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IL PROCESSO CIVILE: NOZIONI GENERALI – BESSO
Parte I – Processo civile e tutela giurisdizionale
Capitolo 1 – Il processo civile
Definizioni e confini: tutela dei diritti e attuazione della legge
Il processo è un fenomeno storicamente determinato i cui caratteri e significato mutano nel tempo
e a seconda dell’ordinamento nel quale si trova ad operare.
La definizione disegnata dalla nostra Costituzione all’art.24 dice: “tutti possono agire in giudizio per
la tutela dei propri diritti”; essa ci dice che scopo del processo è la tutela dei diritti la quale deve
essere riconosciuta a chiunque ne abbia bisogno.
La definizione trova poi il suo completamento nell’art.111 della Costituzione dove il concetto di
processo è correlato con quello di giurisdizione. Il processo deve essere giusto, è quindi il
mezzo attraverso il quale lo stato realizza la funzione giurisdizionale, che è autonoma e separata
rispetto alle altre due funzioni.
La definizione fissata dalla legge fondamenta, per certi versi differisce da quella che identifica
quale scopo del processo “l’attuazione della volontà concreta della legge”, la definizione
costituzionale mette al centro la persona e vede il processo funzionale alla tutela del diritto da
questa vantato.
Entrambe le definizione colgono la prospettiva giuridica del processo, soggettiva l’una (facendo
riferimento alla posizione tutelata), oggettiva l’altra (con riferimento all’attuazione della norma
generale ed astratta); fa entrambe emerge la funzione strumentale svolta dal processo rispetto
alle regole con le quali è fissato, dal diritto sostanziale, l’assetto degli interessi dei consociati.
Se il processo ha funzione strumentale, questo non significa che il suo ruolo sia marginale, il
processo è lo specchio di un sistema giuridico: il diritto sostanziale regola il comportamento dei
cittadini, attribuendo loro determinate situazioni di vantaggio.
Il legislatore sostanziale riconosce al proprietario il diritto di godere delle cose in modo pieno ed
esclusivo.
Un sistema di giustizia efficiente e accessibile si pone quale garanzia indispensabile per avere
l’osservanza spontanea delle regole da parte dei cittadini, l’inefficienza del processo dà luogo ad
indebolimento di quello che è il riconoscimento del diritto dal punto di vista sostanziale.
Se obiettivo della giurisdizione civile è la tutela del diritto soggettivo, scopo di quella penale è, una
volta accertata la responsabilità, l’applicazione della sanzione.
La legge fondamentale affianca alla tutela del diritto soggettivo quella dell’interesse legittimo.
Struttura e dimensioni
Dalla stessa etimologia del termine ricaviamo che il processo consiste in una serie di atti tra loro
coordinati che si svolgono nel tempo procedendo verso la formazione di un atto finale: la
decisione.
Perché si abbia un processo è necessario che la decisione chiesta da una parte nei confronti di
un’altra sia pronunciata da un giudice, un soggetto terzo rispetto alle parti. La presenza del terzo
non basta perché si possa parlare di processo, ciò che caratterizza il processo è che la decisione
del terzo è resa sulla base di fatti che sono oggetto di verifica e sulla applicazione a questi fatti
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della corretta conclusione giuridica.
Il processo è lo strumento che dà espressione formale e istituzionale all’influenza
dell’argomentazione razionale nelle relazioni umane, come tale esso assume un onere di razionalità
che altre forme di regolamentazione sociale non presentano. Tutto quello che esalta il significato di
questa partecipazione eleva il processo verso la sua espressione ottimale, tutto quello che
all’opposto mina il significato di questa partecipazione distrugge l’integrità del processo.
In quanto razionale, il processo mira ad una corretta ricostruzione dei fatti e ad una altrettanto
corretta applicazione delle norme giuridiche sostanziali, nel processo è presente un’aspirazione
verso la ricerca della verità.
Il processo d’altro canto deve essere, come dice l’art.24 della Costituzione, giusto ed un processo
che neppure ambisca a dare ai cittadini ciò che loro spetta secondo diritto non può essere
considerato giusto.
Il processo consiste in una successione di atti che si svolgono nel tempo, il tempo è quindi una
variabile con la quale la ricerca della correttezza della decisione deve necessariamente rapportarsi;
la durata del processo dev’essere ragionevole, nel nostro come in altri ordinamenti, sono fissati
periodi di tempo entro i quali devono essere posti in essere i diversi atti e lo stesso processo è
costruito come un fenomeno temporalmente delimitato.
Il trascorrere del tempo viene in concreto ad incidere sulla decisione, la definizione della lite può
essere corretta, ma arrivare troppo tardi per avere una qualche utilità concreta per la parte che
pure è risultata vincitrice.
Vi è una terza variabile che deve essere considerata, quella dei costi del processo, l’esercizio della
funzione giurisdizionale comporta dei costi, primi fra tutti quelli che devono essere sostenuti per
gestire gli uffici giudiziari. E’ ovvio che un processo ideale è un processo costoso e che l’effettività
della tutela dipende in larga misura dalle risorse che lo stato è disposto ed è in condizione di
investire nel servizio giustizia.
In una situazione quale quella attuale, ci si può chiedere quanta parte dei costi del processo
addossare alla collettività e quanta invece attribuire ai soggetti che a questo facciano corso, la
scelta del nostro ordinamento è di addossare in minima parte su colui che propone domanda di
tutela al giudice i costi del funzionamento del processo. La parte deve poi sopportare i costi
attinenti ai profili tecnici della sua difesa, la complessità delle regole rendono opportuno che la
parte non si difensa personalmente, ma si rivolga ad un tecnico, l’avvocato, i cui compensi
possono incidere in misura rilevante sulla effettiva possibilità di ottenere tutela.
Così come una giustizia resa con ritardo equivale ad un diniego di giustizia, un processo non
accessibile a causa dei suoi costi equivale a un diniego di giustizia per coloro che tali costi non
possono affrontare.
Il giusto processo: i principi posti dalle carte europee dei diritti fondamentali e dalla
nostra carta costituzionale
Questi principi hanno trovato una loro codificazione all’interno delle carte fondamentali europee,
nazionali e sovranazionali così principi in materia di tutela giurisdizionale dei diritti sono presenti
nella convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU), ed in particolare dall’art.6 comunemente riassunti sotto la forma dell’equo processo
concernono le garanzie che deve presentare la figura del giudice, la ragionevolezza della durata
del processo e il diritto ad una pubblica ed equa udienza.
La corte europea ha interpretato la garanzia dell’equa udienza come incorporante due ulteriori
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principi, il diritto di uguaglianza di trattamento inteso come parità delle armi il diritto di accesso
alla giustizia, in relazione alla quale la corte ha sottolineato che gli altri diritti processuali non
hanno significato concreto se la persona non ha accesso effettivo alla giustizia per rivendicare il
suo diritto.
I principi enunciati dalla convenzione così come interpretati dalla corte dei diritti dell’uomo sono
stati ripresi dall’art.47 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ove l’accento è
posto, sin dalla rubrica dell’articolo sull’effettività del diritto di accesso alla giustizia.
Nel nostro ordinamento è la carta costituzionale a dettare i principi fondamentali per il processo
civile, all’art.24 ed all’art.111, se il primo è focalizzato sul diritto di difesa e sulla necessità di
garantire ai cittadini non abbienti la difesa tecnica da parte dell’avvocato, i primi due commi
dell’art.111 risentono della formulazione e della interpretazione dell’art.6 della convenzione
europea prescrivono il rispetto della garanzia del giusto processo regolato dalla legge, del
contraddittorio in condizioni di parità tra le parti, nonché della terzietà e imparzialità del giudice e
della ragionevole durata del processo.
Consideriamo il principio dell’imparzialità del giudice: se la legge fondamentale ha soprattutto
pensato a garantire l’autonomia e l’indipendenza dei giudici dagli altri poteri dello stato, il principio
espressamente enunciato dell’estraneità ed equidistanza del giudice rispetto alle parti era
comunque ricavabile e riconosciuto dalla corte costituzione sulla base di altre disposizioni come
l’art.101 e 104. Il giusto processo è regolato dalla legge e la ragionevole durata è costruita come
garanzia oggettiva dell’ordinamento piuttosto che come diritto soggettivo della parte.
In ogni caso, i nuovi due commi dell’art.111 hanno segnato un cambiamento nella percezione delle
garanzie del processo, viste non può singolarmente, ma come tra loro coordinate e bilanciate,
come l’accento grazie alla espressa enunciazione del principio della ragionevole durata.
Il processo come mezzo di composizione della lite
Il processo è uno dei modi di composizione della lite ma non è l’unico, accanto alla composizione
eteronoma della lite posta in essere da un terzo vi è l’autocomposizione ad opera delle stesse parti
in conflitto, chi afferma la pretesa può rinunciarvi, la controparte che l’aveva inizialmente negata
può riconoscerla.
Ciò che caratterizza il processo non è l’obiettivo, ma il modo in cui la risoluzione della lita è
raggiunta, il conflitto può essere risolto mediante la decisione di un terzo, il giudice, diventa
giuridico e si trasforma in dissenso circa lo svolgimento di determinati fatti passati e l’applicazione
a questi fatti di norme generali prestabilite; il processo è quindi la risposta istituzionale dello stato
offerta ai cittadini per la risoluzione dei conflitti che li vedano coinvolti, esso è il luogo della giusta
composizione della lita.
Gli altri mezzo di composizione: L’arbitrato
Accanto al processo il nostro ordinamento conosce un’altra tecnica di composizione eteronoma
della lite, qualora la lite abbia ad oggetto un diritto di cui le parti possono disporre queste possono
scegliere di affidarne la decisione invece che al giudice ad uno o più arbitri.
L’arbitrato è quindi un giudizio ove si ha decisione della lita, ma a differenza del processo che si
svolge davanti a un giudice statuale, a decidere è un soggetto privato, scelto dalle parti; la volontà
delle parti gioca quindi un ruolo fondamentale: essa non solo è la fonte de potere di decidere degli
arbitri, ma influenza anche le regole di svolgimento del processo e di decisione.
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L’arbitrato trova la sua disciplina nel codice di procedura civile, sono numerosi i momenti di
collegamento tra l’istituto ed il giudice statuale che interviene nei momenti di crisi del
procedimento e davanti al quale si svolgono i giudizi di impugnazione proponibili contro la
decisione arbitrale. Il nostro ordinamento si caratterizza per l’equivalenza tra giustizia statale e
quella arbitrale.
La scelta di chi nominare arbitro è libera e non predetermina come per il giudice, il potere di
stabilire le regole dello svolgimento del giudizio deve comunque salvaguardare il principio del
contraddittorio in modo che siano riconosciute alle parti ragionevoli ed equivalenti opportunità di
difesa (art.816bis).
L’arbitrato finisce per essere lo strumento di soluzione di poche liti, si è sviluppato l’arbitrato
amministrato ove le parti accertano la proposta di un organismo che offre loro la struttura
organizzativa e le regole per lo svolgimento del giudizio. Questa forma di arbitrato offre garanzie
per quanto concerne la certezza delle tariffe applicate, la trasparenza nella nomina degli arbitri e lo
svolgimento del procedimento; l’istituto rimane un fenomeno limitato sotto il profilo del numero di
liti con esso risolte. Il nostro ordinamento conosce oltre all’arbitrato rituale, un’altra forma di
arbitrato irrituale, frutto di elaborazione giurisprudenziale e solo di recente codificato dal
legislatore (art.808ter), nell’arbitrato irrituale le parti attribuiscono al terzo il potere di comporre la
lite con una determinazione contrattuale che ha quindi efficacia sostanziale ed è non impugnabile,
ma annullabile sua pure con le peculiarità fissate dal menzionato art.808ter.
La mediazione
Il panorama della risoluzione delle liti è mutato negli ultimi decenni, accanto al processo e
all’arbitrato tradizionali tecniche di soluzione della controversia basate sulla decisione da parte di
un terzo, si è infatti affacciata una nuova modalità di composizione, la mediazione è imperniata
sull’assistenza del terzo alle parti.
L’idea dell’assistenza alla composizione della lite ad opera di un terzo non è nuova ed appartiene a
lungo tempo alla nostra tradizione: pensiamo agli istituti della conciliazione stragiudiziale posta in
essere dal giudice non togato e del tentativo di conciliazione ad opera del giudice del processo.
La composizione bonaria della lite non viene infatti lasciata all’intuizione ed al senso comune ma
viene fatta derivare dall’applicazione di tecniche derivate dalla psicologia, la mediazione è quindi
un procedimento che segue determinate regole e prassi ed il mediatore è un esperto di tecniche di
comunicazione e negoziazione.
Il nostro legislatore ha visto nella conciliazione stragiudiziale un possibile strumento per
deflazionare il carico di lavoro dei giudici e ha quindi previsto la possibilità per le parti di rivolgersi
ad organismi di conciliazione, una disciplina di carattere generale si è avuta con il d.lgs 28/2010
che regola il procedimento di mediazione per le controversie civili e commerciali. La figura di
mediazione costruita dal d.lgs 28/2010 presenta elementi di originalità, il modello infatti vede agire
più soggetti: le parti, il mediatore e l’organismo presso il quale il procedimento di svolge.
Il nostro legislatore distingue il soggetto che assiste le parti nella composizione della lite
dall’organismo che invece amministra il procedimento di mediazione.
Anche la formazione dei mediatori è posta sotto la vigilanza dello stato, ancora attraverso
l’iscrizione in un apposito elenco sempre tenuto presso il ministero, il decreto 28/2010 ha compiuto
un opzione netta in favore del ricorso obbligatorio al procedimento di mediazione, il cui
esperimento è requisito di procedibilità della domanda proposta davanti al giudice in una serie
rilevante di controversie civili.
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L’ottica di favor nei confronti dell’istituto si esplica anche nella previsione da un lato di incentivi ad
utilizzare l’istituto e dall’altro lato di possibili sanzioni nei confronti di colui che non prende parte al
procedimento.
Il processo civile italiano in prospettiva diacronica
Dal punto di vista storico il processo civile italiano è l’erede del processo romano canonico, il
modello processuale che si è sviluppato nel XII secolo in Italia per poi diffondersi in tutta l’Europa
continentale.
Su tale modello si sono basati sino a tutto il XVIII secolo i processi civili dei singoli stati italiani.
L’inizio del XIX secolo si è invece caratterizzato per l’influenza del code de procedure civile
napoleonico, il codice del 1865 disegnava un processo dominato dal principio dispositivo delle parti
che avevano un controllo pieno dell’oggetto e dello svolgimento del giudizio.
Il secolo successivo si è aperto con idee differenti: è soprattutto Chiovenda a proporre un codice
“nuovo” che si basa su principi antitetici rispetto a quello del codice del 1865: l’oralità,
l’immediatezza e la concentrazione del procedimento.
Se la scrittura non viene bandita dal processo la trattazione del processo diventa orale.
Le parti trattano verbalmente la causa e il giudice svolge una funzione attiva, vi è contatto diretto
ed immediato tra il giudice e le fonti del suo convincimento. I canoni chiovendiani non sono stati
certo condivisi da tutta la dottrina, ma hanno costituito un punto di riferimento del dibattito e dei
numerosi progetti che si sono susseguiti a partire dagli anni 20 del Novecento.
Il nuovo codice è arrivato nel 1940 frutto di compromessi, è lontano dal processo disegnato da
Chiovenda, l’oralità e la concentrazione sono attuate in una misura ridotta e viene ideata la figura
ibrida del giudice istruttore, se al giudice vengono affidati poteri di direzione del procedimento,
limitati sono i suoi poteri istruttori.
Il codice è comunque per molti versi innovativo rispetto a quello del 1865: viene diminuito il
formalismo degli atti, sono eliminate le sentenze interlocutorie ed è introdotto un rigido sistema di
preclusioni.
Il codice è articolato in 4 libri:
- il primo libro riflette il carattere dogmatico del codice e mira a far comprendere le disposizioni
generali che dovrebbero trovare applicazione in relazione a tutti i processi regolati nei tre libri
successivi.
- il secondo libro è dedicato alla disciplina del processo di cognizione piena, quello del processo
ove la decisione è resa dopo che le parti hanno avuto la possibilità di far valere in modo compiuto
le loro ragioni, si caratterizza per essere tutela atipica e può quindi essere utilizzato per far valere
la generalità dei diritti.
Nel secondo libro troviamo le regole del giudizio di primo grado e quelle dei mezzi di
impugnazione.
- nel terzo libro sono dettate le regole del processo di esecuzione, ossia quel complesso di attività
attraverso le quali si ha il soddisfacimento coattivo del diritto.
- nel quarto libro si parla dei procedimenti speciali ove il legislatore ha disciplinato gli istituti non
ricompresi nei precedenti libri, perlopiù caratterizzati dal fatto di essere procedimenti tipici, ossia
volti a tutelare specifiche situazioni sostanziali.
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Con la fine della seconda guerra mondiale si è sviluppato nei confronti del codice di rito un
atteggiamento fortemente negativo da parte degli avvocati che ha portato il legislatore a emanare
la controriforma del 1950 che ne ha cancellato o attenuato le innovazioni più significative. E’
stata introdotta la possibilità di trattazione iscritta invece che orale della causa, la vita del codice è
stata contrassegnata da continue affermazioni circa la necessità di elaborarne uno nuovo; è del
1973 l’introduzione del novellato rito del lavoro, procedimento speciale di cognizione per le cause
che vedono contrapposti lavoratori e datori di lavoro.
Negli stessi anni ’70 del secolo scorso si è avuta elaborazione da parte di una commissione
presieduta da Liebman, di un progetto di riforma generale, ispirato al riformato rito del lavoro.
In quegli stessi anni si imponeva sulla base della lettura coordinata dei principi dettati all’art.3 ed
all’art.24 il tema dell’effettività della tutela giurisdizionale con le connesse problematiche della
durata del processo, dell’accesso al giudice e dell’inefficienza del sistema.
A fronte di una situazione di crisi della giustizia ritenuta ormai insostenibile, agli inizi degli anni ’90
si è accantonata l’idea della riforma globale del codice in favore di provvedimenti urgenti, si è
operato in due direzioni, da un lato potenziando le forme di giustizia affidate a giudici non di
carriera (come il giudice di pace), e dall’altro lato modificando la disciplina del giudizio ordinario
davanti al tribunale, inserendo profili propri dell’esperienza del rito del lavoro rivalutando il
giudizio in primo grado.
La via verso la monocraticità del giudice di primo grado è poi proseguita negli anni 1997-1999 con
l’abolizione della figura del pretore e il trasferimento delle sue competenze al tribunale.
Le riforme degli anni ’90 non hanno però risolto i problemi del processo civile ed in particolare
quello della sua durata “irragionevole”, il tema del ritardo della giustizia italiana è intanto divenuto
un problema europee e il nostro stato è stato più volte esortato dal consiglio d’Europa a porvi
rimedio e ad assicurare la ragionevole durata dei processi, obbligo nel frattempo anche
esplicitamente imposto dalla nostra carta costituzionale.
Il legislatore ha pensato di rispondere alle sollecitazioni europee introducendo la possibilità di
ottenere l’equa riparazione del danno causato dall’irragionevole durata del processo davanti al
giudice italiano. Con l’inizio del nuovo millennio si è tornati a pensare ad un nuovo codice di
procedura civile, nel 2003 il governo ha approvato un progetto di legge delega che vedeva la
ricerca dell’efficienza perseguita non attraverso l’ampliamento dei poteri del giudice , ma piuttosto
mediante il libero gioco delle parti con una prima fase del processo dedicata allo scambio di
memorie tra le stesse senza la partecipazione del giudice.
I caratteri portanti sono stati trasfusi nella disciplina del processo societario di cui al dlgs 5/2003,
tale disciplina non ha dato buona prova sotto il profilo dell’efficienza del giudizio ed è stata
abrogata con la legge 69/2009.
Si segnala la legge 80/2005 che ha introdotto modifiche del processo di cognizione, esecutivo e
cautelare e ha dettato norme di delega al governo in materia di giudizio di cassazione e arbitrato,
e la già citata legge 69/2009 che ha posto disposizioni che incidono su numerosi punti del
processo, dall’abbreviazione di svariati termini, all’introduzione di una nuova forma, scritta, di
testimonianza, a modificazioni del giudizio di cassazione.
La legge 69/2009 conteneva anche una delega per l’emanazione di norme relative alla mediazione
da un lato e la semplificazione dei riti speciali.
Le norme non hanno modificato il giudizio di appello introducendo una sorta di filtro di
ammissibilità e quelle contenute nella legge 98/2013 che tra l’altra ha reintrodotto l’obbligatorietà
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del procedimento di mediazione.
La crisi del processo non può dirsi risolta, i tempi del processo, seppur migliorati per quanto
concerne il giudizio di primo grado, continuano ad essere irragionevoli per i giudizi che si svolgono
di fronte alle corti d’appello e davanti alla corte di cassazione.
Le ragioni della durata dei giudizi sono solo in parte da ascriversi alle norme del processo, andando
queste anche e soprattutto individuate nella interpretazione che di queste viene data e in
caratteristiche strutturali del nostro sistema di amministrazione della giustizia, che vanno
dall’organizzazione degli uffici giudiziari a quella della professione legale.
Da decenni si sottolineava la necessità da un lato di rivedere l’articolazione degli uffici giudiziari
mediante una riduzione del loro numero e dall’altro lato di potenziare l’utilizzo delle tecnologie
informatiche. Entrambe le richieste sono divenute realtà: nel 2013 si è attuata la revisione delle
circoscrizioni giudiziarie, e dal giugno 2014 diverrà obbligatorio il c.d processo telematico.
Capitolo 2 – Le tutele giurisdizionali
Tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi, il principio dispositivo
Ai sensi dell’art.2907 cc, alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su
domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero d’ufficio.
Iniziando dall’incipit dell’articolo “alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria”,
tale tutela avviene ad opera del giudice, nel nostro ordinamento vige infatti il divieto di
autotutela privata e l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni costituisce reato ai sensi degli art.
392 e 393 cp.
Affinchè si abbia un processo deve esserci un giudice, figura terza ed imparziale, il legislatore con
una scelta di mera opportunità affida al giudice anche dei compiti che non sono di tutela dei diritti
ma di gestione di interessi, è la cd attività di giurisdizione volontaria dove l’aggettivo volontaria
evidenzia il fatto che ci troviamo non in una situazione di conflitto ma inter volentes.
In situazioni ritenute delicate o a rilevanza pubblicistica, il legislatore sceglie di affidare al giudice
compiti che vengono definiti di amministrazione pubblica del diritto privato, che potrebbero anche
essere affidate ai privati o ai funzionari della pubblica amministrazione.
La categoria della giurisdizione volontaria è categoria ampia ed eterogenea: pensiamo ad esempio
ai procedimenti nell’interesse dei minori.
Il procedimento seguito in tali casi è differente rispetto al processo ordinario di cognizione, poiché
si tratta non di accertare l’esistenza di un diritto, ma semplicemente di amministrare una
determinata situazione giuridica, il procedimento è snello ed informale e conferisce ampi poteri
discrezionali al giudice e termina con un provvedimento suscettibile di revoca o modifica.
Autorità giudiziaria: la giurisdizione è di regola affidata a giudici dello stato, il potere di decisione
sul diritto soggettivo può essere, in materia di diritti disponibili, conferito dalle parti ad un giudice
privato, l’arbitro.
La decisione dell’arbitro si pone dal punto di vista della struttura e dell’efficacia sullo stesso piano
di quella resa dal giudice. Essendo però l’arbitro privo di poteri autoritativi, la parte che intende
fare eseguire in via coattiva il lodo deve chiedere che ne sia accertata la regolarità dal giudice.
Proseguendo nell’analisi dell’art.2907 cc, esaminando la locuzione “su domanda di parte”,
l’instaurazione del processo civile è condizionata dal principio dispositivo in base al quale “chi vuole
fare valere un diritto in giudizio deve proporre domanda” (art.99 cc); tuttavia la legge prevede
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delle eccezioni al suddetto principio, in limitatissime ipotesi il processo può iniziare d’ufficio senza
alcuna domanda, come accade in relazione ad alcuni procedimenti che concernono i minori.
L’art.2907 prevede poi che in determinati casi, tassativamente determinati, il processo inizi su
istanza del pubblico ministero, a lui viene in casi eccezionali conferito l’esercizio dell’azione
civile (art.69). In tali ipotesi è il processo a promuovere il processo.
Le tutele: azione di cognizione, esecutiva e cautelare
Sono tre le forme di azione in cui si articola la tutela giurisdizionale dei diritti.
- L’azione di cognizione, ossia l’azione che viene promossa dall’attore nei confronti del
convenuto davanti ad un giudice, per mezzo della quale viene richiesta la tutela di un diritto di cui
l’attore si afferma titolare e che è stato violato o semplicemente contestato.
Si chiede al giudice di accertare l’avvenuta violazione o contestazione del diritto ed,
eventualmente, rimediare alla violazione ovvero di porre in essere una modificazione giuridica.
- Accanto all’azione di cognizione troviamo l’azione esecutiva, disciplinata agli art.2910 ss cc, e
nel Libro III del cpc.
Essa si colloca in un momento successivo rispetto all’azione di cognizione: infatti, con l’azione di
cognizione si ottiene una sentenza che è titolo esecutivo, con l’azione esecutiva invece si ha la
sostituzione del debitore inadempiente con gli organi esecutivi che provvedono al soddisfacimento
coattivo del creditore.
Al termine del processo, il giudice emetterà una sentenza che potrà essere favorevole all’attore,
condannando il convenuto a pagare la somma richiesta; il debitore potrà o adempiere
spontaneamente oppure non pagare alcunché. In quest’ultima ipotesi il creditore potrà esercitare
l’azione che, sulla base del cd titolo esecutivo fa si che il debitore inadempiente sia sostituito dagli
organi esecutivi.
L’azione di cognizione può non essere sufficiente a garantire l’effettiva soddisfazione del diritto
soggettivo, per la cui tutela entra in gioco l’azione esecutiva che si pone quindi come
completamente della tutela richiesta dall’attore con l’azione di cognizione.
