IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 IL RASOIO DI OCCAM ISSN 2281-924X Direttore: Paolo Flores d’Arcais con la collaborazione di: Giorgio Cesarale Comitato editoriale: Giorgio Cesarale, Giorgio Fazio, Cinzia Sciuto, Roberto Vignoli, Giacomo Fronzi, Marco Piasentier, Diego Ferrante Comitato scientifico: Giorgio Cesarale, Roberto Esposito, Maurizio Ferraris, Gloria Origgi, Matteo Mameli Per contattare la redazione del “Rasoio di Occam”, inviare proposte o segnalazioni scrivere a: [email protected] tel: 06 49827134 – fax: 06 865147124 – via Cristoforo Colombo, 90 – Roma http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/ IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Quant’è moderna questa reazione: i matrimoni gay e i nuovi argomenti della destra di RICCARDO ANTONIUCCI Il dibattito sul riconoscimento legale del matrimonio tra omosessuali, che infiamma la Francia, mette in questione l’eredità del pensiero filosofico francese della seconda metà Novecento C’è chi sostiene polemicamente, come Yves-Charles Zarka, che è ormai l’unico tema su cui destra e sinistra sono ancora chiaramente distinguibili, in mancanza di progetti realmente alternativi alla politica neoliberista. Ad ogni modo, come spesso accade in Francia, il dibattito sulla legge che estende il diritto al matrimonio alle coppie omosessuali (già approvata alla Camera e in attesa di essere discussa al Senato il 2 aprile con il suo corollario di norme sulla possibilità per gli omosessuali di avere figli tramite affitto di utero o inseminazione artificiale), si accompagna a un’intensa querelle filosofica. Sì, perché la posta in gioco, in questa discussione sul riconoscimento dei matrimoni gay, non è solo politica, ma anche filosofica. Si assiste, infatti, allo scontro campale fra le cosiddette “teorie di genere”, rodate da anni di dibattito negli Stati Uniti, e concezioni più tradizionali basate sulla differenza sessuale tra uomo e donna. Le prime affermano la convenzionalità dei costumi sessuali in quanto dipendenti da norme sociali storicamente determinabili; le seconde pretendono di fondare la differenza dei sessi sulla biologia, sullo sfondo di una caratterizzazione ontologica incontrovertibile della “natura umana”. Senz’altro, il primo punto di interesse suscitato dalla campagna per il riconoscimento di pari dignità alle unioni omosessuali sta nel fatto che si tratta del più avanzato fronte pratico della battaglia, filosofica e politica, per scombinare l’ordine del discorso teso a normalizzare le condotte sessuali(1). Tuttavia, questa versione francese del dibattito sui diritti civili è interessante anche dal lato dell’opposizione al progetto di legge. Per l’originalità di alcune tesi avanzate. Leggendo gli interventi, ci si rende conto, infatti, che gli argomenti che vanno per la maggiore tra gli oppositori non sono soltanto di ascendenza religiosa. Non vengono avanzate, insomma, proprio quelle posizioni che siamo abituati a riconoscere agli oppositori del riconoscimento dei diritti degli omosessuali (nel nostro Paese come negli Stati Uniti), e che rimandano a una teologia che assegna stabilmente i ruoli sessuali e il senso di questi ruoli. Al contrario, la parte più attiva del fronte di opposizione alla legge si avvale di riflessioni che fanno riferimento a un universo concettuale del tutto laico, ancorato a dei saperi decisamente “contemporanei” come l’antropologia e la psicoanalisi. Ma l’originalità di questa ripresa sta nel fatto che conferma una tendenza che ha caratterizzato, negli ultimi anni, il panorama culturale francese, e non solo. È una tendenza che si potrebbe definire del “richiamo all’ordine”(2), e che si può chiarire attraverso l’analisi di alcune tesi dei conservatori. Invarianti antropologiche e normalizzazione della sessualità Il testo più citato in questo campo non è la Genesi, ma Le strutture elementari della parentela di Lévi-Strauss. Il riferimento all’antropologia strutturale è incentrato sulla questione dell’incesto, la cui proibizione è determinata come un invariante strutturale, perno del sistema di scambi di donne e di costituzione della parentela. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Ora, questa analisi levistraussiana è assunta, nei discorsi anti-matrimoni gay, come la prova dell’impossibilità di riconoscere socialmente un’unione omosessuale, perché ciò pregiudicherebbe l’intera organizzazione della parentela. È quanto afferma, ad esempio, Sylviane Agacinsky, insegnante fino al 2010 all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, che ha fondato, con Jacques Derrida, il Collège International de Philosophie. Alla radio il 29 gennaio (3) e, qualche giorno dopo, dalle colonne di Le Monde, la compagna di Lionel Jospin ha dichiarato che “la filiazione legale riproduce analogicamente la coppia procreatrice, asimmetrica e eterogenea. Ne mantiene la struttura, o lo schema, che è quello della generazione biologica da sue sessi. È in questi termini che si può comprendere l’antropologo e etnologo Claude Lévi-Strauss quando scrive che “i legami biologici sono il modello sul quale si concepiscono le relazioni di parentela”. Ora, si noterà che questo modello […] [è] biologico e quindi qualitativo (uomo + donna), poiché i due [ruoli] non sono interscambiabili”(4). Negare l’esistenza di un invariante antropologico fondato sulla differenza tra i sessi concepita come naturale e astorica, sarebbe dunque, sempre per Agacinscki, una “negazione [dénégation] violenta della finitezza e dell’incompletezza di ciascuno dei due sessi”. Ma, a ben vedere, questa lettura opera una forzatura della logica dell’antropologia strutturale, spostando il fuoco dell’invarianza antropologica: dalla proibizione dell’incesto al rigetto dell’omosessualità come istituzione sociale. In molti hanno segnalato l’indebito salto logico, confutando l’idea che Lévi-Strauss abbia sostenuto l’invarianza del rapporto uomo-donna nelle società umane. Fra gli altri, Françoise Héritier, la più fedele allieva dell’etnologo, che ricorda che il matrimonio è una costruzione sociale, e che come tale Lévi-Strauss l’ha analizzata. Tutt’al più, Le strutture elementari della parentela dimostra che il modello eterosessuale è una costruzione sociale antichissima, istituita per rispondere al problema (economico, come insegnava già Mauss) rappresentato dal fatto che solo le donne possiedono il dono della procreazione, per entrambi i sessi(5). Per l’antropologia strutturale, il modello di base del matrimonio è quello dell’alleanza: niente impedisce, a rigore, che questo patto si possa stipulare fra due donne o due uomini. E tanto basta a confutare la tesi dell’allineamento di Lévi-Strauss nelle fila del partito del no al matrimonio gay. Tuttavia, al di là della fondatezza della tesi di Agacinsky, ciò che resta del suo discorso è il tentativo di “richiamare” l’antropologia strutturale alla causa della difesa dell’ordine sociale costituito. Ma il “richiamo all’ordine” investe ancora più radicalmente la psicoanalisi. Sull’argomento dell’unione omossessuale, infatti, ma ancor di più sulla questione della procreazione assistita per coppie gay, si è prodotta in questa scuola una vera e propria frattura. L’oggetto di scontro è rappresentato dalla genitorialità omosessuale. Molti psicoanalisti si oppongono al suo riconoscimento sostenendo, in sostanza, che essa comprometterebbe lo sviluppo della personalità del bambino in quanto comporterebbe l’abolizione della differenza sessuale (considerata essenziale) tra i suoi genitori. Già il 3 ottobre 2012, in apertura di dibattito, numerosi psicoanalisti (tra cui Jean-Pierre Winter e Aldo Naouri) si affidavano alle pagine di Le Figaro per affermare l’inammissibilità della cosiddetta homoparentalité. Un mese dopo, appariva su Le Monde un documento di impostazione affine, intitolato significativamente “Touche pas à père-mère”, e i cui primi firmatari erano Chantal Delsol e Pierre Lévy-Soussan. Si dichiarava esplicitamente che “Tutti i bambini del mondo hanno diritto a sperimentare la differenza tra genitori sessuati, che gli conferisce un’origine psichica fondante la loro individualità”(6). Non tutti sono d’accordo. In risposta alla tribune di Le Monde, infatti, l’École de la Cause Freudienne (associazione sorta dalle ceneri della scuola fondata da Lacan nel 1964) ha pubblicato un documento “contro la stumentalizzazione della piscoanalisi” che sostiene chiaramente che “al IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 livello dell’inconscio, i due sessi non sono legati da alcuna complementarità originaria, come espresso dall’aforisma di Lacan secondo cui il rapporto sessuale non esiste”(7). La psicoanalisi contemporanea, del resto, anche sulla scorta delle importanti rielaborazioni critiche condotte nell’ambito delle teorie femministe, non può concepire l’“ordine simbolico” come un invariante astorico, immutabile e trascendente rispetto alla società: affermarlo costituirebbe una regressione teorica. Le leggi del simbolico, piuttosto, sono costituite a partire da rituali e forme che provengono dalla società, e mutano secondo il divenire storico di quest’ultima. Nella posizione contraria al riconoscimento del matrimonio omosessuale emerge, così, oltre alla sua funzione descrittiva, un valore prescrittivo della psicoanalisi, che eleva la semplice constatazione della “norma” dell’eterosessualità a principio di normalizzazione delle condotte atipiche. Secondo la logica di questa lettura, la disciplina dovrebbe riprendere di diritto quella funzione normativa da cui i seguaci di Lacan si erano impegnati a liberarla. Inversione retorica e richiamo all’ordine Accostandosi con uno sguardo d’insieme al dibattito francese sul riconoscimento del matrimonio omosessuale, quello che si può distinguere è il manifestarsi di una tendenza: “assimilare” al fronte culturale conservatore concetti e teorie appartenenti a una stagione della riflessione filosofica (quella di Lévi-Strauss, di Lacan, ma anche di Foucault, Deleuze, Derrida e Lyotard) nata sotto tutt’altra stella che quella della conferma dello stato di cose esistenti. In questo senso, la tendenza attuale sembra come il prolungamento di un processo “revisionistico” già avviato in Francia con la presidenza Sarkozy. Quando la destra si appropriò del tema dell’uguaglianza, debitamente edulcorato del suo potenziale critico, per giustificare i progetti di contrasto all’immigrazione e di affermazione dell’“identità nazionale”, cominciando anche a infarcire i propri discorsi di citazioni di Jean Jaurès o Guy Moquet. Oggi, il dibattito sul matrimonio gay rende manifesto il fatto che questo processo è arrivato a lambire il discorso filosofico, mettendo in discussione l’eredità critica lasciata dal pensiero francese del Novecento. E il discorso va ben oltre i confini dell’antropologia e della psicoanalisi. Finora, a tutte quelle teorie che, nei più diversi campi del sapere, mettevano in crisi l’ordine di pensiero costituito (la concezione del soggetto, della storia, dell’ontologia, dell’uomo), si era reagito con la rimozione. Ora, invece, superato questo stadio, sembra cominciare, un processo di revisione: un “richiamo all’ordine” il cui cardine sarebbe costituito, come nota il sociologo Eric Fassin, da un’operazione di “inversione retorica”(8) dei concetti. Di fronte a questo stato di cose, non si può non constatare la complessità del compito di chi non accetta questa riduzione della critica al servizio della conservazione. Da un lato, si impone il dovere di una “battaglia della memoria”; dall’altro, la necessità di riattivare una possibile “attitudine critica”, orientata verso nuovi orizzonti. Note (1) Si fa riferimento alla teoria radicale di Judith Butler. Una buona sintesi del suo pensiero politico si può trovare nell’articolo “Faire et défaire le genre”, consultabile all’indirizzo http://multitudes.samizdat.net/Faire-et-defaire-le-genre. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 (2) Riprendiamo con quest’espressione la formula che intitola il libro dello storico Daniel Lindenberg, Le rappel à l’ordre. Enquête sur les nouveaux reactionnaires, Éditions du Seuil, Paris 2002. Pur nell’apprezzamento dell’approccio complessivo che caratterizza l’opera di Lindenberg, occorre tuttavia ricordare che essa resta, in molte sue parti, decisamente discutibile. (3) http://www.rtl.fr/emission/l-invite-de-rtl/ecouter/la-philosophe-sylviane-agacinski-donner-aun-orphelin-deux-parents-du-meme-sexe-c-est-creer-une-inegalite-7757428401 (4) Cfr. l’articolo «Deux mères= un père?» su Le Monde del 3 febbraio 2013, consultabile all’indirizzo: http://www.lemonde.fr/idees/article/2013/02/03/deux-meres-unpere_1826278_3232.html. (5) Cfr. l’intervento pubblicato nel blog Feministes en tous genres: http://feministesentousgenres.blogs.nouvelobs.com/archive/2012/11/23/francoise-heritier-lafamille-heterosexuee-est-tout-autant-u.html. (6) Il testo del documento uscito su Le Monde è consultabile qui: http://www.lemonde.fr/idees/article/2012/11/08/touche-pas-a-pere-et-mere_1788107_3232.html. (7) Il testo è consultabile all’indirizzo: http://www.causefreudienne.net/psychanalyse-etpolitique/2013-01-13. (8) http://blogs.mediapart.fr/blog/eric-fassin/030213/mariage-et-homosexualite-l-inversionrhetorique-de-la-droite-catholique. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 L’autunno del Pop e l’equivoco estetico: Britney Spears at the edge of time di LORENZO MARRAS Ognuno sa che cosa è il Pop, ma pochi ne conoscono la grammatica e la logica, spesso confondendo il fenomeno con alcune sue manifestazioni esemplari, ma limitate e discutibili. Ma allora cosa ne è del Pop nell’epoca del compiuto interazionismo informatico? Ce lo rivela il fenomeno Britney Spears. Riflessioni a partire dal libro "L’estetica del pop" di Andrea Mecacci. L’ARTICOLO IN PDF Più un epitaffio che una celebrazione, come ad un primo superficiale potrebbe apparire, L’estetica del pop di Andrea Mecacci (Donzelli 2011, pp. 197) cerca di mettere ordine nella percezione di un fenomeno del quale in verità si conosce ben poco, se non per interposte, e spesso superficiali, interpretazioni. L’intento del libro è proprio quello di storicizzare un’idea che nella vulgata massmediologica ha perso totalmente il suo significato originario. Nel fare ciò, Mecacci sembra voler prendere alla lettera l’affermazione di Warhol per la quale il Pop è morto nel 1965. In questo senso, la conclusione a cui il volume giungerà è che la “logica del Pop” risulta non del tutto capace di rendere conto dei radicali mutamenti sociali ed estetici intervenuti a partire dalla fine degli anni settanta. Tale storicizzazione è resa possibile da una meticolosa ricostruzione della grammatica e logica dell’idea Pop. Quindi, cosa è ciò che si è soliti definire come Pop? Il Pop ha rappresentato un’estetica precisa, una sensibilità ben definita con una sua geografia (il mondo anglosassone) ed una sua cronologia (gli anni ’50 e ’60). Il percorso del Pop affonda le sue radici nelle prime concezioni della modernità di Baudelaire, là dove la transitorietà della metropoli dà vita ad un’estetica dell’artificio. Si viene così a delineare sempre di più la rilevanza delle masse nel processo della fruizione estetica, un ruolo che condurrà a una serie di categorie socio-estetiche che alimenteranno il dibattito culturale del Novecento, dall’industria culturale teorizzata da Adorno/Horkheimer al kitsch. È con l’Independent Group - un circolo intellettuale inglese di artisti, architetti e teorici e critici dell’arte in genere, e che nei primi anni cinquanta rifletteva sulla decadenza del modernismo come espressione estetica della società del secondo dopoguerra – che il Pop acquista una sua prima identità. In particolare fu la figura del critico e storico dell’architettura Reyner Banham colui che colse pienamente come il Pop sia un’estetica del consumabile (e dell’iconico) la quale permea tutte le manifestazioni della cultura industriale dell’epoca. Ma non solo questo: il Pop nella riflessione degli anni sessanta assurge a manifestazione e giustificazione ultima dell’utopia democratica del capitalismo, cioè quella di rendere tutti uguali davanti alla merce. Il problema, però, è che il Pop sfugge sempre a una sua messa a punto concettuale, come testimoniano le riflessioni di Danto e Baudrillard, i quali tendono a leggere questo fenomeno esclusivamente tramite Warhol e quindi tramite un’espressione certo significativa, ma allo stesso tempo limitata dell’intera estetica e della cultura Pop. In questo senso, significativa è l’attenzione che Mecacci riserva ad un autore tanto fondamentale quanto poco considerato – almeno in Italia – come John McHale, con la sua estetica transumanista della Singularity (fusione del biologico e del tecnologico), dell’H+ (Human Plus) e del “futuro del futuro”, estetica forse più attuale oggi che IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 all’epoca della sua elaborazione. Mecacci può così rendere conto di un malinteso ricorrente sia nella critica sia nella percezione comune: sovrapporre Pop con Pop Art, identificare un’intera cultura con la sua manifestazione highbrow, alta. E tale aspetto, cioè il non ridurre il Pop alla Pop-art, non vuole certo sminuire il valore estetico ed artistico della Pop-art stessa. Anche perché, il rischio di leggere la Pop Art in chiave esclusivamente di critica estetico-culturale dell’arte, potrebbe essere quello di reiterare quel luogo comune per il quale essa non avrebbe un effettivo valore “artistico”, luogo comune che spesso conduce a demenziali asserzioni quali “Andy Warhol era un personaggio di tendenza, una mera rockstar dell’arte, ed alla fine quelle cose le potevo fare anche io”. Peraltro lo stesso potrebbe valere per ciò che si è soliti definire “minimalismo” ed autori come Truitt, Flavin e Judd. Nel medesimo rispetto - rispetto, cioè, alla confusione tra Pop e Pop Art – Mecacci cerca di offrire una diversa concettualizzazione di tale estetica, non per questo più complessa, ma di certo stratificata e, per così dire, filologica e storica. Infatti è nell’applicazione che il Pop mostra la sua forza pervasiva. Ciò accade non solo nella Pop Art, che è definibile più come una riflessione metaPop sulla cultura di massa, ma anche nella riflessione architettonica, la quale proietterà il Pop fino alle soglie del postmoderno, facendolo diventare un’estetica ponte tra il modernismo e il postmodernismo. Los Angeles e Las Vegas testimoniano questo passaggio grazie a geografie urbane che si fanno sempre più segno, sempre più immagine. Il Pop diventa così un’atmosfera, un inevitabile spazio vitale, e non un semplice fenomeno artistico. Anche la moda ed il design documentano questa estetica come esercizio di arretramento anagrafico attraverso cui i giovani, nella sospensione esistenziale di quel periodo della propria vita nel quale non si è più ragazzi ma non si è ancora uomini, diventano i protagonisti assoluti delle nuove direzioni dell’estetico. È sempre Banham che riconosce come la cultura Pop sia la sospensione atemporale di una dimensione esistenziale adolescenziale, quella di aspirare unicamente al presente annullando ogni idea di maturazione e con essa di morte. Sarà nella musica e nella stesura di una ben riconoscibile mitologia americana che tale processo troverà il suo compimento. In altre parole, la dimensione mitologica americana incarnata dal manifesto assoluto del Pop: Good vibrations dei Beach Boys del 1966. In questo quadro le arti che non si appoggiano all’immediatezza dell’immagine e alla forza iconica, come la letteratura e il cinema, faticano a trovare una loro grammatica Pop, consolidando l’idea che il Pop sia un’estetica non solo anti-concettuale, ma soprattutto anti-narrativa. Il cinema risulta esemplare nella definizione di una specificità del Pop: non esiste la possibilità di un cinema Pop, che non si è mai dato, se non – così veniamo a scoprire – nei 14 minuti di Broadway by Light di William Klein del 1958. Soprattutto un cinema Pop non si è dato proprio nella cinematografia di Warhol, che tutto è definibile tranne che Pop. E lo stesso può dirsi della letteratura: esiste od è mai esistita una narrativa Pop? La risposta è perentoria: no. Il narrativo è il contraddittorio stesso di ogni fenomenologia Pop. Ciò non toglie che vi sia stato e continui ad esservi un profluvio di opere che utilizzano questo o quest’altro elemento Pop, ma tecnicamente – stando alla grammatica ed alla logica descritta da Mecacci - non esistono e non possono esistere opere propriamente etichettabili come Pop in “quanto tali”. È attraverso la problematizzazione di tali questioni – l’architettura, l’anti-concettualismo e l’antinarrativa - che il libro riesce a distinguersi dalla media degli studi sul Pop e la Pop art. A nostro modo di vedere, infatti, gli aspetti più significativi de L’estetica del pop non sono solo rappresentati dalle analisi di Warhol (al quale l’autore ha già dedicato un’esaustiva monografia), dei Beatles od anche da quelle a proposito dell’industria culturale, ma appunto da quelle a proposito del cinema, della narrativa e dell’architettura, cioè il cuore stesso del campo di applicazione (practical field) del Pop. Certo, l’intro e l’epilogo dedicati ai Beatles ed a Warhol, sono forse sospinti da un eccessivo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 afflato retorico, con il rischio, del quale l’autore è però ben avvertito, di scivolare “nella perversione contemporanea delle classifiche private, del gusto momentaneo (e soggettivo) elevato a norma eterna (e oggettiva)”. Ma questo certo non distoglierà il lettore attento da quanto il testo ha di meglio e di più originale da offrire. Insomma, il contributo storico-critico che riteniamo indiscutibile de L’estetica del pop è l’aver riconosciuto che tale estetica sembra aver smesso di funzionare come espressione della società tardo capitalistica fin dai primi anni ottanta: le sue ultime propaggini mito-iconiche – Michael Jackson e Madonna – proprio nel loro successo planetario sembrano invece manifestarne il declino. Hegel direbbe, forse, che più che espressione di un’estetica Pop, Madonna e Jackson esprimono un mero estetismo Pop, un “Pop pour Pop”. Si è così andata sempre di più evidenziando – e ci allontaniamo qui dai contenuti propriamente tematizzati da Mecacci – la necessità di nuove figure più adatte a rappresentare, nella sua forma sempre più pervasivamente sociale e ludica, l’evoluzione del capitalismo neoliberale; evoluzione derivante anche, se non soprattutto, dall’avvento dell’informatizzazione di massa. A questo proposito non è un caso che siano dovuti passare quasi quindici anni - dal 6 novembre 1984 al 30 settembre 1998 – affinché emergesse una figura iconica adatta al nuovo Zeitgeist: Britney Spears. E si faccia attenzione a non sottovalutare l’arco temporale, quindici anni, poiché rappresenta un’eternità nel mondo dei mass media; infatti è in questi anni che si compie il passaggio completo ed irreversibile dall’analogico al digitale e dal digitale al partecipativo, con tutto il riflesso che se ne ha sulla relativa ontologia delle immagini. Da notare, infatti, che questo è anche uno dei fondamentali cuts – archi temporali come cesure – della diffusione della videoludica su scala mondiale. Come non è un caso, anche, che negli anni che hanno preparato l’avvento di Britney, le super “top-model” (Claudia e Naomi) e le eroine dei videogiochi (Lara Croft) hanno sostituito le popstar e le dive del cinema nell’immaginario popolare (con in mezzo effimeri interludi di starlet televisive). Un passaggio, quasi un limbo del Pop, di solito poco considerato dai teorici della società dei consumi e della celebrity in genere. Al medesimo tempo (gli anni novanta) un personaggio come Jenna Jameson è riuscita a veicolare, sempre nell’immaginario popolare, la trasformazione della pornografia in pornologia, apprendo le porte del porno al “libero mercato” digitale. Verità, questa, che trova una sua espressione nella famosa tesi di Fredric Jameson per il quale “il visuale è essenzialmente pornografico”. Da un punto di vista “dialettico” Britney Spears può essere considerata come il fine e la fine di questo movimento (Hegel direbbe Endzweck), ed allo stesso tempo il suo superamento, la Sleeping Girl (Lichtenstein, 1964) che l’America attendeva dalla morte di Marilyn e la personificazione di una nuova dimensione dell’immagine. Infatti è in questo senso che con Britney si viene a manifestare una trasformazione nella natura dell’immagine, la quale non è più definibile né come reale né come virtuale, cioè né come meramente analogica né come meramente elettronica. L’immagine diventa d’ora in avanti compiutamente informatica, simulativa, massimamente indeterminata e quindi proprio per questo sempre maggiormente determinabile: un’immagine, per dire così, quantistica (Weibel), ed il cui flusso, in un mondo appunto totalmente informatizzato e centrato su di una sua onnipervasiva ed ininterrotta fruizione di dati, appare sempre più dionisiaco, radicalmente riflessivo al punto di mettere in crisi ogni riflessività propria dell’immagine analogica e/o elettronica, financo quella percettiva, rendendo così la propria trasformatività essenziale e reversibile, continuamente riscrivibile nella sua immediatezza (Spielmann). Figura di una complessità socio-antropologica difficilmente esagerabile, e dalla potenza iconica devastante, paragonabile forse solo a quella di Garbo e Marilyn, Britney è la manifestazione IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 assoluta della configurazione ludica, interattiva e creativa degli attuali rapporti estetico/sociali angloamericani, e per questo mondiali; rapporti oramai totalmente informatizzati e virtualizzati, naturalizzati, e quindi gli unici oggi possibili. La stessa categoria di “cultura di massa” sembra risultare solo parzialmente utilizzabile al fine di rendere conto di un fenomeno come Britney, per il quale ben più utile risulterebbe l’elaborazione di una ludica partecipativa di massa. Britney, dopo un periodo di esilio di apprendistato pedagogico nel deserto storico/culturale disneyano, è emersa fin dai suoi 17 anni come l’incarnazione ultima di quell’ordine religioso – il più influente e numeroso in USA – chiamato americanismo. Se, come afferma Mecacci, Elvis rappresentò l’archetipico americano e Marilyn l’iconico, Britney fin dalla sue prime apparizioni globali e già da sempre globalizzate, apparve non solo incarnare ambedue questi aspetti per il medesimo rispetto, ma anche sublimarli nella forma estetica pura dell’americanismo: il dionisiaco. Al punto, ed è questa la questione che ci appare come decisiva, che Britney – per dirla parafrasando il teologo Von Balthasar – copre con la sua ombra l’intero spettro sociale dell’immaginario Pop, ma allo stesso tempo lo supera e lo mette tra parentesi. Britney risulta manifestare chiaramente l’inapplicabilità odierna di ogni estetica propriamente Pop al fenomeno dal lei incarnato e rivelato. Le categorie Pop, infatti, pur magistralmente esposte da Mecacci, non sembrano essere più sufficienti a rendere conto della natura iconica di Britney e della nuova configurazione eminentemente ludica e partecipativa dei rapporti sociali del capitalismo avanzato. Non deve sorprendere, quindi, che a Britney L’estetica del pop riservi solo qualche rapido accenno, derubricandola, anzi, ad epifenomeno di Madonna, al pari di una Lady Gaga qualsiasi. Questo non è certo un problema dell’elaborazione teorica di Mecacci, ma anche di molte grammatiche della società dei consumi novecentesche nel momento in cui vengono applicate a quella che abbiamo provvisoriamente definito come una ludica di massa. Siano pure, queste grammatiche, quelle di un Eco o di un Baudrillard – il quale negli anni novanta pur aveva intuito alcuni aspetti del carattere partecipativo e creativo dei consumatori, non tematizzandoli, però, nel senso della possibilità di una ininterrotta ed irreversibile modificazione dello stesso oggetto percepito e consumato dai fruitori. Ebbene, tali raffinate e complesse riflessioni sembrano mostrare il fianco all’usura del tempo. Infatti, proprio nella sua natura essenzialmente interattiva, cioè videoludica, Britney sembra far saltare ogni pretesa ad un controllo semiotico dell’oggetto: è stata ed è la prima icona universale ed onnipervasiva creata e determinata nella sua esistenza dai suoi stessi fruitori in maniera partecipativa; fruitori che si sono assunti poteri e responsabilità di riscrittura della sua immagine (e quindi della sua vita, financo quella privata) forse mai avuti dal pubblico del secolo scorso, il quale si limitava appunto a consumare la merce estetica e perciò a determinarne il successo. È la totalità dell’esistenza di Britney che in questo atto di continua ed ininterrotta riscrittura mediale, in questo “gioco”, diviene totalmente trasparente a noi, come noi a lei, lei a se stessa e noi a noi stessi. Si può vedere in ciò la parabola stessa della celebrity, cominciata alla fine degli anni venti con l’avvento di Greta Garbo, prima celebrity universale. Ma in Garbo la vicinanza a noi, la sua consumabilità, assumeva i tratti i tratti paradossali della lontananza: Greta era partecipata (consumata) proprio nel suo essere non partecipabile, distante, inaccessibile. Con Britney Spears tale configurazione del divismo appare come annullata, trasfigurata: la mistica del divismo è, per la prima volta nella storia della celebrity, totalmente fusionale, unitiva, partecipativa in maniera ontologicamente sociale. Ed è per questo che, come acutamente sottolineato da Christopher R. Smit in “The Exile of Britney Spears” (2011), un testo come “La retorica delle immagini” di Barthes non risulta più adeguato per una comprensione