Si parla di ipersensibilità quando la risposta immunitaria è aberrante o comunque eccessiva all’antigene. Si può avere: - Una risposta agli antigeni estranei sregolata o incontrollata; - Una risposta rivolta ad antigeni autologhi a seguito della perdita della tolleranza. Le risposte immunitarie capaci di indurre danni tessutali sono state definite risposte immunitarie da ipersensibilità. Questo di tipo di risposta immune si riscontra in numerose malattie autoimmuni, in alcune infezioni e nelle malattie allergiche. In base al tipo di risposta immunitaria e al meccanismo effettore del danno a livello di cellule e tessuti, le reazioni di ipersensibilità sono state classificate da Gell-Coombs in: Tipo I o reazioni da ipersensibilità immediata (reazioni allergiche): è una reazione patologica provocata dalla liberazione di certi mediatori da parte dei mastociti, il più delle volte mediata da IgE legate ai mastociti presenti nei vari tessuti. E’ rivolta contro antigeni ambientali. Tipo II o reazioni mediate da anticorpi di tipo citotossico: anticorpi di vario isotipo (IgG o IgM) diretti contro cellule o antigeni tissutali possono danneggiare tali elementi o alterarne la funzione. Tipo III o malattie da immunocomplessi: quando gli antigeni sono solubili e si possono formare immunocomplessi con gli anticorpi diretti contro di essi. Tipo IV o malattie mediate da linfociti T (reazioni di ipersensibilità ritardata): solitamente diretta contro antigeni self. Le reazioni di ipersensibilità di tipo I, dette anche anafilattiche o allergiche, sono indotte dalla penetrazione di antigeni innocui (definiti “allergeni”). Si tratta di una reazione tissutale che in un ospite sensibilizzato si sviluppa rapidamente (pochi minuti), in seguito all’interazione dell’allergene con anticorpi IgE legati sulla membrana dei mastociti. Quando un mastocita legato alle IgE incontra l’allergene si scatena una serie di reazioni, che causano il rilascio di potenti mediatori responsabili delle manifestazioni cliniche dell’ipersensibilità immediata. Nella prima fase di questa sequenza, in risposta alla stimolazione antigenica e ad altri stimoli, come le citochine prodotte localmente, i linfociti T helper si differenziano in senso TH2, che producono citochine come: IL-4, IL-5 e IL-13. L’IL-4 agisce sui linfociti B inducendo il cambiamento di classe delle immunoglobuline e la produzione di IgE e promuove la migrazione di altri linfociti TH2. Le IgE si legano mediante il frammento Fc ai recettori specifici presenti sulle membrane cellulari dei mastociti e dei basofili. In seguito alla seconda esposizione si ha l’interazione (mediante legami crociati) tra le IgE, fissate sulla superficie delle cellule, e l’allergene. L’aggregazione dei recettori Fcε attiva la trasduzione del segnale da parte della loro porzione citoplasmatica, inducendo la degranulazione dei mastociti. L’attivazione dei mastociti innesca tre tipi di risposte: 1. La secrezione del contenuto dei granuli mediante esocitosi; 2. La sintesi e la secrezione di mediatori lipidici; 3. La sintesi e la secrezione di citochine. I mediatori preformati contenuti nei granuli mastocitari sono i primi ad essere rilasciati e sono suddivisi in tre categorie: Amine vasoattive, ed in particolare l’istamina, che causa: spasmo del muscolo liscio, aumento della permeabilità vascolare e ipersecrezione mucosa dalle ghiandole nasali, bronchiali e gastriche. Enzimi contenuti nella matrice dei granuli e comprendono le proteasi neutre e numerose idrolasi acide. Gli enzimi causano lesioni tissutali e generano chinine e frazioni attivate del complemento agendo sui loro precursori proteici. Proteoglicani, come l’eparina, che contribuiscono ad ammassare ed immagazzinare gli altri mediatori nei granuli. I mediatori lipidici comprendono: Leucotrieni, in particolare C4 e D4, sono i più potenti agenti spasmogenici e vasoattivi conosciuti. In pratica, sono diverse migliaia di volte più attivi dell’istamina nell’aumentare la permeabilità vasale e la contrazione della muscolatura liscia bronchiale. Il leucotriene B4 è fortemente chemotattico per neutrofili, eosinofili e monociti. Prostaglandina D2 provoca intenso broncospasmo e aumento della secrezione mucosa. Fattore di attivazione delle piastrine (PAF), prodotto da alcune popolazioni mastocitarie, causa aggregazione piastrinica, rilascio di istamina, broncospasmo, aumento della permeabilità dei vasi e vasodilatazione. È inoltre chemotattico per neutrofili ed eosinofili e, a concentrazioni elevate, attiva le cellule infiammatorie, inducendone la degranulazione. Non è un prodotto del metabolismo dell’acido arachidonico. Le citochine, prodotte dai mastociti, regolano le diverse fasi della reazione di ipersensibilità immediata. In particolare, TNF, IL-1 e chemochine contribuiscono al reclutamento dei leucociti, mentre l’IL-4 amplifica la risposta TH2. Le cellule infiammatorie reclutate dal TNF e dalle chemochine mastocitarie producono, a loro volta, altre citochine e mediatori che provocano il rilascio di istamina stimolando ulteriormente la degranulazione mastocitaria. L’effetto combinato dei mediatori chimici rilasciati dai mastociti è di attrarre i leucociti circolanti verso il sito di attivazione dei mastociti, dove tali cellule amplificano la reazione avviata dall’antigene e dalle IgE sulla superficie dei mastociti stessi. Questi leucociti effettori comprendono eosinofili, basofili, neutrofili e linfociti TH2. Gli eosinofili hanno un ruolo particolarmente importante. Migrano nei tessuti attratti dalle chemochine prodotte dalle cellule epiteliali, dai linfociti TH2 e dai mastociti. La sopravvivenza tissutale degli eosinofili è favorita da IL-3, IL-5 e GM-CSF. Gli eosinofili rilasciano enzimi proteolitici e due proteine caratteristiche, la proteina basica principale (MBP) e la proteina cationica eosinofila (ECP), che sono tossiche per le cellule epiteliali. Gli eosinofili attivati e altri leucociti producono anche leucotriene C4 e PAF e attivano direttamente i mastociti inducendo il rilascio di mediatori. Le cellule reclutate, quindi, amplificano e sostengono la flogosi in assenza di ulteriore esposizione all’antigene scatenante. Le reazioni di ipersensibilità tipo 1hanno una base familiare (eredità poligenica complessa): un genitore allergico presenta il 30% di probabilità di avere un figlio atopico; se entrambi i genitori sono allergici la probabilità diventa del 50%. Il termine atopia indica la tendenza di un soggetto a produrre anticorpi IgE in risposta a diversi antigeni ambientali, e a sviluppare forti risposte di ipersensibilità immediata (allergia). Gli individui che soffrono di allergie verso antigeni ambientali quali polveri o pollini sono detti atopici. Nello sviluppo dell’atopia molteplici geni di suscettibilità interagiscono con fattori ambientali dando origine alla reazione patologica. I fattori genetici che influenzano includono: presenza di specifici polimorfismi HLA di classe II, polimorfismi della catena α del recettore per l’IL-4, del CD14 e a livello di altri loci (per es. il locus sul cromosoma 20q dove è localizzato il gene ADAM-33 che regola la proliferazione della muscolatura liscia bronchiale e dei fibroblasti e, quindi, controlla il rimodellamento delle vie aree). Tra i fattori ambientali si annoverano: la sensibilizzazione all’allergene, avere pochi fratelli, l’eccessiva igiene, l’aver ricevuto antibiotici nei primi due anni di vita e i vaccini e la prevenzione delle malattie. Nei soggetti atopici, difetti negli organi target, come epitelio bronchiale, pelle e intestino, in associazione a stimoli quali infezioni virali, esposizione agli allergeni, fumo di tabacco e inquinanti indoor e outdoor portano all’attivazione preferenziale di linfociti TH2 che determinano la stimolazione dello scambio isotipico dei linfociti B verso le IgE. I soggetti normali non rispondono agli allergeni o rispondono con la sintesi preferenziale di IgM e IgG e con scarsissima produzione di IgE. In essi, quindi, la risposta immune è prevalentemente polarizzata in senso TH1, con produzione di citohine, quali IL-12 e interferoni, che da un lato favoriscono lo sviluppo delle cellule TH1 e dall’altro bloccano quello delle cellule di tipo TH2 che facilitano la sintesi di IgE. La conseguenza di ciò è che in essi è di scarsa rilevanza la risposta agli allergeni con produzione di IgE. A differenza di questi ultimi, i soggetti allergici sono geneticamente predisposti a sintetizzare un eccesso di IgE specifiche quando vengono a contatto con un allergene. Gli anticorpi IgE causano reazioni allergiche per via della loro elevata affinità con i rispettivi recettori per Fc (FcRI) e della distribuzione cellulare di questi recettori. Il recettore ad alta affinità per le IgE è espresso costitutivamente dai mastociti e dai basofili, nonché dagli eosinofili dopo la loro attivazione da parte delle citochine. Ogni recettore Fcε è composto da una catena α che media il legame con l’IgE e da una catena β e due catene γ che mediano la segnalazione. La catena β e le due catene γ, omologhe alla catena ζ del TCR, contengono un singolo dominio ITAM a testa. La fosforilazione di una tirosina sui domini ITAM delle tre catene del recettore inizia la segnalazione richiesta per l’attivazione dei mastociti. Le reazioni allergiche IgE- mediate variano in base al sito di attivazione dei mastociti. A livello del tratto gastrointestinale, l’attivazione dei mastociti causa aumentata secrezione