Sussistono due tipi di azione esecutiva: l’espropriazione e l’esecuzione in forma specifica.
La prima forma di esecuzione è prevista per le sentenze che condannano il convenuto a
corrispondere una somma di denaro all’attore: gli organi esecutivi si sostituiscono al debitore
inadempiente, pignorando i suoi beni, mobili o immobili.
Con il secondo tipo di esecuzione vengono invece portate ad attuazione coattiva le sentenze in
base alle quali il soccombente è tenuto ad una prestazione di fare o non fare, alla consegna di un
bene mobile od al rilascio di un bene immobile.
L’azione esecutiva presuppone l’esistenza di un titolo esecutivo, il più comune è formato dalla
sentenza di condanna, ma il legislatore attribuisce tale qualifica anche ad altri atti.
- L’azione cautelare è strettamente legata all’azione di cognizione e a quella esecutiva, rispetto
alle quali si pone in rapporti di strumentalità.
Il processo a cognizione piena, pure quando si compie in un tempo ragionevole, necessita per il
suo svolgimento di un certo lasso di tempo che può minare l’effettiva utilità della sentenza che in
esso venga resa.
Da un lato vi sono infatti situazioni giuridiche che abbisognano di una tutela rapida se non
immediata ed in relazione alle quali il riconoscimento del diritto ottenuto a distanza di tempo
rischia di giungere quando il diritto ha ormai subito pregiudizi gravi o irreparabili.
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Dall’altro lato vi è il pericolo che durante lo svolgimento del giudizio possa venir meno il bene
oggetto del processo, ovvero la garanzia patrimoniale offerta dal debitore.
Per annullare il pregiudizio che può derivare dal decorso del tempo il nostro ordinamento disciplina
misure cautelari che possono essere ricondotte a due tipi:
1. Misure di tipo conservativo
2. Misure di tipo anticipatorio
Per ottenere dal giudice la pronuncia di una misura cautelare è necessaria la sussistenza di due
presupposti:
- il cd. fumus bon iuris (apparenza del buon diritto)
- il cd. periculum in mora (pericolo nel ritardo)
Data la necessità di concedere la misura nel più breve tempo possibile, la tecnica scelta dal
legislatore è quella di prevedere l’adozione della misura a seguito di una cognizione non piena ma
sommaria, ove la sommarietà sta anzitutto nell’informalità e celerità dell’istruttoria.
Il procedimento cautelare si articola in due fasi, che non sono tra loro autonome, volte la prima a
verificare la sussistenza delle condizioni per la concessione della misura e la seconda all’attuazione
della stessa.
Il provvedimento cautelare ha natura provvisoria ed è destinato ad essere sostituito dalla decisione
sul merito rispetto al quale è strumento di garanzia ed effettività.
La tutela giurisdizionale differenziata: cognizione piena e sommaria, processo
ordinario e speciale
Cosa vuol dire cognizione piena? Significa che il giudice emana la sua statuizione in ordine a chi ha
ragione e a chi ha torto dopo che entrambe le parti sono state messe in condizione di far valere
tutte le proprie difese secondo modalità e con il rispetto di termini legislativamente predeterminati.
Sommaria invece la cognizione può essere perché superficiale ovvero perché parziale.§
Superficiale è la cognizione, propria dei procedimenti cautelari ove il giudizio, e in particolare la
raccolta degli elementi di prova, avviene in modo rapido e deformalizzato.
Parziale è invece la cognizione nei procedimenti ove il provvedimento del giudice viene reso dopo
aver sentito le ragioni di una sola delle parti come nel procedimento di ingiunzione. In tale
procedimento, infatti, il giudice si pronuncia sulla domanda dell’istante inaudita altera parte, senza
cioè che la controparte sia stata chiamata al processo.
Abbiamo parlato di processo a cognizione piena. Il legislatore disegna un processo ordinario a
cognizione piena, dal carattere atipico, che può avere ad oggetto qualsiasi diritto; accanto a
questo troviamo dei processi sempre a cognizione piena ma speciali, perché tutelano classi di diritti
specificamente determinati.
E’ il caso del processo di cui agli artt.414 ss pensato per le controversie in materia di lavoro.
I tipi di azioni di cognizione: l’azione di accertamento mero
Tradizionalmente si distinguono tre tipi di azione di cognizione, a seconda del tipo di pronuncia che
viene chiesta dal giudice.
Con l’azione di accertamento mero l’attore chiede al giudice di fare certezza circa la sussistenza
del diritto da egli fato valere ovvero l’insussistenza del diritto che altri vanta.
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L’azione pone un problema circa la sua proponibilità, dal momento che non viene richiesta una
tutela materiale del diritto, ma solamente una statuizione sulla sua esistenza o inesistenza.
In molti ordinamento stranieri questo tipo di azione è un’azione “atipica”.
Il nostro legislatore invece non ha dettato una norma generale al riguardo, ma si limita a
prevedere l’azione in relazione a ipotesi specifiche, un’ipotesi tipica di azione di accertamento mero
è disciplinata all’art.949 cc rubricato “azione negatoria”, un’altra ipotesi è dettata all’art.1079 cc
“accertamento della servitù”.
E’ quindi dibattuto se l’azione possa esercitarsi unicamente nelle ipotesi espressamente previste dal
legislatore, se la posizione della dottrina è più rigorosa, dall’altro lato la giurisprudenza è generosa
nell’ammettere l’azione di mero accertamento. D’altro canto, come pone in luce la giurisprudenza,
il problema della proponibilità dell’azione di accertamento mero va risolto non tanto in astratto
quanto in concreto, considerando il filtro dell’interesse ad agire. Infatti, ai sensi dell’art.100 per
proporre una domanda, o per contraddire alla stessa, è necessario avervi interesse.
Premesso che oggetto dell’azione deve essere un diritto e non l’interpretazione di una norma
giuridica ovvero un mero fatto, occorre che vi sia un bisogno di tutela ulteriore rispetto alla
richiesta dell’accertamento dell’esistenza o inesistenza del diritto.
Merita infine sottolineare che di accertamento mero è la sentenza che rigetta la domanda e che in
tutte le tipologie di azione di cognizione esiste il momento dell’accertamento.
L’azione costitutiva
L’azione viene disciplinata dal legislatore all’art.2908 cc, per il quale “l’autorità giudiziaria può
costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi ed aventi
causa”.
Con tale azione l’attore chiede al giudice di porre direttamente in essere la costituzione di un diritto
ovvero la modifica od estinzione di un rapporto giuridico preesistenze.
L’essenza di tale azione sta nel fatto che il giudice non si limita all’accertamento, ma dato che si
opera sul piano del mondo del diritto si sostituisce alle parti e compie lui stesso la modificazione
giuridica richiesta.
Si distinguono due tipi di azione costitutiva.
L’azione costitutiva necessaria, in cui la costituzione, modificazione od estinzione del rapporto
giuridico non può essere posta in essere dalle parti, che sono obbligate a rivolgersi al giudice
affinchè ponga in essere la modificazione richiesta.
Nell’azione costitutiva non necessaria, invece, il giudice interviene per modificare il rapporto
giuridico quando le parti, a causa di una crisi di cooperazione, non siano riuscite concordemente a
costituire, modificare od estinguere il rapporto in questione.
L’azione è costitutiva, perché il giudice, a fronte del mancato adempimento dell’obbligo di
concludere un contratto, emette una sentenza che produce i medesimi effetti del contratto non
concluso.
L’azione di condanna e le misure coercitive indirette
Nell’azione di condanna il momento dell’accertamento della sussistenza del diritto è seguito
dall’accertamento della sua violazione e quindi dalla condanna della controparte a sua prestazione
finalizzata a porre rimedio a tale lesione.
Il quid pluris rispetto all’azione di mero accertamento sta nella pronuncia di condanna di una delle
due parti, la pronuncia costituisce il presupposto necessario per la successiva attuazione coattiva
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del diritto; c’è una correlazione tra l’azione di condanna e l’azione esecutiva dal momento che per
iniziare l’esecuzione è necessario un titolo esecutivo e l’azione di condanna è specificatamente
disegnata ad ottenerlo.
L’effetto principale dell’azione di condanna è la possibilità, una volta ottenuta la sentenza, in
assenza dell’adempimento spontaneo della controparte, di attivare il processo di esecuzione
forzata.
La sentenza di condanna produce altri effetti, anzitutto la possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale,
ai sensi dell’art.2818 cc ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o
all’adempimento di un’altra obbligazione è titolo per iscrivere ipoteca sui beni del debitore.
un altro effetto, secondario, di tale tipo di sentenza incide direttamente sul diritto oggetto della
pronuncia, modificandone il termine per l’esercizio. Ogni diritto, tranne quelli imprescrittibili, deve
essere fatto valere entro un dato termine, decorso il quale il diritto risulta prescritto; la prescrizione
ordinaria è di 10 anni, ma sono previste prescrizioni brevi ove il termine per far valere il diritto è
inferiore ai 10 anni.
Occorre osservare che non tutte le prestazioni sono fungibili e una sostituzione della figura del
debitore con gli organi esecutivi non è quindi pensabile per tutte le prestazioni, infatti se da un lato
la condanna a pagare una somma di denaro è sempre eseguibile, dal momento che si tratta di una
prestazione fungibile, dall’altro lato le condanne ad un facere non sono tutte eseguibili in via
coattiva e mai lo sono le condanne a un non fare.
Per rimediare a questa situazione gli ordinamento disciplinano misure coercitive indirette, ossia
misure che siano idonee a realizzare una efficace pressione psicologica sull’obbligato inducendolo
ad adempiere. Tali misure possono essere di carattere civile o di carattere penale.
Nel nostro ordinamento da un lato la sanzione penale è assolutamente eccezionale, dall’altro lato
mancava, sino alla legge n.69/2009, una figura generale di misura coercitiva civile; erano previste
ipotesi particolari, come quella delineata dall’art.140 comma 7, del codice del consumo, che
contempla come, con il provvedimento che pronuncia l’inibizione degli atti e dei comportamento
lesivi degli interessi dei consumatori, il giudice possa disporre, in caso di inadempimento, il
pagamento di una somma di denaro per ogni inadempimento o giorno di ritardo.
nel 2009 la figura è stata generalizzata, è stato infatti inserito nel codice l’art.614bis rubricato
“attuazione degli obblighi di fare infungibili o di non fare”, a norma del quale il giudice, con il
provvedimento di condanna e su istanza di parte, fissa la somma di denaro dovuta dall’obbligato
per ogni violazione o inosservanza successiva.
L’ammontare della condanna non è fissato dal legislatore, ma è lasciato alla discrezionalità del
giudice il quale deve però considerare il valore della lite, la natura della prestazione, il danno
quantificato o prevedibile e “ogni altra circostanza utile”.
Ipotesi particolari di condanna
La condanna generica (art.278 comma 1 cc) è una pronuncia con la quale il giudice riconosce
l’esistenza del diritto ad una determinata prestazione, ma non procede alla conseguente
liquidazione.
Il giudice, su istanza di parte, pronuncia con sentenza di condanna generica alla prestazione,
disponendo che il processo prosegua per la liquidazione; tale sentenza non ha l’effetto principale
della sentenza di condanna ma produce gli altri effetti della sentenza di condanna, ossia trasforma
il decennali le prescrizioni brevi ed è titolo per iscrivere l’ipoteca giudiziale.
Se la condanna generica possa essere presentata in via autonoma è controverso in dottrina, il
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comma 2 dello stesso articolo 278 dispone che alla condanna generica possa accompagnarsi, su
domanda di parte e nella stessa sentenza, una vera e propria condanna, detta provvisionale,
avente ad oggetto il pagamento di un quantum debeatur, nei limiti della quantità per cui il giudice
ritiene sia stata già raggiunta la prova.
Essa è una condanna a tutti gli effetti.
Dal punto di vista tecnico, quella provvisionale, è una sentenza non definitiva, perché il processo,
dopo la sua pronuncia, prosegue per la sua determinazione e liquidazione del residuo.
La condanna con riserva delle eccezioni si ha invece quando è pronunciato un provvedimento
di condanna, senza che si siano esaminate alcune questioni, il cui esame è accantonato per essere
poi in seguito effettuato. La condanna si basa quindi su una cognizione parziale, fondata
solamente sull’accertamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore.
Questo tipo di provvedimento può essere richiesto, ed ottenuto, solo in casi eccezionali
espressamente stabiliti dalla legge.
La condanna in futuro è una pronuncia di condanna ad una prestazione soggetta a un termine e
che diviene efficace solo dopo il decorso del termine.
Troviamo un esempio di tale condanna, ancora, nel procedimento speciale per convalida di sfratto.
Si distingue dalla condanna in futuro quella condizionale: se nella condanna in futuro il termine è
fissato, in quella condizionale l’evento al cui verificarsi è condizionata l’efficacia della pronuncia è
incerto; costituisce un esempio di condanna condizionale l’ipotesi regolata al 614bis.
Viene infine ricondotta alla categoria dell’azione di condanna la inibitoria, ossia l’azione volta ad
ottenere un provvedimento che interpone all’obbligato di astenersi da determinate condotte.
Le condizioni dell’azione: l’interessa ad agire
Adesso ci spostiamo sul terreno delle condizioni dell’azione, ossia sui presupposti che, in astratto,
condizionano la decidibilità nel merito delle domande proposte nel processo.
L’azione è un concetto controverso: inizialmente definita come il diritto ad ottenere un
provvedimento favorevole, viene oggi qualificata come il diritto ad ottenere un provvedimento di
merito.
Oltre alla condizione limite della possibilità giuridica, condizionano l’interesse e la
legittimazione ad agire.
E’ l’art.100 a prescrivere che “per porre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario
avervi interesse”, l’interesse muta a seconda del tipo di azione che l’attore vuole far valere. Nelle
azioni di accertamento mero, la condizione gioca un ruolo fondamentale l’interesse ad agire
sorge nel momento in cui il diritto per il quale si chiede la tutela risulti contestato.
L’interesse infatti non deve essere solo teorico e generico, ma deve tradursi nell’esigenza di
eliminare una situazione oggettiva d’incertezza.; nelle azioni di condanna esso sorge allorquando il
diritto venga non solo contestato, ma anche violato da un altro soggetto.
Quanto alle azioni costitutive, l’estinzione o la costituzione del rapporto giuridico, si afferma
comunemente che l’interesse è in re ipsa.
La legittimazione ad agire
La legittimazione ad agire viene definita come la coincidenza tra il soggetto che si afferma titolare
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del diritto per il quale viene richiesta la tutela giurisdizionale ed il soggetto che ha la titolarità
dell’azione.
Affinché venga integrata tale condizione è sufficiente affermarsi quale titolare del diritto oggetto
della domanda; secondo la Cassazione il controllo del giudice sulla sussistenza della legitimatio ad
causam, nel suo duplice aspetto di legittimazione ad agire e a contraddire, si risolve nell’accertare
se questo ed il convenuto assumono rispettivamente la veste di soggetto che ha il potere di
chiedere la pronuncia giurisdizionale e di soggetto tenuto a subirla.
Al contrario non attiene alla legittimazione ma al merito della lite, la questione relativa alla reale
titolarità attiva o passiva del rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
Capitolo 3 – L’oggetto del processo
La domanda giudiziale e i criteri per la sua identificazione
Nel precedente capitolo abbiamo visto che il processo civile inizia a seguito della proposizione di
una domanda con cui viene chiesta la tutela giurisdizionale di un diritto.
La domanda è quindi l’atto necessario perché si dia impulso al processo.
Essa è anche l’atto sulla base del quale si identificano profili fondamentali per il processo, così è in
base alla domanda e al suo valore e/o alla materia oggetto di essa, che si individua il giudice
davanti al quale va instaurato il processo.
Ancora, è la domanda a fissare i confini della decisione del giudice: dato che il processo civile è
plasmato dal principio dispositivo, allora il giudice è limitato a quanto espressamente richiesto dalla
parte.
La proposizione della domanda comporta determinati effetti processuali e sostanziali.
Dal punto di vista processuale essa segna la pendenza della lite che impedisce la prosecuzione
dell’eventuale, successivo processo avente ad oggetto l’identica domanda.
Dal punto di vista sostanziale essa produce alcuni effetti sul diritto fatto valere: così la proposizione
della domanda interrompe il decorso del termine di prescrizione e il termie stesso resta sospeso
durante la pendenza del processo; essa impedisce poi il verificarsi della decadenza che si imposta
per l’esercizio del diritto.
Abbiamo parlato genericamente di domanda, vediamo quali elementi la identificano.
Dal punto di vista soggettivo individuano la domanda colui che la propone (l’attore) e il
convenuto, il soggetto nei cui confronti la domanda è proposta.
Se viene meno questa coincidenza soggettiva, non si può sostenere l’identità delle domande;
occorre considerare che può accadere che un soggetto sia parte del processo, ma non possa porne
in essere gli atti. Pensiamo al minore d’età, ha la capacità di essere parte, ma non ha la capacità
processuale e il suo diritto sarà pertanto fatto valere dal suo rappresentante legale.
Ai fini dell’identificazione della domanda, parte processuale è il rappresentato, nonostante sia un
terzo a porre in essere, in nome del rappresentato, gli atti del processo.
Fenomeno diverso dalla rappresentanza è la sostituzione processuale, chi fa valere un diritto in
giudizio deve essere colui che se ne afferma titolare, ossia è di regola possibile far valere, in nome
proprio, soltanto un diritto proprio. Tuttavia, l’art.81 fa salvi i casi espressamente previsti dalla
legge per i quali è consentito far valere in nome proprio un diritto altrui; in tal caso parte
processuale è il sostituto.
Dal punto di vista oggettivo, la domanda è identificata da due elementi, tradizionalmente indicati
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come petitum (ciò che viene chiesto) e causa petendi (la ragione del domandare).
In relazione alla cosa oggetto della domanda, così l’art.163 si distingue ulteriormente tra il petitum
immediato, ossia il contenuto del provvedimento che viene chiesto al giudice, e il petitum mediato,
ossia il bene della vita che l’attore vuole ottenere con la proposizione della domanda.
La causa petendi è rappresentata dai fatti e dagli elementi di diritto costituenti le ragioni della
domanda, occorre considerare che nel nostro ordinamento vige il principio detto iura novit curia, in
forza del quale il giudice ha il potere di applicare al caso concreto le norme di diritto che ritiene più
corrette senza essere vincolato dalla qualificazione giuridica suggerita dalla parte.
Il legislatore, nel prescrivere il contenuto dell’atto introduttivo, dà un rilievo uniforme al requisito
dei fatti costitutivi. In realtà, non sempre l’indicazione delle ragioni si pone come indispensabile per
l’individuazione del diritto fatto valere.
Vi sono infatti alcuni diritti, detti autodeterminati, per i quali la domanda è individuata sulla
base del solo petitum, i diritti assoluti inclusi i diritti reali, ed i diritti di obbligazione che hanno ad
oggetto una prestazione specifica sono diritti autodeterminati, ossia non mutano con il mutare
della fattispecie che li ha originati.
Vi sono poi diritti eterodeterminati, alla cui identificazione contribuisce anche la fattispecie
costitutiva, sono eterodeterminati i diritti di obbligazione, esclusi quelli che hanno ad oggetto una
prestazione specifica, ed i diritti reali di garanzia.
La difesa del convenuto: contumacia e mera difesa
Il convenuto, una volta che il processo sia stato instaurato nei suoi confronti, si trova di fronte a
più opzioni: può rimanere inerte e non essere parte attiva del processo; può difendersi negando la
fondatezza della pretesa fatta valere dall’attore e dei fatti che la sorreggono; può difendersi a sua
volta negando fatti, diversi da quelli allegati dall’attore, volti ad ottenere il rigetto della domanda,
può infine proporre una domanda nei confronti dell’originario attore.
Alla totale inerzia del convenuto fa seguito la dichiarazione della sua contumacia, senza
esaminare le regole dettate dal codice di rito circa il processo contumaciale, occorre sottolineare
che la posizione del nostro ordinamento è quella di non sanzionare il convenuto che, chiamato in
giudizio, scelga di non esserne protagonista attivo.
Con la proposizione della domanda, il convenuto acquista la qualità di parte e la sentenza che
chiude il processo svoltosi in sua assenza è efficace nei suoi confronti; la scelta di non difendersi,
lungi dal determinare l’accoglimento della domanda dell’attore, non solleva quest’ultimo dall’onere
di provare i fatti costitutivi della sua presenza.
Al riguardo, anzi, il convenuto contumace si trova in una situazione di favor rispetto al convenuto
costituito.
Il convenuto che scelga di partecipare al processo è gravato dall’onere di contestare
specificamente i fatti allegati dall’attore, mentre tale onere non opera per il contumace. Il
convenuto che voglia soltanto negare la pretesa e i fatti che ne stanno alla base, non ha nel nostro
ordinamento interesse alcuno a costituirsi? Non proprio: è infatti ovvio che l’attore non essendo
attivamente contrastato dall’avversario, può riuscire più facilmente vincitore.
La seconda opzione difensiva di cui dispone il convenuto consiste nel difendersi, limitandosi a
negare i fatti costitutivi allegati dall’attore. In tal caso l’attività del convenuto può essere definita
mera difesa.
Le mere difese possono riguardare sia profili di fatto che di diritto.
Circa le difese, va fatta una distinzione tra quelle in fatto e quelle in diritto, nel nostro ordinamento
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vige il principio iura novit curia, in forza del quale il giudice deve applicare le norme di diritto a
prescindere dal fatto che esse siano invocate dalla parte interessata.
Anche a fronte di questa uniformità di vedute circa il quadro normativo, il giudice deve comunque
chiedersi se sia possibile applicare analogicamente l’art.1033 cc alla servitù di metanodotto e,
qualora aderisca alla tesi negativa, fondare su di essa il rigetto di domanda.
Quanto invece alle contestazioni circa i fatti, l’attività del convenuto ha acquisito una particolare
pregnanza con l’espressa introduzione dell’onere di contestare in modo specifico i fatti allegati
dall’attore. La contestazione deve essere specifica: il convenuto non può quindi limitarsi ad
affermare che i fatti allegati dall’attore non sono, nel complesso, veri, ma deve assumere una
posizione più articolata.
L’eccezione
Veniamo alla terza possibilità difensiva del convenuto, ossia la proposizione dell’eccezione.
Il termine eccezione talvolta è utilizzato in senso ampio, per indicare ogni argomentazione, di
merito o di rito, svolta dalla parte per contestare la fondatezza della domanda e finalizzata ad
impedirne l’accoglimento.
Secondo questo significato, possono essere considerate eccezioni anche le mere difese.
L’eccezione in senso proprio consiste invece nell’allegazione di fatti che siano impeditivi,
modificativi o estintivi rispetto a quelli costitutivi del diritto fanno valere nel processo.
La contrapposizione tra fatti costitutivi da un lato e fatti impeditivi ì, modificativi e estintivi dall’altro
si ricava dall’art.2607 cc che determina la regola dell’onere della prova.
La qualificazione del fatto assume importanza cruciale quando ci si sposta dal piano della
allegazione dei fatti a quello della prova degli stessi, appunto la regola di cui all’art.2697 ci dice
che definire un fatto costitutivo significa addossare all’attore il rischio della mancata prova,
concludere che esso è invece impeditivo, modificativo o estintivo significa accollare il rischio al
convenuto.
A livello definitorio, l’operazione di qualificazione del fatto come modificativo o estintivo non
presenta difficoltà: il fatto modificativo e quello estintivo presuppongono infatti che la fattispecie
sia sorta in modo completo e che successivamente al perfezionamento il diritto venga meno ovvero
sia modificato il suo contenuto.
Più complessa è invece la distinzione tra fatto costitutivo e fatto impeditivo, questo infatti,
efficacemente definito come fatto costitutivo “a segno invertito”, si realizza contemporaneamente
al fatto costitutivo e impedisce sin dall’inizio il sorgere del diritto.
Occorre poi considerare che la giurisprudenza fa talora dipendere la qualificazione del fatto non
tanto da astratte considerazioni relative alla costruzione della fattispecie legale quanto da
considerazioni in concreto attinenti alla possibilità che la parte ha di provare il fatto.
L’avvenuto adempimento è fatto estintivo della pretesa.
Consideriamo però il caso dell’azione volta ad ottenere non l’adempimento del contratto, ma la sua
risoluzione per inadempimento. Il diritto alla risoluzione in capo ad una parte si fonda sull’esistenza
dell’inadempimento dell’altra, verrebbe allora da concludere che l’inadempimento è fatto costitutivo
della pretesa fatta valere dall’attore.
Opposta è invece la conclusione al riguardo della corte di Cassazione, la quale con una pronuncia a
Sezioni Unite del 2001 ha affermato che il principio della presunzione di persistenza del diritto,
desumibile dall’art.2697 deve ritenersi operante non solo nel caso in cui il creditore agisca per
l’adempimento, ma anche nel caso in cui sul comune presupposto dell’inadempimento della
controparte, agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno.
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E questo per il principio di riferibilità o di vicinanza della prova.
Tipologia
Le eccezioni possono essere classificate a seconda che siano rilevabili solo su istanza di parte o
anche d’ufficio.
La distinzione riveste una notevole importanza, qualificare l’eccezione come rilevabile d’ufficio
significa che il fatto modificativo, estintivo o impeditivo può essere oggetto di cognizione del
giudice anche in mancanza di una istanza della parte.
Talvolta il legislatore prende espressamente posizione circa la rilevanza o meno d’ufficio
dell’eccezione.
L’opinione tradizionale ravvisa il proprium dell’eccezione in senso stretto nel suo essere un
controdiritto, ossia un diritto che il convenuto potrebbe far valere in via autonoma in un altro
processo; l’impostazione non soddisfa del tutto: non riesce a giustificare perché allora sia riservata
alla parte l’eccezione di prescrizione.
In realtà, la giurisprudenza considera limitata ai casi espressamente previsti dal legislatore la
riserva alla parte del potere di eccepire fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto dedotto in
giudizio.
Occorre poi distinguere le eccezioni di merito, quelle sino ad ora menzionate, dalle eccezioni
processuali, se le eccezioni di merito sono volte ad escludere la fondatezza della domanda, quelle
processuali sono diretta ad escludere il dovere decisorio del giudice nel merito.
