Perché insegnare filosofia

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Perché insegnare filosofia
di Giancarlo Galeazzi
Per affrontare la questione «perché insegnare filosofia», che va acquistando un peso crescente nell’ambito delle ipotesi di ristrutturazione curricolare della scuola italiana, occorre muovere da una
precisazione indispensabile, relativa a «che cos’è la filosofia?»
Cercheremo, pertanto, di rispondere prima a questo interrogativo
e poi all’altro, per passare a considerare le conseguenze che ne derivano.
1. Che cos’è la filosofia?
Muoviamo dalla questione del «che cos’è la filosofia?»
La risposta va trovata non scegliendo una particolare filosofia,
ma individuando il denominatore comune alle diverse forme di filosofia che nel tempo si sono avute.
Potremmo allora, in prima battuta, rispondere che la filosofia
è «ricerca». Una tale risposta è, senza dubbio, valida, eppure è bisognosa di una specificazione, in quanto la filosofia è, a ben vedere, solo «una forma di ricerca»: ce ne sono, infatti, anche altre: da
quella religiosa a quella scientifica, a quella tecnologica.
Si pone allora la necessità di chiarire la peculiarità della ricerca filosofica. Anche qui dobbiamo cercare una risposta che accomuni le diverse filosofie. Potremmo allora dire (facendo nostra
una indicazione data in riferimento alla riforma dell’insegnamento scolastico della filosofia) che la filosofia è «una ricerca di valori
e di verità», cioè riguarda i problemi relativi all’agire e al conoscere dell’uomo. Una tale ricerca ha come oggetto domande di senso
e come metodo l’uso della ragione.
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Si differenzia quindi dalla scienza, che usa, sì, la ragione, ma
per cercare significati nell’ambito empirico, come pure si differenzia dalla religione, che pone, sì, domande di senso, ma vi risponde con la fede soprannaturale.
Potremmo anche dire che esistono due tipi di ricerca: quella
«avalutativa» della scienza (che procede secondo ragione attraverso la sperimentazione) e della tecnica (che si sviluppa razionalmente attraverso l’applicazione o l’interazione con la scienza) e
quella «valutativa» della religione (che si basa su credenze, appellandosi magari ad una rivelazione divina) e della filosofia (che
procede secondo ragione attraverso argomentazione, che può
portare a trascendere l’esperienza).
In tal modo, appare chiaro che la filosofia ha in comune qualcosa con altre forme di ricerca, da cui tuttavia si differenzia per
una propria specificità, che potremmo sintetizzare dicendo che la
filosofia è essenzialmente «un domandare che non si esaurisce in
nessuna risposta», in quanto ogni sua risposta porta a reiterare la
domanda, rinnovata dalla stessa ricerca.
Mentre la scienza e la religione per vie diverse sono finalizzate
alla risposta (come conquista della ragione formale o sperimentale,
in un caso, e come dono della fede soprannaturale, nell’altro), la filosofia invece è finalizzata ad interrogare, e le risposte cui perviene
non fanno altro che rivitalizzare le domande: queste non si risolvono né si dissolvono, ma si corroborano grazie alle stesse risposte.
Insomma, mentre la domanda scientifica e quella religiosa hanno (in atto o in potenza) una risposta, rispettivamente naturale e soprannaturale, la domanda filosofica è, a ben vedere, inesauribile e,
insieme, ineludibile: la risposta più vera in filosofia sta non nella
conclusione della ricerca, ma nella ricerca stessa (la risposta filosofica non è mai conclusiva, cioè di traguardo, bensì itinerante, cioè di
percorso). È, questo, il paradosso della filosofia: non potersi sottrarre alle domande e non poter, peraltro, esaurirle. Inevitabili e insopprimibili, dunque. Potremmo allora dire che, se è vero che, in tutti
i casi, la ricerca non ha fine (per usare il titolo dell’autobiografia intellettuale di Popper), nel caso della filosofia questo è ancora più
vero, perché ci troviamo di fronte a un tipo di domanda inestinguibile, che ne comporta la reiterazione infinita.
Da qui i caratteri peculiari dell’interrogare filosofico: il suo carattere radicale e integrale. Per dirla con una espressione di M. Gentile: è «un domandare tutto che è un tutto domandare». Appare qui
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il carattere squisitamente critico della filosofia, come un mettere
continuamente in discussione, un provocare incessantemente.