di fluido e aumento della peristalsi con conseguente espulsione del contenuto del tratto gastrointestinale attraverso vomito e diarrea. Nelle vie aeree, il rilascio dei granuli mastocitari causa riduzione del diametro dei vasi e aumentata secrezione di muco, provocando catarro e tosse. L’attivazione dei mastociti nei vasi sanguigni induce aumento del flusso ematico e della permeabilità con conseguente edema, infiammazione, aumento del flusso linfatico e trasporto dell’antigene ai linfociti. Gli individui atopici possono presentare una o più delle manifestazioni della patologia allergica. Le forme più frequenti di allergopatia sono la rinite allergica (febbre da fieno), l’asma bronchiale, la dermatite atopica (eczema) e le allergie alimentari. Le caratteristiche cliniche e patologiche dipendono dal sito anatomico di reazione: antigeni inalati causano rinite o asma, antigeni ingeriti causano vomito o diarrea, antigeni iniettati causano effetti sistemici. Per valutare la sensibilità di un paziente verso un allergene, si esegue il “Prick test” (test della puntura): viene posta sulla cute del paziente una goccia di un estratto allergenico diluito; la cute viene poi punteggiata o forata passando attraverso l’estratto. Se vi è reazione compare un pomfo di diametro superiore ai 3 mm con o senza alone di arrossamento. Altri test cutanei impiegano cerotti di reazione. È possibile eseguire test radioimmunologici che dosano le IgE; essi sono: - RIST che determina le IgE sieriche totali; - RAST che dosa le IgE specifiche per un determinato allergene. Infine, l’esame Emocromocitometrico permette di evidenziare un aumento degli eosinofili. L’asma bronchiale è una malattia infiammatoria cronica delle vie aeree caratterizzata da: Episodi ricorrenti di dispnea, respiro sibilante, tosse e senso di costrizione toracica Ostruzione bronchiale Iperattività bronchiale Infiltrazioni di cellule infiammatorie, rilascio di mediatori, e rimodellamento strutturale delle vie aeree. Le principali caratteristiche anatomo-patologiche dell’asma bronchiale sono: Desquamazione dell’epitelio; Ispessimento della membrana basale reticolare; Edema delle mucose e delle sottomucose con infiltrazione di leucociti; Ipertrofia e iperplasia della muscolatura liscia; Iperplasia delle ghiandole mucose e delle cellule mucipari caliciformi; Vasodilatazione e neoangiogenesi; Tappi di muco endobronchiali. I fattori che predispongono allo sviluppo della patologia sono essenzialmente di due tipi: Fattori individuali: predispongono o proteggono l’individuo dalla comparsa dell’asma. Questi includono: predisposizione genetica, atopia, iperattività bronchiale, sesso e razza. Fattori ambientali: negli individui predisposti influenzano la comparsa dell’asma, causano le riacutizzazioni e/o la persistenza dei sintomi. Appartengono a questa classe: allergeni (acari e animali a pelo; piante erbacee - graminacee, urticacee, composite- ed arboree oleacee e betulacee), agenti professionali, fumo di sigaretta, inquinamento atmosferico, fattori socio-economici, dieta, farmaci e obesità. Nella patogenesi dell’asma, i linfociti T helper di tipo 2 svolgono un ruolo cruciale. Le cellule dendritiche catturano gli allergeni e dopo averli processati li presentano nei linfonodi ai linfociti T CD4+ naive , i quali vengono attivati e indotti a differenziarsi in Th2 . Le citochine prodotte dai linfociti TH2 sono responsabili della maggior parte delle caratteristiche dell’asma; in particolare: - L’IL-4 promuovere lo switch isotipico verso le IgE, - L’IL-5 attiva gli eosinofili, - L’IL-13 stimola la produzione di muco e la produzione di IgE da parte di linfociti B. Le IgE rivestono le mastcellule della sottomucosa, le quali, durante l’esposizione all’allergene, rilasciano il contenuto dei granuli. Questo induce due ondate di reazioni: una fase precoce (immediata) e una fase tardiva. Parlando di un antigene inalato, la reazione precoce è dominata dalla broncocostrizione, dall’aumentata produzione di muco e dalla vasodilatazione di grado variabile. La reazione tardiva consiste nell’infiammazione con conseguente attivazione di eosinofili, neutrofili e linfociti T. Inoltre, le cellule epiteliali vengono indotte a produrre chemochine che promuovono il reclutamento di ulteriori linfociti TH2 ed eosinofili, nonché di altri leucociti, amplificando così la reazione infiammatoria. L’attivazione delle cellule endoteliali e la seguente migrazione e attivazione degli eosinofili dipendono dall’espressione e dal rilascio di citochine: IL-1, TNF-α, IL-4, IL-5 e altre interleuchine. Attacchi ripetuti d’infiammazione portano a modificazioni della parete bronchiale; queste includono l’ipertrofia della muscolatura liscia bronchiale e delle ghiandole mucose, l’ipervascolarizzazione e la deposizione di collagene subepiteliale. Un aspetto da sottolineare è l’aumento dell’incidenza dell’ipersensibilità immediata nei paesi sviluppati, apparentemente correlato alla ridotta esposizione alle infezioni nei primi anni di vita. Queste osservazioni hanno portato alla cosiddetta “ipotesi dell’igiene”, secondo la quale una ridotta esposizione ai germi resetterebbe il sistema immunitario e le risposte TH2 si scatenerebbero con maggiore facilità contro gli antigeni ambientali comuni. I fattori che favorirebbero il fenotipo Th1 sono: - Presenza di fratelli più vecchi - Tubercolosi, morbillo o infezione da epatite A - Ambiente rurale Questi conferirebbero un’immunità protettiva. Per contro, i fattori che dovrebbero favorire il fenotipo TH2, responsabile delle malattie allergiche sono: - Uso frequente di antibiotici - Stile di vita occidentale - Ambiente cittadino - Dieta - Sensibilizzazione agli acari e alle blatte. Diverse classi di farmaci sono in uso corrente per la cura dell’asma. Tra questi i corticosteroidi, che bloccano la produzione di citochine infiammatorie, e il sodio cromoglicato, che sembra agire inibendo il rilascio di mediatori indotto dalle IgE. In aggiunta alla terapia mirata a contenere le conseguenze dell’ipersensibilità immediata, vi sono trattamenti volti a ridurre la quantità di IgE presenti nel soggetto. Nella “desensibilizzazione”, piccole quantità crescenti di antigene vengono somministrate per via sottocutanea o sublinguale, ottenendo come risultato generale la diminuzione della concentrazione di IgE specifiche, citochine, istamina e linfociti T e l’aumento di IgG. L’unica controindicazione è l’eventualità di anafilassi sistema o locale: si tratta, per lo più, di reazioni lievi, letali solo in 1 caso su 5 milioni. Nel 70-80% dei pazienti con asma è presente rinite allergica, o più comunemente febbre da fieno. Essa si manifesta con crisi occasionali di starnuti, ed è caratterizzata da un edema locale che comporta l’ostruzione delle vie nasali e una secrezione nasale di muco ricca di eosinofili; c’è anche un’irritazione diffusa del naso e dell’occhio dovuta al rilascio di istamina. Questa condizione è causata dagli allergeni che si diffondono attraverso la membrana mucosa che riveste le cavità nasali e che attivano i mastociti mucosali sottostanti l’epitelio. La stessa esposizione all’allergene che provoca la rinite può interessare anche la congiuntiva dell’occhio, dove la reazione allergica è detta congiuntivite allergica; essa si manifesta con prurito oculare, lacrimazione e infiammazione. Gli allergeni che attivano i mastociti della cute con conseguente liberazione di istamina causano una tumefazione (pomfo rilevato) pruriginosa localizzata o diffusa detta orticaria. L’orticaria è caratterizzata da papule rilevate, pallide, a margini netti, pruriginose e che compaiono e scompaiono nel volgere di alcune ore. Le lesioni rispecchiano un edema della porzione superficiale del derma. L’orticaria può essere classificata dal punto di vista patogenetico in: IgE dipendente Fisica Complemento-mediata Non immunologica Idiopatica. Il dermatografismo è una reazione cutanea lineare con un colore viola intenso causata da un minimo sfregamento della cute. Si osserva in circa il 4% della popolazione e rispecchia un’esagerata risposta immunitaria IgE-dipendente. E’ possibile scrivere sulla pelle di questi pazienti creando una reazione cutanea sotto forma di parole leggibili. L’attivazione dei mastociti del tessuto sottocutaneo profondo porta a una tumefazione simile ma più diffusa con aspetto normale della cute, detta angioedema. Molto spesso le due patologie si presentano insieme all’osservazione; in questo caso si parla di sindrome orticaria-angioedema (SOA). Distinguiamo: SOA apparentemente primitive, che possono essere indotte da: farmaci, alimenti, additivi alimentari, veleni e secreti di animali, sostanze da contatto; orticaria fisica (da esercizio fisico, da freddo, da radiazioni luminose); orticaria psicogena; orticaria idiopatica. SOA secondarie, ossia forme secondarie ad altre affezioni, quali: infestazioni; infezioni virali, batteriche, micotiche; malattie autoimmuni; malattie neoplastiche; malattia da siero (Crioglobulinemia). SOA ereditarie, che includono forme congenite. Queste comprendono: angioedema ereditario, angioedema vibratorio familiare, orticaria familiare da agenti fisici. Le reazioni di ipersensibilità di Tipo II sono mediate da anticorpi di vario isotipo (IgG o IgM) diretti contro cellule o antigeni tissutali possono danneggiare tali elementi o alterarne la funzione. I meccanismi patogenetici dell’ipersensibilità di tipo II sono: citolisi, citotossicità, neutralizzazione. Gli