Anche le eccezioni di diritto sono classificabili a seconda che siano rilevabili sono su istanza di
parte o anche d’ufficio.
Un’ultima precisazione: abbiamo parlato dell’eccezione come strumento difensivo del convenuto, in
realtà essa può essere proposta anche dall’attore come risposta all’eccezione fatta valere dal
convenuto.
La domanda riconvenzionale
Il convenuto, e veniamo alla quarta delle opzioni difensive delle quali dispone, può poi proporre
una domanda, cd. riconvenzionale, facendo a sua volta valere un proprio diritto nei confronti
dell’attore originario, che rispetto a questa domanda viene a rivestire il ruolo di convenuto.
La domanda riconvenzionale si distingue, rispetto alla domanda principale, unicamente perché è
proposta all’interno di un processo già pendente e nei confronti di un soggetto, l’attore, che è già
parte del processo.
Con la proposizione dell’eccezione si ha un’estensione della cognizione del giudice, ma non della
decisione e del conseguente giudicato, è vero che il convenuto mira a ottenere un provvedimento
mediante il quale è accertata con efficacia di giudicato, l’inesistenza del diritto dedotto in giudizio.
Si può dunque sostenere che egli, implicitamente proponga una domanda di mero accertamento
negativo.
Quest’ultima tuttavia non può essere qualificata come domanda riconvenzionale, poiché non
amplia in alcun modo l’oggetto del processo che resta confinato alla verifica dell’esistenza o meno
del diritto dedotto in giudizio dall’attore.
Talvolta, può non essere di immediata evidenza se quella proposta dal convenuto sia una mera
eccezione ovvero una vera e propria domanda riconvenzionale. Abbiamo visto infatti che
l’eccezione, in senso stretto, alle volte sottende un diritto che può essere fatto valere in via
autonoma.
Il convenuto incontra limiti nel proporre una domanda, ovvero è completamente libero nel cogliere
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l’occasione della instaurazione di un processo nei suoi confronti per far valere, contro l’attore, un
proprio diritto? Leggendo l’art.36 sembra escludere la possibilità di proporre domande
riconvenzionali non dipendenti dal titolo dedotto in giudizio dall’attore, ovvero che appartengono
alla causa come motivo di eccezione.
La giurisprudenza è solita adottare un’interpretazione restrittiva del limite enunciato all’art.36,
affermando che esso assolve unicamente alla funzione di evitare spostamenti di competenza non
fondati su situazioni di connessione forte tra le domande.
La domanda di accertamento incidentale
La domanda di accertamento incidentale è disciplinata indirettamente dall’art.34, “indirettamente”
perché la norma definisce l’istituto occupandosi delle ripercussioni in punto competenza
determinate dalla sua proposizione.
La norma ci dice che ove sorgano delle questioni pregiudiziali queste vengono decise con efficacia
di giudicato solo qualora vi sia una esplicita domanda di una delle parti, ovvero sia la legge a
prevederlo.
Bisogna quindi chiarire il significato della locuzione “questione pregiudiziale”, nel decidere la
domanda, il giudice deve esaminare una serie di presupposti che si pongono quali antecedenti
logici necessari rispetto alla decisione.
Ora, se la sussistenza di tale rapporto non è contestata da parte del convenuto, questa costituisce
un semplice punto pregiudiziale della decisione; qualora invece venga contestata, sorge la
“questione pregiudiziale”.
Tale contestazione rimane nell’ambito dell’eccezione, finalizzata a paralizzare l’accoglimento della
domanda principale.
Poiché l’inesistenza del rapporto di parentela è stata accertata indienter tantum, in un successivo
giudizio, tra le stesse parti ma aventi un diverso oggetto, potrebbe vedersi riconosciuto il diritto
vantato in precedenza.
Perché la questione pregiudiziale venga decisa non incidenter tantum, bensì con una decisione che
accerti una volta per tutte l’esistenza del rapporto di parentela è necessario che una delle parti
proponga una esplicita domanda.
La domanda di accertamente ex art.34, che è incidentale perché si inserisce all’interno di un
processo già pendente, va distinta da quella riconvenzionale. Con essa, infatti, non viene fatto
valere in giudizio un diritto autonomo rispetto a quello azionato in via principale, ma si chiede al
giudice di decidere con una determinata efficacia un diritto o uno status che questi deve
comunque conoscere come presupposto logico dell’esistenza del diritto vantato dall’attore e che è
già stato dedotto nel giudizio quale questione pregiudiziale.
Parte II – Il giudice
Capitolo 4 – Il giudice
Giudici ordinari e sezioni specializzate
Sinora abbiamo parlato genericamente del giudice e ci siamo limitati a dire che deve presentare i
caratteri, imposti dalle carte fondamentali, della indipendenza, terzietà e imparzialità.
Dobbiamo adesso vedere chi è il giudice del processo civile.
Troviamo una prima risposta nell’art.1 del codice di rito, a norma del quale “la giurisdizione civile,
salvo speciali disposizioni di legge, è esercitata dai giudici ordinari secondo le norme del presente
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codice”, la disposizione del codice trova la sua integrazione nell’art.102 costituzione.
E’ vietata l’istituzione di giudici straordinari o speciali, consentendo però l’istituzione, presso gli
organi giudiziari ordinari, di sezioni specializzate, per determinate materie e anche con la
partecipazione di cittadini, idonei, estranei ala magistratura.
Nel sistema costituzionale, la fonte principale di legittimazione del giudice viene individuata nella
sua professionalità, espressa dalla regola dell’assunzione a seguito di concorso. La funzione
giurisdizionale è quindi normalmente esercitata da pubblici funzionari che svolgono la carriera di
giudice e che godono di particolari garanzie volte ad assicurare l’autonomia e l’indipendenza del
potere giudiziario: sono inamovibili e si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni, sono
amministrati dal CSM, organo democratico di autogoverno, cui spetta l’esercizio del potere
disciplinare.
La giurisdizione dei giudici ordinari si caratterizza per la sua generalità: essi hanno il potere di
decidere le controversie che non sono espressamente attribuite, dalla legge, ad altri giudici detti
speciali.
Se la costituzione vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali, è essa stessa a dare riconoscimento,
all’art.103, alle giurisdizioni del consiglio di stato e degli altri organi di giustizia amministrativa.
Quanto agli altri organi speciali di giurisdizione, la VI disposizione transitoria ne imponeva la
revisione nei 5 anni successivi all’entrata in vigore della costituzione, revisione che non è avvenuta
da parte del legislatore, ma da parte della Corte costituzione che ha verificato, caso per caso,
l’effettiva autonomia e indipendenza della singola giurisdizione speciale, abrogando così le
attribuzioni giurisdizionali degli organi ritenuti privi di tali caratteristiche.
La costituzione consente l’istituzione di sezioni specializzate, che non sono giudici speciali, ma
articolazioni interne di organi giudiziari ordinari, che si caratterizzano per l’attribuzione di specifiche
materia e la possibile partecipazione, per un tempo limitato, di cittadini che non appartengono alla
magistratura togata.
Di recente istituzione sono i tribunali delle imprese che hanno sede presso i tribunali e le corti
d’appello dei capoluoghi di regione, nonché di Catania e Brescia; ad essi sono attribuite le cause
societarie e quelle in materia di proprietà industriale e intellettuale.
Gli organi giudiziari ordinari
E’ la legge sull’ordinamento giudiziario, ossia il rdn 12/1941 che ancora regola la materia, a dirci
all’art.1 che gli organi giurisdizionali, in materia civile, sono il giudice di pace, il tribunale, la corte
d’appello e la corte di cassazione.
Il giudice di pace
Il giudice di pace che la legge n.374/1991 ha sostituito al conciliatore, è un magistrato onorario:
non selezionato tramite un concorso, ma nominato dopo aver svolto un periodo di tirocinio
superato un giudizio di idoneità, non è legato da un rapporto organico con l’amministrazione della
giustizia.
Si era discusso, nel momento della sua introduzione, se disegnare una figura di giudice onorario
simile a quella del justice of the peace inglese, che è un comune cittadino, senza preparazione
giuridica, che svolge gratuitamente la funzione per qualche giorno all’anno. La figura poi introdotta
è molto lontana da quel modello: il giudice di pace deve infatti essere un giurista che svolge
l’incarico tendenzialmente a tempo pieno per un periodo di tempo significativo.
Il processo che si svolge davanti al giudice di pace presenta aspetti di snellezza e informalità,
accanto alla competenza giurisdizionale è prevista dall’art.322 una funzione conciliativa non
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contenziosa.
Il tribunale
Il tribunale, a differenza del giudice di pace, è costituito da giudici togati, ossia di carriera e legati
da un rapporto organico con l’amministrazione.
E’ di regola giudice di primo grado, secondo la stesura originaria del codice, il tribunale era giudice
collegiale, che vedeva operare nelle prime fasi un singolo giudice e nella fase decisoria un collegio
formato da tre magistrati, dei quali uno era l’istruttore.
Negli anni 90 del secolo scorso la collegialità è stata tendenzialmente abolita: nel 1998 è stato
soppresso l’allora altro giudice togato monocratico di primo grado, il pretore, e il tribunale è
divenuto organo a composizione monocratica, tranne che per alcuni casi elencati all’art.50bis, ove
la causa, istruita davanti all’istruttore, è decisa dal collegio. Questa importante modifica non è
coincisa con una complessiva riscrittura delle norme del codice di procedura civile, volte a regolare
il procedimento ordinario di primo grado davanti al tribunale, ancor oggi modellate sul dualismo tra
giudice istruttore e collegio, mentre gli articoli dettati per il procedimento davanti all’organo
monocratico hanno la struttura di norme speciali.
Il tribunale è anche giudice di secondo grado: ad esso va infatti proposto l’appello nei confronti
delle sentenze rese dal giudice di pace.
Il tribunale, il cui ambito territoriale coincide con il circondario, è diretto da un presidente e può
articolarsi, a seconda delle dimensioni, in più sezioni come la sezione destinata a trattare le cause
di lavoro.
La corte d’appello
La corte d’appello è giudice sempre collegiale e svolge funzioni di giudice di secondo grado rispetto
alle sentenze pronunciate dal tribunale.
In alcune ipotesi la corte è giudice in primo e unico grado, in relazione alle quali non è previsto un
secondo grado di giudizio di merito, ma vi è unicamente la possibilità di impugnazione mediante il
ricorso per cassazione.
Le corti d’appello, il cui ambito territoriale coincide con il distretto, hanno sede nei capoluoghi di
regioni e in alcune città capoluogo di provincia.
La corte di cassazione
La suprema corte di cassazione è tradizionalmente considerata organo supremo della giustizia e si
pone in cima alla giurisdizione ordinaria.
Secondo le parole di Calamandrei la cassazione è un istituto giudiziario consistente in un organo
che, per mantenere la esattezza e l’uniformità della interpretazione data dai giudici al diritto,
riesamina nella sola decisione delle questioni di diritto le sentenze dei giudici di merito qualora
esse vengano impugnate dagli interessati mediante un rimedio esperibile solo contro le sentenze
che contengano un errore di diritto nella risoluzione nel merito.
La cassazione è quindi giudice di legittimità e non di merito, il cui compito è anzitutto quello di
assicurare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale.
La nomofilachia tutela valori di primaria importanza per l’ordinamento: l’interpretazione uniforme
della norma assicura la parità di trattamento dei cittadini di fronte alla legge.
La corte di cassazione assicura pure il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni: la cote decide
infatti in ultima istanza sulla devoluzione di una causa alla giurisdizione ordinaria o ad una speciale
e regola i conflitti positivi e negativi di giurisdizione.
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Da molti anni si sottolinea la situazione di crisi che attraversa la corte di cassazione, la principale
ragione di questa crisi va ricercata nel numero elevatissimo di decisioni ogni anno rese dalla corte.
La funzione di nomofilachia ben difficilmente può essere assolta e spesso sorgono contrasti di
giurisprudenza tra le sezioni e perfino all’interno della stessa sezione della corte, una limitazione
radicale dell’accesso alla corte d’altro canto si scontra con la garanzia imposta dall’art.111 comma
7 della Costituzione, a norma del quale contro le sentenze è sempre ammesso ricorso in
cassazione per violazione di legge.
Il principio di terzietà e imparzialità del giudice: astensione e ricusazione
Il giudice, inteso come il magistrato persona fisica, deve essere non solo autonomo ed
indipendente dagli altri poteri, ma anche terzo ed imparziale, ovvia distinto ed equidistante rispetto
a ciascuna delle parti ed estraneo all’oggetto della lite.
A tutela della terzietà ed imparzialità del giudice il legislatore del processo detta alcune norme,
contenute negli artt 51-54, che impongono in taluni casi al giudice di astenersi dall’esercitare le
proprie funzioni e consentono negli stessi casi alla parte di ricusare il giudice.
L’art.51 tratta delle ipotesi di astensione, tradizionalmente considerate tassative perché
comportano una deroga al diritto a non essere distolti dal giudice naturale precostituito per legge
ex art.25 Cost.
Le cinque ipotesi possono essere distinte in due sottogruppo, relativi uno ai rapporti tra il giudice e
la causa ed il secondo a quelli tra il giudice e le parti del processo.
A) Così il giudice ha l’obbligo di astenersi se ha interesse nella causa o in altra vertente su
identica questione di diritto.
Vi è obbligo di astensione anche quando il giudice ha dato consiglio o prestato patrocinio nella
causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure non ha conosciuto come magistrato in
altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico.
B) Venendo alle ipotesi di rapporto con le parti, il giudice ha l’obbligo di astenersi se, egli o il
coniuge, è parente, convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori,
ovvero ha causa pendente, grave inimicizia, rapporti di credito o debito con una delle parti o
alcune dei suoi difensori; se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o
datore di lavoro di una delle parti; se, infine, è amministratore o gerente di enti, associazioni,
comitati o società che hanno interesse nella causa.
Accanto all’astensione obbligatoria, vi è quella facoltativa: ai sensi del comma 2 dell’art.51, il
giudice può chiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi “in ogni altro caso in cui
esistono gravi ragioni di convivenza”.
Nelle ipotesi di astensione obbligatoria, ciascuna parte, può proporne la ricusazione a norma
dell’art.52, l’istanza si propone con ricorso, che va depositato in cancelleria almeno due giorni
prima dell’udienza, se il ricusante conosce il nome del giudice o dei giudici chiamati a trattare o
decidere la causa, e comunque prima dell’inizio della trattazione o discussione. Scaduto questo
termine, la mancata obbligatoria astensione non può più essere fatta valere, neppure come motivo
di impugnazione della sentenza resa dal giudice che aveva l’obbligo di astenersi.
La ricusazione sospende il processo.
L’istanza è decisa dal presidente del tribunale, se è ricusato un giudice di pace, e dal collegio, se è
ricusato un componente del tribunale o della corte, giudici di cui ci si chiede se possano a loro
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volta essere ricusati con ordinanza non impugnabile che, in caso di accoglimento, designa il giudice
che deve sostituire quello ricusato.
La responsabilità civile dei magistrati
Il magistrato, nello svolgere i compiti a lui affidati, può sbagliare; l’errore e l’eventuale danno che
ne derivi appartengono alla fisiologia del processo.
Di fronte alla sentenza ingiusta la parte che in essa sia risultata soccombente ha a disposizione
l’impugnazione, lo strumento tecnico disegnato dall’ordinamento per porre rimedio all’errore del
giudice.
Bisogna distinguere i tipi di responsabilità, così se l’azione del giudice è inquadrabile in una
fattispecie di reato egli dispone secondo le regole comuni.
Circa la responsabilità disciplinare, essa è valutata dal CSM.
Quando alla responsabilità civile, essa trova le sue regole in una legge speciale, legge n.117/1998
(modificata dalla L.19/03/2015) che ha sostituito le disposizioni che erano dettate agli artt.55 e 56
del codice; tali articolo subordinavano la proponibilità dell’azione al rilascio di un’autorizzazione
discrezionalmente concessa dal ministro di grazia e giustizia e limitavano fortemente le fattispecie
che potevano dar luogo a responsabilità.
L’attuale disciplina ha si superato il sistema precedente di autorizzazione discrezionale ed ha
ampliato le fattispecie di responsabilità, ma pur essa presenta forti profili di specialità rispetto alle
regole ordinarie.
Il cittadino che si ritenga leso dall’operato di un magistrato non ha azione diretta contro
quest’ultimo, ma deve proporre la domanda contro lo stato.
Il diritto al risarcimento sussiste ove il danno sia frutto di un comportamento posto in essere con
dolo o colpa grave.
L’azione può essere proposta una volta che siano stati esperiti gli ordinari mezzi di impugnazione e
non sia più possibile chiedere la modifica o la revoca del provvedimento. Il procedimento è
articolato in due fasi, la prima delle quali dedicata a vagliare, nelle forme dei procedimenti in
camera di consiglio, l’ammissibilità della domanda.
L’attuale sistema è da tempo oggetto di critiche ed è accusato di essere eccessivamente favorevole
al magistrato.
Gli ausiliari del giudice
Nell’espletamento delle sue funzioni il giudice è coadiuvato e assistito da alcuni soggetti, suoi
ausiliari, anzitutto il cancelliere e l’ufficiale giudiziario, che svolgono il proprio ruolo nelle generalità
dei processi.
Sono svariate le funzioni svolte dal cancelliere (artt.57-58), tra le quali ricordiamo l’attività di
documentazione delle “attività che egli stesso o gli organi giudiziari compiono”; la pubblicazione
delle sentenze delle quali certifica l’avvenuto deposito; l’assistenza del giudice; il rilascio alle parti
di copie di atti, ecc.
L’ufficiale giudiziario (art.59) svolge anch’egli una pluralità di funzioni, tra le quali si segnalano
quelle in materia di notificazione degli atti giudiziari e quelle in materia di esecuzione forzata.
La presenza di altri ausiliari è eventuale. Questi, a differenza del cancelliere e dell’ufficiale
giudiziario, non sono legati da un rapporto organico con l’amministrazione della giustizia ed
occasionalmente mettono a disposizione del giudice le proprie competenze.
Da un consulente tecnico il giudice può farsi assistere per il compimento di singoli atti o per
tutto il processo, di regola scegliendolo tra i professionisti iscritti in appositi albi (art.61); il
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consulente ha diritto ad un compenso per l’opera svolta, compenso che può incidere in modo
significativo sulle spese di causa.
Il custode provvedere invece a conservare ed amministrare eventuali beni pignorati o sequestrati
(art.65).
Infine ricordiamo il notaio, al quale il giudice può commettere il compimento di determinati atti
nei casi previsti dalla legge, e al quale il legislatore nel 1998 ha attribuito funzioni di rilievo nel
processo esecutivo in materia di vendita dei beni.
La giurisdizione: limiti interni
La giurisdizione del giudice ordinario è generale, ma incontra dei limiti che anzitutto ricaviamo
dall’art.37 che si occupa del difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica
amministrazione o dei giudici speciali.
A) Abbiamo già fatto più volte cenno ai giudici speciali.
In questa sede ci limitiamo a sottolineare come la tradizionale ripartizione di giurisdizione tra
giudice ordinario e giudice amministrativo sia mutata in modo significativo negli ultimi decenni.
A partire dagli anni 90 del secolo scorso si è infatti proceduto alla attribuzione di blocchi di materia
così da un lato conferendo alla giurisdizione piena del giudice ordinario materie quali il pubblico
impiego e le sanzioni amministrative e dall’altro lato attribuendone altre in modo esclusivo al
giudice amministrativo.
Al giudice amministrativo sono pure state assegnate le controversie aventi ad oggetto il
risarcimento del danno, quello causato dalla violazione dei diritti soggettivi facenti parte della
giurisdizione esclusiva e anche quello determinato dalla violazione degli interessi legittimi, danno la
cui risarcibilità è stata per la prima volta riconosciuta da una pronuncia della corte di Cassazione.
B) L’art.37 menziona in un secondo limite della giurisdizione del giudice ordinario: “nei confronti
della PA”, vi sono tuttavia casi nei quali l’aspettativa nei confronti della pubblica amministrazione
non è qualificabile né come diritto soggettivo, né come interesse legittimo, ma rappresenta una
posizione di mero fatto.
Ciò si verifica quando manca nell’ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare
l’interesse dedotto in giudizio.
Il difetto di giurisdizione cui fa riferimento l’art.37 viene dunque definito “assoluto” in quanto
consiste in una assoluta mancanza di tutela giurisdizionale, il difetto assoluto di giurisdizione
viene ravvisato anche in ogni altro caso in cui determinate decisioni sono rimesse alla piena
discrezionalità di un potere delle stato e pertanto vi è una radicale carenza di potestas iudicandi.
La giurisdizione: limiti esterni
Il giudice onorario incontra un ulteriore limite alla propria giurisdizione nei confronti del giudice
straniero.
Il limite, originariamente disegnato dall’art.4 del codice, trova oggi la propria disciplina nella legge
n.218/1995 che ha riformato il diritto internazionale privato, oltre che, per quanto concerne i
rapporti con i giudici dei paesi membri dell’UE con una serie di norme comunitarie.
Quanto alla disciplina dettata dal legislatore italiano, il criterio generale è quello per cui il giudice
italiano ha giurisdizione quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un
rappresentante autorizzato a stare in giudizio ai sensi dell’art.77.
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La disciplina è quindi ispirata da un lato alla virtuale universalità della giurisdizione italiana e
dall’altro lato a finalità di tutela del convenuto.
Ove ricorrano i presupposti del domicilio, della residenza o della rappresentanza, la giurisdizione
italiana non può essere contestata a meno che si tratti di azione reale avente ad oggetto beni
immobili situati all’estero.
Accanto al criterio generale posto dal comma 1 dell’art.2, sono previsti alcuni criteri di
collegamento speciali, criteri che acquistano rilievo anche se il convenuto è domiciliato in uno stato
terzo rispetto all’Unione.
Un’innovazione significativa della legge n.218/1995 è stata quella di rendere la giurisdizione
italiana anche convenzionalmente derogabile a favore di un giudice o di un arbitro straniero.
Davanti al giudice italiano non possono infine essere convenuti stati stranieri, quando la
controversia abbia ad oggetto atti compiuti da questi ultimi nell’esercizio della loro sovranità, in
questi casi opera infatti il principio par in parem non habet iurisdictionem.
L’esame della questione di giurisdizione e il giudicato implicito
La sussistenza della giurisdizione del giudice adito va apprezzata con riferimento al momento in cui
la domanda viene proposta.
L’art.5 dispone infatti che la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge
vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e non hanno
rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. Il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della PA e dei giudici speciali, dice l’art.37 “è
rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.
Per quanto concerne invece il rilievo del difetto di giurisdizione del giudice italiano nei confronti del
giudice straniero, la legge 218/1995 lo subordina all’eccezione del convenuto.
Il rilievo d’ufficio è possibile solo se il convenuto è contumace ovvero se si tratta di un’azione reale
avente ad oggetto immobili situati all’estero ovvero la giurisdizione è esclusa per effetto di una
norma internazionale.
La differenza di trattamento che viene ad avere la violazione dei limiti, a seconda che si tratti di
limite interno ovvero esterno, diminuisce ove si passi dalla lettera dell’art.37 all’ermeneutica che ne
è stata offerta negli ultimi anni dalla giurisprudenza: la corte di Cassazione interpreta infatti
restrittivamente la disposizione, così che il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione al di fuori del
primo grado di giudizio risulta fortemente limitato.
L’orientamento è stato inaugurato dalla pronuncia delle sezioni unite del 9 ottobre 2008 n.24883.
Nel caso concreto il difetto di giurisdizione del giudice adito era stato fatto valere per la prima volta
dalla parte convenuta come motivo di ricorso per cassazione.
La Corte di Cassazione anzitutto osserva che se il giudice di primo grado si fosse pronunciato in
modo espresso sulla propria giurisdizione, la mancata denuncia della decisione con motivo
d’appello avrebbe comportato acquiescenza sul decisum ai sensi dell’art.329 comma 2.
Com’è possibile conciliare la tesi del giudicato implicito sulla giurisdizione con il dettato dell’art.37?
La norma che appare ictu oculi in contrasto con il generale principio di economia processuale, deve
ad avviso della corte essere interpretata in senso restrittivo e residuale: l’avvento del principio
della ragionevole durata del processo comporta infatti l’obbligo di verificare la razionalità delle
norme che non prevedono termini per la formulazione di eccezioni processuali per vizi che non si
risolvono in una totale carenza della tutela giurisdizionale.
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Il contesto in cui era inserito l’art.37 caratterizzato dal principio di inderogabilità delle regole sulla
potestas iudicandi ha d’altro canto subito una profonda e progressiva erosione.
La corte ricorda l’abrogazione, ad opera della legge 218 dell’art.2 con l’introduzione del principio
secondo cui la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano può dipendere anche dall’accordo
delle parti o dal comportamento del convenuto.
Nella direzione di una meno rigida disciplina delle regole sulla potestas iudicandi la corte infine
inserisce l’attuale art.38 che se in origine ricalcava il testo dell’art.37, ora invece stabilisce che
l’incompetenza per materia, quella per valore e quella territoriale inderogabile non sono rilevabili
oltre la prima udienza di trattazione.
La translatio iudicii
L’esistenza di una pluralità di giudici, ordinari e speciali, non può risolversi in una minore effettività,
o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale.
Eppure era ciò che accadeva: a fronte di un riparto delle attribuzioni complesso ed articolato,
l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione comportava la necessità di instaurare
un processo ex novo, senza la possibilità di conservare gli effetti della precedente domanda. La
parte era così esposta al rischio di non poter riproporre la domanda a causa dell’avvenuto
verificarsi della decadenza.
Il legislatore, preceduto dal menzionato intervento della corte costituzionale e da una parallela
presa di posizione della corte di Cassazione, è intervenuto in materia, prevedendo la translatio
iudicii in relazione all’ipotesi di difetto di giurisdizione.
