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Il ruolo dei Principi Euristici nella Fisica e nella Matematica

Il ruolo dei Principi Euristici nella Fisica e nella Matematica
Introduzione
Nel corso del Novecento si è imposta, anche a seguito delle due grandi rivoluzioni della fisica
(dovute all’avvento della Meccanica Quantistica e delle due Teorie della Relatività Speciale e
Generale), una visione della Fisica Teorica come “teoria assiomatica dei fenomeni naturali”: le
diverse leggi che compongono una teoria vengono cioè derivate a partire da pochi, semplici,
principi primi o postulati di carattere generalissimo (che potremmo definire “leggi fondamentali”)
assunti a priori per veri; da questi, quindi, vengono desunte tutte le conseguenze teoriche e le
previsioni sperimentalmente testabili della teoria. Questa concezione della fisica presenta forti
analogie coi sistemi assiomatici formali della matematica post-Hilbertiana, ma allo stesso tempo
anche una grossa differenza: mentre l’unica richiesta che possiamo fare ad un sistema assiomatico
matematico è la sua coerenza interna (che diventa per esso sinonimo di verità), e soddisfatta questa
la scelta dei postulati risulta essere completamente arbitraria, per una teoria assiomatica fisica (il
cui scopo è quello di descrivere la realtà) c’è la possibilità di stabilire, a posteriori, la validità dei
postulati fondamentali su cui poggia mediante il controllo sperimentale dei suoi risultati: una teoria
fisica matematicamente dedotta, in modo rigoroso, dai suoi assiomi, che produce previsioni
smentite dagli esperimenti poggia, necessariamente, su postulati sbagliati, e quindi deve essere
rivista; viceversa, le teorie che ricevono ripetute conferme sperimentali dimostrano, quantomeno, di
cogliere alcuni aspetti fondamentali della verità sulla natura.
Rimane naturalmente il problema della scelta, a priori, dei postulati su cui fondare una teoria fisica.
Certamente la conoscenza dei risultati sperimentali che la teoria dovrà riprodurre fornisce
fondamentali criteri di tipo orientativo, ma in diversi casi non è sufficiente per formulare ipotesi
complete, ossia non basta per dare una forma matematica esplicita alle nostre leggi fondamentali. In
questo contesto hanno giocato un ruolo certamente fondamentale, sia per la ricerca in fisica teorica
che per quella in matematica, alcuni principi guida di tipo euristico, utilizzati dai fisici del
Novecento per formulare i postulati fondamentali delle più importanti teorie moderne, tra cui ci
limitiamo a ricordare la Relatività, la Meccanica Quantistica e le varie Teorie dei Campi.
I Principi Euristici
Cosa sono questi principi euristici? L'euristica (dal verbo
greco εὑρίσκω, letteralmente "scopro" o "trovo") è una
parte dell'epistemologia e del metodo scientifico che si
occupa di favorire l'accesso a nuovi sviluppi teorici o a
scoperte empiriche.
L’Enciclopedia Zanichelli definisce l’euristica come la
«parte di una scienza riguardante la metodologia di
ricerca per la scoperta di fatti e di verità oggettive, da
utilizzare come base delle speculazioni successive». Nello
specifico, un procedimento euristico in matematica è «un
procedimento intuitivo e non rigoroso usato per la
giustificazione o la previsione di un risultato che dovrà
essere giustificato successivamente», mentre in logica e in
fisica è il «metodo di ricerca dei fatti necessari ad una
Archimede scoprì il principio che oggi porta il
teoria».
I principi euristici sono quindi principi guida non suo nome mentre faceva un bagno. Uscì dalla
rigorosi (o non necessariamente rigorosi) che sono, però, vasca gridando “Eureka!” (“Ho trovato!”).
molto utili nella comprensione intuitiva della verità: essi portano all’individuazione, e ad una sorta
di “giustificazione”, dei postulati che si devono porre alla base di una teoria fisica, ma non possono
certo fornirne una dimostrazione in quanto i suddetti postulati sono, e restano, degli assiomi (per
definizione indimostrabili). Analogamente, in matematica i principi euristici possono guidare alla
1
formulazione di un teorema (“derivazione euristica”), che però non costituisce affatto una prova
(“dimostrazione logica”) della validità del suddetto.
Questi principi possono anche essere utilizzati, al tempo stesso, per elaborare un approccio
risolutivo ad un problema, di tipo fisico o matematico, che tipicamente non rientra nelle casistiche
“standardizzate”, e quindi necessita di un approccio più “creativo” per essere affrontato,
analogamente a quanto avviene nella ricerca scientifica quando si cerca di costruire le fondamenta
di un nuovo soggetto. Come leggiamo sull’enciclopedia Wikipedia, infatti, «Si definisce […]
procedimento euristico, un metodo di approccio alla soluzione dei problemi che non segue un
chiaro percorso, ma che si affida all'intuito e allo stato temporaneo delle circostanze, al fine di
generare nuova conoscenza. È opposto al procedimento algoritmico».
Tra i principi euristici che vale la pena ricordare ve ne sono tre molto importanti: il principio di
simmetria, il principio di economia ed il principio di corrispondenza. Dedicheremo inoltre due
approfondimenti al principio di continuità ed all’argomento dimensionale, per via del loro uso
frequente sia in fisica che in matematica.
