LA SUPERVISIONE NEL SERVIZIO SOCIALE La supervisione si può definire come un sovra sistema di pensiero, un pensierometa, sull’intervento professionale, uno spazio ed un tempo si sospensione, dove ritrovare attraverso una riflessione guidata da un esperto esterno all’organizzazione una distanza equilibrata dal proprio lavoro e da sé stessi, per riconsiderare con lucidità affettiva sia la dimensione emotiva sia la dimensione metodologica dell’azione professionale e per ricollocare l’intervento in una prospettiva di ricerca critica. Il tema della supervisione nel servizio sociale è legato alla storia del servizio sociale ed alla affermazione della professione di assistente sociale in Italia. La storia della supervisione in Italia può essere suddivisa in quattro fasi: 1. Dal 1935 al 1950: l’influenza del modello anglosassone. Negli USA si sviluppa e si diffonde il case work, viene affidata al supervisore la responsabilità di promuovere, insegnare e far applicare nel singolo caso le fasi di studio, diagnosi e trattamento. Comunque la supervisione assume prima una funzione amministrativa e solo successivamente anche una educativa. 2. Dal 1950 al 1965: l’evoluzione del modello americano e i primi contributi italiani. M.C: Hester definisce per prima la supervisione come un processo educativo, l’autrice individua le quattro funzioni principali della supervisione: amministrativa(governo organizzazione e programmazione del lavoro); valutazione periodica del lavoro(aiuto all’operatore ad imparare ad auto valutarsi); insegnamento(prosecuzione formativa); consultazione all’operatore. La Hester considera la supervisione un processo di adattamento dell’operatore alle finalità dell’ente. Da rilevare il contributo di C.Henry che pone in evidenza l’importanza che l’operatore sociale rifletta sui propri atteggiamenti ed in particolare sui suoi vissuti nei confronti dell’utenza. In Italia la supervisione nasce e cresce dentro le scuole di servizio sociale, questa situazione ha comportato la perdita della funzione amministrativa di controllo ed uno sviluppo accentuato di quella didattico - formativa. Negli anni sessanta la supervisione si diffonde tra gli enti assistenziali e nelle fabbriche, le funzioni a cui assolve corrispondono alla funzione amministrativa ed alla valutazione periodica( rispetto agli scopi dell’ente e rispetto alla professionalità dell’assistente sociale). 3. Dal 1965 al 1985: crisi, contestazione e consolidamento. Nel periodo anteriore ala contestazione il servizio sociale inizia ad interrogarsi su tipologie di intervento paralleli o alternativi al case work, temi ricorrenti delle riflessione di 1 questi anni sono l’intervento di comunità, il collegamento del servizio sociale con le forze sociali, la funziona di stimolo politico al cambiamento. La fase di contestazione che investe il servizio sociale e interessa l’Italia dal 1968 al 1970 segue due direzioni. La prima linea ci contestazione nasce nelle scuole di servizio sociale, il secondo filone si forma tra gli stessi operatori che si sentono investiti solo di funzioni esecutive, funzionari che mantengono l’assetto istituzionale e le disfunzioni sociali. La supervisione è interpretata come strumento di controllo dell’ente sull’operatore. L’unico metodo accettato di riflessione è la ricerca sociale. Interessante, in questa fase di forte confusione concettuale, la definizione di supervisione formulata da F.Molinaroli SUPERVISIONE E APPRENDIMENTO La supervisione professionale può essere considerata come l’ultima fase del ciclo formativo di un assistente sociale. La supervisione si basa sulla capacità dell’operatore di governare la propria attitudine a imparare e cambiare, la supervisione è un processo di apprendimento. Questa nozione è legata allo sviluppo della professione nel contesto sociale, ai processi di rielaborazione prassi – teoria, ai processi di apprendimento degli adulti, insomma vuol dire costruire un contesto che permetta di rielaborare l’azione professionale, sul piano tecnico ed affettivo, queste esigenze di apprendimento che richiede la supervisione si possono edificare sulla disposizione dell’operatore ad imparare a pensare. Il termine supervisione si compone di due concetti: super e visione. “Super” cioè da sopra, eccellente, il migliore. “Visione”ovvero vista, panorama, paesaggio, spettacolo. Si può quindi affermare che già dalla scomposizione del termine si addiviene al nucleo della situazione di supervisione cioè quel momento nel quale si vedono immagini e schemi associativi non ancora notati, l’esperienza di supervisione rende visibili nuove dimensioni di pensiero emozionale. Della supervisione si vuole porre in rilievo la sua proprietà maieutica, cioè quella funzione che aiuta a tirar fuori dall’operatore un proprio modo di vedere le situazioni, di analizzare sé stesso in situazione, di rafforzare le conoscenze, le abilità e gli atteggiamenti formativi al processo di aiuto. Il mezzo per poter cambiare il nostro atteggiamento affettivo e cognitivo innanzi alla realtà, consiste modificare il modo con cui guardiamo la realtà, solo attraverso un lavoro sula nostra configurazione emotiva possiamo sbloccare situazioni di stallo in cui spesso ci impantana nel lavoro sociale. Quel che distingue il momento di supervisione dalla psicoterapia è il principio che ne guida lo svolgimento, la supervisione è focalizzata all’intervento professionale cioè al miglioramento delle qualità professionali profuse nel processo di aiuto. 