SCIENZE FILOSOFICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 22 • 1° FEBBRAIO 2016
Filosofia e letteratura: imprescindibile
distinzione o inalienabile legame?
(Le posizioni di A. Danto e R. Rorty)
LORETTA SCHIEVANO
Il presunto e inalienabile legame tra filosofia e letteratura
(o, in senso più ampio, tra filosofia e arte) è un tema ancora
oggi aperto. Inevitabilmente coinvolge anche il tema sulla
scientificità o meno della filosofia. Anch’esso tema molto
dibattuto lungo la storia del pensiero filosofico, laddove,
perlomeno, la filosofia non è stata concepita già a monte, e
in modo assodato, come scienza e sapere primo – come in
Platone e in Aristotele.
L’idea di un rapporto tra Filosofia e Letteratura – nel dibattito contemporaneo – è espresso in modo esemplare, nel
pensiero di due autori come Arthur Danto e Richard Rorty. In una posizione tra loro contrapposta. Danto concepisce
un’imprescindibile distinzione tra Filosofia e Letteratura.
Rorty è, invece, persuaso dell’inevitabile legame tra le due
discipline. A favore di una concezione argomentativa della
filosofia.
L’
idea che la filosofia possa essere assimilata a una forma d’arte – nella
fattispecie, alla letteratura – è un esito delle filosofie postmoderne.
Lo è sia nel senso per cui la filosofia può intendersi come una forma di narrazione, sia nel
senso per cui essa può intendersi come una forma di apertura
alla molteplicità, alla polimorfia di pensiero e alla multidisciplinarietà (emblematico, in questo caso, il pensiero di R.
Rorty, come emergerà, tra gli altri, qui di seguito). Ma anche
perché, affrancata dalle matrici formali del pensiero scientifico, può rivendicare la prerogativa di uno stile.
L’interrogazione sullo statuto e l’essenza della filosofia ha
condotto alla conseguente interrogazione sul criterio di una
distinzione tra filosofia e letteratura, da un lato, e filosofia e
scienza, dall’altro.
Questa triplice interrogazione che segue dall’interrogazione sulla natura della filosofia ha comportato che la filosofia si sia interrogata su quanto la differenzia da presupposti
scientifici e, perlopiù, dopo aver stabilito tale differenziazio22
ne, nonché la propria autonomia dalla scienza (dove ciò è
avvenuto), si sia poi confrontata su quanto la distingue dalla
letteratura – come ad es. la narrativa. Per quanto, tuttavia, la
narrativa sia spesso florida di caratteri filosofici come, per
fare solo alcuni esempi, si ritrovano ne La montagna incantata di T. Mann, o La ricerca del tempo perduto di Proust o
L’uomo senza qualità di Musil, o La nausea di J. P. Sartre; o
nei romanzi di R. Pirsig, A. De Botton, J. Gaarder, M. Houellebecq, M. Kundera; per citare solo alcuni autori contemporanei. Curioso, a questo proposito, che nessun narratore o
critico letterario si sia preoccupato di distinguere la letteratura (narrativa) dalla filosofia.
Dovrebbe, invece, far riflettere il fatto che la letteratura
non abbia avvertito tale esigenza.
Ciò non è avvenuto perché tale distinzione risulta da sé
particolarmente evidente, dal punto di vista della letteratura
(e non della filosofia)? Perché – sempre dal punto di vista
della letteratura – non si è avvertita l’esigenza di questo confronto in quanto è pacifica e già a monte accettata tale distinzione? Perché è in fondo impossibile che una narrazione
letteraria finché sia tale possa divenire propria anche della
filosofia o, viceversa, che della filosofia la letteratura non
possa non esserne almeno in parte compartecipe? Oppure
perché tale compresenza di un carattere filosofico in ambito
letterario non comprometterebbe, per non dire sovvertirebbe,
le basi della narrativa bensì, semmai, le renderebbe più solide
e feconde? O perché è l’interrogativo in quanto tale che, dal
punto di vista letterario, non ha senso? O, ancora, perché la
letteratura ha ritenuto non fosse suo compito, ma compito dei
filosofi dibattere su quanto è, d’altro canto, risultato del tutto
naturale per la letteratura assumere, dove ciò lo ha richiesto,
dei caratteri filosofici?
1. DISTINZIONE TRA FILOSOFIA, SCIENZA, LETTERATURA
Comunque sia, riguardo le eventuali ipotetiche domande
della letteratura (che però, appunto, non sembrano porsi dalla
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sua prospettiva), ciò su cui si è basato il criterio di distinzione
tra filosofia e scienza è stato anche quello di mutuare la filosofia da una forma d’arte, stabilendo ora una distinzione tra
scienza e arte, poi tra filosofia e scienza, procurando di assimilare la filosofia a una forma letteraria. Fatto ciò, è sembrato
necessario distinguere la filosofia dall’arte.
