soltanto dall'adozione di una normativa che si limitava a disporre un'equa riparazione monetaria nell’ipotesi di processo di durata non ragionevole. Come era da attendersi viste le premesse, la corte europea dei diritti umani ha avuto modo di accertare che l'Italia si era resa responsabile di violazioni dell'articolo sei della convenzione, a causa: - in primis della durata irragionevole dei processi - in secundis dei ritardi irragionevoli nel pagamento dell'equa riparazione, per la durata irragionevole dei procedimenti. 13. Diritti umani e diritto dell'Unione Europea Una situazione particolare si è venuta a creare per quanto concerne la tutela dei diritti umani sul piano dell'Unione Europea. La Organizzazione internazionale che storicamente si è occupata dei diritti umani sul piano europeo è il consiglio di Europa, istituito con uno statuto adottato a Londra nel 1949. Tutt'altra organizzazione è l'Unione Europea, creata con un trattato concluso a Roma nel 1957. Nella sua versione originaria, il trattato istitutivo della comunità economica europea non comprendeva la tutela dei diritti umani. È stata la corte di giustizia della comunità europea che ha affermato che la protezione dei diritti umani è uno degli scopi della comunità. La corte ha annoverato la materia dei diritti umani tra i principi generali del diritto che trovano la propria origine nelle tradizioni costituzionali degli stati membri e nei trattati sui diritti umani da essi ratificati, con particolare riferimento alla convenzione europea dei diritti umani. Con questo, la corte intendeva colmare una lacuna al fine di evitare che l'attribuzione di competenza in una determinata materia alla comunità europea avesse anche l'effetto di sottrarre tale materia agli strumenti di controllo in tema di tutela dei diritti umani, non potendo la comunità europea in quanto tale essere vincolata dalla convenzione europea dei diritti umani. Dopo alcuni strumenti di natura non vincolante, tra i quali la dichiarazione dei diritti e delle libertà fondamentali, approvata il 12 aprile 1989 dal parlamento europeo, una svolta nella direzione segnata dalla corte si ebbe con alcune disposizioni inserite nel trattato dell'Unione europea. 23 La tutela dei diritti umani è diventata un aspetto fondamentale nelle relazioni esterne dell'unione, come dimostrano tra l'altro, il fatto che, in base all'articolo 49 del trattato sull'Unione Europea, solo gli stati europei che rispettano i principi sanciti nell'articolo 2 possono domandare di diventare membri dell'Unione Europea. Considerazioni complesse vanno svolte riguardo il contenuto dei diritti tutelati all'ambito dell'unione. La carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata, a Nizza, il 7 dicembre 2000 da tre istituzioni comunitarie (parlamento europeo, consiglio e commissione) se da un lato ribadisce molti diritti e libertà già contenuti nella convenzione europea dei diritti umani, dall'altro elenca ulteriori diritti tra cui il divieto di clonazione riproduttiva, il diritto dei disabili all'inserimento eccetera… Il trattato di Lisbona ha attribuito alla Carta di Nizza valore vincolante e ha previsto l'adesione dell'Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti umani. Complessi negoziati, diretti anche ad evitare sovrapposizione di competenze tra organi giudiziari diversi (CGUE E CORTE EDU) e il conseguente rischio di giudicati in contrasto tra loro, sono oggi in corso per determinare le modalità dell'adesione dell'Unione Europea alla convenzione europea dei diritti umani. Con l'inserimento della materia di diritti umani all'interno del diritto dell'unione viene istituita una sorta di terzo livello di protezione dei diritti umani. Va al riguardo precisato che la carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea non contiene disposizioni che riguardano direttamente gli Stati. Esse si applicano alle istituzioni e agli organismi dell'unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nella attuazione del diritto dell'unione. Alcuni dei diritti previsti dalla Carta di NIZZA potrebbero essere effettivamente violati da parte di alcuni organi dell'unione europea: il diritto all'equo processo di fronte agli organi giudiziari dell'unione. Altri diritti sembrano ben difficilmente violabili da tali organi. Si pensi ad esempio al diritto dell'individuo a non essere sottoposto a tortura, né a pene inumane o degradanti. Ciononostante, tutte le norme della carta costituiscono parametri per valutare la legittimità degli atti adottati dall'Unione e possono rivelarsi utili strumenti per promuovere ulteriori azioni volte a una migliore tutela dei diritti umani. Si pensi ad esempio al regolamento 2005 relativo al commercio di determinate merci che potrebbero essere utilizzate per l'esecuzione di condanne a morte. Resta il fatto che nelle ipotesi di duplicazione o triplicazione di diritti umani tutelati vale il criterio della migliore tutela dei diritti dell'individuo, riconosciuto anche nella carta dei diritti fondamentali. Sul piano concreto, l'inserimento della materia dei diritti umani potrà dare luogo ad esiti che, per evidenti ragioni cronologiche, non si è grado di valutare. Significativa è la sentenza della Corte di giustizia dell'unione nel caso Kadi c. Consiglio con la quale la corte ha annullato il regolamento che impone specifiche misure restrittive nei confronti di persone ed entità associate a reti terroristiche. La corte ha concluso che il regolamento in questione si basava su un procedimento nel quale non erano rispettati i diritti di difesa dei ricorrenti, in violazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva. 24 14. MECCANISMI PROCEDURALI DI TUTELA DEI DIRITTI UMANI In materia di tutela internazionale dei diritti umani, un peso fondamentale assumono gli strumenti utilizzabili dagli individui per ricorrere contro le violazioni da parte di uno Stato dei diritti loro attribuiti. Tali strumenti assumono il nome di meccanismi procedurali. Gli stati abituati a violare i diritti umani sanno bene che non è irreparabile vincolarsi sul piano internazionale a rispettare i numerosi diritti, ma che sarebbe invece un grave errore, sempre dal loro punto di vista, accettare che organismi internazionali imparziali e dotati di poteri sanzionatori possano sindacare come si comportano in concreto. È importante che un trattato istituisca organi internazionali di controllo sull'adempimento degli obblighi da parte degli Stati. È importante altresì che tali organi abbiano natura giudiziaria, siano composti da soggetti che assicurano indipendenza ed imparzialità. È necessario che il diritto di ricorso sia attribuito non solo agli Stati parte, ma anche agli individui. Un individuo infatti è molto più sollecito a sollevare un caso che lo riguarda di quanto lo siano gli Stati. Nel sistema europeo, ad esempio i ricorsi di fronte alla corte europea da parte di uno Stato contro un altro Stato, si sono limitati a tre in cinquant'anni. In determinati ambiti regionali, vale a dire entro cerchie ridotte di Stati affini, si può realizzare una protezione dei diritti umani più soddisfacente sotto il profilo procedurale, di quella che si può conseguire su scala mondiale. Questo in ragione del fatto che, nel mondo, esistono una serie di stati che sono meno propensi ad una concreta salvaguardia dei diritti umani. La convenzione europea ha dato un forte impulso alla tutela dei diritti umani grazie ai suoi meccanismi procedurali. Quando si accerta la violazione di un diritto previsto dalla convenzione, lo stato responsabile è tenuto a prestare un'equa soddisfazione all'individuo leso. Al contrario, il sistema di tutela dei diritti umani operante sul piano mondiale non è stato finora in grado di incidere sugli Stati con la stessa intensità. Si prendano ad esempio i patti delle Nazioni Unite: in entrambi manca un organo giudiziario e manca la possibilità che un giudice internazionale accerti violazioni e condanni uno stato. Anche dove vi sia stata l'accettazione di una giurisdizione, spesso gli Stati si appigliano ad eccezioni procedurali e di merito del tutto pretestuose, pur di evitare un accertamento sul modo in cui essi rispettano gli obblighi assunti con i trattati. Esemplare è in proposito il comportamento dell'Italia di fronte la corte europea, nel caso Artico contro Italia, relativo al diritto di gratuito patrocinio degli imputati non abbienti. L'Italia, pur mettendo in dubbio l'attendibilità dei documenti prodotti dal ricorrente, che aveva subito numerose condanne per delitti contro la fede pubblica, sostenne che non era in grado di reperire, come invece le era richiesto dalla corte, i documenti conservati nei fascicoli a lui intestati e depositati in vari uffici giudiziari italiani. L'Italia impuntò ad Artico che, pure ammesso al gratuito patrocinio, era stato condannato con sentenza definitiva della corte di cassazione, senza aver potuto beneficiare di una difesa effettiva da parte di un avvocato, di non aver sollevato l'eccezione di prescrizione dei reati che lo riguardavano, ma dall'altro lato giustificò con un latinismo (errare humanum est) i giudici della 25 corte di cassazione, che avrebbero dovuto d' ufficio accertare la prescrizione e che, dimostrando Ben scarsa professionalità, non lo avevano invece fatto. Il caso Artico è emblematico perché dimostra come uno Stato possa talora abbassarsi ad argomentazioni invereconde. Esso è anche significativo perché emette luce come uno Stato dovrebbe ben diversamente intendere il senso del sindacato giurisdizionale operato da un giudice internazionale investito della tutela dei diritti umani. La tutela dei diritti umani costituisce uno dei fini primari dello Stato. Invece che perdere la faccia con argomenti cavillosi lo Stato dovrebbe qualificarsi come il primo interessato a conoscere se vi è effettivamente una violazione. Una causa sottoposta ad un giudice internazionale deve considerarsi come il luogo nel quale lo Stato dimostra la propria credibilità ed il proprio prestigio: uno Stato che ammette di aver violato un diritto umano potrebbe risultare soccombente nel caso, ma vincitore sul piano internazionale. Si possono segnalare alcuni casi di Stati che effettivamente hanno riconosciuto la violazione. Ad esempio, nel caso Irlanda contro regno unito, il Regno Unito ammise apertamente la violazione dell'articolo tre della convenzione. 15. Meccanismi giudiziari Vengono esaminati di seguito gli strumenti procedurali di natura giudiziaria oggi disponibili per la tutela dei diritti umani 15. A. La corte europea dei diritti umani Gli strumenti procedurali tutela dei diritti umani previsti dalla convenzione originariamente sono stati radicalmente modificati dal protocollo numero 11. Tra le più significative innovazioni devono essere segnalate: l'abolizione del sistema binario con la soppressione della commissione europea dei diritti umani e la concentrazione di tutte le funzioni giurisdizionali nella sua la corte europea dei diritti umani, l'accettazione automatica degli Stati parte sia della giurisdizione della corte europea, sia del diritto di ricorso individuale (che in precedenza era subordinata ad apposite dichiarazioni facoltativa da parte degli Stati), la instaurazione di una procedura eccezionale di appello delle sentenze della corte. Una seconda importante modifica al funzionamento della Corte, al fine di rafforzarne l'efficacia in conseguenza del continuo aumento del carico di lavoro, è stata portata dal protocollo numero 14. La corte europea dei diritti umani ha sede a Strasburgo ed è costituita da un numero di giudici pari a quello degli Stati parte della convenzione europea dei diritti umani. I giudici vengono eletti dall'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa in una lista di tre candidati designati da ciascuno degli Stati parte. Essi restano in carica per nove anni, non sono rieleggibili e svolgono la loro funzione a tempo pieno. Il limite di età dei giudici è di settant'anni. Essi siedono a titolo individuale e non rappresentano gli Stati di appartenenza. La corte è affiancata da una cancelleria e da giuristi denominati referendari che assistono i giudici nello studio dei casi. La corte può ricevere ricorsi interstatali e individuali. 26 Con i primi, uno Stato parte chiede che la corte di decidere su di una presunta violazione, ad opera di un altro Stato parte, di una disposizione della convenzione o di un protocollo. Con i secondi, un individuo, un'organizzazione non governativa o un gruppo di individui chiede che la corte decida sull'esistenza di una violazione, ad opera di uno Stato parte, di un diritto riconosciuto dalla convenzione o da un protocollo, di cui il ricorrente sia stata vittima. A pena di inammissibilità, è necessario che le vie di ricorso interne siano previamente esaurite e che il ricorso sia stato presentato alla Corte entro sei mesi dalla data in cui la decisione interna finale è stata notificata alla parte interessata. Nel caso di ricorsi individuali è inoltre richiesto che: - Il ricorso non sia anonimo, - Non riguardi sostanzialmente una questione già sottoposta alla corte o un altro meccanismo internazionale giudiziario o di inchiesta, - Non sia manifestamente infondato - Non costituisca un abuso del diritto a ricorrere. Oltre a quelle elencate, il protocollo numero 14 ha introdotto una ulteriore causa di inammissibilità del ricorso: il ricorrente deve aver subito un pregiudizio significativo. Questo criterio di ammissibilità, basato sul principio de minimis non curat praetor, appare discutibile. Esso è stato elaborato nell'intento di ridurre il carico di lavoro della Corte, ma in realtà aggrava la posizione del ricorrente. Contraddice il principio generale in base al quale il giudice, purché il ricorrente dimostri il suo interesse ad agire, è obbligato a prendere una decisione sul caso che gli è sottoposto, indipendentemente dal valore della domanda. I redattori del protocollo numero 14 hanno introdotto, però, due eccezioni: la corte deve comunque ammettere il ricorso: - se valuta che un esame di merito sia richiesto per assicurare il rispetto dei diritti umani, garantiti dalla convenzione - se valuta che la dichiarazione di inammissibilità comporti la reiezione di un ricorso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale nazionale Dato il suo carattere assai vago, la prima eccezione non contribuisce ad eliminare la confusione. Visto il carattere confuso del nuovo criterio di ammissibilità dei ricorsi l'articolo 20, par. 2, del protocollo numero 14 prevedeva che per i primi due anni dall'entrata in vigore, solo camere giudicanti di sette giudici o la Grande Camera potessero applicare il nuovo criterio di ammissibilità, in modo da elaborare una giurisprudenza interpretativa in merito. Questo periodo si concluse il 31 maggio 2012. La prima applicazione del nuovo criterio è avvenuta con la decisione sul caso Adrian Miahi Ionescu c. Romania. Una camera della corte ha dichiarato in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondato un ricorso per un'asserita violazione dell'articolo 6, par.1 (diritto ad un equo processo) e dell'articolo 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione, derivante da un procedimento giurisdizionale riguardante una controversia del valore di € 90. La corte ha valutato l'ammontare della somma e ha dichiarato inammissibile il ricorso. La corte ha ribadito che il valore economico della violazione è rilevante per valutare la natura e la gravità del danno sofferto. Però, tale valore non è fondamentale. 27 La corte europea, nel caso Giusti contro Italia, ha chiarito che al fine di giustificare l'esame del caso da parte di un tribunale internazionale, si deve tenere conto: i) della natura del diritto che si asserisce violato, ii) della gravità della violazione invocata iii) delle potenziali conseguenze di tale violazione sulla situazione personale del ricorrente. Il giudice unico può dichiarare inammissibile o decidere di cancellare dal ruolo, con decisione definitiva, un ricorso individuale. Questa possibilità solleva non poche perplessità: la mancanza di collegialità nella decisione determina una discutibile restrizione delle garanzie procedurali del ricorrente e può favorire una certa arbitrarietà. Se non lo dichiarano ammissibile, o non lo cancella dal ruolo, il giudice unico trasmette il ricorso a un comitato o ad una camera per l'esame nel merito. Un comitato può, all'unanimità, dichiarare inammissibile un ricorso individuale. Il comitato può inoltre pronunciarsi sull'ammissibilità e anche sul merito dei ricorsi relativi a materie per le quali la corte ha già stabilito una pratica giurisprudenziale consolidata. Una camera decide sull'ammissibilità del ricorso individuale (se esso non sia già stato dichiarato inammissibile dal giudice unico) e sul merito, come pure sull'ammissibilità e sul merito di ricorso interstatale. Sei un caso coinvolge una importante questione relativa all'interpretazione della convenzione o di un protocollo ovvero se la soluzione di un caso può risultare incompatibile con una sentenza precedentemente emessa dalla corte, la camera può devolvere il caso alla grande camera, a meno che una delle parti del caso non si opponga. Se il ricorso è ammissibile, la corte esamina il caso insieme ai rappresentanti delle parti, cioè il ricorrente e lo Stato, che nel procedimento sono posti su di una posizione di uguaglianza. La corte può svolgere un'indagine sui fatti, per la quale gli Stati interessati devono fornire tutte le necessarie agevolazioni. Essa si mette anche a disposizione delle parti per raggiungere, in qualunque fase del procedimento, una composizione amichevole della questione, nel rispetto dei diritti umani enunciati dalla convenzione e dai protocolli. Qualora le parti raggiungono un tale accordo, la corte adotta una decisione nella quale descrive brevemente i fatti e indica che è stata raggiunta una soluzione amichevole. La decisione è trasmessa comitato dei ministri che vigila sulla sua esecuzione. Il procedimento di fronte alla corte si svolge quasi interamente per iscritto, a meno che, per il particolare interesse o la complessità di un caso, la corte non ritenga opportuna la convocazione delle parti in udienza pubblica. Se il presidente della corte non dispone altrimenti, i documenti depositati in cancelleria sono accessibili al pubblico. Durante la procedura, la corte ha il potere di indicare delle misure provvisorie, volte a garantire il corretto svolgimento del procedimento od a evitare al ricorrente un danno grave e irreparabile, in particolare alla vita o all'integrità fisica. La corte accerta con sentenza se vi è stata violazione della convenzione o di un protocollo. Se violazione vi è stata, la corte accorda, se necessario, una giusta soddisfazione alla parte lesa. 28 Entro tre mesi dalla data della sentenza di una camera, una parte può chiedere, eccezionalmente, che il caso sia riferito alla grande camera. Un comitato di cinque giudici della grande camera esamina la richiesta e la accoglie, se il caso coinvolge un’importante questione sull'interpretazione o l'applicazione della convenzione o i suoi protocolli oppure un'importante questione di rilievo generale. Se la richiesta è accolta, la grande camera decide sul caso con sentenza. La sentenza della corte europea sono motivate e pubblicate. Ogni giudice ha il diritto di allegare alla sentenza una propria opinione separata (concorrente o dissenziente). Una procedura particolare, i cui effetti superano il caso specifico, è quella della cosiddetta "sentenza-pilota". Quando appare da un ricorso che in uno Stato parte esista un problema strutturale o sistematico che potrebbe dare luogo ad una molteplicità di ricorsi simili, la corte può decidere, di ufficio o su istanza di parte, di trattare il caso in via prioritaria per emettere una sentenza pilota che identifichi la natura del problema strutturale e indichi nel dettaglio le misure che lo Stato interessato deve adottare a livello nazionale per eliminare il problema, includendole nel dispositivo della sentenza. A tal fine, la corte può anche fissare dei termini specifici per l'esecuzione delle misure indicate. La sentenza pilota è notificata oltre che alle parti, al comitato dei ministri, all'assemblea parlamentare del consiglio d'Europa, al segretario generale del consiglio d'Europa e al commissario per i diritti umani del consiglio d'Europa. Lo scopo di questa procedura è di risolvere in modo urgente ed efficace eventuali problemi strutturali, nel rispetto dei diritti umani, negli Stati parte, evitando il ripetersi di numerosi ricorsi identici ed il conseguente ulteriore rallentamento dei tempi di lavoro della corte. Gli Stati parte sono obbligati a dare esecuzione alla sentenza della corte e il comitato dei ministri del consiglio d'Europa, un organo di natura politica, sorveglia sull'esecuzione delle sentenze. Il comitato dei ministri può decidere, a maggioranza dei due terzi, di chiedere alla corte di interpretare una sentenza ai fini di rendere più agevole l'esecuzione della stessa. In base ad un'innovazione introdotta nel protocollo numero 14, il comitato dei ministri, se constata c'è una parte si rifiuta di dare esecuzione ad una sentenza della corte, può, maggioranza dei due terzi, chiedere alla grande camera di accertare se la parte è venuta meno ai suoi obblighi. In caso affermativo, la corte rimette il caso al comitato dei ministri, perché consideri le misure da prendere. Non è però precisato quali misure il comitato dei ministri possa prendere al riguardo, fermo restando che esso non ha il potere di adottare sanzioni o misure coercitive nei confronti di uno Stato inadempiente. Potrebbe però essere proposta la sospensione o l'espulsione dal consiglio d'Europa, di tale Stato. È poi prevista una procedura di infrazione che si applica solo in circostanze eccezionali. Fino ad ora non è mai stata attivata. Alla competenza contenziosa della corte, si aggiunge a quella consultiva. La corte può, su richiesta del comitato dei ministri, dare un parere consultivo su questioni giuridiche relative all'interpretazione della convenzione e dei suoi protocolli. COPIA DA PAGINA 102 a pag 122 LA TUTELA DELLE VITTIME DI VIOLAZIONI DEL DIRITTO ALLA VITA E DEL DIVIETO DI TORTURA 29 2. Gli obblighi positivi Sia la tutela del diritto alla vita, sia la proibizione della tortura e di trattamenti o pene inumane e degradanti, impongono obblighi positivi agli Stati. Questi obblighi si aggiungono a quelli negativi (obblighi di non fare) che impongono allo stato di non tenere determinati comportamenti e che sono di più immediata evidenza (lo Stato non deve privare arbitrariamente della vita, lo Stato non deve torturare). 