dell’immagine spearseana; ben più adatta sarebbe una retorica videoludica, cioè IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 una “retorica procedurale”. Tutto ciò si evidenzia in maniera esemplare nel famoso scatto in cui, con una studiatissima involontarietà dell’esposizione, i genitali di Britney divennero un fatto di “dominio” pubblico; evento che scosse l’opinione pubblica statunitense per settimane, se non mesi, e lo fece ben oltre il mero ambito dei rotocalchi di gossip. Oramai totalmente trasparente al pubblico – al quale offrì l’ultima cosa “privata” che possedeva – fu quello scatto a determinare, o meglio rendere pubblico, il principio della “tragedia” di Britney Spears, l’inizio della presunta fine, la caduta in una perdizione che sembrava indicare la sua prossimità alla morte (uno dei baluardi strutturali della stessa celebrity). Ma tale tragedia, ed è questo il punto, non è stata percepita come la tragedia di Britney, ma come una vera e propria tragedia generazionale, una tragedia americana. A differenza di molte delle tragedie del divismo, questa è apparsa appunto come una tragedia dell’America stessa, della quale Britney è la rappresentazione più dionisiaca, ed appunto per questo assoluta; una tragedia, cioè, dove il genitivo deve essere inteso in senso sia soggettivo sia oggettivo. La presunta tragedia di Britney, diventa quindi una “nostra” tragedia, perché noi l’abbiamo creata, e quindi siamo noi ad essere responsabili della sua eventuale morte, come anche della sua eventuale resurrezione. Ed è per questo che a differenza delle celebrity del passato neanche la morte appartiene più al divo: Britney non ha il diritto di morire, a meno che tale morte non sia da noi stabilita. Britney è allo stesso tempo precorritrice, profetessa ed epifania del WEB 2.0, il suo, direbbe sempre Hegel, Beiherspielendes, cioè un gioco/esempio che tanto più è inessenziale (in quanto gioco), tanto più manifesta (in quanto esempio) l’essenziale. Essendo più un evento creativo di massa che un fenomeno estetico, se non in senso equivoco, Spears non si limita quindi a utilizzare un medium ed esservi veicolata (violentata?), ma è essa stessa un media partecipativo; e lo è al punto che la sua (presunta) resurrezione del 2008 si nutre della medesima logica della sua creazione (una logica appunto partecipativa e sociale), e appare come una vera e propria ri-mediazione di se stessa; mediazione che ovviamente si dà ed accade solo nella sua sparizione, e che solo in questa continua sparizione ne permette l’esistenza: in quanto immagine completamente trasparente a sé per il nostro tramite (mediale e mediatico), e quindi una nostra responsabilità, la sparizione della mediazione veicola il nostro rapporto con l’oggetto esistente e la sua riproducibilità. Un’immagine così fatta determina una relazione talmente immediata, che è mediata solo dallo sparire della mediazione stessa. La negazione degli opposti nella relazione simbolica e partecipativa dell’immagine informatica genera quindi una mediazione che non è alcuna mediazione, una mediazione assoluta. L’esilio di Britney Spears, quindi, non è un qualcosa che avrebbe a che fare solo con la fase tragica della sua vita (2006/2008), ma anche con la sua fase paradisiaca (1999-2004) e con la sua rinascita (2008/2012): è Britney stessa, fin dalla sua creazione come media partecipativo, ad essere una forma di esilio, quello appunto determinato dalla nuova categorizzazione dell’immagine, informatica e modificabile in maniera partecipata e sociale. Ciò che risulta determinante, si faccia attenzione, non sta però solo nella natura informatica dell’immagine, e neanche nella sua essenziale modificabilità. Ciò che determina uno scarto, per così dire “ontologico”, risiede nell’accelerazione temporale e sociale della possibilità di tale modificabilità. Con l’informatizzazione di massa, tale possibilità diventa accessibile a tutti noi, e lo è ad velocità prossima a quella dell’istantaneità: Britney diventa, e quindi è, un mezzo di (ri)produzione completamente socializzato e, quindi, una nostra inviolabile proprietà. Ed è questo suo stesso essere una sorta di user generated content – o, in una corrispondenza isomorfica tra naturale e digitale, "lo" user generated content perfetto – che si rivela la natura della sua (o della nostra?) “tragedia”. Si viene così a mostrare, una curvatura nella natura della consumabilità, la quale non conduce unicamente alla “distruzione” per il tramite della “digestione”, come nell’ontologia propriamente Pop, ma anche ad una continua creazione e modificazione, cosa che quindi determina uno IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 sfasamento, uno smarcamento, appunto una trasfigurazione dell’idea Pop per come la siamo andati definendo insieme con Mecacci. Per questa ragione – almeno in una percezione di tipo capitalistico – sembra manifestarsi un cambiamento nella stessa essenza dell’essere umano; cambiamento del quale ad oggi è difficile determinarne l’effettiva portata e le reali conseguenze. Lorenzo Marras ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata”. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Pensare la crisi con Jacques Derrida. Intervista a Marc Crépon di RICCARDO ANTONIUCCI Il valore politico del pensiero di Derrida sta nella decostruzione della sovranità e nell’elaborazione di una pratica di giustizia che sia incondizionale. La responsabilità come vero antidoto alla violenza. Tra il 24 e il 26 gennaio scorso si è svolto all’Università di Atene, in collaborazione con l’Institut Français de Grèce, un convegno internazionale dal tema “Il pensiero politico ed etico di Jacques Derrida”. Al centro della tre giorni di lavori, la riflessione sulla condizione critica che caratterizza il presente dell’Europa; all’insegna dell’esperienza della “crisi”. In questo contesto, il pensiero di Derrida si rivela particolarmente efficace per pensare la congiuntura storica attuale. Ne parliamo con uno dei relatori del convegno: Marc Crépon, filosofo, allievo di Jacques Derrida e attualmente direttore del dipartimento di filosofia dell’École Normale Supérieure di Parigi. Professor Crépon, la prima domanda che vorrei porle, e che, trattandosi di una questione sul senso, non è aliena da una certa “bêtise”, riguarda proprio i due aggettivi con cui si è voluto qualificare il pensiero di Derrida durante questo convegno: “politico” ed “etico”. Possiamo tentare di chiarire meglio il nesso esistente tra il pensiero di Derrida e i campi descritti dai due termini. “Pensiero politico” e “pensiero della politica” non sono la stessa cosa, ovviamente. Eppure, di solito, un pensiero non è detto “politico” se non è anche riconosciuto, parallelamente, come “pensiero della politica”, o del politico. Cioè come pensiero delle condizioni e delle tecniche proprie all’azione politica in un contesto storico determinato. Per cui spesso la “filosofia politica” si riduce a una serie di riflessioni su problemi che sono posti dall’attualità della pratica di governo o dell’amministrazione della società. Tuttavia, questo parallelismo non sembra operativo nel pensiero di Derrida: la sua riflessione, senza essere stata “condizionata” da temi provenienti dal dibattito politico, li ha piuttosto “rilanciati”, riverberati, in un'altra forma; addirittura, in alcuni casi, li trasformati, passandoli al filtro del suo singolare approccio filosofico. Per esempio, ha rilanciato il problema della democrazia attraverso il concetto di ospitalità. Insomma, il pensiero di Derrida si presenta come un caso singolare di pensiero “politico” che non è un pensiero della politica. La sua battaglia, dunque, si muove piuttosto nell’elemento della filosofia politica oppure della “politica della filosofia”, che non si interessa delle pratiche concrete di governo? Marc Crépon – È vero che nell’opera di Derrida non si trova una riflessione sviluppata intorno alle forme di governo. Eppure, la possibilità di qualificare il suo pensiero come “politico” è innegabile, a dispetto di tutte le riserve che impone l’idea stessa di “qualificazione” in generale. Ed è innegabile almeno per due ragioni. La prima è che, se è vero che, a partire dai tre grandi libri del 1967 (1), uno dei fili conduttori del suo pensiero è stata la decostruzione del soggetto sovrano, era allora inevitabile che Derrida incrociasse la questione della sovranità in sé, nella sua accezione politica. Il “pensiero politico” di Derrida, se ce n’è uno, si dà dunque prima di tutto come “decostruzione della sovranità”. Per questo esso è impostato su un confronto capitale con colui che ha pensato la sovranità come eccezione: Carl Schmitt. Ma questo orientamento è anche la ragione per cui il pensiero di Derrida incontra, come problema fondamentale, la questione del perdono, del diritto alla grazia e quindi della pena di morte. La seconda ragione è l’opposizione tra diritto e giustizia, analizzata in Forza di legge (2) e, nello stesso ordine di idee, la messa in luce della “messianicità senza messianismo” di una giustizia a IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 venire avanzata da Spettri di Marx (3). Creando, sul filo di una lettura serrata del saggio di Benjamin “Per la critica della violenza”, l’opposizione fra diritto e giustizia, Derrida apre le porte a qualcosa che gli permetterà di interrogare nuovamente, e in maniera inedita, l’articolazione dell’etica e della politica, cioè la tensione aporetica, irriconciliabile, tra un diritto sempre condizionale [conditionnel] e un’esigenza e un principio di giustizia incondizionali [inconditionnels] – disegnando così l’orizzonte di una democrazia “a venire” (4). Ne deriva una responsabilità che è insieme etica e politica, dove la copula designa precisamente il luogo dell’aporia. La responsabilità è rendere possibile l’impossibile: per esempio, piegare gli imperativi di un’ospitalità condizionale all’esigenza di un’ospitalità incondizionale. Si tratta, in altri termini, di evitare che il diritto si spacci per giustizia; denunciare, in particolare, l’escalation vertiginosa delle condizioni poste all’ospitalità, in Europa e altrove, con la quale si pretende di far valere un principio di giustizia quando, invece, si produce l’esatto contrario. Durante il convegno si è tenuta una tavola rotonda sul tema specifico “Pensare la crisi con Jacques Derrida”. Con la nozione di “crisi” si faceva evidentemente riferimento alla crisi economica e sociale che affligge attualmente l’Europa. In questo contesto, quali concetti offre il pensiero di Derrida alla riflessione politica? M. C. – Nel pensiero di Derrida c’è un altro filo conduttore, che bisogna concepire come una quasiresistenza a tutti i tipi di invocazione di appartenenza a un’identità collettiva, qualunque essa sia. In maniera quasi idiosincratica, Derrida non si fida dei concetti di comunità, identità (singolare o collettiva) e di appartenenza. La crisi, oggi, minaccia di riattivare, non senza violenza estrema, tutti i fantasmi identitari e, con loro, tutte le tentazioni di ripiegamento comunitario su identità fantomatiche [fantasmées]. Una delle traduzioni più immediate di questo tipo di movimenti di ripiegamento è il ritorno delle mono-genealogie culturali, come se una qualunque restaurazione di presunte identità in pericolo potesse costituire un rimedio alla crisi. Da Oggi l’Europa. L’altro capo (5) a Il monolinguismo dell’altro (6), la questione dell’identità è centrale nella riflessione di Derrida. È dunque a questo titolo che il pensiero di Derrida può orientare una riflessione intorno al tema della crisi, e non a titolo di un pensiero dell’economia e della società, temi che non sono stati direttamente al centro delle sue preoccupazioni. In fondo, di fronte alla crisi potremmo fare nostra questa frase di Oggi l’Europa, che cito spesso ai miei studenti europei e americani: “Ciò che è proprio di una cultura è il non essere identica a se stessa. Non di non avere identità, ma di non potersi identificare, dire “io” o “noi”, di non poter assumere la forma di un soggetto che nella nonidentità a sé, o, se preferite, nella differenza da sé”. Tutto questo sembra apparentemente lontano dalla “crisi” e dai suoi effetti distruttivi, e invece riguarda proprio il cuore della crisi, ovvero la minaccia portata, in modo assolutamente regressivo, a quel legame che, a mio giudizio (ed è uno dei punti che mi lega alla lettura di Derrida) unisce l’Europa all’avvenire di un certo “cosmopolitismo”. Questi temi sono anche al centro del suo lavoro, almeno a partire dai due volumi de La culture de la peur (Galilée, Paris 2008 vol. I «Démocratie, identité, sécurité» e 2010 vol. II «La guerre des civilisations»). Il suo ultimo libro, invece, Le consentement meurtrier (Éditions du Cerf, Paris 2012), prosegue l’analisi interrogando le ragioni del ripiegamento identitario che interessa attualmente i popoli dell’Europa (e non solo). In questo libro lei mostra che la violenza è una conseguenza necessaria della sovranità, e suggerisce di contrastare la logica sovrana dello “stesso” con la logica non identitaria della “comunità degli esseri viventi”. Ma ci si potrebbe chiedere se una politica senza violenza è davvero possibile come tale. Oppure questa prospettiva, come anche nel caso della “comunità che viene” di Giorgio Agamben, finisce per abolire la politica? M. C. – La questione della “comunità dei viventi” è introdotta verso la fine nel libro, e più che altro rimanda ai prolungamenti a venire di Le consentement meurtrirer, e al confronto che voglio IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 intavolare, già da molto tempo, con le tesi di Giorgio Agamben. La questione al centro di Le consentement meurtrier è più che altro questa: come non rimanere vittima della stessa morale che si invoca ogni volta che si fa appello – anche sulla scena internazionale – all’articolazione della politica su dei principi etici. Si parte dal principio che, se è vero che le relazioni intersoggettive sono fondate sulla responsabilità della cura, del soccorso e dell’attenzione che, dovunque e per chiunque, la vulnerabilità dell’altro esige, la politica continua tuttavia a imporci dei compromessi che eclissano questa responsabilità. Ci tappiamo le orecchie, chiudiamo gli occhi, preferiamo non vedere e non sapere, quando proprio non partecipassimo attivamente all’una o l’altra forma di violenza, di insicurezza e di fragilizzazione delle condizioni dell’esistenza che chiamano alla responsabilità. È quello che chiamo il “consenso mortale” (consentement meurtrier), che è una dimensione della nostra appartenenza al mondo. Non è sicuro che riusciamo a uscirne; che si possa, in altri termini, sfuggire alla violenza, ma conviene almeno provare a immaginare le forme etiche e politiche che permettono di risponderne; forme che chiamo “eticosmopolitiche”. La rivolta, la bontà, la critica, la vergogna sono alcune delle forme che può assumere questa risposta. Come si vede, sono molto lontano dall’idea di un’abolizione della politica. La politica, la definisco come l’organizzazione istituzionale e conflittuale di un [tipo di] “essere-contro–la-morte” che si rivela sempre selettivo, parziale, calcolato a reversibile. È in questa parzialità, in questo calcolo e in questa reversibilità che si annida la possibilità della violenza e di tutte le forme di consenso mortale che l’accompagnano. L’etica, allora, è la contestazione di tutto ciò, perché [il tipo di] essere-controla-morte che è al suo fondamento non può accontentarsi delle mappe della vulnerabilità e della mortalità che produce la politica. Per il momento, sono ancora fermo al punto di pensare le condizioni di questa contestazione. Rimane da pensare come essa possa, e debba, tradursi nelle istituzioni. Nel 1983, a proposito della nozione di crisi, Derrida diceva che, se “la krisis rinvia al giudizio, alla scelta, alla decisione, [la] crisi è un momento in cui la krisis sembra impossibile. La crisi non è un incalcolabile qualunque, è l’incalcolabile come momento del calcolo”(7). Qui la nozione di crisi sembra assimilata a quella di indecidibile, che è una delle nozioni essenziali del pensiero di Derrida. Se è cosi, si può allora definire a tutti gli effetti Derrida un “pensatore della crisi”? La decostruzione, in fondo, non sarebbe nient’altro che una crisi permanente, una messa in crisi permanente? Una filosofia della crisi contro una filosofia dell’affermazione? M. C. – Non sono sicuro che sia esattamente questo che dica e faccia Derrida. perché quella che lei chiama “crisi permanente” non dà diritto a una cosa che, mi sembra, è invece essenziale nel lavoro di Derrida a partire dalla metà degli anni ’80, e che riguarda ciò che lui stesso ha definito le “questioni di responsabilità”. Il calcolo rimanda alla figura del programma, e l’incalcolabile come momento del calcolo all’esaurimento del programma. La crisi sorge quando i programmi non funzionano più, quando non possono neanche più dare l’illusione di proporre, se non una “soluzione”, almeno un “esito”, una “via d’uscita”. La crisi è la moltiplicazione dei calcoli che girano a vuoto perché riempiono dei programmi che non implicano alcuna decisione: nel senso in cui, per Derrida, non c’è decisione responsabile se non sulla base di un indecidibile che è un’esperienza dell’aporia. Si ricordi la definizione che dà Derrida della responsabilità, sempre in Oggi l’Europa: “Oserei suggerire che la morale, la politica, la responsabilità, se ce n'è, non sarebbero mai cominciate senza l'esperienza dell'aporia. Quando la via è aperta, quando un sapere apre anticipatamente il cammino, la decisione è già presa, e tanto varrebbe dire che non c'è decisione da prendere: irresponsabilità, buona coscienza, si applica un programma. Forse, e questa sarebbe l'obiezione, non si sfugge mai al programma. Allora però bisognerebbe riconoscerlo e smetterla di parlare con autorevolezza di responsabilità morale e politica. La condizione di possibilità di qualcosa come la responsabilità è una certa esperienza della possibilità dell'impossibile: la prova dell'aporia a partire da cui inventare la sola invenzione possibile, l'invenzione impossibile" (8). Come si vede, è tutt’altra cosa di quell’indecisione che è invece IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 l’effetto di programmi che non hanno più niente da promettere. Indecisione e indecidibile non sono la stessa cosa. Ciò che è in questione è la possibilità di ridare senso a una promessa che l’incalcolabile annidato nel cuore del calcolo (è l’essenza della crisi) sembra condannare. Un’ultima domanda che ci allontana un po’ da questo insieme di questioni. L’anno prossimo sarà il decimo anniversario della morte di Jacques Derrida, e il trentesimo di quella di Michel Foucault. Il rapporto, per così dire, non lineare tra i due è stato molto studiato. Eppure, guardando all’attualità francese, l’impressione è che anche la sorte delle due opere sia stata divergente. Che, diversamente da quella di Foucault, l’opera di Derrida non sia stata, in altri termini, inserita in un processo di “integrazione”, o appropriazione, all’interno della ricerca delle scienze umane. Si potrebbe quasi dire che l’opera Derrida non abbia “fatto scuola” o, meglio, che non abbia lasciato quel tipo di lascito metodologico per cui sarebbe possibile, in tutti i campi del sapere, dirsi “derridiani”. Almeno non nel senso in cui molti si definiscono “foucaultiani” o “deleuziani”. Forse il pensiero di Derrida è per essenza estraneo a questo tipo di tradizione. Che tipo di eredità ha lasciato ai suoi lettori? È possibile oggi definirsi “derridiani”, e in che senso? M. C. – La domanda mi sorprende, perché penso che, al contrario, il pensiero di Derrida ha proprio “fatto scuola” nel senso che dice lei, e che la sua diffusione è notevole, anche nelle scienze umane. Ci sono delle discipline che devono in parte la loro stessa esistenza al lavoro di Derrida, come i “gender studies” negli Stati Uniti o gli studi postcoloniali. I suoi testi sono studiati, specialmente nelle università americane, nei dipartimenti di scienze politiche, di studi cinematografici, di studi africani, di letteratura comparata, di analisi dei media, di storia dell’arte ecc. Il lascito, consiste prima di tutto in un’opera dalla mole considerevole, che resta una fonte di ispirazione per molti. Un’opera che resta in gran parte ancora da pubblicare: fatta di quarant’anni di corsi e seminari, di cui solo una minuscola parte è stata finora pubblicata. Il corpus è dunque immenso e aperto. Esso fa di Derrida, come degli altri pensatori della sua generazione (Deleuza, Foucault), un “classico” della filosofia, alla pari dei pensatori della generazione precedente (Sartre, Merleau-Ponty, Simone Weil…). Le opere di Derrida sono studiate ma anche discusse, criticate, al di là di ogni forma di mimetismo e ripetizione; iscritte, in altri termini, in un loro specifico “momento”. Il lascito è anche un cantiere: quello di quest’etica iperbolica – le questioni di responsabilità di cui parlavo – senza la quale l’idea stessa di una “democrazia a venire” non ha senso. Quest’ultima idea apre numerose piste di lavoro che molti giovani ricercatori riprendono per conto loro. Voglio dire che l’opera di Derrida costituisce oggi per molti un punto di partenza, anche se in seguito si producono delle rotture. È un’opera, infine, con la quale molti filosofi della mia generazione si sono confrontati nel loro percorso personale: Catherine Malabou, Serge Margel, Peter Szendy, Frdéric Worms, per citarne solo qualcuno, sanno quanto devono alla lettura dei testi di Derrida. NOTE (1) Jacques Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; tr. it. Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1968, 1998²; L'écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, 1979²; tr. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, 19903; La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de Husserl, P.U.F., Paris 1967, 1993²; tr. it. La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano 1968, 1997³. (2) Id., Force de loi. “Le fondement mystique de l’autorité”, Éditions Galilée, Paris 1994 ; tr. it. Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, Bollati Boringhieri, Torino 2003. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 (3) Id. Spectres de Marx, Galilée, Paris 1993 ; tr. it. Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano 1994. (4) Il riferimento è al “lessico dell’incondizionalità” derrridiano, per cui cfr. anche Id., Voyous, Éditions Galilée, Paris 2003; tr. it. Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003. (5) Id., L'autre cap, Minuit, Paris 1991; tr. it. di M. Ferraris, Oggi l'Europa. L'altro capo. Memorie, risposte e responsabilità, Garzanti, Milano 1994. (6) Id., Le monolinguisme de l'autre, Galilée, Paris 1996; tr. it. Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2004. (7) Id., Économies de la crise. Entretien avec Jacques Derrida, in «La Quinzaine littérarire», n° 399, agosto 1983. (8) Traduzione di Maurizio Ferraris: Oggi l’Europa, cit. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Governo tecnico o governo politico? Una falsa alternativa di GIUSEPPE DUSO Le difficoltà che si incontrano nel distinguere il “governo tecnico” da quello “politico” sono la spia di difficoltà ancora più grandi, quelle che riguardano il processo di legittimazione del governo. È perciò la stessa categoria del governo che deve esser ripensata, fuori da ogni sua riduzione a “potere esecutivo” e dentro un modo diverso di intendere il comando e la dimensione politica dei cittadini. In relazione alla situazione politica che si è determinata nell’ultimo anno si può tentare un esperimento inconsueto. Non tanto cioè di dare per scontato che si è trattato di una situazione eccezionale e che è ben diverso un governo “tecnico” da uno “politico”, e nemmeno di giudicare l’operato di questo governo tecnico (cosa che si può e si deve fare), ma piuttosto di trarre motivo da questa esperienza per una riflessione critica sulla modalità diffusa di pensare la politica, condivisa anche da coloro che si contrappongono nella lotta politica. Il piano in cui si dà la lotta culturale e politica e la forma della democrazia rappresentativa devono essere accettati come inevitabili e necessari, oppure emerge l’esigenza di nuove categorie per pensare la politica? Possiamo partire dalla definizione di “governo tecnico” che è stata usata, sia pure con giudizi diversi, per indicare una tale vicenda politica. In questa espressione il termine “tecnico” vuole segnalare la presenza diretta nel governo delle competenze e conoscenze necessarie a risolvere i problemi che ci assillano. L’identificazione del governo con queste competenze e saperi non appare tipica della forma democratica, al punto che spesso si sente parlare di una “sospensione della democrazia”. Cosa significa ciò? Che di norma si pensa che il governo che non è tecnico, ma è invece “politico”, può essere privo delle conoscenze necessarie a governare i processi e a risolvere i problemi? Si è tentati di rispondere di no; ma in realtà, anche se sembra ovvio che nei ministeri e nel personale amministrativo ci sia competenza tecnica, si è costretti ad ammettere che tale sapere non è ritenuto necessario per la guida politica, in quanto si pensa che questa debba essere determinata dalla scelta della linea di fondo e dei valori che connotano una politica in luogo di un’altra. Ciò porta ad una situazione ricorrente, accolta senza indignazione, di ministri che hanno la più totale mancanza di competenza, di sapere e di esperienza in relazione alle tematiche del ministero che devono guidare. Ma è pensabile che l’aggettivo “tecnico” assorba totalmente in sé il sostantivo a cui si riferisce, il quale ha un indubbio significato politico? O non sta nelle cose che governare comporta trovare una via, fare delle scelte, avere dei punti di riferimento? Questa realtà dell’agire governativo non è dunque irriducibile alla presunta oggettività di un sapere, astratto dalle situazioni e dalla sfera della prassi? Allora non siamo di fronte ad un mero esercizio di sapere, non ci muoviamo all’interno di discipline scientifiche, magari addirittura accademiche (si dice “il governo dei professori”), ma si tratta del governo degli uomini e delle cose, cioè di una prassi che non può che essere politica. Ma allora, se governare è in ogni caso prassi politica, anche se riguarda un cosiddetto governo tecnico, in cosa si differenzierebbe da quest’ultimo un presunto “vero” governo politico? Quale è il preciso significato di “politico” contrapposto a “tecnico”? Dal momento che la riflessione che tentiamo di fare riguarda i concetti fondamentali con cui si pensa la politica, si deve riconoscere che, per comprendere il significato che si attribuisce nel dibattito corrente al termine “politico”, bisogna partire da lontano, cioè dalla nascita del dispositivo moderno con cui si concepisce la politica, avvenuta in quel laboratorio concettuale che è il giusnaturalismo moderno. In esso si è negato che sia razionale il fatto che tra gli uomini si ponga inevitabilmente la relazione tra chi governa e chi è governato: questo era il problema su cui per IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 secoli si sono differenziate le diverse concezioni politiche, tese a determinare le modalità secondo le quali un governo poteva essere buono e giusto. Nelle dottrine del diritto naturale una tale relazione è stata considerata irregolare e irrazionale e, sulla base dei nuovi concetti di uguaglianza e di libertà, si è costruito nella teoria il concetto di potere legittimo (la sovranità moderna). Da allora non è più la virtù e la capacità di chi governa ad essere decisiva, ma piuttosto la sua legittimità, consistente nel fatto che la persona che esprime il comando necessario alla vita in comune degli uomini è il risultato della volontà di coloro che dovranno ubbidire. Unica legittimità dell’autorità è di essere il risultato di un processo di autorizzazione, di essere da tutti voluta. Dunque ciò che caratterizzerebbe il termine politico come contrapposto a tecnico sarebbe da una parte un’ottica complessiva e generale sulle finalità del governo, svincolata da ciò che i processi stessi e le cose mostrano di richiedere (aspetto tecnico) e legata ad una Weltanschauung, una visione del mondo teoricamente elaborata come presupposto (una ideologia?), e dall’altra (soprattutto) quel processo di autorizzazione che caratterizza ancora ciò che si suole indicare come “legittimazione democratica”. Il fatto cioè che ci siano elezioni, a cui in modo uguale partecipano i cittadini, e che attraverso queste si costituisca un’assemblea di attori politici con il compito di esprimere la volontà che è attribuita al popolo, volontà che diviene legge a cui si deve obbedire; e infine che ci sia un governo inteso come mero “potere esecutivo”, tale cioè da mettere in atto la legge decisa dalla maggioranza parlamentare. In tal modo il governo metterebbe in atto rappresentativamente la volontà del popolo. In ciò consiste il meccanismo formale della democrazia rappresentativa, anche se ad esso non si riducono certamente tutte quelle esigenze e quelle istanze che comunemente si riferiscono al termine di “democrazia”. Nell’ottica della presente riflessione si può dire che molte di queste istanze, in modo particolare quella della partecipazione dei cittadini (ma anche quella del riconoscimento di una pluralità di soggetti), non trova nel meccanismo formale indicato una via per la sua realizzazione. Se è così, allora l’aggettivo “politico” indica bensì che il governo è legittimato da una maggioranza (si badi bene, dei voti espressi, non della totalità dei cittadini), ma non ci dice niente sul fatto