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Scovazzi, diritti umani

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SCOVAZZI
QUESTIONI GENERALI SULLA TUTELA DEI DIRITTI UMANI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
1. LA NOZIONE DI DIRITTI UMANI
Un tempo il sovrano, tramite i suoi agenti, poteva fare tutto quello che voleva. Il sovrano era al di
sopra della legge. Non c’era parlamento che potesse imporgli delle regole e non c’era giudice che
potesse sindacare e condannare le sue azioni. Il bene del sovrano era il bene dello Stato, perché il
sovrano era lo Stato.
A partire dal secolo XIX, si sono formate norme che miravano a tutelare le persone, intese come
singoli individui, da abusi commessi a loro danno da parte di coloro che esercitano il potere pubblico.
Queste sono le norme relative ai diritti umani. Tali norme non riguardano i rapporti tra i privati
cittadini (per cui se un uomo uccide un altro uomo, interviene il diritto penale e non i diritti umani),
ma i rapporti tra gli individui privati e quelli che impersonano lo Stato (es. poliziotto che tortura
un uomo).
I diritti umani si fondano sul presupposto che la persona umana non può essere ridotta a un mezzo
per la realizzazione di superiori interessi, quando questi interessi si confondono con l’interesse di
un gruppo che non esita ad uccidere, torturare o rubare per mantenere i privilegi e le immunità
attribuite a chi esercita il potere.
In uno Stato, degno di questo nome, il rispetto dei diritti umani costituisce obiettivo fondamentale.
Nella sentenza GODINEZ CRUZ c. HONDURAS la Corte interamericana dei diritti umani ha
evidenziato che i diritti umani sono UN ATTRIBUTO INNATO DELLA DIGNITA’ UMANA E, IN QUANTO
TALI, PREVALGONO SU QUALSIASI ALTRA FINALITA’ DELLO STATO, perché nessuna attività dello
Stato può fondarsi sul disprezzo della dignità umana.
Il collegamento tra diritti umani e uguale dignità va inteso nel senso che gli individui che
impersonano lo Stato non possono considerarsi più degni degli individui che impersonano solo loro
stessi e nel senso che lo Stato non può discriminare i cittadini, considerando alcune categorie (es.
giovani, ricchi) più degne di altre (vecchi, poveri).
2. L’AFFERMAZIONE DEI DIRITTI UMANI NEI SISTEMI DI DIRITTO NAZIONALE
Sul piano giuridico, l’affermazione dei diritti umani avvenne prima nell’ambito di alcuni sistemi di
diritto nazionale e successivamente nell’ambito del diritto internazionale.
Uno strumento precursore in materia di diritti umani, rimasto per lungo tempo isolato, è la MAGNA
CHARTA (1215). Alcune tra le sue clausole riguardavano diritti che il re si impegnava a garantire ai
sudditi come il diritto a non essere punito, se non in base ad un processo, o il diritto di lasciare il
proprio paese.
Nel XVII sec., trovarono affermazione le concezioni del GIUSNATURALISMO, in base alle quali vi è
un insieme di norme non scritte e desumibili dalla natura stessa dell'essere umano (diritto naturale)
alle quali devono conformarsi anche le norme poste dal sovrano. La configurazione di un sistema di
norme ideali servì come strumento per minare e poi rovesciare le imposizioni di stampo
assolutista, che venivano avvertite come sempre più opprimenti, e per facilitare l'inserimento di
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norme sui diritti umani nei sistemi di diritto interno di vari stati come confermano gli esempi che
seguono.
Il 16 dicembre 1689, il parlamento di Inghilterra adottò il BILL OF RIGHTS. Tale atto normativo, che
ancora oggi viene citato come precedente in procedimenti giudiziari, è una proclamazione di diritti
che devono essere riconosciuti dal sovrano ai sudditi (diritto di eleggere i membri del parlamento,
libertà di parola in parlamento).
Il 4 luglio 1776 13 Stati uniti d'America dichiararono la loro indipendenza dalla Gran Bretagna. Nella
Dichiarazione sono contenuti vari importanti enunciati (diritto alla vita, diritto alla libertà e alla
ricerca della felicità). Pochi anni dopo, l'assemblea nazionale francese, dopo aver considerato che il
disprezzo dei diritti dell'uomo è causa di disgrazie pubbliche, adottava la dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino (1789), dove sono esposti i diritti naturali, inalienabili, sacri dell'uomo.
Nel secolo XIX e ancor di più nel secolo XX, norme sui diritti umani furono sempre più
frequentemente inserite nelle Costituzioni.
3. L’AFFERMAZIONE DEI DIRITTI UMANI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
3.a. IL TRATTAMENTO DEGLI STRANIERI.
Più TARDIVA è l’affermazione dei diritti umani nel diritto internazionale. Solo con la CARTA DELLE
NAZIONI UNITE (1945), la materia dei diritti umani ha una specifica collocazione.
Due sono le ragioni di tale ritardo:
1. le norme di diritto internazionale sono poste dai Governi (dagli apparati destinatari degli
obblighi da esse previsti) e non dai Parlamenti (organi rappresentativi di individui).
2. si riteneva poi che il modo con cui lo Stato trattasse i propri cittadini rientrava nella sfera di
competenza interna (o giurisdizione domestica). Si riteneva quindi che le norme di diritto
internazionale non potessero avere per oggetto la tutela di individui aventi la nazionalità dello Stato.
Prima si credeva che uno Stato poteva presentare un reclamo presso un altro Stato solo se il secondo
aveva maltrattato delle persone che avevano la cittadinanza del primo, nell’esercizio della cd.
PROTEZIONE DIPLOMATICA (cioè la difesa da parte di uno Stato dei diritti di un proprio cittadino
mediante un intervento diplomatico sul piano internazionale). Una volta che decideva di ammettere
nel suo territorio stranieri, lo Stato era tenuto a accordare loro un trattamento che non poteva
scendere al di sotto di un livello minimo, risultante da norme consuetudinarie. Non si riteneva, per
la barriera posta dalla sfera di competenza interna, che norme di diritto internazionale potessero
vincolare uno Stato con riguardo al trattamento che esso riservava ai propri cittadini. Interventi di
altri Stati avvenivano solo per scopi umanitari. Le norme di diritto internazionale relative al
trattamento degli stranieri non possono considerarsi norme di diritti umani propriamente intese. Il
loro scopo non è tutelare individui, ma stranieri.
3.B. Il TRATTAMENTO DELLE MINORANZE.
Un primo, seppure parziale progresso verso il superamento della concezione secondo la quale il
diritto internazionale non può occuparsi di come uno Stato tratta i propri cittadini si ebbe con
alcuni trattati dopo la I Guerra Mondiale, nei quali furono inserite norme relative ai diritti da
attribuire ai cittadini di uno Stato che appartenevano a determinate minoranze etniche o
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religiose. Queste norme si erano rivelate necessarie a seguito dei numerosi mutamenti territoriali
previsti dai Trattati di pace. Venivano quindi poste norme di diritto internazionale attraverso le quali
si decideva come lo stato doveva trattare i propri cittadini, seppure relativamente alle solo
minoranze.
Norme sulla tutela delle minoranze sono contenute anche in trattati adottati in tempi recenti (es.
art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici o la Convenzione quadro per la protezione
delle minoranze nazionali). Esse riguardano non tutti gli individui, ma solo una categoria di essi.
Bisognava fare un passo avanti: dalla tutela dei diritti delle minoranze a quella di tutti gli individui.
3.C. LA CARTA DELLE N.U. E GLI STRUMENTI SUCCESSIVI
Solo con la fine della II guerra mondiale si ebbe una completa affermazione dell’idea che la
persona umana richiede di essere tutelata anche sul piano del diritto internazionale. L’impulso
venne dalla Carta delle N.U. (1945), che annovera tra i fini dell’organizzazione la promozione del
rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di sesso, razza,
lingua o religione. È questa una condizione necessaria per assicurare la pace e la sicurezza
interazionali (fine delle N. U.). Attraverso le disposizioni della Carta, si capisce che il modo in cui lo
Stato tratta i propri cittadini non è più solo una questione di diritto interno.
Già dall'inizio dell'attività, le Nazioni Unite hanno promosso l'adozione di numerosi strumenti
internazionali relativi ai diritti umani e diretti alla tutela degli individui sul piano universale, in
qualunque stato si trovino.
Nel 1948 venne adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione universale
dei diritti umani. Questa costituisce uno strumento di grande importanza perché ha dimostrato la
volontà delle Nazioni Unite di occuparsi in modo permanente della materia dei diritti umani. Vista
come un catalogo di diritti umani, la dichiarazione si caratterizza per un apprezzabile livello di
protezione. L'articolo 18 tutela il diritto dell'individuo di cambiare religione. Tale diritto non figura
nel Patto internazionale sui diritti civili e politici.
La dichiarazione però non prevede meccanismi internazionali per la verifica del modo in cui gli
Stati adempiono agli obblighi in essa enunciati.
Dalla dichiarazione universale discendono il patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) e
il patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966).
1. Altri trattati in materia di diritti umani sono: la convenzione di Ginevra relativa allo status dei
rifugiati (1951), la convenzione di New York sull'eliminazione di ogni forma di
discriminazione razziale etc…
2. Tra gli strumenti giuridici rilevanti sul piano mondiale si devono menzionare anche i
numerosi trattati che riguardano più o meno direttamente la materia dei diritti umani e
che sono stati adottati su iniziativa delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite:
l'organizzazione internazionale del lavoro (ILO), l'organizzazione delle Nazioni Unite per
l'istruzione la scienza e la cultura (Unesco).
3. Parallelamente a livello universale si è manifestata la tendenza a garantire la protezione
dei diritti umani anche a livello regionale. È da segnalare ad esempio la dichiarazione
americana dei diritti e dei doveri umani (Bogotà, 1948) adottata nel quadro
dell'organizzazione degli Stati americani alcuni mesi prima della dichiarazione dei diritti
umani. Si segnala ancora la Convenzione europea dei diritti umani (Roma 1950). Ad essa
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hanno fatto seguito 14 protocolli addizionali che ampliano l'insieme dei diritti garantiti dalla
convenzione.
Proprio per la loro più stretta partecipazione, gli strumenti adottati sul piano regionale
possono spesso realizzare una più efficace protezione dei diritti umani.
Mancano tuttavia trattati regionali di tutela dei diritti umani in buona parte dell'Asia e in
Oceania. Per le vittime di violazioni dei diritti umani in questi continenti, l'unico riferimento
è dato dai trattati di portata universale, sempre che lo Stato interessato li abbia ratificati. Vi
sono poi i trattati regionali che riguardano specifici diritti umani: la carta sociale europea
(Torino 1961) la convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti
inumani e degradanti (Strasburgo 1987) etc…
4. L'obiettivo della protezione dei diritti umani è stato inoltre perseguito a livello
internazionale anche mediante l'approvazione di numerosi strumenti di diritto soffice (soft
law) che, pur sprovvisti di valore obbligatorio, forniscono linee guida o parametri indicativi
anche ai fini dell'adozione di norme di diritto nazionale. Tra i vari esempi, si possono
menzionare i principi base e le linee guida sul diritto un rimedio e alla riparazione per
vittime di gravi violazioni del diritto internazionale dei diritti umani.
5. Una tutela sia pure indiretta dei diritti umani si realizza tramite trattati impongono agli stati
di prevenire e reprimere con strumenti di diritto penale condotte lesive di diritti umani
fondamentali. Si pensi ad esempio alla convenzione per la prevenzione e la repressione del
crimine di genocidio.
6. Una tutela indiretta dei diritti umani è anche assicurata dagli strumenti che creano organi
internazionali per giudicare individui imputati di crimini internazionali. Si pensi ad esempio
al tribunale penale internazionale e al tribunale internazionale per il Ruanda. Di recente, per
consentire lo svolgimento di processi nei confronti di individui imputati di crimini
internazionali, sono stati istituiti alcuni tribunali cosiddetti ibridi. Essi operano a livello
nazionale, ma sono composti anche di giudici stranieri e sono regolati da uno statuto proprio,
diverso da quello dei tribunali nazionali. Es: tribunale speciale per la Sierra Leone creato con
un accordo del 2002 tra la sierra Leone e le Nazioni Unite.
In presenza di un così ampio numero di trattati che garantiscono i diritti umani, i giuristi si sono
spesso chiesti se anche l'individuo possa oggi considerarsi un soggetto di diritto internazionale. Non
sembra il caso di soffermarsi su di una questione che porta a prolungate elaborazioni teoriche. Basti
osservare che la finalità dei trattati sui diritti umani è di tutelare effettivamente l'individuo nei
confronti degli Stati. Questo porta a vedere nell'individuo il titolare di veri propri diritti.
L'attribuzione di diritti direttamente all'individuo è conforme non solo all'obiettivo, ma anche alla
formulazione delle norme sui diritti umani.
Si pensi ad esempio all'articolo tre della convenzione europea, secondo il quale nessuno può essere
sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, Il quale va inteso prima di tutto nel suo
significato letterale come diretto ad obbligare lo Stato a non torturare un individuo, il quale è
correlativamente titolare del diritto non essere torturato.
4. L’ATTEGGIAMENTO DEGLI STATI VERSO I DIRITTI UMANI
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È eccessivo pensare che, a causa del loro obiettivo di limitare gli abusi di chi esercita il potere in
nome dello Stato, i diritti umani siano sempre e immancabilmente sgraditi agli Stati. Resta però il
fatto che i diritti umani appaiono oggi tutelati in misura molto varia.
In uno stato totalitario, richiedere che i diritti umani siano rispettati equivale a mettere in
discussione la legittimità delle autorità e a minare il potere stesso che esse esercitano. Di qui il
rischio che lo Stato ricorra a gravi violazioni di diritti umani, nell'ambito di una deliberata politica
diretta a terrorizzare gli oppositori.
Oggi, massicce violazioni dei diritti umani di solito non si verificano negli stati dove si è affermato
un regime democratico e dove le autorità hanno da tempo compreso che gli assassini, le torture ed
il terrore non sono gli strumenti utilizzabili per mantenere il potere. Ma anche in questi casi si
possono incontrare più o meno aperte resistenze all'applicazione di alcune norme sui diritti umani.
Va anche detto che se da tempo si sta verificando un progresso verso una sempre maggiore tutela
dei diritti umani, negli ultimi anni si è avuta una brusca inversione di tendenza, soprattutto in vari
stati di consolidata democrazia.
Esistono vari modi in cui gli Stati possono indirettamente ostacolare l'applicazione dei diritti
umani: ad esempio, non ratificare i trattati relativi, oppure ratificarli, ma con l'apposizione di riserve
nel contenuto.
Non sempre tali espedienti portano al risultato desiderato: la non partecipazione ai trattati non
cancella l'obbligo dello stato di osservare le norme sui diritti umani che siano vincolanti in forza del
diritto internazionale generale.
Quello che oggi nessuno Stato osa fare, per ragioni politiche, è dichiarare apertamente un suo
programma di non osservanza dei diritti umani.
Anche gli stati responsabili delle peggiori violazioni di diritti umani sono costretti a dichiarare
ufficialmente in pubblico il loro sincero e profondo rispetto per tali diritti.
Così essi contribuiscono, senza volerlo, al rafforzamento del carattere obbligatorio del sistema
internazionale di tutela dei diritti umani, dato che le norme generali del diritto internazionale non
rispecchiano ciò che uno stato fa ma ciò che dice di fare.
5. I diritti civili e politici e I diritti economici, sociali e culturali.
Nel corso del tempo, il catalogo di diritti umani si è in generale ampliato sia quantitativamente che
qualitativamente.
Ai tradizionali diritti di natura civile si sono aggiunti quelli di natura economica sociale e culturale.
Nel 1966 furono contestualmente adottati nell'ambito delle Nazioni Unite due trattati dedicati a
diverse categorie di diritti: il patto sui diritti civili e politici e il patto sui diritti economici, sociali e
culturali.
La distinzione era in gran parte dovuta agli scontri ideologici tra stati occidentali e stati orientali. I
primi erano portati a privilegiare i diritti civili e politici, i secondi i diritti economici sociali e culturali.
In ambiti regionali, i trattati relativi alle due categorie di diritti sono stati adottati in anni diversi.
Si pensi alla CEDU, la quale è stata seguita da protocolli aggiuntivi riguardanti diritti economici sociali
culturali e dalla carta sociale europea.
L'attuazione dei diritti economici sociali e culturali che hanno natura sia individuale sia collettiva
spesso comporta lo stanziamento di ingenti mezzi finanziari da parte dello stato. Questo spiega
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perché, in vari casi, gli Stati accettino di assicurare il godimento di questi diritti soltanto in misura
compatibile con la loro organizzazione e le loro risorse.
La natura progressiva di molti obblighi in materia economica sociale culturale non significa però che
gli Stati siano autorizzati a ritardare indefinitamente la loro attuazione, né che si siano liberi di
trascurare i settori più vulnerabili della popolazione.
La difficoltà da parte degli Stati di riconoscere pienamente i diritti economici sociali e culturali
riguarda non soltanto gli aspetti sostanziali della materia, ma anche quelli procedurali,
soprattutto quando si tratta di istituire meccanismi giudiziari che possono accertare la violazione
da parte degli stati di diritti umani, che si sono impegnati a garantire.
Così, mentre già nel 1966 è stato adottato un protocollo facoltativo al patto sui diritti civili e politici
che attribuisce agli individui il diritto di presentare comunicazioni al Comitato dei diritti umani,
soltanto nel 2008 è stato aperto alla firma un corrispondente protocollo facoltativo al patto sui diritti
economici sociali e culturali, che prevede la possibilità di presentare comunicazioni individuali al
Comitato dei diritti economici sociali e culturali.
A parte le difficoltà pratiche, la distinzione tra le due categorie di diritti appare dovuta a fattori
occasionali senza che essa possa pregiudicare il carattere unitario della nozione di diritti umani.
Anzi, la stretta relazione esistente tra diritti civili e politici e diritti economici, sociali e culturali va
intesa come una manifestazione del concetto di indivisibilità dei diritti umani.
In molti casi, non si può avere una reale tutela dei diritti civili e politici se essa non è accompagnata
dalla garanzia dei diritti economici, sociali e culturali.
Un esempio che dimostra in modo significativo il legame tra le due categorie di diritti è
rappresentato dalla decisione della commissione africana dei diritti umani del 27 ottobre 2001.
La corte doveva giudicare del pregiudizio subito dalla popolazione degli Ogoni a causa della
concessione da parte della Nigeria dei permessi per lo sfruttamento petrolifero ad una società
straniera.
La commissione accertò la violazione della carta africana. In particolare, essa rilevò l'importanza del
diritto all'alimentazione e l'obbligo dello stato di non permettere a privati di distruggere o
contaminare le fonti di alimentazione della popolazione Ogoni.
A livello europeo, la CORTE EDU ha assicurato la tutela dei diritti di natura economica o sociale in
via indiretta, ossia accertando violazione di diritti di contenuto diverso che trovano protezione nella
convenzione europea.
Ad es. nelle sent rese per i casi Lopez Ostra c. Spagna il diritto dell'individuo ad un ambiente salubre
è stato tutelato dalla corte tramite l'accertamento di violazioni da parte dello Stato del diritto al
rispetto della vita privata e familiare.
La Corte interamericana dei diritti umani ha interpretato in modo ampio il diritto alla vita,
intendendolo non solo come il diritto dell'individuo a non essere privato arbitrariamente
dell'esistenza ma anche come diritto ad accedere alle condizioni sociali che consentano
un'esistenza degna.
In definitiva, più che insistere su una separazione artificiale tra le due categorie di diritti, occorre
sottolineare che i diritti umani, comunque vengano qualificati non costituiscono una lista chiusa.
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Con l'evolversi dei tempi il catalogo si amplia e vengono riconosciuti nuovi diritti (esempio: il nuovo
diritto a non essere sottoposto alla sparizione forzata).
6. Diritti umani relativi e diritti umani assoluti
La maggior parte dei diritti umani ha un carattere relativo, nel senso che ad un diritto riconosciuto
all'individuo si accompagnano delle eccezioni, che consentono allo stato di escludere o limitare la
tutela del diritto in questione, qualora si tratti di far valere alcune esigenze espressamente previste
alle norme stesse.
Lo schema tipico delle norme dei trattati sui diritti umani prevede un primo paragrafo, dov'è
enunciato il diritto, e un secondo paragrafo, dove sono elencati i casi in cui eccezionalmente lo Stato
può escludere o limitare tale diritto.
Si pensi ad esempio alla libertà di espressione che può essere limitata in alcune situazioni (non si
può gridare al fuoco nella sala affollata di un cinema).
Si pensi al diritto alla vita e ai casi in cui lo Stato può ricorrere all'uso della forza con l'effetto di
uccidere un individuo.
Tra la regola e l’eccezione c’è un rapporto di specialità.
Le eccezioni vanno interpretate in senso restrittivo, con la conseguenza che una determinata
situazione, se non cade specificamente nella apposita eccezione, ricade nella regola.
Resta però il fatto che alcuni diritti umani sono enunciati in modo assoluto. Pertanto essi non
ammettono eccezioni.
Tra di essi vanno compresi il divieto di genocidio, di tortura, di sparizioni forzate e di schiavitù.
Dal carattere assoluto della norma che vieta la tortura, il tribunale penale internazionale nel caso
Furundzija ha fatto derivare anche l'obbligo degli Stati di non adottare norme di diritto interno
che autorizzino o tollerino la tortura o che concedano amnistia ai responsabili di un simile
comportamento.
7. Diritti umani derogabili e diritti umani inderogabili
In situazioni di emergenza che minacciano la vita della nazione, alcuni trattati sui diritti umani
prevedono di uno Stato parte possa temporaneamente derogare a vari diritti riconosciuti
all'individuo.
Il termine corretto da utilizzare sembrerebbe essere sospendere piuttosto che derogare.
La struttura delle disposizioni riguardanti la deroga è pressoché identica.
Esse indicano le situazioni nelle quali lo Stato parte può procedere alla deroga, precisano le
condizioni procedurali per la deroga, elencano alcuni diritti, il cosiddetto nocciolo duro, che non
possono mai venire drogati.
I diritti umani aventi carattere assoluto non possono mai essere derogati, ma può anche verificarsi
il caso in cui diritti di natura relativa siano dichiarati inderogabili.
Non vi è pertanto coincidenza tra diritti assoluti e diritti inderogabili, nel senso che nel catalogo
dei diritti inderogabili ricadono non solo i diritti assoluti ma anche qualche diritto relativo.
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
Le norme inderogabili del patto sui diritti civili e politici riguardano il diritto alla vita, il
divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti, il divieto di schiavitù, il divieto di
privazione della libertà per debiti eccetera. Nel caso degli altri diritti, quelli derogabili, per
poter invocare la deroga, devono concorrere due condizioni: l'esistenza di una emergenza
pubblica che minaccia la vita della nazione e la comunicazione al segretario generale delle
Nazioni Unite da parte dello stato interessato dei diritti cui essa intende derogare e delle
ragioni di tale deroga.
Il Comitato dei diritti umani, nel commento generale numero 29 del 31 agosto 2001, ha
chiarito che, quando invoca una deroga ad 1 o + diritti garantiti dal patto, uno Stato parte
deve porsi l'obiettivo principale di revocare la deroga stessa nel più breve tempo possibile.
Il comitato ha ricordato che, nel derogare ai diritti elencati nel patto, gli Stati devono
attenersi strettamente al principio di proporzionalità: le deroghe devono corrispondere alla
gravità della situazione e la loro portata deve essere il più possibile limitata.
Sullo Stato che intende avvalersi della deroga incombe l'onere di provare l'esistenza di una
situazione così grave da giustificare tale misura, ma anche l'adeguatezza della misura stessa
in relazione alle circostanze esistenti.

Relativamente alla CEDU, è possibile dire che le norme inderogabili riguardano il diritto alla
vita, il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, il divieto di schiavitù e il
principio di irretroattività della legge penale. La corte europea dei diritti umani ha chiarito
che uno Stato può avvalersi della deroga se esiste una situazione eccezionale di crisi o di
emergenza, cioè un pericolo attuale o imminente e concreto che minacci l'insieme della
popolazione di uno Stato o costituisca una minaccia per la vita organizzata della comunità
che compone lo Stato. Occorre anche rispettare alcuni requisiti procedurali: la deroga deve
essere comunicata al segretario generale del consiglio di Europa mediante un atto ufficiale
Che indichi chiaramente quali sono le misure che lo Stato intende adottare e quali sono i
motivi.

Nell'ambito del sistema americano di protezione di diritti umani, la possibilità di deroga è
prevista all'articolo 27 della convenzione americana. L’articolo 27 stabilisce quali sono i
diritti e libertà inderogabili e dispone che non possono essere sospese le garanzie giudiziarie
indispensabili per la protezione di tali diritti. Viene così stabilito un legame tra l'aspetto
sostanziale e quello giudiziario della tutela dei principali diritti umani. Non ha infatti molto
senso stabilire che un diritto non può essere derogato se non possono essere pienamente
applicati gli strumenti processuali che servono a tutelare tale diritto e a reprimere le sue
violazioni.
La corte Interamericana si è pronunciata su tale disposizione stabilendo che non può mai
essere derogato dagli stati lo strumento dell'habeas corpus (espressione utilizzata
inizialmente nel diritto anglosassone e poi anche in altri sistemi per indicare l'ordine, emesso
da un giudice, che una persona arrestata gli sia presentata per poter verificare la legalità
della situazione).

Diversamente dai trattati appena menzionati, nessuna disposizione della carta africana sui
diritti umani prevede che i diritti in essa riconosciuti possano venire derogati.
8
In una decisione del 1995, La commissione africana dei diritti umani e dei popoli sembra
escludere la possibilità di deroghe. In una decisione del 2007, invece, la Corte Africana
sembra ammettere la possibilità che taluni diritti della Carta vengano derogati.
8. I diritti umani in tempo di guerra
A partire dalla seconda metà del secolo 19º, si è formato, tramite la conclusione di trattati
multilaterali, un sistema di norme che tutelano i diritti di individui coinvolti in un conflitto.
Questo sistema si basa prevalentemente su due norme generali:
1. Lo Stato belligerante non può dirigere la violenza bellica contro i civili;
2. Lo Stato belligerante non può usare, nei confronti dei combattenti nemici, armi che creano
sofferenza eccessiva, rispetto all'obiettivo di mettere fuori combattimento l'avversario.
Questo insieme di norme è oggi designato con il nome DIRITTO INTERNAZIONALE UMANITARIO e
si applica non solo ai conflitti armati internazionali ma anche ai conflitti armati interni.
Qual è il rapporto tra diritto internazionale umanitario e diritto internazionale dei diritti umani?
Al quesito sono state date varie risposte.
Alcuni hanno fatto riferimento al concetto di specialità (l’applicazione del diritto umanitario
esclude l’applicazione dei diritti umani).
Altri al concetto di complementarietà (l’applicazione del diritto umanitario non esclude
l’applicazione dei diritti umani).
Quest’ultimo concetto esprime al meglio il rapporto tra questi due rami del diritto internazionale,
poiché evoca una situazione di norme che, in una determinata situazione (la guerra), si sommano
ad altre.
Al contrario, il concetto di specialità potrebbe essere inteso nel senso che l'esistenza di uno stato di
guerra escluda l'applicazione del diritto internazionale dei diritti umani.
I diritti umani si applicano sia in tempo di pace che in tempo di guerra.
Anche il fatto stesso che i trattati danno la possibilità agli Stati di derogare ai diritti umani in tempo
di guerra, dimostra la circostanza che in generale tali diritti si applicano in tempo di guerra.
La complementarietà dei diritti umani con il diritto umanitario è stata ribadita dall'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione numero 2675.
Il tribunale penale per l'ex-Jugoslavia nella sentenza resa il 10 dicembre 1998 per il caso Furundzija,
ha messo in evidenza che il divieto di tortura è rafforzato dallo stesso divieto previsto dal diritto
internazionale dei diritti umani.
Il pericolo della configurazione di un rapporto di specialità è dimostrato dal fatto che qualche Stato,
giocando su una particolare interpretazione di questo concetto, è arrivato a sostenere che a presunte
violazioni commesse in tempo di guerra si applicasse solo il diritto internazionale umanitario.
Pertanto, non potrebbero trovare applicazione quelle norme (dei trattati sui diritti umani) che
prevedono la competenza a conoscere della violazione da parte di un organo internazionale.
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Il rapporto di complementarietà tra i due settori del diritto internazionale permette anche di
evidenziare che le norme di diritto internazionale dei diritti umani possono essere interpretate
alla luce del diritto internazionale umanitario, per meglio a determinare il loro contenuto.

A favore di un'applicazione complementare del diritto internazionale dei diritti umani con
quello umanitario si è espressa la Corte Interamericana dei diritti umani, che ha dichiarato
opportuno ispirarsi alle norme di diritto internazionale umanitario per specificare il
contenuto delle norme internazionali sui diritti umani.
Si pensi ad esempio al caso Hermanas Serrano Cruz c. El Salvador.
El Salvador sosteneva che la Corte americana fosse incompetente, facendo leva su un
rapporto di specialità tra diritto internazionale umanitario e diritti umani.
Respingendo la tesi dello Stato, la Corte ha affermato di poter utilmente richiamare le norme
di diritto internazionale umanitario come strumento di interpretazione della Convenzione
americana.
Con la sentenza sul caso Masacre de Santo Domingo c. Colombia la Corte ha valutato un
bombardamento aereo di civili da parte della aeronautica colombiana ai danni del villaggio
di Santo Domingo.