L’art.59 della legge 69/2009 prevede infatti che:
- il giudice civile, amministrativo, contabile, tributario o speciale, che dichiari il proprio difetto di
giurisdizione, debba indicare il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione;
- entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che dichiara il difetto di giurisdizione, la
domanda può essere riproposta davanti al giudice indicato ed in tal caso sono fatti salvi gli effetti
sostanziali e processuali della domanda precedentemente proposta;
- se sulla questione di giurisdizione si sono pronunciate le sezioni unite della corte di cassazione,
l’indicazione del giudice provvisto di giurisdizione è vincolante per le parti e per il giudice;
- in assenza di una pronuncia delle sezioni unite la sentenza resa dal primo giudice è vincolante
per le parti, ma non per il giudice davanti al quale il processo prosegue.
Il regolamento di giurisdizione
Il regolamento di giurisdizione è uno strumento, preventivo, volto ad ottenere l’immediata
decisione definitiva sulla giurisdizione da parte della corte di cassazione, invece di attendere tale
pronuncia quale ultima tappa del normale iter dei mezzi di impugnazione.
Esso è disciplinato dall’art.41, a norma del quale finché la causa non sia decisa nel merito in primo
grado, ciascuna delle parti può chiedere alle sezioni unite della corte di cassazione che risolvano le
questioni di giurisdizione di cui all’art.37. L’art.37, come abbiamo visto, menziona il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario nei confronti dei giudici speciali e della pubblica amministrazione.
E’ comunque pacifico che il regolamento di giurisdizione è proponibile anche per denunciare il
difetto esterno di giurisdizione.
In primo luogo deve essere sorta una questione di giurisdizione: il convenuto deve avere eccepito
il difetto ovvero il giudice d’ufficio deve avere affermato la volontà di pronunciare esplicitamente
circa la sussistenza o meno della giurisdizione.
In secondo luogo la causa non deve essere stata decisa nel merito in primo grado, il presupposto
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denota la natura preventiva e non di mezzo di impugnazione dell’istituto, i giudici di legittimità, a
partire dal 1996, hanno adottato un’interpretazione fortemente restrittiva e non letterale della
formula.
La formula della prima parte dell’art.41 deve quindi essere letta come se decidesse finché non sia
intervenuta una decisione sulla causa in sede di merito.
Il regolamento, alla luce della sua natura preventiva, può essere proposto da ciascuna parte,
non è invece prevista la possibilità che il regolamento sia sollevato d’ufficio dal giudice, benché la
disciplina della translatio iudicii introdotta nel 2009 consenta, in mancanza di una decisione della
corte di cassazione, al secondo giudice di richiedere d’ufficio che questa regoli in via definitiva la
giurisdizione.
L’istanza di regolamento si propone con ricorso e produce gli effetti di cui all’art.367, che dispone
l’eventualità e non l’automatismo della soppressione del processo, affidata a una valutazione del
giudice di primo grado circa la non manifesta infondatezza della questione o la non manifesta
inammissibilità del ricorso.
La corte di cassazione decide sul ricorso in camera di consiglio, con un provvedimento che riveste
le forme dell’ordinanza. L’efficacia di tale decisione viene definita panprocessuale. Di norma,
qualora il processo si estingua, le sentenze di rito perdono efficacia e pertanto non vincolano le
parti ove la domanda sia successivamente riproposta.
La decisione della corte che regola la giurisdizione, al contrario, mantiene la sua efficacia cosicché,
in caso di eventuale riproposizione dell’azione, la giurisdizione affermata dalla corte non può più
essere oggetto di contestazione.
Il regolamento di giurisdizione può essere proposto anche dalla pubblica amministrazione che
non sia parte in causa ed intenda denunciare la violazione da parte del giudice ordinario delle sue
prerogative. In tal caso l’esistenza di una decisione nel merito non è d’ostacolo alla proponibilità
del ricorso, potendo essa avvenire in ogni stato e grado del processo. La previsione, di impegno
assai raro, legittima a proporre il regolamento un soggetto che non è parte in causa ed è stata da
più parti sospettata di incostituzionalità.
La competenza: i criteri
La competenza attiene alla ripartizione della funzione giurisdizionale tra i vari uffici giudiziari.
Le disposizioni sulla competenza consentono infatti di individuare davanti a quale ufficio può
essere instaurata la controversia, così determinando il giudice naturale precostituito per legge dal
quale nessuno può essere distolto.
L’assegnazione della causa al magistrato persona fisica non attiene alla competenza, ma
all’organizzazione interna dell’ufficio; allo stesso modo non integra una questione di competenza
l’attribuzione di una causa ad una delle articolazioni interne dell’ufficio.
L’individuazione del giudice competente avviene sulla base di tre criteri:
- la materia
- il valore
- il territorio
A) I prime due criteri operano in senso verticale, ci dicono cioè quale fra i giudici ordinari è
competente a conoscere, in primo grado, della causa, se il giudice di pace, il tribunale o la corte
d’appello.
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L’attribuzione a un giudice può avvenire sulla base della sola materia, ovvero sulla base di una
combinazione dei criteri della materia e del valore.
Consideriamo il contenzioso devoluto al giudice di pace ai sensi dell’art.7, alcune materia gli sono
attribuite sino a un determinato valore, altre senza limite di valore.
Il tribunale, a sua volta, dispone di una competenza residuale e di una esclusiva per determinate
materie; la regola fondamentale è posta dall’art.10: ai fini della competenza il valore della causa si
determina dalla domanda, con le specificazioni prescritte dallo stesso art.10 e dai successivi
articoli.
B) Una volta individuato, grazie ai primi due criteri, il tipo di giudice competente, entra in gioco il
criterio del territorio che, operando orizzontalmente, ci consente di determinare quale, tra i
tribunali presenti sul territorio nazionale, è il foro di fronte al quale la causa va instaurata.
Occorre distingue i fori generali, davanti ai quali si può essere convenuti per la generalità delle
controversie, da quelli speciali, dettati per specifiche controversie. I forti generali sono costruiti
nell’ottica della parte convenuta, il che risponde ad un principio di ragionevolezza: dal momento
che è l’attore a scegliere di iniziare un processo nei confronti del convenuto, è opportuno che
questi sia facilitato nell’esercizio del diritto di difesa.
Ai sensi dell’art.18, è competente il giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il
domicilio, e se questi sono sconosciuti, quello del luogo in cui ha la dimora; se invece convenuta è
una persona giuridica è competente il giudice del luogo ove essa ha la sede o dove opera un suo
rappresentante autorizzato a stare in giudizio.
Se i criteri di competenza per materia e per valore non sono derogabili, lo sono invece di regola
quelli di competenza per territorio, così che le parti possono, con un accordo scritto, decidere di
individuare quale giudice un ufficio diverso da quello che sarebbe territorialmente competente
secondo le disposizioni fissate dal legislatore.
L’incompetenza
Dall’art.38 rubricato “incompetenza” ricaviamo che occorre stabilire quale criterio di competenza è
stato violato.
I primi due commi sono dedicati all’eccezione di incompetenza proposta dalla parte, il convenuto
se vuol appunto lamentare l’incompetenza del giudice adito, deve farlo nel suo primo atto
difensivo, la comparsa di risposta. Questo in relazione a tutti e tre i tipi di incompetenza (materia,
valore, territorio).
Per quest’ultimo criterio, il convenuto non può limitarsi ad affermare l’incompetenza del giudice,
ma deve indicare quale giudice ritiene competente.
L’indicazione è funzionale al fatto che, se si tratta di incompetenza per territorio derogabile, e
l’attore aderisce all’indicazione, la competenza del giudice rimane ferma se la causa è di fronte a
lui riassunta, la ratio della regola è di consentire la formazione di un accordo tra le parti anche
dopo l’inizio del processo, senza necessità che il giudice decida la questione.
Il rilievo può anche essere effettuato d’ufficio dal giudice, ma questo solo se si tratta di
incompetenza per materia, valore e territorio inderogabile, con l’eccezione quindi di quella
derogabile.
Una volta sorta la questione di competenza, il giudice può scegliere se deciderla immediatamente
o di deciderla invece insieme al merito della causa, nel primo caso rende una decisione sulla sola
competenza, che riveste le forme dell’ordinanza; se invece il giudice decide con un unico
provvedimento la questione di competenza ed il merito della causa, esso deve rivestire le forme
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della sentenza.
La decisione sulla competenza impone di risolvere la questione ai solo fini della competenza, in
base a quello che risulta dagli atti e, quando sia reso necessario dall’eccezione del convenuto o dal
rilievo del giudice, assunte sommarie informazioni. Il giudice non può quindi istituire la causa e
decidere sulla competenza in base agli esiti dell’istruttoria, ma deve basarsi essenzialmente sul
petitum e sugli eventuali riscontri probatori già offerti dall’attore.
Quando il giudice si dichiara incompetente anzitutto può accadere che la parte soccombente
desideri impugnare il provvedimento: in tal caso andrà proposto il regolamento di competenza.
La parte che non è intenzionata ad impugnare l’ordinanza con la quale il giudice si è dichiarato
incompetente ed ha interesse a che la causa sia decisa nel merito deve riassumerla davanti al
giudice indicato come competente.
L’ordinanza con la quale il giudice si dichiara incompetente non comporta infatti una automatica
prosecuzione del processo: il processo deve essere riassunto davanti al giudice indicato come
competente entro 3 mesi, qualora ciò non avvenga, il processo si estingue (art.50).
Cumulo di domande e competenza
In realtà nel processo possiamo avere più domande.
Le variabili al riguardo sono molte: le domande possono essere identiche o dissimili, possono
essere proposte da chi assume la qualità di parte del processo davanti allo stesso ovvero di fronte
a giudici diversi.
Litispendenza interna e internazionale
Con il termine litispendenza si intendono due fenomeni tra loro vicini.
Anzitutto, secondo l’etimo della parola, si intende pendenza della lite; litispendenza secondo un
significato più ristretto, indica invece la proposizione di fronte a due uffici giudiziari differenti di
due domande identiche.
Entrano così in gioco gli elementi di identificazione visti nel capitolo 3: occorre che nelle due
domande coincidano sia i soggetti che l’oggetto.
In questa situazione il giudice successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo,
anche d’ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la cancellazione della causa dal
ruolo.
Il comma 3 dell’art.39 chiarisce che per stabilire quale dei due processi è successivo all’altra si
vada a vedere, per i processi che iniziano con citazione, il momento in cui questa è stata notificato,
mentre per i processi introdotto cin ricorso determinate è il deposito dello stesso.
Può accadere che entrambi i giudici siano competenti, può però anche accadere che competente
sia uno solo dei due, si ritiene che comunque il secondo giudice debba arrestare il processo
davanti a sé. Disponendo la cancellazione della causa dal ruolo; qualora quest’ultimo si dovesse poi
dichiarare incompetente, si potrà avere una riassunzione davanti al secondo giudice.
Diversa è la soluzione ove le domande identiche pendano davanti allo stesso ufficio giudiziario: in
tal caso non va dichiarata la litispendenza, bensì va disposta la riunione delle cause. La
giurisprudenza ritiene che la riunione non comporti una totale fusione delle due cause così che in
relazione ai riti processuali imperniati sulle preclusioni, la verificazione di una preclusione nel primo
processo determini l’effetto di impedire che nel secondo processo la preclusione possa essere
superata.
La situazione della cd. litispendenza internazionale è disciplinata dalla legge 218/1995, l’art.7
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dispone che, qualora nel corso del giudizio venga eccepita la previa pendenza tra le stesse parti di
una domanda avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo dinanzi a un giudice straniero, il
giudice italiano, se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per il nostro
ordinamento, sospende il giudizio.
La soluzione è più prudente rispetto a quella adottata dall’art.39, la litispendenza infatti sembra
subordinata all’eccezione di parte, il processo non è chiuso ma sospeso e la sospensione è
subordinata ad una valutazione da parte del giudice italiano circa la sussistenza delle condizioni per
il riconoscimento della decisione del primo giudice.
Qualora il giudice straniero appartenga ad uno degli stati membri dell’UE, trova applicazione la
regola fissata dall’art.27 del regolamento 44/2001 che prevede la sospensione del processo da
parte del giudice adito per secondo soltanto sino a quando il primo giudice non abbia dichiarato di
essere competente, dopodiché il secondo deve dichiarare la propria incompetenza.
Continenza
Figura a metà tra la litispendenza e la connessione, è quella della continenza di causa di cui al
comma 2 dell’art.39.
Il legislatore non da una definizione ma si limita a disciplinare le conseguenze prevedendo che se il
giudice adito per primo è competente anche per la causa successivamente proposta, il secondo
giudice dichiara la continenza e assegna alle parti un termine per la riassunzione della stessa
davanti al primo giudice; se invece il primo giudice non è competente, allora spetta a lui dichiarare
la continenza e fissare il termine.
Si tratta di favorire la trattazione e decisione unitaria delle due domande: non si ha quindi la
cancellazione di una delle domande, ma la sua riassunzione davanti all’altro giudice.
Cosa si deve intendere per continenza? Secondo la dottrina maggioritaria la figura si ha quando
una delle due domande contiene l’altra: identiche sotto il profilo soggettivo e della causa petendi,
esse differiscono circa il petitum, in una più ampio che nell’altra.
La giurisprudenza applica invece una nozione più estesa di continenza, ricomprendendovi anche
ipotesi in cui i petita delle due cause sono differenti e tra loro incompatibili.
Connessione: i valori in gioco
Si ha connessione quando tra più domande vi è un collegamento, che può essere dovuto
all’identità di uno o più degli elementi che le caratterizzano ovvero alla mera identità delle
questioni di fatto o di diritto da cui dipende la decisione.
Il legislatore ha previsto una disciplina atta a favorire il più possibile il simultaneus processus, ossia
a fare si che le domande tra loro connesse siano trattate e decise unitariamente davanti al
medesimo giudice: ha così introdotto alcune deroghe ai criteri dettati in materia di competenza,
più o meno incisive a seconda dell’intensità del collegamento fra le domande; ha altresì previsto la
trattazione simultanea delle domande connesse per pregiudizialità-dipendenza pur originariamente
soggette a riti diversi.
Alla base di tale disciplina stanno fondamentalmente tre valori:
1. Il risparmio di attività processuale
2. Esigenza di armonia delle decisioni rese
3. Rapida definizione della domanda
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Connessione (solo) soggettiva
La disposizione ci dice che contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo, da
parte dell’attore, più domande anche non altrimenti connesse, purché non eccedano la
competenza per valore del giudice adito.
In questa ipotesi quindi, per ragioni di comodità dell’attore che incardina un solo processo, le
domande vanno proposte al giudice che risulta competente sommando il valore delle due
domande, giudice che potrebbe essere diverso da quello competente per ciascuna di esse.
Connessione (solo o anche) oggettiva
La connessione oggettiva tra domande può avere diverse connotazioni.
A) Essa (connessione impropria) può dipendere dalla comunanza delle questioni di fatto o di diritto
da cui dipende la decisione: in tal caso vi è l’utilità di una trattazione congiunta, ma la tenuità del
collegamento fa si che il legislatore non preveda al riguardo deroghe alle regole della competenza,
così che il simultaneus processus si può avere solo qualora il giudice sia competente in relazione a
tutte le domande.
B) La connessione propria si ha invece quando vi è la connessione per l’oggetto o per il titolo.
Il legislatore la considera in relazione all’ipotesi in cui le cause riguardino più parti e prevede una
deroga per quanto concerne la competenza territoriale: le domande che andrebbero proposte a
giudici diversi possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza o domicilio di una
di esse.
C) All’interno della categoria della connessione oggettiva propria la dottrina identifica una
sottocategoria, detta di connessione qualificata, alla quale vengono ricondotte le ipotesi di cui agli
artt.31, 32, 34 a 36.
- troviamo anzitutto la domanda riconvenzionale della quale il legislatore da una definizione
proprio in relazione alla competenza, l’art.36 dice che essa viene conosciuta dal giudice della causa
principale quando non eccede la sua competenza per materia e valore, che altrimenti vanno
entrambe rimesse al giudice superiore.
- analoga è la soluzione adottata per la domanda di accertamento incidentale se sulla
questione pregiudiziale è chiesto al giudice di decidere con efficacia di giudicato e questa eccede la
sua competenza per materia e valore, egli rimette tutta la causa al giudice superiore.
- presenta peculiarità la soluzione adottata per l’eccezione di compensazione, la
compensazione è un modo di estinzione dell’obbligazione e non può essere rilevata d’ufficio dal
giudice.
Può accadere che il credito opposto eccede la competenza per valore del giudice adito, occorre
allora vedere cosa fa l’attore : se questi non avanza contestazioni il giudice decide, incidenter
tantum, sull’eccezione, se invece il credito è contestato il legislatore vuole che la decisione avvenga
con efficacia di giudicato e allora l’intera causa va rimessa al giudice superiore.
Il provvedimento adottato in quest’ultimo caso dal giudice consiste quindi in una sentenza di
condanna con riserva di eccezione, risolutivamente condizionata, che potrà quindi essere posta nel
nulla dal giudice superiore.
Nella prassi accade con una certa frequenza che l’eccezione di compensazione venga formulata nel
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo davanti al giudice di pace: dato che la competenza del
giudice dell’opposizione è considerata funzionale la giurisprudenza ritiene che il giudice, ove non
sia possibile decidere l’opposizione, non debba rimettere l’intera causa al giudice superiore, ma
debba invece separare le due cause e sospendere il giudizio davanti a sé ex art.295 in attesa della
definizione del giudizio sull’accertamento del controcredito.
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- l’art.32 si occupa invece della domanda di garanzia, quella domanda con la quale la parte,
normalmente convenuta nel processo, chiama in causa il proprio garante.
Qualora la domanda di garanzia ecceda la competenza per valore del giudice adito, trova
applicazione la soluzione che abbiamo visto per le ipotesi della domanda riconvenzionale e di
accertamento incidentale.
- ex art.31, la domanda accessoria, può essere proposta al giudice territorialmente competente
per la domanda principale affinché sia decisa nello stesso processo, osservata quanto alla
competenza per valore, la disposizione dell’art.10 comma 2.
Per domanda accessoria si intende quella domanda che, pur avendo un petitum autonomo,
rappresenta una conseguenza logica e giuridica della domanda formulata nella causa principale.
La realizzazione del processo cumulativo
Abbiamo visto le regole che consentono la proposizione delle domande connesse in un unico
processo.
L’art.40 prevede che, una volta rilevata o eccepita la connessione, uno dei giudici assegni alle parti
un termine per la riassunzione della causa davanti all’altro giudice con la limitazione che il rilievo o
l’eccezione devono avvenire entro la prima udienza e che la rimessione “non può essere ordinata
quando lo stato della causa principale o preventivamente proposta non consente l’esauriente
trattazione e decisione delle cause connesse”.
Limiti che non sono richiamati per l’ipotesi in cui le cause connesse siano di competenza l’una del
giudice di pace e l’altra del tribunale: l’ultimo comma dell’art.40 limita a prevedere che il giudice di
pace deve pronunziare anche d’ufficio la connessione a favore del tribunale.
Connessione e rito
Il nostro ordinamento conosce accanto al processo ordinario di cognizione azionabile per la
generalità delle liti, riti speciali, può quindi accadere che la pluralità di domande tra loro connesse
siano assoggettate a riti differenti.
L’art.40 detta alcune regole applicabili solo in presenza di connessione qualificata volte a favorire il
simultaneus processus disponendo l’attrazione di una causa ad un rito che non è quello sui proprio,
se però il rito speciale è quello previsto per le cause di lavoro è questo a prevalere; se invece tutte
le cause sono assoggettate a differenti riti speciali, prevale il rito previsto per quella tra esse in
ragione della quale viene determinata la competenza o quello previsto per la causa di maggior
valore.
Il regolamento di competenza
Il regolamento di competenza è il mezzo di impugnazione specificamente destinato a censurare le
pronunce, affermative o negative, sulla competenza.
Esso è direttamente proposto alla Corte di Cassazione che ha il compito di risolvere le questioni e
gli eventuali conflitti di competenza tra i giudici inferiori, non può tuttavia essere impiegato per
impugnare i provvedimenti sulla competenza resi dal giudice di pace. Il regolamento va instaurato
entro un termine breve, trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che ha pronunciato sulla
competenza o dalla notificazione dell’impugnazione ordinaria nel caso in cui la pronuncia sia
contenuta in una sentenza che decide anche il merito della causa.
I processi relativamente ai quali è proposto il regolamento sono automaticamente sospesi ma il
giudice può autorizzare il compimento degli atti urgenti.
Vi sono tre tipi di regolamento:
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- il regolamento necessario che rappresenta l’unico mezzo di impugnazione del provvedimento
che ha deciso sulla competenza senza decidere il merito della causa, mediante tale mezzo è anche
possibile impugnare i provvedimenti che pronunciano sulla competenza anche ai sensi degli
artt.39-40.
- è invece facoltativo il regolamento che viene proposto in alternativa ai modi ordinari contro il
provvedimento cha ha pronunciato sulla competenza insieme con il merito, il regolamento
facoltativo e gli altri mezzi di impugnazione non sono equivalenti, mediante il primo può essere
censurata solo la decisione sulla competenza e non anche i capi della sentenza attinenti il merito;
mediante i secondi può essere invece censurata la decisione sulla competenza.
- il giudice, indicato dal primo giudice come competente e davanti al quale venga riassunta la
causa, se ritiene di essere a sua volta incompetente può richiedere d’ufficio il regolamento, purché
si tratti di incompetenza per materia o per territorio inderogabile, si possono verificare 3
eventualità:
1. Il giudice si ritiene competente e decide la causa nel merito
2. Il giudice si ritiene incompetente per valore o per territorio derogabile, ma deve comunque
decidere la causa
3. Il giudice si ritiene incompetente per materia o territorio inderogabile perché è competente il
primo giudice o il terzo giudice
La Corte di cassazione decide sul regolamento con ordinanza indicando il giudice competente e
dando i provvedimenti necessari per la prosecuzione della lite; la decisione della corte che regola la
competenza ha al pari di quella sulla giurisdizione, efficacia panprocessuale, ossia non perde
efficacia se il processo si estingue, bensì resta vincolante per le parti qualora la domanda sia in
seguito riproposta.
Capitolo 5 – Il dovere decisorio del giudice
Premessa
Il giudice davanti al quale sia proposta una domanda ha il dovere di decidere:” deve pronunciare”
afferma l’art.112 che apre il titolo del codice dedicato ai poteri del giudice.
Egli non può limitarsi a dichiarare di non aver raggiunto il proprio convincimento circa la pretesa
affermata dall’attore, ma deve pronunciare circa la fondatezza della pretesa avanzata,
accogliendola o rigettandola, a meno che debba chiudere il processo in rito perché manca uno dei
presupposti per la decisione di merito e non sia possibile porvi rimedio.
Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato
Ai sensi dell’art.112 il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e
non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti.
Iniziamo dalla domanda: dobbiamo interrogarci sul significato dell’espressione “tutta la domanda”
e su quando possiamo dire di trovarci di fronte al vizio di omessa pronuncia.
Si ha tale vizio quando il giudice omette di deciderne una, qualora però le domande prospettate
siano si due, ma proposte in via alternativa, l’accoglimento della domanda principale fa venir meno
l’obbligo di decidere su quella subordinata.
Pure quando la domanda proposta è una sola viene ravvisata la possibilità del vizio, secondo la
giurisprudenza infatti siamo di fronte al vizio ove vi sia “omissione di qualsiasi decisione su di un
capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere
l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto.
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La mancata decisione della domanda e del capo autonomo di domanda determina quindi il vizio di
omessa pronuncia, quid circa l’eccezione? L’art.113 ci dice che il giudice pronuncia sulle eccezioni.
La giurisprudenza afferma che la mancanza di una decisione dell’eccezione comporta il vizio di
omessa pronuncia solo ove si tratti di una eccezione di merito.
Situazione opposta all’omessa pronuncia è quella della pronuncia che supera i limiti della domanda,
i limiti possono essere superati perché il decisum va oltre quanto è stato richiesto (ultrapetizione)
ovvero perché il provvedimento emesso dal giudice è diverso rispetto a quello richiesto
(extrapetizione); al riguardo la giurisprudenza precisa che il vizio di extrapetizione o di
ultrapetizione ricorre solo quando il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti e
pronunciando oltre i limiti del petitum e delle eccezioni hinc e inde dedotte, attribuisca alla parte
un bene non richiesto.
La decisione secondo diritto
Una volta precisato che l’ambito della decisione del giudice trova i suoi confini in ciò che è stato
domandato dalle parto, passiamo all’esame dei parametri in base ai quali tale decisione avviene,
tendendo presente che essa concerne da un lato la ricostruzione dei fatti e dall’altro lato
l’applicazione a tali fatti delle corrette norme giuridiche.
Partiamo da queste ultime: ai sensi dell’art.113 il giudice deve seguire le norme di diritto, salvo che
la legge attribuisca il potere di decidere secondo equità, non vi è dubbio che “di diritto” sono le
norme contenute nella costituzione e nelle leggi costituzionali, nei trattati e nelle convenzioni
internazionale, nelle leggi e negli altri formanti normativi indicati dall’art.1 delle Preleggi.
In situazioni del carattere transnazionale possiamo avere la giurisdizione del giudice italiano che
può trovarsi a dover applicare norme di un diritto diverso da quello nazionale; nel nostro
ordinamento vige il principio iura novit curia: il giudice può essere aiutato dalle parti nella ricerca
delle fonti giuridiche da applicare al caso concreto, ma resta libero di qualificare la fattispecie e
individuarne le relative norme.
La decisione secondo equità
La decisione secondo diritto rappresenta la regola che trova la sua eccezione nelle ipotesi in cui la
legge dà al giudice il potere di decidere secondo equità.
Ciò avviene nel giudizio di fronte al giudice di pace: ai sensi dell’art.113 il giudice decide secondo
equità le cause il cui valore non eccede 1100 euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici
relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all’art.1342 cc.
