IL RAPPORTO GIURIDICO E IL SUO FONDAMENTO METAFISICO
Anna Pedretti
Il mondo della speculazione è immenso, così come lo è il divenire sociale e
storico dell’essere umano: nasce ed è già creatore e artefice, parte di una relazione che ha
rilevanza giuridica e quindi interesse individuale e sociale. Ma è proprio in questo mondo di
relazioni, di valori morali ed etici, che emerge il seme della confusione nel panorama della
contemporanea filosofia del diritto; l’unico dato che appare con chiarezza all’orizzonte di tale
universo è la constatazione del duplice e opposto profilo giusfilosofico: la filosofia del diritto
dei filosofi, da una parte, la filosofia del diritto dei giuristi, dall’altra. (Bobbio, 1965: 43-46;
Bobbio, 1988: 297-300).
Nei manuali di filosofia del diritto, si trovano, con rigore quasi religioso e
riverente, le due celebri, profonde e inquietanti domande: quid ius? che cosa è il diritto? e:
quid iuris? che cosa è di diritto? Tutti i grandi dottori della giurisprudenza e della filosofia
hanno cercato di dare una risposta. Possiamo forse ricordare Kant che, non senza ironia,
affermava che i giuristi ancora oggi stanno cercando una definizione per il loro concetto di
diritto (Critica della ragion pura. Dottrina trascendentale del metodo, I.1-Die Metaphysik der
Sitten, 1797, La Metafisica dei costumi).
Quid Ius. Questo breve lavoro non ha la pretesa di azzardare una risposta
all’eminenza dei quesiti, che fino ad oggi sono rimasti senza risposta. Ci chiediamo invece:
perché scomodare Kant e gli altri, per aiutarci in definizioni, quando non siamo nemmeno
sicuri che esista una filosofia del diritto? Esiste la filosofia dei filosofi del diritto, oppure
quella dei giuristi? Quale delle due è autentica? Se la frattura fra le due diverse impostazioni è
avvenuta, allora di che cosa si potrà parlare? Dov’è il futuro di una scienza dilaniata al suo
esistere? Il panorama ideologico genera sconforto: le idee separate dai fatti, ossia l’attività
filosofico-speculativa e deontologica, in altre parole quella dei valori etici, senza un referente
diretto, senza un destinatario, senza un oggetto-soggetto, e dall’altra la scienza giuridica
sull’olimpo nel miraggio delle scienze positive, spogliata quindi delle idee, sul suo piedistallo
di autosufficienza ideologica: fino a quando si reggerà?
La filosofia del diritto sembra uscita dal romanzo di Anna dei Miracoli, un essere
umano che non sente, non può comunicare le proprie idee, né può apprezzare quelle degli
altri, nemmeno ha un orizzonte perché non vede, si muove meccanicamente sui dati
dell’esperienza e del proprio istinto - possiamo citare qui tutte le correnti di ispirazione
positivista che si sono alternate, dallo storicismo, utilitarismo, ecc... - che, sebbene sia
anch’esso una facoltà umana apprezzabile, se troppo sviluppato mortifica altre facoltà
impedendo l’eccelso sviluppo dell' “animale metafisico”: l’uomo (Schopenhauer). Dire che
l’uomo è metafisico, non significa che fa metafisica, ma che lascia venire alla luce il
metafisico che è in lui e in tutto ciò con cui entra in relazione . Il metafisico non è ciò che sta
al di là della natura, ma è la natura stessa dischiusa e disciudentesi al suo senso (Campanale,
1988).
Dopo questa sintesi demolitrice della filosofia del diritto, la ricostruzione dalle
macerie deve avvenire attraverso una nuova impostazione dialogica.
Se quid ius non ha trovato una risposta univoca, nemmeno alle origini del diritto
scritto e normativo, ma mille possibili, pensiamo che il sogno di individuare all’orizzonte una
lex, un diritto universale, non sia proprio una utopia, ma semmai un' intuizione, su cui ogni
tendenza o corrente ha detto qualche cosa, portando ognuna una verità. Per la ricostruzione di
una nuova filosofia del diritto, si dovrebbe recuperare ciò che è convergente e comune, ciò
che solitamente non genera conflitto, realizzare un sorta di ecumenismo tra le diverse
tendenze filosofiche.
Partiamo da un teorema di base e antico, e chiediamoci: che cosa sta alla base di
ogni speculazione, di ogni inquietudine scientifica? L’uomo, l’essere metafisico, colui che ha
coscienza di se stesso ed è in grado di portare alla luce ciò che è nascosto nel suo essere.
Certamente il porre l’essere dell’uomo al centro dello sviluppo speculativo comporta la scelta
della giusta prospettiva, e attingendo dalla concezione genetica dell’essere, (cfr F. Rielo,
Definición mistica del hombre, dentro de una concepctión genetica del ser, Conferenza
all’Università La Sapienza, Roma, 1983), l’essere come alterità, conferma il principio
secondo il quale il diritto è necessariamente e doverosamente relazione. Grande è perciò
l’affinità e la capacità di comunicazione fra l’essere e il diritto, intesi entrambi come un ente
che ha coscienza, nel primo caso, e capacità, nel secondo caso, in se stesso, di sé e dell’altro,
proprio attraverso l’elemento più essenziale, senza il quale l’uno e l’altro non sarebbe ciò che
è.