2 Una seconda finalità del percorso di supervisione si identifica nella relazione fra operatore e organizzazione. Con la supervisione si lavora sulla relazione organizzativa, si riflette per comprendere, proporre e rigenerare gli equilibri interni al luogo di lavoro dell’assistente sociale. Il circolo formativo dell’assistente sociale individua il percorso professionale dell’operatore sociale attraverso le lenti del percorso di apprendimento seguito dalla persona. Corsi di specializzazione, laurea magistrale Esperienze di lavoro, concorsi, stage di collaborazione Aggiornamento, crediti formativi Supervisione Laurea, esame di stato Tirocinio Iscrizione università La supervisione ci chiede di imparare a pensare il lavoro e a lavorare con un nuovo pensiero. Imparare a pensare richiama il tradizionale tema del Servizio sociale: il rapporto tra pratica e teoria. Esiste una teoria della pratica cioè il sapere che si ricava dalle osservazioni, descrizioni ed interpretazioni della realtà operativa, che si fonda sui processi induttivi ed osservativi che originano una serie di enunciati ricavati da generalizzazioni empiriche. Ma esiste pure una teoria per la pratica costituita dall’apporto che le diverse impostazioni teoriche delle scienze sociali possono offrire al servizio sociale. E’ nota la definizione di servizio sociale come disciplina in fieri, il sapere su cui si fonda non è finalizzato alla conoscenza come obbiettivo, bensì all’acquisizione di strumenti analitici, descrittivi ed esplicativi della realtà sociale, indirizzati alla individuazione di strategie di intervento rispetto a situazione problematiche. 3 Sembra che non si possa individuare una sola teoria di servizio sociale ma una pluralità di teorie che possono guidare la pratica di intervento sociale. L’irriducibilità del servizio sociale ad una sola teoria è legata al fattore tempo: il lavoro sociale non è dato, fatto una volta per tutte ma deve essere costantemente adattato e riformulato come un oggetto vivo in fieri. Molti autori hanno spiegato il rapporto fra teoria e prasi come un processo circolare. Il rapporto fra questi due elementi va ricercata nella relazione che esiste fra questi due basi del servizio sociale. Se la teoria guida l’azione pratica elaborando di criteri di lettura della realtà, la pratica deve comunicare con la teoria restituendogli messaggi di conferma o di revisione del prodotto teorico, questa relazione permette di verificare la validità della costruzione teorica ed una sua rivisitazione. La supervisione offre uno spazio per riflettere sulla relazione tra prassi e teoria, consente di guardare da nuove angolazioni sul nesso pensiero – azione. Un problema annoso del lavoro sociale è la doppia committenza. Si tratta di una situazione paradossale che raffigura una contraddizione tra le richieste dei cittadini - utenti e le disposizioni poste dalle dirigenze di organizzazione. P.P.Donati da’ un suggerimento per superare il problema del doppio legame, l’assistente sociale deve essere agente attivo di transizione del pensiero dell’utenza nei confronti dello stato sociale. L’operatore del sociale è coinvolto in processi di micro e macro sistema, coinvolto nel suo sapere e nel suo essere. Ritorna un altro tema importante del servizio sociale: il rapporto di equilibrio tra essere e saper essere. In proposito al processo di identificazione di una professione, Greenwood individua gli attributi ideal tipici di una professione: Corpo sistematico di teoria: proposizioni astratte che individuano i tipi di fenomeni di interesse per la professione. Autorità professionale: attribuzione di ruolo sociale conferita dalla conoscenza di teorie che implicano una suddivisione sociale fra esperto e non. Codice etico: insieme di principi e norme di condotta professionali,. Riconoscimenti formali e sanzioni sociali: è il riconoscimento dell’utilità sociale del lavoro svolto. Cultura professionale: valori, simboli, credenze che hanno senso nelle interazioni intergruppo. Greenwood richiama quindi ad una riflessione fra la codificazione teorica di un lavoro e la realtà occupazionale, in questa prospettiva il servizio sociale si trova ad interrogarsi su due orizzonti di pensiero: la considerazione del contesto sociale e l’approfondimento dell’azione professionale. La supervisione si inserisce in questa riflessione del servizio sociale, in ottica di comprensione sistemica . Se vale la assunzione di Von Bertalanffy per cui la somma 4 del tutto è qualcosa di più delle parti e quel qualcosa in giù è la relazione che tiene insieme le parti del sistema, allora si po’ considerare la complessità del lavoro sociale che si trova inserito tra le parti di un sistema composto da: operatore,utente organizzazione e contesto sociale. La supervisione si incardina in questa relazione con l’intenzione di riflettere sul corso del sistema in cui è inserito il professionista. La supervisione ci offre quindi la possibilità di prendere la distanza sufficiente per vedere la multidimensionalità del mondo sociale. Il concetto di complessità si adatta bene alle scienze sociali. La