Ai sensi dell’art.114 il giudice decide il merito della causa secondo equità, quando esso riguarda
diritti disponibili delle parti e queste gliene fanno concorde richiesta; la norma di diritto, per
definizione generale e astratta, sacrifica per necessità le peculiarità del caso singolo. L’equità è la
giustizia del caso singolo che mira a recuperare le specificità della fattispecie concreta, il giudice
invece di applicare la norma preesistente crea lui stesso la regola per la decisione della fattispecie
a lui sottoposta, basandosi su valori che sono già emersi nella coscienza sociale.
Decidere secondo equità non comporta l’applicazione di un diverso procedimento: il processo
segue le medesime norme processuali di quello ordinario, ciò che muta, in ragione della
disponibilità dei diritti e della volontà delle parti ovvero della modestia economia della questione, è
il criterio con il quale viene emanata la sentenza.
La decisione secondo equità pone il problema del controllo, dal momento che tale pronuncia, non
fondandosi su specifiche norme sostanziali, è difficilmente censurabile; il problema che si pone non
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tanto per le sentenze ove l’equità è frutto della scelta delle parti, quanto per quelle ove l’equità è
imposta dal legislatore.
Distinta dall’equità di cui abbiamo discorso, cd. sostitutiva, ove il giudice non applica norme
giuridiche per decidere la controversia, è la cd. equità integrativa che si ha quando non l’intera
fattispecie, ma una sua parte è rimessa al giudizio equitativo del giudice.
Il principio dispositivo in materia di prove
Il processo civile è permeato dal principio dispositivo, ciò significa che il processo inizia su
domanda di parte e che le parti hanno il monopolio dell’allegazione dei fatti.
Se è pacifico che il principio dispositivo domina l’impulso e la delimitazione dell’oggetto del
processo, è invece controverso se la stessa conclusione valga per la materia delle prove, cruciale al
riguardo è l’interpretazione dell’art.115, la norma afferma che il giudice deve porre a fondamento
della decisione le prove stabilite dalle parti o dal pm.
Secondo l’opinione maggioritaria essa afferma che le parti hanno il monopolio delle deduzioni
probatorie, secondo altri la norma è diretta al giudice: da un lato gli vieta di ricorrere alla sua
scienza privata e dall’altro lato gli pone l’obbligo di assumere, ove ammissibili e rilevanti, le prove
richieste dalle parti.
Il dibattito è incentrato sulla compatibilità tra l’esercizio di poteri d’ufficio da parte del giudice e il
principio di imparzialità che deve caratterizzare la sua attività, esso appare però poco fruttuoso alla
luce dell’attuale disciplina normativa del processo. Il giudice infatti dispone di poteri istruttori
esercitabili d’ufficio la cui estensione varia a seconda del rito che regola il processo.
Se nel rito ordinario il giudice dispone di poteri istruttori d’ufficio in relazione a un certo numero di
procedimenti probatori, nel rito speciale dettato per le cause in materia di lavoro può disporre
d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova (art.421). La realtà, però, è che
il giudice, almeno per quanto concerne i processi a cognizione piena, utilizza molto di rado i suoi
poteri probatori d’ufficio e finisce quindi per dipendere quasi sempre dall’iniziativa delle parti.
La prova: nozioni
Precisiamo che cosa si intende per prova: la nozione impiegata nel processo non è diversa da
quella presente nel linguaggio comune, prova sono i mezzi di conoscenza utilizzati per decidere
circa la verità o falsità dei fatti rilevanti della causa.
prova, nel linguaggio giuridico italiano, è termine polisemico che indica non soltanto lo strumento
di conoscenza, ma anche il procedimento e l’esito del procedimento stesso.
Oggetto di prova nel giudizio sono i fatti e non le norme giuridiche: queste, in base al principio iura
novit curia, non hanno bisogno di essere provate perché sono conosciute dal giudice.
Quali fatti sono oggetto di prova? I fatti principali, ossia quelli allegati dalle parti a fondamento
delle loro domande ed eccezioni o che stanno alla base delle eccezioni rilevabili d’ufficio, fatti,
quelli principali, che sono rilevanti in base alle norme giuridiche che sono assunte come criterio le
la decisione.
Anche i fatti secondari possono essere utili per stabilire indirettamente la verità o meno di un
fatto principale, essi possono infatti costituire la premessa dell’inferenza logica che conduce a
formulare una conclusione circa la verità del fatto principale.
I fatti rilevanti devono essere dimostrati nel processo, tradizionalmente infatti al giudice è vietato
l’utilizzo della conoscenza che eventualmente abbia dei fatti di causa da fonti di informazione
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personali e private (divieto di scienza privata del giudice).
Abbiamo detto che prova è lo strumento di conoscenza dei fatti, il nostro legislatore disegna dei
procedimenti per la formazione e il controllo di questi strumenti, al proposito occorre distinguere
tra le prove che si formano nel processo (prove costituende) e le prove che invece si formano
fuori dal processo (prove precostituite).
Per le prove che si formano nel processo è necessaria un’attività complessa: anzitutto la prova va
dedotta, vi è poi un provvedimento di ammissione da parte del giudice, che verifica l’ammissibilità
e la rilevanza della prova, dopodiché si ha l’assunzione della prova. Pensiamo alla testimonianza, la
più importante delle prove costituende, anzitutto la parte deve chiedere al giudice di sentire un
soggetto come testimone, il giudice se ritiene che la prova sia ammissibile ne ammette
l’assunzione.
Quanto invece alle prove precostituite, che sostanzialmente si identificano con i documenti, non è
necessaria un’attività di formazione, ma eventualmente di controllo della loro genuinità.
Libera valutazione e prova legale
Le prove, una volta che siano state assunte, o siamo comunque entrate nel processo come
vengono valutate?
Il comma 1 dell’art.115 ci dice che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente
apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. La regola è pertanto costituita dal libero, o
meglio, prudente convincimento del giudice; se nel valutare l’attendibilità della dichiarazione di un
testimone il giudice non è vincolato da norme giuridiche che ne predeterminano il valore deve però
utilizzare criteri razionali ce vanno dalle regole di comune buon senso a regole tecniche e a vere e
proprie regole scientifiche (massime di esperienza).
Nel nostro ordinamento manca l’identificazione di soglie che devono essere raggiunte perché il
giudice possa dirsi convinto della verità dei fatti rilevanti della causa, di recente, a seguito della
influenza di modelli prima di tutto epsitemologici propri degli ordinamento anglosassoni si è fatta
strada anche nella nostra giurisprudenza l’idea che, nel processo civile, il fatto possa essere
ritenuto provato sulla base della probabilità del suo verificarsi.
In realtà, sono ancora molti i casi di prova legale in cui la regola di valutazione è fissata dal
legislatore che predetermina quale efficacia va riconosciuta a una determinata prova, ciò in
particolare avviene in materia di efficacia probatoria dei documenti e delle dichiarazione rese dalle
parti.
Argomento di prova e prova atipica
Accanto alla prova legale e alla prova liberamente valutabile da parte del giudice il comma 2
dell’art.116 fa riferimento a un terzo istituto, l’argomento di prova.
Argomenti di prova possono essere ricavati dal comportamento delle parti e la norma viene
richiamata da altre disposizioni, ad esempio per qualificare l’efficacia in un nuovo processo delle
prove raccolte nel processo estinto.
Il peso di tali elementi sul convincimento del giudice è controverso: se la dottrina tende ad
escludere che l’argomento di prova possa da solo fondare il convincimento del giudice potendo
solo concorrere a formarlo, la giurisprudenza arriva invece ad affermarne talvolta la sufficienza.
L’argomento di prova è nozione che viene spesso richiamata per determinare l’efficacia della prova
atipica.
Il legislatore disegna un catalogo di procedimenti probatori, tale catalogo deve ritenersi tassativo,
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ossia l’elemento utile per provare il fatto rilevante può essere raccolto soltanto utilizzando qualsiasi
elemento probatorio.
Nel silenzio del legislatore, il dibattito si è focalizzato su due punti: anzitutto l’ammissibilità e poi
l’eventuale efficacia probatoria della prova atipica; alcuni autori ne escludono in radice
l’ammissibilità, da un lato il catalogo delle prove regolato dal legislatore sarebbe tassativo e
dall’altro lato la prova atipica non tutelerebbe l’esercizio del diritto di difesa.
La posizione è stata giustamente criticata: manca nel nostro ordinamento una norma che afferma
la tipicità del catalogo dei mezzi di prova e, in ogni caso, la prova atipica può essere ricondotta a
una delle categorie previste dal legislatore, il documento.
Vi sono mezzi di prova tipici che si formano non nel contradditorio delle parti e la nuova
formulazione dell’art.111 Costituzione, nell’imporre il contradditorio nella formazione della prova
per il processo penale, ha definitivamente chiarito che per il processo civile è sufficiente che sia
garantito alle parti l’esercizio del diritto di difesa sui risultati della prova.
Se la prova atipica è ammissibile, resta da chiarire quale sia la sua efficacia probatoria, la dottrina
tende a considerarla un’efficacia debole.
Invalidità e inutilizzabilità della prova. La prova illecita
Cosa succede se non vengono rispettate le norme che fissano le regole sull’ammissibilità e
sull’assunzione del mezzo di prova? Il legislatore civile non detta regole al riguardo, la
giurisprudenza in genere applica le regole in materia di invalidità degli atti processuali civili.
In particolare, viene applicata la norma di cui all’art.157, che sancisce la generale sanatoria della
nullità, così la Corte di Cassazione ad esempio afferma che la consulenza tecnica resa senza che i
consulenti di parte siano stati avvisati del luogo e dell’ora di inizio delle operazioni peritali.
Un’ulteriore categoria è la prova illecita.
Alla categoria vengono ricondotte le ipotesi della prova di per sé lecita che è però stata acquisita
dalla parte che la produce in modo illecito ovvero della prova la cui formazione è legata al
compimento di un illecito.
Al riguardo la giurisprudenza pare orientata in favore della sua ammissibilità ed efficacia probatoria
mentre la dottrina appare divisa tra che ne afferma l’utilizzabilità e chi invece decisamente nega
che la prova illecita possa entrare nel processo.
La regola dell’onere della prova
Ai sensi dell’art.2697 intitolato “onere della prova”, chi vuole far valere un diritto in giudizio deve
provare i fatti su cui si fonda la sua pretesa e chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce
che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
La regola è semplice e chiara, tuttavia è una sorta di norma in bianco in quanto è necessario fare
riferimento alle norme sostanziali per stabilire quali sono i fatti costitutivi da un lato e quelli
modificativi dall’altro.
La giurisprudenza spesso segue criteri che prescindono dall’analisi delle fattispecie sostanziale e si
richiamano a standard come la normalità ovvero la vicinanza della prova. Secondo la Corte di
Cassazione tale ultimo criterio deriva dal diritto del cittadino di agire in giudizio che vieta
interpretazioni della legge che rendano l’esercizio del diritto impossibile o troppo difficile.
La regola di cui all’art.2697 è una regola di giudizio: essa non ci dice che la prova del fatto
costitutivo può venire soltanto dall’attore e quella del fatto modificativo, estintivo e impeditivo
unicamente dal convenuto, ma determina quale parte perde la causa se il giudice non ha raggiunto
il suo convincimento circa il fatto da essa fatto valere.
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Il principio di cui all’art.2697 va infatti contemperato con quello dell’acquisizione, tutti i mezzi di
prova contribuiscono a formare il convincimento del giudice; questo principio è secondo la Corte di
Cassazione implicito in alcune norme del codice di rito come l’art.245 comma 2 e nel principio
costituzionale del giusto processo.
Bisogna poi ricordare il potere del giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di alcuni mezzi di prova.
Infine, non tutti i fatti hanno bisogno di essere provati:
- fatto notorio: il giudice può porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano
nella comune esperienza, al riguardo la Corte di cassazione sottolinea che la nozione va
interpretata in modo restrittivo e che perciò il fatto notorio è solo quello conosciuto all’interno della
comunità con una tale certezza da essere indubitabile e non contestabile.
- fatto non contestato: ai sensi della seconda parte del comma 1 dell’art.115 il giudice deve
porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita, il
legislatore ha così codificato un principio affermato dalla giurisprudenza che dall’onere imposto
all’attore dal comma 1 dell’art.167.
Ci si chiede però se si deve ritenere il fatto non contestato come provato anche quando nel corso
dell’istruttoria emergono elementi conoscitivi in senso opposto, al riguardo la dottrina più attenta
alle istanze di verità ritiene di no: il giudice deve sottoporre il fatto non contestato ad una
opportuna verifica, ogni qualvolta fonti diverse di prova, ritualmente acquisite agli atti del
processo, lo inducano a dubitare della veridicità della sua allegazione.
- patti probatori: l’art.2698 cc infine consente alle parti di accordarsi per invertire o modificare
gli oneri probatori, l’accordo non deve rendere troppo difficile l’esercizio del diritto di azione e deve
essere relativo a diritti disponibili.
All’art.1147 cc leggiamo che la buona fede del possessore è presunta, le presunzioni legali a
loro volta si distinguono in assolute e relative.
Poteri officiosi e principio del contraddittorio
Il principio del contraddittorio è principio cardine del giudizio: ogni processo si svolge nel
contraddittorio tra le parti.
All’art.101 rubricato “principio del contraddittorio” il giudice, salvo che la legge disponga altrimenti,
non può statuire sopra alcuna domanda. La norma codifica la dimensione “statica” del principio: il
giudice non può decidere contro colui che non è stato chiamato nel processo secondo le regole
prestabilite o non si è comunque in esso difeso.
E’ vero che vi sono procedimenti ove il giudice decide sulla domanda proposta senza sentire le
ragioni della controparte, il contraddittorio è però in tal caso solo differito: la parte contro la quale
il provvedimento è pronunciato ha infatti la facoltà di rispondere instaurando il processo a
cognizione piena.
Il contraddittorio permea tutto il giudizio: ai sensi del comma 2 dell’art.24 Costituzione, la difesa è
diritto inviolabile che va garantito alle parti, in condizioni di parità, in ogni stato e grado del
processo; il giudice in posizione di terzietà ha il dovere di collaborare con le parti.
Costituiscono estrinsecazione di tale principio l’obbligo per il giudice, che abbia disposto d’ufficio
l’assunzione di mezzi di prova, di assegnare alle parti termini per contro dedurre mezzi di prova e
comunque per far valere propri rilievi al riguardo.
Il giudice ha il potere di rilevare d’ufficio determinate questioni e che l’interpretazione della
giurisprudenza è nel senso di riconoscergli di regola tale potere, è stato a lungo dibattuto se il
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giudice che ritenga di rilevare d’ufficio la questione abbia l’obbligo di provocare il contraddittorio
delle parti in ordine alla questione stessa al fine di evitare la “sentenza a sorpresa” o della “terza
via” che violerebbe la parità delle armi e su quali siano le conseguenze ove il giudice decida senza
dare alle parti la possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa al riguardo.
Il punto è stato risolto dal legislatore, che al comma 2 dell’art.101 prescrive al giudice che ritenga
“di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio” di riservare la decisione,
assegnando alle parti un termine (tra i 20 e i 40 giorni) per depositare memorie contenenti
osservazioni sulla medesima questione.
Gli effetti della decisione: il giudicato formale e le impugnazioni
Il tema degli effetti è tradizionalmente affrontato attraverso la nozione del giudicato, si parla di
giudicato in senso formale e di giudicato in senso sostanziale; i due profili sono disciplinati in
luoghi normativi diversi: il primo profilo è trattato nel codice di procedura civile, all’art.324, il
secondo nel codice civile all’art.2909.
L’art.324 rubricato “cosa giudicata formale” disciplina le modalità attraverso le quali una pronuncia
diviene incontrovertibile, ossia non è più modificabile; esso ci dice che si intende passata in
giudicato la sentenza che non è più soggetto a regolamento di competenza, a ricorso per
cassazione e a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell’art.395.
In altre parole passa in giudicato la pronuncia che non può più essere impugnata con i mezzi
ordinari.
La sentenza può essere sbagliata per una serie di motivi, possiamo immaginare un ordinamento
che non contempli strumenti attraverso i quali le parti possono far valere l’errore della decisione
del giudice, ovvero all’opposto, un ordinamento che dia alle parti la possibilità illimitata, sia
temporalmente che come numero di rimedi, di denunciare la sentenza davanti a un altro giudice.
Il nostro ordinamento ha una posizione intermedia, concede alla parte alcuni rimedi, i più
importanti dei quali sono l’appello ed il ricorso in cassazione, ma tali rimedi devono essere fatti
valere in tempi relativamente brevi.
La barriera costituita dalla formazione del giudicato formale non è però assoluta, il legislatore ha
infatti previsto che, in ipotesi eccezionali, la sentenza che sia passata in giudicato possa essere
attaccata: questo può avvenire mediante i mezzi di impugnazione straordinari, l’opposizione di
terzo e la revocazione straordinaria.
Il giudicato formale risponde quindi all’obiettivo di contemperare il diritto della parte a ottenere
una decisione giusta con l’esigenza di dare certezza alle posizioni giuridiche soggettive.
Il giudicato sostanziale
L’art.2909 ci dice che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni
effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa, abbiamo quindi un profilo oggettivo e uno
soggettivo.
Il profilo oggettivo
Premesso che oggetto dell’accertamento può essere soltanto il diritto soggettivo e non un mero
fatto o l’interpretazione di una norma giuridica, analizziamo la norma, partendo dalla locuzione “ fa
stato”.
Che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato faccia stato implica la possibilità
per le parti, i loro eredi ed aventi causa di contestare nuovamente il contenuto della sentenza, ciò
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significa che anche se il diritto è stato accertato in modo non corretto, tale statuizione non sarà più
modificabile se sono stati esperiti tutti i mezzi di impugnazione possibili.
E’ tradizionale l’affermazione per cui con il giudicato è precluso non solo il dedotto, ma anche il
deducibile, ossia tutto ciò che si sarebbe potuto dedurre al tempo del processo, questo comporta
che anche se è stato commesso un errore nella difesa da parte dell’attore o del convenuto,
rimarrà fermo l’accertamento così come affermato nel processo. Il risultato del processo, il
decisum, non potrà essere messo in discussione, solamente in non deducibile, ossia i fatti
sopravvenuti alla formazione del giudicato potranno essere fatti valere.
La corte, nell’affermare che gli effetti del giudicato si estendono a tutte le situazioni necessario per
prevenire alla pronuncia circa il bene della vita richiesto, comprese tutte le questioni proponibili in
via di azione e eccezione che costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia.
L’art.2909 cc si concentra sulla qualità e l’intensità dell’efficacia di giudicato, ma circa l’oggetto si
limita a parlare di accertamento contenuto nella sentenza.
L’opinione tradizionale della dottrina circoscrive l’oggetto del giudicato sostanziale alla decisione
sulla pretesa fatta valere con la domanda con esclusione dei fatti che a livello della fattispecie
legale rilevano ai fini dell’esistenza o inesistenza del diritto.
Essa affonda le sue radici nell’art.34 che, occupandosi di competenza implicitamente afferma che
la decisione della questione pregiudiziale avviene con efficacia limitata al processo, essendo
necessaria perché si abbia l’efficacia di giudicato la domanda di parte.
La dottrina tradizionale afferma che il giudicato viene a formarsi unicamente sul diritto fatto valere,
parte minoritaria della dottrina ha invece una posizione più vicina a quella della giurisprudenza e
distingue tra pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica.
Così, quando pregiudiziale rispetto al diritto è autonomo rapporto giuridico, la pregiudizialità è
tecnica e trova la sua disciplina nell’art.34 e quindi sul rapporto autonomo non scende il giudicato,
quando invece pregiudiziale è un rapporto giuridico complesso rispetto al quale il diritto fatto
valore costituisce una parte la pregiudizialità è logica e il giudicato scende sul rapporto
fondamentale.
La locuzione “ad ogni effetto” si riferisce all’impossibilità per le parti di riproporre un’altra, identica
domanda in un nuovo giudizio. Tale nuovo giudizio è infatti precluso in applicazione del principio
ne bis in idem, che impedisce una seconda pronuncia da parte di un altro giudice.
Pertanto, dati due giudizi con due domande identiche, se la prima è già stata decisa con una
sentenza passata in giudicato, la seconda dovrà arrestarsi con una pronuncia di rigetto, trovano
applicazione i criteri di identificazione della domanda e la distinzione tra i diritti auto ed
eterodeterminati; così nel caso che il primo processo si sia concluso con l’accertamento del diritto
di proprietà per usucapione, la nuova domanda è domanda identica e quindi va incontro al rigetto.
L’espressione “ad ogni effetto” si riferisce anche al caso in cui il secondo processo abbia ad
oggetto non la stessa domanda, ma una domanda connessa, legata alla precedente da un
rapporto di pregiudizialità-dipendenza (efficacia riflessa del giudicato).
Il giudicato potrà essere invocato nel processo relativo agli alimenti e ne condizionerà l’esito, nel
senso che il rapporto di filiazione non potrà essere messo in discussione e costituirà presupposto
necessario della decisione, che potrà si essere di rigetto della domanda, ma per altri profili diversi
dall’inesistenza del rapporto di parentela.
L’art.2909 parla di “sentenza”, ci si domanda se la qualità del giudicato possa essere propria di
provvedimenti che abbiano si contenuto decisori ma rivestano forme diverse da quella della
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sentenza; al riguardo occorre sottolineare che l’art.702quater dispone che l’ordinanza che decide la
domanda produce, ove non appellata, gli effetti di cuiall’art.2909.
Il problema non è solo e non tanto quello della forma del provvedimento, quanto del processo che
precede la decisione, l’operare dell’accertamento fuori dal processo in cui viene in essere è
tradizionalmente riservato alla decisione di merito che definisce i processi a cognizione piena, intesi
come i giudizi in cui il diritto di difesa delle parti trova piena articolazione e si manifesta con
modalità predeterminate dal legislatore.
Il profilo soggettivo
L’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i
loro eredi ed aventi causa.
Parti sono i soggetti identificati nella domanda come attore e convenuto, eredi sono i successori
a titolo universale delle parti ed aventi causa sono i successori a titolo particolare.
La regola incontra delle eccezioni: vi sono ipotesi nelle quali il legislatore estende l’efficacia del
giudicato a soggetti che non sono stati parti del processo, ciò accade qualora il diritto di cui sia
titolare un soggetto, terzo rispetto al processo, sia strettamente dipendente da quello che è stato
oggetto del giudizio.
E’ il caso previsto dall’art.1595 comma 3 cc, per il quale la nullità o risoluzione del contratto di
locazione ha effetto anche nei confronti del subconduttore, un altro esempio di estensione del
giudicato, chiamato secundum eventum litisi, è contenuto all’interno della disciplina delle
obbligazioni soldali all’art.1306 cc, dove è previsto che la sentenza pronunziata tra il creditore ed
uno dei debitori in solido non ha effetto contro gli altri debitori o contro gli altri creditori; tuttavia
gli altri debitori possono opporla al creditore, salvo che sia fondata sopra ragioni personali a
condebitore.
Controverso in dottrina è se l’estensione del giudicato avvenga solo nelle ipotesi espressamente
previste dal legislatore o se invece si abbia sempre efficacia riflessa laddove il nesso di dipendenza
tra il diritto accertato con efficacia di giudicato e il diritto del terzo sia particolarmente intenso.
La giurisprudenza riconosce valore di prova al giudicato ottenuto nell’altro processo tra parti
diverse.
Il giudicato nel tempo; l’eccezione di cosa giudicata e il contrasto tra giudicanti
Il giudicato ex art.2909 sostituisce le precedenti regolazioni del rapporto sostanziale e diviene esso
stesso fonte del rapporto.
Esso, pertanto, sopravvive ai mutamenti normativi e alle eventuali pronunzie di illegittimità
costituzionale delle disposizioni sostanziali applicate alla decisione.
Cosa succede però se ci troviamo di fronte a un secondo giudicato in contrasto con il primo?
Perché si verifichi tale situazione occorre che nel secondo processo non sia eccepita né rilevata
d’ufficio l’esistenza di una precedente pronuncia avente fra le parti efficacia di giudicato.
Si è molto discusso sulla rilevabilità del giudicato esterno, più in particolare ci si chiedeva se la
sussistenza di un precedente giudicato dovesse essere oggetto di un’eccezione riservata alla parte
o potesse essere anche rilevata d’ufficio dal giudice. La giurisprudenza è oggi consolidata nel
ritenere la rilevabilità anche d’ufficio del giudicato esterno.
Poniamo che la questione del precedente giudicato non si ponga nel secondo processo e che si
giunga ad una decisione di segno opposto alla precedente, se quest’ultima passa in giudicato è lei
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a prevalere.
Questo però solo ove il contrasto sia pratico e non meramente logico: deve cioè trattarsi di due
processi con oggetto identico, perché se invece i due processi hanno ad oggetto due beni della vita
distinti che poggiano sui medesimi presupposti giuridici, il contrasto è tollerato dall’ordinamento.
Parte 3 – Le parti
Capitolo 6 – Le parti e i difensori
Premessa
Più volte abbiamo utilizzato l’espressione “parte”.
Il termine assume nell’ambito della disciplina positiva processuale una polisemia di significati.
Esso individua il soggetto degli atti processuali ossia colui che agisce ed è chiamato a
contraddire, tale soggetto può porre in esame l’atto in nome proprio e anche in nome altrui. Egli
può coincidere con il titolare del rapporto sostanziale fatto valere nel processo oppure no.
Con parte si indica poi il soggetto degli effetti del processo, che può essere diverso dal
soggetto che e pone in essere gli atti: parte è il rappresentato e non il rappresentante.
Parte, ancora, è per il legislatore il titolare del diritto fatto valere nel processo, con parte il
legislatore intende pure il soggetto incaricato della difesa della parte processuale, il difensore.
All’analisi di queste figure e delle regole che le disciplinano è dedicato il capitolo, che si chiude con
l’esame delle spese, ossia dei costi che la parte sostiene per agire o difendersi nel processo.
Sezione I – La parte
Capacità di essere parte e capacità processuale
Come nel diritto sostanziale si differenzia tra capacità giuridica, ossia idoneità della persona ad
essere titolare di diritti soggettivi e capacità di agire, ossia idoneità ad esercitare diritti soggettivi,
così nel diritto processuale si distingue tra la capacità di essere parte e la capacità
processuale.
