Il mondo dentro il capitale (estratto)

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Biblioteca
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Edizione originale:
Im Weltinnenraum des Kapitals
Copyright © 2005, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main
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Peter Sloterdijk
Il mondo dentro il capitale
A cura di Gianluca Bonaiuti
Traduzione di Silvia Rodeschini
MELTEMI
In memoriam Siegfried Unseld
Indice
9
Introduzione
Gianluca Bonaiuti
Parte prima
La nascita del sistema mondo
31
Capitolo primo
Le grandi narrazioni
44
Capitolo secondo
L’astro errante
50
Capitolo terzo
Ritorno sulla Terra
56
Capitolo quarto
L’epoca del globo, l’epoca dell’immagine del mondo
63
Capitolo quinto
Distacco dall’Oriente, ingresso nello spazio omogeneo
67
Capitolo sesto
Jules Verne e Hegel
72
Capitolo settimo
Il mondo acquatico. Sul mutamento dell’elemento conduttore
nella Modernità
81
Capitolo ottavo
Fortuna, ovvero la metafisica della chance
84
Capitolo nono
Commercio di rischi
87
Capitolo decimo
Follia e tempo. Capitalismo e telepatia
92
Capitolo undicesimo
L’invenzione della soggettività. La disinibizione primaria e il
suo consigliere
103
Capitolo dodicesimo
Energie irriflessive: l’ontologia del progresso
115
Capitolo tredicesimo
Estasi nautiche
119
Capitolo quattordicesimo
Corporate Identity in alto mare, divisione degli spiriti
123
Capitolo quindicesimo
Il movimento fondamentale: il denaro fa ritorno
126
Capitolo sedicesimo
Tra fondamenti e assicurazioni. Sul pensiero di mare e di terra
135
Capitolo diciassettesimo
Spedizione e verità
139
Capitolo diciottesimo
I segni degli scopritori. La cartografia e l’incanto imperiale dei
nomi
152
Capitolo diciannovesimo
Il puro Fuori
155
Capitolo ventesimo
Teoria dei pirati. Il terrore bianco
159
Capitolo ventunesimo
La Modernità e la sindrome della Terra inesplorata. Americanologia I
164
Capitolo ventiduesimo
I cinque baldacchini della globalizzazione. Aspetti dell’esportazione europea dello spazio
166
Capitolo ventitreesimo
La poetica della vita sottocoperta
168
Capitolo ventiquattresimo
Cappellani di bordo. La rete religiosa
173
Capitolo venticinquesimo
Il libro dei viceré
176
Capitolo ventiseiesimo
La biblioteca della globalizzazione
179
Capitolo ventisettesimo
I traduttori
Parte seconda
I grandi interni
185
Capitolo ventottesimo
Il mondo sincronico
190
Capitolo ventinovesimo
La seconda ecumene
197
Capitolo trentesimo
Trasformazione immunologica: verso “società” dalle pareti
sottili
204
Capitolo trentunesimo
Fede e sapere: In hoc signo (sc. Globi) vinces
215
Capitolo trentaduesimo
Posthistoire
220
Capitolo trentatreesimo
Il palazzo di cristallo
229
Capitolo trentaquattresimo
Il mondo denso e la disinibizione secondaria: il terrorismo come
romanticismo del puro attacco
240
Capitolo trentacinquesimo
Il crepuscolo dell’agente e l’etica della responsabilità. Erinni
cibernetiche
246
Capitolo trentaseiesimo
Lo spazio mondano interno del capitale. Rainer Maria Rilke e
Adam Smith quasi si incontrano
266
Capitolo trentasettesimo
Mutazioni nello spazio del vizio
280
Capitolo trentottesimo
La transvalutazione di tutti i valori: il principio del superfluo
291
Capitolo trentanovesimo
L’eccezione: anatomia di un tentativo. Americanologia II
309
Capitolo quarantesimo
L’incomprimibile, ovvero la riscoperta dell’estensione
320
Capitolo quarantunesimo
Lode dell’asimmetria
325
Capitolo quarantaduesimo
Sinistra celeste e sinistra terrena
327
Bibliografia
Parte prima
La nascita del sistema mondo
…e così il globo corsaro attraversa instabile
l’etere tempestoso.
Henri Michaux, Lieux inexprimables
Capitolo primo
Le grandi narrazioni
Questo saggio è dedicato a un’impresa che non si sa se debba essere definita inattuale oppure impossibile. Ricapitolando la storia della globalizzazione terrestre, esso tenta di tracciare le linee di una teoria del tempo presente attraverso una grande narrazione filosoficamente ispirata.
Chi dovesse trovare strana questa pretesa, dovrebbe tenere presente che
è di per sé provocatorio il solo fatto di avanzarla; lasciarla cadere sarebbe,
però, disfattismo intellettuale. Da secoli il pensiero filosofico pretende
di dire chi siamo e che cosa dobbiamo fare, incluse, da più di duecento anni, anche affermazioni sul modo in cui ci datiamo nella “storia”.
L’irruzione del tempo nel pensiero filosofico della vecchia Europa ha imposto finora solo una revisione parziale della tradizione. Tuttavia, oggi,
che appare conclusa l’era che ha idolatrato il tempo in modo unilaterale, anche lo spazio vissuto rivendica i suoi diritti. Già Kant (1786, pp.
