5 LA SVOLTA LINGUISTICA 5.3 IL PROBLEMA DELL'INTERPRETAZIONE. DONALD DAVIDSON E L'APERTURA ALLA FILOSOFIA DEL SENSO COMUNE. Col passare degli anni la cosiddetta Linguistic Turn ha fatto emergere problematiche in precedenza non trattate. Una tra queste è il problema dell'interpretazione. Il problema dell'interpretazione e quello della verità di un enunciato – questioni che sono intrinsecamente correlate alla teoria del significato – sono due tematiche che sono state al centro della speculazione filosofica del secolo decimonono soprattutto per quel che riguarda il modus analitycus di fare filosofia. Non a caso queste problematiche trovarono adito nei pensieri dei filosofi anglo-americani che fortemente influenzati dalla mentalità neopositivista, pur discostandosi da questa propendendo per una visione pragmatica della realtà, avevano come scopo comune il raggiungimento di una filosofia scientifica. Se è pur vero che nell'ultimo secolo molti scienziati hanno abbandonato ogni «teoria del significato» giacché hanno sperimentato che ogni teoria avanzata risultava essere pur sempre approssimativa e mai esatta, Donald Davidson al contrario ha insistito nel trarre una teoria universalmente condivisa riguardo il problema dell'interpretazione. Ciò che il filosofo statunitense si domandava era in primis come fosse possibile comprendere il significato delle proposizioni altrui, e secondariamente come fosse possibile eliminare ogni ambiguità ed interpretazione nella conoscenza scientifica. In ultima istanza la soluzione promossa da Davidson a queste domande sfociò in quella che lo stesso autore definì «interpretazione radicale»; ma cerchiamo ora di ripercorrere analiticamente i passi mossi dal filosofo americano in questa direzione al fine di avere una delucidazione del suo pensiero così da mostrare come, a mio avviso, dopo tutto egli propenda verso un'apertura al senso comune e alla filosofia realista. Voglio avviare questo cammino da una domanda posta in Interpretazione radicale che dice: «che genere di conoscenza è richiesta per l'interpretazione?». Tutti siamo d'accordo – e Davidson lo scrive – che si potrebbe rispondere concisamente: «la conoscenza del significato di ciascuna espressione significativa»; ma è chiaro che, ancora una volta, la risposta elude la domanda tanto che «non ci offre tuttavia altro aiuto, in quanto non dice in che cosa consiste il sapere che cosa un'espressione significa»1. 1 Donald DAVIDSON, “Radical Interpretation”, (1973), in: Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford University Press, Oxford, 1991; trad. it.: “Interpretazione Radicale”, in: Verità e 1 A Davidson non interessava trovare il significato di «significato» giacché ben cosciente che una qualsivoglia teoria dell'interpretazione “del tutto” sarebbe stata implicitamente incoerente. A proposito, i contributi avanzati da Kurt Gödel circa i teoremi dell'incompletezza e da Wittgenstein circa la teoria dei giochi di lingua, spingono Davidson nella ricerca di una teoria del significato che si occupi esclusivamente di determinate proposizioni site in un contesto con dei confini ben circoscritti. Scrive: «Requisito generale di una teoria dell'interpretazione è quello di poter essere confermata o verificata da evidenze probatorie plausibilmente disponibili a un interprete. Dal momento che la teoria è generale – cioè deve valere per un numero potenzialmente infinito di enunciati – verrebbe naturale concepire le prove a suo favore come esempi di particolari interpretazioni riconosciute corrette. E naturalmente questa situazione si presenta effettivamente per un interprete che abbia a che fare con una lingua che già conosce. Normalmente il parlante di una lingua non è capace di produrre una teoria finita esplicita per la propria lingua, ma può mettere alla prova una teoria che venga proposta, dal momento che può dire se la teoria dia interpretazioni esatte quando viene applicata a proferimenti specifici»2. L'impossibilità di una teoria del significato onnicomprensiva pone al centro delle riflessioni filosofiche quella netta discrepanza che sussiste tra linguaggio e metalinguaggio, o se vogliamo tra linguaggio simbolico e linguaggi ordinario, mostrando la paradossalità di bramare una teoria del significato che possa prescindere dalla contestualizzazione delle proposizioni e, in ultima istanza, dei termini linguistici. Lo stesso Davidson su una teoria dell'interpretazione che possa trascendere ed evadere ogni – per dirla alla Quine – “schema concettuale” scrive