Il Principio di Simmetria
Questo principio, che ha costituito una delle strade maestre della ricerca più recente in fisica teorica,
afferma sostanzialmente che le simmetrie di un sistema fisico devono riflettersi in corrispondenti
“simmetrie matematiche” delle equazioni che ne descrivono il comportamento. In modo analogo,
alle simmetrie matematiche di un’equazione possiamo far corrispondere sia simmetrie del sistema
fisico descritto sia, in alcuni casi particolari, quantità fisiche conservate, che portano alle ben note
leggi di conservazione (in meccanica abbiamo, ad esempio, la conservazione dell’energia, della
quantità di moto e del momento angolare per i sistemi isolati), fondamentali nella descrizione dei
sistemi naturali. Questa corrispondenza tra simmetrie e quantità conservate è uno dei risultati più
importanti a cui sia arrivata la Meccanica Analitica novecentesca (Teorema di Nöther, 1915), e
ancora oggi viene usato nelle teorie fisiche più avanzate (come la Teoria Quantistica dei Campi, che
descrive le proprietà e le interazioni delle particelle elementari).
Il principio di simmetria costituisce anche una guida per formulare “previsioni” sul comportamento
dei sistemi naturali: se due sistemi fisici, apparentemente molto diversi, presentano le stesse
simmetrie, è ragionevole ritenere che obbediscano ad equazioni molto simili, ovvero con forti
analogie formali, e che quindi presentino comportamenti simili e siano descrivibili con gli stessi
strumenti matematici.
Esempio
Consideriamo un parallelepipedo rettangolo di spigoli a, b e c (vedi figura). Il suo volume è dato da:
V = ( area base ) ⋅ ( altezza ) = ( a ⋅ b ) ⋅ c = a ⋅ b ⋅ c = V (a, b, c)
ed è, naturalmente, una funzione dei due spigoli di base a e b, che compaiono per primi nella
formula, e dell’altezza c.
c
b
a
c
c
a
b
b
a
Tuttavia, il parallelepipedo presenta una simmetria fondamentale: ruotandolo opportunamente,
posso fare sì che qualsiasi coppia di lati diventi la coppia degli spigoli di base (e il lato rimanente
diventi l’altezza), senza tuttavia che questo modifichi il valore del volume. Analogamente, nulla
2
deve cambiare se scelgo di leggere gli spigoli di base nell’ordine (a, b) piuttosto che nell’ordine (b,
a), visto che l’area della base (un rettangolo) non dipende certo dall’ordine degli spigoli.
Questo significa che la funzione V(a,b,c) deve essere invariante (= produrre lo stesso risultato) per
un’arbitraria permutazione dell’ordine degli spigoli del parallelepipedo, ovvero:
V (a, b, c) = V (b, a, c) = V (c, a, b) = ...
Ma questo è verificato, proprio perché il volume coincide col prodotto dei tre spigoli:
V (a, b, c) = abc = V (b, c, a ) = bca = ...
che è un’operazione completamente simmetrica per qualsiasi scambio nell’ordine dei fattori.
Osserviamo quindi che ad una simmetria fisica (invarianza del volume sotto rotazione, ovvero
“scambio di ruolo” degli spigoli, che sono tra loro del tutto equivalenti) corrisponde una simmetria
matematica della formula (invarianza del prodotto sotto permutazione dei suoi fattori).
Ben diverso, invece, è il caso del cilindro. Il suo volume è anche stavolta dato
dal prodotto
V = ( area base ) ⋅ ( altezza ) = (π r 2 ) ⋅ h = V (r , h)
ma le due dimensioni fondamentali del solido, il raggio di base r e l’altezza h,
non sono affatto equivalenti dal punto di vista del ruolo: non posso certo
infatti ruotare il cilindro per far diventare il raggio l’altezza o viceversa, e
anche da un punto di vista matematico la formula del volume non è invariante
sotto permutazione delle due grandezze:
V ( r , h ) = ( π r 2 ) ⋅ h ≠ V ( h, r ) = ( π h 2 ) ⋅ r
r
h
Infatti la prima formula è quella corretta, mentre la seconda è priva di senso. In questo caso, da una
asimmetria matematica della formula (che dipende linearmente da h e quadraticamente da r),
deduciamo una asimmetria di ruolo tra i due parametri fisici altezza e raggio (e viceversa).
Di tutti i principi euristici, il principio di simmetria è l’unico che possiamo considerare sempre
valido, per cui costituisce una guida molto utile anche nel rilevare errori all’interno dei nostri
calcoli.
Esempio
Se sono noti i tre lati di un triangolo, è possibile ricavare il
β
coseno di uno qualsiasi dei suoi angoli applicando il teorema
a
c
del coseno. Nella fattispecie, se cerchiamo cosα, dobbiamo
invertire la seguente espressione:
γ
a 2 = b 2 + c 2 − 2bc cos α
α
Lo studente che trova la seguente formula inversa:
b
2
2
2
a +b −c
cos α =
2bc
deve rendersi conto immediatamente di avere sbagliato. Infatti, i due lati b e c sono i lati adiacenti
all’angolo α cercato, e la scelta del loro nome è una mera questione di “etichettatura”: pertanto,
scambiando di posto le lettere b e c, per ragioni di simmetria la formula per cosα dovrebbe rimanere
uguale, e invece in questo caso cambia drasticamente, a causa del segno meno che distingue il
termine –c² dal termine +b². L’unico lato che ha uno status “differente” dagli altri è il lato a, in
quando lato opposto all’angolo α cercato. E infatti, nella formula inversa corretta:
b2 + c2 − a 2
cos α =
2bc
il lato a è l’unico a comparire, nella somma, con un segno diverso da quello degli altri due.
Esempio
3
Consideriamo il seguente problema: Un rettangolo ha perimetro 48 e area 140. Determinare le
misure dei lati.
Indicando con x e y i lati, otterremo che il problema è risolto dal seguente sistema:
2 x + 2 y = 48

 xy = 140
Osservando bene il sistema, si nota che è perfettamente simmetrico per scambio di posto tra x e y.
Ne consegue allora che anche le soluzioni (cioè i lati dei rettangoli che soddisfano i requisiti del
problema) dovranno essere simmetriche per scambio di posto tra x e y. Le soluzioni (x,y) sono
infatti (14,10) e (10,14), perché, di fatto, i due rettangoli sono lo stesso rettangolo ruotato di 90°.