47 sg.) era cosciente del fatto che la ragione stessa possiede un modello per orientarsi nello spazio. Chi volesse sviluppare sufficientemente
questa indicazione, dovrebbe giungere, di conseguenza, a una mutata
concezione dell’attività filosofica: la filosofia è il suo spazio espresso nel
pensiero. Nei momenti in cui essa sa quello che fa, porta i segni di una
discussione sulla situazione in cui molteplici discipline hanno da dire la
loro. Per chiarire la situazione sono necessarie delle grandi narrazioni.
Questo tentativo risulta inattuale a causa del consenso che regna tra gli
intellettuali dell’ultima generazione a proposito del fatto che proprio le
cosiddette “grandi” narrazioni abbiano definitivamente fatto il loro
tempo. Questa opinione ha un suo fondamento. Si basa sulla plausibile convinzione che note narrazioni di questo tipo conservino insuperabili tratti di provincialismo nonostante volessero costruire l’andamento della “storia” nei suoi tratti generali e universali; che, animate da pregiudizi deterministici, abbiano contrabbandato nel corso delle cose
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PETER SLOTERDIJK
proiezioni di scopi di una linearità sfacciata; che fossero complici nel saccheggio coloniale del mondo, a causa del loro irrimediabile eurocentrismo; che, insegnando in modo più o meno esplicito una storia della salvazione, collaborassero alla realizzazione di sciagure mondane di enormi dimensioni; e che ora, finalmente, si dovesse dare impulso a un pensiero completamente diverso, un discorso sulle cose della storia che
fosse discreto, polivalente, non totalizzante e, soprattutto, cosciente
della sua propria determinatezza prospettica.
Questa concezione è perfettamente corretta ma solo fino alla conseguenza che se ne trae immediatamente dopo in una direzione falsa e rassegnata. È vero che lo storico delle idee, se osserva retrospettivamente
con sensibilità i capolavori della narrazione filosofica e le esegesi classiche del mondo messo in movimento dalla storia, ha a che fare con un insieme variopinto di esagerazioni rapsodiche. Ciò che ha sin qui preso il
nome di filosofia della storia sono, senza eccezioni, sistemi folli di argomenti sconsiderati. Essi conducevano ogni volta a montaggi frettolosi dei
materiali, orientandoli su linee rette tracciate con violenza, come se i pensatori fossero vittima di una sindrome di iperattività che li spingeva verso fini errati. Fortunatamente, sono ormai passati i tempi in cui è possibile che abbiano conseguenze nel mondo reale delle dottrine affascinanti
che promettono ai loro adepti di aprirsi il varco, con l’aiuto di un pugno
di concetti semplificanti, verso la sala macchine della storia universale –
se non addirittura verso i piani alti dell’amministrazione della torre di Babele. La vanitas di tutti i costrutti della filosofia della storia salta oggi agli
occhi degli stessi profani; qualsiasi studioso alle prime armi, qualsiasi gallerista ne ha avuto abbastanza di questi fabbricati, tanto da mostrare un
certo sorriso di fronte a espressioni come spirito del mondo, scopo della storia e, più in generale, progresso.
La soddisfazione per queste chiarificazioni non dura però a lungo:
il consueto discorso sulla fine delle grandi narrazioni conduce, infatti,
oltre il suo oggetto critico, non appena esso non si accontenti più di confutare alcune insopportabili semplificazioni. Non è, dal canto suo, anch’esso sfociato in una comoda meta-narrazione? Questo nuovo mito
intellettuale non è indubbiamente connesso a un’inerzia irritante che
vuole vedere in ciò che è ampio solo qualcosa di fastidioso e in ciò che
è grande solo qualcosa sospettabile di mania? Effettivamente, agli scettici post-dialettici e post-strutturalisti non ha forse fatto seguito negli
ultimi decenni una parziale paralisi del pensiero, di cui la specializzazione in micro-storie condotta in archivi remoti e avversa alle idee – come quella attualmente circolante nelle scienze umane – costituisce la
forma più moderata?
LE GRANDI NARRAZIONI
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Se si osservano le grandi narrazioni divenute famose sino a oggi –
quella cristiana, quella liberal-progressista, quella hegeliana, quella
marxista, quella fascista – come tentativi mal riusciti di impossessarsi
della complessità del mondo, questa conoscenza critica non delegittima il racconto di cose passate né dispensa il pensiero dallo sforzo di
dotarsi di un’ottica sensibile alla luce che consenta la messa a fuoco di
singolarità del tutto devianti. Pensare non significa forse da sempre accettare la sfida di vedere comparire oggettivamente davanti ai nostri occhi ciò che è smisurato? E proprio sfidarlo a un comportamento concettualmente comprensibile non è di per sé insopportabile per la natura tranquillizzante della medietà? La povertà di siffatte grandi narrazioni non è assolutamente da rintracciare nel fatto che sono troppo
grandi, ma, al contrario, nel fatto che non lo sono abbastanza. Ovviamente, si rimane liberi di dibattere sul senso del termine “grande”. Per
noi “sufficientemente grande” significa essere vicino al polo della smisuratezza. “(…) E che cosa sarebbe pensare se non un misurarsi continuamente con il caos” (Deleuze, Guattari 1991, p. 211).