che: «la difficoltà principale è che non possiamo sperare di dare un senso all'attribuzione di intenzioni finemente differenziate indipendentemente dall'interpretazione del discorso. Ciò […] perché l'interpretazione dell'intenzione di un agente, quella delle sue credenze e quella delle sue parole sono tutte parti di un unico progetto e nessuna di esse può essere considerata completa prima che lo siano le altre. […] L'interprete deve poter comprendere qualunque enunciato tra gli infiniti che il parlante potrebbe dire. Se vogliamo formulare esplicitamente che cosa l'interprete potrebbe sapere per essere in grado di far ciò, dobbiamo specificarlo in forma finita. E se vogliamo soddisfare questo requisito, occorre abbandonare ogni speranza di trovare un metodo universale d'interpretazione. […] Non ha senso richiedere una teoria in grado di produrre un'interpretazione esplicita di qualunque proferimento in qualunque lingua (possibile)»3. Poche pagine più avanti lo stesso Davidson elenca alcune teorie che si sono imbattute in questa disquisizione ma che, a suo parere, non sono considerabili come teorie soddisfacenti. Oltre alla confutazione delle «teorie causali del interpretazione, Il Mulino, Bologna, 1994, 194. 2 Ivi, 197. 3 Ivi, 196. 2 significato» esposte da Ogden, Richards e Morris, e di quelle che tentano di collegare le parole con i fatti non linguistici 4, è la teoria tipicamente quineiana – che vorrebbe spiegare l'interpretazione in termini di traduzione – quella sulla quale il filosofo americano volge le sue più acute attenzioni. Se infatti, come sottolinea Davidson, «il nostro scopo è l'interpretazione, il metodo di traduzione si occupa del tema sbagliato, cioè della relazione tra due lingue, mentre quel che vogliamo è l'interpretazione di una lingua (in un'altra, naturalmente; ma questo va da sé, giacche ogni teoria è espressa in qualche lingua)» 5. Così, appare evidente che una teoria che fonda il proprio metodo sulla traduzione, che deve essere vagliata dalla lingua da interpretare a quella dell'interprete, non può avere nessuna pretesa di risolvere il problema in questione giacché è l'interpretazione ad essere sempre anteposta ad ogni traduzione. Una simile teoria, che personalmente mi ricorda molto le tesi avanzate dal giovane Wittgenstein nella teoria dell'isomorfismo logico (con tutti i limiti che essa implicitamente presentava), è chiaro che non può risolvere il problema ermeneutico dove il fattore dell'intenzionalità del parlante ricopre un ruolo di spicco per la caratura semantica delle parole utilizzate. Davidson fa notare che: «Una teoria soddisfacente per interpretare i proferimenti di una lingua, compresa la nostra, dovrà mettere in luce una struttura semantica significativa; per esempio l'interpretazione dei proferimenti di enunciati complessi dipenderà sistematicamente dall'interpretazione dei proferimenti di enunciati più semplici. Supponiamo di aggiungere a una teoria della traduzione una soddisfacente teoria dell'interpretazione per la nostra madrelingua. Avremmo allora esattamente quel che volevamo, ma in una forma inutilmente ingombrante. Per ciascun enunciato della lingua da tradurre, il manuale di traduzione confeziona un enunciato della lingua del traduttore; la teoria dell'interpretazione da poi l'interpretazione di questi enunciati familiari» 6. Questo passaggio di Davidson necessita di essere analizzato. Invero, ciò che afferma il filosofo americano è che una teoria della traduzione a base empirica come quella avanzata nella citazione, nonostante possa essere di aiuto per una eventuale interpretazione, ancora non ne risolve il problema causale. Già Quine 4 Cfr. Ivi, 195«Altre possibili proposte per colmare il divario risultano in vari modi insufficienti. Le teorie «causali» di Ogden e Richards e di Charles Morris tentavano di analizzare il significato degli enunciati, prendendoli uno alla volta, sulla base di dati comportamentali. Anche se queste teorie avessero funzionato per gli enunciati più semplici (ed è chiaro che non funzionano), esse lasciavano intatto il problema di estendere il metodo a enunciati di complessità maggiore e di superiore livello di astrattezza. […] Un altro tipo di teoria parte dal tentativo di collegare le parole, anziché gli enunciati, coi fatti non linguistici. […] Tuttavia simili teorie non riescono a fare i conti con l'evidenza disponibile, poiché appare chiaro che le caratteristiche delle parole non possono essere spiegate direttamente sulla base dei fenomeni non linguistici. Il motivo è semplice: i fenomeni a cui dobbiamo rivolgerci sono gli interessi e le attività extralinguistiche al cui servizio si trova il linguaggio, un servizio che può essere svolto dalle parole solo nella misura in cui queste si trovano incorporate negli enunciati (oppure, occasionalmente costituiscono esse stesse degli enunciati). Ma allora non c'è speranza di dare una spiegazione fondazionale delle parole prima di averne data una degli enunciati». 