2. Perché la filosofia?
Se, dunque, inerisce alla filosofia questa dimensione di interrogazione razionale di tipo esistenziale (problematizzante), si può comprendere l’emergere della seconda questione: «perché la filosofia?» La risposta è positiva per una serie di ragioni, che possiamo
ricondurre a due tipi: quello che fa appello al valore «oggettivo»
della filosofia, cioè intrinseco alla struttura stessa del filosofare, e
quello che invece si richiama al valore «soggettivo», relativo cioè
ai soggetti (individuali e sociali) che usufruiscono della filosofia.
Dal primo punto di vista (esistenziale), la filosofia si configura come tensione veritativa, che ha in sé il suo valore, quale sapienza distinta dalla scienza, quale ricerca di senso distinto dal significato, e sempre come procedimento dialettico (interiore e/o
esteriore), che mette in dialogo due o più esseri pensanti.
Dagli altri punti di vista, la filosofia è considerata come ricerca con valore formativo, culturale e relazionale.
Dal punto di vista formativo, la filosofia è apprezzata come
coltivazione della criticità e della problematicità, in termini di rigore e in vista dello sviluppo educativo della persona.
Dal punto di vista culturale, la filosofia fornisce la consapevolezza delle radici, ed è essenziale per la costruzione di uno sviluppo identitario della comunità.
Dal punto di vista relazionale, la filosofia promuove il confronto, favorendo il rispetto del pluralismo e lo sviluppo dialettico delle differenze.
Ecco: in queste tre dimensioni la filosofia serve a potenziare la
capacità della mente a ritrovare le radici di una cultura, ad aprirsi
al confronto delle concezioni.
3. La filosofia è un diritto di tutti
A questo punto possiamo trarre la conseguenza dalla duplice puntualizzazione su «che cos’è la filosofia?» e «perché la filosofia?»
ed affermare che la filosofia appare come «un diritto di tutti gli
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uomini», e, per quello che qui ci interessa, un diritto di tutti gli
studenti: non solo di quelli liceali, ma anche di quelli tecnici; non
solo di quelli del triennio conclusivo della secondaria, ma anche
di quelli del biennio iniziale; non solo di quelli dell’istruzione liceale, ma anche di quelli della formazione professionale e dell’educazione permanente, non solo di quelli di scuola secondaria superiore, ma anche di quelli di scuola di base (media o, addirittura,
elementare, se non anche preelementare).
Certo, ai diversi livelli, il fare filosofia si configura (si deve
configurare) inevitabilmente in modi diversi e le indicazioni provenienti da diverse proposte di riforma scolastica (da quelle della
commissione Brocca a quelle dei ministri Berlinguer, De Mauro e
Moratti) vanno in questa direzione: così è stata ipotizzata l’estensione dell’insegnamento della filosofia agli istituti tecnici oltre che
ai licei; ai bienni oltre che ai trienni della nuova secondaria; alla
formazione professionale oltre che all’istruzione liceale.
Se si tiene presente che, oggi, la filosofia è avvicinata da molti
anche al di fuori della scuola a livello più o meno divulgativo (iniziative e pubblicistica al riguardo si sono moltiplicate negli ultimi
anni), si può ben comprendere la necessità che proprio la scuola
non trascuri questa dimensione di ricerca.
Pertanto possiamo far nostra l’indicazione del Gruppo di lavoro seguito alla Commissione dei saggi: «Tutti i giovani hanno
diritto di fare esperienza, nel modo assistito e guidato che solo la
scuola può garantire, di cosa significa affrontare in modo razionale, cioè non soltanto emotivo o fondato su credenze, un problema
di carattere generale». Da qui l’auspicio di «dotare tutti i giovani
di strumenti concettuali adeguati alla ragionevole costruzione di
una soggettività propositiva e critica».
4. L’insegnamento scolastico della filosofia
Anche nell’ottica dell’insegnamento è da operare una distinzione:
quella tra «didatticità» filosofica e didattica della filosofia, cioè tra
la didattica «investigativa», intrinseca alla ricerca filosofica, e la
didattica pedagogica relativa all’apprendimento scolastico della
filosofia.