Lo schizzo che qui si propone è una parte del “progetto-sfere”, che
è un tentativo di più ampio respiro di configurare unitamente ciò di cui
si occupa il racconto e ciò di cui si occupa la filosofia, in modo in parte neo-scettico e in parte neo-morfologico (Sloterdijk 1998a, 1999,
2004). Nell’elaborazione del progetto – la pubblicazione dei volumi è
stata ultimata nel 2004 – è stato visto lo sviluppo del motivo della sfera sia nella cosmologia filosofica sia nella teologia vetero europea; con
una certa completezza sono state verificate le sue implicazioni psicodinamiche ed è stata testata la sua capacità formativa sul piano antropologico. È così venuto alla luce, tra le altre cose, l’elevato valore d’uso psicosemantico o religioso della speculazione intorno alla sfera. Nella sfera che tutto comprende gli antichi scoprirono una geometria della sicurezza: in questa si dispiegava, come si doveva mostrare, il forte
movens della produzione dell’immagine metafisica o totale del mondo.
Secondo il racconto delle sfere divine e della sfera-universo, sviluppato in Sphären II, Globen, questa immagine d’insieme sublime e immaginaria era stata condannata a scomparire con l’inizio dell’età moderna (Lerner 1996), mentre l’ubicazione dell’uomo, il pianeta Terra, si
mette sempre più esplicitamente in risalto. In un’alba durata per secoli
la Terra è emersa come l’unica vera sfera alla base dell’intero insieme
del vivente, mentre tutto ciò che sino ad allora era valso come cielo gemello e carico di senso va incontro a uno svuotamento. Questo divenire fatale della Terra, evocato dalle pratiche umane, insieme a una contemporanea perdita di realtà della sfera dei numi, sino ad allora vitale,
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PETER SLOTERDIJK
non delinea il semplice sfondo degli avvenimenti che oggi prendono il
nome di globalizzazione; è la rappresentazione teatrale [Drama] stessa della globalizzazione. Il suo nocciolo si trova nell’osservazione che
sulla Terra scoperta in ogni angolo, collegata in una rete e resa singolare, le condizioni dell’immunità umana mutano completamente.
Se, a differenza di molte altre analisi di questo tema, tale rappresentazione sottolinea i suoi aspetti filosofici, ciò accade sotto il segno
del fatto, finora poco considerato, che l’oggetto della storia qui in questione, il globo terrestre, è un oggetto pieno di capricci metafisici che
si nasconde volentieri dietro un aspetto di apparente normalità. Esso
rappresenta un ibrido geografico-filosofico, della cui peculiarità logica e fisica non è affatto facile farsi un’idea. Ciò significa in primo luogo che la tormentata sfera azzurra con macchie giallo savana non sembra più essere una cosa tra le altre, un piccolo corpo tra i corpi, che statisti e scolari possono far ruotare con un movimento della mano; essa
deve contemporaneamente riprodurre la totalità singolare o la monade geologica che svolge la funzione di fondamento per tutta la vita, il
pensiero e le invenzioni. Nel corso della modernizzazione la questione dell’ubicazione terrestre si sviluppa in modo sempre più stringente: mentre nell’immagine del cosmo degli antichi la Terra veniva paradossalmente presentata come il centro marginale di un universo, che
potevamo prendere in considerazione solamente dall’interno, essa viene percepita dai moderni come una sfera eccentrica, della cui rotondità ci possiamo persuadere anche da un punto di vista esterno. Ciò avrà
conseguenze inaspettate per “l’immagine del mondo” delle generazioni successive a Mercatore. Il monogeismo1 [Monogeïsmus], la convinzione circa l’unicità di questo pianeta, si rivela per noi un dato di fatto che ringiovanisce ogni giorno e in base al quale il monoteismo non
potrà essere in futuro altro che un oggetto di fede decrepito, che non
può essere riattualizzato neppure con l’aiuto di bombe bigotte dal Medio-Oriente. Le prove dell’esistenza di Dio portano inevitabilmente il
segno del loro fallimento, mentre le prove dell’esistenza del globo terrestre hanno dalla loro parte un flusso ininterrotto di evidenze. Di seguito ci dovremo occupare delle circostanze in cui si è potuti giungere a un accumulo di così tante prove a favore dell’unità dell’oggetto tanto massiccio quanto sublime sul quale viviamo.
1
“Monogeismo” traduce il termine tedesco Monogeïsmus, così come “monogeistica” fa
con l’aggettivo monogeïstische. Sul piano lessicale queste tradizioni tendono a sottolineare la
contrapposizione al termine “monoteismo” (N.d.T.).