5 Ivi, 198. 6 Ivi, 199. 3 diceva che: «significare [...] non è da identificare con nominare» 7; e riportando l'esempio di Frege della “Stella della sera” e della “Stella del mattino” e quello di Russell di “Scott” e di “l'autore di Waverley”, lo stesso Quine ricordava che è un luogo comune della filosofia contrapporre intensione a estensione, ovvero, in altre parole, connotazione e denotazione8. Ma il problema posto da Davidson va oltre in quanto non si limita alla definizione della molteplicità dei significati degli enunciati linguistici, i quali possono essere pre-stabiliti assumendo di fatto un carattere oggettivante, piuttosto egli cerca di comprenderne il senso. Sulla base dell'uso, che potremmo traslitterare nell'«intensione di senso», che il parlante fa del connotato è infatti possibile che il denotato non solo abbia uno slittamento semantico quanto ontologico. Se infatti il problema dei vari Frege e Russell era quello di dimostrare che un unico referente estensionale poteva essere chiamato in gioco da più intenzioni significative, Davidson si domanda come fosse possibile avere un'interpretazione di una proposizione se i suoi significati costituenti – che apparentemente dovrebbero connetterci con un denotato ben determinato –, sulla base dell'uso che il parlante ne vuole fare, possono effettivamente riferirsi a sempre nuovi (e ignoti-per-noi) referenti estensionali. D'altronde, come diceva già Wittgenstein, innumerevoli sono i giochi di lingua a cui è possibile giocare. Nell'interpretazione il problema non sorge quando ci sono due connotati che si riferiscono allo stesso denotato (l'esempio della “Stella del mattino” e “Stella della sera” che si riferiscono al medesimo pianeta Venere per intenderci), ma quando, al contrario, è il denotato ad essere molteplice pur connotato da un unico termine. Prendiamo il classico ma quanto mai calzante esempio che si trova nei manuali di filosofia del linguaggio: la proposizione «Maria ha una vecchia credenza» è decisamente ambigua sicché nella lingua italiana con il termine «credenza» è solito designare o una mobilia da cucina o una fede riposta in qualche entità. Come si può ben vedere la questione ermeneutica non trova vita facile quando si imbatte in situazioni del genere. Se poi ammettiamo che un parlante ha l'effettiva possibilità di riempire intenzionalmente un termine (o una proposizione) del contenuto semantico che desidera – ovvero che ha la possibilità di inventare sempre nuovi giochi di lingua – allora sarà un'ardua impresa trovare un'efficace teoria dell'interpretazione. Per questo motivo il filosofo statunitense giunge a quella che lui stesso definisce «interpretazione radicale», ovvero quella propensione verso un simbolismo che eliminando il senso degli enunciati di fatto elimina il modo di interpretare i significati. Egli sosteneva inoltre che il primo passo per il simbolismo era quello di accettare come veri tutti gli enunciati a prescindere da qualsivoglia interpretazione (atteggiamento a sua volta definito come «principio di carità»), in quanto l'interpretazione radicale si deve basare su un evidenza che non presuppone la conoscenza dei significati9. 7 Willard Van Orman QUINE, “Two Dogmas of Empiricism”, in: From a Logical Point of View, Harvard University Press, Harvard (Massachussets), 1953; trad. it.: “Due dogmi dell'empirismo”, in: Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici, Cortina, Milano, 2004, 36. 8 Cfr., Ivi, 36-37. 