Nell'occasione, un elicottero militare sganciò sull'abitato sei bombe. Poco dopo, i militari a
bordo di un altro elicottero spararono su coloro che cercavano dare aiuto ai feriti.
La Colombia aveva negato la competenza della Corte interamericana sostenendo che le
violazioni lamentate dei ricorrenti rientrassero nel diritto internazionale umanitario e non
anche nel campo del diritto internazionale dei diritti umani.
Questa eccezione preliminare fu respinta dalla Corte interamericana che riaffermò la propria
competenza a conoscere di casi di violazioni verificatesi nel contesto di conflitti armati, ai
quali il diritto internazionale umanitario si applica insieme al diritto internazionale dei diritti
umani.
La Corte fece riferimento, per giudicare, sia ai principi del diritto internazionale
consuetudinario, sia all'articolo 3 della Convenzione, che alle quattro convenzioni di Ginevra
del 1949.
La Corte richiamò il principio consuetudinario di distinzione, in base al quale le parti in
conflitto devono distinguere i combattenti dai civili e limitare i propri attacchi ai soli
combattenti.
La Corte invocò anche il principio consuetudinario precauzionale, che richiede che le
operazioni militari nel contesto di conflitti armati vengano realizzate prendendo tutte le
precauzioni per non colpire civili. Concluse che il bombardamento di Santo Domingo era
contrario ai principi consuetudinari sopra richiamati. Tale conclusione derivava dal fatto che
sia il bombardamento che l'arma prescelta avevano comportato un massacro di civili. La
Corte ritenne sussistente anche una violazione del diritto all'integrità personale.

Analogamente il Comitato dei diritti umani si è riferito al concetto di complementarietà tra i
due sistemi e ha specificato che i diritti e le libertà fondamentali contenute nel Patto sui
diritti civili e politici continuano ad applicarsi a prescindere dall'esistenza di una situazione
di conflitto.
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La Corte europea dei diritti umani, nella sentenza sul caso Isayeva c Russia, relativa ai
bombardamenti effettuati dalla Russia, durante il conflitto svoltosi in Cecenia, ha affermato
che l'uccisione indiscriminata di civili costituiva una privazione arbitraria della vita.
In altre sentenze, pur senza pronunciarsi mai direttamente sulla relazione esistente tra il
diritto internazionale dei diritti umani e il diritto internazionale umanitario, ha fatto
riferimento a norme che appartengono a quest'ultimo al fine di meglio interpretare le
disposizioni della Convenzione.
9. Diritti umani e diritto dei trattati
Diversamente dagli altri, i trattati relativi alla protezione dei diritti umani sono conclusi non tanto
per creare diritti ed obblighi reciproci tra Stati, ma per attribuire ai singoli individui diritti nei
confronti degli Stati.
L’oggetto e lo scopo principale dei trattati sui diritti umani determinano alcune importanti
conseguenze circa le norme del diritto internazionale dei trattati ad essi applicabili.
9.A Interpretazione
Secondo la regola generale di interpretazione dei trattati un trattato deve essere interpretato:
1. in buona fede,
2. secondo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce
del suo oggetto e del suo scopo (articolo 31 comma uno della convenzione di Vienna sul
diritto dei trattati).
Anche i trattati in materia di diritti umani vengono interpretati conformemente al loro scopo, che è
quello di tutelare gli individui.
Pertanto, se due diverse interpretazioni della stessa disposizione sono ammissibili in base alla
lettura testuale, va prescelto il significato che è più favorevole all'individuo.
Il criterio secondo il quale un trattato deve essere interpretato in modo tale che, da esso, derivi
la minore limitazione della sovranità dello Stato, deve cedere di fronte al criterio che privilegia
l'oggetto e lo scopo del trattato, in considerazione del fatto che i trattati sui diritti umani sono volti
proprio a limitare la sovranità dello Stato nei confronti degli individui.
Sono numerose le pronunce nelle quali un organo internazionale di tutela dei diritti umani risolve
un problema interpretativo ricorrendo al significato più favorevole per l'individuo.
Si pensi alla sentenza della corte EDU, che dovette interpretare l'articolo 5 paragrafo 3 della
Convenzione europea, relativo alla durata ragionevole della carcerazione preventiva.
Non risultava chiaro se, ai fini della determinazione della ragionevolezza del periodo di privazione
di libertà di un arrestato, andasse calcolata anche la durata della carcerazione preventiva.
La Corte scelse il significato risultante dal testo francese che meglio conciliava i due testi (inglese e
francese).
Se il testo inglese infatti permetteva due interpretazioni, il testo francese ne permetteva una sola.
9. B. Efficacia soggettiva
11
Come tutti i trattati, anche i trattati relativi alla tutela dei diritti umani obbligano soltanto le parti
che li hanno sottoscritti e non possono obbligare Stati terzi.
In alcuni casi, si pone il problema di stabilire se uno Stato parte possa rispondere per la condotta di
uno Stato terzo.
Uno Stato parte può essere responsabile di una violazione di un trattato sui diritti umani qualora
esso consapevolmente cooperi affinché un comportamento vietato da tale trattato sia tenuto da
uno Stato terzo.
Ad esempio, nella sentenza Soering c. Regno Unito, il Regno Unito si sarebbe reso responsabile di
una violazione dell'articolo 3 della convenzione Europea dei diritti umani (divieto di trattamenti
inumani e degradanti) se avesse estradato un individuo negli Stati Uniti (Stato terzo) dove egli il
rischiava di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti.
9.C Efficacia territoriale
Secondo la convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, a meno che a una diversa intenzione risulti
dal trattato o sia altrimenti stabilito, un trattato vincola ciascuna delle parti rispetto all'insieme del
suo territorio (articolo 29).
Questa norma nulla dice circa la questione se un trattato si possa applicare anche al di fuori del
territorio di tale Stato.
Una simile questione va affrontata alla luce dell'oggetto e dello scopo del trattato.
Dalla natura stessa dei trattati in materia di diritti umani, i quali hanno per scopo quello di
regolamentare i comportamenti tenuti dagli Stati nei confronti degli individui, sembra potersi
dedurre che è assolutamente irrilevante il luogo nel quale questi comportamenti sono tenuti.
In altre parole, i trattati sui diritti umani tutelano gli individui, Indipendentemente dal luogo dove
la violazione è, o può essere, compiuta dallo Stato.
Può accadere ad esempio che gli agenti di uno Stato operino in un altro Stato su autorizzazione di
quest'ultimo.
In questi casi, lo Stato risponde per le violazioni dei diritti umani compiute dai suoi agenti, anche se
la condotta è avvenuta al di fuori del suo territorio.
Nei casi di azioni extra territoriali, la responsabilità sorge in capo a due Stati, se vi è la complicità
dello Stato sul cui territorio la violazione del diritto umano si è compiuta.
Altrimenti, la responsabilità ricade sul solo stato che ha operato.
UN PROBLEMA PARTICOLARE HA POSTO LA DETERMINAZIONE DELL’EFFICACIA TERRITORIALE
DELLA CEDU.
Secondo la Convenzione europea, le parti devono assicurare ad ogni individuo, entro la loro
giurisdizione, i diritti previsti dalla convenzione.
È sorprendente come la corte europea non abbia subito fatto propria l'unica interpretazione
plausibile di una norma che semplicemente prevede che gli Stati parte devono assicurare i diritti
tutelati dalla convenzione a tutti gli individui che vengono a tiro di comportamenti tenuti dagli agenti
dello Stato, ovunque essi operino.
La corte ha oscillato tra estremi opposti, senza che vi sia una logica che possa spiegare conclusioni
radicalmente diverse, in casi che richiedevano di venire trattati allo stesso modo.
12
1. Nella sentenza resa per il caso Loizdou c. Turchia, la corte rilevò che il concetto di
giurisdizione non si limita al territorio di uno Stato parte, ma si estende anche al caso in cui
uno Stato, in conseguenza di un'azione militare, eserciti un controllo effettivo del territorio
di un altro Stato.
Nel caso di specie, era in discussione il diritto di proprietà su immobili situati a Cipro, la quale
era stata occupata militarmente dalla Turchia.
2. Ad una diversa conclusione, è giunta la corte nella sentenza resa per il caso Bankovic c
Belgio.
La corte dichiarò inammissibile il ricorso presentato dai familiari dei 16 civili uccisi e da
persone rimaste ferite nel bombardamento aereo del 1999 presso la stazione radiotelevisiva di Belgrado.
La corte, in particolare, concluse che la convenzione europea si applicasse soltanto quando
la violazione fosse avvenuta nel territorio degli Stati parte.
Essa si basò, nello specifico, sul significato della parola giurisdizione.
Giustificò la propria interpretazione sulla base dei lavori preparatori alla CEDU.
Non spiegò, però, per quale ragione essa dette alla parola giurisdizione lo stesso significato
della parola territorio. Non spiegò perché essa non interpretò la convenzione alla luce del
suo oggetto e del suo scopo.
Poco convincenti sono stati poi gli sforzi della corte di distinguere il caso in esame dal
precedente, come se bombardare uno Stato non costituisse l'esercizio di un controllo ben
più effettivo rispetto che attuare un'occupazione militare.
La Corte è arrivata a configurare un doppio criterio di protezione dei diritti umani (LA CEDU
è ESISTENTE O INESISTENTE A SECONDA DI DOVE UNO STATO OPERA) che non trova
sostegno in alcuna disposizione della convenzione e che contraddice la stessa natura del
concetto di diritti umani.
3. L'interpretazione restrittiva dell’ambito di applicazione della convenzione europea data nel
caso appena esaminato è così assurda che la stessa Corte nella giurisprudenza successiva ha
preferito giungere a conclusioni opposte senza peraltro mai riconoscere l'errore commesso
in precedenza.
In sentenze successive, la corte europea dei diritti umani ha evidenziato che l'articolo uno
della convenzione europea va interpretato nel senso che uno Stato parte non è autorizzato
a fare in territorio altrui quello che non può fare nel proprio e che la responsabilità di uno
Stato parte può insorgere anche riguardo a comportamenti tenuti dei propri agenti in
territorio altrui.
In sent successive, la corte si è dichiarata competente anche per violazioni commesse in
territorio straniero (vedi caso Saadon e Mufdhi c. Regno Unito). In questo modo, la Corte ha
garantito una effettiva tutela dei diritti degli individui che non si trovano in uno Stato parte
della convenzione europea.
4. Nel caso Medvedyev c. Francia, la grande camera della corte ha fornito ulteriori indicazioni
in materia di applicazione extraterritoriale della convenzione europea.
Il caso riguardava l'abbordaggio in alto mare da parte delle forze speciali francesi di una nave
battente bandiera cambogiana sospettata di essere utilizzata per il traffico di stupefacenti.
13
La corte ha evidenziato che la propria competenza sussiste quando la violazione attribuita
allo Stato parte ha natura "continua ed ininterrotta", ma non esiste quando la violazione
ha natura "istantanea".
Persistendo nel tentativo di giustificare il suo precedente macroscopico errore, la corte è
giunta all'assurdo, dato che la convenzione non distingue in alcun modo violazioni continue
e violazioni istantanee.
5. Anche nella sentenza Al-SKEINI c. Regno Unito, la Corte affermò l'applicazione della
convenzione europea a comportamenti tenuti dagli agenti di uno stato, in un territorio di
uno Stato non parte.
Il caso riguardava la mancata indagine sull'uccisione, da parte delle truppe britanniche di
occupazione dell'Iraq, di cinque iracheni e sul maltrattamento e l'uccisione in custodia di un
sesto iracheno.
La corte, ha ricostruito la precedente giurisprudenza sulla extra territorialità, distinguendo
tra due diverse nozioni di giurisdizione, l’una basata su un modello spaziale (esercizio di
poteri pubblici su un territorio di un altro stato con il consenso di quest'ultimo; situazioni di
occupazione militare) e l'altra su modello personale (esercizio di poteri fisici su di una
persona da parte degli agenti dello Stato operanti all'estero).
La corte ha affermato che la Convenzione era pienamente applicabile nel caso di specie,
basandosi soprattutto sul fatto che le potenze occupanti svolgevano di fatto funzioni di
governo in Iraq.
DIFFERENTI SONO LE PROBLEMATICHE SORTE CON RIGUARDO ALLA VALUTAZIONE
DELL’EFFICACIA TERRITORIALE DEL PATTO SUI DIRITTI CIVILI E POLITICI E DELLA CONVENZIONE
AMERICANA:
 Il patto sui diritti civili e politici stabilisce che ogni Stato parte deve rispettare i diritti di tutti
gli individui che si trovano all'interno del suo territorio e/o che sono soggetti alla sua
giurisdizione.
Il comitato dei diritti umani ha chiarito che i diritti riconosciuti dal patto devono essere
garantiti a tutti gli individui che sono sottoposti alla giurisdizione di uno Stato parte anche
al di fuori del territorio di quest'ultimo, per il solo fatto che si trovino in suo potere o sotto
il suo effettivo controllo a prescindere da come tale controllo sia acquisito.
La corte internazionale di giustizia ha chiarito che ha la disposizione in esame si interpreta
nel senso di riguardare quegli individui che siano contemporaneamente presenti sul
territorio di uno Stato parte e sottoposti alla sua giurisdizione, e nel senso di riguardare
anche coloro che, pur non trovandosi fisicamente nel territorio di uno Stato parte, siano
comunque sottoposti alla sua giurisdizione.
(Nel caso concreto, la corte respinge la tesi più volte espressa da Israele, secondo la quale il
patto non si applica agli individui residenti nei territori sottoposti alla propria occupazione.)

Secondo l'articolo 1, paragrafo 1, della convenzione americana i diritti previsti si applicano a
ogni persona che è sottoposta alla giurisdizione di uno Stato parte. La Corte Interamericana
dei diritti ha fatto propria la teoria secondo la quale i diritti umani previsti dalla convenzione
americana possono trovare un'applicazione extraterritoriale.
14
9.D riserve
Anche riguardo ai trattati sui diritti umani va tenuta ferma la norma in base alla quale sono
inammissibili le riserve che hanno carattere generale e la norma in base alla quale sono
ugualmente inammissibili le riserve che sono incompatibili con l'oggetto e con lo scopo del
trattato.
Le questioni in tema di riserva sono purtroppo moltiplicate dalla propensione di vari Stati ad
accompagnare la loro partecipazione ai trattati sui diritti umani con un così ampio numero di riserve,
da mettere in dubbio la loro seria volontà di farsi carico degli obblighi da essa derivanti.
Una miniera al riguardo è costituita dalla convenzione sulla eliminazione di qualsiasi forma di
discriminazione nei confronti della donna.
Alcune riserve fatte a disposizioni di questo trattato possono sembrare ammissibili (esempio quella
in tema di successione al trono, per cui hanno priorità gli uomini). Altre sono incompatibili con
l'oggetto e con lo scopo del trattato (La riserva fatta dagli Stati islamici secondo la quale la religione
mussulmana prevale sulle disposizioni della convenzione).
Dall'analisi dei dati della pratica internazionale si può concludere che la principale particolarità
del regime delle riserve sta nel fatto che la apposizione di una riserva inammissibile vincola uno
Stato a partecipare all'intero trattato, ivi compresa la disposizione che la riserva intendeva
escludere. Sono scartate altre due diverse conseguenze in astratto ipotizzabili: la non
partecipazione al trattato dello Stato che ha apposto la riserva inammissibile o la partecipazione
al trattato con esclusione della disposizione oggetto della riserva.
In considerazione dell'oggetto e dello scopo di questo tipo di trattati, si viene così a determinare
un'importante eccezione al principio generale del libero consenso delle parti a vincolarsi al
trattato, dato che lo Stato che presenta la riserva inammissibile risulta vincolato a un trattato
diverso da quello a cui avrebbe voluto vincolarsi.
Al riguardo, in un rapporto del 2006, il Gruppo di lavoro sulle riserve, istituito nell'ambito delle
riunioni dei comitati di tutela dei diritti umani (comitati sorti all’interno delle nazioni unite), ha
evocato una sorta di "presunzione refutabile" che lo stato autore della riserva intenda essere parte
del trattato, pur senza beneficiare della riserva stessa.

Il Comitato sui diritti umani ha preso in considerazione l'ammissibilità di riserva al Patto sui
diritti civili e politici (Il trattato nulla dice in proposito), giungendo alla conclusione che, alla
luce dell'oggetto e dello scopo dei trattati sui diritti umani, sono inammissibili le riserve che
riguardano un'ampia serie di diritti tutelati, oltre che dal patto, anche da norme cogenti del
diritto internazionale generale.
È parimenti inammissibile, secondo il Comitato, una riserva relativa alle disposizioni che
racchiudono il nocciolo duro del Patto (cioè essenzialmente i diritti assoluti ed
inderogabili).
Nello stesso commento (nel quale il Comitato sostenne che i diritti costituenti il nocciolo
duro del Patto sui diritti civili e politici non potevano formare oggetto di riserva), il Comitato
prese posizione circa la questione dell'effetto di una riserva inammissibile.
15
In vista dell'obiettivo della più ampia tutela dei diritti umani, il Comitato ritenne che una
simile riserva dovesse ritenersi come non apposta e che pertanto non pregiudicasse la
piena partecipazione al trattato da parte dello Stato.

Diversamente dal Patto, la Convenzione Europea contiene una disposizione in materia di
riserva (Articolo 57). Essa limita la possibilità di apporre riserve alla sola ipotesi in cui esista
in uno stato una norma di legge in vigore che disponga diversamente da quanto previsto da
una specifica disposizione della convenzione.
Nella sentenza Belilos c. Svizzera, la Corte europea dei diritti umani accertò che una riserva
formulata dalla Svizzera all'articolo 6 (diritto a un equo processo) non era ammissibile perché
aveva carattere generale e perché non era accompagnata da una breve dichiarazione sulle
disposizioni del diritto nazionale relative alla riserva. Dalla invalidità della riserva la Corte
fece derivare la conseguenza che la Svizzera era comunque vincolata alla Convenzione.
Nella sentenza Loizdou c. Turchia, la Corte europea ritenne invalida la riserva apposta dalla
Turchia, la quale stabiliva che la Corte stessa poteva ricevere ricorsi individuali soltanto
riguardo ad azioni od omissioni compiute entro i limiti del territorio turco.
Nonostante la Turchia affermasse che la riserva era così essenziale da condizionare la sua
stessa accettazione della competenza della Corte, quest'ultima ritenne di poter separare la
riserva invalida dal resto della dichiarazione di accettazione.

La Convenzione americana fa, in tema di riserva, completo rinvio al regime della
Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
Come rilevato dalla Corte Interamericana, nel parere del 1982, l'articolo 75 dev'essere letto
nel senso che sono consentite tutte le riserve che siano compatibili con l'oggetto e con lo
scopo del trattato.
Nel parere dell'83, la corte Interamericana stabilì che la riserva fatta dal Guatemala relativa
all’articolo 4, par. 4, della Convenzione, laddove essa vieta la pena di morte per i reati comuni
connessi ai reati politici, non può interpretarsi in modo estensivo come riferita anche
l'articolo 4 par. 2, che vieta la reintroduzione della pena di morte nei paesi dove essa era
stata precedentemente abolita.
In una ulteriore sentenza la Corte Interamericana ritenne in contrasto con l'oggetto e con lo
scopo della Convenzione una riserva che restringeva l'accettazione della competenza della
Corte solo quando "compatibile con le sezioni pertinenti della Costituzione". Simile riserva
aveva carattere generale e subordinava l'applicazione della funzione contenziosa della Corte
al diritto interno di uno Stato parte che pretendeva di attribuirsi un potere discrezionale nel
decidere in quali casi la Corte avrebbe esercitato la sua competenza.
10. Diritti umani e diritto internazionale generale
L'imponente fenomeno della moltiplicazione dei trattati che tutelano in vario modo I diritti umani e
altre concordanti manifestazioni della pratica internazionale portano a concludere che diverse
norme sui diritti umani hanno acquisito anche il carattere di norme generali di diritto internazionale,
obbligatorie per tutti gli Stati, a prescindere dalla partecipazione al trattato.
16
Non è possibile fare un elenco di tale norme. È certo però che hanno acquisito natura generale le
norme che tutelano quel nucleo fondamentale di diritti che sono visti dagli Stati come inderogabili.
Ad esempio, il tribunale penale internazionale (caso Furundzja) ha stabilito che le norme che vietano
la tortura hanno acquisito la natura di norme di diritto internazionale generale.
Una questione complessa si pone quando si presenta un conflitto tra norme del diritto
internazionale generale che non riguardano i diritti umani e norme di diritto interno o anche di
trattati internazionali che riguardano i diritti umani.
Un simile conflitto si verifica in concreto con la norma che prevede l'immunità dalla giurisdizione
civile di uno Stato estero o l'immunità di alcuni agenti dello Stato dalla giurisdizione civile o
penale.
La Corte internazionale di giustizia non ha esitato a dare prevalenza alle norme sull'immunità degli
Stati e degli agenti di Stato.
Nella sentenza resa per il caso Immunità giurisdizionale dello Stato (caso GERMANIA C. ITALIA), la
Corte internazionale di giustizia ha affrontato la questione dell'immunità di uno Stato nei confronti
di domande di risarcimento dei danni presentate di fronte a organi giudiziari italiani da parte di
vittime di crimini di guerra. La Corte concluse che l'Italia aveva violato l'obbligo di rispettare
l'immunità dello Stato a seguito di alcune sentenze italiane che avevano condannato la Germania a
risarcire i danni subiti.
La Corte respinse gli argomenti dell'Italia basati sul fatto che le norme sull'immunità giurisdizionale
dello Stato non potevano applicarsi in presenza di crimini di guerra che violavano norme imperative
di diritto internazionale generale.
La Corte pur rendendosi conto che l'immunità dello Stato avrebbe lasciato le vittima senza alcun
rimedio giurisdizionale, si limitò ad auspicare in proposito futuri negoziati tra gli Stati coinvolti.
Stupisce l'estremo formalismo del ragionamento della corte, che non vede come le norme sulla
tutela dei diritti umani fondamentali e quindi le norme che vietano in modo imperativo crimini che
ledono tali diritti, sarebbero prive di efficacia, se non si attribuisse alla presunta vittima il diritto di
agire in giudizio per far direttamente valere le proprie ragioni.
Sulla stessa linea della corte internazionale di giustizia e si era purtroppo in precedenza attestata la
corte europea dei diritti umani nella sentenza del 2001, sul caso al-adsani c. Regno unito, relativo a
un procedimento promosso di fronte ai giudici britannici da un cittadino del Kuwait contro il Kuwait,
per il risarcimento del danno subito a seguito di torture in questo ultimo stato.
La corte ritenne che la norma di diritto internazionale sull'immunità degli Stati esteri dalla
giurisdizione civile prevalesse sull'articolo sei, paragrafo uno, della convenzione europea, in base
al quale chiunque ha diritto a un processo equo di fronte a un tribunale indipendente e imparziale.
Anche in questo caso va ribadito che il diritto dello Stato estero o degli agenti di uno Stato estero
all'immunità non può prevalere sul diritto dell'individuo ad avere un giudice, nei casi in cui egli
sostenga di essere vittima di una violazione di norme sui diritti umani aventi valore imperativo.
L'atteggiamento di scarsa sensibilità mostrato a questo riguardo da due organi giudiziari
internazionali, richiede di venire riveduto.
Va anche considerato che la norma generale sull'immunità non ha carattere assoluto, essa
ammette eccezioni, che consentono l'esercizio della giurisdizione (ad esempio per gli atti iure
gestionis).
17
Nella giusta direzione si sono mosse alcune corti nazionali che hanno negato l'immunità degli Stati
in casi in cui si discuteva di violazioni di norme imperative sui diritti umani.
Esempio: Caso ferrini c. Germania, ove la corte di cassazione ha stabilito che il rispetto dei diritti
inviolabili della persona ha assunto il ruolo di principio fondamentale anche nell'ordinamento
internazionale.
Nella sentenza sul caso A. c. Pubblico Ministero della confederazione, il tribunale penale federale
svizzero ha affermato la giurisdizione Svizzera nei confronti di un ex ministro della difesa algerino
imputato per crimini di guerra.
Le sentenze nazionali da ultimo richiamate costituiscono esempi di un'evoluzione progressiva dei
diritto internazionale in una direzione imposta da considerazioni elementari di logica e di giustizia.
Purtroppo esse sono state contraddette dalle sentenze della corte internazionale di giustizia.
11. Il doppio livello di protezione dei diritti umani
11. A. Aspetti sostanziali
Grazie alla progressiva affermazione della materia di diritti umani sul piano internazionale, accade
di frequente che norme relative allo stesso diritto si trovino, sia nei diritti nazionali, sia in trattati
internazionali.
In queste occasioni si crea un doppio livello di protezione di molti diritti umani.
Il rapporto tra norme relative allo stesso diritto umano operanti in sistemi giuridici diversi deve
essere letto sulla base dell'obiettivo tipico delle norme relative ai diritti umani: proteggere la
parte più debole (l'individuo) nei confronti della parte più forte (lo Stato).
E quindi deve prevalere la norma che meglio protegge i diritti spettanti all'individuo.
Di norma, almeno negli stati ispirati a principi democratici, accade che il livello di protezione
garantito dalle norme interne è più elevato del livello di protezione garantito dalle norme
internazionali.
Ma non è detto che questo si verifichi sempre.
Si pensi ad esempio al tema della durata dei processi: il diritto italiano presenta gravi lacune, invece
la convenzione europea fa riferimento al concetto della "durata ragionevole".
Questo ha consentito alla corte europea dei diritti umani di sviluppare una consistente
giurisprudenza in tema di ragionevole durata del processo basata sui criteri della complessità del
procedimento, della condotta del ricorrente e della condotta dell'autorità giudiziaria.
L'esistenza di un doppio livello di protezione, quello interno e quello internazionale, assicura una
tutela più effettiva dei diritti umani (questo risultato può però essere conseguito soltanto se i giudici
nazionali siano disposti ad abbandonare quell’atteggiamento che li porta a trascurare l'applicazione
dei trattati in vigore per il loro stato e se essi non esitino ad utilizzare anche la possibilità offerta
dalle norme di diritto internazionale).
In numerosi trattati è contenuta una clausola che fa salvo il livello di protezione maggiore previsto
dalle norme interne.
11. B. Aspetti procedurali (previo esaurimento delle vie di ricorso interne)
18
Se, sul piano sostanziale, vale il criterio della migliore protezione, sul piano procedurale, per quanto
riguarda il rapporto tra gli strumenti procedurali del diritto interno e quelli del diritto
internazionale, si applica invece la condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne:
un caso può essere portato di fronte ad un'istanza internazionale soltanto dopo che l'individuo
interessato abbia esaurito gli strumenti giudiziari che il diritto nazionale gli offre per porre rimedio
alla violazione che egli ritenga di avere subito.
La condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne deve essere letta con flessibilità
e senza eccessivi formalismi.
Nel valutare l'esistenza di vie di ricorso, occorre tener conto della situazione particolare del
ricorrente. Bisogna tener conto del contesto specifico in cui gli organi giudiziari nazionali si trovano
ad operare, non potendosi addebitare all'individuo il mancato esperimento dei ricorsi, in situazioni
in cui gli organi giudiziari nazionali non sono notoriamente in grado di funzionare con le dovute
garanzie di indipendenza, imparzialità e speditezza.
La convenzione americana ha cura di precisare che la condizione del previo esaurimento delle vie
di ricorso interne non si applica se il diritto interno non fornisce adeguate garanzie di correttezza,
accessibilità e durata.
Sia il protocollo facoltativo al patto sui diritti civili e politici, sia la carta africana specificano che la
condizione del previo esaurimento delle vie di ricorso interne non si applica qualora tale procedura
sia irragionevolmente prolungata.
12. Diritti umani e diritto italiano
Le norme di diritto internazionale relative alla protezione dei diritti umani devono essere applicate
negli ordinamenti di diritto interno, come quello italiano.
L'adattamento del diritto italiano a tali norme avviene:
 In modo automatico, in forza dell'articolo 10 della Costituzione, se esse sono norme di
diritto internazionale generale;
 oppure in forza di apposita procedura di adattamento, se esse sono norme contenute in
trattati, di cui l'Italia è parte.
12. A. Questioni formali
Complesse questioni formali si pongono riguardo all'adattamento del diritto italiano ai trattati sui
diritti umani.
Ci si chiede quale sia il rapporto tra le norme di tali trattati e le norme di diritto interno.
Talvolta, il conflitto tra norme di diritto interno e norme di trattati sui diritti umani è soltanto
apparente e può essere risolto in via interpretativa.
Per i casi in cui il conflitto rimane insanabile, in via interpretativa, deve essere considerato il fatto
che le norme della convenzione europea e del patto sui diritti civili e politici, pur essendo tali trattati
recepiti attraverso legge, non sono modificabili da una legge ordinaria.
Le norme del trattato mantengono infatti la loro natura originaria e gli obblighi, che esse pongono,
si estinguono solo a seguito del verificarsi di una causa di estinzione del trattato, prevista dal diritto
internazionale.
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Questa "forza di resistenza speciale" dei trattati, è ora riconosciuta dall'articolo 117 della
costituzione, il quale stabilisce che: la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel
rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali.
Alle norme dei trattati è riconosciuta ora il rango di norma interposta (rango intermedio tra la
Costituzione e la legge).
Le norme della convenzione europea non assumono il rango di norme costituzionali, poiché
l'ordinamento interno non può essere modificato da fonti esterne.