LE GRANDI NARRAZIONI
35
Con questo accenno abbiamo fatto il nostro ingresso nel cuore nella filosofia – premesso che ci affidiamo all’assunto che il filosofare non
sia solo, come si sente molto spesso dire negli ultimi tempi, un’attività
priva di un oggetto specifico, ovvero un modus vivendi, ma al contrario che essa possegga un’oggettività con propri diritti, per non parlare
di un oggetto suo proprio. La filosofia può e vuole essere esercitata a
regola d’arte come se fosse una quasi-scienza delle totalizzazioni e delle loro metafore, come una teoria narrante della genesi dell’universale
e infine come meditazione sull’essere-in-situazioni – ovvero sull’essere-nel-mondo; a questo do il nome di “teoria dell’immersione” o di teoria generale dell’essere-insieme e fondo, a partire da ciò, l’apparentamento della filosofia più recente con l’arte dell’installazione (Sloterdijk
2004, pp. 501-534, 801-802).
Una delle principali caratteristiche delle consuete prospettive sulla
globalizzazione è, detto chiaramente, la comicità discreta. Di fatto si tratta di un filosofare selvaggio che si trova evidentemente più a proprio agio
se i professionisti del mestiere non si immischiano nel dibattito. Così accade che oggi i più filosofici tra i topoi della politica e della teoria della
cultura circolino per il mondo praticamente senza il coinvolgimento della corporazione. La più efficace delle totalizzazioni, l’unificazione della Terra per mezzo del denaro in tutte le sue forme – come merce, come testo, come numero, come immagine e come élite – si compie autonomamente, senza che i membri della facoltà di saggezza mondana sappiano dire niente di più a tale proposito di un qualsiasi lettore di giornali di un paese dove ci sia più o meno libertà di stampa. Quando i filosofi contemporanei si sono espressi secondo le regole della loro arte
a proposito di tale questione, lo hanno fatto con pubblicazioni nella maggior parte dei casi marginali e, probabilmente, prive di effetti degni di
nota sulle correnti pubbliche di opinione – eccezion fatta per Impero di
Hardt e Negri, conosciuto in tutto il mondo.
Accresce l’ironia della situazione il fatto che si possa avere la convinzione che questo livellamento dell’opinione filosofica nella generale confusione delle idee sia testimone di una condizione cui dare il benvenuto. Si può argomentare precisamente che alla filosofia, che fino a
poco tempo fa dava a intendere di sognare di essere messa in pratica,
non potesse accadere niente di meglio che prendere posto tra le cose
intorno cui ci si trova d’accordo quotidianamente e senza gerarchie. Ci
si potrebbe azzardare ad affermare che un esplicito non-voler-esserenulla-di-particolare del discorso filosofico è una prova del fatto che si
ha a che fare con un pensiero che è all’altezza del tempo – e le altezze
del tempo odierno hanno rinnegato la cattiva abitudine di distinguer-
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PETER SLOTERDIJK
si. Di conseguenza, l’egemonia dei non filosofi nella questione della globalizzazione potrebbe essere letta come il segno che la “società” – o come si voglia chiamare la pluralità che convive e fa politica – è diventata immune da pericolosi entusiasmi indotti dalla filosofia così come da
parole d’ordine altezzose e generiche sulla situazione del mondo. Perché dunque lamentarsi della marginalizzazione della filosofia?
Lungi da me negare gli aspetti sensati di un tale punto di vista. Osservata da un punto di vista complessivo, la monopolizzazione dei discorsi sulla globalizzazione a opera di politologi e scienziati sociali, cui
dobbiamo la continuazione del giornalismo con arcigni mezzi, sarebbe sopportabile, se non fosse che i concetti fondamentali di questo dibattito sono quasi senza eccezioni termini filosofici non riconosciuti come tali, il cui uso amatoriale conduce a suggestioni e fraintendimenti
di senso. Chi fa filosofia senza tenere presente lo stato dell’arte fa, in
ultima istanza, sempre un’attività mitica, camuffata o esplicita, e non
di rado con conseguenze pericolose. La proliferazione di affermazioni
non verificate, che non si arresta più ai confini dello Stato nazionale,
fa parte degli effetti collaterali degni di nota dell’attuale ondata parafilosofica. Copie clandestine di questa inconsapevolezza circolano liberamente in tutto il mondo. Esse offrono un esempio lampante per
la tesi che tutto ciò che dipende dalla clientela o si vende su tutti i mercati o non si vende affatto. Curiosamente, sono non di rado gli spiriti
liberali, questi nemici dichiarati delle grandi narrazioni teologiche e filosofiche, che si lanciano in ipotesi politicamente virulente facendo uso
di concetti infondati di globalità e totalità, di tempo, spazio e situazione,
di unità, molteplicità e reciproca influenza, inclusione, esclusione e altre parole, le quali, scritte l’una dopo l’altra, producono un editoriale.
Contro gli effetti collaterali di queste forme di sconsideratezza viene
in soccorso in primo luogo ricordare l’origine filosofica del motivo-globo. Potremmo iniziare con un rapido accenno al fatto che “globus” è un
sostantivo che rappresenta un’idea semplice, la tesi del cosmo, e un doppio oggetto cartografico, cioè il cielo degli antichi e la Terra dei moderni;
da questi nomi dipendono le correnti deduzioni circa lo stato “globale”
delle cose, che ha recuperato il suo rango di sostantivo passando per il verbo inglese to globalize – da cui la figura ibrida della “globalizzazione”. Questa espressione ha comunque il vantaggio di sottolineare il tratto attivo degli eventi a livello mondiale: se la globalizzazzione ha luogo, ciò accade
sempre con operazioni che hanno conseguenze in luoghi lontani.