che questo possa essere un buon governo, e che chi è stato scelto abbia la conoscenza, l’esperienza, la capacità, (per usare una parola complessiva che ha una lunga tradizione, la virtù) per governare effettivamente i processi in atto per il bene dei cittadini. La sterminata discussione contemporanea sulla governance e la sempre più diffusa pratica di ricorso alle autority, lungi dall’indicare una nuova forma di legittimità coincidente con l’efficienza, mi pare indichino la difficoltà di fondo della logica della democrazia rappresentativa, soprattutto in merito a due problemi: quello della reale capacità di governare i processi, e quello del coinvolgimento e della partecipazione dei soggetti in essi implicati. Per questi due problemi lo schema di base della democrazia rappresentativa non ha, in quanto tale, uno strumentario adeguato. Già a questo proposito sarebbe da riflettere sul fatto che sempre più le democrazie contemporanee hanno bisogno per il loro funzionamento di organi non fondati democraticamente, non basati sul voto, dunque non “politici” secondo l’accezione determinata, particolare, storicamente segnata, e non certo universale come si crede - del termine che stiamo interrogando. Lo schema della legittimazione che abbiamo ricordato non si dà tuttavia in modo semplice, non si svolge in uno scenario determinato immediatamente dalla dialettica in atto tra i cittadini e lo Stato. Tale schema è radicalmente complicato dalla presenza dei partiti. In quello che già nel primo Novecento è chiamato lo “Stato dei partiti” la rappresentanza e le elezioni passano attraverso l’operare dei partiti. Questi tendono ad occupare totalmente lo scenario politico e ad offrire una mediazione per risolvere lo iato che si viene paradossalmente a creare proprio a causa del processo di autorizzazione. In questo infatti tutti si proclamano bensì, come già diceva Hobbes, autori delle azioni che l’attore, il rappresentante appunto, farà e dunque fondano dal basso la sua autorità, ma, proprio per questo, non agiscono essi stessi politicamente e nemmeno forniscono istruzioni per IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 l’agire del rappresentante. Sulla base di questo processo – che caratterizza ancora lo strumento delle elezioni, in cui si realizza il concetto moderno di rappresentanza nelle costituzioni moderne a partire da quella del 1791 della Francia rivoluzionaria – i rappresentanti non devono tanto rappresentare parti della società, o i propri elettori, ma la volontà unitaria del popolo. Non c’è allora una trasmissione di volontà politica dall’elettore a quello che sarà l’attore politico: non c’è istruzione, non c’è vincolo, ma appunto mandato libero. Si esprime solo fiducia in relazione a ciò che il rappresentante farà. Appare qui con evidenza una forma di spoliticizzazione, in quanto i cittadini diventano protagonisti e non solo sudditi solo a patto di delegare l’agire politico ad altri, senza determinare questo agire nei suoi contenuti. E’ appunto questo iato che dovrebbe essere riempito dalla mediazione partitica in quanto, anche se gli elettori non esprimono volontà particolari ma solo i nomi di coloro che dovranno diventare rappresentanti, tuttavia il ponte che unirebbe la volontà degli elettori a quella dei rappresentanti sarebbe costituito dai programmi dei partiti. Sono questi che dovrebbero rassicurare gli elettori che i deputati in Parlamento tenderanno ad operare nella direzione che è stata promessa e sulla cui base i cittadini hanno espresso il loro voto. Tale logica coinvolge il governo, che è espressione della maggioranza parlamentare. L’accezione di “politico”, che intendiamo qui mettere in questione, viene allora ad identificarsi con l’elemento “partitico”, come mostra il fatto che a gran voce oggi si definisce la critica ai partiti come “antipolitica”. Ma è da chiedersi se i programmi dei partiti, sempre più simili e in concorrenza tra loro nel promettere cose che dovrebbero incontrare i desideri degli elettori, possano costituire un legame tra la volontà dei cittadini e ciò che costituirà l’effettivo operato del Parlamento e del governo, o non abbiano piuttosto il fine di allargare il consenso, un consenso previo, concesso sulla fiducia, che dovrebbe essere il più possibile ampio e totalitario. Tutti i partiti affermano, o in ogni caso ritengono, che avendo la maggioranza del 51% potrebbero veramente fare quello che promettono e dunque il vero bene dei cittadini. In ogni caso, al di là di questa considerazione, bisogna anche riconoscere che la presenza dei partiti complica quella che appare essere la logica, ma anche la lettera, della carta costituzionale in alcuni punti rilevanti. Infatti qualora il legame tra elettore ed eletto si ritenesse garantito dal fatto che gli eletti restano fedeli alle decisioni dei partiti, ci si può chiedere se il rappresentante sia da intendersi libero da vincoli di mandato, come afferma la nostra Costituzione, oppure legato al mandato dei partiti. E non si tratta di un mandato imperativo che proviene dalla costituzione materiale della società e delle sue parti, ma da soggetti che hanno una loro separatezza, una loro organizzazione burocratica, anche se tendono a mantenersi mediante il cosiddetto “consenso”. Ma si pensi poi a quanto i partiti decidano per i cittadini quali debbano essere i loro rappresentanti, non solo nella situazione prodotta dalla attuale legge elettorale in Italia, ma anche in quella in cui si possono esprimere le preferenze. Quando infatti un cittadino può decidere lui chi lo rappresenta? E quanto è condizionato, anche nel caso di possibile scelta, dalla proposta di candidati da parte dei partiti e dalle decisioni che questi ultimi prendono in relazione alla posizione dei candidati nelle liste elettorali e ai seggi nei quali presentarli? E’ poi da ricordare che il partito, nella funzione di rappresentare interessi presenti nella società, ha in ogni caso l’interesse primario alla propria esistenza e allargamento, anche quando ciò ha una motivazione nobile e non quella, purtroppo diffusa e più squallida, del mantenimento di privilegi, di quote di potere, di seggi, di prebende e vitalizi. Non intendo qui prolungare una riflessione sui partiti, che sarebbe per altro assai urgente, perché non è detto che i partiti debbano essere i soggetti esclusivi dell’agire politico come è stato, anche meritoriamente, dalla nascita dei grandi partiti di massa fino ad ora. Ciò non significa che i partiti debbano scomparire, ma che forse si devono trasformare, in modo da essere promotori dell’agire politico degli stessi cittadini mediante le forme di aggregazione che hanno luogo nello spazio che viene solitamente indicato come “società civile”. Ma, per capire come la presenza dei partiti – che in realtà secondo le costituzioni contemporanee non sono veri e propri soggetti politici (cioè attori), ma piuttosto organizzazioni che servono a dar forma al corpo rappresentativo, in cui dovrebbero IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 trovarsi i veri attori del processo di autorizzazione – renda inefficace la logica che soggiace alla lettera della Costituzione, si pensi a cosa può significare nella attuale situazione la divisione dei poteri, che per Kant era il requisito indispensabile di una costituzione repubblicana e dunque non dispotica. Il Parlamento dovrebbe infatti essere l’organo che istituisce e controlla l’azione del governo. Ma se si riflette sul fatto che le leggi del Parlamento sono il frutto della volontà concorde della maggioranza parlamentare, il che equivale a dire delle decisioni prese, fuori dal Parlamento, dai partiti (come mostra l’aula deserta in occasione della discussione – non della votazione – di leggi rilevanti), quale dialettica può esserci tra questa volontà e quella che determina l’azione di governo, se è proprio il governo il luogo in cui i partiti di maggioranza verificano quotidianamente la loro possibilità di agire unitariamente? Inoltre, se le cose stanno così, è proprio da meravigliarsi che le leggi le faccia il governo? Non solo mediante i decreti legge, ma anche per quanto riguarda le leggi normali, che non a caso cambiano con il cambiare dei governi? In uno Stato dei partiti il Parlamento riesce a svolgere la funzione di controllo effettivo dell’operato del governo? Quando sembra che ciò succeda, in realtà si tratta della decomposizione dei partiti di maggioranza o del loro accordo, che determina insieme crisi di governo e crisi della maggioranza. Queste brevi considerazioni vogliono solo indicare un compito per la riflessione. Forse è il terreno stesso sul quale avviene la lotta politica a dover essere messo in questione. Qui sta forse il vero problema che gli schieramenti in lotta tra loro non vedono. Se fosse così, si mostrerebbe urgente un rinnovamento radicale del modo di pensar la politica, emergerebbe l’esigenza di nuove categorie, al di là dei concetti che si condensano nella formula della legittimazione democratica. Innanzitutto è la categoria del governo a dover essere pensata, come modo diverso di intendere il comando e la dimensione politica dei cittadini, al di la della riduzione del governo a semplice “potere esecutivo”. Una prassi di governo non può non implicare la capacità, la conoscenza, l’esperienza da parte di chi governa, e non è pensabile se non in relazione ad un orizzonte di senso che non dipende dalla semplice volontà e dall’arbitrio di chi governa, secondo quanto evidenzia l’antica immagine, presente in secoli di pensiero politico, del gubernator della nave della repubblica. In che direzione governare? Secondo quale modo di pensare la giustizia? con quale livello di azione e responsabilità politica non solo dei governanti, ma anche dei governati? La responsabilità di chi governa e la determinazione dell’orizzonte di giustizia all’interno del quale è vincolato il governo richiedono di andare oltre la logica formale che determina la legittimazione democratica. In questa non sono veramente responsabili i rappresentanti, in quanto gli autori delle loro azioni sono coloro che li hanno eletti, ma non sono responsabili nemmeno gli elettori, perché sono autori di azioni che essi stessi non compiono. Quale paradosso in questa forma prodotta dal moderno principio della soggettività politica! Pensare veramente il governo è possibile solo se si mette in discussione la certezza che la razionalità formale propria della democrazia rappresentativa costituisca la tappa universale e invalicabile del pensiero politico, e se si supera la convinzione che i problemi che si presentano dipendano semplicemente dal fatto che il meccanismo della democrazia non è pienamente attuato. Forse solo mettendo in questione la razionalità formale che soggiace alla democrazia rappresentativa è possibile soddisfare esigenze che spesso si presentano proprio attraverso il termine di democrazia. Un governo unitario, che abbia autonomia nei confronti della pluralità delle forze (e anche dei partititi), responsabile, forte e capace di decidere al di là del ricatto costituito dalle successive elezioni, non è un’eccezione o un pericolo, ma ciò di cui c’è bisogno. La categoria del governo esprime una funzione unitaria che è richiesta dalla pluralità costitutiva della realtà politica: implica la pluralità contro la chiave monistica che caratterizza la sovranità. Il vero problema è come IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 concepire l’organo collegiale, il Parlamento, in modo tale che sia effettivamente superiore al governo e riesca a controllarne e a indirizzarne l’azione mediante la determinazione di principi di equità e giustizia. E’ in questo organo che devono essere presenti le diverse istanze della società, secondo una pluralità che non è riducibile al pluralismo ideologico delle opinioni. Si può forse discutere se sia il “Senato delle regioni” la via migliore per dare una forma a tale pluralità, ma l’espressione della pluralità appare necessaria assieme alla responsabilità delle parti del Paese. E’ miope, in relazione alla realtà in cui viviamo, temere la forza del governo, come pure meravigliarsi che sia il governo a fare le leggi. Il vero problema consiste nella forma e nelle funzioni che deve avere l’organo più ampio e rappresentativo previsto dalla costituzione. Accanto allora al problema di ripensare il governo con la sua responsabilità, si pone dunque il problema di come ripensare il Parlamento. Anche in relazione alla attività legislativa si potrebbe cominciare a riflettere se è vero, come sopra si è detto, che le leggi necessarie per governare provengono dal governo. Forse allora vera azione legislativa del Parlamento dovrebbe riguardare le leggi fondamentali, che danno determinazione (continua) a ciò che si considera giusto e che devono indicare la direzione all’operare del governo. E questo è forse un compito che non può sempre essere assolto con la regola democratica della maggioranza, che vede costantemente e aprioristicamente contrapposte le forze in campo. E’ l’orizzonte necessario di condivisione, all’interno del quale è possibile la vita civile, a dover essere determinato assieme dalla pluralità delle parti, nel tentativo di trovare l’accordo piuttosto che manifestare lo scontro continuo. Si badi bene che nel dire questo non si immagina una situazione idilliaca in cui tutti la pensano allo stesso modo o in cui non ci sono interessi contrapposti. Al contrario, sono proprio le contrapposizioni e i conflitti, che non possono non caratterizzare la pluralità e che hanno una loro produttività, a richiedere, per non lacerare l’entità politica, la determinazione di un orizzonte comune; altrimenti non si può parlare di una entità politica e nemmeno della possibilità dello stesso conflitto. E’ quello che hanno fatto, con idee diverse e con la volontà di rappresentare parti diverse della società, i padri costituenti uscendo dall’esperienza fascista. L’accordo è difficile, ma si pensi a quanto nel continuo scontro tra i partiti sia dovuto ai contenuti e alle finalità che ci si propone e quanto invece al fine di costituire il soggetto che legittimamente esercita ( e occupa) il potere. Chi pensa impossibile tendere ad un tale accordo, non può che rifugiarsi nella logica formale della legittimazione, la quale comporta l’assolutizzazione della volontà e dell’opinione e quella relazione maggioranza minoranza che non a caso è presente nello stesso capitolo XVI del Leviatano di Hobbes, in cui per la prima volta ci troviamo di fronte al concetto moderno di rappresentanza politica. Il compito di pensare lo spazio di azione politica dei cittadini (questo il vero nodo centrale di una riflessione sulla categoria di governo), ci spinge a due ultime considerazioni, che sono in parte tra loro collegate. La prima riguarda il fenomeno che oggi viene indicato con il termine dell’indignazione. Gli indignados, gli indignati, il movimento delle masse che si è recentemente manifestato nelle diverse parti del mondo. E’ un termine che ha anche una lunga storia nel pensiero politico, si pensi ad esempio a Spinoza. Si tratta di un fenomeno rilevante, in cui compare un agire spontaneo delle masse e un condiviso senso della giustizia, o meglio e più precisamente dell’ingiustizia contro cui si muove. Ciò ha una forte rilevanza politica, ma che rimane solo negativa. Anche quando compaiono esigenze largamente condivise, non compaiono in una forma che si possa tradurre immediatamente in azione di governo, che faccia delle masse il soggetto del governo. L’agire spontaneo delle masse esprime certo esigenze e bisogni, oltre ad un senso comune di ciò che non è considerato giusto, ma in ogni caso implica un’azione di governo che un tale agire non riesce a risolvere in sé. Se si pensasse che questo atteggiamento con la sua spontaneità fosse passibile di tramutarsi in governo e le masse si tramutassero nel soggetto che governa, si perderebbe proprio quella tensione strutturale tra governo e governati nella quale è sempre possibile e insopprimibile l’indignazione. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Problema a questo collegato, anche se diverso, è quello delle forme di aggregazione di cittadini che, sulla base di problemi, bisogni e interessi determinati che li riguardano, si oppongono alle decisioni del governo. Questo fenomeno è uno spiraglio attraverso il quale si può comprendere con evidenza la necessità di andare oltre l’attuale modo di intendere la democrazia. Sulla base di questo infatti non si possono non considerare legittimate democraticamente le decisioni di un esecutivo che dipende dalla maggioranza parlamentare e dunque dalla maggioranza dei voti dei cittadini, perché proprio questo richiede la legittimazione democratica. Purtuttavia anche l’espressione della volontà dei cittadini sembra avere a che vedere con ciò che si intende per democrazia, che sembra promettere una partecipazione attiva dei cittadini alla politica. Ma ci si chieda come mai i cittadini hanno una loro volontà politica di fronte ai poteri dello Stato, autonoma in quanto non riassorbita ed espressa da quelli, solo quando resistono e manifestano contro. Ciò dipende dal fatto che nel voto, in cui si realizza il loro diritto politico, essi, se votano, esprimono opinione e fiducia in qualcuno; come sopra si è detto autorizzano qualcuno ad esprimere con gli altri eletti per tutti la volontà del popolo. Il voto si basa sulle loro opinioni, ma non li coinvolge per quello che concretamente sono, per i bisogni, gli interessi e le competenze che hanno. In base all’immaginario della distinzione di società civile e Stato che soggiace alle costituzioni, i soggetti che manifestano una loro dimensione politica resistendo si sentono giustificati ad esprimere la loro volontà in modo assoluto, senza prendere parte con altri alla responsabilità della soluzione dei problemi della collettività. In tal modo l’indignazione e la resistenza esprimono il bisogno di una politica diversa, ma, a causa di questa assolutizzazione della volontà, rischiano di restare ancora all’interno della logica della sovranità, che comporta una decisione assoluta e unitaria, che è insieme negazione della pluralità e della complessità dei processi reali. Questo fenomeno, delle aggregazioni che intendono intervenire nelle decisioni politiche, mostra un mutamento della realtà politica, che richiede al pensiero innovazione e ripensamento della costituzione, anche nel senso della carta costituzionale. Questi gruppi e forme di aggregazione non tendono tanto a sostituire i rappresentanti e chi governa, o a rafforzare un partito che sentirebbero più vicino invece che un altro: non tendono alla modificazione degli organi rappresentativi (si pensi ai lavori di Rosanvallon). Vogliono invece direttamente contare nei confronti delle decisioni del governo. Anche per questa appare che il problema centrale non è più quello della sovranità del popolo e della rappresentanza politica, non è risolto dalle elezioni democratiche: insomma non è quello della legittimazione democratica del potere. Ciò che è da pensare è invece il rapporto tra governo e governati, e questo pensiero, se venisse portato avanti, potrebbe mostrare la necessità intrinseca che siano i governati la dimensione politica maggiore e più rilevante, e questo non in senso ideale, ma in quello costituzionale (nel senso etimologico del termine e anche in quello della costituzione scritta) del concreto agire politico dei cittadini oltre il diritto politico del voto. I cittadini non possano non essere coinvolti politicamente per quello che concretamente sono, per i bisogni, le conoscenze e le competenze che hanno, il che non avviene certo nelle elezioni, in cui si esprimono solo opinioni, che, in quanto tali, non possono non dipendere dai mezzi che hanno la capacità di influenzarle e di determinarle. In questo momento di elezioni, dove sembra che tutto dipenda dal loro esito, è importante tenere presente queste aporie intrinseche della rappresentanza moderna. Non può non creare turbamento alla coscienza autenticamente democratica la consapevolezza che le campagne elettorali si fanno sulla base delle indicazioni che forniscono i guru della comunicazione, quegli stessi che si occupano delle strategie di vendita dei prodotti nei supermercati. Ciò non significa che non ci siano ragioni e argomenti più o meno seri e legati alla realtà e ai bisogni dei cittadini, ma - al di là di chi mostra di ritenere che sia il dibattito democratico delle ragioni ad essere risolutivo - è evidentemente decisiva l’immagine che si produce nella mente degli elettori, e questa immagine dipende dalle forze e dai poteri che detengono i mezzi di comunicazione e incide sulla fantasia e sull’arbitrio, indipendentemente dalla forza delle ragioni. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Una annotazione finale a questa riflessione, scritta prima della caduta del “governo tecnico”: quanto è successo a seguito di questa caduta mostra che tale esperienza non ha costituito motivo di riflessione per un mutamento nel modo di pensare la politica, per nessuno, nemmeno per chi a tale esperienza ha dato luogo nel bene e nel male. Il retroterra argomentativo e analitico più immediato in relazione al contenuto di queste pagine è costituito da: - G. Duso ( cura di), Oltre la democrazia, Carocci, Roma 2004; - “Democrazia”, n. 3/2006 della rivista “Filosofia politica” del Mulino; - M. Bertolisssi, G. Duso, A. Scalone, Ripensare la costituzione: la questione della pluralità, Polimetrica, Monza 2008 www.polimetrica.com); - M. Cacciari, G. Duso, M. Bertolissi, G. Napolitano, La costituzione domani, Marsilio, Venezia 2008 ; - G. Duso, A. Scalone, Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali, Polimetrica, Monza 2010. Giuseppe Duso è Professore ordinario di Filosofia politica all’Università degli Studi di Padova. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 L’imbarazzo dell’identità: la questione del soggetto nella ricerca di Vincent Descombes di RICCARDO ANTONIUCCI Esce "Les embarras de l’identité", ultimo lavoro del filosofo francese Vincent Descombes, in cui l’autore prosegue la sua elaborazione di una teoria complessiva del soggetto sulla base del metodo logico-analitico. Dopo la “crisi” attraversata dalla nozione nella seconda metà del Novecento. «Come mai, allora, cercando il proprio pensiero, la propria personalità come si cerca un oggetto perduto, si finisce per ritrovare proprio il nostro “io” piuttosto che un altro?» chiedeva Proust. Se è vero che la domanda primigenia della filosofia è “che cos’è?”, senz’altro la seconda (e non è detto che non sia quella definitiva) riguarda invece il “chi?”. Forse, anzi, la questione del soggetto (conoscente, agente…), nella sua combinazione del piano gnoseologico, etico e, non ultimo, politico, potrebbe essere ritenuta la domanda per eccellenza della filosofia da Cartesio in poi. È sulla base della possibilità di trovarle un ancoraggio antropologico che, nel Novecento, sono nate le cosiddette “scienze umane”. Ed è contro questa stessa operazione, poi, che, nella seconda metà dello stesso secolo, si è scagliato il pensiero della differenza. Senza, tuttavia, che l’intrinseco carattere problematico della domanda si sia mai attenuato. Questo problema, anzi questo “imbarazzo” della definizione del soggetto, Vincent Descombes l’ha ben presente. Classe 1943, autore di un’opera dalla mole consistente cominciata a metà anni ’70 (il primo libro, L’inconscient malgré lui, 1977, tratta di psicoanalisi) ha da poco pubblicato un ultimo lavoro, intitolato appunto Les embarras de l’identité, in cui la questione del “chi” è ripresa per essere affrontata in maniera trasversale, a partire dalla nozione di «identità». In un certo senso, il libro chiude il cerchio di una ricerca il cui primo impulso risale già agli anni ‘70, all’inizio dell’attività del filosofo, come testimonia il titolo del suo secondo lavoro, Le même et l’autre (1) (che resta la sua opera più famosa), ma che trova senz’altro il suo culmine nell’imponente Le complement de sujet (2) dove il filosofo tenta una vera e propria “rifondazione” della teoria del soggetto sulla base di una rilettura in chiave analitica delle maggiori concezioni contemporanee (da Ricœur a Foucault). Dopo una formazione avvenuta nel solco della filosofia francese degli anni ‘60-’70 (ne sono testimonianza il libro sulla psicanalisi, Le même et l’autre), la ricerca di Descombes è segnata da una “svolta analitica” all’altezza degli anni ’80, quando l’autore scopre Wittgenstein. Da allora il suo lavoro transiterà per i lidi della “grammatica filosofica”(3), assumendo l’obiettivo di costituire, a partire dal metodo logico-grammaticale, una filosofia pratica, che Descombes stesso definisce “antropologia della modernità”. Il suo lavoro, in effetti, non nasconde mai una forte istanza etica e politica, che in questo nuovo libro è forse ancora più evidente che negli altri casi. Del resto, Les embarras de l’identité prosegue di fatto la ricerca avviata con Le complement de sujet, spostando però l’attenzione non tanto sulla definizione logico-grammaticale del soggetto, ma sul problema pratico costituito dalla sua identificazione. L’imbarazzo del titolo è generato dalla constatazione della confusione relativa alla nozione di identità: dovuta, da un lato, alla mancanza di una definizione chiara del termine e, dall’altro, IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 all’apparente inconciliabilità tra il concetto stesso di identità e il suo uso ordinario. Che rapporto c’è tra il processo logico di identificazione di un oggetto e la pratica poliziesca, per esempio, di chiedere i documenti di identità? Per risolvere il problema, si deve scindere il significato logico di “identico” e quello invece adottato nell’uso empirico della nozione, che ha invece a che fare un senso che Descombes definisce “identitario”, e che è relativo alla costituzione e al mantenimento di un’identità propria. È questo secondo senso, a prima vista opaco, che bisogna indagare. Si tratta di stabilire in che modo la nozione di identità è applicata “in questo mondo”; in che modo sia possibile chiamare un’identità mia oppure nostra. L’identità come presentazione di sé Per Descombes, che si richiama qui esplicitamente alla logica di Frege, questa possibilità è chiarita se si intende l’identificazione come un atto di “presentazione” attraverso il nome proprio. Il senso identitario dell’identità coincide dunque con la “presentazione si sé”. Questo atto è un un’appropriazione dell’identità da parte del soggetto, ma anche un apprendimento di un modo di presentazione di sé, che Descombes definisce “idioma identitario”, e che è relativo alla possibilità di parlare di sé in quanto soggetto: di chiamarsi alla prima persona del singolare. La presentazione di sé è da intendere come espressione della propria particolarità: «è soggettivo ciò che, provenendo da un particolare, dice qualcosa di questo soggetto particolare perché ciò lo esprime […] nel senso in cui è lui stesso a esprimersi attraverso il suo atto o il suo gesto, come se parlasse alla prima persona»(4). Ora sul piano pratico, questa particolarità si esprime concretamente nella capacità di prendere una decisione, negli atti decisionali. Nessuno, infatti, può decidere al posto del soggetto, perché dovrebbe allora dire “io” al posto suo. Entro dei limiti ben precisi, tuttavia. Per Descombes, infatti, si deve evitare di concepire l’atto di decisione del soggetto in modo troppo radicale, in una logica del fondamento che ne farebbe in ultima istanza una decisione sull’essere del soggetto (come vorrebbe un approccio cartesiano o post-cartesiano). Ciò significherebbe, infatti, dice l’autore, porsi la questione della decisione nei termini di un dubbio amletico sull’essere o il non essere (se stessi). A questa operazione egli riconduce il percorso incessantemente intrapreso dalla filosofia nel Novecento, da Heidegger a Derrida. Per lui, invece, la via amletica all’identità è un’impasse. Il problema è che essa risale “troppo indietro”, scadendo nella sfera del pre-individuale, al di qua di ogni prassi possibile. Perde così ogni contatto con quel piano normativo che presiede a ogni decisione effettiva. Quella di Amleto non può dunque considerarsi una decisione individuante: «spogliandosi di ogni identità pratica, Amleto si priva delle ragioni che potrebbe avere per preferire una possibilità all’altra. Ha fatto un passo di troppo al di qua di sé stesso qualunque cosa scelga, non la sceglierà per le sue ragioni, poiché, essendo divenuto illimitato e indeterminato nella sua identità, non ha più ragione di preferire una cosa o l’altra» (5). Al contrario «La sola scelta che un soggetto possa esprimere è la scelta deliberata, cioè quella che fa per le proprie ragioni» (6). Come a dire che il fondamento è sempre già dato per il soggetto, e questi non può renderne ragione. Al contrario, per affermarsi nella sua identità, il soggetto «deve accettare il dato di fatto ontologico della sua individuazione» (7), che è insieme naturale e storica, ma soprattutto sempre già data. Il IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 metodo di Descombes è chiaro: l’analisi non deve oltrepassare i confini tracciati dal nostro essere sociale. È infatti solo su questo piano che si possono stabilire dei criteri normativi di azione. L’identità collettiva La questione dell’identità individuale è preliminare, nel libro, all’analisi del lato più problematico del concetto: quello dell’identità collettiva. Sul piano sociale, infatti, un’identità, è innanzitutto il contrassegno di un’appartenenza a un insieme di individui: a un corpo sociale definito, sia esso chiamato nazione o semplicemente comunità. «Un popolo che rivedessimo dopo due generazioni: sono ancora