2. A. Diritto alla vita Per quanto concerne il diritto alla vita, gli organismi internazionali di tutela di diritti umani hanno affermato gli obblighi positivi di: 1. Prevenire le violazioni non solo da parte di agenti di Stato, ma anche di privati; 2. Indagare in modo tempestivo, efficace ed imparziale così da individuare i responsabili, processarli e sanzionarli; 3. Adottare adeguate misure legislative per render efficace sia la prevenzione sia la sanzione di violazioni. 4. garantire un risarcimento e un rimedio adeguato ai familiari delle vittime. Ad esempio, secondo gli organismi internazionali di protezione dei diritti umani l'apertura di un procedimento su violazione del diritto alla vita non richiede denuncia ma dev'essere effettuata di ufficio. Le indagini devono essere svolte in maniera seria da autorità indipendenti ed imparziali e, nei casi che vedono coinvolti dei militari, la giurisdizione deve spettare ai tribunali ordinari. Gli agenti dello Stato che sono oggetto di procedimento devono essere sospesi dal servizio fino a quando non sia accertata la loro estraneità ai fatti. Gli atti del processo devono essere accessibili alle parti. Gli organismi internazionali di protezione dei diritti umani determinano gli obblighi positivi sopraindicati a seguito della lettura combinata dell'articolo che tutela il diritto alla vita con quello generale che impone il rispetto dei diritti umani. La Corte europea dei diritti umani considera la mancanza o la non adeguatezza di un procedimento su gravi violazioni del diritto alla vita come un "aspetto procedurale" della norma della convenzione europea che tutela tale diritto (articolo 2) e talvolta invoca l'articolo 1 della CEDU (Obbligo di rispettare i diritti umani) per sottolineare ulteriormente l'esistenza di un obbligo per gli Stati parte di rispettare e garantire in modo efficace tutti i diritti riconosciuti dal Trattato. Vi sono delle tendenze ad estendere il diritto alla vita anche all'ambito della protezione della salute e della garanzia da parte dello Stato di un adeguato tenore di vita per tutti gli individui che si trovino sotto la giurisdizione. A. Il comitato dei diritti umani ha indicato nel commento generale n. 6 del 1982 che il diritto alla vita non può essere interpretato in modo restrittivo. Ha segnalato l'opportunità che gli Stati si adoperino per ridurre la mortalità infantile e innalzare l'aspettativa di vita. Nel commento generale n. 31 del 2004, riguardante la natura dell'obbligo generale di rispetto dei diritti umani, il comitato ha ribadito che gli Stati parte assumono obblighi sia negativi che positivi, in particolare per quanto riguarda l'adozione di misure legislative adeguate per assicurare la 30 prevenzione di violazioni dei diritti umani, lo svolgimento di indagini che permettono di individuare e sanzionare i responsabili e la predisposizione di misure di riparazione per le vittime. Gli obblighi dello Stato sono violati anche quando esso non ha esercitato la dovuta diligenza per prevenire e punire comportamenti lesivi dei diritti umani. Nelle osservazioni del 21 ottobre 2010, sul caso Novakovic c. Serbia, il comitato ha richiamato il commento generale numero sei del 1982, per riaffermare l’esistenza di obblighi positivi di tutela del diritto alla vita. Si trattava di un errore compiuto dei medici di un ospedale di Belgrado, che aveva portato alla morte di un paziente. Gli accertamenti successivi non erano stati sufficienti a imporre una sanzione ai medici negligenti. Il comitato dichiarò violato l'articolo 6 del patto in combinato con l'articolo 2, paragrafo 3, per via di indagini carenti, che non avevano permesso di accertare la responsabilità del personale medico coinvolto, di processare e sanzionare i responsabili. B. La corte europea dei diritti umani viene con frequenza crescente chiamata a determinare la portata degli obblighi positivi correlati all'articolo 2 della CEDU, soprattutto in casi relativi alla tutela del diritto alla salute, come condizione per il godimento reale del diritto alla vita, o alla prevenzione degli incidenti industriali e naturali o, più recentemente, ad omicidi commessi da detenuti che beneficiano di permessi. Nella sentenza resa per il caso L. C. B. c. Regno unito, il quale riguardava l'invio di circa 20.000 agenti dello Stato sull'isola del Pacifico, dov'erano stati svolti esperimenti di armi nucleari, la corte riconobbe che l'articolo due della convenzione impone allo stato di adottare tutte le misure necessarie per proteggere la vita umana. La corte però non lo ritiene violato in ragione del fatto che non ritenne provato che le autorità britanniche non avevano fornito ai propri agenti le informazioni necessarie sui rischi per la salute connessi alle radiazioni. Nel caso Cipro contro Turchia, la corte era chiamata a giudicare sulla possibile violazione dell'articolo 2 per le condizioni di vita imposte alla popolazione greco-cipriota, residente nella parte settentrionale di Cipro, occupata dalle truppe turche, in particolare per quanto riguarda l'impossibilità di avere accesso a strutture medico-sanitarie e di procurarsi i medicinali. La corte preferì analizzare la questione sotto il profilo dell'articolo 8 della convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare), che dichiarò violato. Tale opinione non fu condivisa da un giudice che dichiarò il proprio dissenso in una dissenting opinion. In seguito, la corte europea è tornata a pronunciarsi su gli obblighi positivi degli Stati per la tutela del diritto alla vita nella sfera della salute, chiarendo, tra l'altro, che gli Stati hanno l'obbligo di adottare norme per far sì che gli ospedali, pubblici o privati, prendano le misure necessarie per tutelare la vita dei pazienti e la condotta del personale medico e per garantire il risarcimento dei danni causati alle vittime. Nella sentenza resa per il caso Oneryildiz c. Turchia, la Grande Camera ha fornito un'interpretazione ampia degli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita. Il ricorrente viveva con 12 familiari in una baraccopoli edificata abusivamente nei pressi di una discarica situata alla periferia di Istanbul. Le autorità non avevano intrapreso alcuna azione per allontanare gli abitanti da quel luogo e per fornire loro una sistemazione alternativa, pur essendo in possesso di relazioni di esperti che dimostravano che la discarica non rispettava le norme di sicurezza e di protezione dell'ambiente e che vi erano elevati rischi per ogni forma di vita che si trovasse nei pressi. Si verificò un'esplosione di metano che provocò lo smottamento del terreno e la distruzione di alcune abitazioni tra cui quella del ricorrente. Le inchieste aperte ai fini di determinare la responsabilità delle autorità portarono all'incriminazione 31 alla condanna di due sindaci, per colpa nello svolgimento di funzioni di pubblica utilità e per omicidio colposo plurimo e a tre mesi di reclusione e al pagamento di una multa di circa € 70. Tali pene vennero poi condonate. La Grande Camera ribadì l'esistenza di obblighi positivi di prevenzione di violazioni del diritto dalla vita, chiarendo che tali obblighi sussistono nei confronti di ogni tipo di attività, sia essa svolta da un ente pubblico o privato, che possa mettere in pericolo il diritto alla vita. La Corte indicò che l'interpretazione degli obblighi positivi connessi all'articolo 2 va distinta in due aspetti: sostanziale e procedurale. Il primo va inteso come l'obbligo di adottare disposizioni legislative e amministrative adeguate per prevenire minacce al diritto alla vita, in particolar modo quando si tratti di attività pericolose, in presenza delle quali, tenendo conto del livello di potenziale rischio per le vite umane, gli Stati devono regolamentare la concessione di licenze, l'edificazione, il funzionamento e la sicurezza degli impianti e devono rendere obbligatoria l'adozione di efficaci misure pratiche. Per quanto riguarda l'aspetto procedurale, la corte ha chiarito che, nel caso in cui vi sia stata la perdita di vite umane, in circostanze che potrebbero comportare una grave colpa degli organi dello Stato, vi è un obbligo dello Stato stesso di assicurare, con tutti i mezzi a propria disposizione, che vi sia una risposta adeguata affinché le disposizioni giuridiche sulla protezione della vita vengano effettivamente applicate ed eventuali violazioni siano adeguatamente indagate e sanzionate. La corte europea accertò che le autorità turche, che pure disponevano di tutte le informazioni necessarie per conoscere l'esistenza di un rischio di un grave incidente, non solo non avevano allontanato gli abitanti della zona a rischio, ma avevano fornito loro servizi ed imposto il pagamento di tasse, così legittimando di fatto gli insediamenti. Per queste ragioni, la corte dichiarò l'art. 2 violato sia nell'aspetto sostanziale, che in quello procedurale. Nella sentenza Bunayeva c. Russia, la corte europea precisò ulteriormente i principi affermati nel caso appena esposto. In particolare, la corte si pronunciò sul ricorso presentato da sei residenti una cittadina del Caucaso periodicamente soggetta a straripamenti dei corsi d'acqua che l'attraversavano. Nonostante fosse noto che i fiumi straripavano nella stagione delle piogge, le autorità non avevano preso alcuna adeguata misura di protezione. La corte ritenne che la Russia non avesse adempiuto ai suoi obblighi positivi di tutela del diritto alla vita, non avendo adottato tutte le misure opportune per prevenire il disastro e per informare in modo adeguato gli abitanti del luogo sui rischi ai quali erano esposti e sulle misure da adottare in caso di emergenza. La corte precisò che gli Stati sono obbligati ad attivarsi, pur avendo un margine di discrezionalità nella scelta delle misure da adottare a fronte di situazioni di rischio. La corte ritenne che l'assenza di indagini indipendenti ed efficaci e la conseguente mancanza di sanzioni per l'accaduto rappresentassero una violazione dell'aspetto procedurale dell'art. 2 della convenzione europea. Interessante è anche la sentenza resa dalla corte sul caso Maiorano e altri contro Italia. I ricorrenti si erano rivolti alla corte lamentando che l'Italia fosse venuta meno ai suoi obblighi positivi di tutela del diritto alla vita, nel momento in cui le autorità giudiziarie avevano concesso il beneficio della semilibertà ad un individuo pluripregiudicato, che una volta fuori dal carcere, seviziò, violentò e uccise due donne. Secondo i ricorrenti, se le autorità avessero svolto il loro dovere di sorveglianza e di prevenzione diligentemente, gli ultimi omicidi non avrebbero avuto luogo. La corte ritenne che, 32 visti i precedenti del soggetto, vi fossero più che fondati motivi per rifiutare il beneficio della semilibertà. Per questo riconosceva la violazione dell'articolo 2. La corte europea ha anche affermato l'esistenza di un obbligo positivo per lo stato di adottare speciali misure di protezione per gli individui la cui vita sia presumibilmente a rischio per via di minacce ricevute a causa, per esempio, dell'attività professionale svolta. Nel caso Dink c. Turchia, la corte ha ritenuto lo stato responsabile di una violazione degli obblighi positivi in materia di diritto alla vita, per non aver adottato misure speciali di protezione nei di un giornalista di origine armena ucciso a colpi di arma da fuoco nel 2007. Il giornalista aveva scritto una serie di articoli che riguardavano il genocidio armeno che avevano provocato una forte ondata emotiva in Turchia e una serie di manifestazioni pubbliche. Nonostante l'esistenza di una serie di indizi che facevano presumere che la vita del giornalista era a rischio, la polizia non aveva fatto nulla. La corte europea sta sviluppando, poi, una giurisprudenza in riferimento al diritto alla vita di persone che subiscono minacce in contesti di violenza domestica. In un caso del 2009 la corte dovete giudicare la morte di una donna che aveva denunciato il marito che minacciava spesso di uccidere lei ed il figlio e che, in ultimo, era stata effettivamente uccisa dall’uomo che aveva compiuto il folle gesto e poi si era suicidato. La corte riscontrò una violazione da parte della Croazia dell'articolo due della convenzione. C. Nell'ambito Interamericano, si registrano vari tentativi di ampliare l'interpretazione del diritto alla vita sia da parte della Commissione sia della Corte Interamericana. Sono stati accertati l'obbligo dello stato di adottare misure positive per garantire la salute e l'obbligo dello Stato e di adoperarsi per garantire concretamente, a partire dall'infanzia, tutte le condizioni necessarie per sopravvivere e per vivere una vita degna. La corte insistette particolarmente nel richiamare gli stati agli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita, ancor di più se ad essere minacciata sia la vita di un minore. In materia di obblighi positivi, quando si verificano situazioni sistematiche di violazione del diritto alla vita, va ricordata la sentenza della corte del 2006 nella quale essa ribadì che il diritto alla vita impone agli Stati l'obbligo positivo di creare le condizioni necessarie affinché non si producano le violazioni dei diritti umani. Nella sentenza del 2006, la corte specificò che lo Stato deve adottare un insieme di norme idoneo a tutelare il diritto alla vita, prevedendo le minacce della stessa, deve assicurare l'esistenza di un sistema giudiziario capace di sanzionare e garantire il risarcimento dei danni causati sia da agenti statali sia da privati e, soprattutto, deve salvaguardare l'accesso a condizioni che garantiscono una vita degna, agli individui che si trovino sotto la propria giurisdizione. La corte ha chiarito che questi obblighi positivi di tutela dei diritti alla vita discendono da una lettura combinata dell'art. 4, dell'art. 1 e dell'art. 2 della convenzione americana e che, nel caso di persone che appartengono a categorie particolarmente vulnerabili, come le popolazioni indigene, tali obblighi sono rafforzati. Secondo la corte, gli obblighi positivi non devono essere interpretati in modo da imporre agli Stati un onere impossibile o palesemente sproporzionato. Si deve pertanto valutare se al momento del verificarsi della violazione gli Stati avessero informazioni sufficienti per accertare l'esistenza di un rischio reale ed immediato per la vita di uno o più individui determinati. Il caso in questione riguardava i membri di una comunità indigena del Chaco, che erano stati costretti ad abbandonare le proprie terre ancestrali, cedute dal governo a società multinazionali, 33 senza aver previamente ottenuto il consenso informato della comunità coinvolta. Gli indigeni erano stati costretti a vivere nel bordo di una strada in condizioni di povertà assoluta, senza ricevere alcuna assistenza dello Stato. La corte ha formulato considerazioni analoghe in una sentenza del 2012, che riguardava la conclusione di un contratto per la ricerca e lo sfruttamento di idrocarburi, che aveva consentito ad una società petrolifera di effettuare delle ricerche in una porzione di territorio dove vivevano gli indigeni, ricerche che avevano portato alla distruzione di un sito di particolare importanza per la vita religiosa degli indigeni. La corte Interamericana ha ritenuto che lo Stato fosse venuto meno ai suoi obblighi positivi di tutela del diritto alla vita, per non aver impedito di operazioni delle società petrolifera privata. Nella giurisprudenza della corte Interamericana è stato più volte ribadito che lo Stato ha un obbligo positivo di pianificare, nel rispetto dei parametri internazionali, le operazioni dei propri agenti di sicurezza che richiedono l'uso della forza, nonché di impartire a questi ultimi un adeguato addestramento ed una formazione che consenta loro di comprendere i propri diritti e doveri anche alla luce del diritto internazionale dei diritti umani. D. Nella giurisprudenza della commissione africana dei diritti umani, la decisione più rilevante è stata quella del 2001, nella quale viene chiarito che lo Stato prima di concedere lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio sul proprio territorio, deve valutare se le attività di estrazione possano pregiudicare la salute della popolazione locale, la sua possibilità di alimentarsi ed usufruire dell'acqua e la salubrità dell'ambiente. 2.B. Divieto di tortura Per quanto concerne il divieto di tortura e trattamenti o pene inumani e degradanti, gli organismi internazionali di tutela dei diritti umani hanno affermato i seguenti obblighi positivi: - Proteggere le persone che si trovino sotto la propria giurisdizione da tortura e trattamenti inumani o degradanti, anche se inflitti da privati - Indagare in modo tempestivo, imparziale ed efficace quando si verifichi un caso di tortura o trattamento inumano o degradante in modo da rendere possibile l'identificazione, il giudizio e la sanzione dei colpevoli - Introdurre nei codici penali il reato di tortura e prevedere per lo stesso pena adeguata alla gravità della condotta - Fornire un addestramento ed una preparazione che consentano al personale delle forze armate, delle forze dell'ordine e a coloro che sono incaricati di sorvegliare persone private della libertà di non incorrere in violazioni della proibizione di tortura e trattamenti inumani o degradanti - Garantire un'adeguata riparazione alle vittime di tortura e trattamenti inumani o degradanti e ai loro congiunti. A. Per quanto concerne l'obbligo di indagare, il comitato dei diritti umani, nel commento generale n. 20 Del 1992, ha sostenuto la lettura congiunta dell'articolo 7, relativo alla tortura, e dell'articolo due, paragrafo tre, del patto che riconosce il diritto a un rimedio effettivo in caso di violazione Dei diritti ivi riconosciuti e garantiti. 34 Il comitato ha ritenuto che gli Stati debbano garantire che denunce di violazione dell'articolo sette del patto, siano indagate senza ritardo ed imparzialmente dalle autorità competenti e che ciò debba essere adeguatamente previsto anche dalla legislazione nazionale. Il comitato ha chiarito che gli Stati non devono attendere una denuncia formale, ma hanno l'obbligo di avviare anche di ufficio indagini qualora vi siano fondate ragioni per ritenere che si siano verificati atti contrari all'art 7 Del patto. Il comitato ha ripetutamente chiarito che non sono ammissibili leggi di amnistia che limitino il dovere di indagare sui casi di tortura o maltrattamento. Nel commento generale numero 31 del 2004, il comitato ha ribadito l'obbligo dello stato di attivarsi per prevenire episodi di tortura anche quando i responsabili siano dei privati. Per quanto concerne l'obbligo di adottare disposizioni di legge adeguate a prevenire e sanzionare atti di tortura o trattamenti o pene inumane e degradanti, il comitato ha interpretato l'articolo sette del patto congiuntamente con l'articolo due, paragrafo due, che prevede che gli Stati parte emanino tutte le disposizioni di legge necessarie a garantire i diritti riconosciuti nel trattato. Nel già ricordato commento generale numero 20, il comitato ha chiarito che gli Stati hanno l'obbligo positivo di prevedere la tortura come reato nei propri codici penali, di sanzionarla in modo adeguato alla sua gravità e di prevedere esplicitamente l'inammissibilità, In ambito giudiziario, di confessioni estorte per mezzo di maltrattamenti. Ha fornito indicazioni in materia di obbligo degli Stati di addestrare e formare i propri agenti in modo da prevenire il verificarsi di casi di tortura e ha ricavato dalla lettura combinata degli articoli 7 e 2 Del patto lo obbligo positivo degli stati di fornire un rimedio efficace ed un'adeguata riparazione alle vittime di tortura trattamenti inumani o degradanti. Il comitato ha elaborato interpretazioni particolarmente originali di quest'obbligo positivo. A tal proposito, si possono ricordare le osservazioni del 3 aprile 2003, riguardanti l'esecuzione di una condanna morte del figlio della ricorrente. In Russia, la legge prevede che né il condannato, né I suoi familiari conoscano la data esatta di quando verrà eseguita la condanna. La donna fu informata dell'uccisione del figlio mediante la consegna di un certificato di decesso solo due giorni dopo l'esecuzione della condanna e le venne negata la possibilità di vedere il cadavere. Il comitato, oltre ad accertare la violazione del diritto alla vita del figlio della ricorrente, ritiene che le modalità di esecuzione della pena rappresentavano un trattamento inumano e degradante. Nelle osservazioni del 30 luglio 2009, il comitato si pronunciò sugli obblighi positivi in materia di sanzioni della tortura. Nel caso di specie, il padre del ricorrente era stato arbitrariamente arrestato per ordine di un comandante dell'esercito congolese, che aveva poi ordinato a due uomini del suo servizio di sicurezza di dargli 400 frustate. Le lesioni ne determinarono l'impotenza. Egli denunciò sia il comandante sia i due uomini che lo avevano materialmente percosso. Il tribunale militare che conobbe del caso condannò il comandante a 12 mesi di reclusione. La condanna non venne eseguita. Il comitato accolse la tesi del ricorrente, raccomandò allo stato, a titolo di misura di riparazione, di procedere senza ritardo all'esecuzione della sentenza. B. La corte europea ha chiarito a più riprese, analogamente a quanto affermato per il diritto alla vita, che gli Stati parte della convenzione europea dei diritti dell'uomo hanno l'obbligo di svolgere un'indagine efficace ed imparziale volta a determinare concretamente l'identità dei responsabili e a rendere possibile la loro adeguata punizione. Qualora le autorità non svolgano tempestivamente 35 ed adeguatamente le indagini, le autorità si rendono responsabili di una violazione del profilo procedurale dell'articolo 3. La corte ha indicato alcuni requisiti che devono sussistere affinché le indagini possano considerarsi efficaci: il ricorrente deve avere la possibilità reale di fare avviare una procedura di indagine, che deve essere svolta tempestivamente, con la dovuta diligenza e da autorità indipendenti Che non abbiano vincoli con chi è sottoposto all'indagine. Anche la corte ha evidenziato che l'obbligo di indagare non discende da una denuncia di parte. Se esistono sufficientemente fondate ragioni per ritenere che sia stata compiuta una tortura o un trattamento inumano o degradante le autorità devono attivarsi di ufficio. Anche la corte, ha affermato l'obbligo degli Stati di adottare misure legislative adeguate adatte a sanzionare la tortura. In un caso del 2003, la corte ha evidenziato, in base al combinato disposto degli articoli 3 e 8, Che gli Stati hanno l'obbligo di adottare misure legislative per sanzionare lo stupro, inteso come forma di tortura. C. Anche la giurisprudenza della corte Interamericana dei diritti umani è univoca nel senso di affermare l'obbligo positivo degli stati di indagare in modo tempestivo efficace ed imparziale sui casi di tortura e trattamenti inumani o degradanti, in modo da identificare e sanzionare i responsabili. Anche la corte Interamericana ha evidenziato che le autorità devono procedere anche di ufficio. Ha indicato i criteri e i requisiti per lo svolgimento di indagini sui casi di tortura. Ha più volte ribadito l'obbligo positivo degli Stati di adottare disposizioni legislative adeguate per prevenire e sanzionare la tortura, valutando anche la compatibilità con i parametri internazionali delle definizioni di tortura contenute nei codici penali dei singoli stati. D. L'obbligo di indagare sui casi di tortura è stato affermato anche dalla commissione africana dei diritti umani e dei popoli. La corte ha chiarito che si deve valutare la serietà con la quale lo Stato ha svolto le indagini per i casi di tortura. 