Un punto di discrimine tra arte (filosofia) e scienza è stato
posto dall’unicità dell’opera d’arte (e filosofica), di contro
all’opera scientifica che, in quanto tale, risulterebbe essere
sempre riproducibile. È quanto esprime Kundera in Il Sipario: il paradigma dell’unicità artistica è quello di un soggetto
che crea (un’opera in sé unica, quanto il soggetto che l’ha
creata) e, pertanto, irriproducibile. Ciò fa sì che si possa parlare di uno «stile» artistico proprio di un autore. Diversamente per un’opera tecnico-scientifica; nella misura in cui essa
contiene in sé una necessità: motivo per cui si parla normalmente di «scoperta» tecnica o scientifica in luogo di creazione (l’oggetto della scoperta presenta in sé stesso la possibilità
di essere conosciuto, portato allo scoperto).
Va da sé che, mentre la creazione di un’opera d’arte rivela
uno stile così come una sua unicità, ciò non avviene per una
«scoperta» tecnico-scientifica, in cui il soggetto non è l’aspetto essenziale con cui può realizzarsi l’opera, ma il suo
aspetto contingente e incidentale.
Parlando di soggettività come dimensione che coinvolge
l’unicità propria dell’essere «persona» si giunge a un’altra
distinzione tra filosofia (come arte) e scienza: quella assiologica. R. Rorty dice a questo proposito: «la verità è relativa
a linguaggi che sono costruiti e non scoperti».1 Il linguaggio
è appunto quanto comporta un valore di verità, rispetto la
neutralità di significati propria della scienza.
Un altro punto di distinzione tra filosofia (come arte) e
scienza è costituito dall’idea di progresso: la scienza contiene in sé le tappe del proprio svolgersi e progredire. Mentre la
filosofia – come pensiero che rispecchia l’attività unica di un
soggetto – presenta (ad es. per Kundera) più un andamento
«geografico».2 Ciò che, in modo non molto diverso, R. Rorty
definisce modello del «puzzle».3
Con tale modello si può ricostruire, ad es., una storia
dell’arte e della filosofia come se i suoi diversi momenti storici costituissero, appunto, le «tessere» di un puzzle: una tessera, così come un «vocabolario» (secondo la terminologia
rortyana), può sostituirne di nuovi come può mantenerne altri
già esistenti.
Per Rorty non ha senso una visione teleologica della storia
intellettuale ma l’idea che la scienza e la nostra cultura, in
quanto processi in continuo divenire, sono il risultato di fatti
«meramente contingenti».4
1 R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, intr. p. XXVI, Laterza, RomaBari 2008.
2 Cfr M. KUNDERA, Il sipario, Adelphi, Milano 2005.
3 Cfr R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2008,
p. 21.
4 Ivi, p. 25.
2. LA FILOSOFIA COME PROGRESSO
Dell’idea della filosofia come progresso emergono autori come Gombrich (secondo cui la storia dell’arte è vicina
più alla forma di una mappa che ad un andamento lineare),
Dummett (secondo cui non ha senso affermare che non ci
sia progresso in filosofia, altrimenti nessuno si accingerebbe
più a pensare filosoficamente), Kant (nella misura in cui la
filosofia pone delle questioni per poterle risolvere), Lowith
(con un’idea teleologica di necessità storica),5 ed Hegel che
afferma che:
«La successione temporale dei pensieri, delle filosofie, ha un senso
logico e segna uno sviluppo che procede per scansioni necessarie. Il
pensiero ammette un progresso: le idee migliorano, non cambiano
semplicemente.»6
Dunque la filosofia che in quanto pensiero necessario conduce a un progresso.
I sostenitori della filosofia come scienza sono tradizionalmente i filosofi di temperamento analitico e positivistico, attenti più all’aspetto logico-formale della filosofia che
a quello storico (come avviene nella scienza). Al contrario,
molti di coloro che sostengono che la filosofia possa accomunarsi a una forma vicina all’arte considerano la filosofia
come soggetta a un’influenza, e a un senso, storici. Ogni
nuova produzione di idee, costituirebbe, almeno in parte, la
conseguenza di pensieri filosofici precedenti. Per questo, leggere un filosofo di un’altra epoca come fosse uno dei giorni
nostri, ci farebbe smarrire l’intera valenza che il suo pensiero ha costituito nello svolgimento del pensiero filosofico di
ogni epoca anteriore o successiva, sottraendoci ai molteplici
significati che esso ha acquisito nella genesi del pensiero di
ogni altro filosofo. Come dice infatti B. Williams: «leggere
un testo di Platone “come fosse uscito su ‘Mind’ del mese
scorso” […] significa qualcosa che distrugge il principale
scopo filosofico che c’è nel leggere Platone» che è quello,
continua Williams, che consente di «far sembrare strano il
familiare e viceversa»7 dando così luogo, al contrario, a proficue riesamine.
Di questo parere, oltre che B. Williams, sono I. Berlin; e
A. Danto e R. Rorty, di cui parleremo qui di seguito. Filosofi
che, tuttavia, provengono curiosamente tutti da una formazione analitica.