Al riguardo è da mettere in guardia da un rischio che si può
correre in questa dilatazione dell’insegnamento-apprendimento
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della filosofia, vale a dire la cosiddetta «didattizzazione», su cui ha
richiamato l’attenzione l’attuale presidente della SFI, Malusa, il
quale ha ricordato che «la disciplina (filosofica) non può essere
trascurata a vantaggio della formazione». Secondo questo studioso, «oggi si sta perdendo di vista l’aspetto disciplinare della filosofia a vantaggio dell’aspetto formativo puro. Prospettiva che deve preoccupare, in quanto rischia di vanificare lo specifico del sapere filosofico nel suo costituire elemento di rivendicazione dell’orizzonte della verità e dell’attribuzione di senso».
Si badi: non si tratta di disprezzare la didattica, ma di riconoscere che due sono le didattiche con cui la filosofia può avere a
che fare.
In primo luogo, c’è una didattica inerente alla filosofia in
quanto filosofia, ossia «una didattica come perennità di rapporto
trasmissivo di verità che coinvolge costantemente un maestro e un
allievo che amano la verità e che amano coinvolgersi a vicenda
nella sua ricerca» (Socrate, Agostino, Descartes «docent», per
quanto in modi diversi: classico, cristiano e moderno).
In secondo luogo, «c’è una didattica specifica (una delle tante didattiche speciali), da intendersi come abito a mediare i risultati della ricerca filosofica, o la filosofia così come è socialmente
considerata, con gli scopi dell’educazione scolastica o civile».
Ebbene, nel primo caso abbiamo una didattica in cui la filosofia è «vissuta», mentre nel secondo caso una filosofia che è «utilizzata»; nel primo caso la filosofia è colta nella sua peculiarità di
ricerca veritativa, sapienziale e dialogica, mentre nel secondo caso
la filosofia è strumentalizzata per fini formativi o sociali o culturali: tutte motivazioni (come abbiamo già detto) che sono valide, se
però sono subordinate alla finalità propria della filosofia, per cui
essa vale in sé, nella sua «inutilità». È facile constatare che oggi,
invece, la linea di tendenza sembra essere quella di legittimare la
filosofia per una qualche sua «utilità» (educativa, culturale o sociale, quando non addirittura economica).
Bisognerà allora, senza rifiutare questi usi della filosofia, avere
chiaro che essa è, prima di tutto e soprattutto, significativa in se stessa, per cui la filosofia ha una sua costitutiva «didatticità», che consiste nell’apprezzamento del soggetto (pensante), nella vitalità del rapporto (interpersonale) e nella fecondità del metodo (argomentativo).
Pertanto, più di un esercizio intellettuale, è un tirocinio sapienziale, più di un’acquisizione di conoscenza, è una conquista
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di autonomia, più di una competenza tecnica, è una consapevolezza etica, più di una molteplicità di risposte (che rischiano d’essere stravaganze più o meno bizzarre, secondo Cicerone, o «filastrocche di opinioni», secondo Hegel), è un’attitudine alla interrogazione che dalla ricerca condotta da altri non prescinde, ma ad
essa non si riduce («amicus Plato sed magis veritas», secondo Aristotele).
5. Conclusione
Occorrerà allora guardare con interesse alla tendenza verso una
alfabetizzazione filosofica, che sia precoce (addirittura a partire
dall’infanzia), diffusa (anche al di fuori della specializzazione) e
condivisa (nel riconoscimento dell’istanza umanistica). Ma occorrerà anche fare attenzione che questa alfabetizzazione filosofica,
tanto nella sua connotazione di estensione dell’insegnamento della filosofia quanto in quella di dilatazione della divulgazione della
filosofia, venga perseguita con l’intento di «fare esperienza della
filosofia», per cui i diversi approcci, che con la filosofia possono
essere attuati, vadano pur sempre ad incrementare il bisogno e la
capacità di filosofare. Non è da sottovalutare il rischio che, nelle
nuove modalità di avvio alla filosofia, si possa perdere o disperdere la filosoficità della ricerca filosofica, riducendola a un’attività
che si occupa di tutto in modo inconcludente e superficiale.
Invece, la filosofia va coltivata come espressione umana e
umanizzante: questo significato della filosofia va posto in primo
piano; altri significati saranno legittimi, a condizione che non entrino in conflitto con questo, anzi ad esso siano finalizzati.
In tale prospettiva, si potrebbe concludere ricordando (con
Epicuro) che non solo «non è mai troppo tardi», ma anche che
«non è mai troppo presto per filosofare»: almeno per aprirsi a tale esperienza e educarsi a viverla correttamente.
Giancarlo Galeazzi
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