Il Principio di Economia
Durante la prima metà del Trecento il filosofo inglese Guglielmo di Occam, esponente della
Scolastica interessato principalmente allo studio della filosofia naturale, formulò il famoso
principio oggi noto come “Rasoio di Occam”: “Entia non sunt moltiplicanda praeter
necessitatem”; ossia, secondo una traduzione a senso: “È dannoso ed inutile moltiplicare gli enti,
creando realtà in soprannumero rispetto a quelle da spiegare”. All’epoca, infatti, i fenomeni naturali
venivano spiegati chiamando in causa “essenze metafisiche” e “teorie finalistiche” (si pensi, ad
esempio, alla teoria aristotelica dei luoghi naturali), non direttamente esperibili attraverso i sensi e
quindi non verificabili. Affermando questo principio, Occam sostenne invece l’origine
esclusivamente empirica della conoscenza, e propose pertanto di recidere dall’albero della
conoscenza (in particolare quella che oggi definiremmo “scientifica”) il ramo “infruttifero” della
metafisica (da qui l’espressione “rasoio”).
L’idea divenne la base della rivendicazione (sostenuta in seguito anche da Galileo) della sostanziale
ametafisicità (= estraneità agli aspetti metafisici) della scienza – la natura si spiega con la (sola)
natura, la materia con la materia –, necessaria per poter garantire rigore e verificabilità alle sue
asserzioni, ed ancora oggi costituisce un criterio di demarcazione fondamentale tra teorie
scientifiche e non scientifiche.
Oggi, tuttavia, questo principio viene anche usato in una accezione “più debole” e generale,
secondo cui “la spiegazione migliore (quella “giusta”) di un fenomeno è, in generale, la più
semplice a nostra disposizione”. Come conseguenza di questo asserto, è bene partire sempre
dall’ipotesi più semplice per studiare un fenomeno, perché “in generale” la natura non obbedisce a
leggi “complicate”; allo stesso tempo, tra due teorie equivalenti nel descrivere un fenomeno è bene
preferire, in assenza di prove che escludano l’una o l’altra, la più semplice tra le due.
Esempio
Supponiamo di dover risolvere il seguente problema: Se un rubinetto impiega 2 min per riempire un
secchio da 10 L di acqua, quanto tempo impiegherà a riempirne uno da 25 L?
Necessariamente, per affrontare il problema in questione, dobbiamo ipotizzare che esista una
qualche relazione funzionale esplicita che collega il tempo impiegato a riempire il secchio con il
quantitativo di acqua che deve essere versato, e naturalmente pretenderemo che, al crescere del
quantitativo di acqua da versare nel secchio, cresca anche il tempo richiesto per farlo. L’ipotesi più
semplice che possiamo formulare è che esista una relazione di proporzionalità diretta tra queste due
grandezze, ossia che il tempo impiegato dipenda linearmente dal quantitativo di acqua:
 quantitativo di acqua 
( tempo impiegato ) = k 

 da versare nel secchio 
dove k è una costante di proporzionalità da determinarsi coi dati a nostra disposizione. Non è scritto
da nessuna parte che le cose debbano stare per forza in questo modo1, ma si tratta certamente di
1
Ad esempio, ipotizzando che il rubinetto si trovi sul fondo di una piccola cisterna, non molto più grande del secchio, la
portata del suo getto d’acqua potrebbe anche variare significativamente nel tempo, rendendo la relazione che collega le
due grandezze non più lineare.
4
un’ipotesi molto ragionevole, ed è, oltretutto, la più semplice che possiamo formulare. Pertanto il
contributo dato dal principio di economia alla risoluzione di questo semplice problema risulta
essere fondamentale, poiché senza di esso non avremmo nemmeno saputo da dove cominciare; anzi,
risulta essere talmente naturale che avremmo potuto applicarlo anche senza accorgercene.
La risposta alla domanda sarà data quindi dalla risoluzione del seguente sistema:
2 min = k ⋅10 L

 x = k ⋅ 25 L
dove x rappresenta la nostra incognita (il tempo impiegato per versare 25 L di acqua) ed il valore di
k viene ricavato dalla prima equazione.
Il Principio di Corrispondenza
Formulato dal fisico danese Niels Bohr all'inizio del XX secolo, il Principio di Corrispondenza
affermava, nella sua versione originale, che i risultati della meccanica quantistica devono ridursi a
quelli della meccanica classica nelle situazioni in cui l'interpretazione classica può essere
considerata valida.
Questo principio può essere inteso, però, anche in un senso più lato, e per questo è stato utilizzato
anche in molti altri contesti, come ad es. nella Relatività Generale di Einstein: esso, infatti, risulta
essere profondamente legato alla nostra concezione filosofica della Scienza, intesa come attività
conoscitiva. Anche se al giorno d’oggi prevalgono, tra i filosofi, posizioni fallibiliste, scettiche,
relativiste o comunque “molto caute” sulle potenzialità conoscitive della Scienza, tra coloro che si
occupano quotidianamente di ricerca scientifica, e che ben comprendono il significato della loro
attività, prevale una posizione filosofica che potremmo definire “verificazionismo pragmatico”.
Secondo questa posizione, tutte le teorie scientifiche che sono state ripetutamente messe alla prova
mediante esperimenti e che si sono sempre dimostrate valide sono da considerarsi verificate, cioè
letteralmente “provate esser vere”2, all’interno del campo di validità in cui sono state formulate (=
insieme di ipotesi teoriche iniziali, che si traducono in precise condizioni sperimentali). Tuttavia,
fuori dal campo di validità in cui sono state originariamente formulate, tali teorie potrebbero
dimostrarsi errate, e gli scienziati dovrebbero quindi costruire una nuova teoria capace di spiegare
quei fenomeni che risultano incomprensibili alla luce della vecchia teoria.