Nel passaggio successivo bisognerebbe provare l’affermazione che
la rappresentazione di una sfera, che funge da contenitore o supporto
per la vita biologica e riflessiva, fosse costitutiva presso i Greci per il di-
LE GRANDI NARRAZIONI
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spiegamento filosofico dell’universo. La cosmologia dell’antichità occidentale, cioè quella dei maestri platonici e tardo ellenistici, si è votata
all’idea di dover rappresentare la totalità di ciò che è nell’immagine stimolante di una sfera che tutto comprende. Il nome di quest’opera è tuttora presente nella memoria europea, per quanto nostalgicamente spezzata, poiché a partire dagli antichi giorni dell’Accademia il grande cerchio di ciò che è prende il nome di kosmos – un nome che rievoca il carattere di splendore e bellezza dell’universo. Allo stesso tempo ci si è rivolti al medesimo oggetto chiamandolo cielo, Uranos. Il nome titanico
esprime l’idea che il mondo trovi i suoi confini in un’ultima volta di etere – un’immagine che si sarebbe anche potuta chiamare speranza. Si voleva pensare il cielo come un ampio vaso che fornisce il supporto per le
stelle fisse e calma la paura di cadere degli uomini. Il cielo è, secondo
Aristotele, l’involucro più esterno della sfera che tutto contiene e non
viene contenuto da nulla (Fisica, 212b). Misurare questo cielo con il pensiero significava compiere la prima globalizzazione. Con ciò nacque anche la buona novella della filosofia: che l’uomo, per quanto depresso dall’esperienza del disordine, non può cadere dal mondo.
In questo modo i veri inizi della globalizzazione si trovano nella razionalizzazione della struttura del mondo a opera dei cosmologi antichi, che per la prima volta con serietà concettuale o, meglio, morfologica hanno costruito la totalità degli esseri in forma sferica e hanno offerto alla trattazione degli intellettuali questa immagine edificante di ordine. L’ontologia classica era, tanto come teoria del divino quanto come teoria del mondo, una sferologia – essa forniva una teoria del globo assoluto in forma immaginifica (Mahnke 1937). Conquistò stima come geometria sublime che poneva al centro ciò che era ben fatto, circolare, che ritornava in sé. Ha suscitato simpatie come logica, etica ed
estetica delle cose rotonde. Per i pensatori della tradizione europea vale come cosa certa che ciò che è buono e ciò che è rotondo abbiano la
medesima provenienza. A partire da qui, la forma a palla ha potuto acquisire efficacia come sistema immunitario a livello cosmologico. Teorie della non-sfericità entrano in gioco come conquiste molto più tardive – esse annunciano la vittoria delle scienze esatte, la morte di Dio,
le matematiche del caos e la fine della vecchia Europa.
Richiamare alla memoria queste circostanze significa esplicitare la
ragione per cui la “globalizzazione” nel suo complesso è un fenomeno
molto più potente sul piano logico e sul piano storico di quanto non
venga compreso dal giornalismo attuale e dai suoi procacciatori di dati economici, sociologici e polizieschi. I discorsi a questo proposito, ed
è qui indifferente se essi vengano espressi nelle edizioni settimanali o
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PETER SLOTERDIJK
negli inserti della domenica, toccano esclusivamente l’episodio più recente, fortemente segnato da uno scambio accelerato di merci, segni e
microbi, per parlare solo in seguito dei mercati finanziari e dei suoi fantasmi. Chi voglia tenere presente la serietà ontologica dell’evento che
noi discutiamo con il nome di globalizzazione – l’incontro tra essere e
forma in un corpo sovrano –, deve mettere in risalto nel concetto stesso le differenze epocali sino a ora scarsamente percepite. Perciò qui all’espressione globalizzazione viene accostato l’aggettivo terrestre. Esso
deve indicare che con ciò trova espressione un capitolo di una storia
più lunga, che ha una dimensione intellettualmente stimolante, di cui
coloro che contribuiscono al dibattito attuale non possiedono normalmente una rappresentazione adeguata.
La globalizzazione terrestre (praticamente compiuta dai viaggi per mare cristiano-capitalistici e politicamente stabilita dal colonialismo degli Stati nazionali vetero-europei) costituisce, come si mostrerà, la fase intermedia compiutamente osservabile di un processo in tre fasi, i cui inizi sono stati presi in considerazione più compiutamente altrove (Sloterdijk
1999). Questo segmento intermedio della durata di cinquecento anni è
entrato a fare parte dei libri di storia come “epoca dell’espansionismo europeo”. Risulta facile agli storici guardare al periodo di tempo che va dal
1492 al 1945 come a un complesso in sé compiuto di eventi – è l’epoca
in cui l’attuale sistema-mondo ha assunto i suoi contorni. Esso è preceduto, come si è già notato, dalla globalizzazione cosmo-uranica, questo
primo e potente stadio del pensiero della sfera che si potrebbe chiamare – in onore della predilezione per le figure sferiche della dottrina classica dell’essere – globalizzazione morfologica (o, meglio, onto-morfologica). A esso fa seguito la globalizzazione elettronica, con la quale hanno a che fare il tempo presente e i suoi eredi. I tre grandi stadi della globalizzazione si differenziano perciò, in primo luogo, secondo il loro medium simbolico e tecnico: costituisce una differenza epocale se si misura una sfera idealizzata con linee e tagli, se si circumnaviga una sfera reale con navi oppure se si fanno circolare aeroplani e segnali radio nella calotta atmosferica. Costituisce una differenza ontologica se si pensa a un
cosmo che ospita il mondo delle essenze o se si pensa a una Terra che
funge da supporto per diverse immagini del mondo.