Qualunque soggetto di diritto, pertanto, è capace di essere parte.
Quanto alla capacità processuale, l’art.75 afferma che sono capaci di stare in giudizio le persone
che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere.
Il parallelismo con la capacità di agire sostanziale è evidente, anche se non sussiste una perfetta
corrispondenza tra i due piani, sostanziale e processuale.
La rappresentanza processuale: legale e volontaria
Chi non ha il libero esercizio dei diritti, in base all’art.75 comma 2 deve stare in giudizio
“rappresentato, assistito o autorizzato” secondo le norme che ne regolano la capacità.
Si hanno quindi tre forme di integrazione della capacità processuale: la rappresentanza,
l’assistenza e l’autorizzazione.
L’art.75 rinvia alla legge che nei rapporti giuridici disciplina in generale la capacità, da questa
ricaviamo che gli interdetti sono rappresentati dal tutore, il quale, per promuovere la gran parte
dei giudizi, necessita anche dell’autorizzazione del giudice tutelare mentre gli inabilitati devono
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stare in giudizio con l’assistenza del curatore.
Accanto alla rappresentanza legale delle persone fisiche, vi è quella delle persone giuridiche detta
organica, al riguardo l’art.75 afferma che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi
le rappresenta a norma della legge o dello statuto, mentre le associazioni e i comitati privi di
personalità giuridica stanno in giudizio per mezzo delle persone cui compete la presidenza o la
direzione.
Analoga soluzione è prevista per quegli enti di gestione, privi di personalità giuridica, ma con un
organo rappresentativo unitario, come il condominio di edifici, ove una limitata rappresentanza
sostanziale e processuale dei singoli condomini è riconosciuta all’amministratore.
La rappresentanza può essere frutto di una scelta: una persona capace può infatti decidere di
attribuire ad un altro soggetto il potere di rappresentarla nel processo, conferendogli tale potere
con una apposita procura.
Il codice si occupa della rappresentanza volontaria prescrivendo che il procuratore generale e
quello preposto a determinati affari non possono stare in giudizio se questo potere non è stato loro
espressamente conferito per iscritto (art.77).
Da questo gli interpreti ricavano che la rappresentanza processuale, volontaria, non possa essere
scissa da quella sostanziale, così che la si possa attribuire solamente a chi sia già rappresentante
sul piano sostanziale; può accadere che tra il rappresentante ed il rappresentato vi sia conflitto di
interessi ovvero che il rappresentante manchi e vi siano ragioni d’urgenza, in tal caso può essere
nominato all’incapace o alla persona giuridica o all’associazione non riconosciuta un curatore
speciale.
Difetto di capacità e di potere rappresentativo
Il difetto deve essere rilevato dal giudice e regolarizzato: quando rileva un difetto di
rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, il giudice assegna alle parti un termine
perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza e per
il rilascio delle necessarie autorizzazioni.
La dizione della disposizione è chiara: di un qualsiasi vizio che venga a incidere sulla legittimazione
di chi compie gli atti del processo, è possibile la sanatoria, sanatoria che ha efficacia retroattiva,
in realtà l’originaria formulazione dell’art.182 era differente lasciando aperto il dubbio se il rilievo
fosse lasciato al potere discrezionale del giudice e se la sanatoria avesse o meno portata
retroattiva.
La giurisprudenza già sosteneva che si tratta di un dovere del giudice e che la sanatoria ha
efficacia ex tunc, posizione poi recepita nell’attuale formulazione dell’art.182 con la legge 69/2009.
In relazione alla prima situazione, ove vi è collegamento tra la domanda e colui che la propone o
nei confronti questa è proposta, si ritiene comunque applicabile la regola della conversione dei
motivi di nullità in motivi di gravame ex art.161 così che il vizio non può più essere fatto valere
dopo il passaggio in giudicato ormale della sentenza; in relazione alla seconda si tende ad
affermare l’efficacia della sentenza per il falsus procurator.
Situazione diversa è quella in cui il processo si sia svolto nei confronti di un soggetto privo della
stessa capacità di essere parte, ovvero deceduto o estinto prima dell’instaurazione del processo.
La sostituzione processuale
Fenomeno distinto dalla rappresentanza è quello della sostituzione processuale, per il quale si
agisce in giudizio non in nome altrui, ma in nome proprio.
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E’ evidente che il fenomeno non può che essere eccezionale:” fuori dei casi espressamente previsti
dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.
Alcune ipotesi di sostituzione processuale rispondono a ragioni di opportunità, è il caso
dell’assunzione surrogatoria di cui all’art.2900 cc, ove si riconosce che il creditore l’esercizio
dell’azione che spetta verso un altro soggetto al proprio debitore e che questi trascura di
esercitare, purché il diritto che viene fatto valere abbia contenuto patrimoniale e non si tratti di
un’azione che può essere esercitata soltanto dal suo titolare.
Il creditore, agisce a tutela di un proprio interesse, ma tale interesse resta estraneo rispetto
all’oggetto del giudizio che verte sul diritto di credito del suo debitore.
E’ il caso ancora della sostituzione prevista dal comma 1 dell’art.111, se nel corso del processo si
verifica, per atto tra vivi, una successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo
prosegue tra le parti originarie, così che l’alienante continua ad essere parte del processo come
sostituto processuale di quello che è divenuto il titolare del diritto controverso.
Accanto a queste ipotesi, gli ultimi decenni hanno visto lo sviluppo di nuove forme di legittimazione
straordinaria, legate alla tutela degli interessi diffusi o collettivi, vi è infatti la tendenza a
riconoscere la legittimazione a farli valere ad associazioni ed enti.
Così per la protezione degli interessi collettivi in materia di ambiente è stata riconosciuta la
legittimazione ad agire delle associazioni ambientali.
Il pubblico ministero: il suo ruolo nel processo civile
Il ruolo del PM è descritto all’art.73, fondamentale nel processo penale ove è titolare dell’esercizio
dell’azione, è in confronto marginale nel processo civile, che inizia su domande di chi si afferma
titolare del diritto e prosegue per impulso di parte.
Sono due le figure che possono essere assunte dal PM nel processo civile.
A) Anzitutto può instaurare il processo proponendo lui stesso la domanda, fra le ipotesi
tassativamente previste dalla legge, in cui il pubblico ministero agisce quale sostituito processuale
del titolare del diritto ricordiamo le azioni di interdizione, inabilitazione e nomina
dell’amministratore di sostengo.
B) Il PM interviene nel giudizio già instaurato dalla parte.
Tale intervento è obbligatorio nelle cause rispetto alle quali ha diritto di azione, nelle cause
matrimoniali, nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, negli altri casi previsti
dalla legge.
Peculiare poi è il ruolo rivestito, a garanzia della funzione nomofilattica svolta dall’organo, dal PM
nei giudizi che si svolgono davanti alla corte di Cassazione, ove il suo intervento è di regola
obbligatorio, art.70 comma 2.
Il giudice deve trasmettere gli atti al PM affinché questi intervenga, l’intervento può avvenire sino
all’udienza di precisazione delle conclusioni, ossia durante l’intero grado di giudizio.
Cosa accade se il PM non partecipa al processo nonostante il suo intervento fosse necessario? La
sentenza è viziata da nullità insanabile, rilevabile anche d’ufficio, ma soggetta al principio di
conversione della nullità in motivo di impugnazione di cui al comma 1 dell’art.161.
L’art.70 comma 3 regola l’intervento facoltativo del PM, stabilendo che quest’ultimo può intervenire
in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse.
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I poteri del pubblico ministero
I poteri di cui dispone il PM variano a seconda del ruolo che assume nel processo.
Nei casi previsti dall’art.70 i poteri del PM sono limitati dal potere dispositivo delle parti: può
produrre documenti, dedurre prove, prenderne conclusioni, ma nei limiti delle domande proposte
dalle parti, senza quindi avere il potere di allargare l’oggetto del processo.
Peculiare è la disciplina dell’impugnazione della sentenza, se il PM ha proposto o avrebbe potuto
proporre la domanda, l0impugnazione è ammessa senza limiti; sono però impugnabili dalla parte
pubblica le sentenze relative a cause matrimoniali, con l’esclusione di quelle di separazione
personale dei coniugi (art.72). In tali ipotesi la facoltà di impugnazione spetta tanto al PM presso il
giudice che ha pronunciato la sentenza, quanto a quello presso il giudice competente a decidere
sull’impugnazione.
Tale disciplina speciale, introdotta nel 1950 con il chiaro fine di impedire la pronuncia e il
riconoscimento di decisioni di scioglimento del vincolo matrimoniale, appare a seguito
dell’introduzione dell’istituto del divorzio del tutto ingiustificata.
Il PM dispone infine di un potere di impugnazione proprio ed esclusivo, volto ad ottenere la
revocazione delle sentenze emesse in una causa nella quale il suo intervento è obbligatorio, se egli
non è stato sentito oppure se la sentenza è frutto della collusione tra le parti volta a frodare la
legge (art.397)
Prospettive de iure condendo
IL PM è figura i cui poteri e assetto istituzionale sono da anni al centro di un intenso dibattito.
Per quanto concerne il processo civile, c’è chi ne invoca da tempo la soppressione, sottolineandone
il ruolo di convitato di pietra nel giudizio, anche con l’obiettivo di impiegare tutte le risorse della
magistratura inquirente nella amministrazione della giustizia penale.
Una riforma, anche se limitata, in tale senso si è avuta da ultimo in relazione al giudizio di
cassazione ove l’intervento del PM è obbligatorio.
I doveri delle parti: il principio di collaborazione
Con l’assunzione della qualità di parte, chi agisce e chi è chiamato a contraddire nel processo
diviene titolare di una serie di situazione soggettive che vengono ricondotte alle figure della facoltà
e del potere da un lato e dell’onere e dell’obbligo dall’altro lato.
Riguardo alla figura dell’obbligo, l’art.88 prescrive alle parti e ai loro difensori il dovere di
comportarsi in giudizio con lealtà e probità, dalla disposizione parte della dottrina ricava la vigenza
nel nostro ordinamento del principio di collaborazione, ove una pluralità di persone operano
contemporaneamente e di concreto per conseguire un risultato di sintesi.
Se non si può parlare di esistenza di un obbligo per le parti di dire la verità contro il proprio
interesse e di offrire una rappresentazione completa ed esaustiva dei fatti rilevanti per la causa
occorre riconoscere che da alcune norme e da alcuni orientamenti della giurisprudenza emergono
forme di collaborazione fra i protagonisti del processo.
Quanto agli istituti previsti dal legislatore, vanno ad esempio segnalati l’onere che ha la parte di
contestare in modo specifico il fatto allegato dalla controparte e l’obbligo per la parte che detiene il
documento rilevante per la decisione di esibirlo, a seguito di ordine del giudice sollecitato dalla
controparte in giudizio.
Quanto invece alle posizione della giurisprudenza, la Corte di Cassazione sottolinea l’esigenza di
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valorizzare il ruolo attivo delle parti e nel distribuire il rischio della mancata prova sulla base
dell’applicazione del criterio della vicinanza della prova spinga la parte che può agevolmente
dimostrare il fatto rilevante per il processo a fornire la prova.
Sezione II – Il difensore
Rappresentanza tecnica e difesa personale
A differenza di quanto avviene in altri ordinamento in Italia la possibilità di difendersi in giudizio
senza la rappresentanza tecnica di un avvocato è estremamente limitata.
L’art.82 riconosce la difesa personale davanti al singolo giudice di pace e unicamente per le cause
il cui valore non eccede 1100 euro, davanti ad altri giudice le parti devono stare in giudizio con il
ministero di un difensore.
Sono fatti salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti, come quando la parte riveste essa stessa la
qualità necessaria per esercitare l’ufficio del difensore (art.86).
La giurisprudenza poi distingue tra giudizi contenziosi e giudizi di volontaria giurisdizione ed in
relazione a questi ultimi esclude la necessità del ministero del difensore; negli articoli del codice, a
partire dall’art.82, troviamo il riferimento a due differenti ruoli: il ministero e l’assistenza del
difensore.
I due ruoli riflettono la distinzione tra due figure professionali, il procuratore legale e l’avvocato,
distinzione oggi superata a seguito dell’abolizione, nel 1998 della figura del procuratore.
Se il ministero attiene alla rappresentanza della parte, l’assistenza attiene invece alla
consulenza giuridica svolta dal difensore che in qualità di esperto affianca la parte.
La procura alle liti
L’incarico al difensore di rappresentare in giudizio la parte è conferito mediante la procura alle liti
(art.83).
La procura può essere generale se è conferita per una serie di indeterminata di liti, o speciale se
concerne una determinata lite.
Essa va conferita per iscritto mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, qualora si tratti
di procura speciale, essa può essere conferita oltre che nelle forme anzidette, in calce o a margine
degli atti introduttivi del giudizio; in tal caso il difensore deve attestare l’autografia della
sottoscrizione dell’assistito.
Nel 1997 si è poi chiarito che la procura speciale può essere rilasciata anche sul foglio separato,
purchè sia materialmente congiunto all’atto cui si riferisce, nel 2009 si è inoltre introdotta la
possibilità di conferire la procura mediante documento informatico sottoscritto con firma digitale e
congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici.
Nei processi di primo grado e di appello che iniziano con atto di citazione è possibile che la procura
al difensore sia rilasciata dopo la notificazione, purché prima della costituzione.
A norma dell’art.83 la procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del
processo, la parte può in ogni momento revocare la procura ed il difensore può rinunciarvi, ma gli
effetti non sono immediati, infatti la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell’altra
parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore.
L’efficacia della procura alle liti infine persiste anche dopo la morte della parte che l’ha rilasciata,
benché nei limiti del grado o della fase del processo nel corso del quale il decesso si è verificato.
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I poteri del difensore
I poteri conferiti con la procura sono definiti dalle legge: il difensore, ai sensi dell’art.84, può
compiere e ricevere, nell’interesse della parte stessa, tutti gli atti del processo che dalla legge non
sono ad essa espressamente riservati.
Se la generalità degli atti processuali può quindi essere posta in essere dal difensore vi sono però
atti che devono essere posti in essere dalla parte; vi sono poi atti che possono essere posti in
essere dal difensore, ma solo a seguito di conferimento di una procura ad hoc.
In ogni caso il difensore può compiere atti che importino disposizione del diritto in contesa, se non
ne ha ricevuto espressamente il potere.
Il difetto di rappresentanza tecnica
Il difetto di rappresentanza tecnica può manifestarsi secondo due modalità: può accadere che la
parte si difenda personalmente laddove sia invece prescritta la rappresentanza dell’avvocato, può
poi avvenire che sia stato dato mandato ad un avvocato ma il conferimento sia viziato.
L’atteggiamento formalistico della giurisprudenza era giunto a sanzionare con la nullità la procura
rilasciata in foglio separato rispetto all’atto introduttivo del giudizio.
Oggi il problema delle conseguenze del vizio della procura è regolato dal legislatore, la legge
69/2009 ha infatti aggiunto all’art.182 il riferimento alla procura equiparando il vizio della procura
ad litem al difetto di rappresentanza processuale con conseguente sanatoria ad efficacia retroattiva
è infatti previsto l’obbligo per il giudice di assegnare alle parti un termine perentorio per il rilascio
della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa.
Da un lato lo stesso art.182 prevede l’assegnazione di un termine non solo per la rinnovazione
dell’atto, ma anche per il rilascio della procura, rilascio che presuppone non il semplice vizio, ma la
mancanza dell’atto.
Dall’altro lato appare irragionevole non consentire di porre rimedio alla mancanza di un
presupposto che ha l’obiettivo di garantire la parte e non di privarla del diritto di agire davanti al
giudice.
Sezione III – Le spese
I costi del processo e la responsabilità per le spese
Il processo civile presenta dei costi, costi che il nostro ordinamento addossa in gran parte alla
collettività e in qualche misura ai protagonisti del processo.
Il processo è fonte di spese, che vanno dai compensi dovuti al difensore e ad altri soggetti che
collaborino con il giudice e con la parte, alle somme che devono a vario titolo essere versate allo
stato.
Chi deve farsi carico di queste spese? L’onere spetta a ciascuna parte che provvede alle spese
degli atti processuali che compie e di quelli che chiede (onere di anticipazione), l’onere di
anticipazione potrebbe precludere a taluni soggetti di accedere alla giustizia, la parte non abbiente
potrebbe infatti non disporre di risorse sufficienti a finanziare la propria domanda.
L’eliminazione di questo ostacolo è imposta dalle carte fondamentali dei diritti: così l’art.24 della
costituzione afferma infatti che sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per
agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
Le norme attuative del dettato costituzionale sono contenute nella citazione dpr n.115/2002 agli
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artt.74 ss che disegnano il patrocinio a spese dello stato per i soggetti che non oltrepassano
una data soglia di reddito annuo lordo.
In caso di amministrazione al patrocinio i tributi ed i diritti dovuti allo stato ed all’amministrazione
sono in genere prenotati a debito, mentre il compenso dovuto al difensore è anticipato dall’erario,
al termine del processo il giudice può infatti condannare una delle parti a rimborsare all’altra le
anticipazioni affrontate.
La condanna si fonda sulla possibilità di ascrivere l’inizio o la prosecuzione della lite alla condotta di
una parte o sulla riconducibilità causale delle spese all’operato di una parte, ragione per cui il
principio alla base della condanna è detto di causalità.
L’indice senza dubbio più significativo e sufficiente ad individuare la parte che va condannata al
rimborso è la soccombenza, l’art.91 afferma infatti che il giudice on la sentenza che chiude il
processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra
parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa.
Può accadere che nel processo siano presenti più di due parti e che vi siano più soccombenti, in tal
caso l’art.97 dispone la condanna di ciascuna parte alle spese ed ai danni, in proporzione del
rispettivo interesse nella causa.
La solidarietà può essere disposta solo quando alcune o tutte le parti hanno interesse comune.
L’art.91 parla di sentenza che chiude il processo davanti al giudice; il riferimento alla pronuncia di
una sentenza è indicativo, rappresentando la sentenza il più significativo e frequente dei
provvedimenti che definiscono il giudizio.
La condanna alle spese deve contendere la liquidazione del loro ammontare, il giudice non si
limita a recepire le richieste formulate dal vincitore, ma valuta quali costi siano stati o debbano
essere sostenuti e quale sia il loro ammontare ragionevole. Il primo controllo discende della
nazione stessa di rimborso: la funzione dell’istituto è quella di tenere la parte che ha ragione
indenne dal costo del processo, non di procurarne l’arricchimento.
Il secondo è invece imposto dall’art.92 a norma del quale il giudice esclude il rimborso delle spese
eccessive o superflue.
La condanna alle spese quantifica l’entità del rimborso dovuto da una parte all’altra, non è invece
vincolante nei rapporti interni tra la parte che ha diritto al rimborso ed il suo difensore; di regola la
condanna è pronunciata a favore di una delle parti, il rimborso non va pertanto corrisposto
direttamente all’avvocato che ha prestato la sua attività in causa, ma al suo assistito.
L’art.93 consente tuttavia al difensore di domandare la distrazione delle spese, nei limiti dei
compensi che si dichiara di non aver riscosso e delle somme che afferma di aver anticipato.
La compensazione delle spese
Il termine compensare presenta in questo contesto un significato differente rispetto a quello
impiegato nel diritto sostanziale, ove esso designa una modalità di estinzione delle obbligazioni
consistente nell’elisione di diritti contrapposti.
In relazione alle spese, il giudice compensa escludendo in tutto o in parte il diritto al rimborso delle
spese, così che compensazione è sinonimo di irripetibilità.
L’art.92 consente la compensazione in due ipotesi: quando vi è soccombenza reciproca, quando
sussistono gravi ed eccezionali ragioni da indicare esplicitamente nella motivazione.
A) La soccombenza reciproca sussiste quando nessuna delle parti è completamente vittoriosa,
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ad esempio l’attore ed il convenuto hanno proposto domande contrapposte.
Va tuttavia segnalato che la possibilità di classificare quest’ultima eventualità tra quelle che danno
luogo a soccombenza reciproca è discussa in giurisprudenza; secondo un orientamento infatti nel
caso in cui l’attore ha ottenuto meno di quanto domandato si ha soccombenza parziale.
La differenza non è puramente dogmatica: se vi è soccombenza reciproca il giudice può
condannare alle spese l’uno o l’altro contendente, oppure disporre la compensazione totale o
parziale.
B) La seconda ipotesi di compensazione è stata oggetto di molteplici modifiche, la stesura
originaria dell’art.92 faceva riferimento a “giusti motivi di compensazione” e non prevedeva un
obbligo di motivazione specifica.
Con un primo intervento, del 2005, il legislatore ha introdotto l’obbligo di motivare espressamente
l’adozione del provvedimento di compensazione; nel 2009 il riferimento ai giusti motivi è stato
infine sostituito con quello delle ragioni gravi ed eccezionali.
C) Un’ ulteriore ipotesi di compensazione delle spese è disciplinata al comma 3 dell’art.92 ove si
prevede che, se le parti si sono conciliate, le spese s’intendono compensate, salvo che sia stato
diversamente pattuito nel verbale di conciliazione.
La condanna alle spese della parte vincente
Accanto alle ipotesi di compensazione appena esaminate, vi sono anche casi nei quali la stessa
parte vittoriosa può essere condannata alle spese.
A) Una prima ipotesi, disciplinata all’art.92 è quella in cui la parte abbia volato il dovere di lealtà
e probità di cui all’art.88, le spese cagionate all’avversario in conseguenza di questo
comportamento illecito vanno poste a suo carico indipendentemente dall’esito della causa.
B) Una seconda ipotesi è delineata all’art.91 in un periodo introdotto dalla legge 69/2009
perseguendo il fine di incentivare la conciliazione tra le parti.
La norma afferma infatti che il giudice, se accoglie la domanda in misura non superiore
all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la
proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta,
salvo quanto disposto dal secondo comma dell’art.92.
La formulazione impiegata dal legislatore è complessa e appare non del tutto idonea a perseguire
efficacemente l’obiettivo di porre le spese del processo a carico della parte che ha coltivato la
causa quando sarebbe stato sufficiente accettare la proposta conciliativa per ottenere un’utilità pari
o superiore a quella che la sentenza ha ad essa accordato.
La norma, riconosce al giudice un significativo margine di discrezionalità: da un lato consente di
prescindere dal rifiuto della proposta se questo è avvenuto per un giustificato motivo e, dall’altro,
richiama il comma 2 dell’art.92 ove si enuncia la facoltà di compensare le spese in presenza di
ragioni gravi ed eccezionali.
Responsabilità aggravata: il risarcimento del danno
La condanna della parte al pagamento delle spese non consegue, di norma, alla commissione di un
illecito, bensì all’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente tutelato.
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In altri termini, nel processo vengono abitualmente risolte questioni controvertibili, un simile
esercizio del diritto di difesa è lecito e resta tale a prescindere dall’attribuzione del torto e della
ragione posta in essere con la sentenza.
Talvolta tuttavia accade che chi instaura o è chiamato in giudizio agisca ovvero si difensa pur
essendo consapevole di non avere ragione o pur potendo agevolmente comprendere, usando un
certo grado di diligenza, di essere nel torto. In questi casi la condotta della parte viene considerata
illecita.
L’art.96 prevede una responsabilità addizionale a carico della parte soccombente che ha agito o
resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ossia temerariamente; tra gli elementi costitutivi
della fattispecie non vi è dunque la semplice negligenza, sono invece necessari il dolo o la colpa
grave.
Se accerta la temerarietà, il giudice deve condannare la parte oltre che alle spese al risarcimento
dei danni, i danni cui fa riferimento la norma sono costituiti dai pregiudizi, anche di natura non
patrimoniale, patiti in conseguenza del processo: si pensi alle ripercussioni sulla relazione del
convenuto con la moglie causate da una infondata domanda di accertamento della paternità
proposta da un sedicente figlio naturale.
La condanna al risarcimento del danno è pronunciata solo in presenza di una domanda di parte, vi
sono poi ipotesi nelle quali il risarcimento del danno è dovuto in presenza della semplice colpa
lieve a causa della natura particolarmente invasiva dell’altrui sfera giuridica. L’art.96 assoggetta
infatti a responsabilità aggravata chi, senza la normale prudenza, ha eseguito un provvedimento
cautelare, trascritto una domanda giudiziale, iscritto un’ipoteca giudiziale o iniziato l’esecuzione
forzata, se viene in seguito accerta l’inesistenza del diritto tutelato.
La sanzione pecuniaria
L’istituto della responsabilità aggravata ha trovato negli anni scarsa applicazione, anche per la
difficoltà di provare l’esistenza della mala fede o della colpa e di quantificazione il danno, diverso
dalle spese legali, subito dalla parte.
Il legislatore ha quindi introdotto un nuovo comma all’art.96 in forza del quale “in ogni caso, il
giudice, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art.91, anche d’ufficio, può altresì condannare la
parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata”.
La possibilità di pronunciare la condanna in assenza di una specifica domanda e la menzione del
pagamento di una somma e non di un risarcimento evidenziano come l’istituto prescinda non solo
dalla prova dell’entità del danno patito dalla parte vittoriosa, ma dalla dimostrazione della sua
esistenza.
La lettera della disposizione tace circa l’elemento soggettivo, ma l’interpretazione prevalente tra gli
interpreti esclude che la sanzione possa essere comminata in presenza della mera soccombenza e
richiede la prova del dolo o della colpa grave ovvero, secondo un orientamento minoritario, anche
della colpa lieve.
Capitolo 7 – Il processo con pluralità di parti
Il processo litisconsortile
Sinora abbiamo parlato di parti, facendo riferimento all’attore e al convenuto, nel processo
possiamo avere più parti che agiscono e/o sono convenute.
Il processo con pluralità di parti viene chiamato processo litisconsortile, ossia giudizio nel quale la
lite è condivisa da più soggetti, possiamo così avere un litisconsorzio attivo (più attori), passivo
(più convenuti), e misto (più attori e più convenuti).
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Il litisconsorzio facoltativo
La pluralità di parti può essere facoltativa o necessaria, ai sensi dell’art.103 più parti possono agire
o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste
connessione per l’oggetto e per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione
dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni.