Ma quale rapporto ci deve essere tra la nuova teoria e la vecchia teoria? La nuova teoria,
naturalmente, dovrà:
– spiegare i nuovi risultati nel nuovo capo di validità, e allo stesso tempo
– spiegare i risultati ottenuti nel vecchio campo di validità, portando alle stesse previsioni
della vecchia teoria.
Le previsioni fatte dalla vecchia teoria, infatti, erano state dimostrate esser vere, e non potranno
certo perdere all’improvviso la loro validità: quindi dovranno essere “recuperate” come caso
particolare dalla nuova teoria.
Secondo questa concezione, perciò, la conoscenza scientifica procede nel suo cammino non in
modo dialettico, ma ampliativo-cumulativo: le nuove teorie non cancellano le vecchie, ma le
estendono e le generalizzano, inglobandole come casi particolari. Questo asserto, che costituisce
l’enunciato generale del Principio di Corrispondenza, ha anche delle conseguenze formali: nel
limite matematico in cui il campo di validità della nuova teoria tende a quello della vecchia teoria,
le leggi della nuova teoria devono trasformarsi nelle leggi della vecchia teoria.
La storia della ricerca scientifica, quindi, ben lungi da essere data da una successione di rivoluzioni
caratterizzate da paradigmi irriducibili (= visioni della natura prive di qualsivoglia correlazione),
come sostengono i filosofi irrazionalisti, è invece costituita da una progressiva estensione e
2
Senza addentrarci troppo nel significato gnoseo-ontologico che attribuiamo a questo termine “vere”, possiamo dire che
questo status delle teorie scientifiche rappresenta in ogni caso, da un punto di vista qualitativo, la forma di conoscenza
più affidabile e “più vicina all’oggettivo” (o quantomeno più universale) che sia dato all’uomo di conseguire.
5
generalizzazione delle teorie precedentemente provate: ad esempio la Meccanica Quantistica si
ritrasforma nella Meccanica Classica, nel limite in cui la quantizzazione delle energie descritta dalla
costante di Planck h risulta trascurabile rispetto alle energie in gioco, così come le trasformazioni di
Lorentz e la dinamica relativistica vengono a coincidere esattamente, per velocità molto minori
della velocità della luce c, con le trasformazioni di Galileo e la dinamica newtoniana. In modo
analogo, le equazioni di campo della Relatività Generale di Einstein diventano, nel limite di masse
sufficientemente minori della massa del sole e per velocità molto minori di c, le leggi della
Gravitazione Universale di Keplero e Newton. Tutti questi risultati costituiscono un’applicazione
del Principio di Corrispondenza, ed evidenziano il ruolo di guida che esso ha giocato nella nascita
delle teorie fisiche più importanti del Novecento.
Approfondimento: Il Principio di Continuità
Enunciato da vari filosofi e scienziati (tra i tanti, si ricordino Aristotele, Leibniz e Linneo), il
principio di continuità si riassume nella massima Natura non facit saltus, “La Natura non fa salti”.
L’idea è che le funzioni che descrivono i processi naturali debbano essere funzioni continue, lisce,
caratterizzate da variazioni graduali e morbide, che non contemplano bruschi “salti” o cambiamenti
di legge. Questo significa che, data una legge fisico-matematica F(x, y, z,…)=0, al variare continuo
dei parametri x, y, z,… in gioco, la struttura di tale legge non deve mutare. In un certo senso tale
principio è strettamente connesso al principio di corrispondenza, che ingloba i casi limite come casi
particolari di una legge generale, calcolabili appunto con l’operazione matematica di limite (uno
strumento dell’analisi matematica, che studia per l’appunto le funzioni continue).
Un esempio di applicazione del principio di continuità è il seguente. Spesso viene detto che il fascio
di rette passanti per P(x0, y0) è rappresentato dalla coppia di equazioni:
y − y0 = m( x − x0 ) ∨ x = x0 ,
dove la prima equazione descrive le rette orizzontali o oblique, mentre la seconda l’unica retta
verticale passante per P. Tuttavia, a ben vedere, basta solo la prima equazione per caratterizzare
l’intero fascio: infatti, riscritta nella seguente forma
y − y0
= ( x − x0 ) ,
m
essa include anche il caso della retta verticale nel limite in cui m→∞. Si vede quindi che, al variare
continuo del parametro m, è possibile descrivere tutte le rette del piano con la stessa equazione. Un
analogo discorso può essere fatto per l’equazione della retta passante per due punti A e B:
y − yA
x − xA
=
y B − y A xB − x A
Tale equazione non funziona nei casi in cui i punti sono allineati verticalmente (xA = xB) o
orizzontalmente (yA = yB). Tuttavia, se riscritta come un prodotto:
( y − y A )( xB − xA ) = ( x − xA )( yB − y A )
riesce ad includere tutti i casi possibili, al variare delle posizioni di A e B. È evidente quindi che in
base a questo principio, in generale, anche i casi limite più “patologici” dovrebbero essere
comunque inclusi (con qualche piccolo accorgimento) all’interno dell’unica legge che descrive il
sistema fisico o matematico di interesse.