La corte costituzionale ha evidenziato che:
 se vi è un conflitto insanabile tra una norma della convenzione europea ed una norma
successiva interna, il giudice non può direttamente disapplicare la norma interna, ma deve
sollevare di fronte alla corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale.
 Le norme della convenzione europea devono essere interpretate secondo il significato ad
esse dato nelle sentenze della corte europea dei diritti umani.
Nelle sentenze 348 e 349 del 2007, la corte costituzionale italiana ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale delle norme del diritto italiano che prevedevano, nel caso di espropriazione, il diritto
dell’espropriato ad un'indennità oscillante nella pratica tra il 50% ed il 30% del valore di mercato di
un bene espropriato, a causa della loro non conformità al “criterio dell'indennizzo avente un
ragionevole legame con il valore del bene”, prescritto dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti umani.
Le conclusioni generali cui è giunta la corte costituzionale circa il rapporto tra trattati sui diritti umani
e diritto interno sollevano perplessità.
 È criticabile l'orientamento della corte costituzionale, secondo il quale, nell'ipotesi di
conflitto tra norma interna e norma convenzionale, debba essere esperito giudizio di
legittimità costituzionale.
 Non è criticabile invece l'affermazione secondo la quale restano ferme (e non cedano
direttamente dinanzi le norme della CEDU o le norme di altri trattati in materia di diritti
umani) le norme dell'ordinamento costituzionale italiano, poiché potrebbe accadere che
queste prevedano una tutela maggiore dei diritti umani, rispetto a quanto fanno i trattati
internazionali.
 Appare criticabile, inoltre, la scelta di attribuire sempre al diritto dell'unione europea totale
primato sul diritto interno e di non attribuire mai tale primato ai trattati internazionali in
materia di diritti umani. In tal modo, la corte costituzionale ha trascurato che è difficile
accettare che le norme fondamentali sui diritti umani valgano meno di una qualsiasi norma
comunitaria.
 Il ragionamento seguito dalla Corte costituzionale in materia di rapporto tra diritto interno
e norme internazionali in materia di diritti umani appare criticabile sotto un altro punto di
vista: la corte costituzionale ha ancorato i trattati comunitari all'art. 11 della costituzione,
prevedendo che tale disposizione non possa trovare applicazione per i trattati in materia
di diritti umani. Tale ragionamento appare fallace nella misura in cui si considera che l'art
11 Cost. è stato scritto in un funzione della carta delle nazioni unite.
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Alcune sentenze dei giudici ordinari italiani, memorabili per la loro portata innovativa, hanno
affermato la possibilità del giudice di applicare direttamente le norme in materia di diritti umani
(contraddicendo quindi al volere della Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale ogni
qual volta una norma interna si ponga in contrasto con una norma in materia di diritti umani ed il
contrasto sia insanabile a livello interpretativo).
Si pensi ad esempio alla sentenza resa dal tribunale di Roma nel 1984: il giudice applica direttamente
l'articolo cinque della convenzione europea, in base al quale chiunque sia stato vittima di un arresto
o di una detenzione in violazione articolo cinque stesso può far valere il suo diritto a un risarcimento.
Si pensi ancora alla decisione della corte di cassazione numero 32.678 del 2006 nella quale il giudice
di legittimità italiano ha disposto per un condannato la restituzione nel termine per proporre appello
contro una sentenza penale passata in giudicato, resa in contumacia in violazione di quanto disposto
dall'articolo sei della convenzione.
12. B. Questioni sostanziali
Le norme dei trattati sui diritti umani di cui l'Italia è parte, devono essere obbligatoriamente
osservate dagli organi esecutivi e giudiziari.
Esistono esempi nei quali le disposizioni della convenzione sono state mal interpretate e quindi male
applicate dai giudici italiani.
 Si pensi all'ordinanza della corte di cassazione 5 giugno 2002, numero 8157, nella quale è
stata dichiarata la carenza di giurisdizione dei giudici italiani circa la domanda di
risarcimento dei danni da parte delle vittime di un bombardamento condotto nel 1999 in
Jugoslavia dalle forze aeree degli Stati membri della Nato. La corte ha ritenuto che le
norme della convenzione fossero applicabili soltanto nei rapporti tra gli Stati e che le
modalità di conduzione delle ostilità rientrassero in una funzione politica Che nessun giudice
poteva sindacare.
 Molto criticabile è la tendenza a non applicare le norme dei trattati sui diritti umani perché
si ritiene che esse abbiano natura programmatica e non immediatamente percettiva, in
quanto lontane dal modello di un atto interno, completo nei suoi elementi essenziali.
Come se coloro che redigono un trattato internazionale dovessero avere in mente i modelli
degli atti interni italiani, completi dei loro elementi essenziali.
 Anche la corte costituzionale ha mal interpretato le disposizioni della convenzione.
Sent n 62 del 1992: la corte costituzionale ha constatato che il patto internazionale sui diritti
civili e politici non era stato ancora ratificato da un numero sufficiente di Stati per renderlo
operante come trattato multilaterale. In realtà, il patto era già entrato in vigore.
SENT n. 106 del 2009: il caso riguardava l’acquisizione di documenti e testimonianze nel
corso di un procedimento penale per sequestro di persona, pendente di fronte il Tribunale
di Milano, e coinvolgeva un gruppo di agenti dei servizi segreti italiani e americani.
La Corte costituzionale è arrivata alla conclusione che il segreto di Stato, che pure non
riguarda il reato di sequestro in sé accertabile dall’autorità giudiziaria competente nei modi
ordinari, copre i rapporti tra servizi segreti italiani e stranieri e gli assetti organizzativi del
SISMI (servizio per le info e la sicurezza nazionale), con particolare riferimento alle direttive
e agli ordini che sarebbero stati impartiti dal suo direttore agli appartenenti al medesimo
21

organismo, pur se tali rapporti, direttive e ordini siano in qualche modo collegati al fatto del
reato stesso.
La corte ha così legato inscindibilmente il segreto di Stato al concetto di sicurezza dello Stato,
qualificando quest'ultimo come interesse preminente su ogni altro in tutti gli ordinamenti
statali.
Appare però ben difficilmente accettabile il fatto che, secondo la corte, il segreto di Stato,
che non è menzionato in alcun articolo della costituzione, prevalga incondizionatamente
sul principio della tutela giurisdizionale.
Per di più, la corte non ha dedicato alcune effettiva considerazione relativa all'importanza
dei diritti umani che I fatti in discussione di fronte al tribunale di Milano coinvolgevano.
In realtà, nel procedimento di fronte al tribunale di Milano, nei confronti di un gruppo di
agenti dei servizi segreti italiani e americani, non si discuteva soltanto del reato di sequestro
di persona pluriaggravato a danno del cittadino egiziano Abu Omar, rifugiato politico in Italia.
Si discuteva di qualcosa di ben più sinistro, cioè di una delle più disgustose violazioni dei
diritti umani: la sparizione forzata a fini di tortura, attuata nella forma di una consegna
straordinaria.
Suscita un istintivo senso di ribellione scoprire che la costituzione italiana consenta al
segreto di Stato di coprire anche le più disgustose violazioni di diritti umani.
Resta quindi molto memorabile, ma purtroppo in una ben agghiacciante direzione, l'implicito
sostegno dato dalla corte costituzionale italiana all'eventualità che chiunque in Italia possa
impunemente sparire per essere torturato all'estero, purché tutto questo avvenga a
seguito di un accordo (segreto) tra servizi italiani e servizi stranieri.
Tale amara constatazione è soltanto attenuata ma non eliminata dal meritorio sforzo
compiuto alla successiva sentenza della corte di cassazione del 19 settembre 2012, numero
46.340, che, decidendo in terzo grado sul medesimo procedimento, ha fornito
un'interpretazione restrittiva di quanto deducibile dalla più volte richiamata sentenza della
corte costituzionale numero 106 del 2009.
La corte di cassazione ha ritenuto che la sentenza della corte costituzionale in questione non
avesse fatto calare un sipario nero su tutto il materiale probatorio a carico degli agenti del
sismi, restando sindacabile dal potere giudiziario l'operato dei singoli agenti.
La corte di cassazione ha anche ritenuto, richiamando la pertinente giurisprudenza della
corte europea dei diritti umani, che non possono essere motivo di tardiva tutela nel processo
gli atti, i fatti e le notizie coperte da segreto di Stato che siano stati già divulgati sul larga
scala.
Per quanto riguarda gli organi del potere legislativo, un esempio di prolungato
inadempimento, da parte dell'Italia, degli obblighi internazionali assunti mediante la
partecipazione a un trattato, concerne la mancata previsione del diritto penale italiano del
reato di tortura.
L'articolo 4 della convenzione internazionale contro la tortura e altri trattamenti appena
inumani o degradanti obbliga gli Stati parte a codificare gli atti di tortura come autonomo
reato nel proprio diritto penale e a sanzionarli con pene adeguate.
L'Italia, benché la convenzione sia entrata in vigore il 12 febbraio 1989, non ha ancora
inserito il reato di tortura nel proprio codice penale.
22

Nonostante la violazione di tale preciso obbligo internazionale sia stata ripetutamente
rilevata da parte di organismi internazionali che si occupano di diritti umani, l'Italia continua
giustificarsi sostenendo che sono sufficienti le fattispecie di reato già inserite nel codice
penale.
Nel 2010, l'Italia è stata sottoposta all'esame periodico in materia di diritti umani nel
contesto del consiglio dei diritti umani e, che pure ha constatato che, in materia di tortura,
l'Italia continua a disattendere i propri obblighi internazionali.
Ancora più evidenti sono le numerosissime violazioni compiute dall'Italia circa il diritto alla
durata ragionevole del processo (art. 6 CEDU).
Una massa di violazioni (del diritto ad una durata ragionevole del processo, che è avvenuta
in ragione di procedimenti giudiziari lunghissimi), come quella che si è registrata in Italia,
richiedeva adeguati interventi di tipo legislativo diretti a meglio organizzare la funzione
giudiziaria e non poteva di certo essere eliminata soltanto dall'adozione di una normativa
che si limitava a disporre un'equa riparazione monetaria nell’ipotesi di processo di durata
non ragionevole.
Come era da attendersi viste le premesse, la corte europea dei diritti umani ha avuto modo
di accertare che l'Italia si era resa responsabile di violazioni dell'articolo sei della
convenzione, a causa:
- in primis della durata irragionevole dei processi
- in secundis dei ritardi irragionevoli nel pagamento dell'equa riparazione, per la durata
irragionevole dei procedimenti.
13. Diritti umani e diritto dell'Unione Europea
Una situazione particolare si è venuta a creare per quanto concerne la tutela dei diritti umani sul
piano dell'Unione Europea.
La Organizzazione internazionale che storicamente si è occupata dei diritti umani sul piano europeo
è il consiglio di Europa, istituito con uno statuto adottato a Londra nel 1949.
Tutt'altra organizzazione è l'Unione Europea, creata con un trattato concluso a Roma nel 1957.
Nella sua versione originaria, il trattato istitutivo della comunità economica europea non
comprendeva la tutela dei diritti umani.
È stata la corte di giustizia della comunità europea che ha affermato che la protezione dei diritti
umani è uno degli scopi della comunità.
La corte ha annoverato la materia dei diritti umani tra i principi generali del diritto che trovano la
propria origine nelle tradizioni costituzionali degli stati membri e nei trattati sui diritti umani da essi
ratificati, con particolare riferimento alla convenzione europea dei diritti umani.
Con questo, la corte intendeva colmare una lacuna al fine di evitare che l'attribuzione di
competenza in una determinata materia alla comunità europea avesse anche l'effetto di sottrarre
tale materia agli strumenti di controllo in tema di tutela dei diritti umani, non potendo la comunità
europea in quanto tale essere vincolata dalla convenzione europea dei diritti umani.
Dopo alcuni strumenti di natura non vincolante, tra i quali la dichiarazione dei diritti e delle libertà
fondamentali, approvata il 12 aprile 1989 dal parlamento europeo, una svolta nella direzione
segnata dalla corte si ebbe con alcune disposizioni inserite nel trattato dell'Unione europea.
23
La tutela dei diritti umani è diventata un aspetto fondamentale nelle relazioni esterne dell'unione,
come dimostrano tra l'altro, il fatto che, in base all'articolo 49 del trattato sull'Unione Europea, solo
gli stati europei che rispettano i principi sanciti nell'articolo 2 possono domandare di diventare
membri dell'Unione Europea.
Considerazioni complesse vanno svolte riguardo il contenuto dei diritti tutelati all'ambito
dell'unione.
La carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata, a Nizza, il 7 dicembre 2000 da
tre istituzioni comunitarie (parlamento europeo, consiglio e commissione) se da un lato ribadisce
molti diritti e libertà già contenuti nella convenzione europea dei diritti umani, dall'altro elenca
ulteriori diritti tra cui il divieto di clonazione riproduttiva, il diritto dei disabili all'inserimento
eccetera…
Il trattato di Lisbona ha attribuito alla Carta di Nizza valore vincolante e ha previsto l'adesione
dell'Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti umani.
Complessi negoziati, diretti anche ad evitare sovrapposizione di competenze tra organi giudiziari
diversi (CGUE E CORTE EDU) e il conseguente rischio di giudicati in contrasto tra loro, sono oggi in
corso per determinare le modalità dell'adesione dell'Unione Europea alla convenzione europea
dei diritti umani.
Con l'inserimento della materia di diritti umani all'interno del diritto dell'unione viene istituita una
sorta di terzo livello di protezione dei diritti umani.
Va al riguardo precisato che la carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea non contiene
disposizioni che riguardano direttamente gli Stati. Esse si applicano alle istituzioni e agli organismi
dell'unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente
nella attuazione del diritto dell'unione.
Alcuni dei diritti previsti dalla Carta di NIZZA potrebbero essere effettivamente violati da parte di
alcuni organi dell'unione europea: il diritto all'equo processo di fronte agli organi giudiziari
dell'unione.
Altri diritti sembrano ben difficilmente violabili da tali organi. Si pensi ad esempio al diritto
dell'individuo a non essere sottoposto a tortura, né a pene inumane o degradanti.
Ciononostante, tutte le norme della carta costituiscono parametri per valutare la legittimità degli
atti adottati dall'Unione e possono rivelarsi utili strumenti per promuovere ulteriori azioni volte a
una migliore tutela dei diritti umani.
Si pensi ad esempio al regolamento 2005 relativo al commercio di determinate merci che
potrebbero essere utilizzate per l'esecuzione di condanne a morte.
Resta il fatto che nelle ipotesi di duplicazione o triplicazione di diritti umani tutelati vale il criterio
della migliore tutela dei diritti dell'individuo, riconosciuto anche nella carta dei diritti fondamentali.
Sul piano concreto, l'inserimento della materia dei diritti umani potrà dare luogo ad esiti che, per
evidenti ragioni cronologiche, non si è grado di valutare.
Significativa è la sentenza della Corte di giustizia dell'unione nel caso Kadi c. Consiglio con la quale
la corte ha annullato il regolamento che impone specifiche misure restrittive nei confronti di
persone ed entità associate a reti terroristiche.
La corte ha concluso che il regolamento in questione si basava su un procedimento nel quale non
erano rispettati i diritti di difesa dei ricorrenti, in violazione del principio della tutela
giurisdizionale effettiva.
24
14. MECCANISMI PROCEDURALI DI TUTELA DEI DIRITTI UMANI
In materia di tutela internazionale dei diritti umani, un peso fondamentale assumono gli strumenti
utilizzabili dagli individui per ricorrere contro le violazioni da parte di uno Stato dei diritti loro
attribuiti.
Tali strumenti assumono il nome di meccanismi procedurali.
Gli stati abituati a violare i diritti umani sanno bene che non è irreparabile vincolarsi sul piano
internazionale a rispettare i numerosi diritti, ma che sarebbe invece un grave errore, sempre dal
loro punto di vista, accettare che organismi internazionali imparziali e dotati di poteri sanzionatori
possano sindacare come si comportano in concreto.
È importante che un trattato istituisca organi internazionali di controllo sull'adempimento degli
obblighi da parte degli Stati. È importante altresì che tali organi abbiano natura giudiziaria, siano
composti da soggetti che assicurano indipendenza ed imparzialità.
È necessario che il diritto di ricorso sia attribuito non solo agli Stati parte, ma anche agli individui.
Un individuo infatti è molto più sollecito a sollevare un caso che lo riguarda di quanto lo siano gli
Stati.
Nel sistema europeo, ad esempio i ricorsi di fronte alla corte europea da parte di uno Stato contro
un altro Stato, si sono limitati a tre in cinquant'anni.
In determinati ambiti regionali, vale a dire entro cerchie ridotte di Stati affini, si può realizzare una
protezione dei diritti umani più soddisfacente sotto il profilo procedurale, di quella che si può
conseguire su scala mondiale.
Questo in ragione del fatto che, nel mondo, esistono una serie di stati che sono meno propensi ad
una concreta salvaguardia dei diritti umani.
La convenzione europea ha dato un forte impulso alla tutela dei diritti umani grazie ai suoi
meccanismi procedurali. Quando si accerta la violazione di un diritto previsto dalla convenzione, lo
stato responsabile è tenuto a prestare un'equa soddisfazione all'individuo leso.
Al contrario, il sistema di tutela dei diritti umani operante sul piano mondiale non è stato finora in
grado di incidere sugli Stati con la stessa intensità.
Si prendano ad esempio i patti delle Nazioni Unite: in entrambi manca un organo giudiziario e
manca la possibilità che un giudice internazionale accerti violazioni e condanni uno stato.
Anche dove vi sia stata l'accettazione di una giurisdizione, spesso gli Stati si appigliano ad eccezioni
procedurali e di merito del tutto pretestuose, pur di evitare un accertamento sul modo in cui essi
rispettano gli obblighi assunti con i trattati.
Esemplare è in proposito il comportamento dell'Italia di fronte la corte europea, nel caso Artico
contro Italia, relativo al diritto di gratuito patrocinio degli imputati non abbienti. L'Italia, pur
mettendo in dubbio l'attendibilità dei documenti prodotti dal ricorrente, che aveva subito numerose
condanne per delitti contro la fede pubblica, sostenne che non era in grado di reperire, come invece
le era richiesto dalla corte, i documenti conservati nei fascicoli a lui intestati e depositati in vari uffici
giudiziari italiani.
L'Italia impuntò ad Artico che, pure ammesso al gratuito patrocinio, era stato condannato con
sentenza definitiva della corte di cassazione, senza aver potuto beneficiare di una difesa effettiva
da parte di un avvocato, di non aver sollevato l'eccezione di prescrizione dei reati che lo
riguardavano, ma dall'altro lato giustificò con un latinismo (errare humanum est) i giudici della
25
corte di cassazione, che avrebbero dovuto d' ufficio accertare la prescrizione e che, dimostrando
Ben scarsa professionalità, non lo avevano invece fatto.
Il caso Artico è emblematico perché dimostra come uno Stato possa talora abbassarsi ad
argomentazioni invereconde.
Esso è anche significativo perché emette luce come uno Stato dovrebbe ben diversamente
intendere il senso del sindacato giurisdizionale operato da un giudice internazionale investito
della tutela dei diritti umani.
La tutela dei diritti umani costituisce uno dei fini primari dello Stato. Invece che perdere la faccia
con argomenti cavillosi lo Stato dovrebbe qualificarsi come il primo interessato a conoscere se vi
è effettivamente una violazione.
Una causa sottoposta ad un giudice internazionale deve considerarsi come il luogo nel quale lo
Stato dimostra la propria credibilità ed il proprio prestigio: uno Stato che ammette di aver violato
un diritto umano potrebbe risultare soccombente nel caso, ma vincitore sul piano internazionale.
Si possono segnalare alcuni casi di Stati che effettivamente hanno riconosciuto la violazione.
Ad esempio, nel caso Irlanda contro regno unito, il Regno Unito ammise apertamente la violazione
dell'articolo tre della convenzione.
15. Meccanismi giudiziari
Vengono esaminati di seguito gli strumenti procedurali di natura giudiziaria oggi disponibili per la
tutela dei diritti umani
15. A. La corte europea dei diritti umani
Gli strumenti procedurali tutela dei diritti umani previsti dalla convenzione originariamente sono
stati radicalmente modificati dal protocollo numero 11.
Tra le più significative innovazioni devono essere segnalate: l'abolizione del sistema binario con la
soppressione della commissione europea dei diritti umani e la concentrazione di tutte le funzioni
giurisdizionali nella sua la corte europea dei diritti umani, l'accettazione automatica degli Stati
parte sia della giurisdizione della corte europea, sia del diritto di ricorso individuale (che in
precedenza era subordinata ad apposite dichiarazioni facoltativa da parte degli Stati), la
instaurazione di una procedura eccezionale di appello delle sentenze della corte.
Una seconda importante modifica al funzionamento della Corte, al fine di rafforzarne l'efficacia in
conseguenza del continuo aumento del carico di lavoro, è stata portata dal protocollo numero 14.
La corte europea dei diritti umani ha sede a Strasburgo ed è costituita da un numero di giudici pari
a quello degli Stati parte della convenzione europea dei diritti umani.
I giudici vengono eletti dall'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa in una lista di tre
candidati designati da ciascuno degli Stati parte.
Essi restano in carica per nove anni, non sono rieleggibili e svolgono la loro funzione a tempo pieno.
Il limite di età dei giudici è di settant'anni. Essi siedono a titolo individuale e non rappresentano gli
Stati di appartenenza.
La corte è affiancata da una cancelleria e da giuristi denominati referendari che assistono i giudici
nello studio dei casi.
La corte può ricevere ricorsi interstatali e individuali.
26
Con i primi, uno Stato parte chiede che la corte di decidere su di una presunta violazione, ad opera
di un altro Stato parte, di una disposizione della convenzione o di un protocollo.
Con i secondi, un individuo, un'organizzazione non governativa o un gruppo di individui chiede
che la corte decida sull'esistenza di una violazione, ad opera di uno Stato parte, di un diritto
riconosciuto dalla convenzione o da un protocollo, di cui il ricorrente sia stata vittima.
A pena di inammissibilità, è necessario che le vie di ricorso interne siano previamente esaurite e
che il ricorso sia stato presentato alla Corte entro sei mesi dalla data in cui la decisione interna
finale è stata notificata alla parte interessata.
Nel caso di ricorsi individuali è inoltre richiesto che:
- Il ricorso non sia anonimo,
- Non riguardi sostanzialmente una questione già sottoposta alla corte o un altro
meccanismo internazionale giudiziario o di inchiesta,
- Non sia manifestamente infondato
- Non costituisca un abuso del diritto a ricorrere.
Oltre a quelle elencate, il protocollo numero 14 ha introdotto una ulteriore causa di inammissibilità
del ricorso: il ricorrente deve aver subito un pregiudizio significativo.
Questo criterio di ammissibilità, basato sul principio de minimis non curat praetor, appare
discutibile.
Esso è stato elaborato nell'intento di ridurre il carico di lavoro della Corte, ma in realtà aggrava la
posizione del ricorrente.
Contraddice il principio generale in base al quale il giudice, purché il ricorrente dimostri il suo
interesse ad agire, è obbligato a prendere una decisione sul caso che gli è sottoposto,
indipendentemente dal valore della domanda.
I redattori del protocollo numero 14 hanno introdotto, però, due eccezioni: la corte deve comunque
ammettere il ricorso:
- se valuta che un esame di merito sia richiesto per assicurare il rispetto dei diritti umani,
garantiti dalla convenzione
- se valuta che la dichiarazione di inammissibilità comporti la reiezione di un ricorso che
non sia stato debitamente esaminato da un tribunale nazionale
Dato il suo carattere assai vago, la prima eccezione non contribuisce ad eliminare la confusione.
Visto il carattere confuso del nuovo criterio di ammissibilità dei ricorsi l'articolo 20, par. 2, del
protocollo numero 14 prevedeva che per i primi due anni dall'entrata in vigore, solo camere
giudicanti di sette giudici o la Grande Camera potessero applicare il nuovo criterio di ammissibilità,
in modo da elaborare una giurisprudenza interpretativa in merito.
Questo periodo si concluse il 31 maggio 2012.
La prima applicazione del nuovo criterio è avvenuta con la decisione sul caso Adrian Miahi Ionescu
c. Romania.
Una camera della corte ha dichiarato in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondato
un ricorso per un'asserita violazione dell'articolo 6, par.1 (diritto ad un equo processo) e dell'articolo
13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione, derivante da un procedimento giurisdizionale
riguardante una controversia del valore di € 90.
La corte ha valutato l'ammontare della somma e ha dichiarato inammissibile il ricorso.
La corte ha ribadito che il valore economico della violazione è rilevante per valutare la natura e la
gravità del danno sofferto. Però, tale valore non è fondamentale.
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La corte europea, nel caso Giusti contro Italia, ha chiarito che al fine di giustificare l'esame del caso
da parte di un tribunale internazionale, si deve tenere conto:
i) della natura del diritto che si asserisce violato,
ii) della gravità della violazione invocata
iii) delle potenziali conseguenze di tale violazione sulla situazione personale del
ricorrente.
Il giudice unico può dichiarare inammissibile o decidere di cancellare dal ruolo, con decisione
definitiva, un ricorso individuale.
Questa possibilità solleva non poche perplessità: la mancanza di collegialità nella decisione
determina una discutibile restrizione delle garanzie procedurali del ricorrente e può favorire una
certa arbitrarietà.
Se non lo dichiarano ammissibile, o non lo cancella dal ruolo, il giudice unico trasmette il ricorso
a un comitato o ad una camera per l'esame nel merito.
Un comitato può, all'unanimità, dichiarare inammissibile un ricorso individuale. Il comitato può
inoltre pronunciarsi sull'ammissibilità e anche sul merito dei ricorsi relativi a materie per le quali la
corte ha già stabilito una pratica giurisprudenziale consolidata.
Una camera decide sull'ammissibilità del ricorso individuale (se esso non sia già stato dichiarato
inammissibile dal giudice unico) e sul merito, come pure sull'ammissibilità e sul merito di ricorso
interstatale.
Sei un caso coinvolge una importante questione relativa all'interpretazione della convenzione o di
un protocollo ovvero se la soluzione di un caso può risultare incompatibile con una sentenza
precedentemente emessa dalla corte, la camera può devolvere il caso alla grande camera, a meno
che una delle parti del caso non si opponga.
Se il ricorso è ammissibile, la corte esamina il caso insieme ai rappresentanti delle parti, cioè il
ricorrente e lo Stato, che nel procedimento sono posti su di una posizione di uguaglianza.
La corte può svolgere un'indagine sui fatti, per la quale gli Stati interessati devono fornire tutte le
necessarie agevolazioni.
Essa si mette anche a disposizione delle parti per raggiungere, in qualunque fase del
procedimento, una composizione amichevole della questione, nel rispetto dei diritti umani
enunciati dalla convenzione e dai protocolli. Qualora le parti raggiungono un tale accordo, la corte
adotta una decisione nella quale descrive brevemente i fatti e indica che è stata raggiunta una
soluzione amichevole. La decisione è trasmessa comitato dei ministri che vigila sulla sua
esecuzione.
Il procedimento di fronte alla corte si svolge quasi interamente per iscritto, a meno che, per il
particolare interesse o la complessità di un caso, la corte non ritenga opportuna la convocazione
delle parti in udienza pubblica.
Se il presidente della corte non dispone altrimenti, i documenti depositati in cancelleria sono
accessibili al pubblico.
Durante la procedura, la corte ha il potere di indicare delle misure provvisorie, volte a garantire il
corretto svolgimento del procedimento od a evitare al ricorrente un danno grave e irreparabile,
in particolare alla vita o all'integrità fisica.
La corte accerta con sentenza se vi è stata violazione della convenzione o di un protocollo. Se
violazione vi è stata, la corte accorda, se necessario, una giusta soddisfazione alla parte lesa.
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Entro tre mesi dalla data della sentenza di una camera, una parte può chiedere, eccezionalmente,
che il caso sia riferito alla grande camera.
Un comitato di cinque giudici della grande camera esamina la richiesta e la accoglie, se il caso
coinvolge un’importante questione sull'interpretazione o l'applicazione della convenzione o i suoi
protocolli oppure un'importante questione di rilievo generale.
Se la richiesta è accolta, la grande camera decide sul caso con sentenza.
La sentenza della corte europea sono motivate e pubblicate.
Ogni giudice ha il diritto di allegare alla sentenza una propria opinione separata (concorrente o
dissenziente).
Una procedura particolare, i cui effetti superano il caso specifico, è quella della cosiddetta
"sentenza-pilota".
Quando appare da un ricorso che in uno Stato parte esista un problema strutturale o sistematico
che potrebbe dare luogo ad una molteplicità di ricorsi simili, la corte può decidere, di ufficio o su
istanza di parte, di trattare il caso in via prioritaria per emettere una sentenza pilota che identifichi
la natura del problema strutturale e indichi nel dettaglio le misure che lo Stato interessato deve
adottare a livello nazionale per eliminare il problema, includendole nel dispositivo della sentenza.
A tal fine, la corte può anche fissare dei termini specifici per l'esecuzione delle misure indicate.
La sentenza pilota è notificata oltre che alle parti, al comitato dei ministri, all'assemblea
parlamentare del consiglio d'Europa, al segretario generale del consiglio d'Europa e al
commissario per i diritti umani del consiglio d'Europa.
Lo scopo di questa procedura è di risolvere in modo urgente ed efficace eventuali problemi
strutturali, nel rispetto dei diritti umani, negli Stati parte, evitando il ripetersi di numerosi ricorsi
identici ed il conseguente ulteriore rallentamento dei tempi di lavoro della corte.