5 L. ILLETTERATI, lezioni del corso accademico Università di Padova,
2013-14.
6 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, RomaBari 2013, p. 183.
7 B. WILLIAMS, La filosofia come scienza umanistica, Feltrinelli ed.,
Milano 2013, p. 216.
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3. ARTHUR DANTO. FILOSOFIA O LETTERATURA? DUE
LUOGHI DISTINTI
Arthur Danto è tra coloro che considerano la filosofia –
perlomeno la filosofia dell’arte – come progressiva. Il che
non evita, per il filosofo, che essa abbia anche una fine poiché, posta in crisi per l’arte la rappresentazione mimetica
del vero non resta più alcun progresso per un concetto di
espressione.8 L’arte avrebbe così, secondo Danto, varcato la
soglia dell’impossibilità di un progresso artistico, le soglie di
un’«epoca post-storica».9
Su reviviscenze hegeliane Danto ipotizza, di conseguenza,
una «fine dell’arte», non in una prospettiva artistica (riferendosi alla produzione di opere d’arte), ma riferendosi alla possibilità che la storia dell’arte possa evolversi in modo lineare,
com’è tradizionalmente avvenuto lungo il suo percorso: in
termini rappresentativi, mimetici, o puramente iconografici.
Ciò però riguarda il modo in cui Danto intende l’arte, ponendo come «storica» e di conseguenza «artistica» (come
fossero due aspetti tra loro speculari) la forma d’arte della
rappresentazione mimetica della realtà. Da un lato cioè la
forma mimetica di rappresentazione artistica è storica essendo quella che ha caratterizzato gran parte della storia dell’arte dagli albori alla modernità, ed essendo in tal modo assurta
a modalità prevalente di arte. Dall’altro lato essa è artistica
nella misura in cui è storicamente tale, in una circolarità interpretativa di cosa può definirsi arte, e cosa storia dell’arte.
Di per sé nulla toglierebbe infatti che l’arte mimetica, nella
sua essenza, possa rappresentare l’apice di una forma più recente di uno sviluppo storico dell’arte, in cui degli albori fossero, viceversa, proprie forme d’arte dai caratteri con i quali
noi siamo soliti riconoscere l’arte contemporanea, tra cui,
per es. il Brillo di Warhol e i ready-made. Nulla toglierebbe nemmeno che, dagli albori dell’arte al momento attuale,
l’arte si fosse presentata in una miriade di forme ibride o formalmente eterogenee e infinitamente variegate, come sembra presentarsi l’arte contemporanea. Con ciò non saremmo
indotti a ipotizzare una «fine» dell’arte che, di fatto, come
Danto stesso ammette, non c’è; né – più che probabilmente
– ci sarà mai, dal momento che la produzione d’arte persiste come persistono le creazioni di opere d’arte e il bisogno
profondamente radicato e naturalmente umano di arte. Così
come ne seguono le sue interminabili interpretazioni e ipotesi filosofiche. Ma nemmeno saremmo indotti, a considerare
l’arte come una forma di progressiva e necessaria evoluzione.
È vero che, come osserva Danto, un ready-made non sarebbe mai stato un’opera d’arte ai tempi di Durer. La storia,
o meglio, il fatto che un’opera d’arte appartenga a una certa
epoca invece che a un’altra è una delle concause della sua
stessa creazione. Ma nessuna contingenza storica, in sé, potrebbe condizionare le sorti di un’opera d’arte prima che non
sia l’artista stesso a deciderne (intenzionarne) la natura stessa
8 Cfr, A. DANTO, La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica Ed.,
Palermo, 2008, p.126.
9 Cfr, Ibidem.
24
Arthur Danto
di quell’opera e il suo venire alla luce. La soggettività è, in
questo senso, irriducibile nel suo porsi storico e contingente,
nella misura in cui è, in modo preminente ed essenziale, la
fondamentale condizione della creazione artistica.
Motivo per cui, il fatto che l’arte sembri esigere un’interpretabilità delle opere d’arte, comporta che ciò che Danto
chiama «mondo dell’arte» si ponga come ciò che fa le veci
dell’intentio auctoris (ciò che rappresenta al contempo il
contenuto semantico – come egli lo definisce – dell’opera
d’arte, e quella che sembra essere, per Danto, la correlativa
manifestazione artistica singolare di un’artista come inserita
in una sorta di trascendente mondo dell’arte).
Tuttavia, la critica d’arte ha spesso demandato o tralasciato
agli autori stessi il compito di esprimere in forme perlopiù
autoriflessive il proprio operato. Spesso, tale autoriflessione,
ha dato luogo, come un’emanazione, e come una conseguenza della natura stessa dell’arte di certi autori, a dei «manifesti
artistici». Ciò è accaduto e accade anche in filosofia, in un
modo che talvolta fa pensare da un lato a una reazione preventiva nei confronti di possibili libere e ingerenti interpretazioni, con il conseguente innalzamento di fronti comuni;
dall’altro, all’intento di far balzare all’attenzione una certa linea di pensiero. Ma anche alla volontà di ribadire la deliberatezza e autoconsapevolezza dello specifico portato filosofico,
come parte di una propria linea programmatica di pensiero.