Esistono notevoli eccezioni a questo principio, di cui ne elenchiamo solo alcune appartenenti
proprio all’ambito della analisi matematica:
La formula per l’integrale della potenza, che per potenze razionali ad esponente n qualsiasi
dà come risultato sempre il seguente:
x n +1
n
x
dx
=
+c
∫
n +1
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eccezion fatta per il caso n = –1, in cui la soluzione dell’integrale è il logaritmo naturale:
−1
∫ x dx = ln x + c
Le soluzioni linearmente indipendenti dell’equazione differenziale di secondo grado
ay ''+ by '+ cy = 0 sono sempre due esponenziali del tipo eλ1 x ed eλ2 x , dove λ1 e λ2 sono le
radici del polinomio caratteristico aλ 2 + bλ + c = 0 . La formula vale per ∆>0 (radici reali) e
per ∆<0 (radici complesse), mentre nel caso ∆=0 appare la soluzione aggiuntiva xeλ1 x ,
funzionalmente molto diversa dalle due precedenti.
Questi pochi esempi (tra i tanti possibili) costituiscono la prova che il principio ha una mera natura
euristica di guida e non quella di una legge rigorosa che sia sempre rispettata.
Approfondimento: L’Argomento Dimensionale (o Analisi Dimensionale)
Un criterio post-hoc per verificare la correttezza dei calcoli simbolici svolti, utilizzato molto spesso
in fisica per controllare le formule, è quello di sostituire ad ogni grandezza fisica la sua unità di
misura, e verificare – al termine di tutte le semplificazioni – che il risultato coincida con la
“dimensione” attesa (NB: dimensione è “quasi” sinonimo di unità di misura). In realtà, tale criterio
è molto utile anche in matematica, persino in contesti in cui le unità di misura sono del tutto assenti:
introdurle nel problema, infatti, risulta utile perché “cala” il problema in un contesto “più fisico”,
che ci fornisce più strumenti per controllare la correttezza del nostro approccio risolutivo.
Esempio: Nel caso si debba invertire la seguente formula (Teorema dei seni) per ricavare il seno
dell’angolo β di un triangolo, noti i lati a e b e l’angolo α:
a
b
=
sin α sin β
è evidente che l’espressione seguente
sin α
sin β =
ab
è scorretta: considerando infatti i lati a e b come delle lunghezze, al primo membro abbiamo un
oggetto che è un numero puro3, ed al secondo membro un oggetto che si misura in metri–2, per cui
la formula non può certamente essere corretta.
Pertanto, è ragionevole ritenere anche che formule contenenti espressioni del tipo
ab + b sin α
siano scorrette, in quanto ottenute sommando oggetti con unità di misura diverse (operazione
proibita in fisica e quindi, per analogia, priva di senso anche in matematica).
L’analisi dimensionale viene anche utilizzata per formare ragionevoli ipotesi sulla forma che
possono assumere certe leggi fisiche sconosciute.
Esempio (tratto e adattato da Wikipedia): Qual è il periodo di oscillazione T di una massa m,
attaccata a una molla ideale con costante elastica k e sospesa in un campo gravitazionale di
accelerazione g?
Le quattro quantità hanno le seguenti dimensioni: T [s]; m [kg]; k [kg/s²]; g [m/s²]. La legge fisica
dovrà avere una espressione del tipo T = F(m, k, g), dove anche F risulta essere misurata in secondi
[s], o, equivalentemente, un’espressione del tipo
G(T, k ,m, g) = q
3
Seno, coseno, esponenziale e logaritmo sono funzioni prive di dimensioni: anche gli argomenti di esponenziale e
logaritmo devono essere dei numeri puri, mentre gli argomenti del seno e del coseno devono essere angoli, ossia
quantità espresse in gradi o in radianti
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(dove q è una costante numerica, cioè un numero puro). L’ipotesi più semplice è che la legge G
abbia la struttura di un prodotto e, con le grandezze fisiche in questione, è possibile formare un
unico prodotto adimensionale, che è il seguente4:
T 2k
=q
m
Ne deduciamo che la grandezza g non può comparire nella formula, proprio perché si misura in m/s²
e non c’è nessun’altra grandezza misurata in metri che possa, nei calcoli, far sparire dal prodotto i
metri. L'analisi dimensionale ci conduce quindi a determinare, in questo caso, l’irrilevanza di
alcune quantità (la g) in un problema, o la necessità di mettere in gioco altri parametri (che non
abbiamo considerato e che possano semplificarsi dimensionalmente5 con g). In questo caso, però,
supponendo di avere scelto abbastanza variabili per descrivere il problema in modo appropriato,
allora possiamo concludere che il periodo di oscillazione della massa sulla molla è indipendente da
g, cioè – per capirci – è lo stesso sia sulla Terra sia sulla Luna.
Riscrivendo la precedente espressione otteniamo dunque:
m
k
dove il valore di q rimane incognito e va determinato con altri mezzi (dalla analisi dinamicocinematica del moto della molla si deduce che q = 4π²).
T= q
Esempio (tratto da una prova Invalsi): Mauro e Piero vanno in vacanza. Mauro ha un'auto a gasolio
che in media percorre 24 km con un litro. Piero ha un'auto a GPL che in media percorre 13 km con
un litro. Il costo di un litro di gasolio è circa 1,70 € mentre quello di un litro di GPL è circa 0,79 €.
Mauro sostiene che è più conveniente utilizzare la sua auto a gasolio. È corretto?
Ragioniamo per dimensioni e per senso: un’auto è conveniente se percorre molti km con una spesa
di pochi €, quindi ne deduciamo che la convenienza si misura in km/€. Le altre grandezze in gioco
sono le prestazioni della macchina, ossia quanti km fa con 1 l di benzina, e i costi del carburante,
cioè gli € spesi al litro. È evidente che esiste un solo modo “semplice” (principio di economia) per
combinare le unità di misura di costi e prestazioni in modo da ottenere quelle della convenienza:
 km  [ km / l ] ( prestazioni )
(convenienza) =   =
=
(costi)
 €  [€ / l]
Abbiamo quindi ricavato la relazione che risolve il problema lavorando solo sulle unità di misura, e
senza preoccuparci troppo del senso “fisico” delle operazioni che abbiamo fatto. Ma se riflettiamo
sulla formula trovata, è perfettamente sensato dire che un auto è conveniente quando ha alte
prestazioni e bassi costi di consumo. Scendendo infine nello specifico del quesito, i calcoli numerici
dimostrano che Mauro ha torto, e che è più conveniente l’auto a GPL di Piero.