Gli Stati parte sono obbligati a dare esecuzione alla sentenza della corte e il comitato dei ministri
del consiglio d'Europa, un organo di natura politica, sorveglia sull'esecuzione delle sentenze.
Il comitato dei ministri può decidere, a maggioranza dei due terzi, di chiedere alla corte di
interpretare una sentenza ai fini di rendere più agevole l'esecuzione della stessa. In base ad
un'innovazione introdotta nel protocollo numero 14, il comitato dei ministri, se constata c'è una
parte si rifiuta di dare esecuzione ad una sentenza della corte, può, maggioranza dei due terzi,
chiedere alla grande camera di accertare se la parte è venuta meno ai suoi obblighi. In caso
affermativo, la corte rimette il caso al comitato dei ministri, perché consideri le misure da
prendere.
Non è però precisato quali misure il comitato dei ministri possa prendere al riguardo, fermo
restando che esso non ha il potere di adottare sanzioni o misure coercitive nei confronti di uno Stato
inadempiente. Potrebbe però essere proposta la sospensione o l'espulsione dal consiglio
d'Europa, di tale Stato.
È poi prevista una procedura di infrazione che si applica solo in circostanze eccezionali.
Fino ad ora non è mai stata attivata.
Alla competenza contenziosa della corte, si aggiunge a quella consultiva. La corte può, su richiesta
del comitato dei ministri, dare un parere consultivo su questioni giuridiche relative
all'interpretazione della convenzione e dei suoi protocolli.
COPIA DA PAGINA 102 a pag 122
LA TUTELA DELLE VITTIME DI VIOLAZIONI DEL DIRITTO ALLA VITA E DEL DIVIETO DI TORTURA
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2. Gli obblighi positivi
Sia la tutela del diritto alla vita, sia la proibizione della tortura e di trattamenti o pene inumane e
degradanti, impongono obblighi positivi agli Stati.
Questi obblighi si aggiungono a quelli negativi (obblighi di non fare) che impongono allo stato di non
tenere determinati comportamenti e che sono di più immediata evidenza (lo Stato non deve privare
arbitrariamente della vita, lo Stato non deve torturare).
2. A. Diritto alla vita
Per quanto concerne il diritto alla vita, gli organismi internazionali di tutela di diritti umani hanno
affermato gli obblighi positivi di:
1. Prevenire le violazioni non solo da parte di agenti di Stato, ma anche di privati;
2. Indagare in modo tempestivo, efficace ed imparziale così da individuare i responsabili,
processarli e sanzionarli;
3. Adottare adeguate misure legislative per render efficace sia la prevenzione sia la sanzione di
violazioni.
4. garantire un risarcimento e un rimedio adeguato ai familiari delle vittime.
Ad esempio, secondo gli organismi internazionali di protezione dei diritti umani l'apertura di un
procedimento su violazione del diritto alla vita non richiede denuncia ma dev'essere effettuata di
ufficio. Le indagini devono essere svolte in maniera seria da autorità indipendenti ed imparziali e,
nei casi che vedono coinvolti dei militari, la giurisdizione deve spettare ai tribunali ordinari. Gli agenti
dello Stato che sono oggetto di procedimento devono essere sospesi dal servizio fino a quando non
sia accertata la loro estraneità ai fatti. Gli atti del processo devono essere accessibili alle parti. Gli
organismi internazionali di protezione dei diritti umani determinano gli obblighi positivi
sopraindicati a seguito della lettura combinata dell'articolo che tutela il diritto alla vita con quello
generale che impone il rispetto dei diritti umani.
La Corte europea dei diritti umani considera la mancanza o la non adeguatezza di un procedimento
su gravi violazioni del diritto alla vita come un "aspetto procedurale" della norma della convenzione
europea che tutela tale diritto (articolo 2) e talvolta invoca l'articolo 1 della CEDU (Obbligo di
rispettare i diritti umani) per sottolineare ulteriormente l'esistenza di un obbligo per gli Stati parte
di rispettare e garantire in modo efficace tutti i diritti riconosciuti dal Trattato.
Vi sono delle tendenze ad estendere il diritto alla vita anche all'ambito della protezione della
salute e della garanzia da parte dello Stato di un adeguato tenore di vita per tutti gli individui che
si trovino sotto la giurisdizione.
A. Il comitato dei diritti umani ha indicato nel commento generale n. 6 del 1982 che il diritto alla
vita non può essere interpretato in modo restrittivo. Ha segnalato l'opportunità che gli Stati si
adoperino per ridurre la mortalità infantile e innalzare l'aspettativa di vita.
Nel commento generale n. 31 del 2004, riguardante la natura dell'obbligo generale di rispetto dei
diritti umani, il comitato ha ribadito che gli Stati parte assumono obblighi sia negativi che positivi, in
particolare per quanto riguarda l'adozione di misure legislative adeguate per assicurare la
30
prevenzione di violazioni dei diritti umani, lo svolgimento di indagini che permettono di
individuare e sanzionare i responsabili e la predisposizione di misure di riparazione per le vittime.
Gli obblighi dello Stato sono violati anche quando esso non ha esercitato la dovuta diligenza per
prevenire e punire comportamenti lesivi dei diritti umani.
Nelle osservazioni del 21 ottobre 2010, sul caso Novakovic c. Serbia, il comitato ha richiamato il
commento generale numero sei del 1982, per riaffermare l’esistenza di obblighi positivi di tutela del
diritto alla vita. Si trattava di un errore compiuto dei medici di un ospedale di Belgrado, che aveva
portato alla morte di un paziente. Gli accertamenti successivi non erano stati sufficienti a imporre
una sanzione ai medici negligenti. Il comitato dichiarò violato l'articolo 6 del patto in combinato con
l'articolo 2, paragrafo 3, per via di indagini carenti, che non avevano permesso di accertare la
responsabilità del personale medico coinvolto, di processare e sanzionare i responsabili.
B. La corte europea dei diritti umani viene con frequenza crescente chiamata a determinare la
portata degli obblighi positivi correlati all'articolo 2 della CEDU, soprattutto in casi relativi alla tutela
del diritto alla salute, come condizione per il godimento reale del diritto alla vita, o alla prevenzione
degli incidenti industriali e naturali o, più recentemente, ad omicidi commessi da detenuti che
beneficiano di permessi.
Nella sentenza resa per il caso L. C. B. c. Regno unito, il quale riguardava l'invio di circa 20.000 agenti
dello Stato sull'isola del Pacifico, dov'erano stati svolti esperimenti di armi nucleari, la corte
riconobbe che l'articolo due della convenzione impone allo stato di adottare tutte le misure
necessarie per proteggere la vita umana. La corte però non lo ritiene violato in ragione del fatto che
non ritenne provato che le autorità britanniche non avevano fornito ai propri agenti le informazioni
necessarie sui rischi per la salute connessi alle radiazioni.
Nel caso Cipro contro Turchia, la corte era chiamata a giudicare sulla possibile violazione dell'articolo
2 per le condizioni di vita imposte alla popolazione greco-cipriota, residente nella parte
settentrionale di Cipro, occupata dalle truppe turche, in particolare per quanto riguarda
l'impossibilità di avere accesso a strutture medico-sanitarie e di procurarsi i medicinali.
La corte preferì analizzare la questione sotto il profilo dell'articolo 8 della convenzione (diritto al
rispetto della vita privata e familiare), che dichiarò violato. Tale opinione non fu condivisa da un
giudice che dichiarò il proprio dissenso in una dissenting opinion.
In seguito, la corte europea è tornata a pronunciarsi su gli obblighi positivi degli Stati per la tutela
del diritto alla vita nella sfera della salute, chiarendo, tra l'altro, che gli Stati hanno l'obbligo di
adottare norme per far sì che gli ospedali, pubblici o privati, prendano le misure necessarie per
tutelare la vita dei pazienti e la condotta del personale medico e per garantire il risarcimento dei
danni causati alle vittime.
Nella sentenza resa per il caso Oneryildiz c. Turchia, la Grande Camera ha fornito un'interpretazione
ampia degli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita. Il ricorrente viveva con 12 familiari in una
baraccopoli edificata abusivamente nei pressi di una discarica situata alla periferia di Istanbul. Le
autorità non avevano intrapreso alcuna azione per allontanare gli abitanti da quel luogo e per fornire
loro una sistemazione alternativa, pur essendo in possesso di relazioni di esperti che dimostravano
che la discarica non rispettava le norme di sicurezza e di protezione dell'ambiente e che vi erano
elevati rischi per ogni forma di vita che si trovasse nei pressi. Si verificò un'esplosione di metano che
provocò lo smottamento del terreno e la distruzione di alcune abitazioni tra cui quella del ricorrente.
Le inchieste aperte ai fini di determinare la responsabilità delle autorità portarono all'incriminazione
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alla condanna di due sindaci, per colpa nello svolgimento di funzioni di pubblica utilità e per omicidio
colposo plurimo e a tre mesi di reclusione e al pagamento di una multa di circa € 70. Tali pene
vennero poi condonate. La Grande Camera ribadì l'esistenza di obblighi positivi di prevenzione di
violazioni del diritto dalla vita, chiarendo che tali obblighi sussistono nei confronti di ogni tipo di
attività, sia essa svolta da un ente pubblico o privato, che possa mettere in pericolo il diritto alla
vita.
La Corte indicò che l'interpretazione degli obblighi positivi connessi all'articolo 2 va distinta in due
aspetti: sostanziale e procedurale.
Il primo va inteso come l'obbligo di adottare disposizioni legislative e amministrative adeguate
per prevenire minacce al diritto alla vita, in particolar modo quando si tratti di attività pericolose,
in presenza delle quali, tenendo conto del livello di potenziale rischio per le vite umane, gli Stati
devono regolamentare la concessione di licenze, l'edificazione, il funzionamento e la sicurezza
degli impianti e devono rendere obbligatoria l'adozione di efficaci misure pratiche.
Per quanto riguarda l'aspetto procedurale, la corte ha chiarito che, nel caso in cui vi sia stata la
perdita di vite umane, in circostanze che potrebbero comportare una grave colpa degli organi
dello Stato, vi è un obbligo dello Stato stesso di assicurare, con tutti i mezzi a propria disposizione,
che vi sia una risposta adeguata affinché le disposizioni giuridiche sulla protezione della vita
vengano effettivamente applicate ed eventuali violazioni siano adeguatamente indagate e
sanzionate.
La corte europea accertò che le autorità turche, che pure disponevano di tutte le informazioni
necessarie per conoscere l'esistenza di un rischio di un grave incidente, non solo non avevano
allontanato gli abitanti della zona a rischio, ma avevano fornito loro servizi ed imposto il pagamento
di tasse, così legittimando di fatto gli insediamenti. Per queste ragioni, la corte dichiarò l'art. 2
violato sia nell'aspetto sostanziale, che in quello procedurale.
Nella sentenza Bunayeva c. Russia, la corte europea precisò ulteriormente i principi affermati nel
caso appena esposto.
In particolare, la corte si pronunciò sul ricorso presentato da sei residenti una cittadina del Caucaso
periodicamente soggetta a straripamenti dei corsi d'acqua che l'attraversavano.
Nonostante fosse noto che i fiumi straripavano nella stagione delle piogge, le autorità non avevano
preso alcuna adeguata misura di protezione. La corte ritenne che la Russia non avesse adempiuto ai
suoi obblighi positivi di tutela del diritto alla vita, non avendo adottato tutte le misure opportune
per prevenire il disastro e per informare in modo adeguato gli abitanti del luogo sui rischi ai quali
erano esposti e sulle misure da adottare in caso di emergenza.
La corte precisò che gli Stati sono obbligati ad attivarsi, pur avendo un margine di discrezionalità
nella scelta delle misure da adottare a fronte di situazioni di rischio.
La corte ritenne che l'assenza di indagini indipendenti ed efficaci e la conseguente mancanza di
sanzioni per l'accaduto rappresentassero una violazione dell'aspetto procedurale dell'art. 2 della
convenzione europea.
Interessante è anche la sentenza resa dalla corte sul caso Maiorano e altri contro Italia. I ricorrenti
si erano rivolti alla corte lamentando che l'Italia fosse venuta meno ai suoi obblighi positivi di tutela
del diritto alla vita, nel momento in cui le autorità giudiziarie avevano concesso il beneficio della
semilibertà ad un individuo pluripregiudicato, che una volta fuori dal carcere, seviziò, violentò e
uccise due donne. Secondo i ricorrenti, se le autorità avessero svolto il loro dovere di sorveglianza
e di prevenzione diligentemente, gli ultimi omicidi non avrebbero avuto luogo. La corte ritenne che,
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visti i precedenti del soggetto, vi fossero più che fondati motivi per rifiutare il beneficio della
semilibertà. Per questo riconosceva la violazione dell'articolo 2.
La corte europea ha anche affermato l'esistenza di un obbligo positivo per lo stato di adottare
speciali misure di protezione per gli individui la cui vita sia presumibilmente a rischio per via di
minacce ricevute a causa, per esempio, dell'attività professionale svolta.
Nel caso Dink c. Turchia, la corte ha ritenuto lo stato responsabile di una violazione degli obblighi
positivi in materia di diritto alla vita, per non aver adottato misure speciali di protezione nei di un
giornalista di origine armena ucciso a colpi di arma da fuoco nel 2007. Il giornalista aveva scritto una
serie di articoli che riguardavano il genocidio armeno che avevano provocato una forte ondata
emotiva in Turchia e una serie di manifestazioni pubbliche. Nonostante l'esistenza di una serie di
indizi che facevano presumere che la vita del giornalista era a rischio, la polizia non aveva fatto nulla.
La corte europea sta sviluppando, poi, una giurisprudenza in riferimento al diritto alla vita di persone
che subiscono minacce in contesti di violenza domestica. In un caso del 2009 la corte dovete
giudicare la morte di una donna che aveva denunciato il marito che minacciava spesso di uccidere
lei ed il figlio e che, in ultimo, era stata effettivamente uccisa dall’uomo che aveva compiuto il folle
gesto e poi si era suicidato. La corte riscontrò una violazione da parte della Croazia dell'articolo due
della convenzione.
C. Nell'ambito Interamericano, si registrano vari tentativi di ampliare l'interpretazione del diritto alla
vita sia da parte della Commissione sia della Corte Interamericana.
Sono stati accertati l'obbligo dello stato di adottare misure positive per garantire la salute e l'obbligo
dello Stato e di adoperarsi per garantire concretamente, a partire dall'infanzia, tutte le condizioni
necessarie per sopravvivere e per vivere una vita degna.
La corte insistette particolarmente nel richiamare gli stati agli obblighi positivi di tutela del diritto
alla vita, ancor di più se ad essere minacciata sia la vita di un minore.
In materia di obblighi positivi, quando si verificano situazioni sistematiche di violazione del diritto
alla vita, va ricordata la sentenza della corte del 2006 nella quale essa ribadì che il diritto alla vita
impone agli Stati l'obbligo positivo di creare le condizioni necessarie affinché non si producano le
violazioni dei diritti umani.
Nella sentenza del 2006, la corte specificò che lo Stato deve adottare un insieme di norme idoneo a
tutelare il diritto alla vita, prevedendo le minacce della stessa, deve assicurare l'esistenza di un
sistema giudiziario capace di sanzionare e garantire il risarcimento dei danni causati sia da agenti
statali sia da privati e, soprattutto, deve salvaguardare l'accesso a condizioni che garantiscono una
vita degna, agli individui che si trovino sotto la propria giurisdizione.
La corte ha chiarito che questi obblighi positivi di tutela dei diritti alla vita discendono da una lettura
combinata dell'art. 4, dell'art. 1 e dell'art. 2 della convenzione americana e che, nel caso di persone
che appartengono a categorie particolarmente vulnerabili, come le popolazioni indigene, tali
obblighi sono rafforzati.
Secondo la corte, gli obblighi positivi non devono essere interpretati in modo da imporre agli Stati
un onere impossibile o palesemente sproporzionato. Si deve pertanto valutare se al momento
del verificarsi della violazione gli Stati avessero informazioni sufficienti per accertare l'esistenza
di un rischio reale ed immediato per la vita di uno o più individui determinati.
Il caso in questione riguardava i membri di una comunità indigena del Chaco, che erano stati
costretti ad abbandonare le proprie terre ancestrali, cedute dal governo a società multinazionali,
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senza aver previamente ottenuto il consenso informato della comunità coinvolta. Gli indigeni erano
stati costretti a vivere nel bordo di una strada in condizioni di povertà assoluta, senza ricevere alcuna
assistenza dello Stato.
La corte ha formulato considerazioni analoghe in una sentenza del 2012, che riguardava la
conclusione di un contratto per la ricerca e lo sfruttamento di idrocarburi, che aveva consentito ad
una società petrolifera di effettuare delle ricerche in una porzione di territorio dove vivevano gli
indigeni, ricerche che avevano portato alla distruzione di un sito di particolare importanza per la vita
religiosa degli indigeni. La corte Interamericana ha ritenuto che lo Stato fosse venuto meno ai suoi
obblighi positivi di tutela del diritto alla vita, per non aver impedito di operazioni delle società
petrolifera privata.
Nella giurisprudenza della corte Interamericana è stato più volte ribadito che lo Stato ha un obbligo
positivo di pianificare, nel rispetto dei parametri internazionali, le operazioni dei propri agenti di
sicurezza che richiedono l'uso della forza, nonché di impartire a questi ultimi un adeguato
addestramento ed una formazione che consenta loro di comprendere i propri diritti e doveri anche
alla luce del diritto internazionale dei diritti umani.
D. Nella giurisprudenza della commissione africana dei diritti umani, la decisione più rilevante è stata
quella del 2001, nella quale viene chiarito che lo Stato prima di concedere lo sfruttamento dei
giacimenti di petrolio sul proprio territorio, deve valutare se le attività di estrazione possano
pregiudicare la salute della popolazione locale, la sua possibilità di alimentarsi ed usufruire
dell'acqua e la salubrità dell'ambiente.
2.B. Divieto di tortura
Per quanto concerne il divieto di tortura e trattamenti o pene inumani e degradanti, gli organismi
internazionali di tutela dei diritti umani hanno affermato i seguenti obblighi positivi:
- Proteggere le persone che si trovino sotto la propria giurisdizione da tortura e trattamenti
inumani o degradanti, anche se inflitti da privati
- Indagare in modo tempestivo, imparziale ed efficace quando si verifichi un caso di tortura o
trattamento inumano o degradante in modo da rendere possibile l'identificazione, il giudizio e la
sanzione dei colpevoli
- Introdurre nei codici penali il reato di tortura e prevedere per lo stesso pena adeguata alla gravità
della condotta
- Fornire un addestramento ed una preparazione che consentano al personale delle forze armate,
delle forze dell'ordine e a coloro che sono incaricati di sorvegliare persone private della libertà di
non incorrere in violazioni della proibizione di tortura e trattamenti inumani o degradanti
- Garantire un'adeguata riparazione alle vittime di tortura e trattamenti inumani o degradanti e
ai loro congiunti.
A. Per quanto concerne l'obbligo di indagare, il comitato dei diritti umani, nel commento generale
n. 20 Del 1992, ha sostenuto la lettura congiunta dell'articolo 7, relativo alla tortura, e dell'articolo
due, paragrafo tre, del patto che riconosce il diritto a un rimedio effettivo in caso di violazione Dei
diritti ivi riconosciuti e garantiti.
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Il comitato ha ritenuto che gli Stati debbano garantire che denunce di violazione dell'articolo sette
del patto, siano indagate senza ritardo ed imparzialmente dalle autorità competenti e che ciò
debba essere adeguatamente previsto anche dalla legislazione nazionale.
Il comitato ha chiarito che gli Stati non devono attendere una denuncia formale, ma hanno
l'obbligo di avviare anche di ufficio indagini qualora vi siano fondate ragioni per ritenere che si
siano verificati atti contrari all'art 7 Del patto.
Il comitato ha ripetutamente chiarito che non sono ammissibili leggi di amnistia che limitino il
dovere di indagare sui casi di tortura o maltrattamento.
Nel commento generale numero 31 del 2004, il comitato ha ribadito l'obbligo dello stato di attivarsi
per prevenire episodi di tortura anche quando i responsabili siano dei privati.
Per quanto concerne l'obbligo di adottare disposizioni di legge adeguate a prevenire e sanzionare
atti di tortura o trattamenti o pene inumane e degradanti, il comitato ha interpretato l'articolo
sette del patto congiuntamente con l'articolo due, paragrafo due, che prevede che gli Stati parte
emanino tutte le disposizioni di legge necessarie a garantire i diritti riconosciuti nel trattato.
Nel già ricordato commento generale numero 20, il comitato ha chiarito che gli Stati hanno l'obbligo
positivo di prevedere la tortura come reato nei propri codici penali, di sanzionarla in modo
adeguato alla sua gravità e di prevedere esplicitamente l'inammissibilità, In ambito giudiziario, di
confessioni estorte per mezzo di maltrattamenti.
Ha fornito indicazioni in materia di obbligo degli Stati di addestrare e formare i propri agenti in
modo da prevenire il verificarsi di casi di tortura e ha ricavato dalla lettura combinata degli articoli
7 e 2 Del patto lo obbligo positivo degli stati di fornire un rimedio efficace ed un'adeguata
riparazione alle vittime di tortura trattamenti inumani o degradanti.
Il comitato ha elaborato interpretazioni particolarmente originali di quest'obbligo positivo.
A tal proposito, si possono ricordare le osservazioni del 3 aprile 2003, riguardanti l'esecuzione di una
condanna morte del figlio della ricorrente. In Russia, la legge prevede che né il condannato, né I suoi
familiari conoscano la data esatta di quando verrà eseguita la condanna. La donna fu informata
dell'uccisione del figlio mediante la consegna di un certificato di decesso solo due giorni dopo
l'esecuzione della condanna e le venne negata la possibilità di vedere il cadavere. Il comitato, oltre
ad accertare la violazione del diritto alla vita del figlio della ricorrente, ritiene che le modalità di
esecuzione della pena rappresentavano un trattamento inumano e degradante.
Nelle osservazioni del 30 luglio 2009, il comitato si pronunciò sugli obblighi positivi in materia di
sanzioni della tortura. Nel caso di specie, il padre del ricorrente era stato arbitrariamente arrestato
per ordine di un comandante dell'esercito congolese, che aveva poi ordinato a due uomini del suo
servizio di sicurezza di dargli 400 frustate. Le lesioni ne determinarono l'impotenza. Egli denunciò
sia il comandante sia i due uomini che lo avevano materialmente percosso. Il tribunale militare che
conobbe del caso condannò il comandante a 12 mesi di reclusione. La condanna non venne eseguita.
Il comitato accolse la tesi del ricorrente, raccomandò allo stato, a titolo di misura di riparazione, di
procedere senza ritardo all'esecuzione della sentenza.
B. La corte europea ha chiarito a più riprese, analogamente a quanto affermato per il diritto alla
vita, che gli Stati parte della convenzione europea dei diritti dell'uomo hanno l'obbligo di svolgere
un'indagine efficace ed imparziale volta a determinare concretamente l'identità dei responsabili e
a rendere possibile la loro adeguata punizione. Qualora le autorità non svolgano tempestivamente
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ed adeguatamente le indagini, le autorità si rendono responsabili di una violazione del profilo
procedurale dell'articolo 3.
La corte ha indicato alcuni requisiti che devono sussistere affinché le indagini possano considerarsi
efficaci: il ricorrente deve avere la possibilità reale di fare avviare una procedura di indagine, che
deve essere svolta tempestivamente, con la dovuta diligenza e da autorità indipendenti Che non
abbiano vincoli con chi è sottoposto all'indagine.
Anche la corte ha evidenziato che l'obbligo di indagare non discende da una denuncia di parte. Se
esistono sufficientemente fondate ragioni per ritenere che sia stata compiuta una tortura o un
trattamento inumano o degradante le autorità devono attivarsi di ufficio.
Anche la corte, ha affermato l'obbligo degli Stati di adottare misure legislative adeguate adatte a
sanzionare la tortura.
In un caso del 2003, la corte ha evidenziato, in base al combinato disposto degli articoli 3 e 8, Che
gli Stati hanno l'obbligo di adottare misure legislative per sanzionare lo stupro, inteso come forma
di tortura.
C. Anche la giurisprudenza della corte Interamericana dei diritti umani è univoca nel senso di
affermare l'obbligo positivo degli stati di indagare in modo tempestivo efficace ed imparziale sui casi
di tortura e trattamenti inumani o degradanti, in modo da identificare e sanzionare i responsabili.
Anche la corte Interamericana ha evidenziato che le autorità devono procedere anche di ufficio. Ha
indicato i criteri e i requisiti per lo svolgimento di indagini sui casi di tortura. Ha più volte ribadito
l'obbligo positivo degli Stati di adottare disposizioni legislative adeguate per prevenire e sanzionare
la tortura, valutando anche la compatibilità con i parametri internazionali delle definizioni di tortura
contenute nei codici penali dei singoli stati.
D. L'obbligo di indagare sui casi di tortura è stato affermato anche dalla commissione africana dei
diritti umani e dei popoli. La corte ha chiarito che si deve valutare la serietà con la quale lo Stato ha
svolto le indagini per i casi di tortura.
3. Le vittime
Alla luce della giurisprudenza elaborata dagli organismi internazionali di protezione dei diritti umani,
la nozione di vittima assume varie caratteristiche. Per trovare una definizione che rifletta questa
varietà, si può fare riferimento a un documento che pur essendo privo di valore vincolante,
rispecchia l’evoluzione del diritto internazionale in materia: i principi delle Nazioni Unite sul diritto
alla riparazione per vittime di gravi violazioni di diritti umani e del diritto internazionale
umanitario, adottati nel 2005, mediante la risoluzione 60/147 dell'assemblea generale.
Il principio 8 stabilisce che: sono vittime le persone che individualmente e collettivamente hanno
sofferto, includendo i danni fisici o mentali, emotivi, le perdite economiche o la violazione dei loro
fondamentali diritti, attraverso atti o omissioni che costituiscono gravi violazioni del diritto
internazionale dei diritti umani o serie violazioni del diritto internazionale umanitario.
3.A. Vittime dirette ed indirette.
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Si definisce vittima diretta chi ha sofferto direttamente della lesione di un diritto: ad esempio, in
un caso di esecuzione arbitraria, si tratta della persona uccisa, in un caso di sparizione forzata, della
persona sparita eccetera ...
Il danno sofferto non deve essere necessariamente di tipo fisico o materiale, ma può anche essere
psicologico.
Chi è identificabile come vittima diretta è di solito il titolare del diritto ad ottenere una
riparazione, per quanto sofferto, si tratti di risarcimento economico o di altre misure.
Sono vittime indirette di violazione dei diritti umani I familiari della vittima diretta, che, come
conseguenza della violazione principale, a loro volta sono sottoposti ad una situazione di
particolare angoscia e dolore.
A. Il comitato dei diritti umani non ha svolto particolari elaborazioni sui concetti di vittima diretta o
indiretta. Tuttavia, di norma, i familiari che, in qualità di ricorrenti, denunciano un caso di sparizione
forzata sono considerati come vittima a loro volta di un trattamento inumano e degradante, per lo
stato di angoscia nel quale li riduce la mancanza di informazione sulla sorte toccata la vittima diretta.
Il comitato non estende questa considerazione a tutti i familiari delle vittime, ma si limita a
dichiarare la sussistenza di tale violazione nei confronti del ricorrente che ha formalmente
presentato la comunicazione.
B. In casi di sparizione forzata, esecuzioni arbitrarie e massacri, la corte Interamericana dei diritti
umani ha considerato come vittime indirette i familiari di vittime dirette e ha dichiarato l'esistenza
di una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti nei loro confronti. La corte non ha
imposto l'onere della prova ai ricorrenti, ma ha presunto la sussistenza di una violazione
dell'integrità psicologica dei familiari delle vittime dirette. Il numero dei familiari che sono
considerate vittime indirette e che vengono poi indicati come beneficiari delle misure di riparazione
è particolarmente ampio: genitori, figli, fratelli, coniugi e conviventi permanenti e tutti coloro che
hanno un legame speciale con la vittima diretta.
C. Più restrittivo è l'orientamento della corte europea dei diritti umani, Che considera vittima
indiretta i familiari solo in casi di sparizioni forzate e non anche di esecuzioni arbitrarie e di altre pur
gravi violazioni dei diritti umani.
In secondo luogo, anche in casi di sparizioni forzate, essa non applica una presunzione di violazione
nei confronti delle vittime indirette.
In terzo luogo, non tutti i familiari sono considerati vittima indiretta.
La corte ha ribadito più volte di non considerare come vittime indirette I familiari di persone che
sono state arbitrariamente private della vita, ritenendo che non si possono estendere ad essi la
giurisprudenza ed i criteri elaborati in casi di sparizione forzata.
Se chi non riceve notizie da parte delle autorità su un proprio familiare vittima di sparizione è
qualificato come vittima indiretta, è difficile comprendere come non si possa ripetere lo stesso
ragionamento per il familiare di un individuo morto in custodia o ucciso arbitrariamente, nel caso in
cui la corte abbia accertato una responsabilità dello Stato ed una successiva condotta omissiva e
lacunosa in sede di indagine.
Nei casi di sparizione forzata di persone, seppur con qualche iniziale contraddizione, la corte tiene
in considerazione alcuni fattori, quali il tipo di legame familiare, la particolare intensità di tale
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legame, l'eventualità che il familiare abbia assistito alla violazione ed il grado di coinvolgimento del
familiare nei tentativi di ottenere informazioni sulla sorte della vittima.