Pertanto, perché si possano trattare più cause, proposte da più parti ovvero nei confronti di più
parti, queste devono essere connesse fra loro.
Può anzitutto trattarsi di una connessione propria, quando le cause hanno in comune l’oggetto od
il titolo, possiamo immaginare che il processo sia instaurato da un solo socio, che abbia la
legittimazione a proporre l’azione, ovvero da più soci che chiedano tutti l’annullamento della
deliberazione per un determinato vizio.
In tal caso ci troviamo di fronte ad una pluralità di attori che propongono più cause davanti ad un
unico convenuto; le cause proposte sono diverse: ciascuna domanda, infatti, ha si il petitum
identico alle altre, ma la causa petendi è in parte differente.
La connessione può poi essere impropria quando le cause proposte hanno in comune qualche
questione la cui soluzione è necessaria per la decisione della lite, la presenza di più parti nel
medesimo processo può essere consentita per ragioni di convenienza: concentrando la pronuncia
su più questioni in un unico giudizio si ha infatti un risparmio di attività processuale e si assicura
l’armonia dei giudicati prevedendo contrasti tra decisioni.
Proprio perché il simultaneus processus risponde a ragioni di opportunità, il giudice può disporre,
nel corso della fase di istruzione della causa o in sede di decisione, la separazione delle cause
quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo.
Il litisconsorzio necessario
Accanto al litisconsorzio volontario, il legislatore prevede il litisconsorzio necessario.
L’art.102 impone ove la decisione non possa pronunciarsi che in confronto di più parti, che queste
debbono agire o essere convenute nello stesso processo.
La disposizione si limita infatti a dirci che il litisconsorzio è necessario quando la decisione deve
essere resa tra più parti, lasciando all’interprete il compito di accertare i casi in cui sussiste la
necessità di un coinvolgimento di più parti nello stesso processo.
Ciò che interessa è che gli effetti della sentenza possano dispiegarsi nei confronti dei litisconsorti
necessari, pertanto occorre che questi soggetti assumano la qualifica di parti processuali, ossia che
vengano regolarmente citati.
Ferma essendo l’insufficienza della mera comunanza di causa si tratta di vedere quando non si può
decidere se non in presenza di più parti.
Il litisconsorzio necessario sostanziale
In relazione a determinate fattispecie, il legislatore prevede espressamente che il processo si deve
svolgere tra più parti.
E’ il caso dell’art.784, intitolato “litisconsorzio necessario” per il quale le domande di divisione
ereditaria o lo scioglimento di qualsiasi altra comunione debbono proporsi in confronto di tutti gli
eredi o condomini.
Un altro esempio è rinvenibile nell’art.247 ove è imposta la partecipazione al giudizio del presunto
padre, della madre e del figlio.
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Parte, minoritaria, della dottrina, che vede alla base dell’istituto mere ragioni di opportunità, limita
la necessaria partecipazione al processo ai casi ove questa è imposta dalla legge; la maggioranza
degli autori e la giurisprudenza unanime non sono però d’accordo.
Punto di partenza dell’orientamento è l’osservazione dell’esistenza di rapporti giuridici che sono
plurisoggettivi con la precisazione che non tutti i rapporti che hanno questo carattere vedono il
necessario coinvolgimento nel processo di ogni titolare del rapporto.
Determinante è la nozione di utilità della sentenza: l’art.102 trova applicazione quando gli effetti
del provvedimento non possono prodursi se non per tutti i contitolari del rapporto giuridico.
Il litisconsorzio necessario processuale
Accanto alle ipotesi in cui la pluralità di parti è imposta dalla configurazione sostanziale del diritto,
plurisoggettivo, fatto valere, vi sono casi in cui la necessità del litisconsorzio è dovuta a ragioni
processuali.
Sono anzitutto le ipotesi, tassativamente fissate dal legislatore, in cui un rapporto giuridico viene
fatto valere in nome proprio da un soggetto che non ne è titolare, il cd. sostituto processuale.
Il tipico esempio è rappresentato dall’azione surrogatoria ex art.2900 cc, i problemi che si
pongono nei casi di sostituzione processuale sono, da un lato, quello di estendere l’efficacia della
sentenza anche nei confronti del vero titolare del diritto, il sostituto e, dall’altro lato, quello di
tutelare il suo diritto di difesa.
Garanzia del diritto di difesa che, appunto, impone che il sostituto sia parte necessaria del
processo, vi sono però due casi nei quali si a l’estensione del giudicato al sostituto che non è parte
necessaria: si tratta del successore a titolo particolare nel processo e del garantito che abbia
ottenuto di essere estromesso dal processo.
Vi sono, poi, delle ipotesi ove la necessaria partecipazione riguarda il soggetto titolare di un
rapporto giuridico diverso, ma strettamente connesso per la pregiudizialità dipendenza con quello
oggetto del giudizio ove l’obiettivo non è quello di garantire il diritto di difesa, ma piuttosto quello
di estendere l’efficacia dell’accertamento.
La disciplina del vizio
Qualora non tutti i litisconsorti necessari abbiano agito o siano stati convenuti in giudizio, il giudice
ha l’obbligo di ordinare l’integrazione del contraddittorio entro un termine perentorio da lui
stabilito.
L’onere di citare il litisconsorte pretermesso grava anzitutto sull’attore, ma non solo su di esso: può
provvedervi anche il convenuto, se ha interesse a che il giudice pronunci sul merito della domanda.
Se nessuna delle parti ottempera all’ordine del giudice e il contraddittorio non viene integrato nel
termine fissato, il processo non può proseguire e si determina la sua estinzione.
Può accadere che il giudice non si avveda della necessità del litisconsorzio e decida la causa a
contraddittorio non integro, la sentenza resa viene considerata inefficace, il vizio può essere
denunciato attraverso le impugnazioni e comporta la dichiarazione di nullità della sentenza.
La sentenza viene considerata inefficace sia nei confronti del litisconsorte necessario pretermesso
che delle parti del giudizio, e, parificata alla sentenza inesistente, possibile oggetto di un’azione
che ne accerti la nullità.
La conclusione, pacifica per le ipotesi di litisconsorzio sostanziale, non convince per i casi di
litisconsorzio necessario processuale, ove il dictum del giudice va invece ritenuto vincolante per le
parti del processo.
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Il litisconsorzio facoltativo unitario
La dottrina ha posto in luce come, ove tra le cause proposte dai litisconsorti facoltativi o contro di
loro vi sia una stretta connessione, si può avere il cd. litisconsorzio facoltativo unitario che
comprende le situazioni in cui, una volta che il processo venga instaurato tra più parti, deve poi
necessariamente proseguire tra quelle parti.
E’ il caso del procedimento di impugnazione delle deliberazioni assembleari delle società per
azioni, l’art.2377 cc legittima i soci assenti, dissenzienti od astenuti, purché titolari di una
partecipazione “significativa” ad impugnare la deliberazione dell’assemblea della società.
Se singoli soci possono impugnare la deliberazione tutte le impugnazioni relative alla medesima
deliberazione devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza.
Questo significa che il giudizio, che di per sé non si deve svolgere tra tutti i soci, è un giudizio
unitario, così che se vengono proposte più azioni di impugnazione queste vanno riunite e che unica
deve essere la trattazione, l’istruzione e la decisione della causa.
L’intervento
Il processo può iniziare con una pluralità di attori/convenuti ovvero può accadere che in un
processo con due parti faccia il suo ingresso un terzo.
L’intervento può essere volontario, quando il terzo decide spontaneamente di partecipare al
processo che si svolge tra altre parti, oppure coatto, quando il terzo viene chiamato dal giudice.
L’intervento volontario
Ai sensi dell’art.105 ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in
confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto dipendente dal titolo
dedotto nel processo medesimo.
Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio
interesse. All’interno del dettato della norma sono distinguibili tre categorie di intervento:
A) L’intervento principale: si ha quando il terzo, intervenendo nel processo, fa valere nei
confronti di tutte le parti un proprio diritto, autonomo ed incompatibile con quello vantato da
ciascuna di esse.
B) L’intervento litisconsortile: si ha quando il terzo, intervenendo nel processo, fa valere un
proprio diritto, relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo, nei confronti solo
di alcune delle parti processuali.
C) L’intervento adesivo: si ha quando il terzo interviene nel processo non per far valere un
proprio diritto, ma per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse.
Occorre chiedersi quale sia l’interesse che legittima l’intervento del terzo, premesso che deve
trattarsi di un interesse giuridicamente qualificato, e non di mero fatto, l’opinione prevalente lo
ravvisa nel legame di pregiudizialità-dipendenza tra il diritto oggetto del processo e quello vantato
dall’interveniente, e così, anzitutto, vi fa rientrare le ipotesi in cui il terzo è comunque soggetto alla
efficacia riflessa del giudicato reso tra le parti.
L’interveniente principale e quello litisconsortile dispongono dei medesimi poteri delle parti e
devono accettare il processo nello stato in cui si trova, ovvero non possono più compiere atti che
non sono più consentiti ad alcuna altra parte, limite quest’ultimo che non opera quando ad
intervenire è il litisconsorte necessario pretermesso.
La giurisprudenza tende ad escludere questo potere del terzo, dato che questi non è titolare del
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rapporto giuridico controverso, ma vanta una posizione giuridica dipendente.
L’intervento coatto
La partecipazione del terzo in un processo già pendente può avvenire, altre che volontariamente,
coattivamente, attraverso la chiamata in causa che consiste in una citazione rivolta ad un soggetto
terzo.
Essa può avvenire:
A) Su istanza di parte
Ai sensi dell’art.106, ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la
causa o dal quale pretende essere garantita.
La chiamata è quindi possibile quando vi è comunanza di causa tra l’originario attore o convenuto
e il terzo, la locuzione utilizzata dal legislatore è generica e viene interpretata estensivamente,
riconoscendo così l’ammissibilità della chiamata:
- del terzo titolare di un diritto che si pone in rapporto di alternatività/incompatibilità con quello
fatto valere nel processo;
- del terzo contitolare del rapporto giuridico oggetto del processo;
- del terzo titolare di un rapporto giuridico dipendente
L’art.106 menziona poi la chiamata in garanzia, sono le ipotesi in cui la parte originaria chiama
in causa il proprio garante, ossia il soggetto che è obbligato a tenerlo indenne delle conseguenze
negative che possano derivargli dall’eventuale soccombenza nel processo.
B) Per ordine del giudice
Ai sensi dell’art.107, il giudice, quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di
un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l’intervento.
Alla base di questo tipo di chiamata in causa troviamo quindi lo stesso presupposto, la comunanza
di causa, della chiamata su istanza di parte.
Il legislatore utilizza l’aggettivo “opportuno”: è quindi lasciata alla valutazione discrezionale del
giudice la scelta se chiamare il terzo, scelta che, si sottolinea, va compiuta con prudenza.
Se la chiamata su istanza di parte deve avvenire in limine litis quella ordinata dal giudice può
avvenire “in ogni momento”, le conseguenze della mancata ottemperanza all’ordine del giudice
sono differenti rispetto a quelle che abbiamo visto in relazione all’ordine di integrazione del
contraddittorio ex art.102.
Le differenti conseguenze sono giustificate dalla diversità del presupposto dell’ordine del giudice:
nei casi du cui all’art.102 la presenza del terzo nel processo è necessaria e prescinde da valutazioni
discrezionali da parte del giudice; nei casi di cui all’art.107 la presenza del terzo è invece
meramente opportuna e subordinata al ragionevole apprezzamento del giudice.
L’azione di classe
E’ osservazione comune che il processo civile tradizionale è inidoneo a trattare alcuni dei conflitti
propri della società contemporanea, originati da fenomeni di massa per quanto concerne la
produzione, la distribuzione e il consumo di beni e servizi.
E’ vero che più parti possono agire e/o essere convenute nel processo, tuttavia, il processo tra più
parti disegnato nel codice appare inadeguato a far valere i diritti che pertengono a collettività o
categorie di persone, come il diritto alla salvaguardia dell’ambiente, e i diritti individuali omogenei.
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Tutti i litisconsorti agiscono a tutela del proprio diritto e sono parti.
Una prima risposta è stata data nel nostro ordinamento in relazione a taluni diritti collettivi, in
particolare in materia di ambiente e di tutela dei consumatori, mediante il conferimento
all’associazione rappresentativa del potere di agire in giudizio per far valere il diritto collettivo.
Mancava nel nostro ordinamento uno strumento per far valere, in modo collettivo, una pluralità di
diritti individuali omogenei.
L’istituto è disciplinato nell’art.140bis del codice del consumo, il che significa che l’azione collettiva
non ha carattere generale, ma può essere utilizzata unicamente per far valere i diritti dei
consumatori.
Origine e profili sistematici
L’art.140bis è rubricato “azione di classe”, espressione che corrisponde alla locuzione inglese class
action, il che ci fa capire che il nostro legislatore nell’introdurre l’azione, ha avuto presente il
modello nord americano di azione collettiva.
L’istituto della class action si è sviluppato negli Stati Uniti intorno alla rule 23 per tutelare i diritti
che riguardano collettività di persone.
Il meccanismo dell’azione di classe consente ad un singolo soggetto di iniziare il processo e di
condurlo a nome di tutti gli altri possibili intervenienti, in qualità di rappresentante della classe,
uno dei consumatori che hanno subito il danno può iniziare il processo e portarlo avanti in qualità
di danneggiato, facendo valere non solo il diritto proprio, ma anche i diritti degli altri appartenenti
alla classe. L’azione di classe si è rivelata un importante strumento di tutela dei diritti dei cittadini
americani, tanto che negli ultimi anni quasi tutti gli ordinamenti hanno discusso circa l’opportunità
di introdurre un’azione di questo tipo.
Profilo essenziale dell’azione collettiva è quello dell’efficacia della decisione presa dal giudice
rispetto ai componenti della classe, gli effetti della sentenza si estendono automaticamente a tutti
coloro che fanno parte della classe, così come è stata identificata e certificata dal giudice a meno
che questi soggetti scelgano di non parteciparvi.
Accanto a questo schema vi l’opt-in, per il quale, affinchè si estendano gli effetti della sentenza, è
necessario che il componente della classe abbia manifestato la propria adesione all’azione.
Altro profilo essenziale è quello relativo alla legittimazione a proporre l’azione, se l’azione collettiva
nord americana si caratterizza per il riconoscimento della legittimazione a uno dei componenti la
classe, altri schemi riconoscono la legittimazione a proporre la domanda ad enti pubblici o privato
in qualità di rappresentanti la classe.
Il modello italiano
Il modello adottato dal legislatore italiano è contenuto nei 15 commi dell’art.140bis del codice del
consumo (dlgs 206/2005).
Quanto all’efficacia soggettiva della pronuncia, il sistema adottato è quello secondo il quale la
sentenza dispiega i suoi effetti solo nei confronti dei consumatori che hanno espressamente
aderito all’azione di classe.
Quanto alla legittimazione ad agire, se nella prima versione della disposizione si era scelto di
riconoscere il potere di proporre l’azione non al singolo componente della classe, ma all’ente
esponenziale, ossia all’associazione dei consumatori o a comitati costituiti ad hoc, secondo la
formulazione definitiva, può essere ciascun componente della classe.
I diritti che possono essere tutelati attraverso l’azione sono i diritti individuali omogenei dei
consumatori e degli utenti, al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità e la condanna al
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risarcimento del danno e alle restituzioni.
In tema di competenza, se ne sancisce la concentrazione nel tribunale del capoluogo della
regione in cui ha sede l’impresa che tratta la causa in composizione collegiale, i consumatori e gli
utenti che intendono avvalersi della tutela offerta dall’azione di classe devono esprimere la loro
adesione, atto che può essere compiuto personalmente senza un difensore e che comporta
rinuncia a ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo.
E’ espressamente escluso (comma 10) l’intervento volontario, il procedimento contempla un
preliminare vaglio di ammissibilità della domanda, all’esito della prima udienza, il tribunale dichiara
inammissibile la domanda con ordinanza se la ritiene manifestamente infondata.
Con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale fissa invece i termini e le modalità della più
opportuna pubblicità, con la stessa ordinanza il tribunale:
- definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio
- fissa il già citato termine perentorio entro il quale vanno depositati gli atti di adesione
Nel provvedimento con cui ammette l’azione il tribunale determina altresì il corso della procedura
assicurando l’equa, efficace e sollecita gestione del processo.
Se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida le somme
definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo
per la liquidazione di dette somme.
Una nuova forma di litisconsorzio?
Fermo restando che l’azione può essere promossa da più titolare di diritti omogenei, occorre
chiedersi come vadano qualificati i consumatori che aderiscono all’azione e coma possa essere
inquadrato il rapporto tra questi e l’attore collettivo.
Del rapporto tra attore collettivo ed aderenti, esso non pare inquadrabile nello schema della
rappresentanza, quanto piuttosto in quello della sostituzione processuale.
L’estromissione
Con l’intervento si ha l’ingresso nel processo di un soggetto che ne era estraneo, con
l’estromissione si ha l’opposto fenomeno, che presuppone la presenza di più parti, dell’uscita dal
processo di una delle parti, a causa del venir meno della ragione del suo stare in giudizio.
Nel codice di procedura civile troviamo menzionate ipotesi particolari:
- estromissione del garantito: secondo l’art.108 ove il garante compaia ed accetti di assumere
la causa in luogo del garantito, quest’ultimo può chiedere di essere estromesso dal processo;
l’art.108 prevede espressamente che la sentenza di merito pronunciata nel giudizio produce i suoi
effetti anche contro l’estromesso.
- estromissione dell’obbligato: ai sensi dell’art.109, se si contende a quale di più parti spetta
una prestazione e l’obbligato si dichiara pronto a eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice
può ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta ed estromettere l’obbligato dal processo.
In questo caso il legislatore non chiarisce se la sentenza produca i suoi effetti anche nei confronti
dell’estromesso e sul punto non vi è uniformità di vedute in dottrina.
La successione universale del processo
Chi è parte del processo rimane tale durante tutto il suo svolgimento.
Può però accadere che la parte venga meno per morte o per altra causa, in tal caso ci dice
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l’art.110 “il processo è proseguito dal successore universale in suo confronto”, il successore
universale subentra anche nella posizione processuale eventualmente in atto al momento della
morte.
Successione nel processo può aversi anche quando viene meno il titolare di un diritto
intrasmissibile, al fine di addivenire a una pronuncia di chiusura della lite, per cessazione della
materia del contendere, e alla definizione delle spese del giudizio.
Se l’evento morte concerne la persona fisica, l’altra causa menzionata dall’art.110 attiene agli enti
e alle persone giuridiche; problematica in particolare è l’individuazione delle vicende che danno
luogo a successione universale per quanto concerne la società.
Successione a titolo particolare
Nel corso del processo può poi accadere che venga trasferito, per atto tra vivi o mortis causa, il
diritto oggetto del processo.
L’art.111 ci dice che se il diritto controverso è trasferito a titolo particolare per atto tra vivi il
processo prosegue tre le parti originarie, si verifica dunque un fenomeno di sostituzione
processuale: il processo prosegue nei confronti di un soggetto che non è più titolare del diritto
controverso.
D’altro canto, se il legislatore avesse disposto che al trasferimento inter vivos del diritto sostanziale
conseguisse la successione nel processo, si sarebbe presentato l’inconveniente di mettere ciascuna
delle parti in condizione di poter costringere l’altra a subire il continuo cambiamento del suo
contraddittore.
Ove la trasmissione del diritto controverso invece avvenga mortis causa, il processo è proseguito
dal successore universale o in suo confronto.
L’acquirente e il legatario possono intervenire o essere chiamati nel giudizio e, se le altre parti vi
consentono, l’alienante o il successore universale possono allora essere estromessi.
La sentenza pronunciata contro l’alienante o il successore a titolo universale spiega sempre i suoi
effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui.
L’ultima parte dell’ultimo comma dell’art.111 “fa salve le norme sull’acquisto in buona fede dei
mobili e sulla trascrizione”, la locuzione fa anzitutto riferimento al terzo che ha acquistato un bene
mobile in buona fede, non sapendo che fosse oggetto di un giudizio, ottenendone il possesso.
Se oggetto del processo è invece un diritto su un bene immobile, la sentenza produce i suoi effetti
nei confronti dell’acquirente, salvo che questi abbia trascritto il proprio atto d’acquisto prima della
trascrizione della domanda giudiziale o della sentenza.
Parte IV – Gli atti del processo
Capitolo 8 - Forme e tipi
La nozione di atto processuale civile e il principio di libertà delle forme
Dal punto di vista dinamico, il processo civile si presenta come una serie di atti posti in essere da
soggetti privati e pubblici, il giudice e i suoi ausiliari.
Ciascuno degli atti è legato agli altri così da essere la conseguenza dell’atto che lo precede e il
presupposto di quello che lo segue.
Il processo è infatti un procedimento: i singoli atti sono collegati tra loro in vista di un atto finale
dal quale discendono gli effetti giuridici del procedimento stesso, il singolo atto non ha pertanto
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autonomia funzionale ma rappresenta unicamente il presupposto affinché il processo possa
validamente avanzare verso la sua metà finale.
La nozione di atto processuale abbraccia quindi tutti gli atti che si inseriscono nella sequenza
procedimentale determinando effetti nel processo, certo, si deve trattare di un atto del processo
civile che deve essere iniziato.
Si tende poi a negare la qualifica dell’atto che, estraneo al processo, produce su di questo un
qualche effetto mentre si propende a riconoscere tale qualifica all’atto che si è inserito nel
processo, ma produce effetti sul piano sostanziale. Il primo articolo della prima sezione enuncia il
principio cardine del sistema, ossia il principio di libertà di forme inteso come strumentalità
della forma rispetto allo scopo dell’atto.
A norma dell’art.121 infatti gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme
determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo,
con forma si indicano le modalità esterne di manifestazione dell’atto, ma comprende pure il suo
contenuto, ossia gli elementi che il legislatore impone affinchè un certo atto possa essere
ricondotto a un tipo specifico.
Quanto poi al principio di libertà delle forme, la sua portata pratica è modesta, ma il suo significato
sta nell’enunciare che le forme sono non fini a sé stesse, ma strumenti rispetto allo scopo che
l’ordinamento vuole che l’atto raggiunga.
Lo scopo si identifica con la funzione obiettiva e legale dell’atto e prescinde dalle finalità soggettive
concrete di chi lo pone in essere, esigenze di certezza e di tutela delle parti fanno si che l’elemento
della volontà del soggetto agente sia di regola ininfluente, il che non esclude che in relazione a
determinati atti l’intenzione possa invece giocare un ruolo.
Tra le disposizioni dettate in generale dalla sezione I del capo I si segnalano ancora l’art.122 che
impone l’uso in tutto il processo della lingua italiana e l’art.126 che detta il contenuto del processo
verbale. Il processo verbale è l’atto che documenta le attività compiute dal giudice e dai suoi
ausiliari ovvero quelle che sono poste in essere alla loro presenza.
Regole specifiche sono poi poste per le udienze, ossia quei momenti del processo dedicati alla
trattazione della causa, che vedono le parti comparire di fronte al giudice.
Atti delle parti e atti del giudice
All’interno della categoria “atto processuale”, è fondamentale la distinzione imperniata sulla
provenienza dell’atto, tra atti delle parti e atti del giudice, distinzione evocata pure dalla rubrica del
capo primo del titolo sesto “delle forme degli atti e dei provvedimenti”.
Al contenuto di alcuni dei più importanti atti scritti di parte è dedicato il già menzionato art.125, da
un lato i requisiti dei singoli atti sono determinati con maggiore compiutezza dalle disposizioni che
ne dettano il modello normativo e dall’altro lato l’articolo talvolta impone requisiti non richiesti poi
dalla disciplina normativa del modello specifico.
Di indubbio significato è invece la previsione dell’obbligo di sottoscrizione dell’atto ad opera della
parte che si difende personalmente ovvero del suo difensore, quanto invece agli atti del giudice,
l’art.131 si occupa della forma dei provvedimenti, rinviando alle prescrizioni della legge circa la
pronuncia della sentenza, dell’ordinanza ovvero del decreto e disponendo, ove la legge taccia, la
libertà di scegliere qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo dell’atto.
Premesso che il legislatore di solito prescrive il tipo di provvedimento che deve essere adottato, si
pone il problema di stabilire s eil giudice sia libero di creare un modello nuovo di provvedimento o
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debba invece rifarsi a uno dei tre moduli disegnati dall’art.131.
Se il modello di provvedimento è imposto dal legislatore e invece il giudice sbaglia e sceglie un
diverso modello? La questione, vivamente discussa in dottrina, viene in genere risolta dalla
giurisprudenza sulla base del criterio della prevalenza della sostanza sulla forma.
Altrettanto consolidato è peraltro il principio che qualifica come inesistente l’ordinanza collegiale
con sostanza di sentenza sottoscritta dal solo presidente.
Sentenza, ordinanza e decreto
Vediamo meglio i tre tipi di provvedimento delineati dal legislatore:
- la sentenza è il provvedimento di natura decisoria con cui il giudice si pronuncia, definendo o
meno il giudizio, sulle domande ed eccezioni proposte delle parti o su qualsiasi altra questione
emersa nel corso del processo.
Dal punto di vista della forma si può dire che dei tre tipi la sentenza rappresenta l’atto più
complesso, essa deve infatti contenere (art.132):
- l’indicazione del giudice che l’ha pronunciata
- l’indicazione delle parti e dei loro difensori
- le conclusioni del pubblico ministero e delle parti
- la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto delle decisioni
- il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice
La sentenza è pronunciata “in nome del popolo italiano” e reca l’intestazione: “Repubblica italiana”,
per quanto riguarda la motivazione essa consente alle parti di censurare il provvedimento
attraverso la sua impugnazione e poi alla collettività di controllare lo svolgimento dell’attività
giurisdizionale.
Un particolare rilievo poi assume il requisito della sottoscrizione, la sentenza del giudice
monocratico deve, ovviamente, da questi essere firmata. Quella emessa dal giudice collegiale
invece deve essere sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore.