3. Le vittime Alla luce della giurisprudenza elaborata dagli organismi internazionali di protezione dei diritti umani, la nozione di vittima assume varie caratteristiche. Per trovare una definizione che rifletta questa varietà, si può fare riferimento a un documento che pur essendo privo di valore vincolante, rispecchia l’evoluzione del diritto internazionale in materia: i principi delle Nazioni Unite sul diritto alla riparazione per vittime di gravi violazioni di diritti umani e del diritto internazionale umanitario, adottati nel 2005, mediante la risoluzione 60/147 dell'assemblea generale. Il principio 8 stabilisce che: sono vittime le persone che individualmente e collettivamente hanno sofferto, includendo i danni fisici o mentali, emotivi, le perdite economiche o la violazione dei loro fondamentali diritti, attraverso atti o omissioni che costituiscono gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani o serie violazioni del diritto internazionale umanitario. 3.A. Vittime dirette ed indirette. 36 Si definisce vittima diretta chi ha sofferto direttamente della lesione di un diritto: ad esempio, in un caso di esecuzione arbitraria, si tratta della persona uccisa, in un caso di sparizione forzata, della persona sparita eccetera ... Il danno sofferto non deve essere necessariamente di tipo fisico o materiale, ma può anche essere psicologico. Chi è identificabile come vittima diretta è di solito il titolare del diritto ad ottenere una riparazione, per quanto sofferto, si tratti di risarcimento economico o di altre misure. Sono vittime indirette di violazione dei diritti umani I familiari della vittima diretta, che, come conseguenza della violazione principale, a loro volta sono sottoposti ad una situazione di particolare angoscia e dolore. A. Il comitato dei diritti umani non ha svolto particolari elaborazioni sui concetti di vittima diretta o indiretta. Tuttavia, di norma, i familiari che, in qualità di ricorrenti, denunciano un caso di sparizione forzata sono considerati come vittima a loro volta di un trattamento inumano e degradante, per lo stato di angoscia nel quale li riduce la mancanza di informazione sulla sorte toccata la vittima diretta. Il comitato non estende questa considerazione a tutti i familiari delle vittime, ma si limita a dichiarare la sussistenza di tale violazione nei confronti del ricorrente che ha formalmente presentato la comunicazione. B. In casi di sparizione forzata, esecuzioni arbitrarie e massacri, la corte Interamericana dei diritti umani ha considerato come vittime indirette i familiari di vittime dirette e ha dichiarato l'esistenza di una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti nei loro confronti. La corte non ha imposto l'onere della prova ai ricorrenti, ma ha presunto la sussistenza di una violazione dell'integrità psicologica dei familiari delle vittime dirette. Il numero dei familiari che sono considerate vittime indirette e che vengono poi indicati come beneficiari delle misure di riparazione è particolarmente ampio: genitori, figli, fratelli, coniugi e conviventi permanenti e tutti coloro che hanno un legame speciale con la vittima diretta. C. Più restrittivo è l'orientamento della corte europea dei diritti umani, Che considera vittima indiretta i familiari solo in casi di sparizioni forzate e non anche di esecuzioni arbitrarie e di altre pur gravi violazioni dei diritti umani. In secondo luogo, anche in casi di sparizioni forzate, essa non applica una presunzione di violazione nei confronti delle vittime indirette. In terzo luogo, non tutti i familiari sono considerati vittima indiretta. La corte ha ribadito più volte di non considerare come vittime indirette I familiari di persone che sono state arbitrariamente private della vita, ritenendo che non si possono estendere ad essi la giurisprudenza ed i criteri elaborati in casi di sparizione forzata. Se chi non riceve notizie da parte delle autorità su un proprio familiare vittima di sparizione è qualificato come vittima indiretta, è difficile comprendere come non si possa ripetere lo stesso ragionamento per il familiare di un individuo morto in custodia o ucciso arbitrariamente, nel caso in cui la corte abbia accertato una responsabilità dello Stato ed una successiva condotta omissiva e lacunosa in sede di indagine. Nei casi di sparizione forzata di persone, seppur con qualche iniziale contraddizione, la corte tiene in considerazione alcuni fattori, quali il tipo di legame familiare, la particolare intensità di tale 37 legame, l'eventualità che il familiare abbia assistito alla violazione ed il grado di coinvolgimento del familiare nei tentativi di ottenere informazioni sulla sorte della vittima. 3. B. Vittime potenziali Nel caso della categoria delle cosiddette vittime potenziali, la giurisprudenza non è unanime. La corte europea dei diritti umani ha affermato la propria competenza a trattare anche ai casi di ricorrenti che, pur non avendo ancora subito una violazione attuale di un diritto tutelato, potrebbero subirla a causa di una legge nazionale in contrasto con un articolo della convenzione europea. Il primo esempio di questo orientamento è dato dalla sentenza resa il 22 ottobre 1981 sul caso Dudgeon c. Regno unito. Il ricorrente lamentava l'esistenza di una legge in vigore in Irlanda del Nord che prevedeva la sanzione della reclusione da 10 anni all'ergastolo per ogni atto di omosessualità, ivi compresi quelli tra adulti consenzienti. La corte riconobbe la violazione dell'articolo otto, nonostante la legge non fosse mai stata applicata. Nella decisione del 16 dicembre 2008, sul caso Ada Rossi contro Italia, la corte rilevò che un ricorrente, per potersi qualificare come vittima potenziale di una violazione, deve fornire degli indizi ragionevoli e convincenti sulla probabilità che si verifichi una violazione che lo riguardi personalmente. Semplici sospetti o congetture non sono a riguardo sufficienti. Un'applicazione particolare di vittima potenziale effettuata dalla corte europea e dal comitato dei diritti umani per quanto riguarda le espulsioni o le estradizioni di individui che possono essere vittima, una volta allontanati dallo Stato, di sentenze di morte, esecuzioni, tortura etc.. La corte europea ha evidenziato che gli Stati, in questi casi, hanno l'obbligo di non procedere all'espulsione o alle estradizione. La corte europea accorda questo particolare genere di tutela in casi in cui siano state evidenziate motivazioni fondate per ritenere che la persona in questione corra un rischio reale ed imminente. Per determinare la sussistenza di tali fattori, la corte tiene in considerazione fattori quali: la situazione esistente nello Stato nel quale il ricorrente dovrebbe essere estradato, rinviato o consegnato, l'esistenza di una pratica sistematica di trattamenti inumani, il fatto che il ricorrente sia già stato minacciato o sottoposto in tale stato, in precedenti occasioni, a torture o trattamenti inumani o degradanti. 3.C. Vittime collettive La definizione di vittima proposta nei principi delle Nazioni Unite, sulla riparazione, si riferisce anche alle vittime collettive. Questo concetto si applica, in particolare, quando sono coinvolte popolazioni indigene, per alcune delle quali è pressoché inesistente il concetto di individualità, che è sostituito da quello di comunità. Gli Stati possono rendersi responsabili di violazioni nei confronti di un'intera comunità di vari diritti umani. La comunità, come tale, ha titolo di beneficiare di misure di riparazione che assumono un carattere particolare per soddisfare la dimensione collettiva del danno. 4. Impunità e gravi violazioni dei diritti umani. 38 Di fronte al verificarsi di gravi violazioni dei diritti umani, si è, a volte, prospettata l'impunità dei responsabili come un male necessario o come una inevitabile conseguenza del numero troppo elevato delle violazioni commesse. Talvolta, si è cercato di lenire le ferite provocate nella società da massacri, tortura, sparizioni forzate ed esecuzioni arbitrarie invocando la formula dell'oblio e del perdono. In realtà, l'impunità provoca un aumento del senso di insoddisfazione dei familiari delle vittime e della probabilità di commissione di nuove violazioni. Nei Principi per la promozione e la protezione dei diritti umani l'impunità è definita come la mancanza di indagine, giudizio e sanzione dei responsabili di violazioni di diritti umani e la conseguente mancanza di riparazione alle vittime. A livello normativo e giurisprudenziale si sta però affermando l'obbligo degli Stati di indagare, di adottare tutte le misure a loro disposizione per combattere il fenomeno dell'impunità e garantire la riparazione integrale del danno cagionato alla vittima. Vari sono gli strumenti e gli espedienti che possono favorire e mantenere l'impunità: leggi di amnistia, prescrizione, diritto di asilo, rifiuto di estradare, principio secondo il quale non si può giudicare la stessa persona due volte per lo stesso reato, obbedienza dovuta, immunità, pentimento, giurisdizione dei tribunali militari, inamovibilità dei giudici. Già nel 1998, nella più volte citata sentenza sul caso Furundzija, il tribunale per l'ex-Jugoslavia ha collegato alla natura di Ius cogens della proibizione della tortura la conseguenza che leggi volte ad amnistiare i responsabili siano prive di effetti giuridici. Gli organismi internazionali dei diritti umani si sono pronunciati in diverse occasioni sull'incompatibilità degli strumenti che favoriscono l'impunità con gli obblighi internazionali che incombono sugli Stati, in caso di gravi violazioni dei diritti umani. La corte Interamericana dei diritti umani ha affermato che gli Stati hanno l'obbligo di combattere una situazione di impurità con tutti i mezzi giuridici a loro disposizione. Particolarmente grave è il problema posto dalle leggi di amnistia. In Argentina, il 9 dicembre 1985, la corte nazionale d'appello giudicò alcuni dei principali esponenti del regime militare, infliggendo una serie di condanne. Queste poi vennero precluse da una legge di amnistia, che la corte suprema dichiarò incostituzionale. In El Salvador, dopo conflitto interno protrattosi dal 1980 al 1992, venne creata sotto gli auspici delle Nazioni Unite, una commissione della verità, che adottò un rapporto finale, reso pubblico il 15 marzo 1993. Cinque giorni dopo fu adottato un provvedimento di amnistia che ha reso impossibile giudicare e sanzionare i responsabili delle gravi violazioni di diritti umani commesse durante il conflitto e ricorrere ai giudici civili per ottenere il risarcimento dei danni. Benché il comitato dei diritti umani e la commissione Interamericana dei diritti umani abbiano dichiarato che le leggi di amnistia violasse gli obblighi internazionali di protezione dei diritti umani e ne abbiano consigliato l'abrogazione, il decreto è ancora in vigore ed è stato regolarmente applicato. La corte Interamericana di diritti umani ha dichiarato il decreto contrario alle disposizioni della convenzione americana e ordinato ad El Salvador di assicurarsi che il decreto non possa più ostacolare l'indagine e lo svolgimento di processi. In Perù, furono adottate due leggi di amnistia che stabilivano che non era possibile processare imputati per reati commessi individualmente o collettivamente nel contesto della lotta contro il terrorismo. Di fondamentale importanza per sostenere l'inapplicabilità di leggi di amnistia in casi che riguardano gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, è la sentenza resa il 14 marzo 39 2001 dalla corte Interamericana sul caso Chumbipuma c. Perù, nel quale la corte concluse che, in casi di gravi violazioni dei diritti umani, le leggi di amnistia, le disposizioni riguardanti la prescrizione e le esimenti che permettano di impedire l'indagine , il giudizio e la sanzione dei responsabili violano i diritti inderogabili sanciti dalla convenzione americana e sono pertanto inammissibili. La corte ordinò al Perù di abrogare le due già menzionate leggi e di dichiararle prive di effetti giuridici. Le leggi di amnistia peruviane, pur non essendo mai stati formalmente abrogate, sono state considerate prive di effetti in virtù della sopracitata sentenza della corte Interamericana. Il principio dell'inammissibilità di leggi di amnistia a fronte di gravi violazioni dei diritti umani è stato mantenuto nella giurisprudenza successiva della corte Interamericana. La corte europea dei diritti umani, nella decisione del 17 marzo 2009, ha escluso che una legge di amnistia adottata in Mauritania potesse essere fatta valere in occasione di un procedimento penale svolto in Francia nei confronti di un imputato di torture commesse in Mauritania. Nella sentenza del 13 novembre 2012 sul caso Margus contro Croazia, la corte europea ha ribadito l'incompatibilità di leggi di amnistia con l'obbligo degli Stati di indagare, processare e sanzionare i responsabili di crimini internazionali e gravi violazioni dei diritti umani. Anche il comitato dei diritti umani, nel suo commento generale numero 31 del 2004, si è pronunciato sulla compatibilità con il patto sui diritti civili e politici di leggi di amnistia o di altre misure che portano all'impunità, concludendo che tali misure sono in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dagli Stati parte. Nelle osservazioni conclusive adottate nel 2007 in occasione dell'esame del rapporto Periódico presentato dall'Algeria, il comitato dei diritti umani ha analizzato il già menzionato provvedimento di amnistia del 2006 e ha rilevato la sussistenza di svariati profili di incompatibilità con i principi fondamentali di protezione dei diritti umani. Ga anche formulato alcune raccomandazioni allo stato, affinché l'amnistia non pregiudichi gli obblighi internazionali dello stesso e non venga in alcun modo applicata a favore di individui accusati di gravi violazioni. Anche la commissione africana dei diritti umani e dei popoli avuto modo di pronunciarsi sulla incompatibilità con la carta africana di leggi di amnistia a vantaggio dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Nella decisione del 29 luglio 2008, la commissione ha confermato che le leggi che hanno l'effetto di garantire assoluta immunità ad individui accusati di azioni e di precludere in tal modo l'accesso a qualsiasi rimedio che possa permettere alle vittime di rivendicare i propri diritti sono contrario agli articoli uno (obbligo di rispettare i diritti riconosciuti) e sette (diritto all'equo processo) della carta africana. I già ricordati principi contro l'impunità invitano gli Stati a non abusare di misure, come le amnistie, che contribuiscono all'impunità. E si pongono alcune condizioni che devono accompagnare l'adozione di eventuali leggi relative all'amnistia o ad altre misure di clemenza: divieto di concedere amnistia prima che i processi siano conclusi E del divieto di pregiudicare il diritto delle vittime di ottenere un risarcimento sul piano civile. I principi contro l'impunità forniscono anche indicazioni in caso di pentimento dei responsabili, chiarendo che la collaborazione con l'autorità nel fare luce su quanto accaduto non può valere come esimente. In vari casi, l'impunità e di fatto garantita dalla circostanza che i militari o gli appartenenti alle forze dell'ordine responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono giudicati da un tribunale militare. 40 Nel sistema Inter americano di protezione dei diritti umani Sia la commissione anche la porta hanno affermato un criterio restrittivo per definire i limiti della giurisdizione penale militare, che deve essere limitata ai reati commessi da militari nell'esercizio delle funzioni militari, con esclusione delle gravi violazioni dei diritti umani. Anche il comitato dei diritti umani, nelle osservazioni conclusive del 26 luglio 1995, sul rispetto dei diritti umani in Russia, si espresse nel senso che i tribunali militari non sono competenti per giudicare membri delle forze armate accusati di aver commesso violazioni dei diritti umani. La commissione africana dei diritti umani e dei popoli è pervenuta conclusioni analoghe a quelle del comitato dei diritti umani in materia di incompetenza dei tribunali militari nei confronti di persone accusate di gravi violazioni di diritti umani. Essa ha riconfermato nel tempo questa linea giurisprudenziale. In altri casi, l'impunità dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani è stata assicurata mediante l'applicazione di termini di prescrizione eccessivamente brevi o che non tenevano conto della natura continua del reato o della imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità. Anche il principio della cosa passata in giudicato e il principio del ne bis in idem, in ragione dei quali non si può giudicare più volte una persona per gli stessi fatti, sono stati talvolta utilizzati per garantire l'impunità agli imputati di gravi violazioni dei diritti umani, tramite lo svolgimento di processi-lampo o di processi-farsa. Negli stessi Principi, viene chiarito che, sempre per contestare l'impunità, gli Stati devono evitare di concedere l'asilo o la condizione di rifugiato a chi è sospettato di aver commesso crimini internazionali e devono concedere la sua estradizione allo Stato che ha titolo per richiederla. La corte Interamericana ha chiarito che le gravi violazioni dei diritti umani richiedono un obbligo di cooperazione tra gli Stati. La Corte EDU (in un caso che riguardava la commissione di alcuni crimini in Bosnia Erzegovina da parte di individui che si trovavano in Serbia) ha adottato nel 2011 un criterio opposto. Pur senza mettere in discussione l’obbligo della Serbia di estradare o processare gli individui in questione ha preferito non approfondire questo aspetto e ha respinto la richiesta della ricorrente, che lamentava la violazione da parte della Bosnia Erzegovina dell’obbligo di processare i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, indicandole che avrebbe dovuto presentare il caso contro la Serbia. I principi di diritto sulla riparazione invitano gli Stati a facilitare l’estradizione degli imputati di gravi violazioni dei diritti umani, aggiungendo che tutti gli Stati dovrebbero adottare norme che rendano possibile la cd. “giurisdizione nazionale universale”, in virtù della quale ogni Stato può processare un individuo accusato di crimini internazionali e gravi violazioni dei diritti umani, posto che egli si trova nel territorio dello Stato. I principi contro l’impunità fanno riferimento anche ad altri meccanismi giuridici che possono impedire il regolare corso della giustizia nei confronti di imputati di gravi violazioni dei diritti umani e prevedono: l’inammissibilità, come esimente, dell’aver agito in esecuzione di ordini; il riconoscimento della responsabilità del superiore gerarchico che, pur sapendo o avendo le ragioni per sospettare che un proprio subordinato stava per commettere una grave violazione dei diritti umani, non abbia adottato tutte le misure ragionevoli per prevenire o sanzionare il reato; l’inapplicabilità di immunità e privilegi nei confronti di accusati di gravi violazioni dei diritti umani, anche qualora si tratti di capi di Stato o governo. Un ulteriore strumento utilizzabile per garantire l’impunità è il segreto di Stato, per non rendere pubbliche info che permetterebbero di fare luce su violazioni dei diritti umani. 