predisposizione e l’implementazione i interventi sociali comporta l’assunzione della complessità come categoria di analisi e di comprensione della realtà. La complessità non sta ad indicare uno semplice stato di complicazione o confusione ma indica invece il principio metodologico secondo cui gli oggetti dipendono da altri oggetti, le relazioni da altre relazioni i sistemi da un osservatore che non occupa una visuale privilegiata, ma che dispone di un punto di vista relativo. Stare dentro e fuori il contesto in cui si lavora è la sfida lanciata dalla complessità al lavoratore del sociale. La supervisione può dare degli scorci di neutralità sul proprio agire, ci offre un modo per osservarsi mentre si agisce e si osserva. Questo strumento è una cornice concettuale ed operativa per formare un sistema di meta pensiero sospeso nel tempo e nello spazio nel quale sviluppare quelle abilità cognitive, operative e relazionali che permettono di ricollocarsi dentro al proprio lavoro. La supervisione consente di misurare la giusta distanza emotiva per ripensare all’azione e nel ricollocare l’azione professionale nel quadro teorico di riferimento utilizzando la capacità di apprendere dall’esperienza. Si è ripetuto più volte che in supervisione si impara a pensare, si giunge ad apprendere dall’esperienza, ma si arriva a ciò nelle situazioni di crisi, non si apprende quando tutto si ripete , procedendo senza intoppi. Si possono definire due modi progettare: Percorso omeostatico: analizza i vincoli alla progettazione degli interventi in termini di ostacoli, pone enfasi su una organizzazione del lavoro rigida. Percorso evolutivo: analizza la complessità della situazione di intervento, pensa ad un’azione calibrata alla pluralità di variabili in gioco(utenti, operatori, organizzazione, comunità). Affrontare una situazione sociale complessa per pianificare un intervento di aiuto vuol dire avere il tempo e lo spazio per un meta pensiero, quindi una prospettiva che sia libera da modelli preconfezionati da applicare pedissequamente. Imparare a pensare significa apprendere dall’esperienza ci permette di accedere al meta pensiero cioè di vederci al lavoro, di collegare l’azione al suo esito e ci 5 consente di collegare e confrontare le immagini osservate alle nostre categorie di riferimento. Seguendo i contributi di Bateson sull’ecologia dei sistemi viventi, possiamo rilevare la particolare relazione, il legame che connette, che si costruisce tra ogni individuo, operatore ed il suo contesto di riferimento. In tal senso imparare a pensare significa guardare i cambiamenti nei contesti di riferimenti dei soggetti, apprendere vuol dire anche cambiare e per Bateson si può cambiare quando: Il protagonista seleziona una scelta diversa fra un insieme di alternative. Il soggetto modifica l’insieme delle alternative fra le quali opera una scelta. Possiamo imparare ad apprendere quindi a pensare? Si, però prima dobbiamo assumere una nozione di apprendimento di un certo tipo. Un apprendimento attraverso un approccio di tipo gerarchico cerca di classificare i diversi modi di apprendere per mezzo di registrazioni, sommatorie e produzione di risultati, non si addice ad un contesto complesso. Al contrario pare più adeguato un approccio evolutivo all’apprendimento, che considera la nostra mente dinamicamente formando sempre nuovi collegamenti. Seguendo questa prospettiva, la Fabbri considera che sia possibile imparare a pensare se si seguono queste cinque indicazioni: Imparare a pensare vuol dire capire che la giustificazione è incorporata all’azione. La giustificazione delle nostre azioni di apprendimento non viene dal mondo esterno a posteriori ma è implicita nella stessa azione, cresce insieme ad essa. Imparare a pensare è capire che non esistono dei modi di pensare migliori di altri, il pensiero si forma comunque inoltre è più produttivo una base di riflessione incerta che certa. Imparare a pensare è imparare a decidere. Durante l’apprendimento si operano dei tagli rilevanti e si scartano molti elementi che non rientrano nel progetto teorico. Imparare a pensare corrisponde ad imparare e descrivere quel che è successo nella nostra mente. Imparare a pensare significa porre le buone domande, si potrebbe proporre una distinzione fra domande decidibili e indecidibili. Le domande indecidibili sono quelle più proficue per il pensiero e l’apprendimento. Si è detto che la supervisione insegna a pensare e ad apprendere. Vorrei approfondire l’apprendimento , cioè la formazione del professionista cioè di un adulto. L’apprendimento è una situazione complessa basata su motivazione, desiderio e coinvolgimento. 