Ci si deve porre il problema di individuare il momento in cui il provvedimento emesso dal giudice
acquista efficacia, secondo il modello originario del codice, la modalità di redazione della sentenza
era sempre caratterizzata dalla scissione tra la decisione in camera di consiglio e la successiva
redazione della motivazione e della sentenza da parte del giudice estensore.
Ai sensi dell’art.133 la sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che
l’ha pronunciata, il cancelliere da atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la
firma, ed entro 5 giorni, ne da notizia alle parti che si sono costituite.
A tale modalità, tradizionale, di pronuncia della sentenza la riforma del 1990 ne ha affiancato
un’altra, partendo dalla considerazione che una delle cause dei temi lunghi del processo è spesso
data dal lungo intervallo di tempo che corre tra la fine della fase decisoria e l’effettivo deposito
della sentenza in cancelleria, è stata introdotta una nuova modalità di pronuncia: la lettura della
sentenza in udienza, a seguito di trattazione orale della causa.
La scelta di tale modalità spetta al giudice, il problema dell’identificazione dell’atto sentenza nel
caso di lettura orale è risolto con la raccolta del testo della sentenza nel processo verbale
dell’udienza. Una via intermedia tra la modalità tradizionale è rappresentata dalla possibilità per il
giudice di legge in udienza il dispositivo, con l’immediata produzione di determinati effetti, cui poi
segue il deposito in cancelleria della sentenza completa della motivazione.
Il modello di pronuncia orale della sentenza è un modello che, inizialmente introdotto per il giudizio
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monocratico di primo grado a cognizione del legislatore.
Il nostro ordinamento conosce più forme di sentenza, la sentenza può infatti essere definitiva
ovvero non definitiva.
Definitiva è la sentenza che chiude il processo davanti al giudice, non definitiva è la sentenza con
la quale si statuisce su una questione pregiudiziale di rito o di merito ovvero si decide su una delle
domande cumulativamente proposte o ancora si pronuncia la condanna generica sull’an della
prestazione con la prosecuzione del processo per la determinazione del quantum.
Un’ulteriore distinzione da considerare è quella tra le sentenze di merito e le sentenze di rito,
a seconda che esse statuiscano sull’oggetto della causa ovvero sulle condizioni dell’azione o sui
presupposti processuali.
L’ordinanza è il provvedimento emanato dal giudice nel corso del processo, volto a regolarne lo
svolgimento e privo di valenza decisoria.
Con la riforma del 1990 il volto dell’ordinanza ha iniziato a mutare: sono infatti state introdotte le
cd. ordinanze anticipatorie di condanna, provvedimenti che possono essere emanati nel corso del
processo ordinario di cognizione e che hanno carattere di decisione nel merito della causa.
Il favore legislativo nei confronti dell’ordinanza si spiega con la maggiore snellezza delle sue forme,
essa è succintamente motivata, l’ordinanza è sempre revocabile e modificabile, con le eccezioni
indicate dall’art.177 da parte del giudice che l’ha resa.
Il decreto è il tipo di provvedimento più semplice: solitamente reso quando non vi è
contraddittorio tra le parti, è steso in calce alle domanda sulla quale viene a pronunciarsi, privo di
motivazione è datato e sottoscritto dal giudice che l’ha reso.
Di natura ordinatoria nel processo ordinario di cognizione, può invece assumere una funzione
decisoria nei procedimenti speciali.
Notificazioni e comunicazioni
La notificazione è un’attività che rientra tra i compiti dell’ufficiale giudiziario ed è effettuata su
istanza di parte.
Essa consiste nel portare alla conoscenza del destinatario un determinato atto mediante la
consegna di una copia conforme all’originale.
Al compimento di queste attività formali, il legislatore fa conseguire una presunzione legale di
conoscenza dell’atto, la comunicazione è invece attività con la quale il cancelliere porta a
conoscenza delle parti e degli altri soggetti coinvolti nel processo determinati fatti o atti allo stesso
relativi.
La differenza tra la comunicazione e la notificazione sta nel soggetto che pone in essere il
procedimento: nel primo caso è il cancelliere, nel secondo è l’ufficiale giudiziario. Con la
notificazione si ha una conoscenza integrale dell’atto perché viene consegnata una copia conforme
in tutto e per tutto all’originale; con la comunicazione si ha soltanto la conoscenza circa l’esistenza
dell’atto.
La comunicazione avviene, di norma, con biglietto di cancelleria, il biglietto è consegnato dal
cancelliere al destinatario direttamente oppure avvalendosi dell’ufficiale giudiziario; la
giurisprudenza comunque ammette che la comunicazione possa essere eseguita anche in forme
diverse da quelle prescritte, purché idonee a garantire la conoscenza dell’atto.
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La notificazione: modalità di svolgimento
Più complessa è la disciplina dettata circa le modalità di svolgimento della notificazione.
La garanzia totale della ricezione dell’atto dal destinatario è data dalla consegna diretta: essa,
infatti, è il primo dei modi previsti dal legislatore.
Ai sensi dell’art.138, l’ufficiale giudiziario esegue la notificazione mediante consegna del
destinatario di copia conforme all’originale dell’atto da notificarsi, la consegna diretta può avvenire
presso la casa di abitazione del destinatario oppure ovunque si trovi.
Qualora la consegna diretta dell’atto non sia possibile, l’ufficiale giudiziario consegna la copia
dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa all’ufficio o all’azienda, purché non minore di
14 anni o palesemente incapace.
Qualora questi soggetti manchino o si rifiutino di accettare la consegna, entra in gioco la disciplina
dettata dall’art.140, mentre il successivo art.143 regola l’ipotesi della notificazione a persona di
residenza, dimora e domicilio sconosciuti.
Non è detto però che l’attività di notificazione veda quale unico protagonista l’ufficiale giudiziario,
se non è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può infatti eseguirsi a mezzo del
servizio postale. Il nuovo art.149bis prevede poi la possibilità che la notificazione sia posta in
essere in via elettronica, l’art.150 prevede una forma particolare di notificazione, quella per
pubblici proclami: quando la notificazione nei modi ordinari è sommamente difficile per il
rilevante numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti.
Il legislatore con una norma di chiusura prevede che il giudice, anche d’ufficio, disponga
l’esecuzione della notificazione in modo diverso da quello stabilito dalla legge, anche mediante
telegramma, quando lo consigliano circostanze particolari o esigenze di maggiore celerità; la
notificazione è atto dell’ufficiale giudiziario.
Nel 1994 con l’obiettivo di velocizzare e semplificare l’attività, è stata introdotta, con la legge n.53
la possibilità che alla notificazione provvedano gli avvocati preventivamente autorizzati dal
consiglio dell’ordine.
Il momento nel quale la notificazione può dirsi avvenuta
La notificazione è un attività che può essere complessa e coinvolgere più soggetti e i cui tempi
effettivi non sono esattamente prevedibili né controllabili dal soggetto che la richiede.
Quando il richiedente consegna l’atto all’ufficiale giudiziario ovvero quando la copia viene
consegnata al destinatario? La risposta non è di poco momento in quanto da un lato la
notificazione dell’atto è talora imposta dal legislatore a pena di decadenza e dall’altro lato dalla
notificazione dell’atto possono iniziare a loro volta a decorrere dei termini per il destinatario.
Sulla questione è intervenuta più volte la corte costituzionale e, poi, anche il legislatore, la
notificazione viene a perfezionarsi poi in due momenti diversi: per il notificante al momento della
consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, per il destinatario nel momento in cui lo stesso ha legale
conoscenza dell’atto.
Nullità della notificazione
Ai sensi dell’art.160 la notificazione è nulla se non sono osservate le disposizioni circa la persona
alla quale deve essere consegnata la copia o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta
o sulla data.
La nullità della notificazione dell’atto di citazione, se non viene sanata, si riverbera sull’intero primo
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grado da parte del giudice d’appello.
La notificazione all’estero
Oggi è sempre più frequente la necessità di notificare atti del processo a soggetti che si trovano
all’estero.
Il codice di rito a riguardo dispone che la notificazione anzitutto avvenga seguendo quanto previsto
dalle convenzioni internazionali e dagli artt.30 e 75 del dpr 200/1967, e secondo la complessa
doppia formalità di cui al comma 1.
Tra le convenzioni internazionali assume particolare rilievo la convenzione dell’Aja del 1965, circa
le notificazioni a destinatari che risiedono in uno degli stati membri dell’UE vige un apposito
strumento, il regolamento n.1393/2007 che prevede che ogni stato preponga degli organi con la
specifica funzione di curare le incombenze relative alla trasmissione e alla ricezione degli atti da
notificare nello spazio giuridico europeo.
Processo civile e nuove tecnologie
La necessità di rendere più difficile e rapido il processo civile ha spinto il legislatore a prevedere un
impiego sempre più cospicuo delle nuove tecnologie in ambito giudiziario.
Si è anzitutto favorita una capillare diffusione del servizio di posta elettronica certificata (PEC),
gli avvocati sono tenuti a munirsi di una casella di posta certificata e ad indicare questo recapito
all’ordine di appartenenza.
La casella di posta certificata può essere utilizzata, oltre che per l’invio di corrispondenza con prova
di avvenuta consegna, per la notificazione di atti processuali, l’art.149bis cpc dispone che se non
è fatto espresso divieto dalla legge, la notificazione può eseguirsi a mezzo PEC anche previa
estrazione di una copia informatica del documento cartaceo.
Un analoga previsione è contenuta, per le comunicazioni all’art.136 cpc, la norma consente di
effettuare la comunicazione con altri mezzi solo se non è possibile procedere mediante PEC.
Una seconda linea di intervento ha riguardato la diffusione del processo civile telematico,
s’intende l’impiego nel processo di tecnologie informatiche e telematiche, basate anzitutto su posta
certificata e dispositivi di firma digitale. L’avvocato può così conoscere lo stato di un processo nel
quale assiste una delle parti, consultare i provvedimenti adottati dal giudice o un loro estratto,
esaminare atti e documenti delle altre parti se depositati in formato elettronico.
L’avvocato può inoltre depositare gli atti del processo in formato elettronico, una facoltà che
diverrà obbligo a partire dalla metà del 2014, il cancelliere effettua le comunicazioni dirette alle
parti o agli ausiliari del giudice in maniera automatizzata.
Le parti possono inoltre effettuare per via telematica il pagamento di alcune spese di giustizia da
loro dovute.
I termini
Il termine processuale è il periodo di tempo che la legge prevede per il valido compimento di un
atto nel processo.
La tendenza del nostro legislatore è quella di scandire lo svolgersi del processo e di fissare termini,
anche a decadenza, entro i quali possono essere poste in essere determinate attività o decorsi i
quali l’attività non può più essere posta in essere.
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I termini si distinguono in due categorie:
- termini dilatori: fissano il momento prima del quale un atto non può essere compiuto
- termini acceleratori: indicano il momento entro il quale un atto può o deve essere compiuto
I termini si possono ancora suddividere in:
- termini legali: espressamente previsti dalla legge
- termini giudiziali: stabiliti dal giudice
Ed ancora i termini acceleratori possono essere:
- termini ordinatori: sono diretti a regolare l’attività processuale in vista del normale andamento
del processo e sono prorogabili
- termini perentori: impongono di compiere l’atto entro un determinato termine, a pena di
decadenza dal potere di porre in essere l’atto od esercitare quel potere processuale
Stando alla lettera della legge, entrambi i tipi di termine sembrerebbero fissare un lasso di tempo
oltre il quale l’atto non può più essere posto in essere, con l’unica differenza che i termini
ordinatori sarebbero abbreviabili o prorogabili dal giudice, sia d’ufficio che su istanza di parte.
in realtà questo non è affatto pacifico, parte della dottrina e gran parte della giurisprudenza
ritengono infatti che lo scadere del solo termine perentorio comporta la decadenza dal potere di
porre in essere l’atto o l’attività processuale, mentre la scadenza di quello ordinatorio non può, di
per sé, comportare decadenza alcuna.
L’istituto della remissione in termini
Il sistema originariamente disegnato dal legislatore non contemplava come rimedio generale la
possibilità che alla parte, una volta spirato il termine di decadenza, possa essere ridata la facoltà di
porre in essere l’attività ormai preclusa.
Una prima estensione della possibilità di rimessione in termini si è avuta con la riforma del 1900
che, all’art.184bis, aveva previsto che la parte che si dimostra di essere incorsa in decadenze per
causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini.
La legge 69/2009 ha abrogato la norma e ne ha trasfuso il contenuto nel comma 2 dell’art.153,
all’interno della disciplina delle disposizioni generali, rendendo così la rimessione in termini istituto
di carattere generale, applicabile anche alle decadenze esterne alla trattazione della causa.
L’art.153 ci dice che il giudice provvede sull’istanza ai sensi dell’art.294, ossia della norma sopra
menzionata che tutela la posizione del contumace involontario: pertanto, il giudice cui la parte ha
chiesto di essere rimessa in termini ammette la prova dell’inadempimento e quindi provvede con
ordinanza sull’istanza.
Il problema interpretativo principale è costituito dalla determinazione e dai confini della nozione di
“causa non imputabile”, per causa non imputabile s’intende quella dovuta a ragioni di forza
maggiore o all’inadeguatezza del termine. La non imputabilità deve poi presentare carattere di
assolutezza.
La sospensione feriale dei termini
Il decorso dei termini processuali è sospeso di diritto dal 1 agosto al 15 settembre di ciascun anno,
e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione.
Vi sono tuttavia causa ritenute urgenti, in relazione alle quali non si applica la sospensione feriale
dei termini, quali ad esempio le cause di lavoro, i procedimenti cautelari e le cause di opposizione
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all’esecuzione.
Capitolo 9 – L’invalidità dell’atto processuale
L’invalidità dell’atto nel processo civile
Il codice di rito conosce un’unica forma di invalidità, la nullità.
L’espressione nullità viene usata dal legislatore processuale in un significato assai diverso da quello
utilizzato in campo civilistico.
Nell’ordinamento privatistico la nullità impedisce la produzione degli effetti giuridici tipici dell’atto,
nel processo la nullità dell’atto non esclude gli effetti consecutivi nella serie del procedimento:
l’atto produce il suo effetto giuridico tipico, ossia la situazione di obbligo o di onere a porre in
essere l’atto successivo della serie così da giungere alla decisione, di merito o di rito, da parte del
giudice.
Il processo si svolge quindi sino alla pronuncia finale, che basta a se stessa ovvero, se si vuole
inquadrare il fenomeno in uno schema concettuale, è idonea a porsi quale fattispecie esclusiva dei
propri effetti.
All’affermazione che vede l’invalidità identificata con la sola nullità si potrebbe obiettare che il
legislatore prevede altre specie come l’inammissibilità e la decadenza, quanto a quest’ultima
categoria si osserva che la decadenza non consiste in una imperfezione dell’atto: essa si verifica
proprio a causa del mancato compimento dell’atto. Si pone il problema di qualificare il vizio dal
quale l’atto è affetto, ma secondo la dottrina una risposta generale non è possibile, essendo
necessaria una indagine caso per caso.
L’inammissibilità è invece figura dai contorni imprecisi, non è oggetto di trattazione sistematica
da parte del legislatore che si limita a prevedere la sanzione in norme diverse, relativa ai mezzi di
impugnazione.
La stessa terminologia appare incerta: accanto alla inammissibilità è infatti prevista
l’improcedibilità con conseguenze in linea generale identiche.
Circa la giurisprudenza è da segnalare la posizione espressa dalle sezioni unite della corte di
Cassazione nel 2000: l’inammissibilità sarebbe vizio, non limitato alle ipotesi indicate dal legislatore
e proprio dell’atto di impugnazione, che va ricondotto alla generale categoria della nullità senza
peraltro essere soggetto agli strumenti di sanatoria di cui all’art.164.
Quando l’atto processuale è nullo
Il comma 1 dell’art.156 stabilisce il principio di tassatività della nullità: non si ha nullità per
inosservanza di forme se questa non è comminata da un’esplicita e testuale previsione legislativa.
Il principio è peraltro subito smentito al comma 2, che invece prevede la possibilità per il giudice di
pronunciare comunque la nullità ove l’atto sia privo dei requisiti formali indispensabili per il
raggiungimento dello scopo.
Ritorna la nozione di scopo, fulcro del principio di libertà di forme di cui all’art.121 che va inteso
come funzione obiettiva e astratta dell’atto e non come obiettivo soggettivo e concreto del
soggetto che lo pone in essere. Una sentenza priva di motivazione è nulla, il requisito infatti è
indispensabile affinchè le parti possano impugnare la sentenza e la collettività verificare lo
svolgimento dell’attività giurisdizionale.
Il comma 3 infine afferma che se l’atto, pur privo del requisito indispensabile, ha raggiunto lo
scopo cui è destinato, allora la nullità non può essere pronunciata.
La regola, prima facie, assurda si comprende differenziando tra valutazione astratta o a priori
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dell’atto e sua valutazione invece concreta o a posteriori.
Si ha quindi la sanatoria per il raggiungimento dello scopo quando vi è un evento che fa si che si
consegua il risultato che il legislatore pensava di raggiungere prescrivendo un determinato modello
dell’atto.
L’art.156 parla di requisiti formali, il termine forma viene inteso, in questa materia, in senso ampio,
ossia come comprensivo non solo delle modalità esterne di manifestazione, ma pure dei requisiti di
contenuto dell’atto.
Nullità relative e nullità assolute
All’interno della categoria nullità la dottrina distingue tra nullità assolute e nullità relative.
La distinzione trova il suo fondamento nel comma 1 dell’art.157, la regola è costituita dalla
pronuncia su istanza di parte, mentre il rilievo d’ufficio è limitato alle ipotesi espressamente
indicate dal legislatore, nel primo caso si parla di nullità relative, nel secondo di nullità assolute.
Si è osservato come la classificazione nullità assoluta/nullità relativa sia riduttiva, troviamo infatti
disciplinata dal legislatore una categoria ulteriore: la nullità che è stata chiamata trasformabile.
La nullità del primo tipo, cd. relative, sono sanabili, infatti posto che l’istanza con cui la parte deve
far valere la nullità è un’eccezione processuale in senso proprio, la proposizione oltre il termine di
tale rilievo avrà come conseguenza la decadenza dal potere di eccepire la nullità e la sua sanatoria.
La parte che può proporre l’eccezione di nullità è solo quella nel cui interesse è stabilito il requisito.
L’eccezione deve inoltre essere proposta tempestivamente, nella prima istanza o difesa successiva
al compimento dell’atto viziato o alla notizia di esso, non è però necessario che la parte abbia
subito un pregiudizio a causa del vizio.
La nullità non piò essere opposta da chi l’ha causata né da chi vi abbia rinunciato, le nullità del
secondo tipo, cd assolute, sono invece rilevabili d’ufficio ed insanabili.
Consideriamo l’art.158 “nullità derivante dalla costituzione del giudice”: la relativa imperfezione
viene qualificata come rilevabile d’ufficio e insanabile, si pone anzitutto il problema di stabilire
quando si ha un vizio relativo alla costituzione del giudice, una definizione manca nel codice di rito
civile, mentre la troviamo nel codice di procedura penale all’art.178, ove viene sanzionata con la
nullità l’inosservanza delle disposizioni concernenti la nomina e le altre condizioni di capacità del
giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi giudicanti.
L’operatività dell’art.158 viene invece espressamente esclusa dal legislatore circa la mancata
osservanza delle disposizioni che ripartiscono le cause di competenza del tribunale in cause decise
dal giudice monocratico e cause invece decise dal collegio.
Come va inteso l’aggettivo insanabile di cui all’art.158? L’aggettivo indica che non si ha sanatoria
della nullità, quantomeno nel riguardo di giudizio nel quali si è verificata, quindi pacificamente si
ritiene che non sia applicabile, per questo tipo di nullità il comma 3 dell’art.156.
Il vizio non può pertanto essere fatto valere una volta che non siano più proponibili i mezzi ordinari
di impugnazione, aperto è il problema se il rilievo d’ufficio sia possibile pure nel giudizio di
impugnazione, ossia se sia sufficiente proporre il gravame.
Controverse sono le conseguenze del rilievo del vizio in appello, vale a dire se vada dichiarata la
nullità dell’intero giudizio o rimessa la causa al giudice di primo grado o ancora emessa una
sentenza di merito.
Pure il vizio relativo all’intervento del pubblico ministero viene qualificato dall’art.158 come
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rilevabile d’ufficio e soggetto alla sanatoria del passaggio in giudicato della sentenza.
Al riguardo va segnalata la tendenza a limitare la portata del vizio, così si afferma che la mancata,
obbligatoria, partecipazione del pubblico ministero colpisce la sentenza, ma non si estende agli atti
precedenti del processo e che d’altro canto è sufficiente che egli sia posto in condizione di
intervenire, ma non è necessaria una sua effettiva partecipazione.
Estensione della nullità
Gli atti del processo sono collegati tra loro in vista di un atto finale, ciò comporta che si abbia un
fenomeno di propagazione della nullità.
L’invalidità di un atto non comporta peraltro la nullità di tutti gli altri atti del procedimento, come
ricaviamo dal comma 1 dell’art.159 la nullità colpisce in avanti: restano pertanto validi gli atti che
precedono quello invalido, neppure tutti gli atti posteriori vengono inficiati dal vizio: la nullità si
estende solo agli atti successivi che siano dipendenti dall’atto invalido.
Entra qui in gioco la distinzione tra atti che svolgono una funzione propulsiva necessaria del
procedimento e atti che non ne costituiscono invece uno stadio immancabile.
Se i primi determinano l’invalidità degli atti posteriori, i secondi no, anzi rispetto ad essi sarebbe
più corretto parlare, anziché di nullità, di irrilevanza dell’atto viziato rispetto alla decisione.
La nullità di una parte dell’atto non colpisce le altre parti che ne siano indipendenti, il principio
trova estesa applicazione nella prassi, qualora con il medesimo atto sia conferita la procura ad
litem al difensore e sia eletto domicilio presso lo stesso, la nullità che venga a inficiare la procura
non si estende all’elezione di domicilio.
Il comma 3 dell’art.159 infine dispone che, se il vizio impedisce il verificarsi di un determinato
effetto, l’atto può tuttavia produrre gli effetti ai quali è idoneo, non si può parlare di conversione
dell’atto nullo analogo a quello previsto in campo sostanziale dell’art.1424 cc.
La conversione della nullità in motivo di impugnazione
La regola di estensione delle nullità fa si che il vizio dell’atto si trasmetta all’atto finale.
La nullità della sentenza può dipendere da vizi proprio dell’atto, intervenuti nella fase decisoria, o
invece essere conseguenza di vizi degli atti precedenti che sono in essa confluiti.
Come può essere fatta valere la nullità della sentenza? Nell’art.161 comma 1, il principio espresso
dalla disposizione ci dice da un lato che il mezzo di impugnazione è l’unico strumento per far valere
la nullità dell’atto finale e dall’altro lato che l’esaurimento dei mezzi di impugnazione vieta ogni
ulteriore indagine intorno alla regolarità del procedimento.
Il significato e i limiti di operatività della disposizione sono stati e sono tuttora dibattuti, quanto al
significato, per taluni il comma 1 dell’art.161 affermerebbe pure la regola dell’assorbimento
dell’indagine sulla validità nell’indagine sulla giustizia.
Dalla disposizione si ricaverebbe l’impossibilità per il giudice dell’impugnazione di rilevare d’ufficio
la nullità che non abbia costituito specifico motivo di gravame.
Quanto invece ai limii di operatività della disposizione, ci si interroga sul significato del richiamo
alle sole sentenze soggette ad appello e a ricorso per cassazione, richiamo che lascia in apparenza
aperto il problema della applicazione del principio della conversione alle sentenze soggette agli altri
mezzi di impugnazione.
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L’inesistenza
Il principio di conversione della nullità in motivi di impugnazione trova una sua espressa eccezione:
non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice (art.161).
Ci troviamo di fronte alla cd inesistenza, ossia al vizio che si caratterizza per il fatto di poter essere
fatto valere senza il rispetto delle regole del sistema dei mezzi di impugnazione, ordinari o
straordinari, disegnato dal nostro codice di rito.
Problematiche sono le fattispecie di inesistenza: si discute circa i confini dell’ipotesi delineata dal
legislatore e la sussistenza di ipotesi ulteriori, non espressamente codificate.
Incerte, ancora, sono la natura e la disciplina del rimedio, comunemente denominato actio
nullitatis; quanto alla fattispecie un punto va preliminarmente chiarito, l’inesistenza può essere, nel
processo, qualifica del solo atto finale: il singolo atto del procedimento, per quanto imperfetto, non
manca infatti di conseguire quell’effetto minimo che è la costituzione del potere dovere
giurisdizionale.
La nozione viene spesso utilizzata per designare l’atto diverso dalla sentenza, il quale, in quanto
privo dei requisiti minimi che ne consentono l’identificazione, è assolutamente inidoneo a produrre
effetti. L’inesistenza non assume autonomia rispetto alla nullità, ma viene invocata quale comodo
espediente volto ad evitare l’applicazione delle regole generali in tema di nullità degli atti.
Circa il vizio della omessa sottoscrizione della sentenza, le gravissime conseguenze disegnate
dal legislatore spingono per una lettura restrittiva della disposizione, che ne espugna i casi in cui la
mancanza della firma sia dovuta a semplice dimenticanza, del giudice o del cancelliere; il comma 2
dell’art.161 pertanto si riferirebbe alla sola sottoclasse delle omissioni dovute a rifiuto e
precisamente nel procedimento di correzione di cui agli artt.287 e 288.
Si ha pertanto inesistenza soltanto nel caso della sentenza dal contenuto incerto, che, come quella
che il giudice si sia rifiutato di sottoscrivere, può essere oggetto di impugnazione e, ove questa sia
preclusa, di una istanza atipica di riassunzione.
Inesistente in senso assoluto è invece il provvedimento resto a non iudice che, del tutto inefficace
sia nel processo in cui è stato reso sia in processi futuri, può essere oggetto di una azione di mero
accertamento che dichiari la inesistenza di ciò che non ha mai potuto nascere nel mondo del
diritto.
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