3. B. Vittime potenziali
Nel caso della categoria delle cosiddette vittime potenziali, la giurisprudenza non è unanime.
La corte europea dei diritti umani ha affermato la propria competenza a trattare anche ai casi di
ricorrenti che, pur non avendo ancora subito una violazione attuale di un diritto tutelato,
potrebbero subirla a causa di una legge nazionale in contrasto con un articolo della convenzione
europea.
Il primo esempio di questo orientamento è dato dalla sentenza resa il 22 ottobre 1981 sul caso
Dudgeon c. Regno unito. Il ricorrente lamentava l'esistenza di una legge in vigore in Irlanda del Nord
che prevedeva la sanzione della reclusione da 10 anni all'ergastolo per ogni atto di omosessualità,
ivi compresi quelli tra adulti consenzienti. La corte riconobbe la violazione dell'articolo otto,
nonostante la legge non fosse mai stata applicata.
Nella decisione del 16 dicembre 2008, sul caso Ada Rossi contro Italia, la corte rilevò che un
ricorrente, per potersi qualificare come vittima potenziale di una violazione, deve fornire degli
indizi ragionevoli e convincenti sulla probabilità che si verifichi una violazione che lo riguardi
personalmente. Semplici sospetti o congetture non sono a riguardo sufficienti.
Un'applicazione particolare di vittima potenziale effettuata dalla corte europea e dal comitato dei
diritti umani per quanto riguarda le espulsioni o le estradizioni di individui che possono essere
vittima, una volta allontanati dallo Stato, di sentenze di morte, esecuzioni, tortura etc..
La corte europea ha evidenziato che gli Stati, in questi casi, hanno l'obbligo di non procedere
all'espulsione o alle estradizione.
La corte europea accorda questo particolare genere di tutela in casi in cui siano state evidenziate
motivazioni fondate per ritenere che la persona in questione corra un rischio reale ed imminente.
Per determinare la sussistenza di tali fattori, la corte tiene in considerazione fattori quali: la
situazione esistente nello Stato nel quale il ricorrente dovrebbe essere estradato, rinviato o
consegnato, l'esistenza di una pratica sistematica di trattamenti inumani, il fatto che il ricorrente sia
già stato minacciato o sottoposto in tale stato, in precedenti occasioni, a torture o trattamenti
inumani o degradanti.
3.C. Vittime collettive
La definizione di vittima proposta nei principi delle Nazioni Unite, sulla riparazione, si riferisce anche
alle vittime collettive.
Questo concetto si applica, in particolare, quando sono coinvolte popolazioni indigene, per alcune
delle quali è pressoché inesistente il concetto di individualità, che è sostituito da quello di
comunità. Gli Stati possono rendersi responsabili di violazioni nei confronti di un'intera comunità di
vari diritti umani. La comunità, come tale, ha titolo di beneficiare di misure di riparazione che
assumono un carattere particolare per soddisfare la dimensione collettiva del danno.
4. Impunità e gravi violazioni dei diritti umani.
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Di fronte al verificarsi di gravi violazioni dei diritti umani, si è, a volte, prospettata l'impunità dei
responsabili come un male necessario o come una inevitabile conseguenza del numero troppo
elevato delle violazioni commesse. Talvolta, si è cercato di lenire le ferite provocate nella società da
massacri, tortura, sparizioni forzate ed esecuzioni arbitrarie invocando la formula dell'oblio e del
perdono. In realtà, l'impunità provoca un aumento del senso di insoddisfazione dei familiari delle
vittime e della probabilità di commissione di nuove violazioni.
Nei Principi per la promozione e la protezione dei diritti umani l'impunità è definita come la
mancanza di indagine, giudizio e sanzione dei responsabili di violazioni di diritti umani e la
conseguente mancanza di riparazione alle vittime.
A livello normativo e giurisprudenziale si sta però affermando l'obbligo degli Stati di indagare, di
adottare tutte le misure a loro disposizione per combattere il fenomeno dell'impunità e garantire la
riparazione integrale del danno cagionato alla vittima.
Vari sono gli strumenti e gli espedienti che possono favorire e mantenere l'impunità: leggi di
amnistia, prescrizione, diritto di asilo, rifiuto di estradare, principio secondo il quale non si può
giudicare la stessa persona due volte per lo stesso reato, obbedienza dovuta, immunità, pentimento,
giurisdizione dei tribunali militari, inamovibilità dei giudici.
Già nel 1998, nella più volte citata sentenza sul caso Furundzija, il tribunale per l'ex-Jugoslavia ha
collegato alla natura di Ius cogens della proibizione della tortura la conseguenza che leggi volte ad
amnistiare i responsabili siano prive di effetti giuridici.
Gli organismi internazionali dei diritti umani si sono pronunciati in diverse occasioni
sull'incompatibilità degli strumenti che favoriscono l'impunità con gli obblighi internazionali che
incombono sugli Stati, in caso di gravi violazioni dei diritti umani. La corte Interamericana dei diritti
umani ha affermato che gli Stati hanno l'obbligo di combattere una situazione di impurità con tutti
i mezzi giuridici a loro disposizione.
Particolarmente grave è il problema posto dalle leggi di amnistia.
In Argentina, il 9 dicembre 1985, la corte nazionale d'appello giudicò alcuni dei principali esponenti
del regime militare, infliggendo una serie di condanne. Queste poi vennero precluse da una legge di
amnistia, che la corte suprema dichiarò incostituzionale.
In El Salvador, dopo conflitto interno protrattosi dal 1980 al 1992, venne creata sotto gli auspici delle
Nazioni Unite, una commissione della verità, che adottò un rapporto finale, reso pubblico il 15 marzo
1993. Cinque giorni dopo fu adottato un provvedimento di amnistia che ha reso impossibile
giudicare e sanzionare i responsabili delle gravi violazioni di diritti umani commesse durante il
conflitto e ricorrere ai giudici civili per ottenere il risarcimento dei danni. Benché il comitato dei
diritti umani e la commissione Interamericana dei diritti umani abbiano dichiarato che le leggi di
amnistia violasse gli obblighi internazionali di protezione dei diritti umani e ne abbiano consigliato
l'abrogazione, il decreto è ancora in vigore ed è stato regolarmente applicato.
La corte Interamericana di diritti umani ha dichiarato il decreto contrario alle disposizioni della
convenzione americana e ordinato ad El Salvador di assicurarsi che il decreto non possa più
ostacolare l'indagine e lo svolgimento di processi.
In Perù, furono adottate due leggi di amnistia che stabilivano che non era possibile processare
imputati per reati commessi individualmente o collettivamente nel contesto della lotta contro il
terrorismo.
Di fondamentale importanza per sostenere l'inapplicabilità di leggi di amnistia in casi che riguardano
gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, è la sentenza resa il 14 marzo
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2001 dalla corte Interamericana sul caso Chumbipuma c. Perù, nel quale la corte concluse che, in
casi di gravi violazioni dei diritti umani, le leggi di amnistia, le disposizioni riguardanti la prescrizione
e le esimenti che permettano di impedire l'indagine , il giudizio e la sanzione dei responsabili violano
i diritti inderogabili sanciti dalla convenzione americana e sono pertanto inammissibili. La corte
ordinò al Perù di abrogare le due già menzionate leggi e di dichiararle prive di effetti giuridici. Le
leggi di amnistia peruviane, pur non essendo mai stati formalmente abrogate, sono state
considerate prive di effetti in virtù della sopracitata sentenza della corte Interamericana.
Il principio dell'inammissibilità di leggi di amnistia a fronte di gravi violazioni dei diritti umani è stato
mantenuto nella giurisprudenza successiva della corte Interamericana.
La corte europea dei diritti umani, nella decisione del 17 marzo 2009, ha escluso che una legge di
amnistia adottata in Mauritania potesse essere fatta valere in occasione di un procedimento penale
svolto in Francia nei confronti di un imputato di torture commesse in Mauritania.
Nella sentenza del 13 novembre 2012 sul caso Margus contro Croazia, la corte europea ha ribadito
l'incompatibilità di leggi di amnistia con l'obbligo degli Stati di indagare, processare e sanzionare i
responsabili di crimini internazionali e gravi violazioni dei diritti umani.
Anche il comitato dei diritti umani, nel suo commento generale numero 31 del 2004, si è
pronunciato sulla compatibilità con il patto sui diritti civili e politici di leggi di amnistia o di altre
misure che portano all'impunità, concludendo che tali misure sono in contrasto con gli obblighi
internazionali assunti dagli Stati parte.
Nelle osservazioni conclusive adottate nel 2007 in occasione dell'esame del rapporto Periódico
presentato dall'Algeria, il comitato dei diritti umani ha analizzato il già menzionato provvedimento
di amnistia del 2006 e ha rilevato la sussistenza di svariati profili di incompatibilità con i principi
fondamentali di protezione dei diritti umani. Ga anche formulato alcune raccomandazioni allo stato,
affinché l'amnistia non pregiudichi gli obblighi internazionali dello stesso e non venga in alcun modo
applicata a favore di individui accusati di gravi violazioni.
Anche la commissione africana dei diritti umani e dei popoli avuto modo di pronunciarsi sulla
incompatibilità con la carta africana di leggi di amnistia a vantaggio dei responsabili di gravi
violazioni dei diritti umani. Nella decisione del 29 luglio 2008, la commissione ha confermato che le
leggi che hanno l'effetto di garantire assoluta immunità ad individui accusati di azioni e di precludere
in tal modo l'accesso a qualsiasi rimedio che possa permettere alle vittime di rivendicare i propri
diritti sono contrario agli articoli uno (obbligo di rispettare i diritti riconosciuti) e sette (diritto
all'equo processo) della carta africana.
I già ricordati principi contro l'impunità invitano gli Stati a non abusare di misure, come le amnistie,
che contribuiscono all'impunità.
E si pongono alcune condizioni che devono accompagnare l'adozione di eventuali leggi relative
all'amnistia o ad altre misure di clemenza: divieto di concedere amnistia prima che i processi siano
conclusi E del divieto di pregiudicare il diritto delle vittime di ottenere un risarcimento sul piano
civile.
I principi contro l'impunità forniscono anche indicazioni in caso di pentimento dei responsabili,
chiarendo che la collaborazione con l'autorità nel fare luce su quanto accaduto non può valere come
esimente.
In vari casi, l'impunità e di fatto garantita dalla circostanza che i militari o gli appartenenti alle forze
dell'ordine responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono giudicati da un tribunale militare.
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Nel sistema Inter americano di protezione dei diritti umani Sia la commissione anche la porta hanno
affermato un criterio restrittivo per definire i limiti della giurisdizione penale militare, che deve
essere limitata ai reati commessi da militari nell'esercizio delle funzioni militari, con esclusione delle
gravi violazioni dei diritti umani.
Anche il comitato dei diritti umani, nelle osservazioni conclusive del 26 luglio 1995, sul rispetto dei
diritti umani in Russia, si espresse nel senso che i tribunali militari non sono competenti per giudicare
membri delle forze armate accusati di aver commesso violazioni dei diritti umani.
La commissione africana dei diritti umani e dei popoli è pervenuta conclusioni analoghe a quelle del
comitato dei diritti umani in materia di incompetenza dei tribunali militari nei confronti di persone
accusate di gravi violazioni di diritti umani. Essa ha riconfermato nel tempo questa linea
giurisprudenziale.
In altri casi, l'impunità dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani è stata assicurata mediante
l'applicazione di termini di prescrizione eccessivamente brevi o che non tenevano conto della natura
continua del reato o della imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità.
Anche il principio della cosa passata in giudicato e il principio del ne bis in idem, in ragione dei quali
non si può giudicare più volte una persona per gli stessi fatti, sono stati talvolta utilizzati per
garantire l'impunità agli imputati di gravi violazioni dei diritti umani, tramite lo svolgimento di
processi-lampo o di processi-farsa.
Negli stessi Principi, viene chiarito che, sempre per contestare l'impunità, gli Stati devono evitare di
concedere l'asilo o la condizione di rifugiato a chi è sospettato di aver commesso crimini
internazionali e devono concedere la sua estradizione allo Stato che ha titolo per richiederla.
La corte Interamericana ha chiarito che le gravi violazioni dei diritti umani richiedono un obbligo di
cooperazione tra gli Stati.
La Corte EDU (in un caso che riguardava la commissione di alcuni crimini in Bosnia Erzegovina da
parte di individui che si trovavano in Serbia) ha adottato nel 2011 un criterio opposto. Pur senza
mettere in discussione l’obbligo della Serbia di estradare o processare gli individui in questione ha
preferito non approfondire questo aspetto e ha respinto la richiesta della ricorrente, che lamentava
la violazione da parte della Bosnia Erzegovina dell’obbligo di processare i responsabili di gravi
violazioni dei diritti umani, indicandole che avrebbe dovuto presentare il caso contro la Serbia.
I principi di diritto sulla riparazione invitano gli Stati a facilitare l’estradizione degli imputati di gravi
violazioni dei diritti umani, aggiungendo che tutti gli Stati dovrebbero adottare norme che rendano
possibile la cd. “giurisdizione nazionale universale”, in virtù della quale ogni Stato può processare
un individuo accusato di crimini internazionali e gravi violazioni dei diritti umani, posto che egli si
trova nel territorio dello Stato.
I principi contro l’impunità fanno riferimento anche ad altri meccanismi giuridici che possono
impedire il regolare corso della giustizia nei confronti di imputati di gravi violazioni dei diritti umani
e prevedono: l’inammissibilità, come esimente, dell’aver agito in esecuzione di ordini; il
riconoscimento della responsabilità del superiore gerarchico che, pur sapendo o avendo le ragioni
per sospettare che un proprio subordinato stava per commettere una grave violazione dei diritti
umani, non abbia adottato tutte le misure ragionevoli per prevenire o sanzionare il reato;
l’inapplicabilità di immunità e privilegi nei confronti di accusati di gravi violazioni dei diritti umani,
anche qualora si tratti di capi di Stato o governo.
Un ulteriore strumento utilizzabile per garantire l’impunità è il segreto di Stato, per non rendere
pubbliche info che permetterebbero di fare luce su violazioni dei diritti umani.
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Nella sentenza Tiu Tojin c. Guatemala, la corte interamericana ha chiarito che gli Stati hanno
l’obbligo di consentire alle autorità incaricate delle indagini l’accesso a tutti i documenti e
informazioni che possano permettere di fare luce sulla commissione di gravi violazioni dei diritti e
che, in casi di questo tipo, non si possono invocare né il segreto di Stato né la confidenzialità delle
informazioni, né ragioni di interesse nazionale o di sicurezza nazionale.
La Corte EDU non ha ancora preso una posizione netta, anche se in numerose sentenze ha dichiarato
incompatibile con la CEDU il rifiuto, ripetutamente opposto dalla Russia per asserite ragioni di
sicurezza nazionale, di fornire documenti richiesti dalla Corte stessa e coperti da segreto di Stato.
Nel caso Khaled El-Masri, un cittadino tedesco rimasto invischiato nella rete delle consegne
straordinarie, fu catturato, fatto sparire e trasportato da agenti degli USA in Afghanistan, dove fu
sottoposto a tortura e recluso. Fu poi portato in albania, quindi in Germania dove fu liberato. La
domanda di El- Masri di essere risarcito fu respinta dai tribunali americani, ma fu accolta dalla Corte
EDU.
Collegate al problema dell’impunità, sono poi le modalità d conservazione degli archivi, da parte
degli Stati, che possono contenere informazioni rilevanti per stabilire la verità sull’accaduto. I
principi contro l’impunità stabiliscono che gli Stati devono prevedere sia misure tecniche, sia
sanzioni al fine di prevenire la rimozione, la distruzione, la falsificazione o l’alterazione degli archivi
e che devono facilitarne l’accesso alle vittime di violazioni dei diritti umani. L’accesso può essere
negato per ragioni di sicurezza nazionale solo in casi eccezionali, qualora questo sia previsto per
legge dopo avere dimostrato l’esistenza di una necessità, in uno stato democratico, di tale
restrizione al fine di proteggere un legittimo interesse di sicurezza nazionale e sottoponendo tale
decisione alla possibilità di valutazione e revisione da parte delle autorità giudiziarie.
5. LE MISURE DI RIPARAZIONE
Un organismo internazionale che accerta la commissione di una violazione dei diritti umani, deve
disporre le misure di riparazione a favore dell’individuo leso.
Le misure di riparazione dei diritti umani (che soppiantano le ordinarie norme di diritto
internazionale sulla responsabilità degli Stati) assumono varie forme a seconda delle situazioni in
cui si trova l’individuo leso. Utili indicazioni sono contenute nei Principi sul diritto alla riparazione.
I principi sono uno strumento privo di valore obbligatorio, ma che stabilisce i parametri di garanzia
più completi in materia.
Essi stabiliscono che, di fronte ad una violazione grave dei diritti umani, la vittima e i suoi familiari
ha diritto ad una riparazione integrale, che comprende la restituzione, il risarcimento, la
riabilitazione, la soddisfazione e le garanzie di non ripetizione.
In presenza di gravi violazioni dei diritti umani, molta importanza assumono le misure di riparazione
non pecuniarie. Una somma di denaro non può bastare da sola a riparare i danni materiali e morali
prodotti in caso di torture, massacri, esecuzioni arbitrarie e sparizioni forzate, che comportano
pesanti conseguenze non solo per la vittima, ma anche per i suoi familiari. Questa constatazione è
stata affermata con convinzione anche dal Comitato contro la Tortura nel suo commento generale
n. 3 del 16 Novembre 2012, ed è presente, seppure con minore enfasi e dettagli, anche nelle
ricordate Linee guida del 2011 per sradicare l’impunità per gravi violazioni dei diritti umani del
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
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A. Né il Patto sui diritti civili e politici né il suo primo Protocollo facoltativo aggiungono disposizioni
in tema di misure di riparazione. Ciononostante, il Comitato dei diritti umani ha sviluppato la pratica
di raccomandare misure di riparazione allo Stato responsabile della violazione. Questo in ragione
della lettura congiunta dell’art. 5, par 4 del Protocollo, che autorizza il Comitato a comunicare allo
Stato interessato ed al ricorrente le proprie osservazioni sul caso, e dell’art 2 par 3, che prevede
genericamente l’obbligo degli Stati parte di assicurare un rimedio effettivo alle vittime di violazioni.
Il comitato ha raccomandato sia misure di natura pecuniaria, senza mai specificare l’ammontare del
quantum dovuto, sia misure di carattere non pecuniario, ad es. l’abrogazione di leggi in contrasto
con il Patto, il rilascio di individui ingiustamente detenuti etc.
Come stabilito dall’art. 101 del regolamento di procedura del Comitato, un relatore speciale è
incaricato di vigilare sull’esecuzione delle misure. Il relatore può raccomandare l’adozione di
ulteriori misure, ma nel regolamento non è specificato in cosa possono consistere.
B. il Potere della commissione africana dei diritti umani, di formulare raccomandazioni circa misure
di riparazione si desume dall’art. 58 della Carta, che prevede che la Commissione, al momento di
trasmettere il proprio rapporto su un caso all’Assemblea dei capi di Stato e di Governo dell’UA,
formuli le proprie raccomandazioni e dalla regola 112, par 2, del regolamento di procedura della
commissione, in base al quale lo Stato dichiarato responsabile di una o più violazioni della Carta
Africana dispone di 180 gg per comunicare alla commissione le misure adottate per eseguire le
raccomandazioni formulate da quest’ultima.
In un primo momento, la Commissione non applicava la disposizione relativa alla raccomandazione
di misure di riparazione. Poi cominciò a raccomandare solo misure pecuniarie, poi anche misure non
pecuniarie (di rilasciare persone ingiustamente private della libertà, di migliorare le condizioni dei
detenuti sottoposti a trattamenti degradanti, di riaprire le indagini su alcune violazioni dei diritti
umani).
C. L’organismo giurisdizionale di tutela dei diritti umani che ha sviluppato la giurisprudenza
maggiormente innovativa e completa in materia di misure di riparazione è la corte interamericana
dei diritti umani, chiamata a dare applicazione all’art. 63 della Convenzione Americana, che dà alla
Corte il potere di ordinare allo Stato di porre rimedio alle conseguenze della violazione e di versare
alla vittima un equo risarcimento.
Le misure di riparazione hanno un carattere obbligatorio per lo Stato. Esse tendono, di solito, a porre
rimedio alla situazione particolare della vittima, a risolvere i problemi strutturali o sistematici che
hanno portato alla violazione dei diritti umani.
La Corte tenta di ripristinare la situazione anteriore alla violazione (restitutio in integrum). Nei casi
in cui la restituzione è impossibile, come in presenza di sparizioni forzate, tortura o esecuzioni
arbitrarie, la Corte ha condannato gli Stati responsabili a corrispondere alla vittima o ai suoi familiari
un risarcimento pecuniario, che coprisse tanto il danno materiale (danno emergente e lucro
cessante), quanto quello morale (danno immateriale), corrispondente alla situazione di
sofferenza e di angoscia o abbandono che essi avevano subito.
Se la corte valuta che lo Stato non ha adeguatamente valutato un caso di violazione dei diritti umani,
ordina a titolo di riparazione l’apertura di un procedimento effettivo volto ad individuare gli autori
materiali della violazione e a ristabilire la giustizia.
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Le misure di riparazione sono poi valutate sulla base del caso concreto. Ampio è il numero di misure
di riparazione che la Corte ha ordinato nella sentenza Comunidad indigena Sawhoyamaxa c.
paraguay (restituzione delle terre ancestrali alla comunità, creazione di un fondo comunitario per
realizzare progetti collettivi in materia di istruzione, sanità, abitazione ed agricoltura, fornitura
gratuita di acqua potabile e medicinali etc..)
In alcuni casi, a titolo di riparazione, la Corte ha condannato gli Stati a realizzare atti pubblici di scuse
e riconoscimento di responsabilità internazionale dello Stato per la violazione dei diritti umani, a
costruire centri di istruzione e a dedicarli alle vittime di violazioni dei diritti umani, a erigere
monumenti in onore delle vittime. Risulta che gli Stati adempiano all’obbligo di risarcire le vittime,
seppure, talvolta, con notevole ritardo. Ma essi si mostrano ben più riluttanti ad adempiere a forme
di riparazione morali, come l’ammissione di responsabilità.
Una giurisprudenza particolarmente articolata in tema di riparazioni è stata elaborata dalla Corte
per i casi di massacri.
Ad esempio, con sentenza in materia di riparazione del 19 Novembre 2004, sul caso Masacre de
Plani de Sanchez c. Guatemala, la Corte oltre al risarcimento pecuniario e all’obbligo di svolgere
un’indagine completa che permettesse di giudicare e sanzionare i responsabili del massacro, ha
ordinato al Guatemala di organizzare un atto pubblico di riconoscimento di responsabilità.
La stessa corte interamericana, che è stata chiamata conoscere diversi casi di sparizione forzata, ha
dedicato particolare attenzione al tema delle misure di riparazione per le violazioni riscontrate. Ad
esempio, nella sentenza del 27 febbraio 2002, resa per il caso Trujillo Oroza c. Bolivia, la corte ha
condannato la Bolivia di adoperarsi in tutti modi per localizzare ed identificare i resti morali dello
spartito e restituirli e familiari, affinché potessero procedere, a spese dello Stato, a dargli degna
sepoltura.
In anni successivi, la corte ha ulteriormente ampliato le misure di riparazione, ordinando, ad
esempio agli stati responsabili, di fornire borse di studio ai figli delle persone fatte sparire, di pagare
un trattamento medico di sostegno ai familiari, di fornire una protezione speciale a coloro che per
le loro denunce sono stati minacciati, di riconoscere tramite le più alte autorità la propria
responsabilità in cerimonie pubbliche.
In virtù di quanto stabilito dall'articolo 51, paragrafo due, della convenzione americana, anche la
commissione Interamericana ha il potere di raccomandare agli Stati le misure necessarie per
rimediare alle violazioni constatate nei propri rapporti e di fissare un termine per il relativo
adempimento.
Anche la commissione fornisce un'ampia interpretazione del concetto di riparazione, come
comprendente tutte le misure volte a garantire una riparazione integrale per le vittime dirette
delle violazioni constatate, per i loro familiari e per la società in generale.
D. L'articolo 41 della convenzione europea consente alla corte EDU di accordare un'equa
soddisfazione alla vittima di una violazione, sia pure soltanto qualora la corte lo reputi necessario e
soltanto qualora il diritto interno dello Stato non consenta una piena riparazione.
La corte europea ha spesso limitato la riparazione ad una somma di denaro.
In alcuni casi, la corte ha addirittura deciso che la propria sentenza bastasse come riparazione per
il ricorrente.
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Il riconoscimento da parte di un giudice di una violazione, cioè di qualcosa che è già implicito nelle
circostanze dedotte in giudizio, (in altri termini, la sola sentenza) non sembra di per sé costituire una
misura sufficiente di riparazione di un torto.
Sta di fatto che, in materia di misure di riparazione, l’atteggiamento della corte europea non sembra
univoco.
Spesso la corte ha posto l'articolo 41 della convenzione europea in relazione all'articolo 46 (valore
obbligatorio ed esecuzione delle sentenze), che attribuisce al comitato dei ministri del consiglio
d'Europa il potere di sorvegliare l'esecuzione delle sentenze della corte.
Secondo la corte, l’obbligo in capo agli Stati responsabili di adottare misure individuali e generali,
che si reputino opportune per rimediare agli effetti delle violazioni commesse, discende
dall'articolo 46 della convenzione ed il suo adempimento è sottoposto alla sorveglianza del
consiglio dei ministri, restando gli Stati interessati liberi, nella loro discrezionalità, di scegliere i
mezzi con i quali adempiere.
La posizione della corte europea è ben diversa da quella della corte Interamericana, che ha spesso
ordinato una serie molto dettagliata di misure di riparazione, senza lasciare allo stato responsabile
alcun margine di discrezionalità. Non è però chiaro perché la corte europea, privandosi di una
competenza che essa potrebbe esercitare, lasci ad uno stato responsabile di violazione dei diritti
umani una scelta discrezionale sui mezzi più appropriati per riparare.
La sorveglianza da parte del comitato dei ministri non colma la lacuna lasciata aperta dalla corte.
Ad esempio, in numerosi casi, la corte ha riscontrato che lo Stato non aveva proceduto ad indagare
su gravi violazioni dei diritti umani, ma non ha ordinato, a titolo di misura di riparazione, di riaprire
le indagini, in tal modo lasciando le vittime della violazione nella discrezionalità dello stato di
procedere o meno ad ulteriori indagini.
Alcuni giudici della corte hanno invocato un cambiamento giurisprudenziale, ritenendo con ben
fondati motivi, che la corte abbia competenza per ordinare come misura di riparazione la riapertura
delle indagini, se nella sua sentenza essa abbia dichiarato che quelle svolte dalle autorità nazionali
erano insufficienti o inadeguate.
In alcuni casi, riguardanti la violazione del diritto di proprietà, la corte ha evidenziato che la migliore
tutela era la restituzione in forma specifica, ma non l'ha ordinata allo stato direttamente. Solo in
alcuni casi più recenti, la corte ha ordinato direttamente la suddetta restituzione.
Vi sono però alcuni casi in cui la corte europea, a conferma del carattere non univoco della sua
giurisprudenza in materia di riparazione, ha direttamente ordinato allo stato responsabile, misure
diverse dal pagamento di una somma di denaro.
In un caso riguardante l'arbitraria carcerazione di un individuo per più di cinque anni, la corte, oltre
a riconoscere al ricorrente una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno subito, ha
ordinato, vista la natura stessa della violazione, la scarcerazione nel lasso di tempo più breve
possibile.
In un caso riguardante un ricorrente che si è ammalato di AIDS a causa di trasfusioni di sangue
infetto avvenute in ospedale, la Corte oltre a riconoscere il diritto ad una somma di denaro, ha
ordinato allo Stato di garantire a vita al ricorrente l'accesso all'assistenza medica gratuita.
In un caso relativo ad un giudice ingiustamente licenziato, la corte ha disposto la tempestiva
reintegrazione nel suo posto di lavoro.
Un orientamento giurisprudenziale della Corte europea mira a limitare i ricorsi-clone, ossia i
ricorsi basati sui identici presupposti di fatto e di diritto. La corte, pur ribadendo di non poter
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emettere sentenze pilota, ha indicato agli Stati quali norme dell'ordinamento andrebbero
introdotte per evitare nuove condanne.
La corte ha demandato al comitato dei Ministri la responsabilità di determinare misure di
riparazione da adottare a fronte di violazione di diritti umani. Visto il ruolo che gli è attribuito dalla
corte, il comitato dei ministri ha adottato il 10 maggio 2006 un insieme di regole di procedura per
la supervisione dell'esecuzione sia delle sentenze della corte, sia della composizione amichevole
della controversia. Nelle stesse regole, il comitato fornisce alcuni esempi di cosa possa intendersi
per "misure individuali", vale a dire: la cancellazione dai casellari penali nazionali di condanne che
sono state dichiarate illegittime, la concessione di un permesso di soggiorno, la riapertura dei
processi a livello nazionale, qualora la corte abbia giudicato insufficienti o non compatibili con i
parametri europei quelli che si sono già svolti.
Per quanto concerne le "misure generali" il comitato menziona la possibile adozione di
emendamenti legislativi o di cambiamenti nella giurisprudenza o nella pratica amministrativa, la
traduzione di una sentenza della corte nella lingua ufficiale dello stato dichiarato responsabile e la
sua diffusione attraverso i principali mezzi di comunicazione.