9 Per tutti coloro che desiderassero approfondire le suddette tematiche rimando in questa nota in calce ai saggi 9; 10; 11; 12; riportati nel volume Inquiries into Truth and Interpretation, 1991: 4 Ma torniamo a vedere come Davidson – che come avremo modo di osservare a breve suppone l'essenza delle “cose” quale fondamento del linguaggio e degli schemi concettuali – critica aspramente la teoria del significato di tipo fregeiano/russelliano per il fatto che regola le proprie fondamenta su una teoria della verità a carattere decitazionale: quella proposta da Tarski per intenderci 10. Invero, stando all'enunciato «p è vero se e solo se P», la teoria del significato sopra esposta si otterrebbe rimpiazzando «p» con una descrizione canonica di p, e «P» con una traduzione di p. Se però con questa teoria della verità è di fatto possibile la concretizzazione di una teoria della traduzione, sempre e comunque da un linguaggio ordinario P a un linguaggio oggetto p, oltre a domandare quale fosse il criterio di verità del linguaggio di riferimento P, che rimane – a mio parere – dato ma non giustificato, apprendiamo che non è offerta risposta alcuna al problema iniziale sulla possibilità della comprensione delle proposizioni altrui. Per questo motivo la teoria di Tarski – che è fondamentale per tutto ciò che riguarda la coerenza logica e formale dei costrutti inferenziali – appare inapplicabile davanti la presenza di dispositivi indessicali, oltre a risultare impotente nell'assegnazione del valore di verità per tutti gli enunciati espressi nella stessa lingua della teoria decitazionale (linguaggio ordinario). Fa notare lo stesso Davidson: «Come dimostra Tarski, una teoria ricorsiva come questa può essere trasformata in una definizione esplicita secondo modalità note, purché il linguaggio della teoria contenga una quantità sufficiente di teoria degli insiemi. […] Abbiamo poi ulteriori complicazioni se i nomi propri e le espressioni funzionali risultano essere caratteristiche irriducibili del linguaggio oggetto. Più delicata è la situazione riguardante i dispositivi indessicali. A Tarski interessavano linguaggi formalizzati privi di aspetti indessicali o dimostrativi. Per questo poteva considerare gli enunciati come i veicoli della verità: estendere la teoria ai proferimenti è in tal caso banale. Ma le lingue naturali contengono inevitabilmente elementi indessicali a profusioni – ad esempio i tempi verbali – e pertanto i loro enunciati possono variare quanto a valore di verità a seconda del tempo e del parlante. Il rimedio è quello di caratterizzare la verità per una lingua relativamente a un tempo e ad un parlante»11. Ciò che l'autore d'oltre oceano esprime non è altro che l'impossibilità da parte della suddetta teoria decitazionale di applicare un criterio di verità che non si limiti alla pura coerenza formale di un enunciato, oppure di N-enunciati, pur sempre costipati all'interno di un sotto-insieme circoscritto aprioristicamente, ma che ambisca, a tutti gli effetti, alla verità della lingua madre al fine di poter definire una coerente e vera (formale e materiale) teoria dell'interpretazione12. Non è chiaro trad. it.: Verità e interpretazione, Bologna, Il Mulino, 1994. 10 Cfr. Alfred TARSKI, “The Concept of Truth in Formalized Languages”, in: Logic, Semantics, Matemathematics, Oxford, University Press, 1956, 152-278; trad. it.: “Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati”, in appendice a: Francesca Rivetti Barbó, L'antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo da Pierce a Tarski, Vita e Pensiero, Milano, 1961. 11 Donald DAVIDSON, cit., 200. 12 A proposito Davidson fa notare che: «in ultima analisi un V-enunciato formula le condizioni di verità di un enunciato senza impiegare risorse più ricche di quelle dell'enunciato stesso, poiché 5 infatti come può essere vero che «p è vero se e solo P», dove «p» rappresenta un enunciato presumibilmente vero se e solo se «P», se non viene espressamente legittimata la fondazione causale di «P». Stando al dunque è possibile sotto questa formalizzazione risalire alla verità (intesa in modo formale, oppure come coerenza puramente logica) ma non all'interpretazione che, al contrario, richiede un referente reale e concreto. Il cuore della confutazione davidsoniana alla teoria di Tarski è allora rintracciabile in questo passo dove il filosofo statunitense ribaltando il punto di partenza per quel che concerne la teoria dell'interpretazione, in un certo qual modo – come vedremo a breve – apre le porte ad una concezione realista di fare filosofia: ad una filosofia del senso comune. «Nell'indagine di Tarski i V-enunciati sono considerati veri perché si assume che il lato destro del bicondizionale sia una traduzione dell'enunciato per il quale si stanno dando le condizioni di verità. Ma se assumiamo preliminarmente che si possa riconoscere una traduzione corretta, svuotiamo in anticipo il senso dell'interpretazione radicale: nelle applicazioni empiriche dobbiamo abbandonare tale ipotesi. Io propongo d'invertire la direzione della spiegazione: dando per scontata la traduzione, Tarski