41 Nella sentenza Tiu Tojin c. Guatemala, la corte interamericana ha chiarito che gli Stati hanno l’obbligo di consentire alle autorità incaricate delle indagini l’accesso a tutti i documenti e informazioni che possano permettere di fare luce sulla commissione di gravi violazioni dei diritti e che, in casi di questo tipo, non si possono invocare né il segreto di Stato né la confidenzialità delle informazioni, né ragioni di interesse nazionale o di sicurezza nazionale. La Corte EDU non ha ancora preso una posizione netta, anche se in numerose sentenze ha dichiarato incompatibile con la CEDU il rifiuto, ripetutamente opposto dalla Russia per asserite ragioni di sicurezza nazionale, di fornire documenti richiesti dalla Corte stessa e coperti da segreto di Stato. Nel caso Khaled El-Masri, un cittadino tedesco rimasto invischiato nella rete delle consegne straordinarie, fu catturato, fatto sparire e trasportato da agenti degli USA in Afghanistan, dove fu sottoposto a tortura e recluso. Fu poi portato in albania, quindi in Germania dove fu liberato. La domanda di El- Masri di essere risarcito fu respinta dai tribunali americani, ma fu accolta dalla Corte EDU. Collegate al problema dell’impunità, sono poi le modalità d conservazione degli archivi, da parte degli Stati, che possono contenere informazioni rilevanti per stabilire la verità sull’accaduto. I principi contro l’impunità stabiliscono che gli Stati devono prevedere sia misure tecniche, sia sanzioni al fine di prevenire la rimozione, la distruzione, la falsificazione o l’alterazione degli archivi e che devono facilitarne l’accesso alle vittime di violazioni dei diritti umani. L’accesso può essere negato per ragioni di sicurezza nazionale solo in casi eccezionali, qualora questo sia previsto per legge dopo avere dimostrato l’esistenza di una necessità, in uno stato democratico, di tale restrizione al fine di proteggere un legittimo interesse di sicurezza nazionale e sottoponendo tale decisione alla possibilità di valutazione e revisione da parte delle autorità giudiziarie. 5. LE MISURE DI RIPARAZIONE Un organismo internazionale che accerta la commissione di una violazione dei diritti umani, deve disporre le misure di riparazione a favore dell’individuo leso. Le misure di riparazione dei diritti umani (che soppiantano le ordinarie norme di diritto internazionale sulla responsabilità degli Stati) assumono varie forme a seconda delle situazioni in cui si trova l’individuo leso. Utili indicazioni sono contenute nei Principi sul diritto alla riparazione. I principi sono uno strumento privo di valore obbligatorio, ma che stabilisce i parametri di garanzia più completi in materia. Essi stabiliscono che, di fronte ad una violazione grave dei diritti umani, la vittima e i suoi familiari ha diritto ad una riparazione integrale, che comprende la restituzione, il risarcimento, la riabilitazione, la soddisfazione e le garanzie di non ripetizione. In presenza di gravi violazioni dei diritti umani, molta importanza assumono le misure di riparazione non pecuniarie. Una somma di denaro non può bastare da sola a riparare i danni materiali e morali prodotti in caso di torture, massacri, esecuzioni arbitrarie e sparizioni forzate, che comportano pesanti conseguenze non solo per la vittima, ma anche per i suoi familiari. Questa constatazione è stata affermata con convinzione anche dal Comitato contro la Tortura nel suo commento generale n. 3 del 16 Novembre 2012, ed è presente, seppure con minore enfasi e dettagli, anche nelle ricordate Linee guida del 2011 per sradicare l’impunità per gravi violazioni dei diritti umani del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. 42 A. Né il Patto sui diritti civili e politici né il suo primo Protocollo facoltativo aggiungono disposizioni in tema di misure di riparazione. Ciononostante, il Comitato dei diritti umani ha sviluppato la pratica di raccomandare misure di riparazione allo Stato responsabile della violazione. Questo in ragione della lettura congiunta dell’art. 5, par 4 del Protocollo, che autorizza il Comitato a comunicare allo Stato interessato ed al ricorrente le proprie osservazioni sul caso, e dell’art 2 par 3, che prevede genericamente l’obbligo degli Stati parte di assicurare un rimedio effettivo alle vittime di violazioni. Il comitato ha raccomandato sia misure di natura pecuniaria, senza mai specificare l’ammontare del quantum dovuto, sia misure di carattere non pecuniario, ad es. l’abrogazione di leggi in contrasto con il Patto, il rilascio di individui ingiustamente detenuti etc. Come stabilito dall’art. 101 del regolamento di procedura del Comitato, un relatore speciale è incaricato di vigilare sull’esecuzione delle misure. Il relatore può raccomandare l’adozione di ulteriori misure, ma nel regolamento non è specificato in cosa possono consistere. B. il Potere della commissione africana dei diritti umani, di formulare raccomandazioni circa misure di riparazione si desume dall’art. 58 della Carta, che prevede che la Commissione, al momento di trasmettere il proprio rapporto su un caso all’Assemblea dei capi di Stato e di Governo dell’UA, formuli le proprie raccomandazioni e dalla regola 112, par 2, del regolamento di procedura della commissione, in base al quale lo Stato dichiarato responsabile di una o più violazioni della Carta Africana dispone di 180 gg per comunicare alla commissione le misure adottate per eseguire le raccomandazioni formulate da quest’ultima. In un primo momento, la Commissione non applicava la disposizione relativa alla raccomandazione di misure di riparazione. Poi cominciò a raccomandare solo misure pecuniarie, poi anche misure non pecuniarie (di rilasciare persone ingiustamente private della libertà, di migliorare le condizioni dei detenuti sottoposti a trattamenti degradanti, di riaprire le indagini su alcune violazioni dei diritti umani). C. L’organismo giurisdizionale di tutela dei diritti umani che ha sviluppato la giurisprudenza maggiormente innovativa e completa in materia di misure di riparazione è la corte interamericana dei diritti umani, chiamata a dare applicazione all’art. 63 della Convenzione Americana, che dà alla Corte il potere di ordinare allo Stato di porre rimedio alle conseguenze della violazione e di versare alla vittima un equo risarcimento. Le misure di riparazione hanno un carattere obbligatorio per lo Stato. Esse tendono, di solito, a porre rimedio alla situazione particolare della vittima, a risolvere i problemi strutturali o sistematici che hanno portato alla violazione dei diritti umani. La Corte tenta di ripristinare la situazione anteriore alla violazione (restitutio in integrum). Nei casi in cui la restituzione è impossibile, come in presenza di sparizioni forzate, tortura o esecuzioni arbitrarie, la Corte ha condannato gli Stati responsabili a corrispondere alla vittima o ai suoi familiari un risarcimento pecuniario, che coprisse tanto il danno materiale (danno emergente e lucro cessante), quanto quello morale (danno immateriale), corrispondente alla situazione di sofferenza e di angoscia o abbandono che essi avevano subito. Se la corte valuta che lo Stato non ha adeguatamente valutato un caso di violazione dei diritti umani, ordina a titolo di riparazione l’apertura di un procedimento effettivo volto ad individuare gli autori materiali della violazione e a ristabilire la giustizia. 43 Le misure di riparazione sono poi valutate sulla base del caso concreto. Ampio è il numero di misure di riparazione che la Corte ha ordinato nella sentenza Comunidad indigena Sawhoyamaxa c. paraguay (restituzione delle terre ancestrali alla comunità, creazione di un fondo comunitario per realizzare progetti collettivi in materia di istruzione, sanità, abitazione ed agricoltura, fornitura gratuita di acqua potabile e medicinali etc..) In alcuni casi, a titolo di riparazione, la Corte ha condannato gli Stati a realizzare atti pubblici di scuse e riconoscimento di responsabilità internazionale dello Stato per la violazione dei diritti umani, a costruire centri di istruzione e a dedicarli alle vittime di violazioni dei diritti umani, a erigere monumenti in onore delle vittime. Risulta che gli Stati adempiano all’obbligo di risarcire le vittime, seppure, talvolta, con notevole ritardo. Ma essi si mostrano ben più riluttanti ad adempiere a forme di riparazione morali, come l’ammissione di responsabilità. Una giurisprudenza particolarmente articolata in tema di riparazioni è stata elaborata dalla Corte per i casi di massacri. Ad esempio, con sentenza in materia di riparazione del 19 Novembre 2004, sul caso Masacre de Plani de Sanchez c. Guatemala, la Corte oltre al risarcimento pecuniario e all’obbligo di svolgere un’indagine completa che permettesse di giudicare e sanzionare i responsabili del massacro, ha ordinato al Guatemala di organizzare un atto pubblico di riconoscimento di responsabilità. La stessa corte interamericana, che è stata chiamata conoscere diversi casi di sparizione forzata, ha dedicato particolare attenzione al tema delle misure di riparazione per le violazioni riscontrate. Ad esempio, nella sentenza del 27 febbraio 2002, resa per il caso Trujillo Oroza c. Bolivia, la corte ha condannato la Bolivia di adoperarsi in tutti modi per localizzare ed identificare i resti morali dello spartito e restituirli e familiari, affinché potessero procedere, a spese dello Stato, a dargli degna sepoltura. In anni successivi, la corte ha ulteriormente ampliato le misure di riparazione, ordinando, ad esempio agli stati responsabili, di fornire borse di studio ai figli delle persone fatte sparire, di pagare un trattamento medico di sostegno ai familiari, di fornire una protezione speciale a coloro che per le loro denunce sono stati minacciati, di riconoscere tramite le più alte autorità la propria responsabilità in cerimonie pubbliche. In virtù di quanto stabilito dall'articolo 51, paragrafo due, della convenzione americana, anche la commissione Interamericana ha il potere di raccomandare agli Stati le misure necessarie per rimediare alle violazioni constatate nei propri rapporti e di fissare un termine per il relativo adempimento. Anche la commissione fornisce un'ampia interpretazione del concetto di riparazione, come comprendente tutte le misure volte a garantire una riparazione integrale per le vittime dirette delle violazioni constatate, per i loro familiari e per la società in generale. D. L'articolo 41 della convenzione europea consente alla corte EDU di accordare un'equa soddisfazione alla vittima di una violazione, sia pure soltanto qualora la corte lo reputi necessario e soltanto qualora il diritto interno dello Stato non consenta una piena riparazione. La corte europea ha spesso limitato la riparazione ad una somma di denaro. In alcuni casi, la corte ha addirittura deciso che la propria sentenza bastasse come riparazione per il ricorrente. 44 Il riconoscimento da parte di un giudice di una violazione, cioè di qualcosa che è già implicito nelle circostanze dedotte in giudizio, (in altri termini, la sola sentenza) non sembra di per sé costituire una misura sufficiente di riparazione di un torto. Sta di fatto che, in materia di misure di riparazione, l’atteggiamento della corte europea non sembra univoco. Spesso la corte ha posto l'articolo 41 della convenzione europea in relazione all'articolo 46 (valore obbligatorio ed esecuzione delle sentenze), che attribuisce al comitato dei ministri del consiglio d'Europa il potere di sorvegliare l'esecuzione delle sentenze della corte. Secondo la corte, l’obbligo in capo agli Stati responsabili di adottare misure individuali e generali, che si reputino opportune per rimediare agli effetti delle violazioni commesse, discende dall'articolo 46 della convenzione ed il suo adempimento è sottoposto alla sorveglianza del consiglio dei ministri, restando gli Stati interessati liberi, nella loro discrezionalità, di scegliere i mezzi con i quali adempiere. La posizione della corte europea è ben diversa da quella della corte Interamericana, che ha spesso ordinato una serie molto dettagliata di misure di riparazione, senza lasciare allo stato responsabile alcun margine di discrezionalità. Non è però chiaro perché la corte europea, privandosi di una competenza che essa potrebbe esercitare, lasci ad uno stato responsabile di violazione dei diritti umani una scelta discrezionale sui mezzi più appropriati per riparare. La sorveglianza da parte del comitato dei ministri non colma la lacuna lasciata aperta dalla corte. Ad esempio, in numerosi casi, la corte ha riscontrato che lo Stato non aveva proceduto ad indagare su gravi violazioni dei diritti umani, ma non ha ordinato, a titolo di misura di riparazione, di riaprire le indagini, in tal modo lasciando le vittime della violazione nella discrezionalità dello stato di procedere o meno ad ulteriori indagini. Alcuni giudici della corte hanno invocato un cambiamento giurisprudenziale, ritenendo con ben fondati motivi, che la corte abbia competenza per ordinare come misura di riparazione la riapertura delle indagini, se nella sua sentenza essa abbia dichiarato che quelle svolte dalle autorità nazionali erano insufficienti o inadeguate. In alcuni casi, riguardanti la violazione del diritto di proprietà, la corte ha evidenziato che la migliore tutela era la restituzione in forma specifica, ma non l'ha ordinata allo stato direttamente. Solo in alcuni casi più recenti, la corte ha ordinato direttamente la suddetta restituzione. Vi sono però alcuni casi in cui la corte europea, a conferma del carattere non univoco della sua giurisprudenza in materia di riparazione, ha direttamente ordinato allo stato responsabile, misure diverse dal pagamento di una somma di denaro. In un caso riguardante l'arbitraria carcerazione di un individuo per più di cinque anni, la corte, oltre a riconoscere al ricorrente una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno subito, ha ordinato, vista la natura stessa della violazione, la scarcerazione nel lasso di tempo più breve possibile. In un caso riguardante un ricorrente che si è ammalato di AIDS a causa di trasfusioni di sangue infetto avvenute in ospedale, la Corte oltre a riconoscere il diritto ad una somma di denaro, ha ordinato allo Stato di garantire a vita al ricorrente l'accesso all'assistenza medica gratuita. In un caso relativo ad un giudice ingiustamente licenziato, la corte ha disposto la tempestiva reintegrazione nel suo posto di lavoro. Un orientamento giurisprudenziale della Corte europea mira a limitare i ricorsi-clone, ossia i ricorsi basati sui identici presupposti di fatto e di diritto. La corte, pur ribadendo di non poter 45 emettere sentenze pilota, ha indicato agli Stati quali norme dell'ordinamento andrebbero introdotte per evitare nuove condanne. La corte ha demandato al comitato dei Ministri la responsabilità di determinare misure di riparazione da adottare a fronte di violazione di diritti umani. Visto il ruolo che gli è attribuito dalla corte, il comitato dei ministri ha adottato il 10 maggio 2006 un insieme di regole di procedura per la supervisione dell'esecuzione sia delle sentenze della corte, sia della composizione amichevole della controversia. Nelle stesse regole, il comitato fornisce alcuni esempi di cosa possa intendersi per "misure individuali", vale a dire: la cancellazione dai casellari penali nazionali di condanne che sono state dichiarate illegittime, la concessione di un permesso di soggiorno, la riapertura dei processi a livello nazionale, qualora la corte abbia giudicato insufficienti o non compatibili con i parametri europei quelli che si sono già svolti. Per quanto concerne le "misure generali" il comitato menziona la possibile adozione di emendamenti legislativi o di cambiamenti nella giurisprudenza o nella pratica amministrativa, la traduzione di una sentenza della corte nella lingua ufficiale dello stato dichiarato responsabile e la sua diffusione attraverso i principali mezzi di comunicazione. Il comitato dei ministri ha stabilito un SISTEMA A DOPPIO BINARIO per vagliare l'esecuzione delle sentenze. Secondo questo sistema, il comitato dei ministri può adottare una procedura d'urgenza nel controllo dell'esecuzione di quelle sentenza che rivelino l'esistenza di problemi strutturali o maggiormente complessi nell'ordinamento dello Stato in questione o in qualunque altro caso in cui lo reputi necessario. Il comitato stila ogni anno una lista di misure di riparazione adottate dagli Stati. La corte europea non ho mai ritenuto necessario ordinare allo stato di scusarsi pubblicamente. 6. Le misure cautelari In taluni casi, durante i procedimenti che riguardano la protezione dei diritti umani, può essere necessario un intervento urgente del giudice per salvaguardare interessi personali essenziali, in particolare la vita e l'integrità fisica di individui che rischiano di subire un pregiudizio irreparabile. Lo strumento di cui dispongono gli organi giudiziari sono le misure cautelari. Gli organi giudiziari possono obbligare lo Stato ad adottare misure per proteggere la vita e l’integrità personale di individui che altrimenti rischierebbero di subire un grave danno fisico. Con le stesse finalità, gli organi giudiziari possono anche ordinare allo stato di non adottare misure che, se poste in essere, pregiudicherebbero irrimediabilmente l'individuo in questione. Dalla finalità stessa delle misure cautelari discende l'ovvia conseguenza che esse hanno carattere obbligatorio. Tali misure, qualora ne ricorrano i presupposti, contribuiscono a realizzare lo scopo del processo, inteso come strumento di tutela effettiva di diritti e non già come enunciazione di decisioni, per fatti intervenuti in pendenza del procedimento, che hanno ormai acquisito un carattere illusorio o accademico. In un caso, accadde che 2 fratelli tedeschi vennero condannati a morte dagli Stati Uniti, che, in violazione di quanto previsto da una convenzione posta in essere tra Stati Uniti e Germania, comunicarono l'arresto dei cittadini alla Germania, non subito, ma solo dopo l'emissione della sentenza di condanna. 46 La Germania allora adì la corte Interamericana, chiedendo tra l'altro l'adozione di una misura di sospensione della sentenza di condanna. Tale misura fu adottata dalla corte, ma non rispettata dagli Stati Uniti che procedettero alla condanna capitale. A. Il comitato dei diritti umani può adottare misure cautelari in ragione della regola 92 del suo regolamento di procedura. In un primo tempo, le misure cautelari del comitato non erano considerate obbligatorie, ma meramente facoltative. Quest'orientamento fu messo in discussione nel 2002 in un caso che riguardava l'uccisione di un ricorrente aveva chiesto ed ottenuto la misura cautelare della sospensione della sentenza capitale. Il comitato invitò lo stato a fornire delle spiegazioni per le quali non aveva proceduto al rispetto della misura cautelare adottata e chiese allo stato di non ripetere un simile comportamento, visto che ciò costituiva violazione dell'obbligo generale degli Stati di rispettare le norme del Patto sui diritti civili e politici. Nelle osservazioni successive del Comitato, quest'orientamento viene ribadito costantemente. Nel commento generale numero 31 del 2004, il comitato ha considerato le misure cautelari come espressione del diritto ad un rimedio effettivo. Come si può constatare, il comitato, che pure privo del potere di adottare decisioni finali vincolanti, ritiene che abbiano carattere obbligatorio le misure cautelari che può indicare. Tale conclusione, che può a prima vista sembrare paradossale è invece pienamente giustificata dall'obbligo di leale cooperazione degli Stati con il comitato e dal loro conseguente obbligo di non vanificare una procedura che essi hanno spontaneamente accettato. Da lettura della regola numero 92, si dovrebbe desumere che le misure cautelari possono essere adottate soltanto per proteggere da un danno irreparabile all’integrità fisica o alla vita della vittima della presunta violazione, non anche i familiari del ricorrente o un testimone. Con il tempo, la regola 92 è stata interpretata in modo estensivo, per cui adesso il comitato può adottare misure cautelari anche quando non sia a rischio la vita del ricorrente, ma anche un altro diritto garantito dal patto, come ad esempio la libertà di espressione. B. Il potere di adottare misure cautelari è attribuito anche alla corte europea dei diritti umani dal suo regolamento di procedura (regola 39) e non direttamente dalla convenzione europea o da uno dei suoi protocolli addizionali. Originariamente le misure cautelari non erano riconosciute come obbligatorie. La corte cambiò radicalmente orientamento nel 2003. Si trattava di dover giudicare dei cittadini Uzbechi che erano stati accusati di un attentato terroristico e che stavano per essere estradati dalla Turchia. Essi sostenevano che qualora fossero stati estradati, dalla Turchia, sarebbero stati sottoposti ad un grave rischio di violazione del diritto alla vita, del divieto di tortura, e del diritto ad un equo processo. La corte affermò il valore obbligatorio delle misure cautelari. La corte ha affermato che il mancato rispetto delle misure cautelari costituisce violazione dell'articolo 34 della convenzione europea, a prescindere dal fatto che si verifichi il rischio prospettato dei ricorrenti, di una violazione di un articolo della convenzione stessa. 