anticorpi di classe IgM o IgG possono attivare il sistema del complemento generando dei prodotti intermedi che sono depositati sulla superficie delle cellule e riconosciute dai fagociti che esprimono recettori per queste proteine. Le cellule opsonizzate da anticorpi IgG sono riconosciute dai recettori per i frammenti Fc dei fagociti, che sono specifici per la porzione Fc di alcune sottoclassi di IgG. Tutto questo porta alla fagocitosi delle cellule opsonizzate e alla loro distruzione. A questo effetto si aggiunga la formazione del MAC (complesso di attacco alla membrana), che mediante la formazione di un foro sulla membrana cellulare, determina la lisi osmotica delle cellule. Un altro processo di distruzione delle cellule è la citotossicità cellulare anticorpodipendente (ADCC). Monociti, macrofagi, eosinofili e cellule NK si legano al bersaglio grazie ai recettori per il frammento Fc delle IgG. Questo comporta il rilascio di granuli citoplasmatici contenenti perforina e granzimi. Nello specifico, la perforina si inserisce sulla membrana della cellula target, inducendo polimerizzazione e formazione di pori; i granzimi penetrano all’interno del citoplasma della cellula target ed attivano una serie di eventi che portano all’apoptosi. Spesso le cellule ematiche sono bersaglio della citolisi. La trasfusione di sangue incompatibile nel contesto del sistema ABO provoca una reazione citolitica complemento mediata. Per esempio, un soggetto di gruppo sanguigno 0 ha in circolo IgM anti –A e anti-B (isoemoagglutinine); se trasfuso con emazie di gruppo A, sui globuli bianchi del sangue trasfuso si fissano le isoagglutinine presenti nel plasma del ricevente determinando il fenomeno dell’opsonizzazione al quale fa seguito, per attivazione del complemento, un’intensa emolisi intravascolare. Nell’”eritoblastosi fetale”, nota anche come “malattia emolitica del neonato” esiste una differenza antigenica tra la madre ed il feto, e gli anticorpi IgG della madre attraversano la placenta provocando la distruzione dei globuli rossi del feto. Difatti, nel caso in cui la madre sia Rh- (priva, cioè, dell’antigene D) e il feto sia Rh+: durante la seconda o successiva esposizione, le IgG anti-Rh della madre raggiungono il feto attraverso la placenta e legano i globuli rossi, provocando la lisi delle emazie (opsonizzazione e fagocitosi da parte del sistema reticolo-endotelliale). Il feto sviluppa un’anemia emolitica con ittero. Per prevenire la reazione d’incompatibilità si somministrano alla madre, entro le prime 72 ore dopo il primo parto (quando vi è, cioè la possibilità di contatto tra sangue materno e sangue fetale) anticorpi anti-Rh che, reagendo con i globuli rossi fetali passati nel circolo materno, li distruggono. In alcune reazioni, i farmaci possono fungere da apteni e legarsi alla membrana o alla matrice delle cellule. Ne sono un esempio: - Il cloromfenicolo (antibiotico) che può legarsi ai leucociti - La fenacetina (analgesico) e la cloropromazina (sedativo) che possono legarsi ai globuli rossi Quando gli anticorpi si depositano nei tessuti extracellulari, la lesione è provocata dall'infiammazione. L'attivazione del complemento può generare fattori chemotattici (principalmente il C5a) responsabili del reclutamento di neutrofili e monociti, e anafilotossine (C3a e C5a) che aumentano la permeabilità dei vasi. I leucociti attivati attraverso i loro recettori per il C3b e l’Fc producono e rilasciano mediatori proinfiammatori: prostaglandine, peptidi vasodilatatori e fattori chemotattici. L’attivazione leucocitaria induce anche la produzione di sostanze tossiche, come enzimi lisosomiali e radicali liberi dell’ossigeno. La flogosi anticorpo-mediata è il meccanismo responsabile delle lesioni tissutali che si osservano in alcune forme di glomerulonefrite, nel rigetto vascolare nel trapianto di organi ed in altre malattie (sindrome di Goodpasture per esempio). L’anticorpo che riconosce i recettori per ormoni o neurotrasmettitori può legare il recettore e attivare la trasduzione del segnale anche in assenza del ligando, o inibire il legame del recettore al suo ligando fisiologico. Ne sono un esempio: la miastenia grave, il morbo di Graves, il pemfigo volgare. Malattia Antigene bersaglio Anemia emolitica autoimmune Proteine della membrana degli eritrociti Porpora trombocitopenia autoimmune Febbre reumatica acuta Proteine di membrana delle piastrine Antigene della parete cellulare dello streptococco; gli Meccanismo della malattia Opsonizzazione e fagocitosi degli eritrociti Manifestazioni clinicopatologiche Emolisi, anemia Opsonizzazione e fagocitosi delle piastrine Infiammazione e attivazione dei macrofagi Emorragie Miocardite; artrite Sindrome di Goodpasture Pemfigo volgare anticorpi crossreagiscono con le proteine del miocardio Proteina diversa dal collagene della membrana basale dei glomeruli renali e degli alveoli polmonari Proteine della giunzione intercellulare delle cellule epidermiche Anemia perniciosa Fattore intrinseco prodotto dalle cellule parietali gastriche Diabete insulinoresistente Miastenia gravis Recettore per l’insulina Morbo di Graves Recettore del TSH Recettore dell’acetilcolina Infiammazione mediata dal complemento e dal recettore dell’Fc Nefrite; emorragia polmonare Attivazione delle proteasi mediata da anticorpi; distruzione delle adesioni intercellulari Neutralizzazione del fattore intrinseco; diminuito assorbimento della vitamina B12 Gli anticorpi inibiscono il legame dell’insulina Gli anticorpi inibiscono il recettore dell’acetilcolina o la sua espressione Stimolazione dei recettori del TSH mediata da anticorpi Vescicole cutanee (bolle) Eritropoiesi anomala; anemia Iperglicemia; cheto acidosi Debolezza muscolare; paralisi Ipertiroidismo Le reazioni di ipersensensibilità di tipo III o reazioni mediate da immunocomplessi sono caratterizzate dalla formazione di immunocoplessi sia in circolo che a livello delle membrane vasali. Gli immunocomplessi sono costituiti da antigene, anticorpo IgG o IgM e complemento. La reazione tossica inizia quando l'antigene si combina con l'anticorpo in circolo e questi sono depositati, tipicamente nella parete dei vasi, provocando un’infiammazione locale che può andare incontro a necrosi. La patogenesei delle malattie da immunocomplessi inizia con la formazione dei complessi antigene-anticorpo. Ciò causa l’attivazione del complemento che determina la produzione di fattori chemiotattici che guidano la migrazione di leucociti polimorfonucleati e monociti (C5a), e la liberazione di anafilotossine (C3a e C5a) che aumentano la permeabilità vascolare. I leucociti sono attivati dall'impiego dei loro recettori per i frammenti C3b e Fc da parte degli immunocomplessi. Questo determina la produzione di determinate sostanze ad azione infiammatoria come le prostaglandine, peptidi vasoattivi, sostanze chemotattiche ed enzimi lisososmiali. La liberazione di istamina, ad opera dei basofili, causa l’apertura delle giunzioni cellulari endoteliali (desmosomi) scoprendo la lamina basale (fibrociti con recettori per il frammento Fc delle Ig) e, dopo la precipitazione degli I.C., gli enzimi lisosomiali (neutrofili-fagocitosi) vengono esocitati e provocano la distruzione della lamina basale dei piccoli vasi e, talora, della lamina elastica (vasculiti) , con emoragie; si formano inoltre trombi bianchi (piastrine e neutrofili) che causano necrosi ischemica tissutale. I danni ai tessuti derivano anche da radicali liberi dell'ossigeno. La reazione di Arthus si presenta come un'area localizzata di necrosi tissutale risultante da una vasculite acuta da immunocomplessi. Fu scoperta da Arthus nel tentativo di immunizzare un coniglio con la sieroalbumina bovina. Nei soggetti già sensibilizzati nei riguardi di un particolare antigene, l’introduzione dello stesso antigene in un tessuto porta alla formazione di immunocomplessi a base di IgG nei fluidi extracellulari. Poiché la dose antigenica è bassa, gli immunocomplessi si formano esclusivamente nel sito di iniezione, dove attivano il complemento. L’attivazione del complemento rilascia i mediatori dell’infiammazione C5a, C3a e C4a. C5a induce la degranulazione dei mastociti. In seguito all’attivazione delle mastcellule, il sito viene invaso da cellule infiammatorie, con conseguente aumento della permeabilità vasale e del flusso ematico. Le piastrine si accumulano nel capillare portando all’occlusione e alla rottura del vaso e all’insorgenza di eritema. La lesione di Arthus si sviluppa in poche ore e raggiunge il picco dalle 4 alle 10 ore dopo l'inoculo; si presenta l'edema con grave emorragia seguita talvolta da ulcerazione. La malattia da siero è la tipica patologia da immunocomplessi. Tale condizione si manifestava dopo circa 7-10 giorni dalla somministrazione del siero di cavalli ed era caratterizzata da brividi, febbre, rash, artrite, vasculite e talvolta glomerulonefrite. La causa di tale malattia è da attribuire alla formazione di anticorpi contro le proteine eterologhe del cavallo e alla deposizione di piccoli immunocomplessi nei tessuti. La malattia da siero indotta da farmaco è ora l’esempio più comune di tale condizione patologica. L’esordio della malattia coincide con la sintesi di anticorpi che formano I.C. con le proteine antigeniche. Tali complessi immuni fissano il complemento e attivano i leucociti che espongono recettori per FC o recettori per il complemento. Queste cellule attivate inducono una risposta infiammatoria