6 La conoscenza non equivale ad una semplice ritenzione di dati, infatti nel processo di conoscenza sono coinvolti tutti gli aspetti del sé, quindi apprendere comporta crescita individuale in termini di: sapere, saper fare, saper essere. Questo processo comprende molteplici azioni cognitive: raccogliere nuovi concetti, riorganizzare ridefinire concetti già conosciuti e scoprire collegamenti e associazioni tra gli elementi. Ho parlato di apprendimento in età adulta, riflettiamo sul significato di adulto. Le età della vita sono state rappresentate con parole quali arco dove tutto comincia si sviluppa e poi degrada sino punto di partenza. Si è espressa con la parola ciclo seguendo l’idea di processo circolare, e recentemente il termine corso nel quale prevale l’idea di libertà di scelta in quanto il protagonista può scegliere di cambiare. La definizione di corso di vita individua una persona che produce da sé la sua biografia, che perviene ad uno stato identitario plurimo , cioè che racchiude in sé una molteplicità di facce,dimensioni compresenti nella stessa persona. Una identità un sé plurimo è proprio di una concezione dell’età adulta complessa. L’identità non è quella che raggiunge uno stato di equilibrio ma quel sistema che trova stati organizzativi più complessi. Se ogni adulto è complesso al suo modo allora l’apprendimento è individuale, ogni persona ha un proprio stile cognitivo quindi la formazione in età adulta si dipana dalla differenzazione cognitiva di ogni persona, la diversità è un valore. Tra le prime pagine che ho scritto ho disegnato il ciclo formativo dell’assistente sociale. Quel che contraddistingue il ciclo è la circolarità dell’apprendimento nelle professioni sociali: sin dalle prime tappe formative del sevizio sociale viene ricercata la conciliazione tra teoria e pratica, il processo circolare che caratterizza questo tipo di apprendimento prevede la trasformazione dell’esperienza in concetti che saranno utilizzati come guida per le nuove esperienze lavorative. Secondo Kolb il ciclo dell’apprendimento si svolge in quattro fasi: esperienza concreta, osservazione riflessiva, concettualizzazione astratta e sperimentazione attiva del concetto. Per l’autore apprendimento, supervisione vanno pensati lungo due assi: concretezza - astrazione azione – riflessione Ritornando al disegno delle prime pagine, la formazione nel ciclo professionale può essere cosi organizzata: 1. formazione di base: è il primo passo per accedere alla professione, si dipana nei orsi laurea universitari e già inquadrabile come apprendimento in circolo, con 7 il tirocinio l’allievo impara ad apprendere dall’esperienza. Il tutor segue ed orienta l’allievo in questo processo di sedimentazione dell’esperienza. 2. Aggiornamento: si tratta di momenti di conoscenza di modifiche legislative, novità metodologiche. Sono incontri formativi organizzati sotto forma di convegni, dibattiti seminari. L’ente di appartenenza stabilisce l’obbligatorietà o meno di tali eventi. 3. Formazione continua: è una educazione, un processo di conoscenza continuo, duraturo. L’apprendimento se supportato dall’organizzazione e dal protagonista è un processo che attraversa tutto il ciclo di vita lavorativa dell’operatore sociale e deve perciò essere pensato come permanente. L’apprendimento permanente permette di dare forma alle tre dimensioni dell’identità dell’operatore sociale: sapere, saper fare e saper essere: Sapere: il lato cognitivo, la conoscenza, l’analisi e la concettualizzazione di problemi e soluzioni. Saper fare: il lato operativo e tecnico dell’assistente sociale, sono i principi il metodo gli strumenti del lavoro. Saper essere: consapevolezza di sé, atteggiamenti e conoscenza del proprio mondo interno. La formazione e la supervisione sono orientate ad implementare tutte e tre queste dimensioni all’interno del ciclo formativo del professionista. LE FUNZIONI DELLA SUPERVISIONE Dalle considerazione fatti per il ciclo di apprendimento si giunge alle funzioni dell’oggetto di questa relazione: la supervisione. Le funzioni che svolge la supervisione per il servizio sociale sono sei: amministrativa, valutazione periodica, educativa, consulenza, istituzionale trasmissione della cultura professionale. La funzione amministrativa permette agli assistenti sociali di integrarsi nell’ente, tale funzione evidenzia le proprietà di autorevolezza e controllo del supervisore nei confronti dell’organizzazione e degli operatori. Il supervisore svolge quindi una funzione di mediazione tra i livelli organizzativi e stimola gli operatori ad essere consapevoli del contesto in cui si muovono e dell’importanza della loro partecipazione ai processi organizzativi. La funzione di valutazione periodica consiste in una verifica dell’operato dell’assistente sociale, restituendo al professionista progressi e lacune. 8 Questa funzione deve essere sistematizzata nel tempo e pone una doppia responsabilità in capo al supervisore: responsabilità didattica nei confronti degli operatori e responsabilità di rapporto costi-benefici, rispondenza agli obbiettivi istituzionali. La funzione educativo – didattica: fa riferimento alla trasmissione di informazioni e conoscenze necessarie all’inserimento dei neo assunti. La funzione di consulenza serve all’operatore per rendersi cosciente dei propri sentimenti, e della misura in cui questi interferiscono nel suo lavoro. La funzione istituzionale: afferisce al monitoraggio di metodi, strumenti e procedure dell’organizzazione. E’ la sede per mezzo della quale gli operatori possono riferire sul funzionamento organizzativo, sulla spartizione dei ruoli e sulla realizzazione degli obbiettivi istituzionali. La funzione di trasmissione della cultura professionale: tratta della filosofia di intervento, della concezione di professione che i partecipanti alla supervisione esplicitano. In tal senso la supervisione permette di legare insieme le diverse esperienze di