4
Dimostrazione: L’equazione ha la struttura
unità di misura [X] abbiamo:
T α k β mγ g δ = q . Sostituendo ad ogni grandezza X la sua dimensione o
[T ]α [k ]β [m]γ [ g ]δ = [q] ⇒ sα ⋅ (kg / s 2 ) β ⋅ kg γ ⋅ (m / s 2 )δ = 1 ⇒ sα − 2 β − 2δ ⋅ kg β +γ mδ = 1 ,
e poiché il prodotto vale uno (cioè non ha unità di misura) tutti gli esponenti devono valere zero:
α − 2β − 2δ = 0 α = −2γ


⇒  β = −γ
β + γ = 0
δ = 0
δ = 0


Il valore di γ è ovviamente arbitrario (purché diverso da zero), e ponendo γ = −1 si ottiene la formula cercata.
Quando ci si trova di fronte a un caso dove l'analisi dimensionale esclude una variabile (in questo caso g) che siamo
davvero sicuri che appartenga a una descrizione fisica della situazione, potremmo anche considerare la possibilità che la
variabile esclusa sia effettivamente rilevante e che qualche altra variabile sia stata omessa, variabile che potrebbe
combinarsi con la variabile rifiutata per formare una quantità adimensionale (ad es. la lunghezza l della molla).
5
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Applicazioni
Vediamo ora in concreto come l’applicazione di questi principi possa essere di enorme utilità anche
in matematica, oltre che in fisica. Partiremo da un caso semplice per poi approdare ad uno più
impegnativo.
Derivazione Euristica del Volume del Tronco di Cono
Consideriamo un tronco di cono, e cerchiamo di dare un’espressione
esplicita alla formula per il calcolo del suo volume. Le grandezze
caratteristiche del solido sono:
• il raggio della base minore r,
• il raggio della base maggiore R,
• l’altezza h e
• l’apotema a,
ma è piuttosto evidente che – noti r, R e h – è banale ricavare a con
l’applicazione del teorema di Pitagora:
r
a
h
R
a = a ( r , R, h) = ( R − r ) 2 + h 2
Dunque ne consegue che il volume V del tronco di cono dipenderà, nell’ordine, solo da r, R e h:
V = V ( r , R, h)
Supponiamo che il volume sia una funzione molto regolare nei suoi argomenti, ovvero perlomeno
continua, per cui – se vogliamo calcolarne il limite – possiamo sostituire qualsiasi valore particolare
di r, R e h all’interno della sua formula:
lim
r → r0 , R → R0 , h →h0
V (r , R, h) = V (r0 , R0 , h0 )
E’ bene fare alcune osservazioni fondamentali:
1) Deformazioni continue delle dimensioni di un solido che non ne mutano la natura (cioè il tipo
di solido) mantengono invariata la formula per il calcolo del suo volume, senza che vi sia
bisogno di fare alcun cambiamento salvo che nel valore dei suoi argomenti (argomento di
continuità: la Natura “non fa salti”, e nemmeno le sue leggi). Ad esempio, se allungo l’altezza
di un parallelepipedo, questo rimane un parallelepipedo, per cui vale ancora la stessa formula di
prima per calcolarne il volume: basta solo utilizzare il nuovo valore dell’altezza.
Consideriamo perciò la deformazione continua rappresentata nella figura sottostante:
supponiamo di ridurre con continuità il raggio R del tronco di cono fino a renderlo minore di r,
cioè fino a trasformare la base minore nella base maggiore.
r
r
h
h
R
R
La deformazione continua non ha mutato la natura del solido, per cui vale ancora:
V = V ( r , R, h)
però, poiché ha scambiato il ruolo di base maggiore e base minore, e la nuova figura è ancora un
tronco di cono, deve valere anche la formula
V = V ( R, r , h)
per il calcolo del volume, in cui ho riassegnato ai due raggi il corretto ruolo di “raggio della
base minore” e “raggio della base maggiore”. Questo implica che la formula del volume debba
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avere una dipendenza simmetrica dai due argomenti r ed R, e questo risultato ci sarà
enormemente utile in seguito.
2) Nel limite in cui r tende a R il solido si trasforma in un cilindro, per cui deve valere, per il
principio di corrispondenza:
V ( R, R, h) = πR 2 h
3) Inoltre, nel limite in cui r tende a zero il solido si trasforma in un cono, per cui – sempre per il
principio di corrispondenza, deve valere:
1
V (0, R, h) = πR 2 h
3
r
r
h
h
h
R
R
R
r=R
r=0
Nota Bene: Da (1) e (3) discende immediatamente che anche
1
V (r ,0, h) = πr 2 h
3
4) Nel limite in cui l’altezza h tende a zero le due basi si schiacciano l’una sull’altra e il volume si
annulla, per cui:
V (r , R,0) = 0
Abbiamo adesso tutti gli ingredienti per scrivere la formula esplicita del volume.
• Osserviamo innanzitutto che nei limiti (2) e (3) compare il fattore moltiplicativo πh, e che
per h pari a zero anche V vale zero, quindi l’ipotesi più semplice (principio di economia) è
che il volume sia direttamente proporzionale a tale fattore:
V (r , R, h) = πh ⋅ f (r , R)
• La funzione f(r,R) che rimane deve avere le dimensioni dei m2, visto che il volume V si
misura in m3 e l’altezza in m (argomento dimensionale: anche questo è un criterio euristico).