che provoca un danno diffuso. La formazione di immunocomplessi provoca l’eliminazione delle proteine antigeniche attraverso le normali vie fagocitarie; di conseguenza la malattia da siero ha una durata limitata a meno che non vengano somministrate altre iniezioni di antigene eterologo: in questo caso, si manifesterà una risposta secondaria con i sintomi della malattia da siero entro uno o due giorni dalla seconda iniezione. Malattia Antigene coinvolto Meccanismo Lupus erimatoso sistemico DNA, nucleoproteine Poliartrite nodosa Antigene di superficie del virus dell’epatite B Glomerulo nefrite poststreptococcica Antigene della parete streptococcica; possono impiantarsi nella membrana basale del glomerulo Infiammazione mediata da complemento e recettori Fc Infiammazione mediata da complemento e recettori Fc Infiammazione mediata da complemento e recettori Fc Manifestazioni clinico patologiche Nefrite, vasculite, artrite Vasculite Nefrite Le reazioni di ipersensibilità o reazioni di ipersensibilità ritardata sono scatenate da linfociti T, sia CD8+ che CD4+, attivati dall’antigene (sensibilizzati). Vengono provocate da alcuni batteri, come bacillo tubercolare, salmonella typhi, brucella, da virus (morbillo e parotite), funghi, punture d’insetto, sostanze chimiche e farmacologiche. L’ipersensibilità mediata dai linfociti CD4+ prende il nome di ipersensibilità ritardata (DTH), in quanto si manifesta 24-72 ore dopo la stimolazione. È mediata da due sottopopolazioni linfocitarie TH1 e TH17, in base al tipo di citochine prodotte dalle APC al momento dell’attivazione. I linfociti TH1 secernono citochine responsabili di molte manifestazioni dell’ipersensibilità ritardata. In particolare, l’INF-γ attiva i macrofagi in vari modi: aumenta notevolmente la loro capacità di internalizzare e uccidere i microrganismi; aumenta l’espressione sulla membrana delle molecole MHC-II, facilitando la presentazione dell’antigene; aumenta la produzione di IL-12, amplificando la risposta TH1; attiva la secrezione di TNF, IL-1 e chemochine. Le chemochine inducono il reclutamento dei macrofagi nel sito dell’antigene. Il rilascio di TNF-α e della citotossina TNF-β causa la distruzione tissutale locale. IL-3 e GM-CSF stimolano la produzione di macrofagi. I linfociti TH17 sono attivati da alcuni antigeni microbici e dagli antigeni self nelle malattie autoimmuni. I linfociti TH17 attivati secernono IL-17, IL-22, chemochine e altre citochine. Tutti questi mediatori reclutano i neutrofili e i monociti in loco, amplificando l’infiammazione. I linfociti TH17 producono IL-21, che amplifica la risposta TH17. L’esempio tipico di una reazione di ipersensibilità di tipo IV è la dermatite da contatto. Può svilupparsi per contatto con monete, gioielli e altri oggetti metallici contenenti nickel, nonché sostanze vegetali (come, per es, l’edera). Nella dermatite da contatto, l’aptene forma, legandosi a un gruppo libero NH2 di una proteina dell’epidermide, un complesso aptene-carrier. Le cellule di Langherans internalizzano il complesso aptene-carrier, e migrano ai linfonodi dove presentano l’antigene ai linfociti T CD4+ , che secernono varie citochine (IL-2, GM-CSF, TNF-α e β e IFN-γ). Le cellule T attivate rilasciano INF-γ, che induce l’espressione di ICAM-1 e di molecole MHC di classe II su cheratinociti, e citochine endoteliali. I chieratinociti attivati rilasciano IL-1, IL-6 e GM-CSF. Altri linfociti T non antigene-specifici sono attirati nel sito dalle citochine, e possono legarsi ai cheratinociti via ICAM-1 e MHC-II. Allo stesso modo, i macrofagi attivati vengono attirati in loco al fine di secernere i mediatori proinfiammatori. Le cellule B e T acquisiscono la capacità di non rispondere agli antigeni self durante la loro maturazione nel timo e nel midollo osseo. Questa condizione è definita “tolleranza centrale” ed è indotta mediante: selezione negativa, per cui i linfociti T iperresponsivi ad antigeni self vengono eliminati per apoptosi revisione recettoriale, per la quale i linfociti B che reagiscono intensamente ad antigeni self subiscono un riarrangiamento genico del recettore per l’antigene. La tolleranza immunitaria è mantenuta in periferia mediante vari meccanismi: ignoranza, per cui alcuni antigeni sono inaccessibili al sistema immunitario e pertanto ignorati dallo stesso. Anergia, che consiste nell’inattivazione funzionale prolungata o irreversibile dei linfociti T, indotta dall’incontro con lo specifico antigene. Si riconoscono due meccanismi di anergia: perdita della capacità di segnalazione del TCR e inibizione dei linfociti T autoreattivi da parte di recettori strutturalmente omologhi al CD28 ma con funzione opposta (CTLA-4). Soppressione da parte dei linfociti T regolatori Delezione clonale attraverso apoptosi indotta dall’attivazione linfocitaria. La malattia autoimmune è una condizione patologica in cui è avvenuta la rottura della tolleranza verso un determinato antigene o verso più antigeni “self”. Il risultato della scomparsa della tolleranza è la formazione di autoanticorpi e cellule T autoreattive che inducono il danno tissutale e la malattia. Un processo autoimmune può essere provocato con quattro diversi meccanismi esclusivi: 1. Mancata induzione della tolleranza, che comporta: - Comparsa di neoantigeni o di antigeni dissequestrati - Ricomparsa di antigeni fetali. - Aptenizzazione di cellule autologhe. 2. Rottura dello stato di tolleranza, che causa: - Reazioni crociate tra antigeni esogeni ed endogeni (glomerulonefrite poststreptococcica). - Alterazione di autoantigeni. 3. Deficit immunologico, che può essere: - A carico dei linfociti T soppressori/regolatori (LES). - A carico della rete idiotipica (anticorpi anti-recettore acetilcolina e myasthenia gravis) 4. Molecole MHC ed associazione MHC-autoimmuità. A tal proposito è stato dimostrato l’espressione delle molecole MHC su cellule non presentanti l’antigene. Allo stesso modo è stata dimostrata un’associazione tra determinati aplotipi ed alcune malattie autoimmuni. Alcuni esempi sono: - L’allele D3 con il LES e la miastenia grave - L’allele DR3 e l’allele DR4 con il diabete mellito insulino-dipendente - L’allele DR5 con la tiroidite di Hashimoto. Possiamo suddividere le malattie autoimmuni in patologie mediate da: - Complessi antigene-anticorpo, nello specifico antigene in bassa quantità nelle malattie organo-specifiche ed in alta quantità in quelle sistemiche. - Anticorpi antirecettore (nelle patologie organo-specifiche). - Linfociti T (nelle malattie organo-specifiche). Le malattie autoimmuni sperimentali sono spesso caratterizzate dalla presenza di un’infiltrazione dell’organo da parte di cellule mononucleate e di un’ipersensibilità ritardata nei confronti degli autoantigeni, coesistenti con l’intervento degli autoanticorpi. Il ruolo prevalente delle cellule T è stato dimostrato per il diabete del topo non obeso (NOD). La malattia può essere trasferita mediante popolazioni purificate di cellule T ad animali non immunocompetenti. Allo stesso modo, l’iniezione locale in topi sani di linfociti T autosensibilizzati in vitro su colture di cellule tiroidee o testicolari induce rispettivamente una tiroidite o orchite. Queste evidenze suggeriscono che le cellule T sono implicate nella patogenesi delle malattie autoimmuni. Quest’ultima risulta caratterizzata da: Riduzione dei segnali tolerogeni da parte dell’antigene. Questa può essere dovuta a: - Autoantigeni in concentrazione troppo bassa nei tessuti linfatici per attivare lo stato anergico. - Cellule B e T che quando incontrano questi antigeni nei siti extralinfatici riceverebbero una forte stimolazione immunogena. Aumento dei segnali immunogeni dall’antigene. Ciò può essere indotto dalla presentazione improvvisa di un antigene virale o batterico in forma immunogena e cross-reazione con antigeni self. Diminuzione della costimolazione tolerogena. Può essere causata da: - Deficit di Fas L, per cui viene meno l’apoptosi dei cloni self. - Deficit di CD40 L con deficit del sistema Fas delle cellule B. Aumento della costimolazione immunogena. - In modelli animali: l’aumento di TNF-, B7-1, IL-4 sulle insulae induce la predisposizione a diabete tipo 1. - Un eccesso di morte cellulare per necrosi (come nei tumori): il complesso antigene + HSP determina uno stimolo immunogeno. - Il deficit di C1q causa una ridotta clearance materiale necrotico. Una volta innescato il processo autoimmune con rottura della tolleranza immunologica, i meccanismi che determinano il danno tissutale e/o funzionale sono riconducibili a: fagocitosi/citolisi delle cellule target formazione di immunocomplessi interferenza con la fisiologia cellulare (anti-Ach, TRAB). Le strategie terapeutiche dirette al trattamento delle malattie autoimmuni possono essere distinte in due tipologie: Terapie standard includono: terapie sintomatiche: uso dell’insulina; ormoni tiroidei. terapie immunosoppressive: corticosteroidi, ciclofosfammide, ciclosporina. Terapie con citochine ed inibitori di citochine: uso di MoAbs chimerici anti TNF-α per artrite reumatoide. Terapie con approcci sperimentali sono finalizzate a: Aumentare la soglia di attivazione immunitaria mediante a. blocco costimoli (CTLA4-Ig, anti-CD40L, blocco CD28-B7) b. uso di citochine tolerogeniche (TGF-, IL-10) Modulare la risposta antigene-specifica attraverso l’induzione di tolleranza con vaccini “negativi” (insulina, collagene) o mediante lo shift Th1-2. Ricostruire il sistema immunitario (ablazione-trapianto di midollo). Proteggere l’organo bersaglio (anti-C, anti-NOS, anti-chemochine etc.). I criteri che consentono di definire come autoimmune una malattia sono distinti in: 1. Criteri maggiori; consistono in: Presenza di infiltrati linfocitari localizzati nell’organo bersaglio o diffusi a diversi apparati. Presenza di autoanticorpi e/o linfociti autoreattivi circolanti e/o localizzati a livello dell’organo bersaglio. Possibilità di identificare ed isolare gli autoantigeni implicati nella reazione autoimmune. Efficacia della terapia immunosoppressiva. 