fu in grado di definire la verità; qui l'idea è quella di prendere la verità come fondamento e ricavarne una spiegazione della traduzione o dell'interpretazione. Dal punto di vista dell'interpretazione radicale i vantaggi sono evidenti. La verità risulta essere una singola proprietà che si applica o meno ai proferimenti, mentre ogni proferimento ha la propria interpretazione» 13. Purché debbo ammettere che presupporre aprioristicamente l'essere vero degli enunciati sulla base del «principio di carità» mi sembra una questione ben poco trasparente, devo riscontrare con tutta onestà che il tentativo di proporre una teoria che soddisfi le rigide restrizioni formali della teoria decitazionale, ma che allo stesso tempo implichi una realtà trascendente ogni sistema formale quale riferimento per il criterio di verità – e quindi decentrando la verità dalla parte dell'oggetto – è in ultima analisi il primo passo per uscire dalla visione copernicana del mondo. Invero, aggiungendo alla teoria tarskiana le costanti spazio-temporali, si imprime alla teoria stessa (che nel caso specifico mira alla soluzione del problema dell'interpretazione) un carattere oltre che formale anche causale, motivo per cui è possibile parlare di verità (concepita come la filosofia aristotelico-tomista la intende14) e non solo di coerenza15. Se nella teoria tarskiana infatti «p» risulta essere vero perché viene antecedentemente assiomatizzato come esser vero «P», la ricerca delle cause dell'essere vero di «p» sembra infrangersi in un irrazionale dogmatismo. Ovvero, domanda: perché la neve è bianca? Risposta: perché sì! Oppure, che è la stessa cosa, perché la neve è bianca. Ma dove è allora la impiega in effetti le stesse risorse. Se l'enunciato originario non fa menzione di mondi possibili, entità intensionali, proprietà o proposizioni, neppure lo farà le sue condizioni di verità». Ivi, 202. 13 Ivi, 204. 14 Con l'introduzione delle costanti spazio-temporali mi sembra di capire che una proposizione contenga tanto di verità quanto di essere (tipica concezione realista). L'assunzione di un soggetto in un determinato spazio e in un determinato tempo nella teoria decitazionale porta, di fatto, a far pensare che Davidson fondi la verità dei proferimenti sull'essere degli enti. 15 Per una maggiore comprensione rimando all'esempio chiarificatore promosso da Davidson: Ivi, 206. 6 fondazione causale dell'enunciato «p» e dell'enunciato «P»? A ben vedere, il logicista, a cui non importa la fondazione causale ma solo l'assiomatizzazione formale, vede in questa teoria un ottimo spunto per la costruzione delle proprie inferenze logico-matematiche; ma di contro parte, il filosofo, il quale ha la pretesa di ricercare le cause (l'essere vero) delle sue argomentazioni, e non solo la loro relativa coerenza, non può applicare sulla sopra citata teoria il modello “fondazionale” della propria epistemologia. L'aggiunta della costante spazio-temporale nella teoria di Tarski introduce un collegamento diretto e concreto con la realtà giacché ammette come criterio di verità l'essere di un ente ber determinato sito in un contesto altrettanto ben determinato. Difatti, asserire che «p (la neve è bianca) è vero quando è espresso da x allo spazio-tempo t se e solo se P (la neve è bianca) nei pressi di x a t», è ben diverso dall'affermare che «p (la neve è bianca) è vero se e solo se P (la neve è bianca)». Questa connotazione verso un denotato estensionale individuale è dal mio punto di visto – dato che Davidson non né parla mai espressamente – un primo passo verso il recupero del realismo filosofico. Ma ben lungi da quello che la tradizione aristotelico-tomista affermava circa la teoria della verità come adaequatio, il pensiero del filosofo statunitense sembra propendere più per una verità intesa come con-senso. Oltre al fatto che non è da sottovalutare l'influenza che occupano «le credenze che attribuiamo a un parlante e le interpretazioni che diamo alle sue parole»16, applicando il «principio di carità» ai proferimenti esposti dal/i parlante/i non è del tutto chiaro dove, realmente, risieda la verità: ovvero se essa si trovi dalla parte del soggetto o da quella dell'oggetto. Dal mio punto di vista la verità è per Davidson sì concepita come una proprietà di un'entità ontologicamente altra dal soggetto epistemico, ma allo stesso tempo è interconnessa al con-senso di una comunità di parlanti. Quello che mi sembra di capire quindi è che la posizione di Davidson verta in una forma di senso comune, in un sentire intersoggettivamente condiviso, che se da una parte confuta ogni soggettivismo di età moderna, dall'altra non raggiunge pienamente l'oggettività richiesta dalla filosofia di stampo realista. Prima di concludere questo paragrafo credo sia oltremodo doveroso rivedere, seppur per sommi capi, il percorso intrapreso da Davidson al fine dell'ammissione di un referente estensionale quale criterio di verità. Invero il filosofo statunitense giunge a siffatta conclusione avviando le sue inferenze logicofilosofiche da una prospettiva apparentemente diversa: quella inerente l'idea stessa di schema concettuale17. La critica Davidsoniana all'idea stessa di schema 16 Ivi, 211. 