identità professionale, pervenendo al riconoscimento di una cultura professionale. GLI ATTORI DELLA SUPERVISIONE La supervisione non è un processo tra due poli, ma è una relazione che coinvolge tre protagonisti: l’assistente sociale, il supervisore e l’organizzazione nella quale sono inseriti. La complessità del lavoro sociale chiede operatori preparati e motivati i quali devono spesso rispondere a sollecitazioni professionali e personali intense a fronte di riconoscimenti e gratificazioni scarse. Nel merito del lavoro svolto dall’assistente sociale si possono produrre una serie di considerazioni: Il nuovo scenario disegnato dalle politiche sociali, rischia di dare preminenza ad esigenze di bilancio e di efficienza organizzativa perdendo di vista il traguardo seguito dall’utente. Inoltre la necessità di governare la complessità sociale può tradursi nell’organizzazione di servizi parcellizzate e frammentate sia per operatori che per gli utenti. Il mandato dell’assistente sociale è lo snodo cruciale per l’attore quale riferimento per capire ed alimentare la motivazione al suo lavoro. Si è già detto del doppio mandato che spesso lega l’operatore all’utenza e in senso opposto alla dirigenza. Quale sentimento provano gli operatori rispetto al loro lavoro rappresenta un tema di riflessione essenziale in supervisione: parlare di come si vive l’intervento , se lo si sente come una soluzione contingente ovvero si riesce ad intervenire estendendone gli effetti ad un orizzonte di più grande respiro. 9 Trattare il tema della supervisione nel lavoro sociale comporta avvicinarsi all’usura che provoca questo genere di lavoro tra gli operatori sociali. La sindrome da burn out ,”andare in fusione, in cortocircuito” è quel processo perverso che trasforma nel tempo ciò che prima dava piacere ed interesse nella professione in altrettanti elementi di frustrazione. Il burn out viene accostato al fenomeno dell’entropia: il soggetto assorbe molte energie e ne restituisce poche all’ambiente, mangia più energie di quante ne metabolizza. Il lavoro per la persona non può essere considerato solo come un mezzo per sostenersi ma va letto anche come un investimento personale che nutre la persona dal punto di vista motivazionale e psicologico. La sindrome del burn out si configura come una dicotomia fra l’essere ed il dover essere, come uno scarto tra una rappresentazione idealizzata del proprio lavoro e la sensazione di fatica e di impoverimento motivazionale. Secondo Cherniss si possono elencare alcuni sintomi per definire una diagnosi di burn out di gruppo o individuale: Senso di colpa Isolamento, ritiro Negativismo Rigidità di pensiero Sospetto e paranoia Perdita dell’ideale Alterazione tono dell’umore Il quadro clinico si avvicina alla patologia depressiva, le motivazioni addotte dalla persona sono in genere attribuite al carico di lavoro, la qualità dell’organizzazione, il livello retributivo. Il Coniglio propone una seri di indicazioni per contrastare il burn out. A livello individuale l’autore consiglia: Disposizione di spazi creativi e di svago extra lavorativi Corsi di formazione Terapie di sostegno, di gruppo o individuali Per il servizio si propone: Snellimento e semplificazione delle pratiche burocratiche e della distanza dirigenziale dal lavoro concreto Più momenti di scambio interpersonale Supervisione professionale 10 Ho trovato interessanti i consigli da Bernstein e Halaszyn per prevenire il burn out, a cura dell’operatore: Trovare il lato divertente nel proprio intervento, nel lavoro con i colleghi Conoscere ed accettare i nostri limiti Se vogliamo più rimandi, feedback dobbiamo chiederlo Se non siamo certi di cosa ci si aspetta da noi , dobbiamo chiederlo Non sobbarcarsi tutto il carico di lavoro, chiedere aiuto In conclusione la supervisione per l’operatore può servire a: 1) 2) 3) 4) 5) 6) Riflettere sul singolo caso Pensare al rapporto con la sua professione Riflettere al rapporto col contesto sociale Ragionare al rapporto con il suo servizio Riflettere sul rapporto con la sua equipe Pensare al lavoro interprofessionale Il secondo attore del processo di supervisione è l’organizzazione. Un organizzazione di servizi è definita da P. Piva come l’insieme di modalità con le quali le amministrazioni traducono le proprie competenze e scelte in prestazioni di interventi. In generale esistono due visioni dell’organizzazione. Una prima prospettiva tradizionale vede l’organizzazione come un insieme ordinato di attività, svolte da un certo numero di persone, al fine di raggiungere un fine comune , mediante la divisione del lavoro, una spartizione delle responsabilità ed un quadro gerarchico. In questa ottica sono parti dell’organizzazione: i fini costitutivi del servizio la struttura organizzativa: organigramma e funzionigramma i sistemi operativi cioè l’insieme delle modalità gestionali per svolgere le funzioni del servizio tecnologia: strumentazione a disposizione le persone: suddivise per ruoli ed appartenenze professionali Ma l’organizzazione non è solo una scatola ben ordinata, infatti una seconda prospettiva di analisi vede l’organizzazione come un organismo vivente che ha propri bisogni e leggi che regolano la vita e ne consentono la sopravvivenza. In questa visione l’organizzazione è caratterizzata da sistemi