47 Per cui, nell'ipotesi in cui lo Stato violi la misura cautelare, ma non accada di fatto, quello che il ricorrente teme, ugualmente il comportamento dello Stato può considerarsi posto in violazione della convenzione europea. Come si deduce dalla regola 39 del regolamento di procedura, la richiesta di adozione di misure cautelari può provenire non solo dal ricorrente ma anche da ogni altra persona interessata. Le misure possono essere prese d’ufficio da una camera o dal presidente della corte. Molto ampie sono le nozioni di "Interesse delle parti" o di "svolgimento corretto del procedimento" che possono determinare l'adozione di misure cautelari. Nella giurisprudenza della corte europea, la grande maggioranza delle misure cautelari è stata adottata per evitare l'estradizione o l'espulsione di ricorrenti verso paesi nei quali la vita o l'integrità personale degli stessi sarebbero state irreparabilmente pregiudicate. c. Anche la commissione africana dei diritti umani e dei popoli può adottare misure cautelari come previsto dal suo regolamento di procedura. La commissione ha affermato il valore obbligatorio delle sue misure cautelari. Essa segnala nei propri rapporti annuali di ricorrere spesso a misure cautelari che, nella maggior parte dei casi, riguardano la sospensione di sentenze capitali. Nel caso in cui uno Stato non adempia alle misure cautelari ordinate dalla commissione africana, quest'ultima può richiedere l'intervento della corte africana dei diritti umani e dei popoli. La corte africana può a sua volta ordinare l'adozione di misure cautelari in casi di estrema gravità ed urgenza per evitare danni irreparabili alle persone coinvolte in un ricorso. D. Nel sistema Interamericano di protezione dei diritti umani, il ricorso alle misure cautelari è molto frequente. Il potere di adottare tali misure è attribuito sia alla commissione sia alla corte. In base all'articolo 19 del suo statuto, la commissione può chiedere alla corte di adottare misure provvisorie nei confronti degli Stati parte della convenzione americana in casi gravi ed urgenti non ancora sottoposti alla corte, quando questo sia necessario per prevenire un danno irreparabile alle persone. Nella pratica, la commissione ha esteso l'adozione di misure cautelari anche a casi relativi al rispetto di diritti umani sollevati nei confronti di Stati non parte della convenzione americana. Nella prassi, le misure cautelari non riguardano solo la sospensione dell'esecuzione di sentenze capitali, o di provvedimenti di espulsione o di estradizione, ma misure cautelari sono adottate anche per proteggere comunità e gruppi o uno o più individui che, per via del loro collegamento con un caso di fronte alla commissione, hanno subito minacce o attentati o sono plausibilmente a rischio di vita. Le misure cautelari possono essere richieste sia dalle parti, sia adottate d’ufficio dalla commissione e devono essere idonee a prevenire un danno irreparabile alle persone. Per l'adozione delle misure cautelari si richiede che la situazione sia seria ed urgente. La commissione ha ritenuto che sia possibile adottare misure cautelari non soltanto per salvaguardare il diritto alla vita, ma qualsiasi diritto. Misure cautelari sono state adottate per: evitare danni irreparabili all'ambiente e all'identità culturale, evitare danni irreversibili all'identità culturale di una popolazione indigena, proteggere la salute dei ricorrenti, sospendere le procedure 48 di adozione internazionale di bambini di meno di sei mesi, determinare la condizione giuridica di persone detenute. La commissione ritiene che le proprie misure cautelari abbiano natura vincolante e ha più volte condannato, come inadempimento ad obblighi internazionali, la frequente inosservanza da parte degli Stati Uniti e di qualche altro Stato di misure da essa ordinate, specialmente nel caso di individui condannati a morte. Il carattere obbligatorio delle misure cautelari adottate dalla commissione è stato affermato anche dalla corte Interamericana, che ha invocato il principio generale di diritto pacta sunt servanda, ed il dovere di uno Stato parte di rispettare in buona fede gli obblighi derivanti da un trattato, in particolar modo di protezione dei diritti umani. Il potere della corte Interamericana di adottare misure cautelari è previsto dalla stessa convenzione americana. La previsione all'interno della convenzione del potere della corte di adottare misure cautelari, ha fatto sì che il carattere vincolante di tali misure non fosse mai messo in discussione. La corte, come la commissione, ha esteso nel corso degli anni sia l'ambito dei possibili beneficiari delle misure provvisorie, sia l'ambito delle situazioni nelle quali applicare tali misure: le misure cautelari che la corte emette possono avere per destinatario anche persone diverse dal ricorrente che, per via del loro collegamento con un caso o per l'impegno come difensori dei diritti umani hanno sofferto di minacce di morte e potrebbero essere eliminate. In più, misure cautelari possono essere dalla corte adottate per proteggere i diritti diversi rispetto al diritto alla vita. CAPITOLO III LA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI DIRITTO ALLA VITA E DI DIVIETO DI TORTURA 1. L’ENUNCIAZIONE DEL DIRITTO Il diritto alla vita va inteso, prima di tutto, in senso negativo come il diritto di una persona a non essere uccisa arbitrariamente dallo Stato. Ma esso può essere inteso anche in senso positivo, in due diversi modi: sia come il diritto di una persona a che lo Stato adotti misure adeguate per prevenire la privazione arbitraria della vita e per indagare, processare e sanzionare i responsabili, chiunque si siano, qualora una privazione arbitraria della vita si verifichi, sia come il diritto di una persona che lo Stato le offre le condizioni per poter vivere un'esistenza degna. Il diritto alla vita è disciplinato in modo diverso dei vari trattati internazionali. Alla luce di tali trattati, i casi in cui lo Stato può privare della vita un individuo sono due: pena di morte ed uso legittimo della forza letale. A. Secondo l'articolo 2 della CEDU: Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: (a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale; (b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; 49 (c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione. Esso va letto in combinato con quanto disposto dal sesto protocollo addizionale, che vieta la pena di morte, salva la possibilità dello stato di procedere alla adozione di sentenze capitali in tempo di guerra, e dal 13º protocollo aggiuntivo che vieta la pena di morte senza eccezione alcuna. B. Secondo l'articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, la pena di morte è ammessa solo qualora siano soddisfatte numerosi condizioni che limitano la possibilità di eseguire una condanna a morte. Il secondo protocollo facoltativo al Patto, successivamente, ha vietato agli Stati parte del patto di procedere ad esecuzione e li ha obbligati a prendere tutte le misure per abolire la pena di morte. C. Secondo l'articolo 4 della convenzione americana dei diritti umani, è ammessa la pena di morte. Ma, un successivo protocollo aggiuntivo alla convenzione, ha abolito la pena di morte in tempo di pace. D. Secondo l'articolo 4 della carta africana dei diritti umani, nessuna deroga al diritto alla vita è prevista (tuttavia la possibilità di eccezioni, ivi compresa la pena di morte, può essere dedotta dall'uso di "arbitrariamente"). 2. La pena di morte Nel corso del tempo, sono aumentate le tendenze abolizioniste della pena di morte, ma ciononostante la pena di morte è ancora prevista in una serie di Stati. Ci si deve chiedere allora se la pena di morte sia o meno contraria ai diritti umani. Già nel 1971, l'assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione numero 2857, esprimeva il desiderio che La pena di morte fosse abolita in tutti gli Stati. L'assemblea generale si è occupata del tema anche in anni successivi, manifestando profonda preoccupazione per gli stati che continuano a mantenere l'applicazione della pena di morte, invitando gli stessi a ridurre progressivamente il novero dei reati, per i quali la stessa è prevista. Significativi sono i dubbi che sono sorti con riguardo all'efficacia deterrente della pena di morte. Significativi poi sono i dubbi che si possa procedere all'esecuzione capitale, in modi che non possano essere considerati trattamenti inumani e degradanti (il divieto di trattamenti inumani o degradanti è previsto in tutti i Trattati sui diritti umani). Ci si chiede infatti quale sia il modo umano per uccidere un essere umano. A. La convenzione europea dei diritti umani ammette la pena di morte (articolo due, paragrafo uno), subordinandola a ben poche condizioni: Che la persona sia uccisa dopo una sentenza pronunciata da un tribunale, che il reato sia punito dalla legge con la pena di morte. Questa gravissima carenza della convenzione europea è inspiegabile a dovrebbe essere corretta con un emendamento. È vero che i protocolli aggiuntivi numero sei e numero 13 hanno rispettivamente limitato e vietato la pena di morte. E anche vero però che la partecipazione a tali protocolli è facoltativa e vi sono quattro Stati parte della convenzione che non sono parte del protocollo numero 13 (Armenia, Azerbaijan, Polonia e Russia) e di e uno Stato parte della convenzione che non è parte della protocollo numero sei (Russia). Nel caso ocalan c. Turchia, un ricorrente aveva evidenziato alla corte che la pena di morte, prevista dalla Turchia, era contraria all'articolo tre della convenzione (divieto di trattamenti inumani e 50 degradanti). La corte non evidenziò che gli articoli 2 e 3 della convenzione dovevano considerarsi tra loro incompatibili, ma si attenne strettamente al caso concreto, evidenziando che non possono essere sottoposti a pena di morte coloro i quali non siano stati processati, nell'ambito di un procedimento che rispetti le garanzie del giusto processo. In una sentenza del 2010, la corte è ritornata sul punto stabilendo che, a seguito dell’entrata in vigore dei protocolli addizionali, è da considerarsi emendato l'articolo due paragrafo uno nel senso di proibire la pena di morte in tutte le circostanze. Nel corso degli anni, la corte ha avuto svariate occasioni di trattare il tema della pena di morte sotto il profilo di una violazione dell'articolo 3 della convenzione ed ha deciso, ad esempio, che gli Stati non possono procedere ad espulsione o estradizione degli individui, quando nello stato nel quale verrebbero estradati, essi sono a rischio di trattamenti inumai. B. Il patto internazionale sui diritti civili e politici (articolo sei) subordina la pena di morte ad un ampio numero di condizioni: che si tratti della pena prevista per i reati più gravi, che la pena sia disposta da una norma di legge in vigore al momento in cui il reato è stato commesso, che la pena sia eseguita dopo l'emanazione di una sentenza definitiva, che la condanna sia stata pronunciata da un tribunale competente, che sia stato garantito il diritto del condannato di chiedere la grazia o la commutazione della pena, che la condanna non sia stata pronunciata in contrasto con le disposizioni del patto stesso etc.. Il comitato dei diritti umani, nel commento n. 6 del 1982, sull'articolo sei del patto, ha osservato che la disposizione va interpretata nel senso che è comunque auspicabile l'abolizione della pena di morte. Nel commento generale numero 20 del 1992, sull'articolo sette del patto, il comitato ha preso posizione sull'insolubile questione del rapporto tra la pena di morte ed il divieto di trattamenti inumani e degradanti, sostenendo che, in ogni caso, la pena deve essere eseguita in modo tale da causare la minore sofferenza fisica e mentale possibile. Il comitato ha costantemente ritenuto che si verifica una violazione dell'articolo sei, paragrafo due, in tutti casi in cui la pena di morte è stata imposta seguito di un procedimento nel quale non sono stati rispettati i parametri dell'equo processo. Il comitato ha stabilito poi che si verifica una violazione dell'articolo sei, paragrafo quattro, nei casi in cui la richiesta di grazia o di commutazione della pena non sia stata nemmeno presa in considerazione. C. La convenzione americana dei diritti umani (articolo quattro) subordina la pena di morte ad un insieme di condizioni ancora più ampio di quelle previste nel patto sui diritti civili e politici. La corte Interamericana dei diritti umani ha stabilito, nel 1983, che gli Stati non possono reintrodurre la pena di morte, per il reati per i quali era stata abrogata, e non possono ampliare il numero dei reati sanzionati con la pena di morte. Nel 2002, la corte ha stabilito che deve esistere proporzionalità tra pena e reato, ed ha sanzionato uno Stato il quale puniva omicidi di differente gravità, tutti con la pena di morte. Nel 2005, la corte affrontò il tema del rapporto tra pena di morte ed equo processo, stabilendo che non si può procedere all'emissione di una sentenza di condanna capitale, quando non sono state rispettate tutte le garanzie dell'equo processo. 51 D. La carta africana dei diritti umani e dei popoli nulla dispone circa la pena di morte, pur vietando in genere le privazione arbitraria della vita. La commissione africana dei diritti umani ha avuto svariate occasioni di pronunciarsi su questioni inerenti la pena di morte. Si pensi, tra tutti, al caso che riguardava un'ampia serie di violazioni compiuti da attivisti del "movimento per la sopravvivenza delle popolazioni Ogoni". Un dirigente del movimento fu arbitrariamente processato e condannato a morte, la commissione adottò una misura cautelare di sospensione della sentenza di condanna capitale, che però non fu rispettata. La commissione raccomandò alla Nigeria (Stato che aveva proceduto alla condanna capitale) di abrogare i decreti che dotavano di poteri eccezionali i tribunali militari e che consentivano un trattamento speciale nei confronti degli arrestati per generiche ragioni di sicurezza nazionale. 3. Le uccisioni arbitrarie Esistono casi in cui lo Stato può esercitare legittimamente la forza al fine di uccidere individui; sono situazioni eccezionali di emergenza, al di fuori delle quali l'uccisione è arbitraria. Nella pratica, le uccisioni arbitrarie sono effettuate occultamente e se lo Stato viene scoperto, di norma, tenta di difendersi invocando ragioni di impunità. Nel quadro delle Nazioni Unite è stato istituito un Relatore speciale su esecuzioni stragiudiziarie, sommarie o arbitrarie che può, tra l'altro, fare rapporti circa visite effettuate agli stati e mettersi in contatto con gli Stati dove sono denunciati casi di esecuzioni arbitrarie e chiedere ad essi di prendere misure preventive o sanzionatorie. La privazione arbitraria della vita è vietata da tutti i principali trattati di protezione dei diritti umani, ma è anche condannata numerosi strumenti aventi natura non vincolante, tra i quali, particolare importanza assumono i Principi sull'effettiva prevenzione ed indagine di esecuzioni stragiudiziarie, arbitrarie e sommarie, raccomandati con risoluzione 1989/65 del 24 maggio 1989 del consiglio economico e sociale delle nazioni unite. A. La convenzione europea, diversamente dagli altri trattati, all'articolo due paragrafo due, fornisce indicazioni sui casi in cui la privazione della vita tramite uso letale della forza può considerarsi non arbitraria. Si tratta di quattro situazioni in presenza delle quali l'uso della forza letale risulta assolutamente necessario per legittima difesa, per l'esecuzione di un arresto legittimo, Per la prevenzione della fuga di una persona legittimamente detenuta o per azioni legittime di repressione di sommosse o insurrezioni. Dall'analisi della giurisprudenza della corte EDU, risulta che l'articolo due paragrafo due è violato non solo quando lo Stato, tramite propri agenti, ricorre ad un uso letale della forza in casi in cui questo non è consentito, ma anche quando lo Stato viene meno all'obbligo positivo di proteggere la vita di un individuo in situazioni in cui, date le circostanze, esista un reale e immediato rischio che egli possa venire ucciso. La prima importante sentenza in materia è stata pronunciata nel 1995: si trattava di dover giudicare un caso nel quale le forze di sicurezza, essendo venuti a conoscenza del rischio di un attentato ed avendo individuato i possibili sospettati, anziché procedere ad arrestarli, li accerchiarono con personale in borghese e poi aprirono il fuoco uccidendoli. 52 La corte rilevò che l'uso della forza letale va considerato legittimo se necessario per fermare presunti attentatori ed impedire loro di compiere una strage. Tuttavia, nel caso specifico, avendo riguardo alle modalità con le quali si era svolto l'intervento delle forze speciali, non si poteva considerare che un simile uso della forza fosse assolutamente necessario. Le forze armata, infatti, avrebbero potuto arrestare i possibili futuri attentatori. I principi fondamentali dettati dalla Corte in materia si possono riassumere in questa maniera: l'articolo due della convenzione non definisce situazioni in cui lo Stato può infliggere intenzionalmente la morte, ma indica i casi in cui esso può ricorrere alla forza che può condurre involontariamente alla morte. L'elenco delle finalità per le quali è possibile procedere all'uso letale della forza devono essere interpretate in modo restrittivo: il ricorso alla forza deve essere assolutamente necessario e la forza utilizzata deve essere strettamente proporzionata al perseguimento di una delle finalità previste dall'articolo due, tenendo presente le circostanze in cui si trovano gli agenti al momento della decisione sull'uso della forza. Ogni Stato membro è tenuto non solo a vietare l'uso arbitrario della forza legale, ma anche a garantire l'effettività di tale divieto, predisponendo al proprio interno un controllo efficace per valutare la legalità del ricorso alla forza ad opera dei propri agenti. In una sentenza, la corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia perché un agente della polizia italiana, per effettuare l'arresto di un cittadino albanese, aveva sparato un colpo ed aveva ucciso il cittadino che stava fuggendo. La corte ritenne violato l'articolo due della convenzione in quanto l'agente di polizia non aveva alcun motivo per ritenere che il cittadino albanese rappresentasse un pericolo per la vita o l'integrità altrui ed il ricorso ad armi da fuoco non era quindi assolutamente necessario. Nel corso degli anni, la corte europea ha chiarito che, pur non essendo possibile imporre agli Stati in modo generico ed indefinito, un obbligo di protezione del diritto alla vita di tutti gli individui sotto la loro giurisdizione, tale obbligo sussiste quando vi siano elementi che permettano di identificare con sufficiente certezza un rischio di vita e le persone che potrebbero esserne colpite. La corte non ritenne violato l'articolo due, paragrafo due, dalla Russia, quando nel 2002 le forze armate russe pomparono nel sistema di ventilazione di un edificio, che era stato occupato da 40 terroristi ceceni, che avevano preso in ostaggio oltre 900 persone, del gas tossico, che fu la causa di morte di un gran numero di persone, per complicazioni respiratorie. La corte considerò sussistente l'esimente della difesa di persone da violenza illegale. In alcune sentenze, la corte ha distinto un profilo sostanziale da un profilo procedurale dell'articolo due, paragrafo due: si ha una violazione procedurale, quando le autorità statali non indagano e ricercano i responsabili della privazione arbitraria della vita di un individuo. L'aspetto procedurale dell'articolo due, paragrafo due della convenzione, venne ritenuto violato nel caso Giuliani contro Italia. Si trattava di decidere sull'uccisione di Carlo giuliani da parte di un agente delle forze dell'ordine italiane nel corso di una manifestazione svoltasi a Genova nel 2001, degenerata in gravi episodi di violenza. L'aspetto procedurale dell'articolo due della convenzione venne ritenuto violato perché le indagini svolte dalle autorità italiane avevano presentato gravi lacune. Tale sentenza fu poi ribaltata dalla grande camera, che ritenne insussistente sia la violazione del profilo procedurale che del profilo sostanziale dell’art. 2, par 2, della Convenzione. 