17 La definizione canonica che Davidson dà di schema concettuale è questa: «Gli schemi concettuali, ci vien detto, sono modi di organizzare l'esperienza; sono sistemi di categorie che danno forma ai dati della sensazione; sono punti di vista dai quali gli individui, le culture o le fasi storiche osservano quanto accade al momento. Può essere impossibile la traduzione da uno schema all'altro, nel qual caso le credenze, i desideri, le speranze e le conoscenze che caratterizzano una persona non hanno un vero e proprio corrispettivo per chi adotta uno schema. La realtà stessa è relativa a uno schema; quel che passa per reale in uno schema può 7 concettuale è annoverata nel saggio del 1974 intitolato Sull'idea stessa di schema concettuale, dove mostra la paradossalità e l'inconsistenza epistemologica di tale teoria18. Davidson sostiene che proprio il fatto di concepire la realtà sempre per mezzo dello schema che di volta in volta viene adottato, implica la non sussistenza di alcuna verità in grado di prescindere dallo schema di riferimento. Infatti, la proposizione espressa da Davidson «quel che passa per reale in uno schema può non esserlo in un altro», significa a tutti gli effetti che la realtà è sempre relativa allo schema di riferimento. Questo inno al relativismo filosofico non è condiviso da Davidson che spiega l'intrinseca paradossalità che viene in essere nel momento in cui si costituisce la dottrina in esame. L'assurdità consiste nell'ammettere due o più schemi concettuali, rigorosamente incommensurabili tra loro, legittimando di poter in qualche modo descrivere – o in senso lato di averne una qualche cognizione – lo schema concettuale diverso dal nostro; lo schema opposto a quello da cui viene avanzata la critica. E scrive: «Whorf, volendo dimostrare che la lingua hopi contiene una metafisica talmente diversa dalla nostra che l'hopi e l'inglese non possono essere – per usare il suo termine – «tarati», fa uso dell'inglese per rendere il contenuto di un campione esemplificativo di enunciati hopi. Kuhn riesce a descrivere brillantemente la situazione che precede la rivoluzione utilizzando – che altro? – il nostro linguaggio postrivoluzionario. Quine ci dà un'idea della «fase-pre-individuativa dell'evoluzione del nostro schema concettuale», mentre Bergson ci insegna dove potremmo recarci per procurarci la veduta di una montagna che non sia distorta da una qualche prospettiva parziale»19. La confutazione del filosofo d'oltre oceano si fonda sulla base logica alquanto datata usata già per le confutazioni delle tesi scettiche. I vari Pirrone di Elide e Timone di Fliunte infatti negando la verità, negandone esistenza alcuna, paradossalmente sfociavano nell'ammetterla. Allo stesso modo Davidson tirando in ballo le tesi dei pensatori nella nota citati, fa vedere come questi, criticando aspramente ogni possibilità di intertraducibilità dei linguaggi degli schemi concettuali, non possono fare a meno di esprimere un qualche giudizio su di essi; e questa è la prova tangibile che dal momento che viene esposta una critica, un paragone o un confronto, la tesi dell'incommensurabilità viene necessariamente a svanire. Continua: «La metafora dominante del relativismo concettuale – quella dei punti di vista differenti – non esserlo in un altro». Donald DAVIDSON, “On the Very Idea on a Conceptual Scheme” (1974), in: Inquiries into Truth and Interpretation, cit.; trad. it.: “Sull'idea stessa di schema concettuale”, in: Verità e interpretazione, cit., 263. 18 A questo punto c'è dà fare una delucidazione. Difatti, ciò che Davidoson non condivide non è l'idea stessa di schema concettuale, ma l'idea di schemi concettuali incommensurabili, o per usare un termine caro agli stessi Kuhn e Feyereband «non intertraducibili». Che possano esistere punti di vista differenti nessuno può metterlo in dubbio, ma che questa differenza si traduca in contraddittorietà è qualcosa che non si può giustificare filosoficamente. 