i Francesi, ma non gli stessi», rifletteva Pascal (Pensées, Br. 122). I problemi sono molti, e riguardano soprattutto il piano politico: quando l’identitario assume i tratti dell’invenzione di una comunità immaginaria, spesso in ordine razzista del discorso. Descombes esce dal dilemma ricorrendo ancora alla teoria dei nomi propri, da applicare questa volta alle comunità. Il problema muta dunque i suoi termini: come si fa a comporre un’identità collettiva a partire da se stessi? La questione è affrontata sul piano politico. Descombes afferma che individuare il “noi” significa fissarne i contorni, e ciò non può realizzarsi tramite un’operazione di esclusione. E infatti sostiene che «prima di poter essere inclusivo, il “noi” […] deve essere esclusivo» (8). L’autore assume dunque la funzione di esclusione propria della comunità politica, senza però problematizzarla come aporia del potere (come accade ad esempio in Agamben), ma al contrario (attraverso la mediazione della sociologia di Louis Dumont) accettandola come elemento “ineliminabile” della costituzione di un qualsiasi corpo sociale. Anche l’identificazione del “noi” trova dunque il suo principio nell’affermazione di un particolarismo: un particolarismo sovrano. Ma Descombes è comunque molto lontano da una visione comunitarista o nazionalista. Il problema della comunità deve per lui seguire il tracciato segnato da Aristotele nella Politica (1276a 10-13), che collocava la definizione del principio dell’unità della polis non nel dato naturale dell’ethnos, ma nel principio della politieia, che indica, in una collettività storicamente e geograficamente determinata, una modalità specifica di riconoscimento degli individui come appartenenti allo stesso insieme. È il principio ripreso in ambito sociologico da Marcel Mauss, nel suo articolo La nation (9). Nel solco di questa concezione, Descombes propone di individuare il principio di identità della comunità in una “disposizione collettiva verso il bene”. A patto che non si intenda questo bene come qualcosa di ontologicamente predeterminato, ma invece come oggetto di scelta contingente da parte della collettività. In altre parole, deve essere la “volontà generale” a stabilirlo. Di conseguenza, i criteri di identificazione collettiva cambiano e possono cambiare non solo da un luogo a un altro, secondo i costumi di ognuno, ma anche all’interno di una città stessa, per esempio al mutare dei regimi politici. L’ultimo passo dell’analisi di Les embarras de l’identité attiene proprio alla questione della “volontà generale”. Descombes ribalta la genesi di Rousseau: essa non deve essere intesa come il prodotto di una comunità politica, ma proprio come la sua origine, nonché come il principio della sua individuazione. La volontà generale che ha in mente Descombes, infatti, è plasmata sul concetto di “potere istituente” formato da Cornelius Castoriadis (contrapposto a quello “costituente”): La vita sociale non consiste nell’applicare delle regole che siano state decise in anticipo in un’assemblea di cittadini. Conviene ribaltare la prospettiva. Se è possibile riunire un’assemblea di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 cittadini e organizzare una deliberazione comune sulla politica da seguire, è perché c’è già una vita sociale, quella di una società già istituita. Tutto questo è reso possibile dall’esercizio di un potere che precede ogni esercizio propriamente politico di un’autorità pubblica (10). L’autore intende il potere istituente come la “potenza espressiva dell’individuo” realizzata su scala sociale. Così, l’idioma identitario garantisce il passaggio dall’io al noi: «L’individuo si definisce dichiarando ciò che, ai suoi occhi, fa parte della sua identità. Ma ciò che fa parte della sua identità è ciò di cui lui stesso fa parte» (11). Ricorrendo al potere istituente, può così rispondere al quesito di Pascal: «non ci si può accontentare di ricevere una tradizione, come una sorta di lascito. Per parlare la stessa lingua dei nostri antenati, bisogna re-istituirla, ricrearla, e questo significa che la tradizione non può essere trasmessa senza essere, nello stesso tempo, alterata, rinnovata, trasformata» (12). In questa conclusione si rivela tutto l’interesse politico della ricerca di Descombes. Egli sostiene, contro la rappresentazione mitica della fondazione della comunità in una prodigiosa autoposizione inaugurale, il paradigma rappresentato dalla «maniera in cui ciascuno esercita il potere istituente riproducendo, e anche modificando, gli usi innumerevoli che costituiscono la cultura» (13). Questa visione pragmatica intende in questo modo eliminare dal discorso sul potere istituente e sulla sovranità ogni aporia dell’autoposizione della legge. La fine dell’imbarazzo del soggetto Ciò che colpisce nell’opera di Descombes è la sua visione d’insieme sul dibattito filosofico contemporaneo. Dopo la svolta logico-analitica, il suo lavoro assume con consapevolezza una posizione obliqua rispetto alla tradizione del pensiero francese del Novecento. Pur avendo rigettato gli esiti di tale percorso, Descombes non dimentica tuttavia di provenire proprio da lì. Perciò si rifiuta di fare tabula rasa dei problemi cari alla riflessione della filosofia francese, ma intende proprio riprenderli e dare loro risposta attraverso un metodo analitico. Il problema capitale, per lui, è quello della soggettività. Già in Le complement de sujet, infatti, facendo la storia delle diverse concezioni del soggetto nella filosofia e delle critiche mosse loro, Descombes voleva sancire la “fine delle ostilità” contro questa nozione (14). Si proponeva allora di stabilire una «conclusione filosofica» della questione, che fosse nello stesso tempo il punto di inizio di un nuovo modo, pacificato, di pensare. Fuori dall’aporia amletica, si potrebbe dire con i termini del suo ultimo libro. In effetti, sembra essere questa la cifra complessiva dell’opera di Descombes: ridurre l’aporia a un “imbarazzo”, per poterne di trovare più facilmente la soluzione. Il filosofo lavora per costituire un panorama conciliato e conciliante della filosofia, attraverso un approccio pragmatico e normativo che elimina le questioni “infinite”. Lo sforzo, si deve riconoscerlo, è notevole. Resta però da verificare se renda un’immagine fedele dello stato della riflessione contemporanea. Se, cioè, davvero, oggi, l’essere non faccia più clamore. (1) Vincent Descombes, Le même et l’autre. Quarante-cinq ans de philosophie française, Minuit, Paris 1979. (2) Id., Le complement de sujet. Enquête sur le fait d’agir de soi-même, Gallimard, Paris 2004. (3) Cfr. Grammaire d’objets en tous genres, Minuit, Paris 1983. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 (4) Ivi, p. 119. (5) Ivi, p. 130. (6) Ivi, p. 184. (7) Ivi, p. 168. (8) Ivi, p. 229. (9) La nation, in «L’année sociologique», 1953-1954, pp. 7-68; in Marcel Mauss, Oeuvres, Minuit, Paris 1969, vol. III, pp. 573-625; tr. it. di R. di Donato, La nazione, in Marcel Mauss, I fondamenti di un’antropologia storica, Einaudi, Torino 1998. (10) V. Descombes, Les embarras de l’identité, cit., p. 246. (11) Ivi, p. 253. (12) Ivi, p. 248. (13) Ibidem. (14) Cfr. Le complement de sujet, cit., pp. 11 sgg. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Bellezza e città. Osservazioni sul rapporto tra estetica ed etica negli spazi urbani di GIACOMO FRONZI L’estetica, intesa come disciplina filosofica, è sempre più frequentemente sollecitata a rinnovare e aggiornare i propri strumenti d’analisi e il proprio campo d’azione. Tanto come teoria della sensibilità (contemporanea) quanto come riflessione sulle arti non può quindi rinunciare a riflettere sulle condizioni di vita dell’uomo d’oggi, quando su queste ultime sembrano influire anche questioni (etiche ed estetiche) connesse all’abitare. In apertura di una conferenza intitolata La pratica della bellezza, James Hillman lamenta il fatto che generalmente parlare di “bello” e di “bellezza” in filosofia ha significato per troppo tempo, e in maniera piuttosto retorica, riferirsi a una dimensione ideale, elevata, così elevata da rendere la discussione su questi temi «noiosa, ottundente, narcotizzante». Molto più interessante potrebbe essere, quindi, parlare di bellezza come «pratica», soprattutto in un momento storico (eravamo all’inizio degli anni Novanta) in cui – sostiene Hillman – il represso non è ciò che abitualmente si immagina (la violenza, la misoginia, la sessualità, l’infanzia, le emozioni, i sentimenti, lo spirito), ma la bellezza[1]. Questa idea di repressione della bellezza sollecita l’esercizio della ricerca dei luoghi in cui tale repressione sembra essere più vistosa, più profonda, più radicale. Lo spettro è decisamente ampio, ma credo che uno dei contesti in cui la repressione della bellezza ha provocato conseguenze radicali sul piano pratico, della qualità della vita e, in definitiva, etico sia la città. Procedere in questo senso, tuttavia, comporta un ripensamento critico del profilo della città, delle sue modalità di sviluppo, delle sue profondità, della sua anima, partendo dall’idea che essa sia il prodotto visibile (la «parvenza sensibile», si direbbe hegelianamente) di un’idea architettonica e urbanistica. Ciò significa collocare tali due dimensioni tecnico-pratiche lungo la linea di confine tra l’estetica e l’etica, tra pratiche della bellezza e modalità d’esistenza, tra stili espressivi e stili di vita. In questo quadro, componenti estetiche, etiche, politiche, sociali e funzionali si intrecciano, acquistando un senso complessivo del tutto nuovo. Rispetto alla connessione tra bellezza e moralità, tra estetica e comunità, è inevitabile ripartire da un testo chiave, autentico spartiacque nella storia dell’estetica, la Critica del Giudizio (1790) di Immanuel Kant[2]. Secondo una linea interpretativa che, tra gli altri, ha visto impegnata Hannah Arendt (mi riferisco naturalmente alla serie di lezioni che ella tenne, nel 1970, presso la New York School of Social Research, nelle quali si interrogò sui legami tra estetica e politica), la Critica del Giudizio rappresenterebbe il tentativo di Kant di intraprendere un nuovo e originale percorso rispetto a quanto aveva caratterizzato le due precedenti Critiche. Essa inaugurerebbe una dimensione etica e intersoggettiva non più normativa, ma politica, nella quale si renderebbe manifesto un «ripensamento complessivo della filosofia trascendentale, più precisamente […] un ripensamento che ne [riqualificherebbe] in modo più esplicito e radicale il punto di vista, presentandolo come uno sguardo indissociabile dal movimento di un’esperienza in atto, con un correlativo passaggio da un pensiero che tematizza l’Uomo a un pensiero che tematizza la pluralità degli uomini»[3]. Tale ripensamento (e il corrispondente passaggio dalla singolarità alla pluralità) è da ricondurre alla natura del giudizio estetico (disinteressato, contemplativo, necessario e universale), il quale vale universalmente e necessariamente senza poter essere dimostrabile logicamente, senza potersi richiamare a un concetto dell’intelletto che dimostri questa sua universalità e necessità. Il giudizio di gusto gode però di una particolare universalità, che non è né concettuale né oggettiva bensì soggettiva, fondata «sulla comunicabilità del sentimento, su un “senso comune” che non deriva da IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 considerazioni d’ordine empirico-psicologico bensì dalla trama trascendentale dell’accordo intersoggettivo che fonda la soggettività universale e necessaria del giudizio estetico»[4]. Nelle pagine kantiane della terza Critica emerge quindi un soggetto aperto e orientato verso la comunicazione con gli altri soggetti; in esse si fa strada «una nuova teoria della soggettività comunicabile attraverso il sentimento e non i concetti»[5]. Visto sotto questo angolo visuale, il soggetto, senza ledere la propria e altrui individualità, è teso verso l’istituzione della comunità. Ma oggi, i temi legati alla comunità e alla vita metropolitana, nelle loro relazioni con la dimensione etica ed estetica, acquisiscono nuovi e inediti caratteri. Basti pensare alla positiva relazione (perduta) tra spazi urbani ed equilibri sociali, architettonici e comunitari. Tale relazione è andata dissolvendosi anche in connessione con l’ambigua dialettica tra apertura e chiusura, che nella contemporaneità ha assunto caratteri quasi tragici. È nello spazio aperto o nello spazio chiuso che meglio può generarsi la comunità? Lo spazio chiuso e delimitato favorisce la creazione di comunità, però, al tempo stesso, segnala un bisogno di isolamento e di privacy. D’altronde, l’apertura richiama l’idea del flusso, della mobilitazione, della comunicazione, del confronto, del transito, ma anche l’idea dell’indistinzione e dell’indifferenza. Sebbene la megalopoli contemporanea si sia costituita come “erede” del modello della civitas[6], l’uomo contemporaneo è posto davanti al seguente dilemma: coltivare l’idea della pólis, della città-dimora, dello spazio ben delimitato che possa consentire «scambi sociali, relazioni ricche e partecipate», oppure «la grande idea romana, gente che viene da tutte la parti, che parla tutte le lingue, che ha tutte le religioni, un’unica legge però, un senato, un imperatore e una missione?»[7]. L’attuale condizione, per la quale l’uomo non abita più la città (della quale non esistono più i confini) ma territori, rappresenta il trionfo del cosmopolitismo e la realizzazione del sogno di unire gli uomini in un’unica sterminata città oppure la fine di «ogni ‘forma’ comunitaria»[8]? Nella città tradizionale vigeva la «corrispondenza tra i tempi delle funzioni dei lavori, delle relazioni, e la qualità dell’architettura, dove l’architettura arricchiva, potenziava la qualità dell’insieme»[9]. Lo sviluppo post-metropolitano, invece, ha distrutto questo equilibrio tra spazi, temi, luoghi e funzioni, realizzando una falsa democrazia, abbattendo la positiva e identificativa discontinuità degli spazi e dei volumi, favorendo una continuità che è, in realtà, appiattimento e omologazione. Tale continuità è anche alla base dell’assenza di spazi ed oggetti architettonici riconoscibili. Alla forma della città tradizionale si è sostituita la megalopoli informe, dove l’elemento della misurabilità viene meno e il continuum urbanizzato favorisce la privatizzazione dello spazio pubblico, la parcellizzazione del vuoto in spazi senza forma, negando le strutture architettoniche urbane di tipo gerarchico, nelle quale vigano differenti relazioni di importanza all’interno del sistema. Sembra, dunque, che le parole chiave della nuova architettura urbana non possano che essere discontinuità, relazionalità, polivalenza, multifunzionalità. Ma non solo. C’è anche la bellezza. Ed esattamente al problema, esteticamente ed eticamente rilevante, della bellezza delle città si dedica, da oltre un ventennio, Marco Romano, il quale ha elaborato un’originale teoria della bellezza urbana[10]. Le premesse di tale teoria, secondo Romano, sono di natura osservativa e sono incontrovertibili: tutte le città europee hanno avuto le stesse strade e piazze tematizzate, sempre lo stesso criterio di costruzione. I temi collettivi si sono presentati, nella storia, in successione, e in relazione ad essi ci si è posto costantemente il problema di come e in che modo disporli per poter avere il risultato più bello, esprimendo un profondo ed evidente desiderio di bellezza. «La bellezza, intesa come “nobile semplicità” e creativa genialità, non è un elemento supererogatorio, ma sostanziale. Il componimento architettonico palesa i contenuti cultuali, cagiona un’esperienza estetica, dirige gli animi verso il divino e muove i sentimenti verso la comunione fraterna»[11]. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Ha ragione Romano nel sostenere che sullo sfondo dei ragionamenti sull’ecologia c’è forse da mettere in primo piano il fatto che prima della dimensione tecnica, nella nostra vita, c’è una dimensione simbolica. In un discorso sull’architettura e sull’urbanistica, questo significa che le società costruiscono degli ambienti che sono appropriati alla loro organizzazione. La società europea, sostiene Romano, ha costruito città contraddistinte da temi collettivi che ritornano in tutte le città e che consentono ad ognuna di esse di collocarsi nella geografia europea: il palazzo municipale, la strada monumentale, la chiesa principale, il teatro, il museo, la biblioteca, ecc. Da ciò discende che la mobilità del cittadino europeo (e la possibilità di integrarsi con facilità in qualsiasi città) è garantita dal fatto che egli nella nuova città riconoscerà quegli stessi temi collettivi che aveva nella città di provenienza. Si è potuto costruire delle città belle perché si è puntato sulla realizzazione di sequenze che articolavano in maniera coerente il tessuto urbanistico e che, grazie alla presenza di temi collettivi analoghi a quelli presenti al centro della città, consentivano la qualificazione delle aree più lontane dal centro, favorendo nei propri abitanti un senso di riconoscimento e appartenenza. Esattamente al polo opposto vi è, invece, la periferia contemporanea, intesa come zona degradata, come deserto di senso che si caratterizza proprio per l’assenza di temi collettivi e di segni simbolici che possano definire un sentimento di appartenenza. Sentire di appartenere a una città significa poter portare “dentro di sé” quella città, quel contesto urbano nel quale i tracciati e gli spazi sono ben identificabili, nel quale si rende possibile ciò che la megalopoli contemporanea nega: l’interiorizzazione, da parte dell’abitante, della mappa strutturale della città, per poi poterla identificare con la propria mappa psichica[12]. La sfida dell’architettura contemporanea è, in fondo, quella di creare una reale condivisione, è quella di favorire l’emergere di un sensus communis, facendo perno sulla forza di quegli elementi simbolici che la megalopoli contemporanea non presenta, nella quale, invece, «la perdita di ‘valore simbolico’ […] cresce proporzionalmente; assistiamo, o ci sembra di assistere, a uno sviluppo senza meta, cioè, letteralmente, insensato, ad un processo che non presenta alcuna dimensione ‘organica’»[13]. Migliorare l’abitare, però, non significa semplicemente realizzarlo sicuro, stabile e sostenibile, ma anche bello, sostenendo un’architettura che promuova un generale e profondo processo tanto di rigenerazione etica quanto di «rigenerazione estetica»[14]. Bellezza e funzione possono convergere. Il nuovo assetto urbano e architettonico delle megalopoli contemporanee ha avuto numerose ricadute negative, tanto a livello di efficacia puramente architettonica quanto a livello di relazioni sociali. I timori manifestati a inizio Novecento, legati ad un irrefrenabile accrescimento del livello di inumanità e alienazione dei rapporti umani nelle neonate metropoli, emergono chiaramente, intrecciati in una sintesi esemplare, dalle pagine del saggio di Georg Simmel Le metropoli e la vita dello spirito (1903). La metropoli di cui parla Simmel presenta caratteri, pericoli e patologie che, al di là di ovvie e storiche differenze, sono riscontrabili nelle metropoli o nelle megalopoli contemporanee. Esse, come la metropoli simmeliana, sono i luoghi all’interno dei quali le tendenze dell’epoca presente si concentrano e si potenziano. La metropoli, sottoponendo l’uomo a inattese esperienze, a bruschi contrasti, all’alternarsi rapido di immagini e stimoli, creando, in definitiva, delle nuove e diverse condizioni psichiche in «profondo contrasto con la città di provincia e con la vita di campagna»[15]. Queste differenze rivelano un carattere duplice, segnale, allo stesso tempo, di libertà e di solitudine. L’uomo metropolitano si è liberato dalle «piccinerie» e dai «pregiudizi» tipici dell’uomo di provincia, ma, al contempo, questa stessa libertà fa emergere una profonda diffidenza e indifferenza tra gli individui, tra i membri di una stessa (seppure elefantiaca) comunità. Smarrito in un oceano di indistinzione e di conformismo, l’uomo metropolitano è spinto a mettere in risalto la propria personalità, attraverso le «eccentricità più arbitrarie», le «stravaganze tipicamente metropolitane della ricercatezza, dei capricci, della preziosità, il cui senso non sta più nei contenuti di tali condotte, bensì solo nell’apparire diversi, nel distinguersi e nel farsi notare»[16]. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Lo spazio urbano contemporaneo è uno spazio de-relazionale, difficile da penetrare e comprendere, che può essere spiegato solo facendo riferimento a categorie tra loro anche opposte. Non è più lo spazio dai confini certi, delle gerarchie, delle transizioni “soft”, contraddistinto da una generale monofonia. È, invece, «uno spazio polifonico fatto di situazioni differenti, in cui pezzi di territorio si muovono, con andature e velocità diverse, intrecciandosi tra loro a diverse scale e diversi livelli, mediante sistemi di relazioni molteplici, variabili e discontinue»[17]. Tutto è cambiato. Gli spazi non sono più vissuti, abitati e percorsi allo stesso modo, perché non c’è più un unico modo di viverli, abitarli e percorrerli. L’eterogeneità dei territori, la multiformità dei volumi, l’impossibilità di concepire il «tutto unico» indicano che si è compiuto un passaggio. Non si è più attori bensì semplici comparse, eterodirette in una dimensione incerta, fluttuante e puntiforme. In perfetta sintonia con questi cambiamenti “strutturali” – sostiene Lidia Decandia – è entrata in crisi anche la modalità di decodifica percettiva degli spazi che a partire dal Quattrocento ha rappresentato il modo di leggere, interpretare e comprendere la realtà: lo sguardo prospettico: «La nostra cultura, permeata dal pensiero visivo prospettico e abituata a leggere la città come un testo sottoponibile a un unico sguardo, non riesce più a cogliere il senso di questa nuova geografia assurda e inafferrabile»[18]. A questo corrisponde, poi, la differente modalità di rappresentazione e simbolizzazione di questa nuova dimensione, nella quale «saltano evidentemente le valenze simboliche attribuite alla stessa idea di centralità e di marginalità. Spesso sono i luoghi periferici e marginali, i territori “scartati dalla modernità”, le aree a più denso contenuto di naturalità ad accogliere nuove funzioni urbane»[19]. La struttura urbana, allora, non è innocente. Vi è un nesso diretto tra tipologie e modalità dell’abitare e comportamenti sociali, un nesso tale da produrre sviluppi sociali diversi e opposti a seconda che esso si presenti nella sua versione positiva o negativa («c’è una connessione – sostiene Franco La Cecla – tra il modo in cui le periferie sono fatte e la bruttezza della vita sociale che provocano»[20]). È alla relazione, intesa come orizzonte teorico e obiettivo pratico, che è doveroso richiamarsi, allo scopo di interrompere e riconvertire dinamiche nelle quali tagli, separazioni, chiusure, assenza di forma vengano spacciate per elogio delle differenze, e, al contrario, l’omologazione e la mancanza di gerarchie e differenziazioni degli spazi e dei moduli vengano spacciate per esempi di democrazia sociale ed urbana. Tanto i confini quanto le aperture non possono e non devono venire meno, dal momento che non si dà apertura se non dei confini e non si danno confini se non in uno spazio inutilmente illimitato. I territori vanno rivisti e rivissuti nella loro mobilità, «elastici, deformabili, capaci di accogliersi l’un l’altro, di penetrare gli uni negli altri, spugnosi, molluscolari. Non si tratta di un’operazione di soppressione del confine: qualsiasi corpo presenta confini, pena l’annullarsi. Né si tratta di confondere anarchicamente le relazioni fra i diversi tempi dei diversi luoghi. Si tratta piuttosto di accordare senza confondere, facendo vivere l’intero nella qualità di ogni parte»[21]. Ecco perché per l’estetica, tanto come teoria della sensibilità quanto come riflessione sulle arti, non può rinunciare a trattare le questioni connesse all’abitare, inteso come elemento fondamentale e discriminante per il miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo. [1] J. Hillman, La pratica della bellezza, in Id., Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, trad. it. di P. Donfrancesco, Moretti&Vitali, Bergamo 20053, pp. 85-101. [2] Bisogna comunque tenere presente che per Kant «la bellezza è solo un simbolo della moralità, e tra i giudizi morali ed estetici c’è solo un rapporto di analogia. Kant trattò in modo interessante le differenze morali ed estetiche in modi sistematicamente paralleli» (P. Pellegrino, La bellezza tra arte e tradizione. Storia e modernità, Congedo Editore, Galatina 2008, p. 113). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 [3] P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007, p. 21. [4] E. Franzini, L’estetica del Settecento, il Mulino, Bologna 1995, p. 160. [5] V. Fazio-Allmayer, «Vico e Kant e l’universale estetico», in Id., Moralità dell’arte e altri saggi, Sansoni, Firenze 1972, p. 83. [6] Mentre la pólis era «fondamentalmente l’unità di persone dello stesso génos» (M. Cacciari, La città, Pazzini Editore, Villa Verucchio 20083, p. 9), rinviando, pertanto, ad un «tutto organico» che precede l’idea di polítes, la civitas era il risultato dell’aggregazione di persone diverse per religione, etnia, costumi, e rappresentava un’idea che segue quella di cives. La pólis guardava al passato (incarnato dal génos) mentre la civitas era proiettata verso il futuro: ciò che reggeva la civitas non era «un fondamento originario quanto un obiettivo» (ivi, p. 15), un fine, quello dell’imperium sine fine, della civitas mobilis augescens. [7] Ivi, p. 24. [8] Ivi, p. 55. [9] Ivi, p. 64. [10] Cfr. M. Romano, L’estetica della città europea. Forme e immagini, Einaudi, Torino 1993; Costruire le città, Skira, Milano 2004; La città come opera d’arte, Einaudi, Torino 2008; Ascesa e declino della città europea, Raffaello Cortina, Milano 2010. [11] C. Chenis, L’architetto poeta dello spazio, in «L’Architetto», a. xvii, n. 151, novembre 2000, p. 21. [12] Cfr. K. Lewin, Principi di psicologia topologica, trad. it. di A. Ossicini, Organizzazioni speciali, Firenze 1980 (2a rist.). [13] M. Cacciari, La città, cit., p. 58. [14] M. Romano, Costruire le città, cit., p. 19. [15] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, trad. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, Armando Armando, Roma 1995, p. 36. [16] Ivi, pp. 52-53. [17] L. Decandia, Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica, Meltemi, Roma 2008, p. 11. [18] Ivi, p. 144. [19] Ivi, p. 126. [20] F. La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 60. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 [21] M. Cacciari, Nomadi in prigione, in A. Bonomi, A. Abruzzese (a cura di), La città infinita, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 51-59: 58. Giacomo Fronzi (1981), dottore di ricerca in filosofia, diplomato in pianoforte. Svolge attività di ricerca presso la cattedra di Estetica dell’Università del Salento. Tra le sue ultime pubblicazioni: Theodor W. Adorno. Pensiero critico e musica (Mimesis 2011), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni (Mimesis 2012), Electrosound. Storia ed estetica della musica elettroacustica (EDT 2013). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Il femminismo islamico. Una prospettiva postcoloniale di RICCARDO ANTONIUCCI La casa editrice La Fabrique presenta una raccolta di saggi che raccontano l’universo del femminismo islamico inscrivendolo nel solco delle teorie postcoloniali Femminismo islamico. Che il binomio non costituisca più un ossimoro, è l’evidenza dei fatti a dirlo: il movimento può ormai vantare una storia ventennale di lotte, una diffusione su scala mondiale e un’importante produzione teorica (1). Eppure, un giudizio unitario su questa corrente è ancora lontano dall’affermarsi, e il femminismo islamico finisce per apparire, in fondo, tanto plurale quanto eterogeneo. È proprio questo problema di coerenza che è al centro di un recente volume collettaneo pubblicato in Francia, con il titolo Féminismes islamiques (La Fabrique, 2012). Nel libro compaiono, fianco a fianco, contributi teorici, firmati da alcune delle maggiori esponenti del femminismo musulmano (Omaima Abou-Bakr, Margot Badran, Asma Barlas, Asma Lamrabet), e testi dalla prospettiva più politica, frutto di esperienze militanti come quelle di Zainah Anwar (leader dell’associazione “Sisters in Islam” in Malesia) Saida Kada (presidentessa della francese FFME, “Femmes Françaises et Musulmanes Engagées”) Malika Hamidi, Hanane al-Laham, e Ziba Mir-Hosseini. Nella maggior parte dei casi si tratta di autrici ben note al pubblico, e inoltre alcuni dei contributi sono traduzioni di interventi già apparsi in lingua inglese. In effetti, per una volta, l’interesse del libro si deve alla curatela, ad opera della giovane sociologa e militante Zahra Ali. La sua, infatti, è un’impostazione forte, quasi da “manifesto”, tutta tesa a individuare una prospettiva unitaria sul movimento. E tuttavia, il punto di vista avanzato è tutt’altro che esente da critiche. Nella sua introduzione, Zahra Ali parte proprio dal problema della presunta contraddittorietà della definizione del “femminismo islamico”. Si tratta, in realtà, come molte autrici hanno sottolineato, di uscire dal pregiudizio della presunta incompatibilità delle due tradizioni (quella del femminismo e quella della religione islamica) e di affermare la necessità di trovare un posizionamento autonomo rispetto a entrambe. In questo modo, il movimento rivendica per sé come una “via stretta” in cui si possano tenere insieme l’appartenenza religiosa e una prospettiva di emancipazione delle donne. Successivamente, tentando di approfondire il senso di questo posizionamento, la lente analitica di Zahra Ali cade sulla questione dei rapporti tra il femminismo islamico e il femminismo di matrice occidentale. Storicamente, se non possono dirsi sempre pacifici, questi rapporti sono tuttavia meno tesi di quanto si pensi abitualmente. Peraltro, com’è noto, il mondo arabo non è affatto estraneo a movimenti politici fondati su principi universalistici e laici affini a quelli occidentali, e spesso legati a prospettive politiche socialiste o comuniste (3). Ma l’intento di Féminismes islamques è sottolineare il più nettamente possibile la singolarità del femminismo islamico, e per questo Zahra Ali si adopera per accentuare il dato dell’estraneità del modello politico laico-universalistico rispetto alla cultura musulmana. Ora, per rendere conto di questo rapporto l’autrice sceglie di adottare il punto di vista del confronto tra due “mondi”, l’Occidente e l’Oriente. Il che porta in IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 primo piano, di conseguenza, la questione del colonialismo, come fondo della critica del femminismo occidentale. È questo indubbiamente il dato più interessante del libro: il fatto che gli strumenti per questa analisi non vengono presi dall’interno della tradizione islamica, ma sono invece attinti dalla teoria postcoloniale e dalla sua critica all’etnocentrismo. Il modello è la denuncia dell’organicità del discorso femminista rispetto alla logica dell’imperialismo. Analisi che però non si applica solo ai Paesi del cosiddetto “terzo mondo”, ma anche alle attuali società occidentali multiculturali (l’obiettivo è sempre puntato sulla Francia), in cui si assiste alla strumentalizzazione di alcuni argomenti tradizionali del femminismo per giustificare politiche di discriminazione delle minoranze etniche e religiose. È quello che è accaduto, per esempio, nel caso celeberrimo della legge francese sul velo islamico. Così, i riferimenti spaziano da Gayatri Spivak a Chandra Mohanty. Dal classico “Three Women's Texts and a Critique of Imperialism” (4), in cui si mostra come le teorie universalistiche del femminismo occidentale ripetano gli assiomi dell’imperialismo, al fondamentale “Under Western Eyes” (5), che mette in luce come sia il concetto stesso di “donna”, in quanto soggetto universale e trascendente rispetto ai suoi attributi locali e storici, a costituire la radice dell’etnocentrismo del femminismo occidentale, anche quando esso si pretende critico rispetto alla sua società di riferimento. La teoria postcoloniale insegna che la definizione dell’idea di donna nei termini tipici del femminismo occidentale (libera, colta, padrona del proprio corpo) finisce per implicare la produzione, per converso, di un’immagine speculare «della “donna media del terzo mondo” [che] conduce una vita essenzialmente spezzata fra il suo genere femminile (leggi: sessualmente costretto) e la sua appartenenza al “terzo mondo” (leggi: ignorante, povera, legata alla tradizione e alla famiglia, vittimizzata)» (6), e quindi per rinforzare l’imperialismo occidentale. La chiave di volta della critica femminista-postcoloniale al femminismo “classico” è costituita dalla denuncia della pretesa di pre-determinare (aprioristicamente, etnocentricamente) la condizione della donna non occidentale e le modalità della sua emancipazione (per esempio: la priorità politica della questione dell’aborto, del rifiuto dei costumi tradizionali). Richiamandosi a questo fondo teorico, Féminismes islamiques intende inscrivere il femminismo islamico nel solco di una strategia anticoloniale. Nei termini di Zahra Ali, il movimento propone di “decolonizzare” e di “de-essenzializzare” sia la concezione ordinaria del femminismo che quella dell’islam: “il femminismo islamico si scontra con un duplice essenzialismo: quello che definisce l’islam come una realtà statica, fondamentalmente dogmatica, e intrinsecamente sessista, e [quello che propone] il femminismo [di matrice occidentale] come modello unico, avatar di una modernità occidentale normativa” (p. 16). Parte integrante di questa visione etnocentrica è ciò che definisce «doxa femminista – che rigetta ogni possibilità di articolazione della lotta per l’uguaglianza dei sessi con quella per la difesa della religione musulmana». Il suo rifiuto della prospettiva femminista occidentale è dunque anche una critica della secolarizzazione e la proposta della religione come leva di emancipazione: «La lotta per l’emancipazione delle donne in Occidente è stata caratterizzata da una desacralizzazione delle norme religiose, una liberalizzazione sessuale che è si è data attraverso lo svelamento del corpo, le femministe musulmane propongono una liberazione che propone tutt’altro rapporto al corpo e alla sessualità, un rapporto segnato da delle norme e una sacralizzazione dell’intimità, e da una difesa del quadro familiare eterossesuale» (p. 32). In questa prospettiva, il femminismo islamico afferma la differenza specifica della donna musulmana credente. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Secondo Zahra Ali, queste ragioni permettono di concludere che le femministe islamiche condividono oggi la stessa condizione delle femministe afro-americane degli anni ’70, che si trovarono a costituire parte attiva nei movimenti antirazzisti e di liberazione dei neri negli Stati Uniti, criticando però dall’interno la loro deriva sessista (7). Viene citato così il famoso testo Challenging imperial feminism, di Valérie Amos et Pratibha Parmar, quando afferma chiaramente che: «la teoria femminista mainstream, bianca […] non parla alle esperienze delle donne nere, e quando ci prova adotta spesso ragionamenti e punti di vista razzisti» (8). L’autrice propone quindi di leggere il femminismo islamico come una ri-attualizzazione di questo fondamentale momento politico, che unisce intimamente lotta contro il razzismo e lotta contro il sessismo. Come si vede, tentando di costituire una base critica di partenza comune per il femminismo afroamericano, anticoloniale e islamico Zahra Ali vuole andare oltre il momento critico: la sua lettura ambisce a costituirsi come vero e proprio modello per lo sviluppo del femminismo nei paesi non occidentali. È su questo punto che la prospettiva di Zahra Ali si distanzia anche da quella teoria postcoloniale che, pur riconoscendo la necessità di accompagnare al momento critico-negativo una pars construens in cui dare un contenuto all’aspirazione e alla teoria dell’emancipazione della donna non-occidentale, rimane tuttavia molto più legata all’imperativo teorico di tenere aperto lo spazio di esercizio di una logica alternativa all’etnocentrismo che a quello pratico di percorrere effettivamente, all’interno di questo spazio, una via precisa per il suo consolidamento. Il femminismo islamico, invece, per il suo carattere primariamente militante, risponde a questo secondo imperativo con chiarezza: affermando una prospettiva religiosa. Infatti, basandosi sulle critiche all’universalismo etnocentrico, esso riempie la differenza specifica della donna del terzo mondo (musulmana) con i contenuti di un islam riformato in senso egualitario. Che resta, tuttavia, essenzialmente legato a un ordine teologico del discorso. Il maggior pregio di Féminismes islamiques, in fondo, è proprio la nettezza delle posizioni espresse. Eppure, il tentativo che esso mette in atto di innestare il femminismo islamico sul femminismo postcoloniale risulta, a ben vedere, alquanto difficoltoso. Una prima obiezione potrebbe essere, semplicemente, quella che emerge dalla constatazione che le stesse autrici partecipanti al volume, e specialmente quelle fra loro che maggiormente si occupano di teoria, non hanno mai esplicitato questo legame, collocando spesso, anzi, le loro riflessioni in tutt’altri contesti filosofici. Ma, andando più in profondità, la prospettiva “islamica e postcoloniale” lanciata da Féminismes islamiques non può non sollevare delle questioni, che interrogano non tanto il femminismo islamico quanto proprio l’universo delle teorie cui fa riferimento. In una prospettiva postcoloniale, ad esempio, ci si potrebbe chiedere se la via d’uscita religiosa, ermeneutica e, in fondo, teologica, per quanto animata da istanze progressive, sia compatibile con un approccio teorico che fa della storicizzazione e della relativizzazione dei concetti e delle rappresentazioni il suo metodo. O, anche, traducendo la questione sul piano pratico, si potrebbe dare risalto a tutte quelle esperienze di autodeterminazione da parte delle donne non occidentali alternative rispetto alla scelta religiosa. Il fatto stesso che sia emerso nel panorama filosofico questo tentativo di convergenza, comunque, induce a riflettere sullo stato della riflessione filosofica nel femminismo. Forse sarebbe legittimo ritenere l’operazione di Zahra Ali come un (estremo?) tentativo di rilancio di una prospettiva teorica IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 che negli ultimi tempi sembra segnare il passo, anche alla luce della “fuga in avanti” rappresentata dalla primavera araba. Forse, però, si dovrebbe riconoscere soprattutto che l’indebolimento teorico caratterizza in modo più evidente l’approccio laico-universalistico (repubblicano, si direbbe in Francia), sempre più esposto al rischio di strumentalizzazione da parte delle forze reazionarie, come è accaduto (almeno nel caso francese) nei maggiori appuntamenti politici degli ultimi tempi, dalla legge sul velo a quella del “matrimonio per tutti”. È così che, infine, la lettura di Féminismes islamiques spinge in realtà a domandarsi dello stato di salute di quella concezione “critica” illuminista che pone la secolarizzazione come fondamento dell’emancipazione (non soltanto delle donne), tentando di individuare i possibili punti di resistenza contro la sua strumentalizzazione a fini razzisti o reazionari. Ma spinge anche a ritornare sul senso di quella critica all’etnocentrismo occidentale, fondamentale per lo sviluppo di molti fra i più recenti approcci di filosofia politica, a rivalutarne le condizioni di emergenza e il contesto di affermazione. Per evitare, anche in questo caso, il rischio di una seconda strumentalizzazione, speculare rispetto alla prima, dettata da un “essenzialismo di ritorno” non meno riduttivo dell’occidentalismo. NOTE (1) Ne sono una testimonianza il Congresso Internazionale del Femminismo Islamico, organizzato in Spagna nel 2005, 2006, 2008 e 2010, e il convegno “Feminism and Islamic Perspectives: new Horizon of Knowledge and Reform”, proposto dal Woman and Memory Forum e tenutosi al Cairo a marzo 2012. A parte una nutrita letteratura in inglese, è possibile consultare due importanti lavori di sintesi sul fenomeno del femminismo islamico in lingua italiana: Renata Pepicelli, Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma 2010; e Anna Vanzan, Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici, Bruno Mondadori, Milano 2010. (2) Il Francia il tema era già stato posto da Existe-t-il un féminisme musulman?, Paris, L'Harmattan, 2007 (atti del convegno sul femminismo islamico organizzato dalla commissione “Islam e Laicità” dell’UNESCO nel 2006) e da due numeri monografici di rivista: « Féminismes islamiques », nella Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée n° 128, 2010, e «Le féminisme islamique aujourd'hui», in Critique internationale, n° 46, 2010. (3) Lo dimostra la storia dei movimenti anticoloniali sorti nel mondo arabo lungo tutto il Novecento. Per rimanere nell’ambito delle rivendicazioni femministe, si può trovare un elenco di alcune attiviste e teoriche arabe “laiche” in Renata Pepicelli, Islam femminista e riletture del Corano in una galassia plurale, «Il manifesto», 09/01/2011, ripreso online in http://reteeco.it/2011/fr/documenti/35-riflessioni/18512-islam-femminista.html. (4) Gayatri Chakravorty Spivak, Three Women's Texts and a Critique of Imperialism, in «Critical Inquiry», n° 12, 1985, pp. 235-61. Non occorre ricordare le opere della più nota pensatrice postcoloniale, la cui opera è tutta irrorata da una riflessione sul femminismo e sulla condizione della donna. Risale al 1985 anche il fondamentale Can the Subaltern Speak? Speculations on WidowSacrifice, «Wedge», 1985, pp. 120-130 (reperibile anche all’indirizzo http://www.mcgill.ca/files/crclaw-discourse/Can_the_subaltern_speak.pdf). (5) Chandra Moanthy, «Under western eyes: feminist scholarship and colonial discourses», Feminist Review, n° 30, 1988, ora in Chandra Mohanty, Feminism Without Borders: Decolonizing Theory, Practicing Solidarity, Duke University Press, 2003, pp. 17-42. (6) Ivi, p. 22. (7) Cfr. a questo proposito anche l’intervista http://www.contretemps.eu/interviews/«-femmesmusulmanes-sont-vraie-chance-féminisme-»-entretien-zahra-ali. (8) Valérie Amos et Pratibha Parmar, Challenging imperial feminism, «Feminist Review», n°17, 1984, p. 4. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Una crisi italiana. Alla radice della teoria dell'autonomia del politico di DARIO GENTILI La questione dell’“autonomia del politico” esplode in Italia nel corso degli anni Settanta e rientra nel dibattito se attribuire il primato o all’organizzazione o all’autonomia, e cioè o al luogo del conflitto (Tronti, Cacciari) o alla soggettività antagonista (Negri). Tuttavia, ciò che queste posizioni hanno in comune è il fatto di poter essere comprese all’interno di un dispositivo della crisi. L’ARTICOLO IN PDF 1. Dentro e contro: Tronti Per limitare la questione dell’“autonomia del politico” nella tradizione filosofico-politica italiana a tre autori (Mario Tronti, Antonio Negri e Massimo Cacciari) e a un arco di tempo determinato (gli anni Settanta), prendo lo spunto iniziale da Operai e capitale. Mi riferisco in particolare al punto in cui Tronti passa dall’analisi operaista del rapporto economico classe operaia-capitale alla proposta politica. Innanzitutto, egli prende criticamente le distanze – anzi rovescia – il paradigma gramsciano (fatto proprio a suo modo da Togliatti) per la conquista dell’egemonia politica da parte della classe operaia: il passaggio politico da compiere non è tanto quello dalla classe operaia al popolo, ma, viceversa, dal popolo alla classe operaia. Lo scopo è quello di definire l’organizzazione politica operaia, il partito di parte operaia. Tronti scrive: Come far funzionare il popolo dentro la classe operaia è problema tuttora reale della rivoluzione in Italia. Non certo per conquistare la maggioranza democratica nel parlamento borghese, ma per costruire un blocco politico di forze sociali, da usare come leva materiale per far saltare una per una e poi tutte insieme le connessioni interne del potere politico avversario […]. Così, su questa base, dai compiti del partito rimane escluso proprio quello che sembra averlo finora caratterizzato: il compito di mediare i rapporti tra classi affini, e cioè tra ceti diversi, con tutte le loro ideologie, in un sistema di alleanze.[1] Il problema è pur sempre quello gramsciano della conquista dell’egemonia politica. Per Tronti, il popolo – in quanto “sintesi dialettica” e, al di là delle intenzioni di Gramsci, prodotto di una cultura della mediazione se non proprio del compromesso – non è la soluzione, perché neutralizza al suo interno la classe operaia, l’unica contraddizione del sistema capitalistico davvero rivoluzionaria. Eppure, come a suo modo già sapeva Gramsci, l’antagonismo della classe operaia dentro e contro il capitale, la lotta in fabbrica, la lotta sindacale, non si traducono immediatamente in lotta per la conquista del potere politico. C’è bisogno, a questo punto, di uscire fuori dal rapporto di produzione capitalistico, di natura esclusivamente economica, e quindi controllabile e gestibile dalla posizione dominante del capitale. Affinché ci sia politica, la classe deve andare contro se stessa, contro la sua stessa natura economica: «È propriamente la separazione della classe operaia da se stessa, dal lavoro, e quindi dal capitale. È la separazione della forza politica dalla categoria economica»[2]. E deve rendersi autonoma: «Una separata autonomia politica dei movimenti di classe delle due parti è tuttora il punto di partenza da imporre alla lotta: di qui, di nuovo, tutti i problemi di organizzazione della parte operaia. Lo sforzo del capitale è di chiudere entro la relazione economica il momento dell’antagonismo, incorporando il rapporto di classe nel rapporto capitalistico, come suo oggetto sociale. Lo sforzo di parte operaia deve all’opposto tendere continuamente a spezzare proprio la forma economica dell’antagonismo»[3]. Il problema politico diventa discriminante per portare l’antagonismo dalla fabbrica alla società. Cambia il luogo, ma il soggetto deve restare lo stesso: la IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 classe operaia. E tuttavia, il rendersi autonoma della classe operaia dal rapporto economico che la lega al capitale non ne fa immediatamente un soggetto politico. All’autonomia della classe operaia deve corrispondere allora un’organizzazione politica dove possa aver luogo la sua soggettivazione politica senza neutralizzarne – come popolo – la peculiarità dell’antagonismo. Questo luogo però non può essere – o non è più – la fabbrica, dove la forma di antagonismo è ormai esclusivamente economica. Stringere insieme classe operaia, antagonismo e organizzazione politica: ecco il compito. È possibile tuttavia pensare la classe operaia al di fuori della fabbrica, come soggetto politico autonomo, senza scendere a compromessi con la forma-popolo e senza accettare le logiche democratiche e riformistiche che la ridurrebbero a una parte tra le altre, che deve negoziare il proprio “interesse di parte” in nome dell’interesse generale? Può la società, ambito costituito e dominato dalla tendenza uniformante delle ideologie borghesi, dar luogo al conflitto di due parti? Che ne sarebbe, infine, della classe operaia al di fuori del contesto determinato in cui ha luogo quella forma di antagonismo che ne determina la soggettivazione? Queste sono le questioni che Operai e capitale lascia sul terreno del dibattito filosofico e politico del marxismo italiano, e non solo[4]. Se con la teorizzazione della centralità della classe operaia di fabbrica e con la determinazione del soggetto antagonista Tronti ha definito le peculiarità di una scienza operaia, ha invece dovuto riscontrare la difficoltà di trasporre tutto ciò a livello di organizzazione politica. “La classe operaia è il segreto del capitalismo”, segreto che la scienza operaia ha svelato[5]; resta tuttavia da svelare il segreto del Politico, che non è – come insegna, per Tronti, la regola dei fallimenti delle iniziative politiche operaie, la cui unica eccezione è la rivoluzione d’Ottobre – a disposizione della scienza operaia. Il segreto del successo politico di Lenin non va ricercato nell’esperienza delle lotte operaie, bensì nella grande tradizione del realismo politico, appannaggio della classe avversa. Siamo nel 1970 e, nel Poscritto di problemi aggiunto alla seconda edizione di Operai e capitale, si sta consumando la deviazione di Tronti dall’operaismo degli anni Sessanta – deviazione che non implica affatto un disconoscimento delle sue conquiste teoriche, bensì la consapevolezza che, per poter proseguire la ricerca all’altezza della politica, bisogna trasporla su un altro piano: Contrapponendo un tipo di organizzazione all’altro, Lenin elabora la teoria di entrambi. Ne aveva bisogno, perché il suo discorso era veramente tutto politico, non partiva dalle lotte, non voleva partirci, la sua logica era fondata su un concetto di razionalità politica assolutamente autonoma da tutto, indipendente dallo stesso interesse di classe, comune semmai alle due classi, il suo partito non era l’anti-stato; anche prima della presa del potere era l’unico vero stato della vera società. […] Pur senza essere mosso dalla spinta della lotta operaia, Lenin centra in pieno le leggi della sua azione politica. Per questa via subisce un processo di rifondazione, da un punto di vista operaio, il concetto borghese classico di autonomia della politica.[6] La fase operaista di Tronti – e il cosiddetto primo operaismo – si esaurisce con la conclusione dell’esperienza della rivista “classe operaia”, nel 1967[7]. Dopo quegli ultimi bagliori di “vera” politica (nota bene: prima del ’68) inizia il suo lungo tramonto[8], cominciato proprio con l’indebolirsi e il disgregarsi della concentrazione di luogo, epoca e soggettività antagonista. Sul piano teorico, dunque, il primo operaismo si esaurisce con la rottura dell’unità di soggetto antagonista e luogo dove tale antagonismo si mostra nella massima intensità, la fabbrica. È la fine dell’epoca della forma di produzione fordista – e, con essa, dell’epoca moderna stessa – a determinare l’estinguersi della figura storica dell’operaio della fabbrica fordista, il cosiddetto operaio-massa. In fondo, è la collocazione del conflitto a sembrare prioritaria rispetto all’individuazione della soggettività antagonista. Anzi, una soggettività antagonista è stata possibile finché la fabbrica era ancora luogo di soggettivazione politica[9]; ha avuto una potenzialità politica finché la fabbrica era ancora luogo di divisione e, al contempo, di aggregazione sociale, finché IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 soddisfaceva il criterio del politico: quel “criterio” che definisce crisi e scissione come costitutive del politico. Il criterio del politico è dunque la contrapposizione più intensa amico-nemico[10]; ed è stato pienamente soddisfatto finché, in fabbrica, Lenin ha incontrato Carl Schmitt, la lotta di classe il realismo politico: «La contrapposizione è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del raggruppamento in base ai concetti amico-nemico»[11]. Ecco perché Tronti, in conclusione al Poscritto di Operai e capitale, critica le posizioni di coloro che vogliono collocare la classe operaia dopo e fuori la fabbrica. Ma non solo. La critica più sottile e profonda è rivolta alla possibilità di rintracciare un’altra “definizione oggettiva” della soggettività antagonista al di fuori della classe operaia caratterizzata dall’operaio-massa: Si può, ad esempio, abbandonare una definizione “oggettiva” di classe operaia? E definire “classe operaia” tutti quelli che lottano soggettivamente in forme operaie contro il capitale dall’interno del processo di produzione sociale? […] Vanificare la materialità oggettiva della classe operaia in pure forme soggettive di lotta anticapitalista è appunto un errore di nuovo ideologico del neoestremismo. Non solo. Ampliare i confini sociologici della classe operaia per includervi tutti coloro che lottano contro il capitale dal suo interno, fino a raggiungere la maggioranza quantitativa della forza-lavoro sociale, e addirittura della popolazione attiva, è una grave concessione alle tradizioni democratiche.[12] Per Tronti, invece, il problema non è tanto quello dell’individuazione di una nuova soggettività antagonista, quanto piuttosto quello di una nuova collocazione del conflitto, all’altezza stavolta della tradizione del realismo politico, del Politico moderno. Il passo che lo condurrà a tematizzare l’“autonomia del Politico” è, a questo punto, davvero breve. 2. Contro e fuori: Negri Le nuove soggettività antagoniste sono figlie della crisi economica. Sotto la pressione del succedersi continuo delle crisi, la produzione – e con essa il rapporto più intensamente antagonistico capitale-classe operaia – abbandona la fabbrica fordista come suo luogo privilegiato e investe l’intera società: il soggetto della crisi non può essere più l’operaio-massa di Tronti, ma diventa l’operaio sociale. Durante gli anni Settanta, è Antonio Negri a essere impegnato nel delineare la figura dell’operaio sociale e, di conseguenza, a marcare la discontinuità rispetto alla fase del primo operaismo. Ecco come, in Proletari e Stato del 1976, Negri delinea il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale: È un’ipotesi sconvolgente quella che comincia a configurarsi, la categoria “classe operaia” va in crisi ma continua a produrre tutti gli effetti che gli sono propri sul terreno sociale intero, come proletariato. […] Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario. […] Avevamo visto l’operaiomassa (prima concretizzazione massificata dell’astrazione capitalistica del lavoro) produrre la crisi. Ora vediamo la ristrutturazione che, lungi dal superare la crisi, ne distende e allunga l’ombra su tutta la società.[13] Non è semplicemente il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale a determinare la deviazione di Negri dalle posizioni del Tronti di Operai e capitale, anzi è evidente l’intento di avvalersi del metodo operaista: la precedenza delle lotte operaie – quelle dell’operaio massa dei primi anni Sessanta – rispetto alla ristrutturazione capitalista è pienamente rispettata; come è in accordo con l’insegnamento operaista ritornare, in seguito alla trasformazione del modo di produzione capitalistico che stava avvenendo in quegli anni, ad analizzare la composizione di classe operaia. Anche la problematica rimane la stessa: individuare il soggetto antagonista. Che cosa IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 emerge allora nell’operaio sociale di così radicalmente divergente dalla precedente analisi operaista della composizione di classe, tanto che lo stesso Negri scrive vent’anni dopo di averne introdotto la figura in modo, a volte, “troppo timido”[14]? È il termine stesso, “operaio sociale”, che, come “fabbrica sociale”, lo spiega: è un ossimoro, sosterrebbe Tronti, per il quale la classe operaia e la fabbrica si oppongono radicalmente a ogni dimensione sociale e a ogni possibile assorbimento nella società. Per Tronti, infatti, la società è la dimensione dell’ideologia borghese, che neutralizza il conflitto e l’antagonismo: nella società il punto di vista di parte operaia viene compreso all’interno dell’idea sintetica di popolo. Magari anche Tronti ha riconosciuto il dissolversi della fabbrica nella società, ma, a differenza di Negri, vi ha visto il tramonto definitivo della classe operaia e non, con la sua proletarizzazione, una nuova potenzialità politica. Politica si poteva dare nella fabbrica in quanto luogo in cui si concretizzava il criterio schmittiano del politico come contrapposizione amico-nemico; la società – come la forma politica a essa corrispondente, la democrazia moderna – ne è esattamente l’opposto: un non-luogo. In essa è impossibile prendere parte e partito in quanto per Tronti ciò equivale a dar luogo al conflitto. È nel passaggio al postfordismo che si compie quindi il tramonto della politica; infatti, in quanto movimento generato e diffuso nella società, il ’68 rappresenta, per Tronti, un’accelerazione della ristrutturazione capitalistica. Negli stessi anni in cui Negri teorizza con la figura dell’operaio sociale una soggettività antagonista fuori dalla fabbrica, Tronti continua quella ricerca di una politica operaia che aveva lasciato in sospeso nel Poscritto di Operai e capitale, con la consapevolezza qui acquisita che, mentre il segreto del capitalismo è stato svelato dalle lotte della classe operaia, il segreto della politica è custodito nella teoria e nei luoghi appannaggio del nemico di classe. Il presupposto indiscusso è che vera politica si dia esclusivamente nelle modalità e nei luoghi della politica moderna e, quindi, l’unico modo per la classe operaia di conquistare davvero l’autonomia politica e uscire dall’aporia in cui la costringeva il rapporto economico di fabbrica – essere dentro e contro il capitale – è farsi Stato. Ecco configurarsi la svolta trontiana degli anni Settanta, ecco l’autonomia del Politico: L’obiettivo è quello di ricreare un effettivo dualismo di potere; però in grande, non più nella fabbrica, cioè non più nel rapporto di produzione, e neppure più nella società, ma addirittura tra società e stato. Per concludere. L’autonomia del politico risulta addirittura un’utopia, una volta presa come progetto politico direttamente capitalistico; risulta addirittura l’ultima delle ideologie borghesi; diventa realizzabile, forse, soltanto come rivendicazione operaia. Lo stato moderno risulta, a questo punto, nientemeno che la moderna forma di organizzazione autonoma della classe operaia.