53 B. L’articolo 6, par.1, del Patto sui diritti civili e politici prevede, in generale, che nessuno deve essere arbitrariamente privato della vita. Il comitato ha dato un significato concreto al concetto di privazione arbitraria della vita e ha determinato in quali circostanze eccezionali l'uso letale della forza è giustificabile. Le osservazioni rese dal comitato il 31 marzo 1982 sul caso Pedro Pablo Camargo contro Colombia riguardavano un’operazione speciale condotta nel 1978 in un'abitazione privata di Bogotà da membri delle forze armate colombiane per liberare una persona sequestrata alcuni giorni prima da un gruppo di guerriglieri. Non trovando il sequestrato, i militari decisero di nascondersi in casa e di attendere l'arrivo degli inquilini che erano sospettati del rapimento. Gli inquilini furono uccisi, ma risultarono estranei, successivamente ed a seguito delle indagini, al rapimento. Il comitato ha dichiarato la violazione dell'articolo sei, paragrafo uno del patto, essendo stata l'azione degli agenti sproporzionata rispetto alle esigenze di tutela della legge nelle circostanze del caso. Il comitato si trovò ad affrontare nel 2002 un caso di un avvocato che si occupava della difesa delle persone impiegate in attività sindacali nella regione dell'Urabá. A seguito di numerose minacce, l'avvocato aveva effettuato delle denunce e chiesto ripetutamente interventi di protezione da parte delle autorità colombiane, che non arrivarono. Dopo essere stato oggetto di un tentativo di omicidio, l'avvocato fece ricorso contro lo Stato della Colombia e il comitato dei diritti umani accolse la sua tesi, sostenendo che lo Stato non aveva adottato le misure di protezione necessarie. C. L'articolo quattro della convenzione americana dei diritti umani segue la stessa sintetica formula secondo cui nessuno può essere arbitrariamente privato della vita. La giurisprudenza della corte Interamericana è stata estremamente ricca. La corte ha evidenziato la necessità che sussistano le seguenti condizioni affinchè uno Stato possa legittimamente esercitare in maniera letale la forza: 1.assoluta necessità del ricorso alla forza legale, 2.proporzionalità nell'intervento che richiede l'uso della forza, 3. assenza di premeditazione (che richiede che l'uso della forza sia esercitato dall’agente dello Stato, in modo immediato e contestuale ad una aggressione o ad una resistenza subita) 4.legittimità dell'obiettivo perseguito e autorizzazione della legge all'impiego della forza. Nel 1998, la corte Interamericana si trovò a dover giudicare dell'uccisione di sei persone, in Guatemala, le quali erano state arrestate senza mandato, torturate e poi uccise, in ragione dell'accusa di essere trafficanti di droga. La corte ricordò i particolari criteri probatori vigenti nel contesto di un tribunale di diritti umani, che sono diversi da quelli applicati da un organo giudiziario interno. Perché si abbia una violazione, è sufficiente, secondo la Corte, dimostrare che vi sia stato appoggio o tolleranza da parte dello Stato, senza che sia necessario identificare i presunti responsabili e dimostrare in giudizio la loro colpevolezza. La corte ritenne il Guatemala responsabile per un comportamento che corrispondeva alla abituale condotta criminosa tenuta da membri di un gruppo militare. In una sentenza del 2006, la corte prese in esame un’uccisione arbitraria conseguente al reclutamento forzato di un minorenne in Paraguay. Il giovane minorenne, arruolato su consenso dei genitori, aveva tentato numerose volte di scappare dalla caserma ed era stato più volte sottoposto a tortura ed in seguito ucciso. La corte accertò la violazione del diritto alla vita ed evidenziò l’obbligo dello stato di indagare su esecuzioni arbitrarie, sostenendo che tale obbligo discende dalla lettura combinata dell'articolo 4 con l'articolo 1, paragrafo uno, della convenzione americana. 54 In un caso del 2007 la corte ribadì l’obbligo dello stato di adottare un chiaro quadro legislativo che regolamenti l'uso della forza da parte dei corpi armati dello Stato. In una sentenza del 2007, la corte Interamericana ha affermato chiaramente che l'articolo quattro della convenzione americana impone allo Stato l'obbligo di svolgere d’ufficio, rapidamente ed in modo imparziale e indipendente un'indagine efficace e volta ad accertare le cause della morte di un individuo e l'identità dei responsabili, anche qualora essi non siano agenti dello Stato. D. Secondo l'articolo quattro della carta africana sui diritti umani e dei popoli, nessuno può essere arbitrariamente privato il diritto alla vita. Anche la carta, come la convenzione Interamericana ed il patto, non specifica in quali casi una privazione della vita possa considerarsi arbitraria. I MASSACRI. Con la parola massacro, la corte Interamericana e, più recentemente, la corte europea, denominano i casi in cui si verifica una pluralità di esecuzioni arbitrarie contestuali, caratterizzate dal particolare livello di crudeltà con cui sono perpetrate, tramite operazioni che comportano l'uso massiccio ed ostentato della forza, in concorso con altre condotte che rappresentano violazioni di vari altri diritti umani. I massacri sono violazioni di diritti umani particolarmente odiose, per le modalità con cui sono commesse e per i fondamentali diritti individuali e collettivi che sono calpestati, nel privare con brutalità della vita indiscriminatamente bambini, donne e uomini. Oltre alle vittime dirette il massacro colpisce a volte un'intera comunità. Pur essendo tutti i massacri caratterizzati dalla stessa brutalità, indipendentemente dal luogo nel quale si verificano, le corti dei diritti umani si sono mostrate discordanti. A. La corte Interamericana è l’organo giudiziario che ha sviluppato la giurisprudenza più completa sul tema dei massacri. In un primo momento, la corte non ha considerato i massacri in quanto tali, come unica fattispecie, ma ha valutato singolarmente le violazioni commesse, quali atti di tortura, sparizioni forzate ed esecuzioni arbitrarie. Successivamente, a partire dal 2004, la corte ha seguito un diverso orientamento. Il caso dal quale trae origine la sentenza del 2004 riguardava il massacro, in un villaggio in Guatemala, di una comunità Maya. La corte dichiarò che gli atti commessi dal Guatemala rientravano in una pratica di massacri che colpivano gravemente le popolazioni Maya nella loro identità e nei loro valori, determinando una responsabilità aggravata dello Stato, di cui la corte avrebbe tenuto conto al momento della determinazione delle misure di riparazione. In una sentenza del 2005, la corte si trovò a dover giudicare del massacro di Moiwana, risultato di un'operazione speciale anti-guerriglia svoltasi il 29 novembre 1986. Vennero uccise 39 persone, in prevalenza donne, anziani e bambini. La corte si limitò ad osservare che le violazioni costituivano un vero e proprio massacro. Anche in questo caso, la corte dispose a un considerevole insieme di misure di riparazione a carico dello Stato (Suriname è il nome dello stato). Nel 2015, la corte giudicò il massacro di un villaggio in Colombia, dove i paramilitari restarono per cinque giorni devastando tutto quello che incontravano e dando fuoco a qualsiasi abitazione. 55 Le truppe torturarono, smembrarono, sventrarono e sgozzarono 49 abitanti fra cui alcuni bambini. La corte dichiarò la Colombia responsabile del massacro. B. Le pronunce nelle quali la corte europea dei diritti umani ha trattato casi qualificati espressamente come massacri sono recenti e geograficamente limitate a fatti imputabili all'azione delle forze armate della Russia, durante il conflitto ceceno. In altri casi, spesso in occasione di bombardamenti aerei, la corte non ha utilizzato il termine massacro, probabilmente perché le uccisioni non erano state accompagnate contestualmente da altre gravi violazioni dei diritti umani, quali tortura o saccheggi. I casi nei quali la corte europea dei diritti umani riconobbe la sussistenza di un massacro furono: quando le forze armate russe sferrarono un’offensiva militare per prendere il controllo di Grozny e quando le forze armate russe attaccarono il sobborgo di Novye Aldy. C. A differenza della corte Interamericana e della corte europea, la commissione africana ed il comitato dei diritti umani, pur avendo conosciuto di varie situazioni che potevano considerarsi massacri, li hanno sempre trattati in modo generico come "esecuzioni arbitrarie" e non ne hanno dedotto alcuna particolare conseguenza giurisprudenziale né a livello di onere della prova, né a livello di misure di riparazione. 5. LE MORTI IN CUSTODIA Una persona privata della libertà, che si trova in stato di arresto o sta scontando una pena in una struttura detentiva, dipende interamente dalle autorità di polizia o carcerarie. Sono queste che si occupano della sua alimentazione, del suo stato di salute e della sua vita quotidiana. E’ quindi lo Stato che assume integralmente la responsabilità di garantire il diritto alla vita di coloro che sono privati della libertà. Questo implica non solo che non devono avvenire privazioni arbitrarie della vita (Obbligo negativo), ma anche che lo Stato deve adottare tutte le misure necessarie per rendere possibile il sostentamento delle persone in custodia e per provvedere al loro stato di salute, attivandosi prontamente qualora vengano riscontrati dei rischi o dei problemi (Obbligo positivo). A. Il comitato dei diritti umani ha adottato alcune interessanti osservazioni riguardanti casi di individui deceduti mentre erano detenuti. Nel 1982, in un caso che riguardava un soggetto detenuto in Uruguay che aveva scontato la sua pena, ma che non era stato rilasciato, che ad un certo punto sparì e fu trovato morto qualche giorno dopo, il comitato dichiarò violato l'articolo 6 del patto e raccomandò all'Uruguay, oltre al pagamento di un risarcimento alla famiglia, di svolgere adeguate indagini che portassero a determinare con precisione le cause della morte del detenuto. Nel 2002, il comitato giudicò responsabile la Russia per la morte di un detenuto, morto nel giro di due mesi dalla reclusione. Si scoprì che il centro di detenzione versava in condizioni igieniche pessime: vi era uno stato di pesante sovraffollamento ed i detenuti non ricevevano cibo regolarmente, ne avevano facile accesso alle cure mediche. Il comitato dichiarò responsabile la Russia per violazione dell'obbligo di prendersi cura della vita dei detenuti. 56 Nel 2007, il comitato dichiarò la responsabilità del Camerun per la morte di un detenuto, per il quale la magistratura aveva adottato l'ordine di scarcerazione. Le condizioni del centro di detenzione erano pessime e furono la causa della morte del detenuto. B. Nella giurisprudenza della corte Interamericana si può ricordare la sentenza resa il 18 settembre 2006, per un caso che riguardava un ragazzo di 17 anni che fu arrestato e morì a causa di un trauma cranico provocato al ragazzo il giorno dopo la detenzione. La Corte interamericana giudicò l’Honduras colpevole per la “pulizia sociale” che venne fatta e che provocò la morte di minori, che avevano formato bande giovanili, con situazioni familiari e sociali, a rischio. C. Sentenze riguardanti morti in custodia sono state emesse anche dalla corte europea a partire dal 2000 e va purtroppo riscontrato che vi è un aumento delle stesse. Sì affermato il principio di responsabilità aggravata degli Stati nei confronti di persone che sono totalmente sottoposte alla autorità. Le autorità sono chiamate ad adottare misure preventive, configurate come obblighi positivi, per preservare la vita di coloro che sono stati privati della libertà. Nel 2000, la corte giudicò responsabile la Bulgaria per la morte di un uomo, che arrestato per un furto, morì dopo 12 ore dal suo arresto. La corte, valutati i lividi e le lesioni che l'uomo presentava, ritenne responsabile lo Stato, perché lo Stato che deve mantenere in buona salute le persone arrestate. In una sentenza del 2000, considerò responsabile la Turchia per la morte di un uomo appartenente alla PKK, che si uccise impiccandosi. D. Anche la commissione africana dei diritti umani e dei popoli ha affermato l'esistenza di particolari obblighi di tutela da parte dello Stato nei confronti delle persone in custodia. Qualora una di queste persone venga trovata senza vita, incombe alle autorità statali di provare che sono state adottate tutte le misure possibili per prevenire il decesso e che agenti statali non siano coinvolti. 6. SPARIZIONI FORZATE Il concetto di sparizione forzata, in quanto violazione di diritti umani, è caratterizzato da tre elementi positivi: privazione della libertà di un uomo (qualunque forma tale privazione assuma, sia essa un arresto, un sequestro una detenzione e così via), da parte di agenti di stato o persone o gruppi di persone che agiscono con l'autorizzazione, l'acquiescenza o la tolleranza dello Stato (ad esempio, i cosiddetti gruppi paramilitari, composti di persone che vengono addestrate e armate direttamente dallo Stato), che sia seguita dal rifiuto da parte delle autorità di riconoscere che la stessa abbia avuto luogo, nonché dal rifiuto di fornire informazioni sulla sorte della vittima e sul luogo dove questa, viva o morta, si trovi, con la conseguenza di porre la vittima al di fuori della protezione della legge. L'elemento del rifiuto di informazioni distingue la sparizione forzata dal sequestro di persona a fine estorsivo. Nel caso di sequestro, coloro che hanno privato la vittima della libertà si pongono in contatto con i familiari della stessa e chiedono il pagamento di un riscatto. Nel caso di sparizione forzata invece la sorte della vittima è ignota. 57 Nella sua complessità, la sparizione forzata di persone non si limita alla violazione del diritto alla libertà personale, ma implica necessariamente anche la violazione di diversi altri diritti umani quali, ad esempio, il diritto alla vita, il divieto di tortura, il diritto al riconoscimento della personalità giuridica… La pratica generalizzata di sparizioni forzate è stata introdotta nei territori dell'Europa orientale occupati dalla Germania da un decreto del 7 dicembre 1941 voluto da Hitler. Hitler capì che è meglio fare sparire piuttosto che condannare a morte gli avversari. A fronte di una violazione dei diritti umani tanto grave e diffusa, le risposte a livello di strumenti giuridici internazionali sono state la dichiarazione per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate (1992), la convenzione Interamericana contro la sparizione forzata (1994) e di recente la convenzione per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata. A. Il comitato dei diritti umani ha enunciato l'obbligo degli Stati di prevenire e sanzionare la sparizione forzata nel commento generale numero sei del 1982. In una decisione del 1982 il comitato sanzionò l'Uruguay per aver fatto sparire Eduardo Bleier, il cui nome era stato aggiunto ad una lista di prigionieri di cui veniva data lettura una volta settimana in una caserma di Montevideo. Il comitato concluse che la vittima era detenuta clandestinamente o era morta mentre si trovava privata della libertà. Affermò il fondamentale principio dell'inversione dell'onere della prova per quanto riguarda la trattazione dei casi di sparizione forzata di fronte a meccanismi internazionali di protezione dei diritti umani. Nei casi di sparizione forzata di persona, anche i familiari della persona scomparsa sono vittime di una violazione da parte dello Stato del divieto di trattamenti inumani degradante. Il comitato condannò lo Stato a pagare una somma di denaro e a che si attivasse immediatamente a localizzare lo scomparso. Il comitato, nel 1994, condannò anche la Libia perché i servizi segreti avevano fatto sparire un uomo. Una volta che l'uomo viene localizzato le autorità libiche spiegarono che non era mai stata formulata un'accusa nei confronti dell'uomo, ma egli era stato trattenuto per circa quattro anni per "controlli di routine"! Il comitato ha spesso concluso che la sparizione forzata implica una violazione del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Il 3 aprile 1995, il comitato si è per la prima volta occupato di un particolare tipo di sparizione, ossia l'appropriazione di figli nati da donna fatta sparire a forzatamente (caso Monaco contro Argentina). Il ricorso veniva presentato la signora monaco, che lamentava violazioni sofferte da lei e dalla nipote, che era stata fatta sparire con la madre nel febbraio 1977 all'età di nove anni. Ad occuparsi ostinatamente della ricerca della donna e di sua figlia fu la nonna che conosceva perfettamente la pratica del dare in adozione i figli delle persone fatte sparire. La nonna localizzò la nipote e tramite l'esame del DNA si riuscì a scoprire la sua vera identità. Il comitato evidenziò la natura permanente del reato di sparizione forzata, pertanto in molti casi respinse l'eccezione di incompetenza ratione temporis, quando il reato era stato commesso al tempo in cui il comitato non poteva giudicare delle violazioni commesse da quello specifico stato. B. La corte Interamericana adottò la prima sentenza in materia di sparizione forzata nel 1988. Condannò l'Honduras per la sparizione di uno studente universitario, che era stato prelevato da sette membri della divisione antiterrorismo dei servizi segreti dell'Honduras. La corte invertì l'onere 58 della prova ed applicò criteri speciali di valutazione dei fatti dedotti in giudizio, evitando i formalismi e considerando la difficoltà nella quale vengono a trovarsi I familiari delle persone fatte sparire forzatamente, per provare l'esistenza di tale reato. Nel 1998, la corte, per la prima volta, condannò il Perù che aveva fatto sparire una persona, oltre che al risarcimento del danno, anche a compiere un'indagine effettiva ed imparziale sulla sparizione forzata. Anche la corte interamericana evidenziò la natura permanente del reato di sparizione forzata, ed in molti casi respinse l'eccezione di incompetenza ratione temporis, quando il reato era stato commesso al tempo in cui il comitato non poteva giudicare delle violazioni commesse da quello specifico stato. Anche la corte interamericana si occupò del caso di bimbi di madri fatte sparire date in adozione e nel caso Gelman c. Uruguay, evidenziò la particolare gravità del reato in parola, dettata anche dal fatto che la separazione dai genitori naturali, pone a repentaglio la sopravvivenza e il diritto allo sviluppo del minore. C. La corte EDU si è pronunciata per la prima volta nel 1998, sul caso Kurt c. Turchia. Era accaduto che il figlio della ricorrente era sparito dopo essere stato arbitrariamente detenuto da parte le autorità turche. A differenza di quanto avviene di fronte alla corte Interamericana e dal comitato i detti umani, che presumo la sussistenza di una violazione dell'articolo che proibisce la tortura e di trattamenti inumani e degradanti anche nei confronti delle vittime dirette di spedizione forzata, la corte europea non si avvale di questa presunzione. Al contrario, qualora lamentino una violazione dell'articolo tre della convenzione nei confronti la persona scomparsa, i ricorrenti sono chiamati dalla corte a provare "al di là di ogni ragionevole dubbio” che il proprio familiare abbia subito tortura o trattamenti inumani e degradanti. È inaccettabile che la corte abbia richiesto ai familiari questo onere della prova, giacché la caratteristica della sparizione forzata sta proprio nel fatto che i familiari sono deliberatamente privati dallo Stato di ogni informazione sul loro congiunto. In decisioni successive, la corte arrivò a soluzioni differenti, ma anziché ammettere che i criteri utilizzati nella decisione sul caso Kurt non erano appropriati, si è imbarcata in una traballante disquisizione sulle differenze che intercorrevano tra i casi analizzati ed il caso kurt. Destò molto stupore, la sentenza adottata dalla Corte nel 2000, nella quale la corte stabilì che si poteva presumere il reato di sparizioni forzate quando era trascorso un periodo molto lungo di tempo dalla privazione della libertà della vittima. La dottrina ha messo in rilievo però che non è opportuno basare le regole dell'onere della prova sulla distanza di tempo intercorsa tra il ricorso e la privazione di libertà, giacché non esiste una soglia di tempo che sia per sua natura lunga, appropriata o sufficiente a dimostrare la colpevolezza dello Stato per la sparizione forzata. In taluni casi, la corte europea ha dichiarato violato l'articolo due della convenzione sotto il profilo procedurale, quando, dopo la sparizione di uomini, lo Stato non ha proceduto a svolgere indagini serie ed adeguate per ritrovare l'uomo o individuare i colpevoli. D. Nel contesto africano, ad oggi non esiste alcuna decisione della commissione dei diritti umani e dei popoli che analizzi dettagliatamente casi di sparizione forzata. 59 Il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite contro le sparizioni forzate ha dichiarato il proprio sospetto di trovarsi di fronte ad un fenomeno di "sotto-documentazione" del reale numero delle vittime di sparizione forzata in africa. 