L’apice delle sfere metafisiche – di cui Dante e Cusano sono i più
eminenti testimoni – è il punto di svolta che conduce alla loro dissoluzione. La fase di decadenza del dispiegamento sfero-cosmologico
degli esseri inizia con la cesura culturale che, sulle tracce di Jacob
Burkhardt, chiamiamo Rinascimento. Il grande studioso di storia e
morfologia aveva proposto per questa rottura nella Modernità la for-
LE GRANDI NARRAZIONI
39
mula “scoperta del mondo e dell’uomo”, che coincide, come vedremo,
con la fase di ascesa del realismo terrestre. Esso ha inizio, se guardiamo agli oceani, con i grandi viaggi dei portoghesi e, se guardiamo al cielo, con le “rivoluzioni” di Copernico e con il distacco di Keplero dal
dogma del movimento circolare ideale delle orbite planetarie. Questa
rinuncia doveva portare alla caduta delle consolanti volte eteree del cielo, poiché sottraeva fondamento all’idealismo dei cerchi. In una successione stringente, a partire da quei giorni, il capitolo logico ed empirico trovò il suo compimento in un modo completamente nuovo di
rivolgersi al pianeta Terra – forse si comprenderà un giorno che la scoperta e la cartografizzazione di quel mondo neurologico che è il cervello umano vanno imputate al medesimo mutamento. Tra le sue conseguenze c’è la fondazione empirica della fede monogeistica [monogeïstische], della Modernità. Essa introduce all’epoca della concezione della Terra, nella cui fase di saturazione siamo entrati da poco meno di mezzo secolo.
L’espressione “saturazione” [Sättigung] possiede nel contesto dato
un senso teoretico-pratico: dopo l’appagamento della fame di mondo,
che si è manifestata nelle spedizioni e nelle occupazioni di terre da parte di agenti europei, ha avuto inizio, al più tardi al principio del 1945,
un’era il cui modus di creazione del mondo si differenzia decisamente
da quello del periodo che si stava chiudendo. Il suo tratto caratteristico è il primato crescente degli scrupoli di fronte alle iniziative. Dopo
che la globalizzazione terrestre era stata compiuta per secoli come unilateralità nell’azione, da pochi decenni si guarda indietro agli atti e ai
modi di pensare di quest’era con obbligata contrizione – essi assumono l’allarmante nome di eurocentrismo, come per annunciare che ci si
è distaccati dalle opere prodotte con questi mezzi un tempo ritenuti tanto coraggiosi. Contrassegneremo quest’epoca come periodo di azione
dell’unilateralismo – come presa asimmetrica del mondo, che trovava
il suo punto di origine nei porti, nelle corti e nelle ambizioni dell’Europa. Rimane da mostrare come e perché il complesso di queste azioni precipitose, eroiche e miserevoli dovesse fare il suo ingresso nei libri sotto il nome di “storia universale”2 – e perché la storia universale
2
Si è reso qui con “storia universale” il termine tedesco Weltgeschichte. Questo termine presenta un ineludibile problema di traduzione legato alle difficoltà di rendere in italiano il senso del termine Welt (mondo). La traduzione più corretta è probabilmente “storia mondiale” ma si è qui preferita quella di “storia universale” in ossequio alla traduzione resa in
italiano del titolo delle lezioni hegeliane su questo argomento, che costituiscono una delle
pietre miliari del genere filosofico qui discusso da Sloterdijk (N.d.T.).
40
PETER SLOTERDIJK
in questo senso del termine è definitivamente finita. Se il termine “storia” indica la fase di successo dell’unilateralismo – e continueremo più
avanti a difendere questa definizione – allora i cittadini della Terra vivono oggi indubbiamente in un regime post-storico. Se questo reperto si accordi con la pretesa degli Stati Uniti di essere, in qualità di “nazione indispensabile”, l’erede di un concetto unilaterale di mondo,
verrà discusso più avanti in un apposito paragrafo.