Il diritto è relazione perché l'essere stesso dell'uomo, nella sua struttura
ontologica, è alterità. L'uomo, coautore del proprio divenire, è alterità, quindi relazione. Da
ciò scaturisce la coscienza che l'uomo ha di sé e dell'altro. Nella relazione in se stesso e oltre
se stesso, scopre un io non identico e defibile in se stesso (io per io, io in rapporto all'io), ma,
spezzando la tautologia parmenidea, un io-altro, un io-tu, che diviene, concrea, scopre e ha
coscienza del proprio sé e dell'altro, dell'io e del tu. Potremmo chiamare tale lex la lex della
complementarità dell'essere, per cui l'essere si definisce nella relazione io-tu e, inversamente,
tu-io. Svela cioè non un tu barricato in se stesso (tu=tu), ma in relazione complementaria con
un io.
Così infatti il diritto è essenzialmente relazione, come l’essere è alterità.
Nella lex della relazione complementaria, non vi è una supremazia nell’essere
dell’ente come io=io, io uguale a me stesso, perchè non ha valore e lo si potrebbe negare al
pari di un tu-tu, altro-altro, esistere-esistere, non esistere-non esistere, così come non vi può
essere una supremazia del tu, se l’io-tu, rivelazione dell’alterità, è alla radice stessa
dell'essere.
L’evidenza del diritto come relazione, deve spingere alla ricerca e all’origine della
radice più profonda e ultima, del perchè in superficie dell’esistere umano appare la relazione
diritto.
Se, come abbiamo detto, il diritto è relazione, la relazionalità è, invece, la sostanza, è ciò
che innerva il dover essere giuridico perchè innerva più radicalmente il dover essere della struttura ontologica
dell’uomo. L’uomo è essere relazionale nella sua struttura e deve, perciò, realizzare in essa il telos immanente.
Il diritto, allora, è uno dei modi di questa ontologica realizzazione... realizzazione doverosa, doverosa perchè
inscritta nella sua ontologia, da parte dell’uomo della sua costitutiva relazionalità. La relazionalità, che si
attua nel diritto come suo scopo, attraversando da cima a fondo e nei suoi nuclei teleologici, si rivela, allora,
epifenomeno della relazionalità, intersoggettività, coesistenzialità umana, struttura e fine, essere e dover essere
dell’umanità stessa. (A.Filipponio, Struttura, Funzione, Scopo nel diritto, Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto,
1998)
Nel rapporto giuridico, il diritto del primo termine sta all’io-tu, così come il
dovere del secondo termine sta al tu-io, ossia l’alterità complementaria dell’essere sta al
diritto, come l’essere sta alla persona umana, all’essere metafisico.
Quante volte abbiamo affermato che certi principi anche giuridici sono imutabili,
incrollabili e antichi almeno quanto il diritto romano! I nostri patriarchi nelle antiche scuole di
giurisprudenza insegnavano ad esempio che per costruire la fattispecie nel rapporto di
filiazione:”mater semper certa est”, eppure oggi alla base di una fondamentale ed elementare
fattispecie giuridica come questa, tale principio, con i nuovi codici deontologici, si è
incrinato. Non ci deve forse generare smarrimento il fatto che ciò che ha resistito per tanti
secoli, oggi non ha più lo stesso valore intrinseco? e non ci deve, dunque, portare alla
riflessione che dobbiamo ritornare all’origine del perchè del diritto? E il perchè altro non è
che la persona umana, la quale si rivela metafisicamente nell’essere. Se il diritto e la filosofia
del diritto sono per la persona, sono perciò inanzi tutto linguaggio e sviluppo metafisico,
ontologico dell’essere.
Anche il diritto intersoggettivo ha come scopo e fine l’essere, perchè relazione
intersoggettiva, quindi relazionalità. La lex dell’alterità complementaria si sviluppa come
rivelazione della congenesi assoluta, dove l’essere personale è costituito da due termini
complementari in un unico assioma assoluto.
La ragione di ogni divenire umano è chiusa nell’essere, non secondo un principio
immanentista, ma secondo il principio della metafisica genetica, secondo la quale si
comprende come l’essere sia definito attraverso i due termini che lo compongono, io-altro,
compenetrati e complementari nell’ essere.
La lex dell’alterità complementaria dell’essere e quindi del diritto, rivela che i poli
di un rapporto giuridico, non sono a sé stanti, né, potremmo dire, semplicemente in relazione
- infatti ogni manifestazione umana è relazione e non sempre ha rilevanza giuridica - ma in
complementarietà: l’uno disvela l’altro e viceversa.
Perciò per conoscere l'ampiezza e la profondità del proprio agire giuridico si deve
ricorrere alla profondità del proprio essere e al suo valore metafisico e mistico.