19 Ivi, 164. 8 sembra celare un paradosso. Punti di vista differenti possono essere sensati, ma soltanto se vi è un sistema di coordinate comune nel quale disporli; e tuttavia, l'esistenza di un sistema comune smentisce la tesi dell'inconfrontabilità profonda» 20. Davidson ricollega il problema in quello che egli definisce il «terzo dogma dell'empirismo», ovvero alla concezione dualista «tra schema e contenuto, tra un sistema organizzante e un qualcosa che deve essere organizzato» 21. Questa divisione, che in ultima analisi è riconducibile a quella kantiana tra categorie a priori e dati dell'esperienza fenomenica, è decisamente incomprensibile e oltremodo indifendibile a causa della sua infondatezza epistemologica. Continuare a sostenere questa posizione è voler continuare a sostenere che la nozione di verità è posta nell'intelletto dell'agente epistemico ritornando a quella visione soggettivistica del mondo di stampo copernicano. Sotto consiglio del filosofo statunitense, al fine di mettere in evidenza i criteri identificativi degli schemi concettuali, traslitteriamo l'idea assai in voga nel palcoscenico analitico del XX secolo di schema concettuale dal piano epistemologico a quello linguistico, immaginando che laddove gli schemi concettuali risultano essere diversi lo risultano essere anche le lingue di riferimento. Il fatto è, però, che anche condividendo lo stesso schema concettuale è possibile che i parlanti si esprimano in lingue diverse, e questa è la confutazione dell'idea dell'esistenza di schemi concettuali incommensurabili. D'altro canto dire che l'incommensurabilità degli schemi concettuali è tale esclusivamente laddove dei parlanti utilizzano lingue non intertraducibili, fa riemergere in superficie la delicata questione di fondo del come fosse possibile – premettendo ogni forma di non intertraducibilità – parlare di schemi concettuali. Concretamente non esiste lingua alcuna che risulta non intertraducibile con una o più altre lingue. Continua Davidson: «Potremmo accogliere la dottrina che associa il possesso di una lingua al possesso di uno schema concettuale. Si potrebbe pensare che tale relazione sia la seguente: dove gli schemi concettuali sono diversi, lo sono anche le lingue. Ma i parlanti di lingue diverse possono condividere uno schema concettuale posto che ci sia un modo per tradurre una lingua nell'altra. Indagare i criteri di traduzione, pertanto, è un modo per mettere a fuoco i criteri d'identità per gli schemi concettuali. Se gli schemi concettuali non sono associati alle lingue nel modo indicato, il problema originario viene inutilmente reduplicato; infatti dovremmo allora immaginare che la mente, con le sue categorie ordinate, operi con una lingua che possiede la propria struttura organizzatrice. In questa situazione non si potrebbe far a meno di domandarsi quale delle due comanda» 22. Continuare a credere che il linguaggio, quale forza organizzatrice dei flussi d'esperienza sensoriale, è qualcosa di altro – inteso come qualcosa di aprioristicamente dato – dalla realtà, significa riammettere quel dogmatico binomio già presentato in precedenza. La questione anteposta circa il “terzo dogma 20 Ibidem. 21 Ivi, 271. 22 Ivi, 265. 9 dell'empirismo” si viene ad innestare puntualmente in questo divario tra mente e linguaggio da un lato, il lato del soggetto, e mondo ed esperienza fenomenica dall'altro. L'apparente impasse è risolvibile se e solo se si debella ogni concezione dualistica del tipo io-mondo, soggetto-oggetto, linguaggio-realtà, ecc.; e se si ritorna alla concezione classica di verità. Se infatti è «vero» ciò che il soggetto ritiene come «vero» (la teoria decitazionale tarskiana è una chiara formalizzazione di questa concezione) sarà ben difficile uscire da questa paradigmatica situazione; ammettendo però che la «verità» è essenzialmente una qualsivoglia forma di corrispondenza o di adeguazione si può effettivamente uscire vincitori da questa visione relativistica del mondo. Ma per poter fare questo, che poi altro non è che indirizzare il tutto verso una filosofia realista (di stampo aristotelico-tomista), si deve reintrodurre la concezione essenziale che vi è qualcosa di oggettivo e trascendente ogni schema concettuale quale referente comune per il criterio del giudizio di verità (la teoria decitazionale con l'aggiunta della costante spaziotemporale per intenderci). Non è solito da parte