interni e sistemi esterni che interagiscono e contribuiscono al processo di vita e cambiamento dell’organismo. In tema di tipi di organizzazione è interessante richiamare le quattro classificazioni organizzative basilari: 11 Modello funzionale: in esso ogni ruolo di comando corrisponde a una funzione presente nel processo produttivo, che viene concepito come flusso che procede da monte a valle, secondo fasi. Questo modello si rifà a tre principi: ogni ruolo ha come corrispondenza una specifica funzione; vi è identità tra responsabilità e autorità; alla direzione spettano le decisioni essenziali rispetto a strategie, amministrazione e organizzazione. Questo modello da preminenza al rispetto delle norme, alla ricerca di efficienza, separa chi pensa da chi esegue. Modello divisionale: comporta una suddivisione in porzioni di organizzazione con funzioni e responsabilità diverse, in questo disegno organizzativo prevale l’esigenza di mediazione fra i molteplici livelli divisionali che l’organizzazione amministrativa dell’intera organizzazione, in questa struttura organizzativa il potere viene decentrato tra le diverse divisioni. Modello per progetto: si caratterizza per la produzione di servizi a forte contenuto professionale con una prevalenza della componente qualitativa su quella quantitativa del servizio. E’ una organizzazione che è flessibile, al suo interno il personale ha una doppia appartenenza: una legata alla gerarchia organizzativa ed una corrispondente ad un gruppo di lavoro dedicato ad uno specifico progetto. Il personale affianca alle attività di routine il lavoro basato su progetti ad hoc. Modello a matrice: è una organizzazione adatta alle situazioni di lavoro estreme, per lavori molto complessi e procedure incerte. Prevede uno schema che sovrappone una struttura per compiti ad hoc, dinamici , ad una struttura istituzionale di routine quindi rigida. Si invera questa sovrapposizione in modo sistematico richiedendo un elevato coinvolgimento del personale a diverse iniziative progettuale. Questo modello enfatizza ancor più che il modello per progetto, la logica di gestione per obbiettivi, che si basa sulla contrattazione e condivisione di obbiettivi integrati, senza entrare nel merito di singole decisioni. In questa visione organizzativa l’autorità è un supporto, una interfaccia con le diverse unità operative interne, che deve essere in grado di mediare, ascoltare e collaborare con i responsabili di progetto. Il modello di organizzazione che si avvicina al lavoro sociale è quella per progetti, in quanto è orientata al risultato che intende ottenere, essa si rende disponibile al superamento delle differenze professionali ed alla condivisione di specifiche competenze, l’integrazione è una dimensione vitale per tenere insieme le diverse unità del servizio complesso. La supervisione all’interno di una organizzazione permette di : Perfezionare le abilità della specifica professione, in ottica di raggiungere un intervento di gruppo omogeneo Rispondere a situazioni contingenti di crisi di operatori o gruppi di lavoro, cambiamenti d’equipe, l’assegnazione di nuove funzioni 12 Chiarire le funzioni che ogni operatore ha all’interno dell’unità in cui opera Il supervisore è il custode e garante del processo di supervisione. Immagine, personalità e preparazione sono requisiti essenziali per questa figura che dovrebbe permettere agli operatori di identificarsi in qualche sua caratteristica. Gli attributi fondamentali di un supervisore sono: Il supervisore deve essere un assistente sociale: in questo modo permette già di rafforzare l’identità professionale degli operatori. Solo chi impersoni fica principi, metodi e tecniche può aiutare a consolidare il sentimento di identità professionale. Il supervisore deve aver seguito uno specifico iter formativo per diventare formatore e supervisore. Il supervisore deve possedere una capacità pedagogica di trasmissione del proprio sapere ed un’attitudine formativa: questa attività prevede un passaggio di sapere ed un lavoro sul saper fare e saper essere, questo vuol dire guidare un processo dinamico in continua progressione dove non tutte le variabili sono preventivabili. E’ un percorso che si spinge nell’esplorazione di fantasie, concezioni, stereotipi contribuendo a fare luce su lacune e soluzioni sconosciute. Il supervisore deve aver approfondito i fondamenti teorici e metodologici del servizio sociale. Il processo in analisi è indirizzato a due scopi: formare ed indicare un percorso evolutivo a operatori ed organizzazione e segnare orizzonti più ampi, allargare le visuali. La teoria non è solo conoscenza ma apre alla conoscenza. Una teoria non è un punto di arrivo ma una opportunità di partenza, non è una soluzione ma la possibilità di trattare un problema. Il supervisore deve conoscere sé stesso. Conoscersi è un prerequisito per il formatore in quanto gli consente di reggere l’angoscia che gli operatori riverseranno sul supervisore. E’ auspicabile che ogni professionista dell’aiuto impari ad auto valutarsi: che sia in grado di verificare il suo intervento di aiuto sotto l’ottica tecnica e relazionale. La conoscenza di sé del proprio stile di intervento professionale, del proprio stile relazionale garantisce al supervisore la possibilità di mantenere una distanza equa tra i vari soggetti coinvolti nel contesto di apprendimento. Il supervisore può essere inteso come un promotore della capacità di pensiero e consapevolezza. Si è detto che ogni formatore deve conoscere sé stesso per conoscere il suo stile relazionale. Lo stile d’intervento del supervisore è determinato dai tratti di personalità dello stesso, sebbene il processo di supervisione sia dipendente dalle qualità dei suoi attori, spetta al formatore governare la relazione di supervisione. 