Il comitato dei ministri ha stabilito un SISTEMA A DOPPIO BINARIO per vagliare l'esecuzione delle
sentenze. Secondo questo sistema, il comitato dei ministri può adottare una procedura d'urgenza
nel controllo dell'esecuzione di quelle sentenza che rivelino l'esistenza di problemi strutturali o
maggiormente complessi nell'ordinamento dello Stato in questione o in qualunque altro caso in cui
lo reputi necessario.
Il comitato stila ogni anno una lista di misure di riparazione adottate dagli Stati.
La corte europea non ho mai ritenuto necessario ordinare allo stato di scusarsi pubblicamente.
6. Le misure cautelari
In taluni casi, durante i procedimenti che riguardano la protezione dei diritti umani, può essere
necessario un intervento urgente del giudice per salvaguardare interessi personali essenziali, in
particolare la vita e l'integrità fisica di individui che rischiano di subire un pregiudizio irreparabile.
Lo strumento di cui dispongono gli organi giudiziari sono le misure cautelari.
Gli organi giudiziari possono obbligare lo Stato ad adottare misure per proteggere la vita e l’integrità
personale di individui che altrimenti rischierebbero di subire un grave danno fisico.
Con le stesse finalità, gli organi giudiziari possono anche ordinare allo stato di non adottare misure
che, se poste in essere, pregiudicherebbero irrimediabilmente l'individuo in questione.
Dalla finalità stessa delle misure cautelari discende l'ovvia conseguenza che esse hanno carattere
obbligatorio. Tali misure, qualora ne ricorrano i presupposti, contribuiscono a realizzare lo scopo
del processo, inteso come strumento di tutela effettiva di diritti e non già come enunciazione di
decisioni, per fatti intervenuti in pendenza del procedimento, che hanno ormai acquisito un
carattere illusorio o accademico.
In un caso, accadde che 2 fratelli tedeschi vennero condannati a morte dagli Stati Uniti, che, in
violazione di quanto previsto da una convenzione posta in essere tra Stati Uniti e Germania,
comunicarono l'arresto dei cittadini alla Germania, non subito, ma solo dopo l'emissione della
sentenza di condanna.
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La Germania allora adì la corte Interamericana, chiedendo tra l'altro l'adozione di una misura di
sospensione della sentenza di condanna. Tale misura fu adottata dalla corte, ma non rispettata dagli
Stati Uniti che procedettero alla condanna capitale.
A. Il comitato dei diritti umani può adottare misure cautelari in ragione della regola 92 del suo
regolamento di procedura.
In un primo tempo, le misure cautelari del comitato non erano considerate obbligatorie, ma
meramente facoltative.
Quest'orientamento fu messo in discussione nel 2002 in un caso che riguardava l'uccisione di un
ricorrente aveva chiesto ed ottenuto la misura cautelare della sospensione della sentenza capitale.
Il comitato invitò lo stato a fornire delle spiegazioni per le quali non aveva proceduto al rispetto
della misura cautelare adottata e chiese allo stato di non ripetere un simile comportamento, visto
che ciò costituiva violazione dell'obbligo generale degli Stati di rispettare le norme del Patto sui
diritti civili e politici.
Nelle osservazioni successive del Comitato, quest'orientamento viene ribadito costantemente.
Nel commento generale numero 31 del 2004, il comitato ha considerato le misure cautelari come
espressione del diritto ad un rimedio effettivo.
Come si può constatare, il comitato, che pure privo del potere di adottare decisioni finali
vincolanti, ritiene che abbiano carattere obbligatorio le misure cautelari che può indicare.
Tale conclusione, che può a prima vista sembrare paradossale è invece pienamente giustificata
dall'obbligo di leale cooperazione degli Stati con il comitato e dal loro conseguente obbligo di non
vanificare una procedura che essi hanno spontaneamente accettato.
Da lettura della regola numero 92, si dovrebbe desumere che le misure cautelari possono essere
adottate soltanto per proteggere da un danno irreparabile all’integrità fisica o alla vita della vittima
della presunta violazione, non anche i familiari del ricorrente o un testimone.
Con il tempo, la regola 92 è stata interpretata in modo estensivo, per cui adesso il comitato può
adottare misure cautelari anche quando non sia a rischio la vita del ricorrente, ma anche un altro
diritto garantito dal patto, come ad esempio la libertà di espressione.
B. Il potere di adottare misure cautelari è attribuito anche alla corte europea dei diritti umani dal
suo regolamento di procedura (regola 39) e non direttamente dalla convenzione europea o da uno
dei suoi protocolli addizionali.
Originariamente le misure cautelari non erano riconosciute come obbligatorie.
La corte cambiò radicalmente orientamento nel 2003.
Si trattava di dover giudicare dei cittadini Uzbechi che erano stati accusati di un attentato
terroristico e che stavano per essere estradati dalla Turchia. Essi sostenevano che qualora fossero
stati estradati, dalla Turchia, sarebbero stati sottoposti ad un grave rischio di violazione del diritto
alla vita, del divieto di tortura, e del diritto ad un equo processo. La corte affermò il valore
obbligatorio delle misure cautelari.
La corte ha affermato che il mancato rispetto delle misure cautelari costituisce violazione
dell'articolo 34 della convenzione europea, a prescindere dal fatto che si verifichi il rischio
prospettato dei ricorrenti, di una violazione di un articolo della convenzione stessa.
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Per cui, nell'ipotesi in cui lo Stato violi la misura cautelare, ma non accada di fatto, quello che il
ricorrente teme, ugualmente il comportamento dello Stato può considerarsi posto in violazione
della convenzione europea.
Come si deduce dalla regola 39 del regolamento di procedura, la richiesta di adozione di misure
cautelari può provenire non solo dal ricorrente ma anche da ogni altra persona interessata.
Le misure possono essere prese d’ufficio da una camera o dal presidente della corte.
Molto ampie sono le nozioni di "Interesse delle parti" o di "svolgimento corretto del procedimento"
che possono determinare l'adozione di misure cautelari.
Nella giurisprudenza della corte europea, la grande maggioranza delle misure cautelari è stata
adottata per evitare l'estradizione o l'espulsione di ricorrenti verso paesi nei quali la vita o l'integrità
personale degli stessi sarebbero state irreparabilmente pregiudicate.
c. Anche la commissione africana dei diritti umani e dei popoli può adottare misure cautelari come
previsto dal suo regolamento di procedura.
La commissione ha affermato il valore obbligatorio delle sue misure cautelari.
Essa segnala nei propri rapporti annuali di ricorrere spesso a misure cautelari che, nella maggior
parte dei casi, riguardano la sospensione di sentenze capitali.
Nel caso in cui uno Stato non adempia alle misure cautelari ordinate dalla commissione africana,
quest'ultima può richiedere l'intervento della corte africana dei diritti umani e dei popoli.
La corte africana può a sua volta ordinare l'adozione di misure cautelari in casi di estrema gravità ed
urgenza per evitare danni irreparabili alle persone coinvolte in un ricorso.
D. Nel sistema Interamericano di protezione dei diritti umani, il ricorso alle misure cautelari è molto
frequente.
Il potere di adottare tali misure è attribuito sia alla commissione sia alla corte.
In base all'articolo 19 del suo statuto, la commissione può chiedere alla corte di adottare misure
provvisorie nei confronti degli Stati parte della convenzione americana in casi gravi ed urgenti non
ancora sottoposti alla corte, quando questo sia necessario per prevenire un danno irreparabile alle
persone.
Nella pratica, la commissione ha esteso l'adozione di misure cautelari anche a casi relativi al rispetto
di diritti umani sollevati nei confronti di Stati non parte della convenzione americana.
Nella prassi, le misure cautelari non riguardano solo la sospensione dell'esecuzione di sentenze
capitali, o di provvedimenti di espulsione o di estradizione, ma misure cautelari sono adottate anche
per proteggere comunità e gruppi o uno o più individui che, per via del loro collegamento con un
caso di fronte alla commissione, hanno subito minacce o attentati o sono plausibilmente a rischio di
vita.
Le misure cautelari possono essere richieste sia dalle parti, sia adottate d’ufficio dalla
commissione e devono essere idonee a prevenire un danno irreparabile alle persone.
Per l'adozione delle misure cautelari si richiede che la situazione sia seria ed urgente.
La commissione ha ritenuto che sia possibile adottare misure cautelari non soltanto per
salvaguardare il diritto alla vita, ma qualsiasi diritto. Misure cautelari sono state adottate per:
evitare danni irreparabili all'ambiente e all'identità culturale, evitare danni irreversibili all'identità
culturale di una popolazione indigena, proteggere la salute dei ricorrenti, sospendere le procedure
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di adozione internazionale di bambini di meno di sei mesi, determinare la condizione giuridica di
persone detenute.
La commissione ritiene che le proprie misure cautelari abbiano natura vincolante e ha più volte
condannato, come inadempimento ad obblighi internazionali, la frequente inosservanza da parte
degli Stati Uniti e di qualche altro Stato di misure da essa ordinate, specialmente nel caso di individui
condannati a morte.
Il carattere obbligatorio delle misure cautelari adottate dalla commissione è stato affermato anche
dalla corte Interamericana, che ha invocato il principio generale di diritto pacta sunt servanda, ed il
dovere di uno Stato parte di rispettare in buona fede gli obblighi derivanti da un trattato, in
particolar modo di protezione dei diritti umani.
Il potere della corte Interamericana di adottare misure cautelari è previsto dalla stessa convenzione
americana.
La previsione all'interno della convenzione del potere della corte di adottare misure cautelari, ha
fatto sì che il carattere vincolante di tali misure non fosse mai messo in discussione.
La corte, come la commissione, ha esteso nel corso degli anni sia l'ambito dei possibili beneficiari
delle misure provvisorie, sia l'ambito delle situazioni nelle quali applicare tali misure: le misure
cautelari che la corte emette possono avere per destinatario anche persone diverse dal ricorrente
che, per via del loro collegamento con un caso o per l'impegno come difensori dei diritti umani
hanno sofferto di minacce di morte e potrebbero essere eliminate.
In più, misure cautelari possono essere dalla corte adottate per proteggere i diritti diversi rispetto
al diritto alla vita.
CAPITOLO III
LA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI DIRITTO ALLA VITA E DI DIVIETO DI TORTURA
1. L’ENUNCIAZIONE DEL DIRITTO
Il diritto alla vita va inteso, prima di tutto, in senso negativo come il diritto di una persona a non
essere uccisa arbitrariamente dallo Stato. Ma esso può essere inteso anche in senso positivo, in
due diversi modi: sia come il diritto di una persona a che lo Stato adotti misure adeguate per
prevenire la privazione arbitraria della vita e per indagare, processare e sanzionare i responsabili,
chiunque si siano, qualora una privazione arbitraria della vita si verifichi, sia come il diritto di una
persona che lo Stato le offre le condizioni per poter vivere un'esistenza degna.
Il diritto alla vita è disciplinato in modo diverso dei vari trattati internazionali.
Alla luce di tali trattati, i casi in cui lo Stato può privare della vita un individuo sono due: pena di
morte ed uso legittimo della forza letale.
A. Secondo l'articolo 2 della CEDU: Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno
può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale
pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena.
La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso
alla forza resosi assolutamente necessario:
(a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale;
(b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta;
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(c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione.
Esso va letto in combinato con quanto disposto dal sesto protocollo addizionale, che vieta la pena
di morte, salva la possibilità dello stato di procedere alla adozione di sentenze capitali in tempo di
guerra, e dal 13º protocollo aggiuntivo che vieta la pena di morte senza eccezione alcuna.
B. Secondo l'articolo 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, la pena di morte è ammessa
solo qualora siano soddisfatte numerosi condizioni che limitano la possibilità di eseguire una
condanna a morte. Il secondo protocollo facoltativo al Patto, successivamente, ha vietato agli Stati
parte del patto di procedere ad esecuzione e li ha obbligati a prendere tutte le misure per abolire la
pena di morte.
C. Secondo l'articolo 4 della convenzione americana dei diritti umani, è ammessa la pena di morte.
Ma, un successivo protocollo aggiuntivo alla convenzione, ha abolito la pena di morte in tempo di
pace.
D. Secondo l'articolo 4 della carta africana dei diritti umani, nessuna deroga al diritto alla vita è
prevista (tuttavia la possibilità di eccezioni, ivi compresa la pena di morte, può essere dedotta
dall'uso di "arbitrariamente").
2. La pena di morte
Nel corso del tempo, sono aumentate le tendenze abolizioniste della pena di morte, ma
ciononostante la pena di morte è ancora prevista in una serie di Stati.
Ci si deve chiedere allora se la pena di morte sia o meno contraria ai diritti umani.
Già nel 1971, l'assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione numero 2857, esprimeva
il desiderio che La pena di morte fosse abolita in tutti gli Stati.
L'assemblea generale si è occupata del tema anche in anni successivi, manifestando profonda
preoccupazione per gli stati che continuano a mantenere l'applicazione della pena di morte,
invitando gli stessi a ridurre progressivamente il novero dei reati, per i quali la stessa è prevista.
Significativi sono i dubbi che sono sorti con riguardo all'efficacia deterrente della pena di morte.
Significativi poi sono i dubbi che si possa procedere all'esecuzione capitale, in modi che non possano
essere considerati trattamenti inumani e degradanti (il divieto di trattamenti inumani o degradanti
è previsto in tutti i Trattati sui diritti umani). Ci si chiede infatti quale sia il modo umano per uccidere
un essere umano.
A. La convenzione europea dei diritti umani ammette la pena di morte (articolo due, paragrafo uno),
subordinandola a ben poche condizioni: Che la persona sia uccisa dopo una sentenza pronunciata
da un tribunale, che il reato sia punito dalla legge con la pena di morte.
Questa gravissima carenza della convenzione europea è inspiegabile a dovrebbe essere corretta con
un emendamento.
È vero che i protocolli aggiuntivi numero sei e numero 13 hanno rispettivamente limitato e vietato
la pena di morte.
E anche vero però che la partecipazione a tali protocolli è facoltativa e vi sono quattro Stati parte
della convenzione che non sono parte del protocollo numero 13 (Armenia, Azerbaijan, Polonia e
Russia) e di e uno Stato parte della convenzione che non è parte della protocollo numero sei (Russia).
Nel caso ocalan c. Turchia, un ricorrente aveva evidenziato alla corte che la pena di morte, prevista
dalla Turchia, era contraria all'articolo tre della convenzione (divieto di trattamenti inumani e
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degradanti). La corte non evidenziò che gli articoli 2 e 3 della convenzione dovevano considerarsi
tra loro incompatibili, ma si attenne strettamente al caso concreto, evidenziando che non possono
essere sottoposti a pena di morte coloro i quali non siano stati processati, nell'ambito di un
procedimento che rispetti le garanzie del giusto processo.
In una sentenza del 2010, la corte è ritornata sul punto stabilendo che, a seguito dell’entrata in
vigore dei protocolli addizionali, è da considerarsi emendato l'articolo due paragrafo uno nel
senso di proibire la pena di morte in tutte le circostanze.
Nel corso degli anni, la corte ha avuto svariate occasioni di trattare il tema della pena di morte sotto
il profilo di una violazione dell'articolo 3 della convenzione ed ha deciso, ad esempio, che gli Stati
non possono procedere ad espulsione o estradizione degli individui, quando nello stato nel quale
verrebbero estradati, essi sono a rischio di trattamenti inumai.
B. Il patto internazionale sui diritti civili e politici (articolo sei) subordina la pena di morte ad un
ampio numero di condizioni: che si tratti della pena prevista per i reati più gravi, che la pena sia
disposta da una norma di legge in vigore al momento in cui il reato è stato commesso, che la pena
sia eseguita dopo l'emanazione di una sentenza definitiva, che la condanna sia stata pronunciata da
un tribunale competente, che sia stato garantito il diritto del condannato di chiedere la grazia o la
commutazione della pena, che la condanna non sia stata pronunciata in contrasto con le disposizioni
del patto stesso etc..
Il comitato dei diritti umani, nel commento n. 6 del 1982, sull'articolo sei del patto, ha osservato che
la disposizione va interpretata nel senso che è comunque auspicabile l'abolizione della pena di
morte.
Nel commento generale numero 20 del 1992, sull'articolo sette del patto, il comitato ha preso
posizione sull'insolubile questione del rapporto tra la pena di morte ed il divieto di trattamenti
inumani e degradanti, sostenendo che, in ogni caso, la pena deve essere eseguita in modo tale da
causare la minore sofferenza fisica e mentale possibile.
Il comitato ha costantemente ritenuto che si verifica una violazione dell'articolo sei, paragrafo due,
in tutti casi in cui la pena di morte è stata imposta seguito di un procedimento nel quale non sono
stati rispettati i parametri dell'equo processo.
Il comitato ha stabilito poi che si verifica una violazione dell'articolo sei, paragrafo quattro, nei casi
in cui la richiesta di grazia o di commutazione della pena non sia stata nemmeno presa in
considerazione.
C. La convenzione americana dei diritti umani (articolo quattro) subordina la pena di morte ad un
insieme di condizioni ancora più ampio di quelle previste nel patto sui diritti civili e politici.
La corte Interamericana dei diritti umani ha stabilito, nel 1983, che gli Stati non possono
reintrodurre la pena di morte, per il reati per i quali era stata abrogata, e non possono ampliare il
numero dei reati sanzionati con la pena di morte.
Nel 2002, la corte ha stabilito che deve esistere proporzionalità tra pena e reato, ed ha sanzionato
uno Stato il quale puniva omicidi di differente gravità, tutti con la pena di morte.
Nel 2005, la corte affrontò il tema del rapporto tra pena di morte ed equo processo, stabilendo che
non si può procedere all'emissione di una sentenza di condanna capitale, quando non sono state
rispettate tutte le garanzie dell'equo processo.
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D. La carta africana dei diritti umani e dei popoli nulla dispone circa la pena di morte, pur vietando
in genere le privazione arbitraria della vita.
La commissione africana dei diritti umani ha avuto svariate occasioni di pronunciarsi su questioni
inerenti la pena di morte.
Si pensi, tra tutti, al caso che riguardava un'ampia serie di violazioni compiuti da attivisti del
"movimento per la sopravvivenza delle popolazioni Ogoni". Un dirigente del movimento fu
arbitrariamente processato e condannato a morte, la commissione adottò una misura cautelare di
sospensione della sentenza di condanna capitale, che però non fu rispettata. La commissione
raccomandò alla Nigeria (Stato che aveva proceduto alla condanna capitale) di abrogare i decreti
che dotavano di poteri eccezionali i tribunali militari e che consentivano un trattamento speciale nei
confronti degli arrestati per generiche ragioni di sicurezza nazionale.
3. Le uccisioni arbitrarie
Esistono casi in cui lo Stato può esercitare legittimamente la forza al fine di uccidere individui; sono
situazioni eccezionali di emergenza, al di fuori delle quali l'uccisione è arbitraria.
Nella pratica, le uccisioni arbitrarie sono effettuate occultamente e se lo Stato viene scoperto, di
norma, tenta di difendersi invocando ragioni di impunità.
Nel quadro delle Nazioni Unite è stato istituito un Relatore speciale su esecuzioni stragiudiziarie,
sommarie o arbitrarie che può, tra l'altro, fare rapporti circa visite effettuate agli stati e mettersi in
contatto con gli Stati dove sono denunciati casi di esecuzioni arbitrarie e chiedere ad essi di prendere
misure preventive o sanzionatorie.
La privazione arbitraria della vita è vietata da tutti i principali trattati di protezione dei diritti umani,
ma è anche condannata numerosi strumenti aventi natura non vincolante, tra i quali, particolare
importanza assumono i Principi sull'effettiva prevenzione ed indagine di esecuzioni stragiudiziarie,
arbitrarie e sommarie, raccomandati con risoluzione 1989/65 del 24 maggio 1989 del consiglio
economico e sociale delle nazioni unite.
A. La convenzione europea, diversamente dagli altri trattati, all'articolo due paragrafo due, fornisce
indicazioni sui casi in cui la privazione della vita tramite uso letale della forza può considerarsi non
arbitraria. Si tratta di quattro situazioni in presenza delle quali l'uso della forza letale risulta
assolutamente necessario per legittima difesa, per l'esecuzione di un arresto legittimo, Per la
prevenzione della fuga di una persona legittimamente detenuta o per azioni legittime di
repressione di sommosse o insurrezioni.
Dall'analisi della giurisprudenza della corte EDU, risulta che l'articolo due paragrafo due è violato
non solo quando lo Stato, tramite propri agenti, ricorre ad un uso letale della forza in casi in cui
questo non è consentito, ma anche quando lo Stato viene meno all'obbligo positivo di proteggere
la vita di un individuo in situazioni in cui, date le circostanze, esista un reale e immediato rischio che
egli possa venire ucciso.
La prima importante sentenza in materia è stata pronunciata nel 1995: si trattava di dover giudicare
un caso nel quale le forze di sicurezza, essendo venuti a conoscenza del rischio di un attentato ed
avendo individuato i possibili sospettati, anziché procedere ad arrestarli, li accerchiarono con
personale in borghese e poi aprirono il fuoco uccidendoli.
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La corte rilevò che l'uso della forza letale va considerato legittimo se necessario per fermare presunti
attentatori ed impedire loro di compiere una strage. Tuttavia, nel caso specifico, avendo riguardo
alle modalità con le quali si era svolto l'intervento delle forze speciali, non si poteva considerare che
un simile uso della forza fosse assolutamente necessario. Le forze armata, infatti, avrebbero potuto
arrestare i possibili futuri attentatori.
I principi fondamentali dettati dalla Corte in materia si possono riassumere in questa maniera:
l'articolo due della convenzione non definisce situazioni in cui lo Stato può infliggere
intenzionalmente la morte, ma indica i casi in cui esso può ricorrere alla forza che può condurre
involontariamente alla morte.
L'elenco delle finalità per le quali è possibile procedere all'uso letale della forza devono essere
interpretate in modo restrittivo: il ricorso alla forza deve essere assolutamente necessario e la forza
utilizzata deve essere strettamente proporzionata al perseguimento di una delle finalità previste
dall'articolo due, tenendo presente le circostanze in cui si trovano gli agenti al momento della
decisione sull'uso della forza.
Ogni Stato membro è tenuto non solo a vietare l'uso arbitrario della forza legale, ma anche a
garantire l'effettività di tale divieto, predisponendo al proprio interno un controllo efficace per
valutare la legalità del ricorso alla forza ad opera dei propri agenti.
In una sentenza, la corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia perché un agente della
polizia italiana, per effettuare l'arresto di un cittadino albanese, aveva sparato un colpo ed aveva
ucciso il cittadino che stava fuggendo. La corte ritenne violato l'articolo due della convenzione in
quanto l'agente di polizia non aveva alcun motivo per ritenere che il cittadino albanese
rappresentasse un pericolo per la vita o l'integrità altrui ed il ricorso ad armi da fuoco non era quindi
assolutamente necessario.
Nel corso degli anni, la corte europea ha chiarito che, pur non essendo possibile imporre agli Stati
in modo generico ed indefinito, un obbligo di protezione del diritto alla vita di tutti gli individui
sotto la loro giurisdizione, tale obbligo sussiste quando vi siano elementi che permettano di
identificare con sufficiente certezza un rischio di vita e le persone che potrebbero esserne colpite.
La corte non ritenne violato l'articolo due, paragrafo due, dalla Russia, quando nel 2002 le forze
armate russe pomparono nel sistema di ventilazione di un edificio, che era stato occupato da 40
terroristi ceceni, che avevano preso in ostaggio oltre 900 persone, del gas tossico, che fu la causa di
morte di un gran numero di persone, per complicazioni respiratorie. La corte considerò sussistente
l'esimente della difesa di persone da violenza illegale.
In alcune sentenze, la corte ha distinto un profilo sostanziale da un profilo procedurale dell'articolo
due, paragrafo due: si ha una violazione procedurale, quando le autorità statali non indagano e
ricercano i responsabili della privazione arbitraria della vita di un individuo.
L'aspetto procedurale dell'articolo due, paragrafo due della convenzione, venne ritenuto violato nel
caso Giuliani contro Italia. Si trattava di decidere sull'uccisione di Carlo giuliani da parte di un agente
delle forze dell'ordine italiane nel corso di una manifestazione svoltasi a Genova nel 2001,
degenerata in gravi episodi di violenza. L'aspetto procedurale dell'articolo due della convenzione
venne ritenuto violato perché le indagini svolte dalle autorità italiane avevano presentato gravi
lacune. Tale sentenza fu poi ribaltata dalla grande camera, che ritenne insussistente sia la violazione
del profilo procedurale che del profilo sostanziale dell’art. 2, par 2, della Convenzione.
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B. L’articolo 6, par.1, del Patto sui diritti civili e politici prevede, in generale, che nessuno deve essere
arbitrariamente privato della vita.
Il comitato ha dato un significato concreto al concetto di privazione arbitraria della vita e ha
determinato in quali circostanze eccezionali l'uso letale della forza è giustificabile.
Le osservazioni rese dal comitato il 31 marzo 1982 sul caso Pedro Pablo Camargo contro Colombia
riguardavano un’operazione speciale condotta nel 1978 in un'abitazione privata di Bogotà da
membri delle forze armate colombiane per liberare una persona sequestrata alcuni giorni prima da
un gruppo di guerriglieri. Non trovando il sequestrato, i militari decisero di nascondersi in casa e di
attendere l'arrivo degli inquilini che erano sospettati del rapimento. Gli inquilini furono uccisi, ma
risultarono estranei, successivamente ed a seguito delle indagini, al rapimento. Il comitato ha
dichiarato la violazione dell'articolo sei, paragrafo uno del patto, essendo stata l'azione degli agenti
sproporzionata rispetto alle esigenze di tutela della legge nelle circostanze del caso.
Il comitato si trovò ad affrontare nel 2002 un caso di un avvocato che si occupava della difesa delle
persone impiegate in attività sindacali nella regione dell'Urabá. A seguito di numerose minacce,
l'avvocato aveva effettuato delle denunce e chiesto ripetutamente interventi di protezione da parte
delle autorità colombiane, che non arrivarono. Dopo essere stato oggetto di un tentativo di
omicidio, l'avvocato fece ricorso contro lo Stato della Colombia e il comitato dei diritti umani accolse
la sua tesi, sostenendo che lo Stato non aveva adottato le misure di protezione necessarie.
C. L'articolo quattro della convenzione americana dei diritti umani segue la stessa sintetica formula
secondo cui nessuno può essere arbitrariamente privato della vita.
La giurisprudenza della corte Interamericana è stata estremamente ricca. La corte ha evidenziato la
necessità che sussistano le seguenti condizioni affinchè uno Stato possa legittimamente esercitare
in maniera letale la forza:
1.assoluta necessità del ricorso alla forza legale,
2.proporzionalità nell'intervento che richiede l'uso della forza,
3. assenza di premeditazione (che richiede che l'uso della forza sia esercitato dall’agente dello Stato,
in modo immediato e contestuale ad una aggressione o ad una resistenza subita)
4.legittimità dell'obiettivo perseguito e autorizzazione della legge all'impiego della forza.
Nel 1998, la corte Interamericana si trovò a dover giudicare dell'uccisione di sei persone, in
Guatemala, le quali erano state arrestate senza mandato, torturate e poi uccise, in ragione
dell'accusa di essere trafficanti di droga. La corte ricordò i particolari criteri probatori vigenti nel
contesto di un tribunale di diritti umani, che sono diversi da quelli applicati da un organo giudiziario
interno. Perché si abbia una violazione, è sufficiente, secondo la Corte, dimostrare che vi sia stato
appoggio o tolleranza da parte dello Stato, senza che sia necessario identificare i presunti
responsabili e dimostrare in giudizio la loro colpevolezza. La corte ritenne il Guatemala
responsabile per un comportamento che corrispondeva alla abituale condotta criminosa tenuta da
membri di un gruppo militare.
In una sentenza del 2006, la corte prese in esame un’uccisione arbitraria conseguente al
reclutamento forzato di un minorenne in Paraguay. Il giovane minorenne, arruolato su consenso dei
genitori, aveva tentato numerose volte di scappare dalla caserma ed era stato più volte sottoposto
a tortura ed in seguito ucciso. La corte accertò la violazione del diritto alla vita ed evidenziò l’obbligo
dello stato di indagare su esecuzioni arbitrarie, sostenendo che tale obbligo discende dalla lettura
combinata dell'articolo 4 con l'articolo 1, paragrafo uno, della convenzione americana.
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In un caso del 2007 la corte ribadì l’obbligo dello stato di adottare un chiaro quadro legislativo che
regolamenti l'uso della forza da parte dei corpi armati dello Stato.
In una sentenza del 2007, la corte Interamericana ha affermato chiaramente che l'articolo quattro
della convenzione americana impone allo Stato l'obbligo di svolgere d’ufficio, rapidamente ed in
modo imparziale e indipendente un'indagine efficace e volta ad accertare le cause della morte di un
individuo e l'identità dei responsabili, anche qualora essi non siano agenti dello Stato.
D. Secondo l'articolo quattro della carta africana sui diritti umani e dei popoli, nessuno può essere
arbitrariamente privato il diritto alla vita.
Anche la carta, come la convenzione Interamericana ed il patto, non specifica in quali casi una
privazione della vita possa considerarsi arbitraria.
I MASSACRI.