2. Criteri minori; comprendono: Familiarità Associazione con HLA Sesso femminile Ipergammaglobulinemia Associazioni con altre malattie autoimmuni La malattia viene definita come autoimmune quando almeno due di questi criteri risultano essere soddisfatti. A seconda della sede in cui si verifica la reazione immunopatologica le malattie autoimmuni possono essere suddivise in Sistemiche o generalizzate, se le reazioni autoimmuni sono dirette contro antigeni diffusi. I meccanismi patogenetici consistono prevalentemente nella formazione di immunocomplessi autoanticorpo-autoantigene. Appartengono a questo gruppo: LES, artrite reumatoide, sclerodermie e vasculite. Organo-specifiche, se l’autoimmunità è diretta contro un singolo organo o tessuto. I meccanismi patogenetici consistono prevalentemente in auto-anticorpi anti-recettori e reazioni di tipo IV (cellulo-mediata). Appartengono a questa categoria: morbo di Addison, anemia perniciosa, epatiti autoimmuni, anemie emolitiche autoimmuni. Myasthenia gravis. La miastenia è un’affezione neuromuscolare che si manifesta con un’anomala affaticabilità muscolare. È talvolta localizzata, specie a carico dei muscoli oculomotori, ma più spesso è generalizzata. L’elettromiografia rivela un blocco neuromuscolare parziale senza poter chiarire se la natura è presinaptica (dovuto a riduzione della produzione di acetilcolina) o postsinaptica (per l’interessamento dei recettori della placca motrice). L’origine immunitaria della miastenia è data da alcune osservazioni: associazione frequente con anomalie timiche riscontro di autoanticorpi multipli con specificità nei confronti di diversi organi associazione con altre malattie autoimmuni (morbo di Basedow, anemia perniciosa) associazione con antigeni MHC (B8, DR3) noti per la loro correlazione con patologie autoimmunitarie L’origine autoimmune è, inoltre, confermata della descrizione di miastenie sperimentali, molto simili alla malattia umana, e dalla dimostrazione della presenza quasi costante, nel siero dei malati, di anticorpi diretti contro il recettore nicotinico dell’acetilcolina (RACh). Il meccanismo d’azione degli anticorpi anti-RACh è ancora incerto: la perdita di RACh sarebbe dovuta ad una azione diretta degli anticorpi sui recettori; i complessi anticorpirecettore migrerebbero nella membrana (capping), scomparendo dalla superficie cellulare per internalizzazione. Il risultato consisterebbe in un aumento del tasso di degradazione e di rinnovamento (turnover ) dei recettori. Il timo dei miastenici presenta spesso delle anomalie anatomiche; è possibile osservare la presenza di timoma epiteliale o linfoepiteliale, oppure iperplasia timica con centri germinativi e follicoli linfoidi. Il trattamento della Myasthenia gravis prevede l’impiego di farmaci anticolinesterasici per migliorare la trasmissione muscolare; farmaci immunosoppressori (corticosteroidi e immunosoppressori citostatici); plasmaferesi (rimozione anticorpi anti-RACh) timectomia Diabete mellito. Il diabete insulino-dipendente (diabete di tipo I) è caratterizzato da una distruzione selettiva delle cellule beta degli isolotti di Langherans deputati alla produzione di insulina. Diversi argomenti suggeriscono che la malattia sia di origine autoimmune e sotto il controllo genetico. A tal proposito sono stati identificati autoanticorpi anti-cellule insulari; in particolare: anticorpi anti-citoplasma delle cellule insulari (frequente cross-reazione con cellule Alpha producenti glucagone) anticorpi contro antigeni di menbrana delle cellule beta. Da notare che spesso questi anticorpi si ritrovano anche in pazienti affetti da altre malattie autoimmuni (miastenia, tiroidite di Hashimoto) e nei familiari sani di soggetti diabetici. È coinvolta anche l’immunità cellulo-mediata. L’insulite è un’infiltrazione infiammatoria peri- e intra-insulare da parte di cellule mononucleate (linfociti, macrofagi) che interessa preferenzialmente le cellule beta. Le cellule T dei diabetici inibiscono la produzione di insulina da parte delle cellule insulari. Il substrato genetico è determinato da: associazione ad altre malattie autoimmuni elevato tasso di concordanza tra gemelli monozigoti ben stabilita associazione del diabete mellito con alcuni antigeni MHC classe II (DR3, DR4). La storia naturale del diabete di tipo1 prevede cinque fasi: fase 1: ereditarietà che determina suscettibilità genetica per lo sviluppo di malattie autoimmuni fase 2: evento precipitante, per cui un fattore ambientale innesca il processo. fase 3: attivazione del sistema immunitario, con produzione di autoanticorpi o linfociti autoreattivi fase 4: anomalie metaboliche iniziali che consistono nella perdita del picco precoce di secrezione insulinica fase 5: esordio clinico con distruzione di gran parte delle cellule beta. Lupus Eritematoso Sistemico. Il Lupus Eritematoso Sistemico è una malattia infiammatoria cronica autoimmune plurisistemica, che caratteristicamente colpisce i reni, le articolazioni, le membrane sierose e la cute. Il LES è una malattia autoimmune in quanto si formano autoanticorpi contro una batteria di antigeni self. Questi comprendono: proteine plasmatiche, antigeni della superficie cellulare, componenti citoplasmatici, DNA nucleare, ribonucleoproteine e istoni. Nella patologia lupica, gli autoanticorpi si legano ad antigeni di superficie: globuli rossi: anemia emolitica piastrine: trombocitopenia autoimmune neutrofili e linfociti: leucopenia. formano immunocomplessi: Vasculite artrite alcuni autoanticorpi hanno un meccanismo patogenetico non chiarito: anti-SSA: fotosensibilità, rash, LES neonatale. Gli ANA (Anticorpi Anti-Nucleo) sono gli autoanticorpi più importanti ai fini diagnostici. Sono autoanticorpi contro il DNA a doppio filamento e contro un complesso antigenico nucleare solubile detto antigene Sm (Smith). La presenza di un titolo elevato di questi autoanticorpi è quasi patognomonica del LES: sono positivi nel 98 % dei LES, ma non specifici, in quanto presenti in altre patologie, come Sclerosi sistemica, Artrite reumatoide, Epatite autoimmune, Linfomi e Infezioni croniche. L’eziologia del Lupus Eritematoso Sistemico è sconosciuta. Potenziali fattori eziologici includono: virus (EBV) ormoni (estrogeni) predisposizione genetica (HLA B8) farmaci (ad esempio procainamide). Questi possono indurre perdita della tolleranza o suscettibilità acquisita ad auto-antigeni, con produzione di cellule T CD4+ autoreattive e conseguente iperattività da cellule B policlonali. Ciò determina la produzione di autoanticorpi e la formazione di immunocomplessi in circolo e nei tessuti con danno tessutale (glomerulo nefrite, vasculite, serosite, artrite). La diagnosi si basa sulla presenza di almeno quattro criteri (cumulativi), tra gli undici proposti dalla ACR; i criteri per la classificazione del LES includono: Rash malare Rash discoide Fotosensibilità Ulcere orali Artrite Malattia renale Malattia neurologica Malattia ematologica Disordine immunologico ANA positivi La terapia deve essere individualizzata e dipende dall’organo interessato e dalla gravità dell’interessamento. Scopo della terapia è sopprimere le manifestazioni di malattia. Anche se l’interessamento cutaneo può essere esteso e devastante da un punto di vista estetico, la malattia non mette in pericolo di vita. Il danno all’epidermide nelle lesioni cutanee sembra essere scatenato da agenti esterni come i raggi UV e continuato da reazioni immunitarie cellulo-mediate simili a quelle delle reazioni del trapianto contro l’ospite. Le caratteristiche del danno epidermico comprendono: Vacuolizzazione dei cheratinociti basali, ipercheratosi e diminuzione dello spessore dell’epidermide; - Rilascio di DNA e altri antigeni nucleari e citoplasmatici nel siero; - Deposizione di DNA ed altri determinanti antigenici nella zona della membrana basale dell’epidermide. Il LES discoide è una forma di Lupus che interessa solo la cute. La malattia si localizza di solito sopra il collo e si rende evidente sul volto, il cuoio capelluto e le orecchie. Le lesioni esordiscono come papule leggermente rilevate, violacee, con una squama ruvida di cheratina. Ingrandendosi, le lesioni assumono una forma a disco con la periferia ipercheratosica e il centro depigmentato. Le lesioni possono arrivare a creare cicatrici sfiguranti. A livello istologico, nel derma papillare ed avventiziale è presente un infiltrato linfocitario che determina atrofia dell’epidermide; si osserva, inoltre, ispessimento della membrana basale. Endocrinopatie Autoimmuni. Tiroide: Morbo di Basedow, Tiroidite di Hashimoto, Mixedema idiopatico Surrene: Insufficienza cortico-surrenalica primitiva (morbo di Addison) Pancreas endocrino: Diabete mellito di tipo 1 Ovaio/testicolo: Infertilità maschile autoimmune, Insufficienza gonadica primitiva Paratiroidi: Ipoparatiroidismo idiopatico Ipotalamo/ipofisi: Ipofisite autoimmune, Ritardo