Sarà quindi, nell’ipotesi più elementare, un polinomio del secondo ordine nelle variabili r ed
R, che sia anche simmetrico nei suoi argomenti (per l’osservazione (1)):
f ( r , R ) = f ( R, r )
e che nel limite in cui r tende a R o a zero soddisfi le condizioni (2) e (3) precedentemente
enunciate, cioè:
f ( R, R ) = R 2
1
f (0, R) = R 2
3
• La forma più generale che può assumere un polinomio di secondo grado f(r,R), simmetrico
nelle variabili r ed R, è ovviamente la seguente6:
f (r , R) = n(r 2 + R 2 + mrR)
6
Si ricordi che per avere dei metri quadri possiamo sommare solo grandezze che abbiano le dimensioni dei metri
quadri. Non possiamo nemmeno introdurre nel polinomio termini lineari in r o R del tipo qR, dove q è una costante in
metri, poiché in tal caso dovremmo chiamare in causa una lunghezza in metri (q) che sia una costante universale dei
tronchi di cono, e naturalmente una costante di questo tipo non può esistere.
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E imponendo che soddisfi i due limiti sopra enunciati otteniamo:
1
1
f ( 0 , R ) = nR 2 = R 2 ⇒
n =
3
3
1
f ( R, R ) = ( 2 R 2 + mR 2 ) = R 2 ⇒ m = 1
3
• Da cui l’espressione finale per il volume del tronco di cono:
1
V ( r , R, h) = πh ⋅ f ( r , R ) = πh( r 2 + R 2 + rR)
3
Derivazione Euristica della Formula di Erone
Consideriamo adesso un generico triangolo. La sua area, come è
ben noto, è data dal prodotto tra uno qualsiasi dei suoi lati (a) per
b
c
l’altezza ad esso relativa (ha) diviso 2:
ha
a ⋅ ha
A = A( a, ha ) =
2
Si sarebbe quindi portati a credere che sia necessario conoscere,
a
per determinare l’area di un triangolo, almeno la misura di uno dei
suoi lati e dell’altezza ad esso relativa. Tuttavia, se ci pensiamo bene, data una terna di lati a, b e c
(le cui misure rispettino la disuguaglianza triangolare), il triangolo che possiamo costruire con essi è
univoco (a meno di operazioni di simmetria banali, come la rotazione, la traslazione e/o lo
specchiamento). Pertanto, fissati i lati, di quel triangolo è tutto determinato, area compresa.
Deve essere quindi possibile scrivere una formula che permetta di determinare, note solo le misure
dei lati, il valore dell’area del triangolo. Tale formula, nota col nome di Formula di Erone, sarà
quindi una funzione dei soli lati
A = A( a, b, c )
e noi andremo a determinarla in maniera euristica. Cercheremo quindi di scrivere la formula più
semplice, ma allo stesso tempo più generale possibile, che rispetti le simmetrie del problema: in
essa compariranno però diverse incognite, e le andremo a determinare col principio di
corrispondenza, ossia imponendo che la formula dell’area appena scritta, che deve valere per tutti i
triangoli, ci riconduca agli stessi risultati che sappiamo essere validi per alcuni triangoli particolari.
Procediamo dunque con ordine:
1. Come prima osservazione, notiamo che per un generico triangolo i tre lati a, b e c sono del tutto
equivalenti, ossia non ha senso “preferirne” uno rispetto agli altri, attribuendogli un qualche
ruolo particolare. Ne discende che la formula di A dovrà essere simmetrica nella sua dipendenza
dai lati, ossia essere invariante per una qualsiasi permutazione del loro ordine:
A( a, b, c ) = A(b, a, c ) = A(c, b, a ) = ...
2. Le uniche espressioni simmetriche per permutazioni dei lati che possiamo costruire sono:
– la loro somma, cioè il perimetro 2 p = a + b + c ,
– il loro prodotto a ⋅ b ⋅ c , oppure
– il prodotto di tre funzioni identiche dipendenti da ciascun lato f (a ) ⋅ f (b) ⋅ f (c) , oppure,
ancora più in generale,
– il prodotto di tre funzioni identiche dipendenti da ciascun lato e dal perimetro/semiperimetro
(usare l’uno o l’altro non cambia il senso del discorso) f (a, p ) ⋅ f (b, p ) ⋅ f (c, p ) .
3. Possiamo quindi scrivere un “primo scheletro” della formula dell’area come segue:
A( a, b, c ) = f ( a, p ) ⋅ f (b, p ) ⋅ f (c, p )
e possiamo generalizzarla introducendo, a moltiplicare, un’ulteriore funzione g(p) che dipende
dal solo semiperimetro:
A( a, b, c ) = g ( p ) ⋅ f ( a, p ) ⋅ f (b, p ) ⋅ f (c, p )
11
4.
5.
6.
7.
e, infine, possiamo supporre che tutta la precedente espressione sia ulteriormente trasformata
secondo una funzione h, cioè:
A(a, b, c) = h ( g ( p) ⋅ f (a, p) ⋅ f (b, p) ⋅ f (c, p) )
Questa è la formula più generale, ma allo stesso tempo più semplice, che possiamo scrivere per
l’area A. È opportuno però esplicitare meglio le ragioni di alcune nostre scelte, che potrebbero
apparire “troppo arbitrarie”. Innanzitutto, la scelta di non aggiungere altri termini “simili” in
somma dentro l’argomento della funzione h è motivata, principalmente, da argomentazioni di
economicità. Tuttavia, analogamente al motivo per cui abbiamo scelto il prodotto e non la
somma tra le funzioni f, dobbiamo riconoscere anche l’esistenza di argomentazioni di tipo
dimensionale dietro le nostre scelte: i lati infatti si misurano in metri, mentre l’area in metri
quadri, per cui è ragionevole ritenere che la dimensionalità superiore sia ottenibile con un
prodotto, così come per la formula “tradizionale” (lato)·(altezza relativa)/2 a cui la nostra
formula dovrà ricondursi in alcuni casi particolari (cioè i triangoli rettangoli, in cui ciascun
cateto svolge il ruolo di “altezza relativa” all’altro cateto).