Entro una certa misura, lo stesso fenomeno accade per i
manifesti artistici; quasi nell’intento non secondo degli artisti
di ribadire un’autorialità.
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Nello stesso tempo, tali manifesti sembrano voler minare
un’accezione forte, vicendevolmente, dell’arte e della filosofia, privilegiando una o più weltanshauungen. Nel caso delle
cosiddette «avanguardie artistiche» è quanto mai chiara l’esigenza di voler uscire da canoni interpretativi universalmente
imposti, per produrne, di volta in volta, di propri.
Ciò conduce a ciò che Danto dice essere «il risultato di
schiere di artisti che affermano che l’arte è questo e quello, senza che ci sia modo di decidere quale delle risposte sia
quella giusta».10
Questa idea di Danto riposa sul presupposto che spetti a
qualcuno stabilire che cosa sia “Arte”; e sulla corrispettiva
idea di una qualche autorità in grado di poterlo fare. Nonché,
che si possa quindi pervenire a un’idea universalmente accreditabile di arte.
In questo modo gli svariati tentativi avanzati ora da un autore ora dall’altro, ora da una avanguardia, ora da una certa
corrente artistica, ora da «schiere» di artisti, di esprimere la
propria voce, non possono risultare altro, agli occhi di Danto, che dei tentativi inconsulti e infruttuosamente capricciosi
– quando non tendenzialmente protagonistici – degli stessi,
nella misura in cui non rispondono a un’idea unitaria di arte.
Su cosa distingua il Brillo di Warhol da un Brillo di Harvey (una comune scatola di detersivo Brillo) Danto non ci dà
una risposta. Deponendo le sue armi, dichiara: «non sta a me
decidere». Il mondo dell’arte avrebbe già preso posizione a
tale riguardo.11
Danto si limita a rilevare che un’opera d’arte è carica di
«contenuto», così il Brillo di Warhol presenterebbe un contenuto che non è privilegio possieda un Brillo qualsiasi. Il
Brillo di Warhol presenterebbe un contenuto semantico un
«a-proposito-di» che fa sì che ad es. una superficie rossa sia
una semplice superficie rossa, mentre una superficie rossa
contenuta ad es. in un dipinto contenga un riferimento ad
un contenuto che la eleva su un piano esteticamente significante.12 Il che significa che non esistono per Danto degli
oggetti intrinsecamente estetici, ma degli oggetti che possono divenire tali. La filosofia dell’arte di Danto è, infatti «antiestetica», non come egli asserisce perché l’estetica (e quindi
la bellezza) sia estranea all’arte, ma in quanto «essa non può
fare parte dell’essenza dell’arte».13
Il fatto di demandare al mondo dell’arte, come fa Danto,
lo stabilire qual è un oggetto artistico è però semplicemente
uno spostare la domanda iniziale, vale a dire: in base a cosa il
«mondo dell’arte» può stabilire che un oggetto specifico sia
un oggetto d’arte? O, posta diversamente la domanda: cosa fa
sì che un certo oggetto (ad es. una superficie rossa qualsiasi,
o una superficie rossa di un’opera di Rothko) sia investito di
un particolare contenuto semantico (artistico ed estetico), un
«a-proposito-di» rispetto a cui, un altro oggetto identico, non
10 A. DANTO, La destituzione..., op. cit., p. 31
11 Cfr. A DANTO, La destituzione..., op. cit., Introd. p. 20.
12 Cfr. Ivi, Intr. p. 19.
13 Ivi, p. 30.
assume valenza estetica? Risposta che, quindi, la filosofia –
non potendosi fornire dal suo punto di vista – non sarebbe
neppure tenuta a porsi.
Di fatto, le opere d’arte sopravvivono alle loro interpretazioni, alle loro definizioni e alla stessa definizione che si può
attribuire all’arte (non meno che ai loro manifesti, laddove
se ne diano). Sembra, anche che non avrebbe senso fossero
gli artisti (gli autori di opere d’arte – se si dà per assodato
che almeno l’arte ha a che vedere con oggetti artistici come
con autori – e abbia ancora senso parlare di «oggetti» d’arte,
oltre che di «contenuti» o significati d’arte, tralasciando gli
eventuali gesti artistici – troppo fantasmagorici e indefiniti) a
estendere un discorso sull’arte. A estenderlo oltre l’esistenza
stessa delle opere d’arte, senza con ciò non farne a sua volta
motivo – o «gesto» (quindi contenuto ed essenza) – d’arte.