7. L’ABORTO L'aborto è una pratica che potrebbe essere intesa come una lesione del diritto alla vita, perpetrata o tollerata dallo Stato. La convenzione americana menziona l'obbligo di proteggere la vita dal momento del concepimento (articolo quattro paragrafo uno). La questione dell'aborto è poi stata affrontata dal protocollo della carta africana relativa ai diritti della donna in Africa, che all'articolo 14 obbliga le parti ad autorizzare l'aborto in determinati casi, come lo stupro o le situazioni a rischio per la salute della donna. Dalla giurisprudenza degli organi internazionali emerge che il tema dell'aborto è stato discusso sotto due diversi profili: come tutela del diritto alla vita della madre e come tutela del diritto alla vita del feto. A. Il comitato dei diritti umani ha dichiarato svariate volte la propria preoccupazione per il collegamento tra le leggi restrittive in tema di aborto, da un lato, e gli aborti clandestini e le minacce alla vita delle donne, dall'altro. Ad esempio, il comitato ha notato che il divieto di aborto non può essere assoluto e che devono essere introdotte eccezioni, considerando che molte donne si vedono costrette a ricorrere ad aborti illegali che mettono in pericolo la loro vita. Ha ritenuto che lo Stato deve tutelare il diritto alla vita e che sanzionare le donne che decidono di interrompere la loro gravidanza, anche nei casi in cui la vita della donna non sia rischio, è incompatibile con il diritto alla vita della madre. In un caso, nel 2005, il comitato si trovò a dover giudicare della vicenda di una donna che, sotto consiglio del medico, doveva procedere ad un aborto terapeutico, ma che non ottenne il permesso del direttore sanitario. Partorì un figlio senza encefalo che morì dopo quattro giorni. In questi quattro giorni la madre fu costretta ad allattarlo al seno. Dopo la morte del bimbo la donna cadde in depressione. Il comitato dichiarò la violazione da parte del Perù Del divieto di trattamenti inumani e degradanti. B. La commissione europea ha scartato un'interpretazione del diritto alla vita che porta a privilegiare la tutela della vita del feto rispetto a quella della madre. Nel 2004, la corte europea esposte alcune considerazioni sul problema della determinazione del momento a partire dal quale la convenzione europea tutela la vita (dalla nascita o dal concepimento). La corte evidenzia che a livello europeo non vi è concordanza sulla condizione giuridica da attribuire al feto: solo alcuni stati hanno ritenuto opportuno riconoscere al feto una protezione giuridica e la titolarità di diritti civili. La corte non ha preso una posizione netta su un tema così delicato e ha dichiarato che il diritto alla vita del feto è strettamente connesso a quello della madre. In un caso del 2007, la corte europea ha dovuto giudicare della vicenda di una donna che non aveva potuto ottenere il permesso per abortire, nonostante il parto la avrebbe posta dinanzi un serio rischio di perdere la vista. La corte ritenne che quanto patito dalla ricorrente non potesse 60 considerarsi un trattamento inumano, ma valutò il diritto polacco in materia di aborto, constatando che la previsione di sanzioni penali potevano avere un effetto paralizzante sui medici al momento di decidere sull'opportunità di un aborto terapeutico e aggiunse che è uno Stato, che decide di ammettere l'aborto, non può strutturare la propria legislazione in modo che venga di fatto limitata la possibilità di ricorrere a tale pratica. C. La compatibilità dell'aborto con il rispetto della vita del feto è prevista all'articolo quattro della convenzione americana, che espressamente sancisce la protezione della vita "in generale, dal momento del concepimento". Non esistono però ad oggi sentenze della corte Interamericana dei diritti umani in materia di aborto. In materia di aborto interviene la commissione dei diritti umani Interamericana, in un caso che riguardava la assoluzione da parte la corte giudiziaria suprema del Massachusetts di un medico accusato di omicidio per aver praticato un aborto su una diciassettenne. Si trattava di valutare la compatibilità della soluzione con l'articolo uno della dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell'uomo, che dichiara il diritto alla vita, senza precisare ulteriormente da che momento esso si debba considerare garantito. La commissione accerta che la maggioranza degli Stati che avevano redatto la dichiarazione si erano opposti all'ipotesi di proteggere la vita dal momento del concepimento. Questo permise alla commissione di respingere la tesi dei ricorrenti, per cui l’aborto deve essere considerato sempre vietato, che erano membri di una sezione anti-abortista. Malgrado il rapporto della commissione, sembra difficile intendere l'articolo quattro della convenzione americana in un senso totalmente contrario al suo tenore letterale, e cioè come una norma che consente l'aborto, giacché la norma tutela la vita dal momento del concepimento. 8. L’EUTANASIA Né il patto internazionale sui diritti civili e politici, né la convenzione europea, né la convenzione americana, né la carta africana fanno riferimento al tema dell'eutanasia. A. Il comitato dei diritti umani ha affrontato il tema dell'eutanasia nel 2001, poiché nei Paesi Bassi stava entrando in vigore una legge sulla eutanasia e sul suicidio assistito. Il comitato ha chiarito che, ferma restando la discrezionalità di ciascuno Stato in materia, esistono dei criteri di riferimento. Innanzitutto, uno Stato deve ricorrere a parametri di estrema chiarezza e comprensibilità nella determinazione dei casi in cui i medici che pongono fine alla vita di un paziente non siano punibili. Secondo il comitato, la legge olandese che prevedeva genericamente la depenalizzazione dei medici che praticassero eutanasia non garantiva la necessaria tutela del paziente in situazioni ove fosse stata esercitata una indebita pressione nei confronti del paziente da parte dei familiari. B. La corte europea dei diritti umani ha affrontato il problema dell'eutanasia e del suicidio assistito nel 2002. Si trattava di dover giudicare il caso di una cittadina britannica di 43 anni affetta da una incurabile malattia al sistema nervoso che, in ragione del fatto che in Gran Bretagna vigeva il reato di suicidio assistito, si era rivolta alle autorità britanniche chiedendo che, tenuto conto delle circostanze eccezionali del caso, le venisse garantito che, qualora il marito avesse eseguito la sua volontà di essere uccisa, il pubblico ministero avrebbe rinunciato all'esercizio dell'azione penale nei suoi confronti. Questa richiesta viene respinta. La corte europea decise che non vi era violazione 61 dell'articolo 2 della Convenzione, da parte del Regno Unito, ritenendo che lo Stato ha il dovere, in conformità con le disposizioni della convenzione europea, di non privare della vita coloro che sono sottoposti all'autorità e di porre in essere disposizioni penali che costituiscano efficace deterrente contro la commissione di reati contro la persona. Per la corte, l'articolo due non prevede un diritto di autodeterminazione, nel senso che lo Stato debba consentire ad una persona di scegliere autonomamente se privarsi o meno della vita. La corte respinse anche la richiesta di violazione dell'articolo tre, ritenendo che dalla lettera di questa disposizione non potesse discendere un obbligo dello stato di impegnarsi a non sanzionare il marito della ricorrente o di modificare la propria legislazione. Nel 2011 la corte ha adottato un'altra sentenza che riguardava la compatibilità dell'eutanasia con la convenzione europea. La corte europea, in tale sentenza, disse che è un diritto degli individui quello di decidere in quale modo e in che momento porre fine alla propria esistenza, posto che la persona è in condizione di formulare liberamente la propria volontà in merito. La corte si chiese se lo Stato abbia un obbligo positivo di mettere in atto le misure necessarie per garantire un suicidio degno e risposta che si diede è che le autorità nazionali hanno l'obbligo di impedire ad un individuo il suicidio qualora tale decisione non sia stata formulata liberamente e con coscienza di causa. La corte ha ribadito che la convenzione europea dev'essere interpretata alla luce dei tempi e che non vi è una concordanza a livello degli Stati membri del consiglio di Europa in materia di suicidio assistito. 9. IL DIRITTO A NON ESSERE SOTTOPOSTO A TORTURA O A TRATTAMENTI INUMANI O DEGRADANTI. Secondo l'articolo tre della convenzione europea dei diritti umani: nessuno deve essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti. Secondo l'articolo sette del patto internazionale sui diritti civili e politici: nessuno deve essere sottoposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti. In particolare, nessuno deve essere sottoposto senza il suo consenso a sperimentazioni mediche o scientifiche. Nello stesso senso, si esprimono l'articolo cinque della convenzione americana dei diritti umani e l'articolo cinque della carta africana dei diritti umani e dei popoli. In tutti questi strumenti è previsto un divieto assoluto di tortura e trattamenti e pene inumani e degradanti. Il carattere inderogabile del divieto di tortura è stato chiaramente affermato nel caso Furundja, con la conseguenza che gli Stati non solo sono obbligati a proibire sanzionare tale pratica, ma anche a prevenirla, adottando tutte le misure a questo necessarie. Le ragioni per le quali, in una società civilizzata e degna di essere chiamata democratica la lotta ai reati deve essere svolta nel rispetto dei diritti umani, in particolare del rispetto del divieto di tortura e trattamenti inumani degradante sono bene chiarita dalla corte Interamericana dei diritti umani in un caso del 2005. Ciononostante, come risulta dalle pronunce che esistono sul tema, sono frequenti i casi in cui gli Stati non rispettano il fondamentale divieto di tortura. 10. LA DEFINIZIONE DI TORTURA 62 Non esiste una lista di trattamenti che cadono sotto il divieto di tortura e neppure sarebbe possibile redigerla, dato che l’accertamento sull’esistenza di violazioni di tale divieto va fatto caso per caso, a seconda della natura, dello scopo e della gravità del trattamento inferto e della condizione personale di chi lo subisce. Tristemente celebri sono stati dei memoriali nei quali due consiglieri degli Stati Uniti sì sono profusi in disgustose argomentazioni pseudo-giuridiche al fine di giustificare le tecniche di interrogatorio praticate su sospetti terroristi. Essi hanno sostenuto che la tortura comprende soltanto quelle pratiche che determinano un acuto dolore che si traduce in un grave danno fisico, come la perdita di un organo, la menomazione di una funzione corporale o anche la mutilazione o che determinano un danno mentale che duri per mesi o anche per anni. Il 22 gennaio del 2009 il presidente degli Stati Uniti ha ripudiato tutti memoriali redatti nel periodo dal 2002 al 2009, da tutti i consiglieri giuridici del governo americano sul tema dell'interrogatorio di detenuti, dichiarando però successivamente che non sarebbero stati perseguiti in sede penale gli autori dei memoriali né coloro che avevano messo in pratica le tecniche descritte, nel convincimento che fossero legali. I famigerati memoriali suscitano evidenti riflessioni sul ruolo che i medici e di giuristi dovrebbero svolgere di fronte al baratro della tortura. Si può anche aggiungere che tutti coloro che praticano la tortura ormai sono ben consapevoli della ripugnanza morale e dell'indiscutibile illegalità dei loro comportamenti. Nessuno dei quattro trattati (cedu, convenzione interamericana, patto e carta africana) contiene una definizione di cosa possa considerarsi in generale tortura. Definizioni utili si trovano, invece, nella convenzione contro la tortura e contro trattamenti o punizioni crudeli, inumani, o degradanti, all'articolo uno, e all'articolo due della convenzione Interamericana per prevenire e sanzionare la tortura. Come primo elemento caratteristico della tortura, occorre un comportamento, attivo od omissivo, diretto ad infliggere intenzionalmente gravi sofferenze fisiche e mentali ad un individuo. Non hanno importanza i motivi per i quali le gravi sofferenze sono inflitte. In secondo luogo, occorre che il comportamento in questione sia tenuto da agenti dello Stato o con la loro acquiescenza (la corte europea si è espressa nel senso di ritenere responsabile lo stato anche nell'ipotesi in cui la tortura sia commessa da soggetti privati, qualora le autorità dello Stato non siano in grado di prendere misure di protezione adeguate per le persone che corrono un rischio reale di venire torturate). In una sentenza del 1999, la corte EDU ha ribadito l'esistenza in capo agli stati di un obbligo di protezione da trattamenti contrari all'articolo tre della Convenzione, anche laddove questi siano commessi da privati, soprattutto nei confronti di categorie di persone particolarmente vulnerabili, quali i minori d'età ( nella fattispecie, il padrino di un bambino di nove anni aveva in più occasioni colpito quest'ultimo, per castigarlo, e i giudici britannici lo avevano assolto dall'accusa di violenza). Nel 2010, la corte europea ha riaffermato l'esistenza di obblighi positivi in capo allo Stato, derivanti da una lettura congiunta dell'articolo uno e dell'articolo tre della convenzione, di sanzionare soggetti privati i quali hanno commesso comportamenti che possono essere assimilati alla nozione di tortura o trattamenti inumani e degradanti (nella fattispecie, il ricorrente era un esponente del gruppo religioso che era stato vittima per il suo credo di numerosi attentati in Serbia. In uno di questi, gli 63 era stato inciso sulla fronte una croce. I responsabili non erano stati individuati, processati e sanzionati.) I trattati che forniscono una definizione di tortura precisano che le sofferenze derivanti da sanzioni legittime non costituiscono tortura. Una simile esclusione sembra però capovolgere i termini del problema, perché proprio l'assenza di forme di tortura è la condizione che può qualificare come legittima una sanzione e non già il contrario. 11. LA DISTINZIONE TRA TORTURA E TRATTAMENTI O PUNIZIONI CRUDELI, INUMANE O DEGRADANTI Gli organismi internazionali di tutela dei diritti umani hanno cercato di chiarire quali siano le differenze che permettono di distinguere la "tortura" da un "trattamento o una punizione crudele, inumana o degradante". È sottinteso che la tortura costituisce qualcosa di più grave degli altri tipi di trattamento o punizione e che, in entrambi i casi, deve sussistere un certo livello di sofferenza, fisica o mentale. Volendo comunque fare la distinzione, si può notare che vengono in considerazione alcuni elementi: mentre la tortura è sempre intenzionale, un trattamento crudele, inumano o degradante può anche risultare da un insieme di circostanze che non sono state deliberatamente create. In più, se nei casi di tortura la vittima è totalmente indifesa, non necessariamente questo avviene per i trattamenti inumani e degradanti. Alcuni organismi internazionali di tutela di diritti umani hanno ritenuto che un elemento di distinzione tra tortura e i trattamenti inumani e degradante fosse l'intensità della sofferenza causata alla vittima. Attualmente, si tende a non invocare più questo parametro, anche alla luce dell'oggettiva difficoltà di determinare criteri univoci per valutare il livello di sofferenza di una vittima, che può variare anche in considerazione di caratteristiche personali. A. La questione relativa alla distinzione tra tortura e trattamenti inumani o degradanti è stata approfondita particolarmente dalla corte europea. In un caso del 1978, la corte ha preso in considerazione le cosiddette cinque tecniche di interrogatorio cui ricorrevano, nell'ambito della lotta contro il terrorismo in Irlanda del Nord, gli agenti della polizia britannica: incappucciamento, assoggettamento a continuo rumore, privazione del sonno, privazione di cibo e bevande, obbligo di rimanere in piedi per lunghi periodi di tempo. Mentre la commissione europea aveva ritenuto che le cinque tecniche costituivano tortura, la corte le qualificò come trattamenti inumani. La corte chiarì che per distinguere tra tortura e trattamenti inumani è necessario far riferimento al grado di sofferenza inflitta alla vittima. La corte ritornò sulla questione nel 1992, quando dovette giudicare dell'interrogatorio della polizia francese a Tommasi, il quale durò 14 ore, nelle quali il soggetto fu percosso con colpi al viso, all'addome e alla testa, costretto a rimanere nudo di fronte ad una finestra aperta con le mani ammanettate, senza ricevere cibo e minacciato con armi da fuoco. La corte qualificò tali comportamenti come trattamenti inumani e degradanti. Nel 1999 arrivò ad una conclusione diversa. Il caso riguardava un soggetto che era stato arrestato a Parigi e che era stato sottoposto ad un interrogatorio di particolare violenza: percosso con un 64 oggetto simile ad una mazza da baseball, obbligato a correre attraverso un corridoio di agenti di polizia che lo facevano cadere al suolo, costretto ad inginocchiarsi di fronte ad una poliziotta e sottoposto di insulti a sfondo sessuale e razziale. La corte dichiarò che tali atti dovevano essere qualificati come tortura. Spesso la corte europea ricorre, ai fini della qualificazione del comportamento come tortura o come trattamento inumano, alla valutazione di particolari caratteristiche della vittima, come l'età il sesso lo stato di salute la durata del trattamento e le conseguenze fisiche e psicologiche. La corte ha anche chiarito che certi trattamenti possono considerarsi inumani se si sono protratti per un lungo periodo di tempo ed hanno causato lesioni fisiche o sofferenza mentale o fisica intensa. Un trattamento o una pena sono invece degradanti se generano nella vittima sentimenti di paura, di angoscia ed inferiorità, tali da umiliarla e svilirla. In un caso del 1982, che riguardava due giovani che erano stati minacciati di essere sottoposti a punizioni corporali senza però che questo si fosse verificato, la corte dichiarò che vi può essere un trattamento inumano anche in presenza della sola minaccia. Nel 2010, la corte ha chiarito che la pena di morte può rientrare nella definizione di trattamento inumano o degradante. B. La commissione africana dei diritti umani dei popoli in una sentenza del 2003 si pronuncia sulla pena della flagellazione. Ha precisato che la pena della flagellazione è una forma di tortura. C. La corte Interamericana ha ritenuto che una violazione dell'integrità fisica e psichica di un individuo può raggiungere diversi gradi di gravità (tortura, trattamento crudele, inumano o degradante) e che per determinare correttamente la compatibilità con la convenzione americana di un trattamento o di una punizione è necessario considerare le circostanze concrete di ciascun caso e le caratteristiche personali della vittima. La corte Interamericana ha sostenuto che la pena della flagellazione costituisce tortura. D. Il comitato dei diritti umani ha seguito un diverso orientamento, ritenendo la flagellazione una pena crudele, inumana o degradante, ma non una forma di tortura. La differenza tra le conclusioni raggiunte dei diversi organismi di protezione dei diritti umani dimostra come sia difficile scegliere se qualificare un trattamento o una punizione come tortura o come trattamento crudele. 12. lo stupro e le violenze sessuali Lo stupro e le violenze sessuali in quanto tali non sono riconosciute come autonome violazioni dei diritti umani in nessuno degli strumenti internazionali di protezione dei diritti umani qui considerati. In assenza di definizioni precise, si deve seguire quanto stabilito dal tribunale penale per il Ruanda, che ha qualificato lo stupro come ogni atto di natura sessuale commesso in modo coercitivo nei confronti di una persona, indipendentemente dal fatto che esso si realizzi o meno tramite una penetrazione del corpo. 65 A. La corte europea dei diritti umani ha qualificato lo stupro come una forma di tortura nel 1997 (In un caso che riguardava una giovane donna che era stata violentata da un agente di polizia turco). In un caso del 2003, la Corte europea concentrò il proprio ragionamento sugli obblighi positivi degli Stati parte: non basta che lo Stato non si renda responsabile di tortura, ma occorre anche che esso ponga in essere strumenti penali adeguati per prevenire e sanzionare severamente atti, come la violenza sessuale, che corrispondono a vere proprie forme di tortura, anche qualora siano commessi da privati cittadini. Prima, nei codici penali degli Stati europei, per configurarsi violenza sessuale era necessaria la costrizione fisica della vittima o la sua resistenza. Adesso tali requisiti non sono più previsti. Può darsi il caso infatti che la vittima sia costretta a subire un atto sessuale senza consentire allo stesso, anche se per circostanze di ordine psicologico la vittima non pone resistenza fisica. In un caso del 2008, la corte si trovò a dover giudicare del caso di una donna che era stata convocata presso una stazione di polizia per testimoniare in un caso di omicidio, e che era stata costretta dal commissario ad avere rapporti sessuali di vario genere. In seguito al suo rifiuto, il commissario l'aveva ammanettata, percossa e costretta ad indossare una maschera antigas, subendo un principio di asfissia. La donna fu in seguito violentata dagli agenti ubriachi. La corte ritenne violato l'articolo tre anche dal punto di vista procedurale, non solo sostanziale. La violenza sessuale, secondo la corte, genera un obbligo dello stato di indagare in modo indipendente e imparziale sul reato commesso. B. La corte Interamericana dei diritti umani ha preso in considerazione lo stupro e le altre forme di violenza sessuale in un caso del 2006 (riguardante un'operazione speciale svolta delle forze armate peruviane, a seguito della quale, si verificarono episodi di stupro e violenza sessuale nei confronti delle detenute). La corte evidenziò la violazione dell'articolo cinque della convenzione americana, anche sotto il profilo procedurale, per la mancanza di indagini adeguate e sanzioni nei confronti degli agenti che si erano resi responsabili di atti di tale gravità. La corte qualificò come trattamento crudele la violenza sessuale subita dalle detenute. La Corte interamericana dedicò una particolare attenzione al trattamento subito dalle detenute incinte, concludendo che a queste donne erano state inferte delle particolari sofferenze fisiche e psicologiche. In un caso del 2009, la corte giudicò il comportamento dell'esercito del Guatemala, durante il massacro di 251 abitanti di un villaggio. I membri dell'esercito si erano mostrati particolarmente violenti nei confronti delle donne incinte, erano saltati sul loro ventre, fino a fare fuoriuscire il feto. C. La commissione africana dei diritti umani e dei popoli ha valutato lo stupro come una forma di tortura. 13. LA STERILIZZAZIONE FORZATA Una pratica che solleva questioni di compatibilità con la proibizione assoluta di tortura e trattamenti inumani e degradanti è la sterilizzazione forzata al fine di limitare le nascite. A. La commissione Interamericana dei diritti umani ha preso in considerazione la pratica della sterilizzazione forzata in un caso che riguardava una donna che era morta a seguito dell'intervento di sterilizzazione cui era stata sottoposta, per obbligo, derivante da una legge del Perù, adottata per 66 ridurre le nascita nei settori più degradati della società. La commissione ottenne che il Perù riconoscesse la propria responsabilità in merito alla violazione del diritto alla vita e all'integrità personale ed al divieto di discriminazione contro le donne. B. La corte europea dei diritti umani, nel 2011, ha riscontrato che nell'ipotesi in cui una donna venga sottoposta a sterilizzazione forzata, si perpetra una violazione dell'articolo tre della convenzione. Secondo la corte, la sterilizzazione è contraria al rispetto della libertà e dignità umana non aumento in cui venga praticata forzatamente. 