di Davidson usare la terminologia scolastica, ma quello che personalmente intuisco nei pensieri trascritti in questo saggio è l'ammissione di una realtà ontologicamente indipendente dal soggetto che la pensa quale base comune per la costruzione di ogni possibile espressione comunicativa. Talvolta Davidson definisce questa realtà come una «base neutrale», talora come un «sistema di coordinate comune», ma di fatto credo fosse solo un modo differente per esprimere lo stesso referente estensionale. È questa stessa realtà la prova dell'impossibilità di nessun schema concettuale – se per schema concettuale si implica la sua non-intertraducibilità o incommensurabilità – proprio perché anche esso deve necessariamente fondarsi su tale base neutrale, cosa che fa sì che la concezione della non-intertraducibilità e dell'incommensurabilità viene a decadere. Questa conclusione ha portato Davidson ad abbandonare l'idea stessa di schema concettuale propendendo per quella dell'olismo, già dal greco όλος, cioè «la totalità»23. Ecco, dunque, perché ho visto in Davidson un filosofo che seppur non enuncia mai esplicitamente un richiamo al realismo filosofico, attraverso le critiche che rivolge alla dottrina del relativismo concettuale, e grazie alla sua propensione verso una visione d'insieme della realtà piuttosto che ad una visione tramite schemi concettuali, a mio avviso indirizza il suo pensiero verso una filosofia del senso comune. 23 Nel testo qui analizzato c'è un passo di acuta rilevanza per quel che concerne la propensione di Davidon all'olismo filosofico. In questo passo inoltre si nota come il filosofo statunitense capovolga la teoria della verità come «organizzazione» a quella di «conformità»: termine decisamente più vicino a quello di «adeguazione» già utilizzato da Tommaso d'Aquino. «Quando dall'idea di organizzazione passiamo a quella di conformità, spostiamo l'attenzione dall'apparato referenziale del linguaggio – predicati, quantificatori, variabili, termini singolari – agli enunciati interi. Sono gli enunciati quelli che prevedono (o sono usati per prevedere), che fanno i conti o trattano le cose, che devono adattarsi ai nostri stimoli sensoriali, che possono essere confrontati o commisurati coi dati. Sono inoltre gli enunciati a comparire dinanzi al tribunale dell'esperienza, benché ovviamente essi debbano affrontarlo tutti insieme». Donald DAVIDSON, “Sull'idea stessa di schema concettuale”, cit., 275-276. 10 «Nel rinunciare a far uso del concetto di realtà non interpretata – qualcosa al di là di ogni schema e d'ogni scienza – non abbandoniamo la nozione di verità obiettiva; al contrario. Dal dogma del dualismo tra schema e realtà, segue la relatività concettuale e la verità relativa a uno schema. Senza quel dogma, questo genere di relatività scompare dal campo. Naturalmente la verità degli enunciati rimane relativa a un linguaggio, ma ciò è obiettivo a pieno titolo. Abbandonando il dualismo di schema e mondo non abbandoniamo il mondo, ma torniamo a stabilire un contatto immediato con gli oggetti familiari i cui capricci rendono veri o falsi i nostri enunciati e le nostre opinioni»24. Dice bene il filosofo americano quando afferma che la distinzione tra realtà non interpretata e realtà interpretata non comporta nessun tipo di allontanamento dal mondo quale base di coordinate comuni. Presupporre infatti che esista qualcosa e che codesta cosa diventi un qual-che-cosa solo dopo essere stata conosciuta, non significa ammettere un dualismo tra soggetto e oggetto, ma significa aver fatto chiarezza tra la distinzione che sussiste tra l'essere dell'ente e la sua quidditas. In conclusione, la presupposizione di una realtà ontologicamente extrasoggettiva reintroduce quella concezione andata perduta nella modernità circa il fatto che è la necessità causale ad essere il fondamento di ogni necessità logica. Riepilogando, in questo paragrafo siamo partiti dal problema del significato e siamo giunti a vedere come per giustificare razionalmente una teoria dell'interpretazione Davidson non possa prescindere da un riferimento spaziotemporale indipendente dalla mente del parlante. Successivamente abbiamo messo in luce questa necessaria apertura nei confronti di un'entità ontologicamente intesa quale primo passo verso il realismo filosofico, mostrando come nessuna teoria del significato, quindi dell'interpretazione, possa darsi senza una previa ammissione delle res sunt e della caratteristica intenzionale dell'atto cognitivo. Alessandro Belli 24 Ivi, 282. 11