Mentre ciò è possibile nella misura in cui un’opera d’arte,
oltre che prodotto di un autore, dall’altro è patrimonio (fruizione) comune (di cui – se si vuole – l’artista stesso è compartecipe e fruitore).
Abbiamo così, da un lato, una deriva di interpretabilità infinita dell’arte (interpretazioni di critici d’arte e di filosofi,
cioè di non-artisti); dall’altro un’arte contemporanea tale,
nella sua forma, da non essere più in grado, secondo Danto,
di stupirci, così come di operare un’autorivoluzione:14 la «novità» è diventata solo un appannaggio del mercato dell’arte.
Ed è per questo che Danto teorizza una «fine dell’arte».
Tale «fine» sembra coincidere, tra l’altro, con l’idea forte di Danto secondo la quale il riconoscimento del ruolo
centrale dell’interpretazione storica fa sì che «le stesse opere d’arte sono internamente collegate alle definizioni che
le definiscono».15 Non fosse che, contrariamente a quanto
avverrebbe nell’arte (con la sua fine), nel caso della speculazione critica non si dà limite: non si dà «una fine per
l’interpretazione».16
Sembra così profilarsi un luogo extramondano rispetto
all’arte in cui si avvicenda ogni sorta di negoziato semantico
a patto di ambire alla scoperta di una «struttura interna»17
in grado di svelare l’intrinseca necessità dell’arte. E in cui
ogni opera d’arte, in definitiva, può rinascere indefinitamente
come un oggetto d’arte ulteriore in forza delle sue mai conclusive interpretazioni.
Il «circolo ermeneutico» non è perciò facilmente aggirabile, come sostiene Danto,18 almeno per quanto attiene alla
critica d’arte, ma anche alla filosofia dell’arte. Mentre è possibile che esistano azioni non significanti,19 se non altro in
termini interpretativi, o in termini di economia del testo.
14 Cfr., Ivi, p. 39.
15 Ivi, p. 37.
16 Ivi, p. 82.
17 Ivi, p. 38.
18 Cfr., Ivi, p. 91.
19 Cfr., p. 92.
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Tuttavia, la non significanza è difficilmente trascendibile
in un mondo di significati. Tanto che nemmeno la letteratura
sembra sfuggire al carattere circolare che, di per sé, la teoria
«testuale» lascia emergere. Anzi, proprio in quanto è soprattutto in letteratura che trova importanza il concetto di «testo»
(non solo in ambito analitico, osserva Danto,20 e non solo nella critica d’arte), ha luogo – in quanto ambito semantico per
eccellenza – tale circolarità.
Il concetto di «testo», secondo Danto, sembra spiegare
quanto altrimenti rimane inspiegabile riguardo all’ineliminabile scarto tra letteratura e vita (o, detto altrimenti, tra narrazione di finzione e mondo reale). Lì dove si connette al
concetto di «rete di effetti reciproci»,21 con il quale si intende
affermare che un testo letterario si nutre di riferimenti ad esso
interni, più che a un mondo (reale). Detto altrimenti, tale piano vorrebbe eludere il dilemma cartesiano tra un ipotetico
mondo reale e uno finzionale, tra un mondo di sogno e uno di
veglia, l’interno contrapposto a un esterno, riportando ogni
eventuale contraddizione ontologica all’interno di un unico
piano referenziale – quello testuale, appunto.
Nonostante questa prospettiva testuale coinvolga in parte
anche la filosofia, ma in modo «verticale» – cioè, stando nei
termini citati da Danto, in un modo più riferito direttamente
alla «vita», egli fa una distinzione tra letteratura e filosofia,
ritenendole due discipline diverse. In una distinzione che
compete alla sola filosofia operare, essendo ad essa destinato
il compito ultimo di accordare le cose con la verità.
La filosofia è così in grado di decidere là dove la letteratura non può. Come ad es. distinguere tra generi e discipline
letterarie (narrativa, monografia, romanzo, saggio filosofico
o storico e così via): Danto si affida in ciò alla classica distinzione operata da Aristotele. La poesia è, in questa chiave, più
filosofica della storia poiché le sue assunzioni condividono la
natura degli universali, mentre la storia riguarda sempre fatti
singolari.22 La Poesia sarebbe quindi più universale della Storia la quale, secondo l’Aristotele della Poetica, si limiterebbe
a trattare del particolare (1b., 9, 1451b).