14. IL TRATTAMENTO DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’ Le persone private della libertà, in quanto sottoposte all'autorità esclusiva dello Stato, sono particolarmente esposte al rischio di violazione del divieto di tortura o di trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Le violazioni possono verificarsi al momento dell'arresto, nelle ore immediatamente successive o durante l'intero periodo della privazione della libertà. In vista della delicatezza di questa situazione, sono stati adottati a livello internazionale numerosi strumenti di natura non vincolante. A. Nel caso delle persone private di libertà, l'articolo sette del patto internazionale sui diritti civili e politici recita: tutte le persone private della loro libertà devono essere trattate con umanità e rispetto. Le persone accusate devono essere trattata in maniera appropriata rispetto al loro status di persona detenuta. Le persone accusate minorenni devono essere tenute separate da quelle maggiorenni. Esso deve essere letto in combinato disposto con l’art. 10. Il Comitato sui diritti umani ha stabilito che gli Stati devono evitare di sottoporre i detenuti a lunghi periodi di isolamento, aggiornare i regolamenti in tema di tecniche di interrogatorio, evitare ogni forma di detenzione segreta. Il comitato ha evidenziato che la privazione della libertà deve essere volta al recupero del detenuto, coloro che si trovano in attesa di giudizio devono essere tenuti separati e trattati in maniera diversa rispetto ai detenuti, nel rispetto della presunzione di innocenza. In un parere del 2003, il Comitato ha preso in esame la vicenda di un signore messicano che fu arrestato in Australia per reati economici e recluso insieme ai condannati, violenti e dediti all’uso di droghe. Il signore aveva subito ispezioni corporali per più di una volta al giorno e continue violenze corporali e maltrattamenti. Il comitato ritenne che non sussistesse violazione dell’art. 7 del Patto per quanto riguarda le ispezioni corporali, perché l’Australia aveva dimostrato che servivano per assicurare l’ordine all’interno del centro di detenzione. Il comitato ritenne violato l’art. 10 del patto per il fatto che il cittadino messicano era stato rinchiuso in una stanza triangolare molto piccola. Nel 2005, il comitato si pronunciò sull’impossibilità di un detenuto di accedere all’assistenza medica. Il comitato riscontrò che le Filippine non avevano rispettato gli obblighi derivanti dall'articolo sette del patto e che avevano inflitto al cittadino un trattamento crudele ed inumano per non avergli garantito adeguate cure ed assistenza medica, mentre era recluso. 67 B. La corte europea dei diritti umani ha sviluppato una giurisprudenza particolarmente ampia sia sul trattamento delle persone private di libertà, sia sulle condizioni carcerarie che potrebbero essere considerate in contrasto con l'articolo tre della convenzione europea. La corte muove dalla constatazione che, per la propria natura, la situazione delle persone private della libertà determina inevitabilmente alcuni elementi di sofferenza ed umiliazione. Perché si possa parlare di una punizione o di un trattamento inumano o degradante in contrasto con la previsione dell'articolo tre della convenzione europea è necessario che la sofferenza e l'umiliazione dell'individuo vadano aldilà di quel livello minimo che colpisce qualunque persona privata della libertà. La corte ha considerato proibiti dall'articolo tre della convenzione i seguenti trattamenti inflitti da agenti dello Stato immediatamente dopo l'arresto di un individuo: somministrare scariche elettriche in diverse parti del corpo, minacciare di gravi sofferenze fisiche o violenze sessuali l'individuo arrestato, praticare la cosiddetta "forca palestinese", ossia legare all'arrestato le braccia dietro la schiena e sospenderlo al soffitto in questa posizione. In una sentenza del 2010, la grande camera ha ribadito la natura assoluta del divieto, anche in presenza della sola minaccia di torturare un individuo o di sottoporlo a trattamenti inumani e degradanti. In generale, la corte ritiene che l'uso della forza nei confronti delle persone private della libertà debba essere una misura estrema, giustificata dalla condotta dell'arrestato o del detenuto anche perché un uso indiscriminato della forza può degenerare nella privazione arbitraria della vita dell'individuo. La corte ha ritenuto che le misure che restringono drasticamente la libertà di una persona, come le manette, i ceppi o altri mezzi di costrizione, devono rispettare la dignità dell'individuo e non oltrepassare il limite di proporzionalità rispetto al comportamento rischioso da questi tenuto. La corte ha affermato che gli Stati, per non venire meno agli obblighi stabiliti dall'articolo tre della convenzione, devono garantire ai detenuti la migliore e più efficace assistenza medica possibile. In una sentenza del 2006, la corte ha ribadito che gli Stati hanno un obbligo assoluto di proteggere gli individui si trovano sotto la loro giurisdizione da torture forme di trattamento inumano e degradante, a maggior ragione se si tratta di persone particolarmente vulnerabili a causa della loro età. C. Assai numerose sono state le sentenze della corte Interamericana dei diritti umani in materia di trattamento delle persone private della libertà e di condizioni carcerarie. La corte ha, in vari casi, concesso misure cautelari per prevenire un pregiudizio irreparabile per la vita o l'integrità personale di tutti detenuti in determinate carceri. La corte Interamericana ha riconosciuto violazioni del diritto all'integrità personale per trattamenti giudicati inumani o degradanti inflitti sia al momento di effettuare l'arresto sia durante la carcerazione, nonché per omissioni degli agenti di sorveglianza nei confronti dei detenuti. La corte ha invertito l'onere della prova ed applicato presunzioni probatorie a favore delle persone private della libertà: se un individuo era sano al momento del suo arresto e in seguito riporta lesioni o decede, spetta allo Stato provare di non essere responsabile di tali avvenimenti. La corte, pur considerando che la privazione della libertà dell'individuo implica alcune costrizioni, ha ritenuto che le lesioni, le sofferenza o i danni alla salute riportati durante un periodo di 68 detenzione possono qualificarsi come "pene crudeli", se l'integrità fisica, psichica e morale di un individuo si deteriora per via delle condizioni di detenzione nel loro complesso. La corte ha più volte chiarito che lo Stato, in quanto responsabile del funzionamento dei centri di detenzione, deve garantire alle persone private della libertà l'esistenza di condizioni che rispettino i loro diritti fondamentali e le esigenze di una vita degna. Le carceri sovraffollate, la detenzione in celle di dimensione ridotta senza riscaldamento, aerazione e luce naturale, condizioni igieniche inadeguate o mancanza di possibilità di comunicare con i familiari costituiscono violazioni dell'articolo cinque della convenzione americana. La corte ha ritenuto che, nell'ipotesi in cui i detenuti fossero parte di minoranze etniche, questi avrebbero dovuto conservare la possibilità di esprimersi nella loro lingua madre. D. Anche la commissione africana dei diritti umani dei popoli è stata varie volte chiamata a pronunciarsi in materia di privazione della libertà e delle condizioni carcerarie che devono essere garantite ai detenuti. La commissione ha sostanzialmente seguito un indirizzo giurisprudenziale simile a quello degli altri organismi internazionali di protezione dei diritti umani. Anche secondo la commissione, gli agenti che effettuano un arresto e che svolgono un interrogatorio devono limitare l'uso della forza A situazioni eccezionali in cui questo sia da considerarsi indispensabile. Devono comunque essere garantiti i diritti fondamentali di un individuo privato della libertà, che non deve essere tenuto in condizioni lesive della sua dignità ed integrità fisica. 15. IL TRATTAMENTO DELLE PERSONE MALATE DI MENTE I malati di mente costituiscono un'altra categoria di persone che è particolarmente vulnerabile e, come tale, esposta ad un maggior rischio di essere sottoposta a torture o trattamenti inumani e degradanti. A. La corte europea è stata chiamata a pronunciarsi sul tema del trattamento riservato a persone malate di mente. Nel 1992, la corte ha dichiarato che è necessario, in virtù della posizione di inferiorità delle persone malate di mente, un particolare livello di attenzione nel valutare la sussistenza di una violazione dell'articolo tre della convenzione (il caso riguardava un malato di mente che aveva attaccato le guardie carcerarie). In un caso del 2001, la corte ritenne non responsabili gli agenti del carcere di una cittadina britannica per la morte di un detenuto, malato di mente, che decise di impiccarsi. Nel 2006, la corte condannò la Francia perché le autorità francesi si erano rifiutate di trasferire un malato di mente in un ospedale psichiatrico. B. La corte Interamericana si è occupata del trattamento da riservare alle persone malate di mente, in un caso del 2006. La corte ricordò la natura cogente del divieto di tortura e trattamenti crudeli, inumani e degradanti e la necessità di tenere in debita considerazione le caratteristiche particolari della vittima, dato che la loro condizione mentale può determinare una diversa percezione della realtà e aumentare la sofferenza ed il senso di umiliazione. 69 La corte ha evidenziato che i trattamenti sanitari delle persone malate di mente devono avere come fine principale il benessere dei pazienti ed il rispetto della loro dignità umana. La misura della limitazione motoria deve essere applicata come ultimo strumento ed unicamente per proteggere il paziente. C. La commissione africana ha interpretato il concetto di "trattamento crudele, inumano e degradante" alla luce dell'esigenza di garantire la massima tutela della dignità degli individui affetti da disturbi mentali. 16. L’ESPULSIONE E L’ESTRADIZIONE Un particolare problema collegato alla proibizione di tortura o trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti si pone riguardo all’ammissibilità di misure in virtù delle quali uno Stato espelle o estrada un individuo verso un altro stato dove esiste un rischio concreto che egli subisca i trattamenti sopra indicati. Il divieto di simili misure di espulsione, respingimento o estradizione è espressamente previsto dalla Convenzione contro la torture e gli altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti. Disposizioni di questo tipo mancano nel Patto, nella CEDU e nella Carta Africana. Gli organismi internazionali di protezione dei diritti umani sono stati pertanto chiamati a colmare questa lacuna mediante una giurisprudenza particolarmente ricca. La giurisprudenza prende in considerazione la situazione esistente in uno stato determinato, che spesso non è parte del trattato di riferimento e giunge alla conclusione che uno Stato parte si renderebbe complice di una violazione di un fondamentale diritto umano se consegnasse una persona al primo Stato. Come ha notato il relatore speciale delle nazioni unite contro la tortura e sui trattamenti inumani e degradanti, qualora il ricorrente lamenti il rischio di essere sottoposto a tortura o trattamenti equiparati, incombe nello Stato l'onere di accertare diligentemente la sussistenza di tale rischio. Il relatore ha chiarito che gli Stati non possono basare le proprie decisioni solo su generiche rassicurazioni diplomatiche da parte dello Stato nel quale un individuo dovrebbe essere inviato. Le rassicurazioni non sollevano gli Stati dal dovere di accertare la sussistenza di un rischio di tortura per l'individuo in questione. A. La corte edu, nel 1989, si trovò a dover decidere su un caso che riguardava un individuo che doveva essere negli Stati Uniti (che avevano chiesto l'estradizione) e che si trovava nel Regno Unito. Il cittadino rischiava di essere condannato alla pena capitale. Ai tempi la cedu non vietava la pena di morte, ma la lunga attesa nel corridoio della morte dei condannati alla pena capitale fu considerata dalla corte un trattamento inumano e degradante. La corte stabilì che la convenzione europea non attribuisce agli individui il diritto a non essere estradati. Tuttavia, si configura una responsabilità dello Stato parte se la misura dell'estradizione è consentita quando l'individuo corre il rischio di essere sottoposto ad un trattamento inumano o degradante. La corte europea ha stabilito che quando uno Stato conosce o usando l'ordinaria diligenza potrebbe conoscere del rischio in cui incorre l'individuo, nell'ipotesi in cui l'estradizione è consentita, lo stato non deve concedere la misura dell'estradizione. In un caso del 1991, riguardante 5 individui di nazionalità inglese, appartenenti all’etnia Tamil, che avevano fatto una richiesta di asilo politico respinta dal Regno Unito, la corte EDU ribadì che né la 70 convenzione né i suoi protocolli tutelano il diritto di asilo. Ciononostante, è possibile valutare la compatibilità con l’art. 3 della Convenzione del rigetto del diritto di asilo, quando l’individuo può essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti nel paese dal quale vuole uscire. Nel 1997, la Corte valutò il caso di un cittadino colombiano arrestato per traffico di stupefacenti in Francia, che qualora fosse stato rimpatriato in Colombia avrebbe corso il rischio di ritorsioni da parte della banda di spacciatori. La Corte ha evidenziato che, data la natura inderogabile del divieto di tortura, lo Stato è responsabile per violazione dell’art. 3 anche quando il rischio di tortura proviene da soggetti privati e non autorità statali. In un caso del 2008, la Corte ha evidenziato che l’onere della prova, relativo al rischio di subire torture o trattamenti inumani, ricade in primo luogo nel ricorrente, ma che quando questi abbia presentato prove esaurienti spetta al governo confutarle. Se è dimostrato che un certo gruppo di persone corre un rischio di essere sottoposto a tortura o trattamenti o pene inumani o degradanti e il ricorrente dimostra di fare parte di quel gruppo, il ricorrente non deve anche dimostrare di essere lui personalmente a rischio, giacché il rischio si deduce dall’appartenenza al gruppo. La Corte EDU ha sviluppato nel corso degli anni una consistente giurisprudenza per quanto concerne l’espulsione o l’estradizione di individui sospettati, accusati o condannati per terrorismo o reati connessi. La Corte, pur conscia dell’importanza di politiche e strategie di contrasto efficaci di fronte ad un fenomeno criminale che mette in grave pericolo migliaia di persone, ha ribadito con fermezza che il divieto di bilanciamento (tra un interesse dello stato ed il diritto del cittadino a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti) è inderogabile e che quindi non è mai possibile effettuare un bilanciamento che ne giustifichi una violazione per proteggere un altro interesse, fosse anche la sicurezza nei confronti del peggiore dei terroristi. La corte ha chiarito che le difficoltà affrontate dagli Stati nella lotta al terrorismo non incidono in alcun modo sulla natura inderogabile dell’art. 3 della Convenzione. La CORTE EDU ha poi applicato la propria giurisprudenza in materia di espulsione o estradizione anche nel caso in cui il rischio reale di trattamento inumano di un ricorrente derivava dal fatto che un individuo gravemente ammalato non avrebbe potuto godere dell’assistenza sanitaria adeguata , nel paese dove doveva essere espulso. In casi analoghi, la Corte ha avuto modo di precisare che non è sufficiente dimostrare che la situazione sanitaria nel paese dove l’individuo dovrebbe essere espulso o estradato sia genericamente inadeguata, ma che occorre anche provare che questa situazione determinerebbe un peggioramento sostanziale delle condizioni di salute del ricorrente. B. anche il Comitato dei diritti umani si è occupato di estradizione o espulsione di un individuo in relazione all’art. 7 del Patto, Nel commento n. 20 del 1992, il comitato ha espresso un’indicazione di principio chiarendo che gli Stati devono evitare di sottoporre individui al rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti a causa di provvedimenti di espulsione, estradizione o respingimento. Originariamente, il patto non vietava la pena di morte e per valutare se l’estradizione potesse o meno essere concessa dallo Stato, il Comitato valutava se le modalità con le quali la condanna a morte era eseguita potevano considerarsi trattamenti inumani o degradanti. 71 Il comitato ha evidenziato che le misure di estradizione devono essere valutate caso per caso considerando attentamente se esiste un rischio reale che il destinatario sia torturato o sottoposto a trattamenti inumani o degradanti. Il Comitato ha evidenziato che il divieto degli Stati di sopporre i cittadini al rischio di essere torturati o oggetto di trattamenti inumani o degradanti è assoluto e che non può essere subordinato alla necessità di soddisfare interessi nazionali, come quello di garantire la sicurezza nazionale. Il comitato ha aggiunto che le raccomandazioni politiche ottenute dallo Stato verso il quale si intende estradare o espellere una persona possono essere prese in considerazione ma devono, come minimo, garantire l’esistenza di un meccanismo di controllo per assicurare la reale attuazione di quanto promesso. Il comitato ha considerato integrante trattamento inumano la mutilazione dei genitali femminili ed ha considerato vietato che lo stato sottoponga le donne al rischio di subire questo trattamento. C. La commissione africana dei diritti umani e dei popoli non è stata fino a oggi chiamata a pronunciarsi sui casi in cui un ricorrente corre il rischio, se espulso o estradato, di essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti. 17 LE CONSEGNE STRAORDINARIE La pratica delle cd consegne straordinarie costituisce una delle più disgustose violazioni dei diritti umani degli Stati che sono riusciti a mettere insieme sparizioni forzate, tortura, diniego di giustizia ed altre gravi violazioni. Il tutto si basa sulla convinzione che è consentito allo Stato torturare uno straniero all’estero per carpire informazioni e poi utilizzare le stesse informazioni nell’ambito dei processi. La pratica delle consegne straordinarie consiste in una sorta di circuito segreto di tortura per procura che coinvolge diversi stati legati da un rapporto di complicità: lo stato che si fa carico della cattura, del trasporto e della consegna della vittima e che organizza il circuito, si avvale delle informazioni estratte, lo stato complice che consente accesso al suo territorio per catturare la vittima e lo stato che riceve la vittima in consegna e che carpisce le informazioni. Stupisce la posizione dello stato complice che tollera che sul proprio territorio vengano compiute violazioni dei diritti umani così gravi e che di solito ostacola le indagini o nega che le violazioni siano compiute. Si ritiene che il principale programma di consegne forzate sia stato gestito dalla CIA per catturare terroristi. L’individuo straniero sospettato di terrorismo o di essere a conoscenza di info attinenti al terrorismo è stato trasformato in un essere de-umanizzato, in uno spettro al quale sarebbe lecito infliggere ogni sorte di trattamento in luoghi di detenzione segreti, in aperta violazione di qualunque diritto umano. A. il Comitato dei diritti umani ha reso le proprie osservazioni sul caso Alzery c. Svezia riguardante un cittadino egiziano che aveva richiesto asilo politico in Svezia dopo essere stato torturato dalle autorità del suo paese. Il cittadino andò in Svezia e li fu catturato e sottoposto a tortura e portato in Egitto. Il comitato dichiarò violato l’art. 7 del Patto. 72 B. La Corte EDU ha avuto occasione di affermare che le consegne straordinarie, intese come il “trasferimento extra-giudiziario di una persona da una giurisdizione ad un’altra”, al fine di detenzione ed interrogatorio, sono un totale sovvertimento dello Stato di diritto e delle disposizioni della CEDU. Ad essere violato, in questi casi, è proprio l’art. 3 della Convenzione. 18. GLI SFOLLATI INTERNI La categoria degli sfollati interni comprende coloro che sono costretti a fuggire, a causa di un conflitto, di violazioni sistematiche dei diritti umani, di catastrofi naturali e a trasferirsi in un’altra località. Non sono considerati sfollati interni ma migranti coloro che volontariamente lasciano la propria dimora, andando alla ricerca di un miglioramento economico. Per lungo tempo non sono state adottate norme ad hoc per gli sfollati interni. Nel 1992, è stato istituito un rappresentante del Segretario, generale sui diritti umani degli sfollati interni, che ha il compito di promuovere il dialogo con gli Stati, rafforzando la protezione ed il rispetto dei diritti umani degli sfollati interni. A. la Corte interamericana dei diritti umani ha collegato il fenomeno dello sfollamento forzato al concetto di trattamento inumano e degradante. B. Anche la Corte EDU si è pronunciata su alcuni casi di sfollamento forzato, che riguardano in particolar modo la Turchia. La corte ha concluso che il fenomeno dello sfollamento interno è collegato all’art. 3 della CEDU. 73