staturale Sistema endocrino: Diabete insipido centrale idiopatico, Diabete mellito di tipo I, forse Diabete mellito tipo 2 Tratto gastro-intestinale: Gastrite antrale (tipo B) Recettori ormonali: Miastenia grave. Le Tireopatie Autoimmuni si classificano in: Tiroidite atrofica o mixedema idiopatico consiste in un ipotiroidismo primitivo conclamato (mixedema). Tiroidite cronica linfocitaria di Hashimoto si caratterizza per gozzo, infiltrazione linfocitaria della ghiandola con eutiroidismo e vari gradi di ipotiroidismo. Morbo di Basedow (o malattia di Graves) si presenta con gozzo diffuso e ipertiroidismo spesso associato a oftalmopatia basedowiana (esoftalmo). Dal punto di vista genetico, le tireopatie autoimmuni mostrano la tendenza della patologia ad aggregarsi nell'ambito di alcune famiglie. Anticorpi anti-tiroide sono riscontrati in circa il 50% dei parenti di primo grado dei pazienti con Tiroidite di Hashimoto o Morbo di Basedow. È stata inoltre rilevata un’elevata frequenza degli antigeni HLA-DR5 o HLA-B8/DR3. La patogenesi della Tiroidite di Hashimoto, del Mixedema Idiopatico e del Morbo di Basedow prevede: - Citotossicità anticorpo-dipendente complemento-mediata - Citotossicità diretta o indiretta mediata dalle cellule T - Deposizione locale di immunocomplessi. Nelle tireopatie autoimmuni si osservano reazioni immunitarie cellulo-mediate dirette contro antigeni specifici della tiroide umana (sicuramente la Tg). I linfociti T e B circolanti non presentano nessuna anomalia tranne un aumento dei linfociti T circolanti CD8+, (indice del grado di attività del processo autoimmune). I linfociti infiltranti la tiroide producono elevate quantità di autoanticorpi anti-tiroide. - In particolare, caratteristico nel Morbo di Basedow è la presenza di autoanticorpi antirecettore. Gli anticorpi tiroidostimolanti (una volta chiamati LATS) fanno parte della classe di immunoglobuline IgG ed hanno il compito di attivare il sistema adenilciclasi di membrana del recettore del TSH con conseguente produzione di ormoni tiroidei. La secrezione di anticorpi anti-recettore del TSH costituisce la base patogenetica dell'ipertiroidismo nel morbo di Graves-Basedow. Il recettore del TSH è una glicoproteina di membrana con il sito di legame per il TSH nella subunità A. Gli Anticorpi anti-recettore del TSH includono: Anticorpi inibenti il legame del TSH (TBII) (dosaggio radiorecettoriale) Anticorpi bloccanti il recettore del TSH (TSH-R-BAb) (dosaggio biologico) Anticorpi stimolanti il recettore del TSH (TSH-R-SAb ) (dosaggio biologico) I TSH-R-B-Ab bloccano il legame del TSH al TSH-R, riducendo: la produzione cAMP, l’uptake dello iodio, la sintesi della Tg, della TPO e degli OT (ormoni tiroidei), la crescita cellulare. Il dosaggio dei TRAb è utile: Nella valutazione diagnostica dei pazienti con oftalmopatia basedowiana non associata ad ipertiroidismo in atto. Nella diagnosi differenziale tra gozzo nodulare tossico e gozzo nodulare con sovrapposto morbo di Basedow. Nella predizione delle recidive di ipertiroidismo nei pazienti basedowiani. Nella valutazione del rischio di ipertiroidismo o di ipotiroidismo neonatale transitorio nei bambini di madri affette da morbo di Basedow o tiroidite autoimmune. Gli Anticorpi Anti-Ormoni Tiroidei includono: - Anti-T3 ed Anti-T4 e un particolare tipo di anticorpi anti-Tg. - Anticorpi Anti-Tireoperossidasi (TPO) È opportuno richiedere gli anticorpi antitireoglobulina (Tgab) e antitireoperossidasi (TPOab) in condizioni di: ipotiroidismo, ipertiroidismo, gozzo uni o multi nodulare, oftalmopatia, familiarità per malattie autoimmuni tiroidee, altre malattie autoimmuni organo specifiche,, anomalie cromosomiche (sindrome di Turner, sindrome di Down). Le tireopatie autoimmuni mostrano associazione con altre malattie autoimmuni, in particolare: Gastrite Atrofica e Anemia Perniciosa, oltre che con Diabete di tipo I, Miastenia Grave, Morbo di Addison, che si presentano con minore frequenza. Non si osserva nessuna chiara associazione con malattie autoimmuni sistemiche, come AR, LES. Ci sono diverse metodiche che permettono la determinazione del dosaggio di anticorpi. La Tecnica Radioimmunologica si avvale dell’impiego di anticorpi rivolti verso alcuni enzimi che si comportano come antigeni nelle malattie autoimmuni endocrine. Questi comprendono: anticorpi anti 21 idrossilasi, anticorpi anti 17 idrossilasi, anticorpi anti p450, La Metodica Immunoenzimatica (ELISA) utilizza enzimi per evidenziare la reazione antigene-anticorpo. Permette l’identificazione di anticorpi organo e non organo specifici nelle malattie autoimmuni endocrine e non: anticorpi anti gliadina, anticorpi anti cardiolipina. La Metodica Di Immunofluorescenza Indiretta utilizza fluorocromi come marcatori della reazione antigene-anticorpo. Questo test può essere allestito con due metodi: Metodo diretto, per cui l’anticorpo specifico coniugato al fluorocromo si fa direttamente aderire agli antigeni cellulari. Metodo indiretto, per cui, in una prima fase, l’anticorpo non coniugato si fa aderire agli antigeni cellulari; in una seconda fase, si aggiunge un anticorpo secondario, che riconosce il frammento Fc dell’anticorpo primario, coniugato con un fluorocromo. Un particolare tipo di immunofluorescenza indiretta è a doppia colorazione: si avvale dell’impiego di un anticorpo roda minato legato all’anticorpo antiormone e di un antisiero fluoresceinato complessato al siero del paziente. I due complessi sono legati all’antigene fissato sul vetrino. Relativamente alle tireopatie autoimmuni, gli anticorpi anti tireoglobulina e gli anticorpi anti tireoperossidasi vengono dosati mediante ELISA e RIA; il dosaggio degli anticorpi anti recettore del TSH è realizzato mediante RIA e/o metodica radio recettoriale. La Citofluorimetria (o citometria a flusso) è una tecnica che permette la misurazione e la caratterizzazione di parametri fisici e chimici di particelle biologiche o di cellule contenute in una sospensione. Tale tecnica permette di valutare contemporaneamente più parametri in diverse migliaia di cellule ad una velocità molto rapida. Essa si basa sull’utilizzo di sonde o reagenti fluorescenti specifici, che permettono di studiare caratteristiche funzionali e strutturali di cellule, sia normali che neoplastiche. Alcuni citofluorimetri sono inoltre in grado di separare fisicamente da una sospensione eterogenea sottopopolazioni di cellule sulla cui membrana è presente una struttura riconosciuta da una sonda specifica. Questa procedura è chiamata “cell-sorting”. Negli ultimi anni la CFM ha raggiunto una notevole diffusione, sia in laboratori clinici che in laboratori di ricerca. Fattori che hanno contribuito a questo notevole sviluppo sono: la possibilità di utilizzare più laser di emissione, che permette di effettuare analisi multiparametriche a quattro e più colori; la disponibilità di MoAb marcati con un’ampia gamma di fluorocromi e diretti contro una larghissima varietà di Ag di membrana e/o intracellulari; la riduzione dei costi e della complessità nell’utilizzo dello strumento. L’ipiego di questa tecnica offre, dunque, numerosi vantaggi: possibilità di analisi multiparametrica elevato numero di cellule esaminate rapidità dei tempi di analisi (oltre 1000 cellule/sec) obiettività, riproducibilità e affidabilità statistica delle letture i campioni possono essere processati senza perdere la vitalità cellulare Ciononostante presenta alcuni limiti: analisi di cellule molto rare, che a causa del loro ridotto numero in confronto agli eventi analizzati potrebbero essere difficilmente separabili dal “rumore di fondo” necessità di dover lavorare con campioni in fase monodispersa impossibilità di localizzare la sede di provenienza del segnale in caso di contemporanea presenza di marcatori nei diversi compartimenti cellulari Principio di 18unzionamento della citometria a flusso. 1. Le cellule di una popolazione eterogenea vengono aspirate dalla provetta e immesse in una camera di flusso dove vengono separate le une dalla altre. 2. Ogni singola cellula viene poi attraversata da un fascio di luce che eccita i fluorocromi e determina l’emissione di un segnale fluorescente. 3. Il segnale passando attraverso un sistema di filtri e specchi raggiunge un rivelatore. 4. Viene quindi processato elettronicamente, trasformato da analogico a digitale e inviato all’analizzatore, che elabora il dato e lo visualizza tramite un grafico. 