Con la parola massacro, la corte Interamericana e, più recentemente, la corte europea,
denominano i casi in cui si verifica una pluralità di esecuzioni arbitrarie contestuali, caratterizzate
dal particolare livello di crudeltà con cui sono perpetrate, tramite operazioni che comportano
l'uso massiccio ed ostentato della forza, in concorso con altre condotte che rappresentano
violazioni di vari altri diritti umani.
I massacri sono violazioni di diritti umani particolarmente odiose, per le modalità con cui sono
commesse e per i fondamentali diritti individuali e collettivi che sono calpestati, nel privare con
brutalità della vita indiscriminatamente bambini, donne e uomini.
Oltre alle vittime dirette il massacro colpisce a volte un'intera comunità.
Pur essendo tutti i massacri caratterizzati dalla stessa brutalità, indipendentemente dal luogo nel
quale si verificano, le corti dei diritti umani si sono mostrate discordanti.
A. La corte Interamericana è l’organo giudiziario che ha sviluppato la giurisprudenza più completa
sul tema dei massacri.
In un primo momento, la corte non ha considerato i massacri in quanto tali, come unica fattispecie,
ma ha valutato singolarmente le violazioni commesse, quali atti di tortura, sparizioni forzate ed
esecuzioni arbitrarie.
Successivamente, a partire dal 2004, la corte ha seguito un diverso orientamento.
Il caso dal quale trae origine la sentenza del 2004 riguardava il massacro, in un villaggio in
Guatemala, di una comunità Maya.
La corte dichiarò che gli atti commessi dal Guatemala rientravano in una pratica di massacri che
colpivano gravemente le popolazioni Maya nella loro identità e nei loro valori, determinando una
responsabilità aggravata dello Stato, di cui la corte avrebbe tenuto conto al momento della
determinazione delle misure di riparazione.
In una sentenza del 2005, la corte si trovò a dover giudicare del massacro di Moiwana, risultato di
un'operazione speciale anti-guerriglia svoltasi il 29 novembre 1986. Vennero uccise 39 persone, in
prevalenza donne, anziani e bambini. La corte si limitò ad osservare che le violazioni costituivano un
vero e proprio massacro. Anche in questo caso, la corte dispose a un considerevole insieme di
misure di riparazione a carico dello Stato (Suriname è il nome dello stato).
Nel 2015, la corte giudicò il massacro di un villaggio in Colombia, dove i paramilitari restarono per
cinque giorni devastando tutto quello che incontravano e dando fuoco a qualsiasi abitazione.
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Le truppe torturarono, smembrarono, sventrarono e sgozzarono 49 abitanti fra cui alcuni bambini.
La corte dichiarò la Colombia responsabile del massacro.
B. Le pronunce nelle quali la corte europea dei diritti umani ha trattato casi qualificati
espressamente come massacri sono recenti e geograficamente limitate a fatti imputabili all'azione
delle forze armate della Russia, durante il conflitto ceceno.
In altri casi, spesso in occasione di bombardamenti aerei, la corte non ha utilizzato il termine
massacro, probabilmente perché le uccisioni non erano state accompagnate contestualmente da
altre gravi violazioni dei diritti umani, quali tortura o saccheggi.
I casi nei quali la corte europea dei diritti umani riconobbe la sussistenza di un massacro furono:
quando le forze armate russe sferrarono un’offensiva militare per prendere il controllo di Grozny e
quando le forze armate russe attaccarono il sobborgo di Novye Aldy.
C. A differenza della corte Interamericana e della corte europea, la commissione africana ed il
comitato dei diritti umani, pur avendo conosciuto di varie situazioni che potevano considerarsi
massacri, li hanno sempre trattati in modo generico come "esecuzioni arbitrarie" e non ne hanno
dedotto alcuna particolare conseguenza giurisprudenziale né a livello di onere della prova, né a
livello di misure di riparazione.
5. LE MORTI IN CUSTODIA
Una persona privata della libertà, che si trova in stato di arresto o sta scontando una pena in una
struttura detentiva, dipende interamente dalle autorità di polizia o carcerarie. Sono queste che si
occupano della sua alimentazione, del suo stato di salute e della sua vita quotidiana. E’ quindi lo
Stato che assume integralmente la responsabilità di garantire il diritto alla vita di coloro che sono
privati della libertà.
Questo implica non solo che non devono avvenire privazioni arbitrarie della vita (Obbligo negativo),
ma anche che lo Stato deve adottare tutte le misure necessarie per rendere possibile il
sostentamento delle persone in custodia e per provvedere al loro stato di salute, attivandosi
prontamente qualora vengano riscontrati dei rischi o dei problemi (Obbligo positivo).
A. Il comitato dei diritti umani ha adottato alcune interessanti osservazioni riguardanti casi di
individui deceduti mentre erano detenuti.
Nel 1982, in un caso che riguardava un soggetto detenuto in Uruguay che aveva scontato la sua
pena, ma che non era stato rilasciato, che ad un certo punto sparì e fu trovato morto qualche giorno
dopo, il comitato dichiarò violato l'articolo 6 del patto e raccomandò all'Uruguay, oltre al pagamento
di un risarcimento alla famiglia, di svolgere adeguate indagini che portassero a determinare con
precisione le cause della morte del detenuto.
Nel 2002, il comitato giudicò responsabile la Russia per la morte di un detenuto, morto nel giro di
due mesi dalla reclusione. Si scoprì che il centro di detenzione versava in condizioni igieniche
pessime: vi era uno stato di pesante sovraffollamento ed i detenuti non ricevevano cibo
regolarmente, ne avevano facile accesso alle cure mediche. Il comitato dichiarò responsabile la
Russia per violazione dell'obbligo di prendersi cura della vita dei detenuti.
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Nel 2007, il comitato dichiarò la responsabilità del Camerun per la morte di un detenuto, per il quale
la magistratura aveva adottato l'ordine di scarcerazione. Le condizioni del centro di detenzione
erano pessime e furono la causa della morte del detenuto.
B. Nella giurisprudenza della corte Interamericana si può ricordare la sentenza resa il 18 settembre
2006, per un caso che riguardava un ragazzo di 17 anni che fu arrestato e morì a causa di un trauma
cranico provocato al ragazzo il giorno dopo la detenzione.
La Corte interamericana giudicò l’Honduras colpevole per la “pulizia sociale” che venne fatta e che
provocò la morte di minori, che avevano formato bande giovanili, con situazioni familiari e sociali, a
rischio.
C. Sentenze riguardanti morti in custodia sono state emesse anche dalla corte europea a partire dal
2000 e va purtroppo riscontrato che vi è un aumento delle stesse.
Sì affermato il principio di responsabilità aggravata degli Stati nei confronti di persone che sono
totalmente sottoposte alla autorità.
Le autorità sono chiamate ad adottare misure preventive, configurate come obblighi positivi, per
preservare la vita di coloro che sono stati privati della libertà.
Nel 2000, la corte giudicò responsabile la Bulgaria per la morte di un uomo, che arrestato per un
furto, morì dopo 12 ore dal suo arresto. La corte, valutati i lividi e le lesioni che l'uomo presentava,
ritenne responsabile lo Stato, perché lo Stato che deve mantenere in buona salute le persone
arrestate.
In una sentenza del 2000, considerò responsabile la Turchia per la morte di un uomo appartenente
alla PKK, che si uccise impiccandosi.
D. Anche la commissione africana dei diritti umani e dei popoli ha affermato l'esistenza di particolari
obblighi di tutela da parte dello Stato nei confronti delle persone in custodia. Qualora una di queste
persone venga trovata senza vita, incombe alle autorità statali di provare che sono state adottate
tutte le misure possibili per prevenire il decesso e che agenti statali non siano coinvolti.
6. SPARIZIONI FORZATE
Il concetto di sparizione forzata, in quanto violazione di diritti umani, è caratterizzato da tre
elementi positivi: privazione della libertà di un uomo (qualunque forma tale privazione assuma, sia
essa un arresto, un sequestro una detenzione e così via), da parte di agenti di stato o persone o
gruppi di persone che agiscono con l'autorizzazione, l'acquiescenza o la tolleranza dello Stato (ad
esempio, i cosiddetti gruppi paramilitari, composti di persone che vengono addestrate e armate
direttamente dallo Stato), che sia seguita dal rifiuto da parte delle autorità di riconoscere che la
stessa abbia avuto luogo, nonché dal rifiuto di fornire informazioni sulla sorte della vittima e sul
luogo dove questa, viva o morta, si trovi, con la conseguenza di porre la vittima al di fuori della
protezione della legge.
L'elemento del rifiuto di informazioni distingue la sparizione forzata dal sequestro di persona a fine
estorsivo. Nel caso di sequestro, coloro che hanno privato la vittima della libertà si pongono in
contatto con i familiari della stessa e chiedono il pagamento di un riscatto. Nel caso di sparizione
forzata invece la sorte della vittima è ignota.
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Nella sua complessità, la sparizione forzata di persone non si limita alla violazione del diritto alla
libertà personale, ma implica necessariamente anche la violazione di diversi altri diritti umani quali,
ad esempio, il diritto alla vita, il divieto di tortura, il diritto al riconoscimento della personalità
giuridica…
La pratica generalizzata di sparizioni forzate è stata introdotta nei territori dell'Europa orientale
occupati dalla Germania da un decreto del 7 dicembre 1941 voluto da Hitler. Hitler capì che è meglio
fare sparire piuttosto che condannare a morte gli avversari.
A fronte di una violazione dei diritti umani tanto grave e diffusa, le risposte a livello di strumenti
giuridici internazionali sono state la dichiarazione per la protezione di tutte le persone contro le
sparizioni forzate (1992), la convenzione Interamericana contro la sparizione forzata (1994) e di
recente la convenzione per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata.
A. Il comitato dei diritti umani ha enunciato l'obbligo degli Stati di prevenire e sanzionare la
sparizione forzata nel commento generale numero sei del 1982.
In una decisione del 1982 il comitato sanzionò l'Uruguay per aver fatto sparire Eduardo Bleier, il cui
nome era stato aggiunto ad una lista di prigionieri di cui veniva data lettura una volta settimana in
una caserma di Montevideo. Il comitato concluse che la vittima era detenuta clandestinamente o
era morta mentre si trovava privata della libertà.
Affermò il fondamentale principio dell'inversione dell'onere della prova per quanto riguarda la
trattazione dei casi di sparizione forzata di fronte a meccanismi internazionali di protezione dei
diritti umani. Nei casi di sparizione forzata di persona, anche i familiari della persona scomparsa
sono vittime di una violazione da parte dello Stato del divieto di trattamenti inumani degradante.
Il comitato condannò lo Stato a pagare una somma di denaro e a che si attivasse immediatamente
a localizzare lo scomparso.
Il comitato, nel 1994, condannò anche la Libia perché i servizi segreti avevano fatto sparire un uomo.
Una volta che l'uomo viene localizzato le autorità libiche spiegarono che non era mai stata formulata
un'accusa nei confronti dell'uomo, ma egli era stato trattenuto per circa quattro anni per "controlli
di routine"!
Il comitato ha spesso concluso che la sparizione forzata implica una violazione del divieto di tortura
e di trattamenti inumani e degradanti.
Il 3 aprile 1995, il comitato si è per la prima volta occupato di un particolare tipo di sparizione, ossia
l'appropriazione di figli nati da donna fatta sparire a forzatamente (caso Monaco contro
Argentina). Il ricorso veniva presentato la signora monaco, che lamentava violazioni sofferte da lei
e dalla nipote, che era stata fatta sparire con la madre nel febbraio 1977 all'età di nove anni. Ad
occuparsi ostinatamente della ricerca della donna e di sua figlia fu la nonna che conosceva
perfettamente la pratica del dare in adozione i figli delle persone fatte sparire. La nonna localizzò
la nipote e tramite l'esame del DNA si riuscì a scoprire la sua vera identità.
Il comitato evidenziò la natura permanente del reato di sparizione forzata, pertanto in molti casi
respinse l'eccezione di incompetenza ratione temporis, quando il reato era stato commesso al
tempo in cui il comitato non poteva giudicare delle violazioni commesse da quello specifico stato.
B. La corte Interamericana adottò la prima sentenza in materia di sparizione forzata nel 1988.
Condannò l'Honduras per la sparizione di uno studente universitario, che era stato prelevato da
sette membri della divisione antiterrorismo dei servizi segreti dell'Honduras. La corte invertì l'onere
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della prova ed applicò criteri speciali di valutazione dei fatti dedotti in giudizio, evitando i formalismi
e considerando la difficoltà nella quale vengono a trovarsi I familiari delle persone fatte sparire
forzatamente, per provare l'esistenza di tale reato.
Nel 1998, la corte, per la prima volta, condannò il Perù che aveva fatto sparire una persona, oltre
che al risarcimento del danno, anche a compiere un'indagine effettiva ed imparziale sulla
sparizione forzata.
Anche la corte interamericana evidenziò la natura permanente del reato di sparizione forzata, ed in
molti casi respinse l'eccezione di incompetenza ratione temporis, quando il reato era stato
commesso al tempo in cui il comitato non poteva giudicare delle violazioni commesse da quello
specifico stato.
Anche la corte interamericana si occupò del caso di bimbi di madri fatte sparire date in adozione e
nel caso Gelman c. Uruguay, evidenziò la particolare gravità del reato in parola, dettata anche dal
fatto che la separazione dai genitori naturali, pone a repentaglio la sopravvivenza e il diritto allo
sviluppo del minore.
C. La corte EDU si è pronunciata per la prima volta nel 1998, sul caso Kurt c. Turchia.
Era accaduto che il figlio della ricorrente era sparito dopo essere stato arbitrariamente detenuto da
parte le autorità turche. A differenza di quanto avviene di fronte alla corte Interamericana e dal
comitato i detti umani, che presumo la sussistenza di una violazione dell'articolo che proibisce la
tortura e di trattamenti inumani e degradanti anche nei confronti delle vittime dirette di spedizione
forzata, la corte europea non si avvale di questa presunzione. Al contrario, qualora lamentino una
violazione dell'articolo tre della convenzione nei confronti la persona scomparsa, i ricorrenti sono
chiamati dalla corte a provare "al di là di ogni ragionevole dubbio” che il proprio familiare abbia
subito tortura o trattamenti inumani e degradanti.
È inaccettabile che la corte abbia richiesto ai familiari questo onere della prova, giacché la
caratteristica della sparizione forzata sta proprio nel fatto che i familiari sono deliberatamente
privati dallo Stato di ogni informazione sul loro congiunto.
In decisioni successive, la corte arrivò a soluzioni differenti, ma anziché ammettere che i criteri
utilizzati nella decisione sul caso Kurt non erano appropriati, si è imbarcata in una traballante
disquisizione sulle differenze che intercorrevano tra i casi analizzati ed il caso kurt.
Destò molto stupore, la sentenza adottata dalla Corte nel 2000, nella quale la corte stabilì che si
poteva presumere il reato di sparizioni forzate quando era trascorso un periodo molto lungo di
tempo dalla privazione della libertà della vittima. La dottrina ha messo in rilievo però che non è
opportuno basare le regole dell'onere della prova sulla distanza di tempo intercorsa tra il ricorso e
la privazione di libertà, giacché non esiste una soglia di tempo che sia per sua natura lunga,
appropriata o sufficiente a dimostrare la colpevolezza dello Stato per la sparizione forzata.
In taluni casi, la corte europea ha dichiarato violato l'articolo due della convenzione sotto il profilo
procedurale, quando, dopo la sparizione di uomini, lo Stato non ha proceduto a svolgere indagini
serie ed adeguate per ritrovare l'uomo o individuare i colpevoli.
D. Nel contesto africano, ad oggi non esiste alcuna decisione della commissione dei diritti umani e
dei popoli che analizzi dettagliatamente casi di sparizione forzata.
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Il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite contro le sparizioni forzate ha dichiarato il proprio sospetto
di trovarsi di fronte ad un fenomeno di "sotto-documentazione" del reale numero delle vittime di
sparizione forzata in africa.
7. L’ABORTO
L'aborto è una pratica che potrebbe essere intesa come una lesione del diritto alla vita, perpetrata
o tollerata dallo Stato.
La convenzione americana menziona l'obbligo di proteggere la vita dal momento del concepimento
(articolo quattro paragrafo uno). La questione dell'aborto è poi stata affrontata dal protocollo della
carta africana relativa ai diritti della donna in Africa, che all'articolo 14 obbliga le parti ad autorizzare
l'aborto in determinati casi, come lo stupro o le situazioni a rischio per la salute della donna.
Dalla giurisprudenza degli organi internazionali emerge che il tema dell'aborto è stato discusso sotto
due diversi profili: come tutela del diritto alla vita della madre e come tutela del diritto alla vita del
feto.
A. Il comitato dei diritti umani ha dichiarato svariate volte la propria preoccupazione per il
collegamento tra le leggi restrittive in tema di aborto, da un lato, e gli aborti clandestini e le minacce
alla vita delle donne, dall'altro.
Ad esempio, il comitato ha notato che il divieto di aborto non può essere assoluto e che devono
essere introdotte eccezioni, considerando che molte donne si vedono costrette a ricorrere ad aborti
illegali che mettono in pericolo la loro vita.
Ha ritenuto che lo Stato deve tutelare il diritto alla vita e che sanzionare le donne che decidono di
interrompere la loro gravidanza, anche nei casi in cui la vita della donna non sia rischio, è
incompatibile con il diritto alla vita della madre.
In un caso, nel 2005, il comitato si trovò a dover giudicare della vicenda di una donna che, sotto
consiglio del medico, doveva procedere ad un aborto terapeutico, ma che non ottenne il permesso
del direttore sanitario. Partorì un figlio senza encefalo che morì dopo quattro giorni. In questi
quattro giorni la madre fu costretta ad allattarlo al seno. Dopo la morte del bimbo la donna cadde
in depressione. Il comitato dichiarò la violazione da parte del Perù Del divieto di trattamenti inumani
e degradanti.
B. La commissione europea ha scartato un'interpretazione del diritto alla vita che porta a privilegiare
la tutela della vita del feto rispetto a quella della madre.
Nel 2004, la corte europea esposte alcune considerazioni sul problema della determinazione del
momento a partire dal quale la convenzione europea tutela la vita (dalla nascita o dal
concepimento). La corte evidenzia che a livello europeo non vi è concordanza sulla condizione
giuridica da attribuire al feto: solo alcuni stati hanno ritenuto opportuno riconoscere al feto una
protezione giuridica e la titolarità di diritti civili.
La corte non ha preso una posizione netta su un tema così delicato e ha dichiarato che il diritto alla
vita del feto è strettamente connesso a quello della madre.
In un caso del 2007, la corte europea ha dovuto giudicare della vicenda di una donna che non aveva
potuto ottenere il permesso per abortire, nonostante il parto la avrebbe posta dinanzi un serio
rischio di perdere la vista. La corte ritenne che quanto patito dalla ricorrente non potesse
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considerarsi un trattamento inumano, ma valutò il diritto polacco in materia di aborto, constatando
che la previsione di sanzioni penali potevano avere un effetto paralizzante sui medici al momento
di decidere sull'opportunità di un aborto terapeutico e aggiunse che è uno Stato, che decide di
ammettere l'aborto, non può strutturare la propria legislazione in modo che venga di fatto limitata
la possibilità di ricorrere a tale pratica.
C. La compatibilità dell'aborto con il rispetto della vita del feto è prevista all'articolo quattro della
convenzione americana, che espressamente sancisce la protezione della vita "in generale, dal
momento del concepimento".
Non esistono però ad oggi sentenze della corte Interamericana dei diritti umani in materia di aborto.
In materia di aborto interviene la commissione dei diritti umani Interamericana, in un caso che
riguardava la assoluzione da parte la corte giudiziaria suprema del Massachusetts di un medico
accusato di omicidio per aver praticato un aborto su una diciassettenne. Si trattava di valutare la
compatibilità della soluzione con l'articolo uno della dichiarazione americana dei diritti e dei doveri
dell'uomo, che dichiara il diritto alla vita, senza precisare ulteriormente da che momento esso si
debba considerare garantito. La commissione accerta che la maggioranza degli Stati che avevano
redatto la dichiarazione si erano opposti all'ipotesi di proteggere la vita dal momento del
concepimento. Questo permise alla commissione di respingere la tesi dei ricorrenti, per cui l’aborto
deve essere considerato sempre vietato, che erano membri di una sezione anti-abortista.
Malgrado il rapporto della commissione, sembra difficile intendere l'articolo quattro della
convenzione americana in un senso totalmente contrario al suo tenore letterale, e cioè come una
norma che consente l'aborto, giacché la norma tutela la vita dal momento del concepimento.
8. L’EUTANASIA
Né il patto internazionale sui diritti civili e politici, né la convenzione europea, né la convenzione
americana, né la carta africana fanno riferimento al tema dell'eutanasia.
A. Il comitato dei diritti umani ha affrontato il tema dell'eutanasia nel 2001, poiché nei Paesi Bassi
stava entrando in vigore una legge sulla eutanasia e sul suicidio assistito. Il comitato ha chiarito che,
ferma restando la discrezionalità di ciascuno Stato in materia, esistono dei criteri di riferimento.
Innanzitutto, uno Stato deve ricorrere a parametri di estrema chiarezza e comprensibilità nella
determinazione dei casi in cui i medici che pongono fine alla vita di un paziente non siano punibili.
Secondo il comitato, la legge olandese che prevedeva genericamente la depenalizzazione dei medici
che praticassero eutanasia non garantiva la necessaria tutela del paziente in situazioni ove fosse
stata esercitata una indebita pressione nei confronti del paziente da parte dei familiari.
B. La corte europea dei diritti umani ha affrontato il problema dell'eutanasia e del suicidio assistito
nel 2002. Si trattava di dover giudicare il caso di una cittadina britannica di 43 anni affetta da una
incurabile malattia al sistema nervoso che, in ragione del fatto che in Gran Bretagna vigeva il reato
di suicidio assistito, si era rivolta alle autorità britanniche chiedendo che, tenuto conto delle
circostanze eccezionali del caso, le venisse garantito che, qualora il marito avesse eseguito la sua
volontà di essere uccisa, il pubblico ministero avrebbe rinunciato all'esercizio dell'azione penale nei
suoi confronti. Questa richiesta viene respinta. La corte europea decise che non vi era violazione
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dell'articolo 2 della Convenzione, da parte del Regno Unito, ritenendo che lo Stato ha il dovere, in
conformità con le disposizioni della convenzione europea, di non privare della vita coloro che sono
sottoposti all'autorità e di porre in essere disposizioni penali che costituiscano efficace deterrente
contro la commissione di reati contro la persona. Per la corte, l'articolo due non prevede un diritto
di autodeterminazione, nel senso che lo Stato debba consentire ad una persona di scegliere
autonomamente se privarsi o meno della vita.
La corte respinse anche la richiesta di violazione dell'articolo tre, ritenendo che dalla lettera di
questa disposizione non potesse discendere un obbligo dello stato di impegnarsi a non sanzionare
il marito della ricorrente o di modificare la propria legislazione.
Nel 2011 la corte ha adottato un'altra sentenza che riguardava la compatibilità dell'eutanasia con la
convenzione europea. La corte europea, in tale sentenza, disse che è un diritto degli individui quello
di decidere in quale modo e in che momento porre fine alla propria esistenza, posto che la persona
è in condizione di formulare liberamente la propria volontà in merito. La corte si chiese se lo Stato
abbia un obbligo positivo di mettere in atto le misure necessarie per garantire un suicidio degno e
risposta che si diede è che le autorità nazionali hanno l'obbligo di impedire ad un individuo il suicidio
qualora tale decisione non sia stata formulata liberamente e con coscienza di causa.
La corte ha ribadito che la convenzione europea dev'essere interpretata alla luce dei tempi e che
non vi è una concordanza a livello degli Stati membri del consiglio di Europa in materia di suicidio
assistito.
9. IL DIRITTO A NON ESSERE SOTTOPOSTO A TORTURA O A TRATTAMENTI INUMANI O DEGRADANTI.
Secondo l'articolo tre della convenzione europea dei diritti umani: nessuno deve essere sottoposto
a tortura o a trattamenti inumani o degradanti.
Secondo l'articolo sette del patto internazionale sui diritti civili e politici: nessuno deve essere
sottoposto a tortura o trattamenti inumani o degradanti. In particolare, nessuno deve essere
sottoposto senza il suo consenso a sperimentazioni mediche o scientifiche.
Nello stesso senso, si esprimono l'articolo cinque della convenzione americana dei diritti umani e
l'articolo cinque della carta africana dei diritti umani e dei popoli. In tutti questi strumenti è previsto
un divieto assoluto di tortura e trattamenti e pene inumani e degradanti.
Il carattere inderogabile del divieto di tortura è stato chiaramente affermato nel caso Furundja,
con la conseguenza che gli Stati non solo sono obbligati a proibire sanzionare tale pratica, ma
anche a prevenirla, adottando tutte le misure a questo necessarie.
Le ragioni per le quali, in una società civilizzata e degna di essere chiamata democratica la lotta ai
reati deve essere svolta nel rispetto dei diritti umani, in particolare del rispetto del divieto di tortura
e trattamenti inumani degradante sono bene chiarita dalla corte Interamericana dei diritti umani in
un caso del 2005.
Ciononostante, come risulta dalle pronunce che esistono sul tema, sono frequenti i casi in cui gli
Stati non rispettano il fondamentale divieto di tortura.
10. LA DEFINIZIONE DI TORTURA
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Non esiste una lista di trattamenti che cadono sotto il divieto di tortura e neppure sarebbe possibile
redigerla, dato che l’accertamento sull’esistenza di violazioni di tale divieto va fatto caso per caso,
a seconda della natura, dello scopo e della gravità del trattamento inferto e della condizione
personale di chi lo subisce.
Tristemente celebri sono stati dei memoriali nei quali due consiglieri degli Stati Uniti sì sono profusi
in disgustose argomentazioni pseudo-giuridiche al fine di giustificare le tecniche di interrogatorio
praticate su sospetti terroristi.
Essi hanno sostenuto che la tortura comprende soltanto quelle pratiche che determinano un acuto
dolore che si traduce in un grave danno fisico, come la perdita di un organo, la menomazione di una
funzione corporale o anche la mutilazione o che determinano un danno mentale che duri per mesi
o anche per anni.
Il 22 gennaio del 2009 il presidente degli Stati Uniti ha ripudiato tutti memoriali redatti nel periodo
dal 2002 al 2009, da tutti i consiglieri giuridici del governo americano sul tema dell'interrogatorio di
detenuti, dichiarando però successivamente che non sarebbero stati perseguiti in sede penale gli
autori dei memoriali né coloro che avevano messo in pratica le tecniche descritte, nel convincimento
che fossero legali.
I famigerati memoriali suscitano evidenti riflessioni sul ruolo che i medici e di giuristi dovrebbero
svolgere di fronte al baratro della tortura.
Si può anche aggiungere che tutti coloro che praticano la tortura ormai sono ben consapevoli della
ripugnanza morale e dell'indiscutibile illegalità dei loro comportamenti.
Nessuno dei quattro trattati (cedu, convenzione interamericana, patto e carta africana) contiene
una definizione di cosa possa considerarsi in generale tortura. Definizioni utili si trovano, invece,
nella convenzione contro la tortura e contro trattamenti o punizioni crudeli, inumani, o degradanti,
all'articolo uno, e all'articolo due della convenzione Interamericana per prevenire e sanzionare la
tortura.
Come primo elemento caratteristico della tortura, occorre un comportamento, attivo od omissivo,
diretto ad infliggere intenzionalmente gravi sofferenze fisiche e mentali ad un individuo. Non
hanno importanza i motivi per i quali le gravi sofferenze sono inflitte.
In secondo luogo, occorre che il comportamento in questione sia tenuto da agenti dello Stato o
con la loro acquiescenza (la corte europea si è espressa nel senso di ritenere responsabile lo stato
anche nell'ipotesi in cui la tortura sia commessa da soggetti privati, qualora le autorità dello Stato
non siano in grado di prendere misure di protezione adeguate per le persone che corrono un rischio
reale di venire torturate).
In una sentenza del 1999, la corte EDU ha ribadito l'esistenza in capo agli stati di un obbligo di
protezione da trattamenti contrari all'articolo tre della Convenzione, anche laddove questi siano
commessi da privati, soprattutto nei confronti di categorie di persone particolarmente vulnerabili,
quali i minori d'età ( nella fattispecie, il padrino di un bambino di nove anni aveva in più occasioni
colpito quest'ultimo, per castigarlo, e i giudici britannici lo avevano assolto dall'accusa di violenza).
Nel 2010, la corte europea ha riaffermato l'esistenza di obblighi positivi in capo allo Stato, derivanti
da una lettura congiunta dell'articolo uno e dell'articolo tre della convenzione, di sanzionare soggetti
privati i quali hanno commesso comportamenti che possono essere assimilati alla nozione di tortura
o trattamenti inumani e degradanti (nella fattispecie, il ricorrente era un esponente del gruppo
religioso che era stato vittima per il suo credo di numerosi attentati in Serbia. In uno di questi, gli
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era stato inciso sulla fronte una croce. I responsabili non erano stati individuati, processati e
sanzionati.)
I trattati che forniscono una definizione di tortura precisano che le sofferenze derivanti da sanzioni
legittime non costituiscono tortura.
Una simile esclusione sembra però capovolgere i termini del problema, perché proprio l'assenza di
forme di tortura è la condizione che può qualificare come legittima una sanzione e non già il
contrario.
11. LA DISTINZIONE TRA TORTURA E TRATTAMENTI O PUNIZIONI CRUDELI, INUMANE O
DEGRADANTI
Gli organismi internazionali di tutela dei diritti umani hanno cercato di chiarire quali siano le
differenze che permettono di distinguere la "tortura" da un "trattamento o una punizione crudele,
inumana o degradante".