13 Per Enriquez in ogni supervisore si alternano e si parlano figure, immagini ideali che contribuiscono a delinearne lo stile: 1. Formatore: colui che offre una buona forma,il formatore è colui che si interessa alle altrui forme con il fine di deformarle, riformarle trasformarle. Il rischio di tale figura è di alterare il nucleo centrale dei soggetti in supervisione. 2. Terapeuta: guarire e restaurare. Si fonda sul concetto che uno stato di salute è perturbato da una malattia che si può risolvere definitivamente con la cura appropriata. In realtà , ci spiega l’autore non guariamo mai bensì transitiamo da una destrutturazione ad una ristrutturazione. 3. Il Maieuta. Si propone di facilitare la crescita di ciascuno e di far emergere il suo potenziale. Non cerca di restaurare la persona ma ne spinge lo sviluppo, una maturazione, lo aiuta a scoprire le sue risorse. 4. L’interpretante. Una prospettiva psicanalitica rischia di perseguire una spiegazione universale e totalitaria del mondo. 5. Il Militante. E’ colui che si propone di cambiare il mondo, di profetizzare nuovi scenari si elegge a salvare categorie di svantaggiati aiutandoli a prendere coscienza di sé e lottare per controllare il proprio destino. 6. Il Riparatore. E’ il tipo di formatore che si fa carico delle angosce del prossimo si atteggia al buon samaritano , si sacrifica per il prossimo, sentendosi investito di questa missione. 7. Il Trasgressore. E’ il formatore che descrive la società come oppressiva e castrante e propugna libertà e spontaneità, l’emergere delle pulsioni. 8. Il Distruttore. Il formatore che agevola inconsciamente una relazione di supervisione che favorisce un conflitto affettivo nell’altro. IL NUCLEO DEL PROCESSO DI SUPERVISIONE: LA RELAZIONE La relazione che si instaura in un processo di supervisione è un rapporto tra persone continuativo(almeno due anni), sistematizzato(con cadenza mensile), con forti implicazioni emotive per le persone coinvolte. Questa relazione può avere funzione di contenitore cioè si presenta come un livello di meta pensiero nel quale affrontare e rielaborare le dimensioni emotive e metodologiche del’esperienza lavorativa. La relazione si concretizza come il contesto , il livello di meta pensiero nel quale si sviluppa la supervisione ma al contempo la relazione è un elemento del contesto , cioè il setting della supervisione. Il termine contesto può essere utilizzato per indicare: L’ambito fisico e sociale dove ha luogo l’incontro. L’immagine che ne hanno i partecipanti. L’idea che ogni persona si fa dell’altro, inclusa la rappresentazione che ciascuno possiede di ciò che l’altro pensa di lui. Le relazioni che hanno preceduto i partecipanti alla supervisione. 14 Gli scambi di comunicazione entro il quale si inserisce tale processo. Seguendo il contributo teorico di Watzlawick, il supervisore per tutta la durata della supervisione ha il compito di guidare il la relazione, ponendosi in posizione alta(up) mentre chi partecipa si trova in posizione bassa (down). L’obbiettivo di ogni processo formativo, quindi di apprendimento come quello in esame comporta la trasformazione della relazione da asimmetrica a simmetrica , dalla diseguaglianza ad un rapporto paritario dove la riflessione sulla propria esperienza di lavoro è frutto di una relazione profonda e gratificante. La relazione di apprendimento si compone di tre dimensioni: Replicazione: esiste relazione solo se esiste continuità e ripetizione nel rapporto tra due oggetti. Referenzialità: c’è relazione se si parla di qualcosa d’altro che è già accaduto, che accade, che potrà accadere. La pragmaticità: c’è relazione non solo se si parla , ma se si agisce se si vuole cambiare, trasformare ciò di cui si parla. Il contesto, la relazione di supervisione nasce dall’intreccio interattivo che si crea tra i partecipanti alla supervisione: operatori, supervisore, organizzazione e utente. L’interesse dell’utente dovrebbe essere considerato come area di riflessione esplorata con il supervisore . Il compito del formatore consiste nel regolare la distanza emotiva nella relazione di supervisione, il supervisore ha la responsabilità di creare una relazione che sia reciproca che si mantenga coerente con il contratto di supervisione. Nella relazione in esame come in ogni interazione umana si riproducono modi di atteggiarsi, modi di comunicare che ripetono uno stile già utilizzato questo fenomeno è come gioco relazionale. Il gioco relazionale è una serie di progressiva di scambi comunicativi apparentemente plausibili, scontati ma che in realtà si radicano tra motivazioni nascoste. Può capitare di giocare, di colludere a giochi relazionali, si rischia continuamente di colludere con l’altro, rafforzando così una situazione statica e non di cambiamento. Colludere significa giocare insieme, fare lo stesso gioco, questo termine si colora di una connotazione negativa quando il gioco porta a situazioni di irrigidimento relazionale che occludono possibilità evolutive nella relazione di apprendimento. Anche nella relazione di supervisione si possono individuare dei giochi relazionali che permettono il formarsi di alleanze collusive rispetto al processo di apprendimento: 1. Ti aiuto a tutti i costi. Il supervisore tende ad offrire sempre aiuto, l’assistente sociale si presenta sempre come bisognoso di aiuto. 