La globalizzazione è satura [gesättigt] in senso morale da quando le
vittime rimandano indietro da tutto il mondo ai colpevoli le conseguenze delle loro azioni – questo connota il nocciolo di una situazione postunilaterale, post-imperiale e post-coloniale. È satura anche in senso tecnico, a partire dal momento in cui i trasporti veloci e i media ultraveloci hanno superato il lento traffico mondiale dell’epoca della navigazione (non cambia nulla il fatto che oggi il trafficare disincantato sui mari
sia quantitativamente molto più ampio di quanto non sia mai stato nelle epoche precedenti: il 95 per cento delle tratte mondiali di materiali vengono effettuate attualmente sulle rotte marittime). Da un tour aeronautico intorno alla Terra si può fare ritorno a casa quasi nel volgere di una
giornata; si viene normalmente informati di grandi eventi politici, di gravi reati e onde anomale al capo opposto della Terra nel giro di pochi minuti o poche ore. La Terra è satura [gesättigt] in senso sistemico dal momento che i vettori dell’espansione nello spazio aperto hanno la necessità di assumere come punto di vista che tutte le iniziative siano sottoposte al principio dell’azione reciproca e che la maggior parte delle offensive, dopo un certo periodo di rielaborazione, retroagiscono sulla
fonte originaria. Queste retroazioni si compiono ora entro lassi di tempo che non sono più lunghi di una vita umana, spesso addirittura sono
più brevi del periodo di tempo durante il quale chi le compie riveste una
determinata carica, di modo che gli agenti si trovano personalmente
sempre più a confronto con le conseguenze del proprio agire – bisogna
perciò apprezzare come novità sul piano mondiale i processi contro capi di Stato criminali come Pinochet, Miloševic´, Saddam Hussein e altri
sfortunati unilateralisti. Nella misura in cui la giustizia immanente guadagna terreno, le idee di una ricompensa nell’aldilà – sino a ora ingrediente irrinunciabile di una morale altamente evoluta sul piano culturale – possono perdere per noi di significato. La tesi idealistica in base alla quale la storia universale conterrebbe il giudizio universale si riempie
di un nuovo senso a opera della crescente densità: nel mondo addensato gli attori, che hanno osato farsi ulteriormente avanti, sono di fatto esposti a un giudizio ininterrotto da parte dei loro osservatori e dei loro avversari; la probabilità di resistenze e contromisure conferisce al concet-
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to di realtà la sua attuale coloritura. Entro un intenso traffico di eventi
le singole iniziative sono sottoposte alla legge di un sempre crescente ostacolo reciproco – fino al punto in cui la somma di tutte le imprese che avvengono contemporaneamente non si stabilizza in un’iperattiva e vibrante gelatina: è questo il significato dell’espressione “civilizzazione
poststorica”, se la si intende in modo corretto. Circola la voce che le
espressioni “cooperazione” e “reciproco ostacolarsi” vogliano dire la medesima cosa.
Con l’affermazione nell’anno 1944 del sistema monetario mondiale di Bretton-Woods basato sull’oro si può considerare conclusa la globalizzazione terrestre (Albrow 1996)3; essa si può comunque considerare finita al più tardi con l’installazione di un’atmosfera elettronica e
di un ambiente satellitare nell’orbita della Terra negli anni Sessanta e
Settanta del XX secolo. Nel medesimo movimento si inserisce l’istituzione sempre un po’ titubante di una corte di giustizia internazionale,
questo porto sicuro per la giustizia, in cui i delitti che sono stati compiuti in giro per il mondo vengono ricondotti ai loro autori.
A questo livello divengono visibili le manifestazioni dell’attuale terza globalizzazione. Di esse si parlerà soprattutto nella seconda parte di
questo libro, che tratta dell’istituzione e della formazione dello “spazio interno mondano” [Weltinnenraum] del capitale. Per la descrizione del mondo globalizzato, che si potrebbe anche chiamare “mondo
sincronico”, ci rifacciamo all’immagine del palazzo di cristallo coniata
da Fëdor Dostoevskij nel romanzo Memorie del sottosuolo, pubblicato nel 1864 – una metafora che fa riferimento al famoso palazzo dell’esposizione mondiale di Londra del 1851. In esso lo scrittore russo
credeva di trovarsi davanti agli occhi il concentrato ultimo dell’essenza della civilizzazione occidentale. Egli riconobbe nella mostruosa costruzione una struttura che distrugge l’uomo, cioè proprio un nuovo
Baal – un container di culto, nel quale gli uomini sono schiavi dei demoni dell’Occidente: il potere del denaro, il puro movimento e il godimento che eccita e stordisce. I tratti caratteristici del culto di Baal,
per il quale gli economisti di oggi propongono il termine “società dei
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La Global Age con la sua impronta concettuale meta-descrittiva e meta-programmatica spinge Albrow ad affermare che dopo il mezzo millennio intercorso tra il viaggio di Colombo e la seconda guerra mondiale, che stava sotto il segno della sintesi del mondo operata dagli europei, si è giunti a una nuova qualità o a un nuovo livello di globalità, al quale è
necessario reagire con un proprio concetto di epoca, ovvero con un nome eloquente per l’epoca attuale; si veda anche infra, pp. 188-189.