È sottinteso che la tortura costituisce qualcosa di più grave degli altri tipi di trattamento o punizione
e che, in entrambi i casi, deve sussistere un certo livello di sofferenza, fisica o mentale.
Volendo comunque fare la distinzione, si può notare che vengono in considerazione alcuni
elementi: mentre la tortura è sempre intenzionale, un trattamento crudele, inumano o
degradante può anche risultare da un insieme di circostanze che non sono state deliberatamente
create. In più, se nei casi di tortura la vittima è totalmente indifesa, non necessariamente questo
avviene per i trattamenti inumani e degradanti.
Alcuni organismi internazionali di tutela di diritti umani hanno ritenuto che un elemento di
distinzione tra tortura e i trattamenti inumani e degradante fosse l'intensità della sofferenza causata
alla vittima. Attualmente, si tende a non invocare più questo parametro, anche alla luce
dell'oggettiva difficoltà di determinare criteri univoci per valutare il livello di sofferenza di una
vittima, che può variare anche in considerazione di caratteristiche personali.
A. La questione relativa alla distinzione tra tortura e trattamenti inumani o degradanti è stata
approfondita particolarmente dalla corte europea.
In un caso del 1978, la corte ha preso in considerazione le cosiddette cinque tecniche di
interrogatorio cui ricorrevano, nell'ambito della lotta contro il terrorismo in Irlanda del Nord, gli
agenti della polizia britannica: incappucciamento, assoggettamento a continuo rumore, privazione
del sonno, privazione di cibo e bevande, obbligo di rimanere in piedi per lunghi periodi di tempo.
Mentre la commissione europea aveva ritenuto che le cinque tecniche costituivano tortura, la corte
le qualificò come trattamenti inumani.
La corte chiarì che per distinguere tra tortura e trattamenti inumani è necessario far riferimento al
grado di sofferenza inflitta alla vittima.
La corte ritornò sulla questione nel 1992, quando dovette giudicare dell'interrogatorio della polizia
francese a Tommasi, il quale durò 14 ore, nelle quali il soggetto fu percosso con colpi al viso,
all'addome e alla testa, costretto a rimanere nudo di fronte ad una finestra aperta con le mani
ammanettate, senza ricevere cibo e minacciato con armi da fuoco. La corte qualificò tali
comportamenti come trattamenti inumani e degradanti.
Nel 1999 arrivò ad una conclusione diversa. Il caso riguardava un soggetto che era stato arrestato a
Parigi e che era stato sottoposto ad un interrogatorio di particolare violenza: percosso con un
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oggetto simile ad una mazza da baseball, obbligato a correre attraverso un corridoio di agenti di
polizia che lo facevano cadere al suolo, costretto ad inginocchiarsi di fronte ad una poliziotta e
sottoposto di insulti a sfondo sessuale e razziale. La corte dichiarò che tali atti dovevano essere
qualificati come tortura.
Spesso la corte europea ricorre, ai fini della qualificazione del comportamento come tortura o
come trattamento inumano, alla valutazione di particolari caratteristiche della vittima, come l'età
il sesso lo stato di salute la durata del trattamento e le conseguenze fisiche e psicologiche.
La corte ha anche chiarito che certi trattamenti possono considerarsi inumani se si sono protratti
per un lungo periodo di tempo ed hanno causato lesioni fisiche o sofferenza mentale o fisica
intensa. Un trattamento o una pena sono invece degradanti se generano nella vittima sentimenti
di paura, di angoscia ed inferiorità, tali da umiliarla e svilirla.
In un caso del 1982, che riguardava due giovani che erano stati minacciati di essere sottoposti a
punizioni corporali senza però che questo si fosse verificato, la corte dichiarò che vi può essere un
trattamento inumano anche in presenza della sola minaccia.
Nel 2010, la corte ha chiarito che la pena di morte può rientrare nella definizione di trattamento
inumano o degradante.
B. La commissione africana dei diritti umani dei popoli in una sentenza del 2003 si pronuncia sulla
pena della flagellazione. Ha precisato che la pena della flagellazione è una forma di tortura.
C. La corte Interamericana ha ritenuto che una violazione dell'integrità fisica e psichica di un
individuo può raggiungere diversi gradi di gravità (tortura, trattamento crudele, inumano o
degradante) e che per determinare correttamente la compatibilità con la convenzione americana di
un trattamento o di una punizione è necessario considerare le circostanze concrete di ciascun caso
e le caratteristiche personali della vittima.
La corte Interamericana ha sostenuto che la pena della flagellazione costituisce tortura.
D. Il comitato dei diritti umani ha seguito un diverso orientamento, ritenendo la flagellazione una
pena crudele, inumana o degradante, ma non una forma di tortura.
La differenza tra le conclusioni raggiunte dei diversi organismi di protezione dei diritti umani
dimostra come sia difficile scegliere se qualificare un trattamento o una punizione come tortura
o come trattamento crudele.
12. lo stupro e le violenze sessuali
Lo stupro e le violenze sessuali in quanto tali non sono riconosciute come autonome violazioni dei
diritti umani in nessuno degli strumenti internazionali di protezione dei diritti umani qui considerati.
In assenza di definizioni precise, si deve seguire quanto stabilito dal tribunale penale per il Ruanda,
che ha qualificato lo stupro come ogni atto di natura sessuale commesso in modo coercitivo nei
confronti di una persona, indipendentemente dal fatto che esso si realizzi o meno tramite una
penetrazione del corpo.
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A. La corte europea dei diritti umani ha qualificato lo stupro come una forma di tortura nel 1997 (In
un caso che riguardava una giovane donna che era stata violentata da un agente di polizia turco).
In un caso del 2003, la Corte europea concentrò il proprio ragionamento sugli obblighi positivi degli
Stati parte: non basta che lo Stato non si renda responsabile di tortura, ma occorre anche che esso
ponga in essere strumenti penali adeguati per prevenire e sanzionare severamente atti, come la
violenza sessuale, che corrispondono a vere proprie forme di tortura, anche qualora siano commessi
da privati cittadini.
Prima, nei codici penali degli Stati europei, per configurarsi violenza sessuale era necessaria la
costrizione fisica della vittima o la sua resistenza. Adesso tali requisiti non sono più previsti. Può
darsi il caso infatti che la vittima sia costretta a subire un atto sessuale senza consentire allo stesso,
anche se per circostanze di ordine psicologico la vittima non pone resistenza fisica.
In un caso del 2008, la corte si trovò a dover giudicare del caso di una donna che era stata convocata
presso una stazione di polizia per testimoniare in un caso di omicidio, e che era stata costretta dal
commissario ad avere rapporti sessuali di vario genere. In seguito al suo rifiuto, il commissario
l'aveva ammanettata, percossa e costretta ad indossare una maschera antigas, subendo un principio
di asfissia. La donna fu in seguito violentata dagli agenti ubriachi. La corte ritenne violato l'articolo
tre anche dal punto di vista procedurale, non solo sostanziale. La violenza sessuale, secondo la
corte, genera un obbligo dello stato di indagare in modo indipendente e imparziale sul reato
commesso.
B. La corte Interamericana dei diritti umani ha preso in considerazione lo stupro e le altre forme di
violenza sessuale in un caso del 2006 (riguardante un'operazione speciale svolta delle forze armate
peruviane, a seguito della quale, si verificarono episodi di stupro e violenza sessuale nei confronti
delle detenute). La corte evidenziò la violazione dell'articolo cinque della convenzione americana,
anche sotto il profilo procedurale, per la mancanza di indagini adeguate e sanzioni nei confronti
degli agenti che si erano resi responsabili di atti di tale gravità. La corte qualificò come trattamento
crudele la violenza sessuale subita dalle detenute. La Corte interamericana dedicò una particolare
attenzione al trattamento subito dalle detenute incinte, concludendo che a queste donne erano
state inferte delle particolari sofferenze fisiche e psicologiche.
In un caso del 2009, la corte giudicò il comportamento dell'esercito del Guatemala, durante il
massacro di 251 abitanti di un villaggio. I membri dell'esercito si erano mostrati particolarmente
violenti nei confronti delle donne incinte, erano saltati sul loro ventre, fino a fare fuoriuscire il feto.
C. La commissione africana dei diritti umani e dei popoli ha valutato lo stupro come una forma di
tortura.
13. LA STERILIZZAZIONE FORZATA
Una pratica che solleva questioni di compatibilità con la proibizione assoluta di tortura e trattamenti
inumani e degradanti è la sterilizzazione forzata al fine di limitare le nascite.
A. La commissione Interamericana dei diritti umani ha preso in considerazione la pratica della
sterilizzazione forzata in un caso che riguardava una donna che era morta a seguito dell'intervento
di sterilizzazione cui era stata sottoposta, per obbligo, derivante da una legge del Perù, adottata per
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ridurre le nascita nei settori più degradati della società. La commissione ottenne che il Perù
riconoscesse la propria responsabilità in merito alla violazione del diritto alla vita e all'integrità
personale ed al divieto di discriminazione contro le donne.
B. La corte europea dei diritti umani, nel 2011, ha riscontrato che nell'ipotesi in cui una donna venga
sottoposta a sterilizzazione forzata, si perpetra una violazione dell'articolo tre della convenzione.
Secondo la corte, la sterilizzazione è contraria al rispetto della libertà e dignità umana non aumento
in cui venga praticata forzatamente.
14. IL TRATTAMENTO DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’
Le persone private della libertà, in quanto sottoposte all'autorità esclusiva dello Stato, sono
particolarmente esposte al rischio di violazione del divieto di tortura o di trattamenti crudeli,
inumani o degradanti.
Le violazioni possono verificarsi al momento dell'arresto, nelle ore immediatamente successive o
durante l'intero periodo della privazione della libertà.
In vista della delicatezza di questa situazione, sono stati adottati a livello internazionale numerosi
strumenti di natura non vincolante.
A. Nel caso delle persone private di libertà, l'articolo sette del patto internazionale sui diritti civili e
politici recita: tutte le persone private della loro libertà devono essere trattate con umanità e
rispetto. Le persone accusate devono essere trattata in maniera appropriata rispetto al loro status
di persona detenuta. Le persone accusate minorenni devono essere tenute separate da quelle
maggiorenni. Esso deve essere letto in combinato disposto con l’art. 10.
Il Comitato sui diritti umani ha stabilito che gli Stati devono evitare di sottoporre i detenuti a lunghi
periodi di isolamento, aggiornare i regolamenti in tema di tecniche di interrogatorio, evitare ogni
forma di detenzione segreta.
Il comitato ha evidenziato che la privazione della libertà deve essere volta al recupero del detenuto,
coloro che si trovano in attesa di giudizio devono essere tenuti separati e trattati in maniera diversa
rispetto ai detenuti, nel rispetto della presunzione di innocenza.
In un parere del 2003, il Comitato ha preso in esame la vicenda di un signore messicano che fu
arrestato in Australia per reati economici e recluso insieme ai condannati, violenti e dediti all’uso di
droghe. Il signore aveva subito ispezioni corporali per più di una volta al giorno e continue violenze
corporali e maltrattamenti. Il comitato ritenne che non sussistesse violazione dell’art. 7 del Patto
per quanto riguarda le ispezioni corporali, perché l’Australia aveva dimostrato che servivano per
assicurare l’ordine all’interno del centro di detenzione. Il comitato ritenne violato l’art. 10 del patto
per il fatto che il cittadino messicano era stato rinchiuso in una stanza triangolare molto piccola.
Nel 2005, il comitato si pronunciò sull’impossibilità di un detenuto di accedere all’assistenza medica.
Il comitato riscontrò che le Filippine non avevano rispettato gli obblighi derivanti dall'articolo sette
del patto e che avevano inflitto al cittadino un trattamento crudele ed inumano per non avergli
garantito adeguate cure ed assistenza medica, mentre era recluso.
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B. La corte europea dei diritti umani ha sviluppato una giurisprudenza particolarmente ampia sia sul
trattamento delle persone private di libertà, sia sulle condizioni carcerarie che potrebbero essere
considerate in contrasto con l'articolo tre della convenzione europea.
La corte muove dalla constatazione che, per la propria natura, la situazione delle persone private
della libertà determina inevitabilmente alcuni elementi di sofferenza ed umiliazione. Perché si possa
parlare di una punizione o di un trattamento inumano o degradante in contrasto con la previsione
dell'articolo tre della convenzione europea è necessario che la sofferenza e l'umiliazione
dell'individuo vadano aldilà di quel livello minimo che colpisce qualunque persona privata della
libertà.
La corte ha considerato proibiti dall'articolo tre della convenzione i seguenti trattamenti inflitti da
agenti dello Stato immediatamente dopo l'arresto di un individuo: somministrare scariche elettriche
in diverse parti del corpo, minacciare di gravi sofferenze fisiche o violenze sessuali l'individuo
arrestato, praticare la cosiddetta "forca palestinese", ossia legare all'arrestato le braccia dietro la
schiena e sospenderlo al soffitto in questa posizione.
In una sentenza del 2010, la grande camera ha ribadito la natura assoluta del divieto, anche in
presenza della sola minaccia di torturare un individuo o di sottoporlo a trattamenti inumani e
degradanti.
In generale, la corte ritiene che l'uso della forza nei confronti delle persone private della libertà
debba essere una misura estrema, giustificata dalla condotta dell'arrestato o del detenuto anche
perché un uso indiscriminato della forza può degenerare nella privazione arbitraria della vita
dell'individuo.
La corte ha ritenuto che le misure che restringono drasticamente la libertà di una persona, come le
manette, i ceppi o altri mezzi di costrizione, devono rispettare la dignità dell'individuo e non
oltrepassare il limite di proporzionalità rispetto al comportamento rischioso da questi tenuto.
La corte ha affermato che gli Stati, per non venire meno agli obblighi stabiliti dall'articolo tre della
convenzione, devono garantire ai detenuti la migliore e più efficace assistenza medica possibile.
In una sentenza del 2006, la corte ha ribadito che gli Stati hanno un obbligo assoluto di proteggere
gli individui si trovano sotto la loro giurisdizione da torture forme di trattamento inumano e
degradante, a maggior ragione se si tratta di persone particolarmente vulnerabili a causa della loro
età.
C. Assai numerose sono state le sentenze della corte Interamericana dei diritti umani in materia di
trattamento delle persone private della libertà e di condizioni carcerarie.
La corte ha, in vari casi, concesso misure cautelari per prevenire un pregiudizio irreparabile per la
vita o l'integrità personale di tutti detenuti in determinate carceri. La corte Interamericana ha
riconosciuto violazioni del diritto all'integrità personale per trattamenti giudicati inumani o
degradanti inflitti sia al momento di effettuare l'arresto sia durante la carcerazione, nonché per
omissioni degli agenti di sorveglianza nei confronti dei detenuti. La corte ha invertito l'onere della
prova ed applicato presunzioni probatorie a favore delle persone private della libertà: se un
individuo era sano al momento del suo arresto e in seguito riporta lesioni o decede, spetta allo
Stato provare di non essere responsabile di tali avvenimenti.
La corte, pur considerando che la privazione della libertà dell'individuo implica alcune costrizioni,
ha ritenuto che le lesioni, le sofferenza o i danni alla salute riportati durante un periodo di
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detenzione possono qualificarsi come "pene crudeli", se l'integrità fisica, psichica e morale di un
individuo si deteriora per via delle condizioni di detenzione nel loro complesso.
La corte ha più volte chiarito che lo Stato, in quanto responsabile del funzionamento dei centri di
detenzione, deve garantire alle persone private della libertà l'esistenza di condizioni che rispettino
i loro diritti fondamentali e le esigenze di una vita degna.
Le carceri sovraffollate, la detenzione in celle di dimensione ridotta senza riscaldamento, aerazione
e luce naturale, condizioni igieniche inadeguate o mancanza di possibilità di comunicare con i
familiari costituiscono violazioni dell'articolo cinque della convenzione americana.
La corte ha ritenuto che, nell'ipotesi in cui i detenuti fossero parte di minoranze etniche, questi
avrebbero dovuto conservare la possibilità di esprimersi nella loro lingua madre.
D. Anche la commissione africana dei diritti umani dei popoli è stata varie volte chiamata a
pronunciarsi in materia di privazione della libertà e delle condizioni carcerarie che devono essere
garantite ai detenuti.
La commissione ha sostanzialmente seguito un indirizzo giurisprudenziale simile a quello degli altri
organismi internazionali di protezione dei diritti umani. Anche secondo la commissione, gli agenti
che effettuano un arresto e che svolgono un interrogatorio devono limitare l'uso della forza A
situazioni eccezionali in cui questo sia da considerarsi indispensabile. Devono comunque essere
garantiti i diritti fondamentali di un individuo privato della libertà, che non deve essere tenuto in
condizioni lesive della sua dignità ed integrità fisica.
15. IL TRATTAMENTO DELLE PERSONE MALATE DI MENTE
I malati di mente costituiscono un'altra categoria di persone che è particolarmente vulnerabile e,
come tale, esposta ad un maggior rischio di essere sottoposta a torture o trattamenti inumani e
degradanti.
A. La corte europea è stata chiamata a pronunciarsi sul tema del trattamento riservato a persone
malate di mente.
Nel 1992, la corte ha dichiarato che è necessario, in virtù della posizione di inferiorità delle persone
malate di mente, un particolare livello di attenzione nel valutare la sussistenza di una violazione
dell'articolo tre della convenzione (il caso riguardava un malato di mente che aveva attaccato le
guardie carcerarie).
In un caso del 2001, la corte ritenne non responsabili gli agenti del carcere di una cittadina britannica
per la morte di un detenuto, malato di mente, che decise di impiccarsi.
Nel 2006, la corte condannò la Francia perché le autorità francesi si erano rifiutate di trasferire un
malato di mente in un ospedale psichiatrico.
B. La corte Interamericana si è occupata del trattamento da riservare alle persone malate di mente,
in un caso del 2006. La corte ricordò la natura cogente del divieto di tortura e trattamenti crudeli,
inumani e degradanti e la necessità di tenere in debita considerazione le caratteristiche particolari
della vittima, dato che la loro condizione mentale può determinare una diversa percezione della
realtà e aumentare la sofferenza ed il senso di umiliazione.
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La corte ha evidenziato che i trattamenti sanitari delle persone malate di mente devono avere come
fine principale il benessere dei pazienti ed il rispetto della loro dignità umana. La misura della
limitazione motoria deve essere applicata come ultimo strumento ed unicamente per proteggere il
paziente.
C. La commissione africana ha interpretato il concetto di "trattamento crudele, inumano e
degradante" alla luce dell'esigenza di garantire la massima tutela della dignità degli individui affetti
da disturbi mentali.
16. L’ESPULSIONE E L’ESTRADIZIONE
Un particolare problema collegato alla proibizione di tortura o trattamenti o punizioni crudeli,
inumani o degradanti si pone riguardo all’ammissibilità di misure in virtù delle quali uno Stato
espelle o estrada un individuo verso un altro stato dove esiste un rischio concreto che egli subisca i
trattamenti sopra indicati.
Il divieto di simili misure di espulsione, respingimento o estradizione è espressamente previsto dalla
Convenzione contro la torture e gli altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti.
Disposizioni di questo tipo mancano nel Patto, nella CEDU e nella Carta Africana.
Gli organismi internazionali di protezione dei diritti umani sono stati pertanto chiamati a colmare
questa lacuna mediante una giurisprudenza particolarmente ricca. La giurisprudenza prende in
considerazione la situazione esistente in uno stato determinato, che spesso non è parte del trattato
di riferimento e giunge alla conclusione che uno Stato parte si renderebbe complice di una
violazione di un fondamentale diritto umano se consegnasse una persona al primo Stato.
Come ha notato il relatore speciale delle nazioni unite contro la tortura e sui trattamenti inumani e
degradanti, qualora il ricorrente lamenti il rischio di essere sottoposto a tortura o trattamenti
equiparati, incombe nello Stato l'onere di accertare diligentemente la sussistenza di tale rischio.
Il relatore ha chiarito che gli Stati non possono basare le proprie decisioni solo su generiche
rassicurazioni diplomatiche da parte dello Stato nel quale un individuo dovrebbe essere inviato. Le
rassicurazioni non sollevano gli Stati dal dovere di accertare la sussistenza di un rischio di tortura
per l'individuo in questione.
A. La corte edu, nel 1989, si trovò a dover decidere su un caso che riguardava un individuo che
doveva essere negli Stati Uniti (che avevano chiesto l'estradizione) e che si trovava nel Regno Unito.
Il cittadino rischiava di essere condannato alla pena capitale.
Ai tempi la cedu non vietava la pena di morte, ma la lunga attesa nel corridoio della morte dei
condannati alla pena capitale fu considerata dalla corte un trattamento inumano e degradante. La
corte stabilì che la convenzione europea non attribuisce agli individui il diritto a non essere
estradati. Tuttavia, si configura una responsabilità dello Stato parte se la misura dell'estradizione
è consentita quando l'individuo corre il rischio di essere sottoposto ad un trattamento inumano o
degradante. La corte europea ha stabilito che quando uno Stato conosce o usando l'ordinaria
diligenza potrebbe conoscere del rischio in cui incorre l'individuo, nell'ipotesi in cui l'estradizione è
consentita, lo stato non deve concedere la misura dell'estradizione.
In un caso del 1991, riguardante 5 individui di nazionalità inglese, appartenenti all’etnia Tamil, che
avevano fatto una richiesta di asilo politico respinta dal Regno Unito, la corte EDU ribadì che né la
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convenzione né i suoi protocolli tutelano il diritto di asilo. Ciononostante, è possibile valutare la
compatibilità con l’art. 3 della Convenzione del rigetto del diritto di asilo, quando l’individuo può
essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti nel paese dal quale vuole uscire.
Nel 1997, la Corte valutò il caso di un cittadino colombiano arrestato per traffico di stupefacenti in
Francia, che qualora fosse stato rimpatriato in Colombia avrebbe corso il rischio di ritorsioni da parte
della banda di spacciatori. La Corte ha evidenziato che, data la natura inderogabile del divieto di
tortura, lo Stato è responsabile per violazione dell’art. 3 anche quando il rischio di tortura proviene
da soggetti privati e non autorità statali.
In un caso del 2008, la Corte ha evidenziato che l’onere della prova, relativo al rischio di subire
torture o trattamenti inumani, ricade in primo luogo nel ricorrente, ma che quando questi abbia
presentato prove esaurienti spetta al governo confutarle.
Se è dimostrato che un certo gruppo di persone corre un rischio di essere sottoposto a tortura o
trattamenti o pene inumani o degradanti e il ricorrente dimostra di fare parte di quel gruppo, il
ricorrente non deve anche dimostrare di essere lui personalmente a rischio, giacché il rischio si
deduce dall’appartenenza al gruppo.
La Corte EDU ha sviluppato nel corso degli anni una consistente giurisprudenza per quanto concerne
l’espulsione o l’estradizione di individui sospettati, accusati o condannati per terrorismo o reati
connessi. La Corte, pur conscia dell’importanza di politiche e strategie di contrasto efficaci di fronte
ad un fenomeno criminale che mette in grave pericolo migliaia di persone, ha ribadito con fermezza
che il divieto di bilanciamento (tra un interesse dello stato ed il diritto del cittadino a non essere
sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti) è inderogabile e che quindi non è mai
possibile effettuare un bilanciamento che ne giustifichi una violazione per proteggere un altro
interesse, fosse anche la sicurezza nei confronti del peggiore dei terroristi.
La corte ha chiarito che le difficoltà affrontate dagli Stati nella lotta al terrorismo non incidono in
alcun modo sulla natura inderogabile dell’art. 3 della Convenzione.
La CORTE EDU ha poi applicato la propria giurisprudenza in materia di espulsione o estradizione
anche nel caso in cui il rischio reale di trattamento inumano di un ricorrente derivava dal fatto che
un individuo gravemente ammalato non avrebbe potuto godere dell’assistenza sanitaria adeguata ,
nel paese dove doveva essere espulso.
In casi analoghi, la Corte ha avuto modo di precisare che non è sufficiente dimostrare che la
situazione sanitaria nel paese dove l’individuo dovrebbe essere espulso o estradato sia
genericamente inadeguata, ma che occorre anche provare che questa situazione determinerebbe
un peggioramento sostanziale delle condizioni di salute del ricorrente.
B. anche il Comitato dei diritti umani si è occupato di estradizione o espulsione di un individuo in
relazione all’art. 7 del Patto,
Nel commento n. 20 del 1992, il comitato ha espresso un’indicazione di principio chiarendo che gli
Stati devono evitare di sottoporre individui al rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti
a causa di provvedimenti di espulsione, estradizione o respingimento.
Originariamente, il patto non vietava la pena di morte e per valutare se l’estradizione potesse o
meno essere concessa dallo Stato, il Comitato valutava se le modalità con le quali la condanna a
morte era eseguita potevano considerarsi trattamenti inumani o degradanti.
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Il comitato ha evidenziato che le misure di estradizione devono essere valutate caso per caso
considerando attentamente se esiste un rischio reale che il destinatario sia torturato o sottoposto
a trattamenti inumani o degradanti.
Il Comitato ha evidenziato che il divieto degli Stati di sopporre i cittadini al rischio di essere torturati
o oggetto di trattamenti inumani o degradanti è assoluto e che non può essere subordinato alla
necessità di soddisfare interessi nazionali, come quello di garantire la sicurezza nazionale. Il
comitato ha aggiunto che le raccomandazioni politiche ottenute dallo Stato verso il quale si intende
estradare o espellere una persona possono essere prese in considerazione ma devono, come
minimo, garantire l’esistenza di un meccanismo di controllo per assicurare la reale attuazione di
quanto promesso.
Il comitato ha considerato integrante trattamento inumano la mutilazione dei genitali femminili ed
ha considerato vietato che lo stato sottoponga le donne al rischio di subire questo trattamento.
C. La commissione africana dei diritti umani e dei popoli non è stata fino a oggi chiamata a
pronunciarsi sui casi in cui un ricorrente corre il rischio, se espulso o estradato, di essere sottoposto
a tortura o a trattamenti inumani e degradanti.
17 LE CONSEGNE STRAORDINARIE
La pratica delle cd consegne straordinarie costituisce una delle più disgustose violazioni dei diritti
umani degli Stati che sono riusciti a mettere insieme sparizioni forzate, tortura, diniego di giustizia
ed altre gravi violazioni. Il tutto si basa sulla convinzione che è consentito allo Stato torturare uno
straniero all’estero per carpire informazioni e poi utilizzare le stesse informazioni nell’ambito dei
processi.
La pratica delle consegne straordinarie consiste in una sorta di circuito segreto di tortura per procura
che coinvolge diversi stati legati da un rapporto di complicità: lo stato che si fa carico della cattura,
del trasporto e della consegna della vittima e che organizza il circuito, si avvale delle informazioni
estratte, lo stato complice che consente accesso al suo territorio per catturare la vittima e lo stato
che riceve la vittima in consegna e che carpisce le informazioni.
Stupisce la posizione dello stato complice che tollera che sul proprio territorio vengano compiute
violazioni dei diritti umani così gravi e che di solito ostacola le indagini o nega che le violazioni siano
compiute.
Si ritiene che il principale programma di consegne forzate sia stato gestito dalla CIA per catturare
terroristi.
L’individuo straniero sospettato di terrorismo o di essere a conoscenza di info attinenti al terrorismo
è stato trasformato in un essere de-umanizzato, in uno spettro al quale sarebbe lecito infliggere
ogni sorte di trattamento in luoghi di detenzione segreti, in aperta violazione di qualunque diritto
umano.
A. il Comitato dei diritti umani ha reso le proprie osservazioni sul caso Alzery c. Svezia riguardante
un cittadino egiziano che aveva richiesto asilo politico in Svezia dopo essere stato torturato dalle
autorità del suo paese. Il cittadino andò in Svezia e li fu catturato e sottoposto a tortura e portato
in Egitto. Il comitato dichiarò violato l’art. 7 del Patto.
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B. La Corte EDU ha avuto occasione di affermare che le consegne straordinarie, intese come il
“trasferimento extra-giudiziario di una persona da una giurisdizione ad un’altra”, al fine di
detenzione ed interrogatorio, sono un totale sovvertimento dello Stato di diritto e delle disposizioni
della CEDU. Ad essere violato, in questi casi, è proprio l’art. 3 della Convenzione.
18. GLI SFOLLATI INTERNI
La categoria degli sfollati interni comprende coloro che sono costretti a fuggire, a causa di un
conflitto, di violazioni sistematiche dei diritti umani, di catastrofi naturali e a trasferirsi in un’altra
località. Non sono considerati sfollati interni ma migranti coloro che volontariamente lasciano la
propria dimora, andando alla ricerca di un miglioramento economico.
Per lungo tempo non sono state adottate norme ad hoc per gli sfollati interni.
Nel 1992, è stato istituito un rappresentante del Segretario, generale sui diritti umani degli sfollati
interni, che ha il compito di promuovere il dialogo con gli Stati, rafforzando la protezione ed il
rispetto dei diritti umani degli sfollati interni.
A. la Corte interamericana dei diritti umani ha collegato il fenomeno dello sfollamento forzato al
concetto di trattamento inumano e degradante.
B. Anche la Corte EDU si è pronunciata su alcuni casi di sfollamento forzato, che riguardano in
particolar modo la Turchia. La corte ha concluso che il fenomeno dello sfollamento interno è
collegato all’art. 3 della CEDU.
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