5. Attraverso piastre di deflessione le cellule analizzate possono essere raccolte separatamente tramite un processo definito “sorting”. Le componenti di un citofluorimetro a flusso includono: Il sistema fluidico. Produce un flusso laminare intorno alla sospensione cellulare, permettendo il passaggio delle particelle ad una velocità costante, allineate lungo un identico asse, attraverso il punto di rilevazione (cella di flusso). E’ importante evitare la formazione di aggregati cellulari. La velocità di efflusso delle cellule viene valutata come numero di eventi al secondo: numero di particelle che hanno incontrato il raggio di luce nell’unità di tempo. La camera a flusso. Le cellule monodisperse (da sangue periferico, da aspirato midollare, agoaspirato da tessuti solidi) vengono aspirate in una camera a flusso, dove vengono diluite e allineate tramite un sistema fluidico a flusso laminare. Nel flusso coesistono una corrente interna ed una esterna (sheat), una soluzione salina isotonica, che confina la sospensione cellulare al centro del flusso. La pressione di spinta e la diluizione del campione consentono una velocità di conta più o meno costante, che può essere regolata tra 200 e 2000 cellule/sec. Le particelle cosi disposte attraversano ortogonalmente un raggio di luce monocromatico, prodotto da una sorgente laser o da speciali lampade. Il sistema di illuminazione. Consiste di un fascio di luce, che incide sul materiale in sospensione e che permette di produrre segnali di rifrazione della luce e/o emissione di fluorescenza. Nella grande maggioranza dei citofluorimetri si utilizza una sorgente laser ad ioni Argon centrata su una lunghezza d’onda di 488 nm (blu). Tale luce consente una efficace misura dei parametri fisici, inoltre permette la contemporanea eccitazione di diversi fluorocromi. Un’alternativa più economica è costituita dall’uso dei citometri a lampada, che hanno come fonte di eccitazione una lampada a vapori di Mercurio o Xenon che non richiede particolari sistemi di raffreddamento. Sono utili per le applicazioni che riguardano particolari fluorocromi (es. quelli utilizzati per la marcatura del DNA). Hanno però dei limiti dovuti alla bassa potenza erogata, scarsa stabilità della luce di emissione, rapido decadimento. Quando viene colpita dal fascio di luce emesso dal laser, la cellula emette segnali di luce diffusa in base alle proprie caratteristiche fisiche e morfologiche, per fenomeni di rifrazione, riflessione, e diffrazione. In particolare la luce dispersa in avanti (Forward Scatter) è legata alle dimensioni delle cellule, mentre la luce riflessa a 90° (Side Scatter o Right Scatter) è da attribuire a parametri della morfologia cellulare come la granulosità del citoplasma, il rapporto nucleo/citoplasma, la rugosità di superficie. La combinazione dei segnali di scattering permette di creare un particolare diagramma di dispersione, noto come Citogramma. Permette di discriminare tra diverse popolazioni cellulari basandosi solamente sulle loro caratteristiche fisiche. Il secondo tipo di segnale luminoso rilevato da un citofluorimetro è la Fluorescenza. In citofluorimetria vengono rilevati segnali fluorescenti generati: dall’utilizzo di MoAb marcati con fluorocromi (FITC, PE, PerCp, APC, ecc) specifici per antigeni presenti sulla membrana, nel citoplasma, nel nucleo; da fluorocromi che si legano in maniera stechiometrica a determinate sostanze come il DNA e l’RNA. Ogni fluorocromo presenta una caratteristica lunghezza d’onda per l’eccitazione e l’emissione. Ci sono quattro diverse opzioni: 488nm blu (Fluoresceina-FITC; Ficoeritrina-PE), 633nm rosso (Alloficocianina-APC), 405nm viola (Pacific Blue), 350nm UV (DAPI). Vi sono dei limiti da considerare nella scelta dei fluorocromi da utilizzare in combinazione: la lunghezza d’onda di eccitazione le bande di emissione devono essere sufficientemente separate da permettere la loro appropriata misurazione. Come lavorano i fluorocromi? - un laser eccita il fluorocromo - il fluorocromo eccitato sale nel livello successivo della nuvola elettronica il fluorocromo ritorna al livello originale e rilascia l’energia in eccesso come fotone - i fotoni emettono a lunghezze d’onda maggiori rispetto a quelle a cui vengono eccitati. Il sistema ottico. Canalizza la luce incidente sulle particelle che l’attraversano, registra la luce diffusa e la fluorescenza emessa dai fluorocromi, dirigendole entrambe verso appropriati dispositivi opto-elettronici, ovvero i tubi fotomoltiplicatori. Il sistema elettronico. Trasforma la luce diffusa e la fluorescenza in impulsi elettrici (analogici). Le ampiezze di tali impulsi vengono distribuite elettronicamente in canali, permettendo la creazione di istogrammi, che rappresentano il numero di cellule contro il numero di canali. Il sistema di analisi dei dati. Consiste di un software che permette l’analisi di una grande quantità di informazioni ricevute dall’acquisizione di dati multiparametrici. Il software garantisce lo studio e l’analisi indipendente di una particolare popolazione cellulare. Esistono diversi modi per rappresentare un dato citofluorimetico. La rappresentazione più semplice è costituita dall’istogramma dove l’ascissa riporta l’intensità di fluorescenza e l’ordinata il numero di cellule che esprimono o meno l’antigene (diagramma di distribuzione). L’analisi statistica si basa sull’impostazione di cursori che delimitano le aree di interesse, e sulla quantificazione degli eventi cellulari che rientrano in tali aree. Per ogni picco è possibile calcolare dati statistici (valore medio, deviazione standard, coefficiente di variazione, ecc). Oltre all’istogramma è possibile utilizzare una serie di rappresentazioni bidimensionali, che permettono di mettere in correlazione due parametri tra di loro: il dot-plot, nel quale ogni singolo punto rappresenta un evento; il contour-plot, in cui si visualizzano aree aventi la stessa densità mediante linee concentriche. Sono molteplici le applicazioni della citofluorimetria; le principali includono: immunofenotipizzazione, viabilità cellulare, variazioni di pH, proliferazione e motilità cellulare, sorting, stato di ossidoriduzione, potenziale di membrana, struttura della cromatina, proteine totali, attività enzimatica, sintesi del DNA, degradazione del DNA, espressione genica, metabolismo ossidativo, carica superficiale, etc. Una delle maggiori applicazioni della citofluorimetria è rappresentata dall’analisi (e sorting) delle diverse popolazioni di cellule del sangue. Si sfruttano fondamentalmente due caratteristiche: 1. la maggior parte delle cellule del sangue mostrano distinti profili di forward and side scatter 2. le diverse popolazioni cellulari esprimono sulla propria superficie markers specifici che le discriminano dalle altre. L’ Immunofenotipizzazione è una tecnica utilizzata per identificare il tipo esatto di cellule che costituiscono un tessuto particolare attraverso la valutazione di Ag presenti sulla membrana cellulare o intracitoplasmatica. È Clinicamente importante sia nel campo delle neoplasie ematologiche che in quello dell’immunopatologia. Lo studio di tali neoplasie si basa essenzialmente su 4 obiettivi: dimostrazione della presenza nel campione di cellule anormali; caratterizzazione, con individuazione della linea cui appartengono e del loro stadio di maturazione; eventuale dimostrazione della loro clonalità; eventuale evidenziazione di fenotipi peculiari, direttamente associabili con una determinata entità nosografica e/o utili per tracciare la presenza delle cellule neoplastiche durante il follow-up successivo alla terapia o al trapianto. Una delle principali applicazioni cliniche e sperimentali della citofluorimetria riguarda l’immunofenotipizzazione linfocitaria, che consiste nell’utilizzazione di anticorpi specifici diretti verso i diversi marcatori di membrana CD al fine di differenziare, all’interno di un pool di linfociti provenienti da un dato campione, le diverse sottopopolazioni. I linfociti B, coinvolti nell’immunità di tipo umorale, sono caratterizzati dal possedere alcuni specifici marcatori, tra cui i CD19 e i CD21. I linfociti T, responsabili della risposta immunitaria di tipo cellulare, invece, oltre a possedere il marcatore di membrana CD3, sono divisi in due sottopopolazioni: i CD4+, o linfociti T helper, e i CD8+, o citotossici. L’immunofenotipizzazione linfocitaria consente quindi di valutare, all’interno di un campione, la diversa percentuale di queste sottopopolazioni linfocitarie. Un’altra applicazione della citofluorimetria è la misura del DNA cellulare, che permette di quantificare le deviazioni dal normale contenuto diploide di DNA delle cellule neoplastiche. Queste anomalie sono un importante parametro per la valutazione di tumori sia solidi che ematologici. Una delle prime applicazioni della citofluorimetria è stata proprio l’analisi della posizione nel ciclo cellulare, effettuata tramite quantificazione del DNA cellulare. La citofluorimetria è ancora oggi la tecnica più utilizzata per una veloce ed accurata determinazione della distribuzione delle cellule nelle varie fasi del ciclo cellulare. Un’altra applicazione è l’analisi del ciclo cellulare. Nel metodo più semplice, il contenuto di DNA è rilevato usando un colorante fluorescente in grado di legare il DNA con alta affinità. Lo Ioduro di propidio è il colorante più comunemente utilizzato. Di natura fenantridinica, si intercala tra le basi del DNA a doppia elica, formando un complesso stabile, che emette fluorescenza rossa quando viene eccitato. Dopo essersi legato al DNA, aumenta notevolmente la propria fluorescenza. Richiede la permeabilizzazione della membrana plasmatica. L’Hoechst 33342 è meno utilizzato, ma rappresenta una valida alternativa quando è richiesto la colorazione di cellule non permeabilizzate (vive). Il monitoraggio della proliferazione cellulare e posizione in ciclo per mezzo della misurazione del DNA quale singolo parametro pone diverse limitazioni: non permette di distinguere cellule in G0 da quelle in G1 (stesso contenuto di DNA) non permette di distinguere cellule in G2 da quelle in M (stesso contenuto di DNA); totale mancanza di informazioni circa la cinetica cellulare. È possibile realizzare un’analisi multiparametrica, per cui assieme al contenuto di DNA vengono valutati altri parametri della cellula strettamente correlati alla sua posizione nel ciclo. L’analisi multiparametrica è diventata il metodo preferenziale per studiare le connessioni tra la progressione