15 2. Come siamo buoni. Il patto di alleanza collusiva si stringe intorno allo slogan: ”sarò buono con te e tu sarai premuroso con me” Si creano relazioni eccessivamente informali, amicali. 3. Chi ne sa di più. Si avvia una gara tra operatori e supervisore per dimostrare chi ha conoscenze superiori. 4. Superlavoro. Si invera una situazione di relazione caratterizzata da iperlavoro, che chiude la possibilità di pensare. 5. La trincea. La situazione di conflitto di contrapposizione fra un gruppo di operatori ed il supervisore. Si tende a squalificare ogni tentativo di portare l’esperienza alla teoria. 6. Come noi non c’è nessuno. Si realizza un rafforzamento reciproco del proprio narcisismo che non lascia spazio alla critica ed al cambiamento. 7. Il creatore e la sua creatura. La situazione in cui gli operatori si rendono disponibili ad essere riprodotti come modellini di assistenti sociali perfetti ad immagine e somiglianza del formatore. 8. O con me o contro di me. Il caso in cui il formatore invia continui messaggi di inadeguatezza oppure non trasferisca il suo sapere agli operatori mantenendo la relazione sterile, l’assistente sociale può essere indotto ad allearsi con lui. 9. Il terapeuta dell’assistente sociale. Il supervisore che si fa terapeuta può immobilizzare l’assistente sociale in uno stato di dipendenza. Non è possibile evitare collusioni, giochi relazionali la soluzione per giungere ad una relazione proficua per l’apprendimento quando sia il supervisore che gli assistenti sociali riescono a comprendere a quale gioco stanno giocando nel processo di supervisione. In conclusione di questa disamina vorrei parlare ancora di due argomenti: la qualificazione di supervisione come processo ed il contratto di supervisione. M. Ferrarrio analizza tre modelli di formazione ed individua nella formazione come processo la relazione di supervisione. Il modello della formazione come prodotto considera centrale il soggetto che eroga la formazione, in questa prospettiva il formatore è l’unico depositario di una verità assoluta, l’utente è passivo, lo scopo della formazione è la trasmissione di un sapere che conforma , “a pacchetto”. Il modello di formazione come servizio pone al centro della formazione l’utente. I ruoli sono sempre ben delineati ma consentono una certa interazione, la dipendenza dell’utente dal formatore è proporzionale all’assunzione da parte del formatore del ruolo di esperto. Il modello di formazione come processo il suo fulcro è la relazione specifica in cui si realizza l’occasione formativa. Pone come suo fondamento il far venire a galla le persone e stemperare i ruoli. Il formatore si pone come facilitatore del processo di formazione, il soggetto in apprendimento diventa il protagonista del processo di formazione e cambiamento. 16 Come nel processo di aiuto anche per il percorso di supervisione è importante stipulare un contratto triangolare di collaborazione. Il contratto di collaborazione sarà triangolare in quanto i soggetti coinvolti sono tre: i partecipanti, il supervisore e l’organizzazione committente. Quanto più gli accordi iniziali saranno stati chiari e condivisi tanto più sarà possibile verificare la coerenza dei risultati raggiunti con il contratto. Quante più persone e livelli gerarchici saranno coinvolti dalla supervisione tanto più risulterà utile il contratto di collaborazione. Nel contratto triangolare dovrà essere esplicitato quel che sarà possibili fare e cosa no, sarà quindi essenziale far esplicitare tutte le aspettative, anche illusorie per fare chiarezza sui risultati realmente esperibili in supervisione. Si può dire che il contratto triangolare di collaborazione sottolinea la posizione attiva dei vari attori e contribuisce o creare un clima relazionale trasparente. In conclusione è possibile rappresentare il rapporto esistente tra processo di supervisione e contratto triangolare. Nel disegno riportato di seguito vengono presentate tre aree coinvolte dalla supervisione: tecnico-profesionale, relazionale e organizzativa. Da evidenziare nella rappresentazione grafica la funzione della supervisione all’interno del ciclo di formazione professionale ed il collegamento con contratto triangolare. L’area tecnico-professionale afferisce alle conoscenze, strumenti e metodi per svolgere il ruolo sociale. L’area relazionale comprende la capacità di interagire con l’altro, inteso come utente o collega o istituzione. L’area organizzativa rappresenta il rapporto tra ente e operatore. Riferisce della mission organizzativa e del mandato istituzionale richiesto all’assistente sociale. elaborazione Principi, valori, metodi, teorie Assistente sociale azione utente organizzazione supervisione Area tecnico-profesionale Area organizzativa Area relazionale 17