A sua volta, la filosofia nel distinguersi dalla letteratura
per la sua aspirazione all’universale, intende raccogliere la
necessità e la verità in tutti i mondi possibili,23 non solo in
mondi intratestuali ma anche intertestuali; contrastando non
meno con il carattere particolaristico ed astorico dell’indagine scientifica, sempre oggettivamente mirata. Danto si riferisce, ancora una volta, ad Aristotele, giudicando la letteratura
una pratica di narrazione in cui un mondo possibile è sostituito e funge come un mondo reale – secondo la tesi aristotelica
che la storia tratta le cose come sono accadute mentre la poesia tratta delle cose che potrebbero accadere.24
Nell’affidare alla filosofia il criterio della distinzione con
20 Cfr. p. 162.
21 Ibidem.
22 Cfr. A. DANTO, La destituzione…, op. cit., p. 165.
23 Cfr. p. 166.
24 Cfr., Ibidem.
26
quanto è arte, la letteratura si trova così, implicitamente,
dispensata dall’assimilazione consapevole in sé stessa di
possibili caratteri filosofici, almeno quanto, al contrario,
la filosofia può assumersi il compito di un discorso ultimo
sull’arte (se non altro, sulla letteratura che – implicitamente – Danto distingue dall’arte figurativa nella misura in cui
non spetta evidentemente al filosofo l’ultima parola25 in merito a quest’ultima, pur tuttavia decretandone la sua ipotetica
«fine» sulla base di una «certa» idea di cosa sia l’arte figurativa; quindi, in definitiva, pronunciandosi su di essa). In
questa chiave, il carattere eventualmente filosofico di certe
narrazioni in letteratura sarebbero solo aspetti riconducibili a
uno «stile», in una sua conformazione meramente e ingratamente decognitivizzata.
Diversamente dalla filosofia, oltre che di mondi possibili,
la letteratura, riconosce Danto, «tratta di ogni lettore che ne
fa esperienza».26 Ciò significa che entra in un ruolo universalistico il dato particolare dell’esperienza come rappresentazione non tanto di un ipotetico lettore, ma – come dice Danto
– del «soggetto reale del testo. In maniera tale che ciascuna
opera diventa una metafora per ciascun lettore: forse la stessa
metafora per tutti».27
Sorge però la domanda: in che modo, al contrario, la filosofia non riguarderebbe l’esperienza di un lettore?
Danto non raccoglie l’ipotesi che la filosofia sia una forma
di letteratura,28 ma ne conviene con essa un’affinità nel porre
il lettore di fronte un’accresciuta immagine di sé (nel caso
della letteratura), e di «ciò che siamo»29 in rapporto al mondo
e a un’idea di verità (nel caso della filosofia).
È un confine labile, nella misura in cui non si esclude ci sia
un fare esperienza anche del pensiero e, così come avviene
nel caso della lettura di un romanzo, che si operi un’identificazione (filosofica o esistenziale) anche nel caso di un testo
filosofico, immergendoci, per così dire, nel punto di vista filosofico dell’autore.
È vero che un soggetto sembra formalmente estromesso
dal campo argomentativo filosofico. Non si possono dimenticare però esempi in cui, come ad es. in Descartes (padre
del razionalismo, e antesignano del «metodo» come procedimento filosofico rigoroso), il Discorso, nonché il suo «metodo», siano stati improntati in uno stile a cavallo tra narrazione e saggio; e, come in un romanzo, egli abbia affidato a
un Io narrativo l’esposizione dei propri dilemmi: una sorta
di «romanzo di formazione» (bildungsroman) in chiave filosofica (se non di: saggio di filosofia in forma narrativa).
Del resto, non diversamente fece, agli albori della filosofia,
Platone con i suoi dialoghi.
Certo, si può dire, in questi casi, che la parte speculativa
25 Infra p. 3.
26 Cfr. A. DANTO, La destituzione…, op. cit., p. 166.
27 Ivi, p. 167.
28 Cfr. p. 172.
29 Ibidem.
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abbia, di fatto, la maggiore su quella narrativa. Ma, allora,
il discrimine tra romanzo e saggio non risiederebbe più nel
dato «universale» o «singolare» e soggettivo, se non in termini quantitativi, più che programmatici.
Oltre al fatto che, ancora una volta, si tratterebbe di decidere quanta «singolarità» (e soggettività) sia possibile rinvenire
ora in un trattato filosofico, ora in uno letterario-romanzesco;
nella presunzione di stabilirne l’esatta portata.
Di fatto, nel giudicare un romanzo non prestiamo attenzione tanto al suo grado di soggettivismo o singolarità (unicità
letteraria), quanto piuttosto al suo stile e al suo contenuto.
Tanto quanto non ci troviamo a giudicare del portato filosofico di un’opera saggistica o filosofica cercando di soppesare
il grado di «universalismo» o impersonalità presenti; ma, ancora una volta, valutiamo il contenuto nel suo carattere generale – che può, sicuramente, riguardare anche il suo grado di
generalità e universalità.