nelle varie fasi del ciclo di una cellula e la sua crescita (es. contenuto di RNA, specifiche proteine), attivazione (es. specifici markers di superficie), proliferazione (es. Ki67, specifiche cicline) e differenziazione (es. specifici markers tumorali). Per esempio, le cellule in fase G2, con contenuto di DNA pari a 4n, avranno fluorescenza doppia rispetto alle cellule in fase G1 (contenuto di DNA 2n). Le cellule in S, avranno fluorescenza intermedia. Le cellule apoptotiche sono ipodiploidi. È possibile, anche, effettuare la valutazione dell'apoptosi mediante marcatura con Annessina V/colorante. Durante l’apoptosi le cellule subiscono specifiche modificazioni morfologiche, che portano alla perdita dell’integrità della membrana, alla formazione di corpi apoptotici e alla morte della cellula. Un cambiamento che avviene nella membrana cellulare durante le prime fasi del processo apoptotico è la traslocazione della fosfatidilserina (PS) dal lato interno della membrana a quello esterno. E’ possibile rilevare PS utilizzando Annessina V marcata, una proteina di 35 kDa che in presenza di specifiche concentrazioni di calcio è in grado di legarsi con alta affinità alla PS. Un metodo molto importante nello studio dell’apoptosi utilizza la colorazione dell’Annessina V in combinazione con un colorante, che lega gli acidi nucleici, in grado di discriminare tra cellule vive e morte (viability probe). I due coloranti più utilizzati sono PI (Ioduro di propidio) o 7AAD (7-Amino-actinomicina D). Grazie a questa combinazione possiamo ottenere un profilo dove le cellule vitali risultano negative ad entrambi i markers, quelle nelle prime fasi dell’apoptosi sono positive all’Annessina V e negative alla viability probe, quelle nella late apoptosi sono positive per entrambi i markers. La Compensazione è un processo che ha lo scopo di sottrarre da un certo canale una quota fissa di segnale relativo all’emissione di un altro fluorocromo. Nonostante tutte le accortezze, succede infatti che una radiazione di una certa intensità, di un fluorocromo si sovrappone alla lunghezza d’onda del fluorocromo successivo. Es: si sottra dal canale del PE (rosso), una quota fissa di segnale dovuto alla interferenza del FITC (verde), e viceversa. L’analisi multiparametrica, uno dei più potenti aspetti della citofluorimetria a flusso, permette di affrontare i problemi biologici della eterogeneità cellulare. Sfrutta due operazioni fondamentali della CFM: il gating e il sorting. Il Gating, utilizzando una finestra elettronica, permette di isolare una determinata popolazione da tutte le altre cellule, e di analizzare i parametri successivi solo all’interno della popolazione “ghettata”, dividendola così in ulteriori subpopolazioni. Il Sorting è un gating reale, che consente di raccogliere fisicamente le popolazioni che sono state separate dal resto della miscela. Si stabiliscono delle finestre di selezione per identificare le popolazioni di interesse che verranno separate e raccolte in provette distinte. Le cellule mantengono la vitalità dopo il sorting. Distinguiamo: Citofluorimetri a circuito chiuso: il campione analizzato viene perso Citofluorimetri a circuito aperto: il campione incontra il fascio di luce laser in aria, per poi essere recuperato selettivamente dopo il sorting. Il termine “sorting” indica la capacità di un citofluorimetro (FACS), di raccogliere fisicamente le sottopopolazioni cellulari separate dalla popolazione eterogenea iniziale in base alla diversa espressione antigenica. Il campione fluido viene frammentato in minuscole goccioline, ognuna delle quali contiene una singola cellula. Le goccioline vengono caricate elettricamente e deviate mediante piastre di deflessione negli appositi raccoglitori. Si riconoscono diverse strategie di gating. Nella situazione ideale, le cellule positive per il marcatore sono ben separate da quelle negative, rientrando quindi in una finestra ben definita. Può verificarsi una parziale sovrapposizione della fluorescenza tra cellule positive e negative per il marcatore Si può ottenere un picco unimodale di fluorescenza, in cui l’istogramma delle cellule positive presenta un leggero shift rispetto alle cellule non marcate. Le Immunodeficienze costituiscono un ampio gruppo di patologie caratterizzate da deficit della risposta immunitaria. Distinguiamo: Immunodeficienze primitive o congenite sono malattie geneticamente determinate in cui deficit di singoli componenti del sistema immunitario danno origine a specifici quadri di malattia. Interessano i precursori della linea cellulare B o T, oppure ambedue. Immunodeficienze acquisite sono condizioni secondarie a: infezioni, malnutrizione, invecchiamento, soppressione terapeutica. L a sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) è una malattia causata dal virus HIV (Human Immunodeficiency Virus, retrovirus non trasformante), e caratterizzata da immunodepressione responsabile di: infezioni opportunistiche Neoplasie alterazioni neurologiche La trasmissione del virus avviene mediante sangue o liquidi corporei contenenti il virus e/o le cellule infette; le maggiori vie di trasmissione sono: contatto sessuale. Il virus è presente nel liquido seminale (libero e/o all’interno di linfociti); attraverso microlesioni delle mucose, il virus può entrare nei vasi, e/o nelle cellule dentritiche e/o nelle T CD4+ delle mucose. Inoculazione parenterale. Soggetti che fanno uso di droga per via venosa usando strumenti contaminati da sangue infetto (ponte di trasmissione eterosessuale); Emofilici (non più presente, fattore VIII ricombinante); trasfusi occasionali (non più presente, screening per Ab anti-HIV) Passaggio da madre infetta a neonato. Distinguiamo: Passaggio intrauterino (diffusione transplacentare); Passaggio durante il parto (il canale del parto è infetto); Passaggio per allattamento. HIV-1 infetta cellule T CD4+ e macrofagi, direttamente o via cellule dendritiche. Il virus si replica nei linfonodi regionali (viremia e diffusione al tessuto linfatico). La risposta immunitaria dell’ospite controlla la viremia. Durante la fase di latenza clinica (stabilizzazione dell’infezione nel tessuto linfatico), la replicazione virale nelle cellule T e nei macrofagi continua. Il numero delle cellule CD4+ scende a livello critico e la malattia diventa conclamata. I macrofagi sono infettati precocemente dal virus, non subiscono lisi, e possono trasportare il virus al SNC. Dopo l’ingresso del virus, la proteina dell’involucro esterno virale, gp120 (associata non covalentemente alla proteina transmenbrana gp41) riconosce CD4 e due recettori delle chemochine. Il primo riconoscimento gp120-CD4 determina un cambiamento conformazionale di gp120, che diventa capace di riconoscere il recettore delle chemochine. Gp41 ha un cambiamento conformazionale e inserisce un peptide che favorisce la fusione fra gp41 e menbrana cellulare: il genoma HIV entra nel citoplasma. Segue la replicazione del virus mediante trascrizione inversa, e la formazione di cDNA. Nella cellula T quiesciente, il cDNA può restare citoplasmatico lineare; mentre nella cellula T in divisione, il cDNA circolarizza, entra nel nucleo, ed è integrato nel genoma dell’ospite (provirus). Può rimanere nel cromosoma per mesi o anni (infezione latente). Alternativamente, il DNA virale è trascritto, e si formano virus completi che gemmano dalla membrana cellulare; se la gemmazione è estesa, la cellula muore. In una cellula infettata latente, la trascrizione del DNA virale si ha se la cellula è attivata. L’attivazione da un Ag o da un mitogeno delle cellule T determina l’attivazione di una chinasi plasmatica che fosforila I-kB (inibitore di una kB). Il fattore di trascrizione NF-KB è quindi indotto, va nel nucleo e si lega ai siti kB dei promotori di diversi geni (fra cui IL-2 e IL-2R). Poiché le sequenze LTR del genoma HIV contengono siti per NF-kB, quando una CD4+ infettata in modo latente incontra un Ag ambientale, la risposta fisiologica di NF-kB ha come risvolto patologico la trascrizione del proovirus. Altri stimoli (citochine infiammatorie) capaci di indurre NFKB sono anche capaci attivare il provirus, e per contro citochine antiinfiammatorie (IL-10) hanno un effetto opposto. In pratica molteplici infezioni fanno aumentare la produzione di citochine pro-infiammatorie e quindi una maggior produzione virale. Il Decorso clinico dell’infezione da HIV prevede: 1) Fase Acuta Retrovirale. Si tratta di una risposta primaria all’infezione di un soggetto immunocompetente (con produzione di CTL virus-specifici ). Si ha la penetrazione del virus, trasporto ai linfonodi/milza, replicazione virale, viremia, e ulteriore disseminazione linfatica. Nel 40-90% dei casi, sintomi aspecifici parainfluenzali, che regrediscono spontaneamente in 2-4 settimane. 2) Fase Intermedia Cronica. Rappresenta la fase di contenimento dell’infezione pur in presenza di replicazione virale, con latenza clinica. Si ha assenza di sintomi, oppure linfoadenopatia generalizzata con infezioni oppurtunistiche minori (mughetto, zoster). Una linfoadenopatia persistente e segni evidenti (febbre, eruzioni cutanee, astenia) indicano l’insorgenza dello scompenso del sistema immunitario. La fase intermedia può durare per diversi anni (7-10). 3) AIDS. Da più di un mese, il paziente presente febbre, astenia, perdita di peso, diarrea. Dopo un tempo variabile, subentrano gravi infezioni oppurtinistiche, neoplasie secondarie, e/o alterazioni neurologiche.