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PETER SLOTERDIJK
consumi”, possono essere illustrati sempre a partire dalla metafora di
Dostoevskij del palazzo, anche se preferiamo prendere le distanze dalle suggestioni religiose presenti nell’autore – così come le prendiamo
dalla geniale e oscura allusione di Walter Benjamin al “capitalismo come religione”. Il “palazzo di cristallo” racchiude lo spazio mondano interno del capitale, nel quale ha luogo l’incontro virtuale tra Rainer
Maria Rilke e Adam Smith – daremo la parola a entrambi questi autori al momento opportuno. Abbiamo ripreso l’espressione “palazzo di
cristallo” soprattutto al fine di dar voce alla percezione di quanto poco gli attuali discorsi sul “mercato mondiale” siano in grado di caratterizzare la costituzione del vivente in balia di penetranti relazioni monetarie. Lo spazio mondano interno del capitale non è né un’agorà né
un mercato a cielo aperto, è al contrario una serra, che ha risucchiato
al suo interno tutto ciò che prima era esterno. Attraverso l’immagine
del palazzo planetario dei consumi trova espressione il clima stimolante
di un mondo delle merci interno e integrale. In questa Babilonia orizzontale l’essere uomo diviene una questione di potere d’acquisto e il
senso della libertà si rivela nella capacità di scegliere tra prodotti del
mercato – o di fabbricarsi da sé prodotti di questo tipo.
Per ciò che riguarda il senso generale dello spazio è indicativo, per
la terza ondata della globalizzazione, che essa privi di spazio il globo
reale e che ponga al posto della sfera terrestre, richiusa entro delle volte, un punto pressoché privo di estensione, ovvero una rete di punti di
intersezione e linee, che non indicano altro se non collegamenti tra calcolatori che si trovano tra loro a una qualsiasi distanza. Se la seconda
ondata aveva fatto risaltare nell’intuizione umana l’immensa estensione del pianeta grazie a velocità medie e basse, la terza, per mezzo di alte velocità, ha fatto scomparire il senso della distanza della Modernità.
A ciò risponde oggi un diffuso disagio rispetto alla costituzione ultracomunicativa del sistema-mondo – una percezione legittima, come intendiamo sostenere, poiché ciò che oggi si festeggia come buone azioni della telecomunicazione viene vissuto da un numero incalcolabile di
persone come un esito sospetto, con il supporto del quale noi ora possiamo renderci reciprocamente infelici da lontano, mentre prima questa possibilità era esclusivo appannaggio dei nostri vicini diretti. Ove
viene negata dignità alla distanza, la Terra – insieme alle sue estasi locali – si assottiglia sino a un quasi-nulla, finché della sua regale estensione non resta altro che un logoro logo.
Dopo questa premessa al titolo del libro bisogna dare una risposta
alla domanda su quanto seriamente fosse inteso il titolo della parte finale di Sphären II (Sloterdijk 1999, pp. 801-1004), che in forma modi-
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ficata è stato inserito in questa ricerca4. L’autore prega di credere che
il finitismo [Endismus] e l’ultimatismo [Ultimatismus] del feuilleton
apocalittico gli paiono tanto ridicoli quanto al più annoiato dei lettori
ben disposti. Non si è parlato di un’“ultima sfera” con l’intenzione di
mettere in scena un singolare western filosofico. Sullo sfondo della
grande narrazione dell’incontro tra essere e cerchio doveva divenire
comprensibile perché la globalizzazione terrestre non sia una storia tra
le tante. Essa è, come vorrei mostrare, l’unico pezzo di tempo nella vita dei popoli che si sono scoperti a vicenda, alias l’“umanità”, che si merita di venire chiamata in un senso filosoficamente rilevante “storia” o
“storia universale”.
La storia universale era l’elaborazione della Terra come supporto di
culture ed estasi; il suo ductus era la trionfante unilateralità delle nazioni europee in espansione; il suo stile logico è la comprensione indifferente di tutte le cose sotto il segno dello spazio omogeneo, del tempo omogeneo e del valore omogeneo; la sua modalità operativa è la condensazione; il suo risultato economico è l’affermazione del sistema-mondo; il suo fondamento energetico sono i combustibili fossili, ancora presenti in abbondanza; il suo primigenio gesto estetico sono l’espressione isterica di sentimenti e il culto dell’esplosione; il suo risultato psico-sociale è l’obbligo a condividere lo conoscenza di una povertà lontana; la sua chance vitale è la possibilità di mettere a confronto sul piano interculturale le fonti della felicità con il management del rischio; il
suo fulcro morale è il passaggio dall’ethos della conquista all’ethos del
lasciarsi domare dal conquistato; la sua tendenza civilizzatrice si esprime in un denso complesso di sgravi, assicurazioni e garanzie di comfort;
la sua sfida antropologica è la creazione in massa di “ultimi uomini”;
la sua conseguenza filosofica è la possibilità di vedere sorgere una terra negli innumerevoli cervelli.
Non dovrebbe essere difficile ammetterlo: la riunificazione di molti mondi sino a ora separati in un contesto esteso a tutta la Terra è un
soggetto entro il quale filosofia e storiografia si incontrano per la natura stessa della cosa. Se si sfoglia all’indietro il giornale di bordo dell’ultimo mezzo secolo – che, seppure susciti la rabbia di alcuni, portava il titolo corretto di “storia universale” (Freyer 1954)5 – si capisce anche in che senso la sfera intorno alla quale hanno navigato Magellano
e i suoi successori può essere detta l’ultima o, addirittura, l’unica.
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Di questa parte di Sphären II esiste una traduzione italiana, v. Bibliografia.
Le opportune correzioni della visione eurocentrica della globalizzazione terrestre si trovano in Hopkins 2002.
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