Per quanto attiene alla maggiore vicinanza nel trattare la
realtà, non si possono dimenticare i romanzi autobiografici
e i reportage letterari (un es. tra i più recenti e noti: le opere
di R. Saviano che, non a caso, all’uscita del primo romanzo,
aveva messo in imbarazzo alcuni librai nel trovare l’esatta
collocazione tra gli scaffali). Altri esempi riportati all’inizio
(ad es. Pirsig o De Botton) propendono decisamente per la
collocazione letteraria. Ma tale collocazione può dipendere –
più che da una dose di universalità in essi presente – da una
questione di stile. O, se si vuole, di metodo.30
Senza dimenticare il genere dell’autobiografia che, per
quanto variamente piegato ad esigenze narrative, rispecchia
una componente storica qual è una storia vissuta. In modo che
può risultare confermata sia la forma letteraria del romanzo
che quella della trattazione storica e, in parte, filosofica. Ne
sono esempio ad es. Le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau – non a caso filosofo –, come filosofo è Sant’Agostino
delle Confessioni e, tra gli altri, Pietro Abelardo di Storia delle mie disgrazie. Gli esempi di romanzi autobiografici sono
chiaramente infiniti, e si infittiscono via via dall’antichità ai
giorni nostri. Nel caso della contemporaneità, a cavallo tra
uno stile letterario e l’altro, si incontrano i più svariati romanzi (Primo Levi, Imre Kertész, Joseph Conrad, John Fante, Peter Handke, ecc.); ma anche esempi di romanzi che,
pur senza essere autobiografici, sono assimilabili più squisitamente al genere del romanzo storico. Il genere di romanzo
autobiografico, in ogni caso, può includere sia i caratteri di
una narrazione e di un romanzo, che quelli di una ricostruzione storica attendibile, riunendo così il dato singolare e quello
universale. Così che la distinzione aristotelica Storia / Poesia
in questo caso sembra cadere.
Poco è stata esplorata, come sostiene George Steiner:
«l’incessante pressione modellatrice delle forme del discorso e dello stile sui progetti filosofici e metafisici. Sotto quali
aspetti una proposizione filosofica, persino nella nudità della
30 Cfr. MANFRED FRANK, Lo stile in filosofia, Il Saggiatore, Milano
1994.
logica di Frege, è una retorica».31 Un sistema cognitivo o epistemologico, prosegue Steiner, «può essere dissociato dalle
sue convenzioni stilistiche, dalle forme artistiche dell’espressione che sono dominanti o sotto tiro nel proprio tempo e del
proprio ambiente?».32
Tanto che sembrano sorgere inevitabili «rivalità»33 fra poeta, romanziere, drammaturgo da un lato, e pensatore tout
court dall’altro; che non escludono, come diceva Sartre un
«essere Spinoza e Stendhal allo stesso tempo».34
Nulla può neppure escludere che tale «tout court» del pensiero possa dirsi solo nel caso dei filosofi, né escludere che,
per quanto asetticamente informale possa risultare la loro
prosa filosofica, non possa presentare un proprio idioletto,
un proprio stile – per quanto minimo, per quanto non sempre
pacifico. Una sorta, insomma – volendo –, di microstile, che
può rintracciarsi, se non proposizionalmente o narrativamente, in un particolare modo di argomentare (in tal modo, anche
un testo filosofico può, in fondo, assurgere in un terreno «interpretabile» testualmente).
Proprio nella misura in cui il testo filosofico si assoggetta a
dei canoni che gli impongono un certo carattere espositivo, e
dei parametri formali (linguistico-espressivi), esso produce,
ma al contempo cerca di celare – sempre per dirla con Steiner
– le «finzioni supreme» che esso contiene.35
Difficile, quindi, poter stabilire un confine netto tra filosofia e letteratura, così come tra filosofia e arte; ma anche, in
parte, tra filosofia e scienza.
4. RICHARD RORTY. FILOSOFIA E LETTERATURA. UN SOLO,
UNICO LUOGO
Richard Rorty è certamente tra coloro che raccolgono
quest’ultima concezione di filosofia e …di letteratura, di
arte; nonché di scienza.
In una posizione diversa da Danto, ritiene necessario abbandonare l’idea metafisica di un possibile «supervocabolario» in grado di rendere commensurabili anche vocabolari di
«culture altre», o di rendere intelligibili verità. Solo questo
abbandono può consentire di dire di un testo – attraverso
un punto di vista etnocentrico e post-metafisico – tanto che
è filosofico quanto politico, etico quanto teorico, narrativo
quanto logico.36
Propugna, perciò, una «svolta generale dalla teoria alla
narratività»,37 ritenendo la riflessione filosofica «una pratica
testuale per la ridescrizione di noi stessi».38 Anche per questo
l’idea di un ruolo auctoritas dell’opera filosofica (o artistica)
non può non risultare per Rorty determinante agli effetti di
una pratica filosofia che è anche insieme culturale.
31 G. STEINER, La poesia del pensiero, Garzanti, Milano 2012, p. 7.
32 Ibidem.
33 Ibidem.
34 G. STEINER, Ivi, p. 8.
35 Ivi, p. 9.
36 R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, intr. p. XXIII-XXV, Laterza,
Roma-Bari 2008.