Procedendo con l’applicazione del principio di economia, dobbiamo ipotizzare una forma per le
funzioni f e g, e naturalmente la forma più semplice che possiamo ipotizzare è quella
caratterizzata da una dipendenza lineare negli argomenti, cioè:
g ( p ) = np + s
f ( a, p ) = ma + qp + r
Ci accorgiamo subito, però, che le costanti s ed r devono essere uguali a zero. Questo sempre
per ragioni di tipo dimensionale: a e p, infatti, si misurano in metri, mentre n, m e q sono numeri
puri, e quindi s ed r sono due lunghezze in metri (ricordiamo che si possono sommare solo
oggetti con le stesse unità di misura) che svolgono il ruolo di costanti universali dei triangoli,
giacché compaiono nella formula di Erone. Ma è evidente che costanti di questo tipo non
possono esistere: per definizione, infatti, la “misura in metri” è una caratteristica contingente dei
triangoli, che da un punto di vista filosofico si scontra pesantemente col concetto di universalità.
Potremmo anche porre r = n = 0 e s = 1, ma in quel caso, sempre per ragioni dimensionali, la
funzione h assumerebbe una forma tutt’altro che “semplice” e “naturale” (vedi punto (7):
sarebbe una potenza alla 2/3, che non ricorre mai nelle proprietà dei triangoli noti).
Riassumendo le conclusioni del punto precedente, abbiamo:
A(a, b, c) = h ( np ⋅ (ma + qp) ⋅ (mb + qp) ⋅ (mc + qp) )
e ci accorgiamo subito che la costante n è un fattore di scala: potremmo infatti “accorparla” alle
costanti m e q definendo due nuove costanti:
M = m3 n
Q = q3 n
ed ottenere una formula che dipende da due sole costanti:
A(a, b, c) = h ( p ⋅ ( Ma + Qp) ⋅ ( Mb + Qp) ⋅ ( Mc + Qp) )
Oppure, che è una scelta del tutto equivalente, possiamo porla uguale ad un valore arbitrario, ad
esempio n = 1:
A(a, b, c) = h ( p ⋅ (ma + qp ) ⋅ (mb + qp) ⋅ (mc + qp ) )
Come precedentemente notato, l’argomento di h è dato dal prodotto di 4 fattori che si misurano
in metri (m), e quindi ha come unità di misura i metri alla quarta (m4). Però l’area si misura in
metri quadri (m2), e dunque il ruolo della funzione h sarà proprio quello di farci passare dalla 4ª
potenza alla 2ª potenza dei metri. Ancora una volta applichiamo il principio di economia,
osservando che la funzione più semplice di tutte che svolga questa operazione è la radice
quadrata. Ne consegue che:
A(a, b, c) = p ⋅ (ma + qp) ⋅ (mb + qp ) ⋅ (mc + qp)
Ed ora ci rimane solo da determinare i valori di m e q applicando il principio di corrispondenza.
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8. Consideriamo un triangolo equilatero di base a. L’altezza relativa alla base misura:
3
ha =
a
2
Per cui l’area vale:
a ⋅ ha
3 2
=
A=
a
2
4
Questo risultato deve essere riprodotto dalla formula di Erone, ovvero:
3 2
A(a, a, a ) =
a
4
E sostituendo al primo membro la corrispondente espressione otteniamo:
3
3 4
3 
3 2
a m+ q =
a
2 
2 
4
Una volta svolti i calcoli, l’equazione si trasforma nella relazione seguente tra m e q:
2m + 3q = 1
9. Consideriamo un triangolo rettangolo isoscele di cateti a. La sua area è banalmente data da
a2
A=
2
e l’applicazione del principio di corrispondenza porta alla relazione:
a2
A(a, a, 2a ) =
2
che, scritta esplicitamente, diventa:
2
 2a + 2 a  
2 a + 2a  
2a + 2a  a 2
ma
+
q
m
2
a
+
q

 
 
 =
2
2
2


 
 2
Sfruttando la relazione precedentemente trovata pongo:
2m = 1 − 3q
e l’equazione diventa un’equazione di terzo grado nella sola incognita q:
( 2 + 2 )(1 − q +
2q
2
)(
)
2 + 2q − 2 2 q = 4
Risolvendo l’equazione al calcolatore troviamo due soluzioni particolarmente complicate:
−1 − −39 + 28 2
2 (−4 + 3 2)
ed una terza soluzione piuttosto semplice:
q=
∨ q=
−1 + −39 + 28 2
2 (−4 + 3 2)
q=1
che per ragioni di economia sarà quella che sceglieremo.
10. Unendo le due relazioni precedenti dei punti (8) e (9) si ottiene:
m = −1
q =1
Cioè la forma definitiva della Formula di Erone è
A(a, b, c) =
p ⋅ ( p − a ) ⋅ ( p − b) ⋅ ( p − c )
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11. Osservazione: per semplificare i conti, avremmo potuto applicare il principio di corrispondenza
riconducendoci direttamente ad un caso numerico, ad esempio usando due terne pitagoriche,
tipo (3,4,5) e (5,12,13), per trovare le relazioni tra m e q, che avremmo scritto nella forma:
A(3, 4, 5) = 6
A(5,12,13) = 30
e naturalmente saremmo giunti agli stessi risultati. Oppure, potremmo usare queste due
relazioni per testare la correttezza della nostra scelta dei parametri q ed m.
Beggi Andrea,
revisione del 05/05/2018
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