37 Ivi, introd. p. XXIV.
38 Ibidem.
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SCIENZE FILOSOFICHE | SCIENZE E RICERCHE • N. 22 • 1° FEBBRAIO 2016
L’attività filosofica può, infatti, assurgere ad «un esercizio intellettuale privato»39non
necessariamente sistematico
e speculativo: Rorty richiama
l’esempio dell’opera di Derrida Carte postale e Envois, in
cui non si dà una conclusione
al testo, e l’esercizio filosofico segue quello della libera
scrittura.
Rorty conia una nuova figura: il «filosofo ironico».
Colui in grado di riconoscere la «contingenza del
linguaggio».40 Cioè dei vocabolari costruiti lungo i mutamenti della storia.
Tali mutamenti non si at- Richard Rorty
tuano in conseguenza di «decisioni arbitrarie»,41 ma grazie
a dei vocabolari ‘parlati’; cioè «vissuti», costruiti di volta in
volta nella situazione dei parlanti.
Il filosofo ironico è in grado di distaccarsi dall’idea che
possano darsi delle risposte fondate alle domande filosofiche:
la verità è, così, «una proprietà delle entità linguistiche, degli
enunciati» ed essa è costruita piuttosto che scoperta.42
Più che una «rete di effetti reciproci» e interne relazioni,
Rorty vede invece la necessità di nuove terminologie, di nuovi vocabolari; non solo come creazione di nuovi scenari culturali, ma come «incarnazione» di persone e culture. Dunque
di mondi nuovi (non importa quanto ontologicamente dati o
risolti).43
soluzioni (lo stesso metodo
usato, dice Rorty, dai giudici
e dai teologi).45 I vocabolari
messi in campo dal «poeta
forte» (il vero eroe della società liberale di Rorty) e dagli
innovatori, è un vocabolario
basato su termini come: «weltanschauung», «prospettiva»,
«dialettica», «epoca storica»,
«gioco linguistico», «ridescrizione»,
«vocabolario»,
«ironia», e tutte quelle metafore in grado di vivificare
il linguaggio e con esso una
cultura in costante mutazione
e progresso.
La parola d’ordine di Rorty è innovazione, in luogo del
tradizionale concetto metafisico di «verità».
L’ironico, oppositore della metafisica, che è Rorty, considera la logica non come una parola magica e costitutiva di
un ipotetico progresso basato unicamente sulla scienza e la
tecnica, ma come «ancella» della dialettica. Là dove «dialettica» non è intesa come un surrogato della logica, come una
sottospecie di retorica, ma come la capacità (Rorty la ravvisa
primo tra tutti in Hegel) di produrre molto più di semplici
sintesi tra soggetto e oggetto. Ovvero, una «tecnica letteraria» capace di attuare delle «sorprendenti svolte gestaltiche»
in forza di rapidi passaggi da una terminologia a un’altra.46
Per Rorty non ha dunque senso una distinzione tra letteratura e filosofia.47
5. CONCLUSIONE
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Rorty non ha riserve o imbarazzi a concepire una «società
liberale ideale in quanto cultura poeticizzata» e che «la scienza e la morale, l’economia e la politica sono, nella stessa
maniera che l’arte e la filosofia, ad un processo di sporgenze
creatrici del linguaggio».44 Nella misura in cui sono in grado
di uscire dall’impasse di una prospettiva razionale.
Questo significa saper innovare i propri linguaggi. Invece
che ricercare, indefinitamente, relazioni nascoste all’interno
degli stessi (come fanno, secondo Rorty, i metafisici). Significa ricercare le metafore in grado di creare insieme alla mutazione del vocabolario anche nuove prospettive e scenari.
Nello scenario del metafisico e dell’uomo comune, infatti, preponderano termini deboli e polivalenti come «verità»,
«bontà», «oggetto», «realtà» che servono solo a dar luogo
a dibattimenti sterilmente indotti in cui appaltare apparenti
In Danto, non senza tinte nichilistiche (o destituzioniste),
resiste quindi uno scrupolo ontologico come criterio di interrogazione, se non di attribuzione di significato, di cos’è
arte e cos’è filosofia, in una prospettiva hegeliana in cui alla
filosofia può competere l’attribuzione di significati sull’arte,
la letteratura e la filosofia (come la disciplina, che tra esse, è
deputata a pronunciarsi su un loro significato possibile).
Rorty, ponendosi oltre un orizzonte ontologico, è invece
interessato all’aspetto pragmatico di ciò che, a tutti gli effetti, stabilisce la stretta attinenza tra letteratura e filosofia e
tra filosofia e scienze (in una prospettiva non destituzionista
ma, in parte decostruzionista), tramite un paradigma argomentativo come struttura e genesi fondamentale di ogni reale
dinamica di cambiamento scientifico e culturale.
39 A. G. GARGANI, intr. R. RORTY, op. cit. p. XXIX.
40 R. RORTY, cit. p. 5.
41 Ivi, p. 13.
42 Ivi, p. 14.
43 Ivi, cit. p. 98.
44 Ivi, pp. 82-83.
45 Cfr. Ivi, cap. 4.
46 Ivi, p. 96.
47 Ivi, cit. p. 102.