[15] Non potrebbe esserci distanza maggiore rispetto a quanto Negri scriveva in quegli stessi anni; anzi, le concezioni della politica che ne scaturiscono sono esattamente agli antipodi: sebbene per entrambi lo Stato sia il luogo del potere, per Tronti, la politica è essenzialmente scontro per il potere che si svolge quindi a livello del Politico, dello Stato; per Negri, al contrario, politica è la potenza immanente alla dimensione sociale, che si contrappone al potere dello Stato, la cui funzione capitalistica – e quindi di parte – è ormai pienamente manifesta. Negri rivendica allora un’autonomia operaia proprio dallo Stato in quanto “impresa capitalista”, in quanto forma del dominio e del controllo del capitale sulla società, quella società che invece diventa progressivamente il terreno di germinazione dei nuovi antagonismi. Ed è, infatti, fuori dalla fabbrica, nella società, che si vanno formando le nuove soggettività antagoniste ed è sempre dentro la società che si creano nuove potenzialità politiche[16]. Scrive Negri in Proletari e Stato: «A questo punto qualsiasi operazione trasformistica a livello di “autonomia del politico” cozza contro l’irrealtà della categoria, contro la sua mera adeguatezza all’ideologia e alla pratica mistificatoria del capitale. Un uso operaio delle istituzioni statali è oggi inconcepibile»[17]. E ancora, in Il dominio e il sabotaggio, dove si congeda esplicitamente da Tronti: «Dice bene l’ultimo Tronti che lo Stato moderno è la forma politica dell’autonomia della classe operaia. Ma in che senso? Nel senso, anche per lui, del suo rinverdito “socialismo”, di compatibilità e convergenza? No davvero, IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 caro compagno: qui la metodologia della critica dell’economia politica va modificata a partire dall’autovalorizzazione proletaria, dalla sua separatezza, dagli effetti di sabotaggio che determina»[18]. Lo schema trontiano del lavoro di fabbrica, “dentro e contro il capitale”, per Negri, non può più funzionare, tantomeno come presupposto per la determinazione di una soggettività politica, soprattutto se pensata con i criteri della politica moderna. Il processo di soggettivazione che aveva luogo in fabbrica determinava, infatti, un soggetto omogeneo e uniforme: la classe operaia. Il nuovo soggetto di Negri, invece, si costituisce politicamente fuori dalla fabbrica e dentro la società capitalistica in quanto spazio della produzione dove sono messe a lavoro la conoscenza e le capacità relazionali (quel General Intellect su cui si concentrerà la riflessione post-operaista). La nuova soggettività assume pertanto proprio quel carattere “plurale”, “multilaterale” e “differenziato” che per Tronti è il contrassegno del sociale in contrapposizione al politico. Ma il criterio del politico moderno per Negri è ormai inefficace; non è più la contrapposizione il criterio della soggettivazione politica operaia, bensì la separazione: «Dentro quest’intensità della separazione c’è il massimo di libertà. L’individuo sociale è la multilateralità. Il massimo di differenza è il più alto approccio al comunismo. […] Ogni omogeneità è dissolta. Lo schema metodologico “plurale”, multilaterale, trionfa»[19]. Il nuovo soggetto antagonista non ha bisogno del nemico di classe per definirsi, non è nella contrapposizione che si valorizza politicamente: si autovalorizza, è autonomo. Il criterio del politico moderno non può più fare da riferimento per un uso operaio della crisi perché non ha più presa su una realtà economica e sociale ormai postfordista e postmoderna. È il capitale piuttosto ad avvalersi del “criterio del politico”, ad aver bisogno della dialettica amico-nemico, della negazione da togliere nella sintesi, della crisi da superare con lo sviluppo. Inoltre, come non è da dentro il capitalismo fordista che il soggetto antagonista si definisce, è nemmeno da dentro il corrispettivo pensiero borghese che si costituisce un pensiero antagonista, un “pensiero negativo”. Non il rovesciamento dall’interno, bensì la separazione è la prassi politico-teorica dei nuovi antagonismi: Si tratta di cogliere il progresso dell’accumulazione capitalistica in forma rovesciata. Ma non c’è possibilità di farlo se questo concetto di rovesciamento non viene ridotto a quello di separazione. Il rapporto di capitale è un rapporto di forza che si tende verso l’esistenza separata e indipendente del suo nemico: il processo di autovalorizzazione operaia, la dinamica del comunismo. L’antagonismo non è più una forma della dialettica: la sua negazione. Si parla tanto di “pensiero negativo”: bene, il pensiero negativo è – strappato dalle sue origini borghesi – un elemento fondamentale del punto di vista operaio. Cominciamo ad usarlo, anziché nella critica dell’ideologia, nella critica dell’economia politica.[20] C’è da chiedersi – e Negri se lo chiede in conclusione di Marx oltre Marx – se il dispositivo della crisi, fondamentale per manifestare e radicalizzare il dualismo di potere insito nel sistema capitalistico, e così porre il conflitto, non debba essere abbandonato nel momento in cui si cerca, attraverso la pratica della separazione, di affermare l’autonomia e l’antagonismo del potere costituente della nuova soggettività al di fuori della dinamica binaria e, quindi, al di fuori del legame costitutivo con il nemico di classe. La crisi è l’inizio, rappresenta l’occasione e l’opportunità per uscire dal sistema capitalistico-borghese. Perché la via d’uscita indicata dalla crisi possa essere percorsa bisogna, al contempo, che qui e ora sia determinato un fuori, un altrove: Negri schiva così il problema – l’individuazione e la determinazione del luogo del conflitto – che ha indotto Tronti a cercare nello Stato le potenzialità di conflitto politico che la fabbrica e poi il partito avevano perduto. È su questo passaggio, il passaggio dalla logica del “dentro e contro” il capitale a quella del “contro e fuori” il capitale – tra le quali intercorre lo scarto decisivo fra pensiero della crisi e autonomia del potere costituente – che si gioca la sfida teorica di Negri sia all’operaismo di Tronti sia al “pensiero negativo” di Massimo Cacciari: «Su questo passaggio, dentro questo metodo la soggettività operaia diviene classe rivoluzionaria, classe universale. Su questo passaggio il processo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 costitutivo del comunismo si sviluppa con pienezza. E va subito sottolineato che, posta in questa luce, la logica antagonistica smette di svolgersi su un ritmo binario, smette anche di accettare la realtà fantasmatica dell’avversario sul suo orizzonte. Cancella la dialettica anche solo come orizzonte. Rifugge ogni formula binaria»[21]. Ci sarebbe da chiedersi, tuttavia, come farò in conclusione, se il dispositivo della crisi renda effettivamente possibile il passaggio dalla decisione di separazione alla decisione di autonomia di una parte rispetto all’altra. 3. Dentro è contro: Cacciari Nel 1977, in Pensiero negativo e razionalizzazione, sembra quasi che Massimo Cacciari anticipi la risposta alla critica che Negri gli avrebbe mosso nelle conclusioni di Marx oltre Marx; se – come lo stesso Negri arriva a sostenere seppure in senso riduttivo – il “pensiero negativo” rappresenta la “teoria” della crisi, per Cacciari è proprio questa teoria, cioè la “critica della sintesi dialettica”, l’essenza della crisi. La critica dell’economia politica, dunque, ne è soltanto la conseguenza: «La crisi della sintesi classica è ben più radicale della crisi della political economy. Essa è altresì la crisi di ogni “teoria generale” del Politico. La critica della economia politica non si “avvera” nel Politico, ma nella critica del Politico. Se qui riscontriamo le “assenze” più significative nella stessa teoria marxiana, a maggior ragione concepire tale critica è oggi finalmente il problema»[22]. La critica dell’economia politica si basa sul medesimo presupposto di Negri: lo sviluppo come risposta alla crisi non ne comporta il superamento dialettico; anzi, la sintesi dialettica fallisce come riequilibrio del sistema: è infatti come squilibrio che si ristabilisce il ciclo capitalista. Tuttavia, per Cacciari, a differenza di Negri, la crisi non rappresenta l’esplosione della contraddizione fondamentale intrinseca al sistema capitalistico a cui il potere operaio deve imporre il proprio, autonomo “uso politico”: potere contro potere, ovvero potenza del sociale contro potere del politico. Il dispositivo della crisi, piuttosto, è già tutto compreso nella dimensione del Politico moderno: nulla resta al di fuori di esso e, quindi, nessuna via d’uscita. La decisione che dall’antagonismo conduce all’autonomia resta dentro la crisi, non ne fuoriesce. La crisi ha sì travalicato i confini dell’economico, e in particolare l’ambito della “produzione immediata”, permeando la totalità del sistema – tanto che il capitale stesso ha imparato a farne un uso politico – ma appunto per questo la conflittualità che si produce e si diffonde al suo interno non può essere agita dal di fuori. La critica del Politico, per Cacciari, non rappresenta allora un ambito tra gli altri, ma denomina la condizione stessa di conflittualità, immanente al sistema. Se il Politico moderno definisce con Hegel il proprio vertice prospettico nella Forma che supera le contraddizioni e toglie il conflitto, la critica del Politico mostra l’impossibilità di tale Forma e l’irriducibilità del conflitto – anzi, rappresentando il Politico la sintesi dialettica per eccellenza, la sua critica diventa critica di ogni pretesa di sintesi. La triade filosofica del pensiero negativo è composta, nell’ordine, da Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche. Ma è con Nietzsche che si raggiunge l’esito estremo: «La sintesi è divenuta per Nietzsche soltanto il dominio, la vittoria della più “perfetta” volontà che agisce nella pura immanenza. Tale sintesi non avrà, quindi, alcun carattere di “valore”, non cercherà alcuna “giustificazione” nell’universale – sarà, anzi, il rifiuto di ogni valore, sia estetico, che etico, che religioso»[23]. La “volontà di potenza” nietzschiana rappresenta pertanto la s-valutazione di ogni valore e l’assunzione consapevole del potere – e non della potenza come invece sostiene Negri[24] – in quanto capacità di dominio non sul mondo, che comporta ancora la Sintesi dialettica del Soggetto, bensì nel mondo: “pura immanenza”. Nietzsche è oltre sia rispetto alla Volontà come “rinuncia” al mondo di Schopenhauer, sia rispetto al Singolo di Kierkegaard che trascende il mondo nel Religioso. “Potere è integrarsi nel sistema”, scrive Cacciari in Krisis, il libro del 1976 dove si conclude e si compie la sua ricerca sul pensiero negativo. Ma per integrarsi nel sistema nulla deve rimanerne fuori, nulla può affermarsi come “autonomo”: neanche il Soggetto. L’“organizzazione” IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 si afferma sull’autonomia. Perché il suo potere sia pienamente dispiegato, il Soggetto stesso deve perdere la propria posizione privilegiata, la propria “autonomia”: Il soggetto pare così ritrovarsi in una situazione paradossale. Da una parte, esso riscopre una sua funzione attiva, “creativa”, prima impensabile – dall’altra, però, perde qualsiasi posizione “prospettica”, qualsiasi “privilegio” gnoseologico. Esso pone il sistema nella sua dinamica e contraddittorietà – ma, insieme, non ne risulta più in alcun modo distinguibile. […] Ma ponendo tale processo, il soggetto ha perduto ogni auratica “autonomia”, ne è divenuto parte, proprietà. […] Potere è integrarsi nel sistema.[25] Non è più pensabile nessuna soggettività al di fuori del sistema; la decisione del soggetto che, alla Schmitt, deve imporvi la propria sovranità non mostra altro che l’ineffettualità di tale decisione. La crisi del Politico moderno produce il Sistema di Potere. Ma non solo: essendo le prerogative soggettive di trasformazione, innovazione, produzione, creazione – di antagonismo stesso – passate al Sistema, quest’ultimo è caratterizzato da conflitto e crisi: è a questo potere che si partecipa integrandosi nel sistema. Non è più il soggetto a essere antagonista, lo è il sistema stesso; non c’è conflitto fuori dal sistema: dentro è contro. E tuttavia, in quanto Soggetto, proprio garantendo la conflittualità al suo interno, il Sistema la sussume e la domina. Il problema che l’esito del pensiero negativo lascia aperto è dunque: è possibile una politica rivoluzionaria – o almeno la decisione per una politica di innovazione all’interno di un Sistema politico la cui organizzazione converte, pur senza risolverlo e superarlo, il conflitto in conservazione? In che modo una soggettività che non ha più potere sul sistema, pur partecipando alla sua conflittualità, può decidere e rendere effettuali le proprie rivendicazioni? Insomma, dal momento che il disincantamento non trasforma il sistema in quanto tale, come si può invertire il segno conservatore delle trans-formazioni al suo interno? È questo il problema di Krisis: «Il problema è: come [il soggetto] vi partecipa?, perché, con quale scopo? […] In che misura e in che modo [le forme di questa sua “partecipazione”] sono ancora effettuali? Con quali parametri andrà ora misurata questa effettualità? Il nihilismo radicale può giungere fino a quel “disincantamento” – ma non può affrontare e tantomeno risolvere queste domande»[26]. Sono domande “politiche”, queste, che tuttavia non sono rivolte ad alcuna soggettività politica, vecchia o nuova che sia. Weber ha infatti integrato compiutamente il Soggetto politico all’interno del sistema, facendone una sua funzione a discapito di ogni sua “qualità”: il politico diventa “funzionario” e quello dell’intellettuale è un Beruf, una “professione”. Se il Politico è per coerenza “funzionale” all’amministrazione del sistema; se, parafrasando il Wittgenstein del Tractatus, fondamentale in Krisis, “su ciò di cui non si può parlare – su ciò che non è integrato nel sistema – si deve tacere”, come può darsi trasformazione innovatrice entro questi limiti? Ovvero: come pensare la crisi non in quanto conservazione, oltre quindi lo stesso pensiero negativo? L’esito sul piano della critica del Politico moderno, del tutto corrispondente a quello di Krisis sul piano logico-epistemologico, è rappresentato dall’Impolitico, che, in Dialettica e critica del Politico (1978), rappresenta la “soluzione” nietzschiana alla crisi dello Stato dialettico hegeliano: «L’impolitico nietzschiano è […] critica del Politico. Che nessun soggetto e nessuna Verità si esprimano nello Stato non comporta l’utopia del Singolo – ma il problema della grande Politica. […] Ma proprio perché il Politico non appare più come il Linguaggio capace di pro-durre nello Stato la Verità del soggetto, questo Stato è trasformabile – quel Politico è continua rivoluzione delle sue forme»[27]. Il Politico si è compiuto in Hegel, nello Stato dialettico; una volta constatata la sua crisi irreversibile e l’irresolubilità delle sue contraddizioni (di classe, prima di tutto), non resta che l’Impolitico come critica di ogni ritorno del Politico in quanto Sintesi e Valore e, di conseguenza, l’assunzione della trasformabilità dall’interno dello Stato. Sembrerebbe quasi che, seppur seguendo una linea in origine diversa, Cacciari finisca per convergere, almeno nell’esito politico, sulle posizioni del Tronti di Sull’autonomia del politico. Eppure, la concezione di Cacciari dell’autonomia del politico si differenzia per diversi aspetti da quella trontiana, ma principalmente IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 perché non conferisce alcun primato al Politico, ma rappresenta piuttosto una modalità del discorso sull’impolitico, come si può evincere da questo passo dell’Introduzione a Pensiero negativo e razionalizzazione: Autonomia del Politico e sua ri-definizione (nel senso suddetto del termine) costituiscono, dunque, il tema obbligato di ogni introduzione al problema storico del Politico. L’“autonomia” di cui “gode” non conferisce al Politico alcuno statuto prospettico privilegiato. Essa definisce la particolarità delle funzioni, il “valore” delle funzioni, che esso è chiamato a svolgere nei confronti e a causa delle limitazioni intrinseche agli altri elementi del sistema. Senza tali limitazioni, e dunque senza tali elementi, non si darebbe “autonomia” del Politico. Un sistema complesso di “autonomie”, del quale differenze-conflitti-contraddizioni non sono che “altri nomi”, subentra alla struttura omogenea e centripeta della Rationalisierung dialettica. Il Politico è-in questo universo.[28] Il Politico è un elemento tra gli altri dentro il sistema; ogni elemento ha una propria “autonomia” in conflitto con quella degli altri, che ne limita le pretese egemoniche. In sostanza, il Politico non può rappresentare il luogo per eccellenza del conflitto per il potere, perché il conflitto è tra le diverse “autonomie” poste sul medesimo piano, all’interno del sistema: insomma, l’autonomia del politico di Cacciari non colloca lo Stato nel luogo centrale che invece vi attribuiva il Politico moderno. Si potrebbe anzi sostenere che, nella sua crisi, il Politico moderno si sia diviso in due e lo Stato corrisponde alla sua unica collocazione possibile, quella burocratico-amministrativa, mentre l’altra, quella del progetto rivoluzionario, è pura Utopia: ou-topia, non-luogo[29]. Quello di cui scrive Cacciari è dunque lo Stato che risulta dalla crisi del Politico moderno. È l’organizzazione dispiegata – sulla scorta di Heidegger – dalla Tecnica che si fa politica: organizzazione funzionale non alla conquista del Potere, bensì a che nessuna forma di potere si possa sottrarre alla trans-formazione e imporsi così sulle altre. Soltanto all’interno di tale organizzazione della crisi – logicoepistemologica e statuale – si danno autonomie e antagonismi[30]. *** Nel corso degli anni Settanta, in Italia, come risulta dall’itinerario attraverso il pensiero di Tronti, Cacciari e Negri che ho provato a tracciare, la questione dell’“autonomia del politico” viene compresa all’interno del dibattito sul primato da attribuire all’organizzazione o all’autonomia – ovvero sul primato politico da attribuire al luogo del conflitto (Tronti, Cacciari) o alla soggettività antagonista (Negri). Tuttavia, ciò che hanno in comune ognuna di queste posizioni è il fatto di essere comprese all’interno di quello che ho chiamato dispositivo della crisi; un dispositivo la cui influenza, nel pensiero filosofico e politico italiano, travalica l’arco di tempo preso in considerazione, arrivando fino a oggi. In che cosa consiste il dispositivo della crisi? L’analisi etimologica del termine “crisi” può fornire indicazioni importanti. In greco, krisis significa: “forza distintiva, separazione, scissione”; ma anche: “decisione, risoluzione, giudizio, elezione, scelta”. Ne risulta che: la “scelta” di un aspetto rispetto all’altro che la “separazione” della krisis “distingue”, il tentativo di “risolvere” la crisi, non rappresenta affatto l’uscita dalla crisi, ma ne resta all’interno in quanto suo elemento costitutivo. Vengo adesso alla nostra questione. La crisi è la condizione di possibilità dell’autonomia del politico, il presupposto su cui poggia ogni collocazione del conflitto. Prima di ogni autonomia del politico – prima cioè dell’individuazione del luogo dove il conflitto produce soggettivazione politica – c’è una divisione, una separazione in due parti: ecco la crisi. E tuttavia, il dispositivo della crisi comprende anche la decisione per fuoriuscirne, non esclusa quella finalizzata all’autonomia e all’autovalorizzazione del soggetto, che vi resta altrettanto implicata. Ogni decisione pone dunque un’ulteriore separazione e un ulteriore dualismo: un’ulteriore crisi – e così all’infinito. La soluzione della crisi è pertanto indistinguibile dalla produzione stessa di crisi. Certo, di contro a tante concezioni tecnocratiche e procedurali della politica, il dispositivo della crisi contempla il carattere produttivo del conflitto. Ma se, catturato IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 all’interno del dispositivo della crisi, il conflitto fosse funzionale soltanto alla produzione di crisi e, quindi, all’assunzione dell’impossibilità di una scelta effettiva, di una decisione risolutrice? Bisognerebbe forse svincolare il conflitto dalla crisi, cioè porre radicalmente in questione l’idea – maturata in Italia proprio negli autori e nel periodo che ho trattato, ma oggi più che mai d’attualità – che una politica in quanto conflitto sia inconcepibile senza presupporre la crisi. [1] Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 114-5. [2] Ivi, p. 262. [3] Ivi, p. 219. [4] Di tal genere sono le questioni che solleva Roberto Esposito nella sua interpretazione di Operai e capitale: porre la classe operaia al contempo “dentro e contro” il capitale – nei termini di Esposito: tenere insieme “immanenza e conflitto” –, nel passaggio dal piano economico a quello politico, comporta un’aporia e una contraddizione che ricade sulla sostenibilità filosofico-politica della stessa classe operaia in quanto soggetto antagonista. Cfr. R. Esposito, Pensiero vivente, Einaudi, Torino 2010, pp. 207-12. [5] «Quando ci si chiede perché solo dal punto di vista operaio si può cogliere il segreto del capitalismo, ecco l’unica risposta possibile: perché la classe operaia è il segreto del capitalismo» Tronti, Operai e capitale, cit., p. 230. [6] Ivi, p. 279. [7] Cfr. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 7. [8] Tronti tematizza compiutamente tale periodizzazione in La politica al tramonto, in cui colloca le lotte degli anni Sessanta nella fase crepuscolare dell’Occidente, che proprio allora si compie definitivamente: cfr. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998. [9] Oggi, infatti, Tronti scrive: «La grande fabbrica è il contrario dei non-luoghi, che oggi configurano la consistenza, o meglio l’inconsistenza, del post-moderno. La grande fabbrica è il classico del moderno. La concentrazione dei lavoratori nel luogo di lavoro determinava le masse, senza fare massa» Tronti, Noi operaisti, cit., pp. 94-5. [10] Ancora in Noi operaisti: «L’amico-nemico operai-capitale non era un’invenzione filosoficoletteraria. Era un dato di fatto economico-sociale. Stava lì, sotto gli occhi di tutti e nessuno lo vedeva. O meglio, si vedeva con gli occhiali del padronato o con i binocoli del sindacato, ma con gli occhi della politica, e del pensiero politico, non si vedeva niente, perché si guardava altrove. Ecco, l’operaismo mise a fuoco un’immagine, accese una lampada in un interno di fabbrica: e fotografò» Ivi, p. 39. [11] C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, p. 112. [12] Tronti, Operai e capitale, cit., p. 314. [13] A. Negri, Proletari e Stato. Per una discussione su autonomia operaia e compromesso storico (1976), in I libri del rogo, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 144-5. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 [14] Cfr. A. Negri, 1997: vent’anni dopo. Prefazione alla seconda edizione, in I libri del rogo, cit., p. 7. [15] M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, Milano 1977, p. 20. [16] Per un confronto tra Tronti e Negri, cfr. A. Toscano, Chronicles of Insurrection: Tronti, Negri and the Subject of Antagonism, in L. Chiesa e A. Toscano (a cura di), The Italian Difference. Between Nihilism and Biopolitics, re.press, Melbourne 2009, pp. 109-28. [17] A. Negri, Proletari e Stato, cit., p. 166. [18] A. Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, in I libri del rogo, cit., pp. 256-7. [19] Negri, Marx oltre Marx (1979), manifestolibri, Roma 1998, p. 200. [20] Ivi, p. 250. [21] Ivi, pp. 251-2. [22] M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, p. 12. [23] Ivi, pp. 172-3. [24] A differenza di Cacciari, Negri pone Nietzsche sulla linea spinoziana della potenza e del potere costituente. Tale divergenza interpretativa è in parte giustificata dall’ambivalenza e ambiguità dello stesso termine tedesco Macht, che può essere tradotto in italiano sia con “potere” che con “potenza”. [25] Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976, p. 66. [26] Ivi, p. 63. [27] Cacciari, Dialettica e critica del Politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 73-4. [28] Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, cit., p. 11. [29] Cfr. Cacciari, Progetto, in “Laboratorio politico”, anno I, n. 2, 1981, pp. 88-119. [30] Per un confronto tra Cacciari e Negri a partire da Krisis, cfr. M. Mandarini, Beyond Nihilism: Notes towards a Critique of Left-heideggerianism in Italian Philosophy of the 1970s, in Chiesa e Toscano (a cura di), The Italian Difference, cit., pp. 55-79. Dario Gentili (Napoli, 1975) è stato borsista post-dottorato in Filosofia e storia delle idee presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM). Su questi temi, di recente ha pubblicato: Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Il Mulino, 2012). Collabora con la cattedra di Filosofia Morale dell’Università di Roma Tre. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Il Papa viene da Marte e la Curia da Venere? di PERRY S. HUESMANN La Chiesa Romana Cattolica e Apostolica vive in virtù di un dualismo interno, quello fra religioso e secolare, sacro e profano. Questo dualismo si esprime anche in termini strettamente ecclesiastici: la Chiesa è sia “cattolica” sia “romana”, sia universale sia particolare. Perché la rinuncia al soglio pontificio di Ratzinger non scioglie la tensione fra universalità e particolarità all’interno della Chiesa. In un libro ampiamente discusso sulla natura delle relazioni tra uomo e donna, la metafora dell’origine planetaria è stata usata per illustrare la profonda alterità che gli uomini e le donne sperimentano nella loro umanità, sia come fonte di piacere che di difficoltà. Per secoli, la Chiesa Romana Cattolica e Apostolica ha vissuto un’ostilità/separazione interna: non come in una sana relazione di alterità complementare tra due partner, ma come una schizofrenia interna al corpo. Si deve pensare alla schizofrenia nel senso strettamente etimologico del termine: una “divisione della mente”. Questo sdoppiamento della ragione sacra della Chiesa fonda le proprie radici in un dualismo metafisico che è stato alla base della teologia e del modo di essere della chiesa per più di un millennio. La Chiesa Romana non sarebbe quella che è senza la propria visione manichea del mondo e senza le proprie divisioni tra religioso e secolare, eterno e temporale, sacro e profano, celibe e non celibe, anima e corpo. Questo dualismo viene espresso anche ecclesiasticamente. Un’unica ragione sacra, ma due nature. La Chiesa è “Cattolica” ed è “Romana”. In altre parole, è “universale” ma si identifica con “una cultura- quella Romana”. In termini filosofici, è totalmente universale, ma è anche in tutto e per tutto particolare. Come può un corpo sperimentare sia un’universalità che una particolarità in termini assoluti? Non sono forze in competizione destinate a un conflitto eterno e irrisolvibile? La Chiesa Cattolica Romana è orgogliosa della propria natura et-et. Secondo l’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, l’aspetto migliore della vita cattolica risiede proprio nell’abilità di essere “sia-sia” (et-et) e non “o-o” (aut-aut). Il lato universale della Chiesa trova la propria espressione in una cattolicità che enfatizza l’unità della chiesa. Essa è la stessa in tutto il mondo. Ci sono “una sola fede, un solo Signore, un solo battesimo”, secondo le parole dell’apostolo Paolo. L’allora cardinale Josef Ratzinger ha personalmente espresso questa universalità quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede nella dichiarazione Dominus Iesus, nella quale ha sottolineato il dogma dell'Extra ecclesiam nulla salus: non vi è salvezza al di fuori della chiesa universale. Questo lato cattolicouniversale della chiesa è stato supportato dalla globalizzazione dell’ultimo decennio, così che il fedele, anche nei paesi in via di sviluppo, si identifica profondamente con questo lato universale della natura dualistica della chiesa. La natura particolaristica della Chiesa è quella culturale Romana. Non è quindi la Chiesa Cattolica di Londra e, di certo, non è nemmeno la Chiesa Cattolica di New York, ma trattasi della Chiesa Cattolica di Roma: dal suo punto di vista, New York è libera di globalizzare la propria cultura secolare, ma l’unica cultura sacra globale voluta da Dio è quella Romana. Anche se la Chiesa riconosce come valide le espressioni culturali indigene della spiritualità, esse sono tuttavia realtà culturali secondarie a quella romana. Così, la Chiesa mantiene una natura totalmente Romana: è definita dalla legge canonica romana, è governata dalla Curia Romana, il latino è la sua lingua ufficiale e il vescovo di Roma gode di una posizione suprema. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Data questa natura particolaristica della Chiesa, non è difficile comprendere quella relazione di conflitto di lunga data che ha caratterizzato i rapporti con Gerusalemme. Di certo Gesù non era romano; la sua unica relazione con Roma, contatto che ha evitato fino alla fine del suo pubblico ministero, lo ha portato a una morte brutale su una croce romana. E anche Paolo, cittadino romano, ha avuto grosse difficoltà nel tentativo di spiegare le questioni della cultura greco-romana relative all’umanità e al significato della vita a partire dalle scritture ebraiche. Anch'egli, alla fine, ha sentito il peso della cultura legale romana come prigioniero a Roma. Nelle scorse settimane il Vescovo di Roma e Papa della Chiesa Universale ha rassegnato le proprie dimissioni. E la questione che sorge è: questa è stata un’espressione della natura Romana o di quella Cattolica della Chiesa? Qualunque siano le specificità delle ragioni interne, il Pontefice non è stato in grado di portare avanti il proprio mandato divino come Vescovo di Roma e Papa della Chiesa Universale. In apparenza, avrebbe potuto continuare a esercitare il ruolo di Vescovo di Roma, nonostante la salute precaria, ma la legge canonica non permette questa particolare espressione, perché il Vescovo di Roma è, lui solo, espressione universale della sacralità. La spiritualità universale romana domina sulle espressioni indigene della Cristianità, questo vale anche per il papato. In tal senso, il volto romano della chiesa è una forza colonizzatrice della e nella Cristianità. A nessuna cultura viene chiesto se preferisce diventare romana nella propria espressione della fede. La natura romana particolaristica della chiesa non è negoziabile: la gerarchia romana, la liturgia romana, il magistero romano e la legge canonica di Roma impongono, ovunque, la cultura romana a tutti i fedeli. Questo perpetuo conflitto interno dell'et-et tra due nature assolute - una universale e una particolare - all’interno della Chiesa, si è palesata al mondo in modo drammatico. Parafrasando la canzone di Bobby Fuller, “Ho combattuto la legge e la legge ha vinto”, per Papa Benedetto si potrebbe affermare “Ho combattuto Roma e Roma ha vinto”. Joseph Ratzinger è un Papa tedesco, quindi proveniente da una moderna cultura riformata che, negli ultimi cinque secoli, da quando ha contrastato le forze della Controriforma, ha convissuto con il pluralismo religioso. Nel periodo del dopoguerra egli ha vissuto in un sistema fatto di trasparenza, checks and balances, etica pubblica, facendo propria la capacità di riconoscere un forte senso di pericolo nei confronti di un potere politico senza controllo. Ed è logico che tutto questo sia penetrato nella sua psiche. Egli ha portato questa parte della propria umanità di fronte al Santo Vescovato, rappresentando, in tal senso, la natura universale della Chiesa, qualcosa che è al di fuori di Roma. Il suo mandato da Pontefice, come dichiarato dallo stesso Benedetto XVI, avrebbe dovuto concentrarsi sulla purificazione della chiesa, anche se ciò avrebbe significato ridimensionarla, renderla cioè più piccola. Persino l’eros aveva bisogno di essere disciplinato e purificato, secondo l’enciclica Deus caritas est. Nella sua prima omelia da pontefice, nell’aprile 2005, Benedetto XVI ha chiesto di pregare per lui affinché “non fuggisse per paura dei lupi”. La necessità di purificazione era un riconoscimento della tensione tra le due nature della Chiesa e del suo desiderio di rispondervi con trasparenza. Ma la sua lettera di dimissioni rappresenta un’ammissione di sconfitta, una mancanza di energie o un’incapacità di portare avanti tale progetto? E quale interpretazione potremmo trarre da una tale scelta? Egli, in qualità di Cardinale tedesco proveniente dalla natura più universale della chiesa, non può riformarne la natura romana. Quest’ultima non è attestata da certificati di nascita conservati dai più alti prelati, la natura romana della Chiesa è lo spirito duraturo dell’istituzione; è l’espressione di un potere politico assoluto e del peso della Tradizione che sopravvive a qualsiasi pontefice, sotto il peso della quale il Papa stesso, in qualità di capo universale, sembrava vacillare fisicamente. Cosa significa affermare che papa Benedetto XVI non è stato in grado di riformare la Curia romana? Il papato è la più alta espressione dell’assolutismo monarchico nel continente europeo. Ma IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 neanche questi poteri papali assoluti, universali e incontestabili sono stati sufficienti a riformare la natura romana della chiesa. Sembra siano all’opera forze e poteri molto più potenti della stessa autorità pontificia. Ironicamente, la tiara papale è l’espressione cerimoniale dell’assoluta e universale autorità esecutiva, giuridica e legislativa del Papa. Egli solo detiene questi poteri nella Chiesa Cattolica Romana. Basti pensare, per esempio, al potere giuridico assoluto del Pontefice, esercitato pochi mesi fa nel concedere il perdono al proprio maggiordomo (forse un discreto riconoscimento che la preoccupazione di quest’ultimo nei confronti della corruzione della Curia era anche la propria). Il suo potere legislativo assoluto è stato visto all’opera ancor più di recente, quando ha nominato vescovo il proprio segretario personale Georg Gänswein. E la decisione del Papa di rassegnare le dimissioni dal pontificato è stato il suo atto esecutivo pubblico finale e assoluto – e non può essere contestato proprio perché egli, in qualità di papa, è un monarca assoluto. Non tutti, però, vedono la rinuncia del Pontefice alla propria posizione come l’espressione di un irrisolvibile conflitto interno tra le due nature della Chiesa. La parte non-ecclesiastica di questa disputa si è soffermata su questa questione. La scelta del Papa è stata etichettata come “rivoluzionaria” dalla maggior parte della stampa internazionale e, da alcuni, persino “moderna”, soprattutto dalla stampa italiana. Forse perché quest’ultima vive e respira la natura romana della chiesa che, nella sua realtà contro-Riformatrice, è tagliata fuori dalla modernità. Ma, ricorrere ai propri poteri esecutivi, legislativi e giudiziari in modo assoluto e incontestabile è stato un gesto così rivoluzionario per il Papa? Forse sì, se pensiamo a “rivoluzione” nel senso francese del termine, la cui maggiore conseguenza è stata quella di rimescolare il mazzo dei detentori del potere all’interno dello stesso quadro politico e perciò, alla fine, ha sostituito, sotto Napoleone, un potere assolutistico con un altro. Il Papa stesso non potrebbe considerare come rivoluzionaria la decisione di rinunciare alla propria carica, almeno non nel senso di introdurre qualcosa di non ancora consentito all’interno del codice canonico romano; una “rivoluzione” si può, però, esprimere attraverso una delle due nature della chiesa: quella universale. In un’intervista con Vittorio Messori, pubblicata nel 1985, l’allora Cardinale Ratzinger ha definito la chiesa come semper reformanda, chiarendo però immediatamente che il documento del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes (n.43) specifica che “la fedeltà della Sposa di Cristo” non è messa in discussione dall’infedeltà dei suoi membri. La Sposa di Cristo è romana e fedele e forse, occasionalmente, bisognosa di “modernizzazione” o di “purificazione”, ma, almeno in apparenza, non di una riforma. I suoi membri universali necessitano, comunque, di costanti correzioni. Perciò, la missione del pontefice di “purificare” la Sposa di Cristo e la sua decisione di lasciare l’ufficio secondo le prescrizioni del codice canonico romano non possono essere ritratte come rivoluzionarie. Sarebbe difficile definire la scelta del Papa di rinunciare al proprio trono come qualcosa di diverso da un’espressione della sua autorità esecutiva assoluta, già riconosciuta all’interno del codice canonico romano. Cosa c’è di moderno o di rivoluzionario in tutto questo? Certamente può essere considerata come una scelta raramente adottata, ma non di certo moderna. Il papa ha semplicemente concretizzato un diritto legale che gli viene garantito all’interno della struttura della Chiesa Romana; questo difficilmente può essere descritto come rivoluzionario. Non introduce niente di nuovo nell’equazione. Intendere rivoluzionario, nel senso di riformatore, equivarrebbe a rinunciare all’insieme delle realtà (greco-)romane che hanno sopraffatto il Vangelo e lo hanno quasi soffocato. Vorrebbe dire relativizzare l’espressione assolutistica della natura romana della chiesa e ascoltare le voci del lato universale che richiedono cambiamenti in molte materie: l’infallibilità del papa; la monarchia assoluta come la più sacra espressione della leadership della chiesa; lo status di inferiorità delle donne; la mancanza di autorità della chiesa locale nel scegliere i preti; il celibato obbligatorio come unica forma di espressione sessuale nel ministero pastorale; il dualismo metafisico sacro-secolare come base della spiritualità umana; e l’accumulo di ricchezze e di potere politico a Roma, tanto per citarne qualcuna. Queste realtà sono il frutto di secoli di romanizzazione IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 della chiesa universale. Nessuna di queste trae origine dalle radici culturali ebraiche di Gesù riscontrabili nella Torah e nei suoi comandamenti fondamentali di amare Dio e il prossimo. Nel tentativo di etichettare la scelta del Papa come “rivoluzionaria”, il mondo, con il suo occhio sempre all’erta, sta probabilmente cercando di capire le dinamiche in gioco tra le due nature della Chiesa e il dualismo metafisico sul quale è fondata. La sua decisione ha rivelato l’irrisolvibile natura del dualismo metafisico al pubblico internazionale. Dato che il soggiacente dualismo dipende dall’autorità del papato, le dimissioni hanno dato adito a nuove domande. L’uso da parte del Papa della propria fragilità fisica come pretesto per rassegnare le dimissioni è una forte negazione di questo dualismo, sul quale la Chiesa si fonda intellettualmente. In altre parole, la metà superiore del Papa, la sua anima eterna e immateriale, dominata dalla ragione purificata, dovrebbe essere in grado di guidare la metà inferiore della sua umanità, la sua fragilità fisica, per adempiere al proprio mandato fino alla morte. Questo è ciò che, secondo il Cardinale Dziwisz, ha fatto Papa Giovanni Paolo II quando ha agito come Gesù, rifiutando di scendere dalla croce. Egli non ha voluto piegarsi alle pressioni esterne della modernità né riconoscere una concezione più olistica, integra e scientifica dell’umanità. Questo è il motivo per cui ci sono state invocazioni di “santo subito” dopo la sua morte. Papa Giovanni Paolo II è stato il più grande testimone vivente del dualismo metafisico che regge l’intero modo di essere della Chiesa Cattolica Romana. Nella sua lettera di dimissioni, comunque, Papa Benedetto XVI ha espresso un’anomalia ed è questo l’aspetto rivoluzionario del suo atto, cioè il suo essere estrinseco al dogma della Chiesa. Non è l’atto stesso di aver dato le dimissioni, ma l’avere espresso una visione integra della propria umanità, nella quale l’elemento fisico e quello spirituale sono completamente integri e soggetti alle forze esterne della cultura e del tempo. Questa testimonianza di umanità non-sacra da parte di un custode romano della sacralità universale deve certamente preoccupare la gerarchia della chiesa, perché mette in discussione tutto il suo fondamento metafisico: il dualismo sacro-profano. Una visione integra dell’umanità è un’implicita ammissione dell’inabilità del sacro, anche nella sua più elevata espressione del pontificato, di mostrarsi superiore al lato secolare e fisico. Questa può essere una delle ragioni dell’ammissione del Papa della propria consapevolezza in relazione alla “serietà di un tale atto”. Dopo la morte di Ratzinger non ci saranno invocazioni di “santo subito”, almeno non immediatamente dopo. Con l’esposizione delle ragioni per le proprie dimissioni, questo Papa ha posto le esigenze antropologiche sullo stesso piano, se non al di sopra, di quelle ecclesiasticoistituzionali. Quindi, tornando al problema originario: la scelta del Papa è stata un’espressione della natura Cattolica della Chiesa o di quella Romana? La questione, ovviamente, scaturisce dall’interno del pensiero dualistico tipico della chiesa. Per rispondere alla domanda, è necessario considerare la visione del potere politico dell’antica Grecia come opposizione del centro-periferia, che è stata adottata dai romani e, in seguito, anche dallo stesso sistema di governo ecclesiastico romano. Essa pone le proprie radici nel pensiero della legge naturale, il quale sostiene che, quando questa legge governa il mondo, se indisturbata, porterà all’emergere di relazioni di potere naturali in ogni sistema di governo; questo riflette una vera aristocrazia del migliore e del più brillante, come ordine naturale delle cose, con il potere al centro. Ma il sistema di governo della chiesa romana è anche espressione del sistema di governo faraonico dell’antico Egitto, simboleggiato dalla piramide e gerarchico nella struttura, con il potere in cima. La struttura di governo faraonica con il Papa all’apice è la natura universale del sistema di governo della Chiesa, mentre la visione greca del centro-periferia rappresenta la natura romana, dove la Curia e il pontificato sono in costante tensione. In qualità di Papa della chiesa universale, Benedetto XVI ha rappresentato l’apice della piramide di potere; ritrovandosi allo stesso tempo ad avere costantemente a che fare con la periferia del potere IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 della Curia romana, che contrasta e si pone in competizione con il centro dal momento che essa rimane anche dopo il passaggio di qualsiasi capo della chiesa. Perciò, sembrerebbe che, ancora una volta, il lato romano abbia soppresso il lato universale della Chiesa. In questa lettura, ciò che vi è di così drammatico e senza precedenti è che il lato culturale romano della Chiesa ha colpito anche la sua stessa guida. L’espressione della legge naturale e organica della struttura di governo ha sconfitto l’aspetto faraonico gerarchico. A complicare ulteriormente la situazione dell’ufficio stampa del Vaticano nel suo tentativo di “spiegare” la complicata saga al pubblico, il Papa ha risposto a questa struttura gerarchica interna e schizofrenica della chiesa con una vera e propria rivendicazione nominalista della propria libertà, in qualità di essere umano, di andare alla ricerca di una vita migliore di quella del pontificato! La sua scelta libera non emana una “fragranza di sacralità”, ma una spiritualità integra e terrena che non mostra preferenze nei confronti di una nozione astratta del sacro che considera secondario il corpo umano. Questo non è molto romano. La scelta del Papa è anche un chiaro riconoscimento di una particolare realtà personale che ha avuto la precedenza sulla sua chiamata come capo della chiesa universale. Nella sua scelta, il particolare ha definito l’universale e non viceversa. Questo non è molto cattolico. Benedetto XVI è certamente consapevole che la sua scelta come Papa rischia di essere intesa come un aperto rimprovero al fondamento dualistico sia romano che cattolicouniversale della chiesa. Sembra però che non abbia avuto altra scelta. E questo è la ragione per cui la situazione è tanto drammatica. Le sue dimissioni sono un esplicito riconoscimento dell’irrisolvibile conflitto interno al sistema. Nemmeno il potere sacro e assoluto può risolvere la disputa per la supremazia tra la natura romana e quella universale della Chiesa. La scelta del prossimo Papa e le sue priorità come pontefice riveleranno l’entità del danno che il Collegio dei Cardinali e la Curia credono sia stato arrecato alla Chiesa da questo atto decisamente non-Romano e non-universale compiuto dal capo della Chiesa Cattolica Romana. Perry S. Huesmann è ricercatore presso la Vrije Universiteit di Amsterdam ed è docente presso l'Università degli Studi di Milano. È autore di Covenant as Ethical Commonwealth. Possibilities for Trust in a Age of Western Individualism and Disintegration (IPOC, 2010). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Ritorno a Maderna di GIACOMO FRONZI Il 2013, per quel che riguarda le celebrazioni, continua (e continuerà) ancora a offrirci motivi di discussione su alcuni dei maggiori protagonisti della musica contemporanea. Dopo Luciano Berio, è il momento di un suo indimenticabile amico, prima che grande collega, Bruno Maderna, scomparso improvvisamente il 13 novembre 1973, colpito da un male incurabile. Il mondo italiano dell’arte e della cultura del Novecento ha visto avvicendarsi figure ed esperienze sperimentali del tutto centrali nel panorama internazionale. Un’intera generazione, quella nata a ridosso del primo conflitto mondiale, ha segnato indiscutibilmente un’epoca, attraversando le stagioni dell’avanguardia e della neoavanguardia – in tutte le arti, dalla letteratura alla musica, dal cinema alle arti figurative –, finendo col comporre un quadro estremamente ricco. All’interno di questo quadro, troviamo anche Bruno Maderna, protagonista di punta della stagione dell’avanguardia musicale internazionale, improvvisamente scomparso nel novembre 1973, a soli cinquantatré anni, colpito da un male incurabile. Tra gli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, si tendeva a pensare a Maderna come a un infaticabile direttore d’orchestra che sarebbe potuto essere un grande compositore. Oggi possiamo invece dire che si è trattato di un grande compositore che si è dedicato anche alla direzione d’orchestra. Di lui, nel 2013, si sono celebrati i quarant’anni dalla morte e, per quanto ci è possibile, vorremmo qui ricordarlo. Ricordare sinteticamente Maderna – come faremo noi – non significa liquidare questo grande personaggio allo scopo di tenere fede a una qualche doverosa ricorrenza né rispondere a una diffusa esigenza celebrativa. Nonostante la rilevanza della figura, occorre che se ne parli e, soprattutto, si ascolti la sua musica, così da offrire una possibilità di conoscenza e approfondimento in particolare ai “nuovi” ascoltatori di Maderna, a coloro che – per età o per formazione – non hanno ancora avuto modo di entrare in contatto con l’universo sonoro maderniano. Il nome, innanzitutto. Maderna fa un po’ come il filosofo Theodor Wiesengrund Adorno, nato Wiesengrund e morto Adorno. Bruno nasce a Venezia nel 1920 e di cognome fa Grossato, cognome che alla fine degli anni Venti campeggia nel nome della “The Happy Grossato Company”, ensemble d’intrattenimento messo su dal padre Umberto. Bruno rimane molto presto orfano della madre (Carolina Maderna) e, sostenuto da un indiscusso talento e dall’attività del padre, prima di compiere dieci anni si avvicina al mondo della musica, come violinista e come direttore d’orchestra. Verrà IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 poi la formazione, in un primo momento, con Arrigo Pedrollo e, in un secondo momento, con Alessandro Bustini, Gian Francesco Malipiero e Antonio Guarnieri, studiando contemporaneamente Composizione e Direzione d’orchestra. Alla fine degli anni Quaranta, Maderna approfondisce la tecnica dodecafonica e – inevitabilmente – si avvicina ai «Ferienkurse für Neue Musik» di Darmstadt, fondati da Wolfgang Steinecke, finendo col diventarne uno degli animatori principali e dei punti di riferimento per buona parte degli anni Cinquanta, non solo in virtù della sua grandezza, ma anche perché tale grandezza troverà concretizzazione nella nascita dello Studio di Fonologia della Rai di Milano. Lo Studio – istituito insieme al suo grande amico e collega Luciano Berio – sarà attivo dal 1955 al 1983, caratterizzandosi fin dall’inizio per un nuovo e proficuo rapporto tra compositori e musicologi. La situazione dell’elettroacustica vede profilarsi una divaricazione tra la musique concrète di Pierre Schaeffer e l’elektronische musik di Karlheinz Stockhausen, una divaricazione che però si pone solo agli inizi di queste due esperienze, ma che dopo qualche anno (già dalla fine degli anni Cinquanta) non ha più ragion d’essere, se non per riferire un lavoro o un autore a una certa tradizione piuttosto che a un’altra. Rispetto a questa iniziale divaricazione, tra concreta ed elettronica, lo Studio di Milano si colloca in un ideale punto intermedio, alternativo all’una e all’altra tendenza, ma ugualmente vicino ad ambedue. Per un verso, nello Studio si punta a una maggiore emancipazione tecnologica della musica, per altro verso, si apre a un approccio più profondo, speculativo, al materiale sonoro, anche – come abbiamo detto – avvalendosi della vicinanza attiva di intellettuali come Piero Santi o Luigi Rognoni. Un’altra caratteristica che offre allo Studio milanese una fisionomia peculiare è anche il livello di sviluppo tecnologico che esso garantiva. I compositori che vi lavoravano erano supportati, da un lato, dal lavoro di Marino Zuccheri e Alfredo Lietti, responsabile degli impianti tecnici e del loro coordinamento. Dall’altro lato, vi è una notevole disponibilità di risorse tecnologiche, disponibilità del tutto funzionale a un’idea, a una concezione etica, umana della musica tecnologica, che prende corpo in una forma critica della ricerca e della sperimentazione. In questo contesto si colloca Maderna, uno dei padri indiscussi dell’avanguardia musicale europea, alla quale, nella seconda metà degli anni Cinquanta, presenta un’opera come Notturno (1956)[1], eseguita per la prima volta a Darmstadt il 20 luglio 1956, e rimasta per lungo tempo stretta tra altre due opere, una precedente, Musica su due dimensioni (1952), e una successiva, Continuo (1957). Essa si caratterizza per una particolare attenzione al timbro e all’“espressività della macchina”, esemplificata dall’uso “umano” di strumenti di controllo come il volume, che concorre a determinare gli inviluppi degli eventi sonori, e la velocità, che produce glissandi; fa uso di suono bianco filtrato in diversi spessori di banda e su diverse altezze di frequenza. L’effetto simile al flauto è ottenuto lavorando sullo spessore di banda (2 Hertz). Secondo Fred Prieberg, il pezzo non ha nulla a che fare con il “notturno” – per intenderci, quello nato con John Field e che poi ha trovato la massima espressione con Chopin –, quanto al lavoro compositivo di Maderna, concentrato, in questo come in altri casi, nelle ore notturne. È anche vero, però, che il titolo è programmatico e significativo di un’ispirazione poetica ed espressiva. In Notturno, «non si avverte nessun diaframma, nessun faticoso lavoro di conquista del mezzo tecnico in questo artificiale fischiar di flauti nella nebbia, dilatato in spessore polifonico di strati sovrapposti»[2]. Notturno, dicevamo, è rimasto schiacciato tra Musica su due dimensioni e Continuo. Il primo di questi due lavori ha un’importanza storica notevole, nella misura in cui dimostra efficacemente l’inconsistenza dell’idea per la quale la musica elettronica rappresenta la negazione, il superamento definitivo e, ancor di più, l’annullamento degli strumenti musicali tradizionali. Musica su due dimensioni delinea un particolarissimo dialogo tra uomo e tecnica, tra suono del flauto realizzato dal vivo e suono del flauto registrato su nastro. Ambedue le parti, inoltre, hanno un carattere e una IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 struttura spiccatamente “aperti”: «mentre il flautista alterna parti scritte in notazione tradizionale ad altre aleatorie, così egli si accorda con il tecnico anche per scegliere quale parte del lungo nastro a disposizione utilizzerà in quanto idonea ad essere “solcata” dalle figurazioni strumentali»[3]. Anche Continuo costituisce un passaggio importante nell’evoluzione della poetica e dell’estetica di Maderna, così come anche negli sviluppi della musica elettronica. L’opera – il cui titolo «fa riferimento chiaramente all’insistenza su sonorità lungamente tenute, assaporate in tutto il loro fascino timbrico, e inoltre su proprietà per così dire immanenti alla struttura elettronica pura»[4] e sta a indicare che tempo compositivo e materiale acustico in successione sono in relazione reciproca e sono accordati l’uno all’altro – manifesta un impianto tecnico-linguistico molto efficace e inedito, «che nell’apparente semplificazione della contrapposizione dialettica tra elementi fluidi e continui, con elementi granulosi e pulviscolari, determina una struttura dialogica che definisce un corpo sonoro suggestivo, attraversato da innervature, a loro volta percorse da vere e proprie correnti elettriche che lo scuotono fino alla drammatizzazione piena dell’ascolto»[5]. Continuo ha dischiuso nuovi orizzonti alla dimensione poetica nella musica elettronica. Massimo Mila è stato tentato dal pensiero che sarebbe potuta essere la «musica della notte» che Béla Bartók avrebbe creato se avesse avuto a disposizione il mezzo elettronico. È una composizione dalla forma ternaria, pur nella sua libertà e nella sua ampia articolazione. Tale forma è determinata dalla dinamica, la quale disegna una curva parabolica che, partendo dal pianissimo, vi ritorna, dopo aver attraversato una zona di maggiore intensità sonora. L’opera di Maderna (dai Concerti per solista e orchestra alle opere elettroacustiche, da quelle cameristiche a quelle radiofoniche) è emblematica di una «poetica della relativizzazione», frutto di un costante lavoro di collocazione e ri-collocazione di suoni e di processi. Vi è una accentuata tendenza alla ricerca di un significato altro e diverso del materiale sonoro che poteva scaturire da tali spostamenti e trasferimenti, materiale oggetto di una meticolosa attività di ripensamento, trasformato non in una ipotesi assoluta, ma in qualcosa «capace di circolare tra le esperienze compositive per arrivare forse alle soglie di un linguaggio realmente praticato»[6]. Dalle opere di Maderna emerge la raffinatezza del lavoro sulla materia sonora, soprattutto a livello microformale, generando ed organizzando – musicalmente, tecnicamente e poeticamente – microstrutture pulviscolari. Maderna si interroga sul ruolo musicale delle diverse sorgenti sonore, in un momento delicato dello sviluppo della musica tecnologica, nel quale la dimensione elettronica del suono sembrava stringere in un abbraccio mortale la dimensione acustica. La ricerca di Maderna si presenta, così, come un’investigazione incessante e in continua trasformazione delle diverse dimensioni alle quali si può aprire il materiale sonoro, tentando un inedito e proficuo dialogo tra livello naturale e livello sintetico (in Notturno, ad esempio, l’effetto come di flauti «propone – per dichiarazione del compositore – un aspetto di continuità tra i corpi sonori naturali e i mezzi sonori della musica elettronica»[7]), tra passato, presente e futuro, tra composizione, interpretazione ed esecuzione, all’interno di una assiomatica che ha al proprio centro l’impegno morale dell’artista o, per usare un’espressione di Mila, il «cattolicesimo dell’esecutore»[8]. Maderna direttore d’orchestra, Maderna compositore, Maderna esecutore, Maderna maestro. Sotto qualsiasi profilo lo si guardi, egli costituisce un modello esemplare, in quegli anni roventi, di intelligente e lucida attenzione all’apparizione della musica in tutte le sue forme. Nella sua esperienza la presenza costante del passato convive con la «più spregiudicata esplorazione dell’avvenire»[9]. Maderna non scivola mai nel feticismo della tecnologia, nel pericolo di sacralizzare il novum purché sia, con il solo obiettivo di aprire nuove strade, per il gusto di inventare un nuovo linguaggio. L’invenzione, per il compositore di Chioggia, deve sempre essere subordinata a un preciso intento IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 comunicativo, deve puntare alla combinazione e all’equilibrio tra contenuti espressivi e mezzi tecnici. L’elettronica, dunque, non è un fine, bensì un mezzo, uno strumento che va incontro «alla sensualità acustica di Maderna, alla sua fame del suono, alla sua brama di esplorarlo, sezionarlo, sapere com’è fatto, inventarlo e crearlo di sana pianta aggiungendo una nuova dimensione al mestiere di compositore: non più inventare solo delle idee musicali da esternare attraverso le risorse foniche della voce o degli strumenti, bensì creare, insieme con l’idea, anche il suono in cui essa si estrinseca»[10]. La sensualità acustica si manifesta anche nell’utilizzo del “canto”, di una rarefatta linea melodica, volendo utilizzare il vocabolario tradizionale, che, con le parole di Maderna, possiamo chiamare «aulodía», il «canto di uno strumento a fiato[11], e pertanto univoco, incapace – in linea di massima – di produrre suoni simultanei, come accade invece agli strumenti a corde. Melodia assoluta, dunque»[12]. Ancora una volta una prova di incontro, il tentativo di ricombinare, creare e ricreare oscillando tra natura e sintesi, tra passato, presente e futuro. Per concludere, non ci resta che augurarci ciò che Raymond Fear si augurava diversi anni addietro, auspicando un costante ritorno a Maderna attraverso la sua musica: «It is to be hoped that a fuller and more just appreciation of Maderna’s music will be made possible, and this can only come about through greater opportunities to hear them: taking into account his unique position as an object of admiration and affection from the composers of his generation, it is only to be regretted that the highly attractive and approachable works of this genial personality are today so neglected»[13]. NOTE [1] Per una approfondita analisi di Notturno, cfr. N. Scaldaferri, Musica nel laboratorio elettroacustico. Lo Studio di Fonologia di Milano e la ricerca musicale negli anni Cinquanta, Quaderni di «Musica/Realtà», n. 41, lim, Lucca 1997, pp. 89-130. [2] M. Mila, Maderna musicista europeo, Maderna musicista europeo, Einaudi, Torino 1976, p. 22. [3] A. Gentilucci, Introduzione alla musica elettronica (1972), Feltrinelli, Milano 1982, p. 59. [4] Ivi, p. 58. [5] F. Galante, N. Sani, Musica espansa. Percorsi elettroacustici di fine millennio, Ricordi-Lim, Milano 2000, p. 78. [6] Ivi, p. 77. [7] M. Mila, Maderna musicista europeo, cit., p. 22. [8] Ivi, p. 5. [9] Ivi, p. 7. [10] Ivi, p. 21. [11] La preferenza per gli strumenti a fiato e, in particolare, per il flauto è da ricondurre anche all’intenso rapporto umano e professionale che Maderna ha intrattenuto con Severino Gazzelloni, ma anche con l’oboista Lothar Faber, il quale gli ispira i Pezzi per oboe solo del 1962 e i tre Concerti (1962, 1967 e 1973). [12] M. Mila, Maderna musicista europeo, cit., p. 36. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 [13] R. Fearn, Bruno Maderna: From the Cafè Pedrocchi to Darmstadt, in «Tempo», n.s., no. 155 (Dec., 1985), pp. 8-14: 14. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Il caso Strauss-Kahn e la discussione femminista francese Intervista a SYLVIA DUVERGER di RICCARDO ANTONIUCCI Lo scandalo sessuale che ha investito Dominique Strauss-Kahn ha acceso un importante dibattito sulla questione della sessualità nella società contemporanea e sulle sfide attuali del femminismo. Anche per questa corrente, infatti, il rischio che idee progressive passino al servizio della reazione è dietro l’angolo: incarnato da Marcela Iacub. Tra i principali eventi registrati nella cronaca francese degli ultimi tempi, e tra quelli che maggiormente hanno avuto un riflesso nel dibattito intellettuale, c’è senz’altro lo scandalo che ha investito Dominique Strauss-Kahn. Dal momento dello scandalo, nella primavera del 2011, le voci che sono intervenute sono state moltissime. Una delle più interessanti, tanto per la sua posizione di spicco nel contesto intellettuale francese che per il carattere estremamente provocatorio delle sue tesi, è quella di Marcela Iacub. Risale a pochi giorni fa la notizia che il premio letterario della “Coupole” 2013 (che da dieci anni incorona in Francia un libro «che dà prova di spirito») è stato assegnato al suo Belle et bête, racconto senza reticenze della relazione della nota sociologa di origini argentine con il tanto famoso quanto famigerato ex presidente del FMI. Al momento della sua uscita, lo scorso febbraio, questo testo ha suscitato delle reazioni esplosive. Da parte dei quotidiani, prima di tutto, che ne hanno osannato il valore letterario sottolineando anche il peso politico del gesto di mettersi, letteralmente, “a nudo”. Poi da parte di Strauss-Kahn, che ha denunciato l’autrice del libro e il suo editore (Stock) per violazione della privacy, vincendo la causa. E, infine, da parte delle teoriche e delle attiviste femministe francesi, che, andando oltre la questione della vita privata di DSK, l’hanno interpretata come conseguenza della sottomissione delle donne all’immaginario maschilista dominante. Di questa vicenda e del contesto sociale e teorico in cui si inscrive, si è parlato con Sylvia Duverger, giornalista, femminista e curatrice del blog “feministes en tous genres” ospitato dal Nouvel Observateur, attualmente dottoranda in filosofia all’università di Paris 8 con Elsa Dorlin. Partendo da una ricostruzione sintetica del caso di cronaca e della figura di Marcela Iacub, si è poi preso lo spunto per parlare dello stato della teoria femminista francese e delle ultime sfide rappresentate dalle questioni della laicità e dell’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali. Una versione più lunga di questa intervista è disponibile (in più parti) qui. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Dalla sua posizione di giornalista, lei si è occupata del più recente fra gli scandali riguardanti Dominique Strauss-Kahn. Quello della sua battaglia giudiziaria contro Marcela Iacub, autrice di un libro (Belle et bête, Stock, Paris 2013) che ha fatto scalpore e indignato l’ex patron dell’FMI, perché rendeva pubblici i particolari di una relazione amorosa tra i due. Per prima cosa le chiederei di riassumere i termini della vicenda per i lettori italiani. Sylvia Duverger – Dopo alcuni articoli della Iacub, pare che Anne Sinclair, all’epoca ancora sposata con DSK, abbia scritto a Marcela Iacub per ringraziarla di aver preso le difese di suo marito. DSK le avrebbe scritto a sua volta per ringraziarla. Dopo qualche esitazione, lei alla fine gli ha chiesto di poterlo incontrare. È quanto racconta in Belle et bête, uscito il 27 febbraio scorso, che è valso al suo editore e a «Le Nouvel Observateur» una condanna per violazione della vita privata di DSK. «Le Nouvel Observateur», infatti, aveva pubblicato il 21 febbraio a tutta pagina degli stralci di Belle et Bête in anteprima, insieme a un’intervista esclusiva con Marcela Iacub. Anche la prima pagina era dedicata all’affaire Iacub-DSK, con un titolo da tabloid “La mia storia con DSK”. Teoricamente «Le Nouvel Observateur» dovrebbe essere un settimanale di sinistra e mantenere un certo livello politico, culturale e perfino morale – Jean Daniel, che ha fondato la rivista, si dice discepolo di Albert Camus. Vari critici letterari stimati hanno incensato Belle et bête, sul «Nouvel Obs» e su «Libération», anche se gli estratti che si potevano leggere su «Le Nouvel Observateur» non permettevano di giudicare veramente la qualità letteraria dell’opera. In realtà, la cosa che attirava l’attenzione di tutti era il fatto che si trattava di un racconto, romanzato, della relazione tra i due. Anche se il nome di DSK non è citato espressamente nell’opera, nell’intervista al «Nouvel Obs» l’autrice ha precisato che l’«uomo-porco» di cui parla nell’autofiction è effettivamente DSK. Cosa pensa dell’esito della vicenda giudiziaria, cioè della condanna di Marcela Iacub e del suo editore a risarcire Dominique Strauss-Kahn? In fondo, non si tratta di una misura un po’ “tardiva”, se è intesa veramente a proteggere la privacy di DSK? Ormai le cronache scabrose della sua vita privata sono già di dominio pubblico. S. D. – Jean-Marc Roberts, l’editore, e Marcela Iacub sapevano benissimo di esporsi a un processo. La cosa peggiore sarebbe stata il divieto di circolazione dell’opera, che vende bene, molto bene. Jean-Marc Roberts è morto lo scorso 25 marzo, ma aveva dichiarato più di una volta che lo avrebbe rifatto. Marcela Iacub, invece, ha ricevuto molte critiche da parte di intellettuali, amici e amiche. Per rispondere a queste critiche, ha indossato la maschera da dozzinale psicanalista, dicendo che la levata di scudi contro il suo libro è causata dalla denegazione da parte dei suoi critici dell’«eccitazione sessuale» suscitata in loro dal suo racconto. In altre parole, secondo la Iacub chi la attacca lo fa soltanto perché lei avrebbe avuto il coraggio di scendere dal piedistallo di intellettuale profeta di paradossi e di aver fatto della sua passione amorosa qualcosa di «creativo» e di «storico». Io direi piuttosto, come ha detto Peggy Sastre a questo proposito, che «l’ego è decisamente un flagello», e che la pomposità narcisistica di Marcela Iacub, alla fine, non è più divertente dell’insussistenza del suo discorso. A dire la verità, ho l’impressione che questo sia l’ultimo atto della commedia del suo screditamento. Ma, forse, sono troppo ottimista, e non è così impossibile che la nostra epoca si lasci affabulare ancora per un po’ da questa vacuità fregiata di sofismi. Per tornare alla sentenza, in virtù della quale DSK ha ottenuto l’ingente somma di 75000 euro, il problema è che essa dà l’impressione che quest’uomo possa legittimamente invocare la morale e il rispetto della privacy… mentre è stato riconosciuto colpevole di aggressione sessuale in Francia, nei confronti della scrittrice Tristane Banon, e che ha verosimilmente aggredito e violentato anche IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Nafissatou Diallo vista la somma che le ha versato. Inoltre, l’ultima notizia è che anche la giornalista italiana Myrta Merlino ha accusato DSK dello stesso comportamento. Ricordo che Marcela Iacub, che è in un’ottima posizione per poter sapere l’ordine di questa somma, non ha negato la sua esistenza, anzi. Personalmente sono d’accordo con la sociologa femminista Christine Delphy, quando sostiene che il solo fatto che ci sia stato un accordo finanziario con Nafissatou Diallo costituisce una confessione di colpevolezza. Ad ogni modo, c’è chi ha parlato di violazione della libertà di stampa… S. D. – In termini di libertà di stampa, questa decisione costituisce un precedente. Tant’è che la maggior parte degli avvocati specializzati in questo settore sono rimasti sorpresi dalla severità della sentenza. Ma alla fine né l’editore, né Iacub, né «Le Nouvel Observateur» hanno fatto ricorso in appello. Ritengono che sarebbe stato controproducente, e che senz’altro le vendite compensano i danni e gli interessi. La mia impressione è che la nota che Strauss-Kahn ha ottenuto di far inserire nell’esergo di Belle et Bête sia in realtà da intendere come un modo per rivendicare il suo carattere di protagonista della favola, dato che ha fatto scrivere che quest’ultima «viola la sua vita privata». Avrebbe potuto riderci sopra, accontentarsi di dire che era tutto frutto di invenzione. Ma non l’ha fatto. Preferisce quasi apparire come il co-autore del “romanzo” di Marcela Iacub, come se quei 75000 euro di indennizzo fossero i suoi diritti di autore. Ma il punto è che Belle et bête riesce a convincere definitivamente che Strauss-Kahn è un uomo che non rispetta né gli uomini né le donne. Non persegue altro che il suo bene, o piuttosto il suo piacere perverso. Un’emulo di Sade. Un cinico e un violento. Per questo ha ritenuto necessario querelare. In realtà per dare al libro quella pubblicità che gli è tanto più necessaria tanto più quello che racconta è privo di interesse, sia dal punto di vista letterario che intellettuale, ci sarebbe stato bisogno di un divieto di pubblicazione. Strauss-Kahn invece non l’ha chiesto, o meglio lo ha chiesto solo a titolo sussidiario; sapeva, cioè, che avrebbe prevalso il principio di libertà di espressione. Per il resto, l’immagine del «Nouvel Observateur» non ne esce gran che bene da questa storia. Gli esperti di media dicono che se è assunto questo rischio è solo perché finanziariamente la stampa è messa molto male. Al di là della cronaca, la cosa interessante di questo libro sono anche le tesi che sostiene. Perché la posizione della Iacub sembra fondarsi su una prospettiva teorica che, partendo dall’idea della liceità di qualunque modalità di soddisfazione del piacere sessuale, va poi di fatto a negare l’esistenza del dominio maschile. Lei citava poco fa i discorsi di Iacub sulla liberazione sessuale, in rotta di collisione con la teoria femminista… S. D. – Marcela Iacub ha scritto una serie di libri notevoli, L’empire du ventre in particolare. In queste opere, dà prova di «giurista esperta e rigorosa», come ha detto Yvonne Knibiehler, femminista e storica della maternità, che ha dedicato a questo libro una recensione elogiativa sulla più importante rivista di storia femminista francese, «Clio». (1) Inoltre ha lavorato a fianco di studiosi di politica sessuale, come il brillante sociologo Eric Fassin, di cui bisogna assolutamente leggere L’inversion de la question homosexuelle se si vogliono comprendere le polemiche sorte intorno al matrimonio per tutti e tutte, oppure come Daniel Borrillo, professore di diritto all’università di Nanterre. Ma la Iacub è anche, da molti anni, una firma di «Libération», dove invece fa di tutto per “fare notizia”. I suoi strumenti ricorrenti per raggiungere questo scopo sono il paradosso insostenibile, la provocazione e la malafede. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Dalle sue colonne si scaglia contro le femministe abolizioniste. Le abolizioniste, riunite in gruppi come Osez le féminisme, Collectif national du droit des femmes, o il più noto Femen, si propongono di debellare la prostituzione attraverso la penalizzazione del cliente (il che è contestabile, ed è in effetti una questione molto dibattuta in Francia). Dal canto suo, Marcela Iacub si guarda bene dal parlare della tratta delle donne. La gran parte delle prostitute non sono donne che hanno scelto questo mestiere, ma che vi sono state obbligate. La Iacub ritiene che la prostituzione sia un mestiere come un altro, non più rischioso e probabilmente più gratificante e molto più remunerativo di altri. Anche se afferma di proteggere la libertà sessuale, nei suoi articoli difende in realtà l’impunità degli sfruttatori, degli aggressori sessuali. E accusa le donne che denunciano di mentire, di non accettare il proprio desiderio, di voler recuperare quel potere sugli uomini che nella sessualità verrebbe loro a mancare. Cito da Une société de violeurs, che riprende e sviluppa idee già esposte su Libération o in Qu’avez-vous fait de la libération sexuelle? (Flammarion, 2002): «Quando ha c’è stato un atto sessuale, il consenso può essere tolto in modo retroattivo, come presa di coscienza della propria libertà, della dominazione, e trasformarsi così in un atto di emancipazione. Dietro l’espressione dello stupro come estremo atto di dominazione, si deve intendere, in verità, il fatto che qualificare una relazione sessuale come obbligata è un potere supremo di cui la donna deve disporre in una società giusta e che aspira all’uguaglianza dei sessi. E questo potere supremo si manifesta nella denuncia per stupro. È quindi quel discorso che non può essere contraddetto, ma che deve essere registrato come vero. Conferire un simile potere alle donne significa trasformare il luogo della loro massima oppressione nel luogo del ribaltamento della dominazione. (pp. 109-110) La Iacub non si cura del fatto che il numero delle denunce per stupro è di gran lunga inferiore al numero degli stupri effettivi, stando a quanto si evince dalle indagini condotte da organismi statali: secondo una statistica del 2010, in Francia solo il 9,3% delle vittime denunciano, e il numero reale degli stupri potrebbe avvicinarsi a 100 000. (2) Una delle tesi sviluppate in Une societé de violeurs?– non ci stupiremo – è che le dichiarazioni rese dalle donne che denunciano violenze sessuali sono poco attendibili. La Iacub appare così prostrata al piacere maschile – quale che sia – che non le passa per la testa di immaginare che delle donne possano rifiutarsi di subire rapporti sessuali violenti. In ogni caso, preferisce dar credito alle dichiarazioni degli accusati di aggressione piuttosto che a quelle delle vittime, come se ignorasse quello che le inchieste invece confermano, anno dopo anno, vale a dire che in larghissima parte sono gli uomini ad aggredire le donne, e la reciprocità è rarissima. Per esempio, l’81% delle vittime dei 425 casi di stupro studiati dalla sociologa Véronique Le Goaziou riguardano donne, e il 98% degli imputati sono uomini (e tra le 9 donne imputate, 4 lo sono state soltanto per complicità nello stupro) (3). In ultima istanza, forse la cosa più interessante del discorso della Iacub – e che permette anche di tracciare una linea di continuità tra le sue opere – è ciò che si potrebbe definire, con qualche forzatura, una “teoria del porco” (théorie du cochon). Che consisterebbe, se ho ben capito, nel ridurre il godimento sessuale dell’individuo a un piano di espressione dell’onnipotenza del desiderio, oltre e indipendentemente da ogni norma sociale. Su questo piano, ogni maniera di godere è ammessa. È su questa concezione che si fonda la sua critica alle femministe “radicali” che si battono contro la prostituzione, che porta a quella strana parafrasi che ha citato, e con la quale Iacub arriva a sostenere che, dal punto di vista strettamente teorico, “non c’è veramente stupro”. Come risponde il femminismo a questo attacco, senza cadere nel moralismo? IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Il problema in questo “sistema” iacubiano è il totale misconoscimento dei rapporti sociali tra i sessi; anzi, la loro negazione pura e semplice. Come se gli individui, di qualunque sesso, classe sociale, etnia di appartenenza, disponessero della stessa libertà, delle stesse possibilità di partenza. Marcela Iacub pretende di essere di sinistra, ma in realtà è una liberale, perché in fondo non fa altro che difendere la volpe nel pollaio. Ci si dovrebbe inoltre interrogare sulla posizione politica di «Libération» e del «Nouvel Observateur», dal momento che in questi anni le hanno steso un tappeto rosso. E che non si venga a dire che non ci sono rapporti tra il liberalismo dei costumi e il liberismo economico e politico, perché la concezione che li sottende è una e soltanto una: quella del soggetto autonomo, responsabile dei propri desideri, delle proprie relazioni sessuali così come dei suoi atti, e che si merita quello che gli accade, che sia un rapporto di dominio o di sottomissione, ricchezza o povertà, gloria o esclusione sociale. In Une société de violeurs? Iacub è andata anche più in là con queste tesi dal sapore decisamente maschilista: nega che gli uomini godano ancora della maggior parte dei poteri – politico, economico, mediatico, intellettuale, culturale ecc. – e accusa in particolare le femministe radicali. Ho dedicato a questo libro sconcertante un lungo articolo, un po’ traboccante, a dire la verità. Voglio citarne alcuni passaggi: “il femminismo radicale ci invade con la sua moralità e il suo odio del sesso” (p. 133); “il fatto di concepire lo stupro come un atto di dominazione serve in primo luogo a giustificare la creazione dei divieti generali di intrattenere alcuni tipi di rapporti per il motivo che questi ultimi andrebbero a nuocere tutte le donne poiché attenterebbero alla loro dignità” (p. 108). Per la Iacub, in altri termini, non è lo stupro che le femministe radicali vogliono rendere impossibile, ma delle determinate pratiche masochiste. Pratiche cui è difficile consentire, salvo essere Marcela Iacub, visto l’evidente carico di umiliazione delle donne che le subiscono. Nell’universo iacubiano, è come se le donne stuprate avessero desiderato di essere negate in quanto persone. In questi casi di stupro, la giurista si accontenta di sofisticazioni, in tutti i sensi del termine. Iacub non sembra essere in grado di concepire una sessualità femminile che non sia masochista. Che concetto sovversivo! È molto meglio a questo punto leggere Ovidie, l’ex attrice porno laureata in filosofia, che ha scritto Sexe & Philo con Francis Métiver. Lei ha una visione molto più stimolante e allegra della sessualità femminile, e anche dalla portata molto più emancipatrice (4). La difesa delle femministe contro le accuse di Iacub è innanzitutto la decostruzione dei sofismi di cui si serve (cosa che tento di fare anch’io). Sulla questione del moralismo e del puritanesimo: basti ricordare, come ha fatto Clémentine Autain (5), che Iacub lavora perché le donne non possano godere liberamente del loro corpo. Denunciare lo stupro non è puritanesimo, non è moralismo, è difendere la libertà sessuale delle donne, dei bambini, e degli uomini considerati effeminati solo perché non si mettono in mostra con quella pagliacciata della virilità. Non difendere la libertà dei dominati e delle dominate, dei non violenti e delle non violente significa confiscarla a beneficio dei dominatori e dei violenti. I desideri dei dominati e delle dominate non valgono di meno di quelli dei dominatori. Ma soprattutto il loro desiderio, eccezione masochista a parte, non è di essere dominati. Perciò, la democrazia dovrebbe essere femminista. Oppure, per dirlo in un altro modo: finché uno Stato, una legislazione non saranno femministi, cioè finché non mireranno ad assicurare l’uguaglianza effettiva di tutti e di tutte, non saranno democratici. Il 2 aprile 2011, quindi più di due anni fa, «Libération» pubblicò un manifesto firmato da 343 femministe, tra cui la sottoscritta, che chiedeva «l’uguaglianza ora». Bisogna che la legittimità di questa esigenza di giustizia sia pienamente riconosciuta e messa in pratica da tutti, sempre e dovunque. Forse a partire da qui possiamo distanziarci un po’ rispetto a questo caso specifico, e parlare, più in generale, dello stato di salute del femminismo in Francia. Si potrebbe partire dai recenti eventi IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 politici e sociali che hanno interpellato fortemente le teorie femministe: mi riferisco al dibattito sul matrimonio per tutti e tutte. Allora, per farla breve, che ne è del femminismo francese? S. D. – Allo stato attuale, in Francia esistono molte correnti femministe. Le femministe abolizioniste, innanzitutto, spesso materialiste e radicali, che vogliono debellare la prostituzione, e per questo stimano che la penalizzazione del cliente sia un buon metodo. Sono queste femministe che denunciano la pornografia nel suo insieme, perché tratta le donne come oggetti esprimendo e riconfermando la dominazione maschile. È una corrente molto presente anche in Quebec. Penso in particolare alla femminista Sisyphe (6). Poi ci sono le femministe sex-positive o pro-sex, che ritengono dal canto loro che le abolizioniste neghino il fatto che le «lavoratrici del sesso» siano soggetti dotati di capacità di analisi e di scelta. Per esempio, in un’intervista che ho recentemente realizzato, Emilie Jouvet, regista di film porno lesbici femministi, qualifica le Femen (che sono contro qualunque religione, contro qualunque prostituzione e contro qualunque pornografia) come machisti inconsapevoli. Però, oltre a quella della sessualità, c’è anche un’altra questione, anch’essa molto presente nel dibattito politico francese, che ha diviso le femministe. Mi riferisco alla questione della «laicità», in particolare nel senso della posizione da assumere rispetto alla nuova modalità conservatrice di recupero di questo concetto in un quadro discorsivo che tende a giustificare politiche razziste o di esclusione delle minoranze. Penso, per esempio, al dibattito intorno alla legge di Sarkozy che vieta di indossare il velo islamico nei luoghi pubblici. S. D. – Tra le femministe radicali, alcune si sono impegnate molto nella lotta antirazzista. Come Colette Guillamin e Christine Delphy, con la quale ho realizzato tra l’altro una lunga intervista tempo fa (7). Nella sua raccolta di testi intitolata Classer, dominer: qui sont les «autres»? quest’ultima ha denunciato il modo in cui Chirac, Sarkozy e anche altri uomini politici di destra, oppure intellettuali neo-reazionari come Alain Finkielkraut, si sono impadroniti della questione dei diritti delle donne musulmane, autoproclamandosi addirittura femministi, salvo poi dare prova, in Parlamento, sui giornali o alla radio, di un sessismo spesso strabiliante (8). Christine Delphy assimila questo atteggiamento a quello dei coloni che attribuivano ai colonizzati un regime sociale arretrato e patriarcale, proprio mentre il codice civile napoleonico trattava le donne come delle minorate, non molto più libere rispetto ai loro mariti delle donne musulmane (9). I coloni cercarono di impadronirsi delle donne dei colonizzati. «I coloni hanno squillato le trombe della liberazione della donna solo per distruggere l’identità indigena» (10). Dopo l’indipendenza, prosegue Delphy, i bambini delle ex-colonie che vivevano in Francia sono diventati francesi. Ora, stigmatizzando l’Islam, si vogliono relegare questi cittadini su un piano secondario. Dal 1989, lo hijab, il burqua e la poligamia rappresentano l’alibi perfetto per questo tipo di politica (11). Nel 2011, in un’intervista con Daniel Bertaux, Catherine Delcroix e Roland Pfefferkorn (12), l’autrice afferma che «la società francese nel suo insieme, con l’aiuto della gran parte delle donne che si dicono femministe, è riuscita a prendere due piccioni con una fava: da un lato stigmatizzando una parte della popolazione come portatrice di difetti ignobili – di sessismo, omofobia e antisemitismo – e, dall’altro, assolvendo la società dominante dall’accusa di sessismo, con formula piena. Il risultato è che non si parla più di una generale impostazione sessista della nostra società, considerando gli uomini a monte della loro appartenenza a gruppi etnici. Per esempio, Élisabeth Badinter dice che “nei francesi bianchi, che siano ebrei o cattolici, non si può davvero parlare di oppressione delle donne”» (13). Ma la realtà dei fatti mi sembra ancora più complessa di così, perché la posizione di Élisabeth Badinter, a favore di un féminisme à la française è in realtà molto lontana da quanto sostengono in IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Francia le femministe… femministe. Direi quasi che questo “femminismo alla francese” è così poco femminista che preferisce, come nel caso di Marcela Iacub, prendere le difese dei «seduttori» sullo stile di Dominique Strauss-Kahn, piuttosto che delle donne che li denunciano (a torto, secondo loro) per violenza sessuale. Perché – è ovvio, no? – in un Paese civile come il nostro simili violenze non possono verificarsi che tra gli immigrati, di prima o seconda generazione… Una cosa è sicura: la questione dello hijab nelle scuole posta nel 1989 e, poi, quella del burqua nei luoghi pubblici posta nel 2010 hanno senza dubbio messo il femminismo francese in crisi (14). Nel momento in cui si esce dal terreno della caricatura polemica, si deve necessariamente prendere atto del fatto che «più di una femminista ha sperimentato l’impressione dolorosa di ritrovarsi davanti a una scelta impossibile, per cui una cosa o l’altra andavano sacrificate». La scelta obbligata tra la lotta contro il sessismo e quella contro il razzismo. Non si deve tacere il fatto che nel 2004 le femministe laiche schierate contro la legge sul divieto del velo nei luoghi pubblici, e riunite sotto lo slogan «ni loi ni voile» hanno escluso le donne con il velo dalla manifestazioni per i diritti delle donne e contro la violenza. Lo stesso comportamento hanno tenuto anche le femministe della Marche mondiale des Femmes (MMF) o, in tempi più recenti, il gruppo Osez le féminisme (15). «Quante feste delle donne, iniziative femministe, convegni, conferenze, manifestazioni sono state segnate negli ultimi anni dall’esclusione di alcune donne da parte delle “femministe”, solo perché indossavano il velo», ha scritto la sociologa e femminista islamica Zahra Ali (16). È logicamente impossibile difendere in nome dell’uguaglianza dei sessi la possibilità di negare l’accesso alla scuola pubblica per le ragazze con il velo, soprattutto perché questa misura si rivolge unicamente alle ragazze. Una posizione davvero femminista rispetto a questo punto è invece quella di battersi perché queste stesse donne possano contare quanto gli uomini in tutti i tipi di corso o di insegnamento, dallo sport alle scienze naturali. Da parte mia, ho firmato l’appello contro la legge che vietava il velo nei luoghi pubblici, e dopo aver letto il libro curato da Zahra Ali (Féminismes islamiques) mi sono convinta ancor più del fatto che le femministe islamiche non sono per nulla arretrate nella lotta contro il sessismo. Anzi, stanno facendo un lavoro considerevole in favore dei diritti delle donne nei paesi musulmani o nelle comunità musulmane occidentali. Lavorano perché le donne prendano in mano il loro destino, privato, pubblico e religioso. NOTE (1) http://clio.revues.org/1492 (2) Sintesi del rapporto 2010 dell’Observatoire National de la Délinquance et des Réponses Pénales (ONDRP) realizzata dal Collectif Féministe Contre le Viol e dalla Fédération Solidarité Femmes. Fonte: http://www.observatoire-parite.gouv.fr/violences/reperes-statistiques-79/ (3) V. Le Goaziou, Le Viol, aspects sociologiques d’un crime, La documentation française, 2011, p. 41 (4) http://www.liberation.fr/societe/2012/12/14/prostitutionnellement_867737 (5) Giornalista co-direttrice della rivista «Regards» e militante comunista, vicina al Nouveau Parti Anticapitaliste. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 (6) http://sisyphe.org/. (7) Disponibile all’indirizzo: http://www.cairn.info/resume.php?ID_ARTICLE=RDM_039_0308. (8) Cfr. C. Delphy, Antisexisme ou antiracisme? Un faux dilemme, in Classer, dominer. Qui sont les autres ? La Fabrique, Paris 2008, p. 176. (9) C. Delphy, Race, caste et genre en France, in op. cit., p. 143. (10) Ivi, p. 144. (11) Come sottolineano, oltre alla Delphy, i firmatari della petizione Un voile sur les discriminations («Le monde», 17 dicembre 2003), tra cui il “Collectif des feministes pour l’égalité (CFPE); il “Collectif contre l’islamophobie en France” (CCIF); il movimento/partito “Les Indigènes de la République”; gli “Indivisibles” (guidati da Rokhaya Diallo); il collettivo “TumulTueuses” e anche gli autori del libro Les féministes blanches et l’empire, La Fabrique, Paris 2012. (12) Pubblicata in «Migrations et sociétés», XXIII, n. 133, gennaio-febbraio 2011, consultabile anche sul blog di Christine Delphy all’indirizzo seguente: http://delphysyllepse.wordpress.com/2011/10/28/la-fabrication-del%E2%80%99%C2%ABautre%C2%BB-par-le-pouvoir/ (13) E. Badinter, La victimisation est aujourd’hui un outil politique et idéologique, «L’Arche», n. 549-550, novembre-dicembre 2003; cit. in ivi. (14) Si veda a questo proposito il libro di Félix Boggio Éwanjé-Épée, Stella Magliani-Belkacem, Les Féministes blanches et l’empire, La fabrique, 2012, p. 7. (15) http://www.zelink.com/profil/MarspourtoutEs. L’MMF è un’associazione che dal 2000 si batte contro la miseria e le violenze che affliggono le donne nel mondo. Osez le féminisme è un’associazione creata nel 2009 e vicina al Partito Socialista francese. Cfr. http://www.osezlefeminisme.fr/article/linterdit-vestimentaire-un-instrument-constant-de-ladomination-masculine-a-travers-les-ages (16) Z. Ali, Journée des femmes et exclusion des musulmanes. Mais que font les féministes?, 8 mars 2012, http://oumma.com/11650/journee-des-femmes-et-exclusion-des-musulmanes-mais-qu . Cfr. anche, su questa stessa rubrica, la recensione al libro curato da Zahra Ali Féminismes islamiques, La Fabrique, 2012: http://ilrasoiodioccammicromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/05/20/il-femminismo-islamico-una-prospettivapostcoloniale/. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Le prospettive dell'antropologia filosofica. Dignità umana, pluralismo, sfera pubblica: intervista a Hans-Peter Krüger di GIORGIO FAZIO Negli ultimi due decenni si è assistito nel dibattito filosofico tedesco ad una rinascita d’interesse per i temi e le prospettive dell’antropologia filosofica. A questo proposito, abbiamo intervistato uno dei maggiori esponenti in Germania dell’impostazione di pensiero dell’antropologia filosofica: il filosofo tedesco Hans-Peter Krüger. Esperto di Plessner, Krüger è stato anche un intellettuale attivo nei movimenti di opposizione democratica nella DDR, subendo per anni, per questo suo impegno, il divieto d’insegnamento e di pubblicazione. Negli ultimi due decenni si è assistito nel dibattito filosofico tedesco ad una rinascita d’interesse per i temi e le prospettive dell’antropologia filosofica: un’impostazione di pensiero nata nella prima metà del XX secolo in Germania, negli anni tormentati ma culturalmente esplosivi della repubblica di Weimar, e che si è soliti ricondurre ai nomi di Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen. Tra questi tre autori, è stato soprattutto il pensiero di Plessner a essere divenuto oggetto di una rinnovata attenzione critica. Ciò non deve stupire. Plessner, infatti, oltre ad essere stato il primo ad elaborare un progetto sistematico di antropologia filosofica - quello di Scheler non vide mai la luce per la morte del filosofo, avvenuta nel 1928 - è stato anche un ispiratore della sociologia moderna e un animatore del dibattito culturale e politico della Repubblica federale tedesca. Nel secondo dopoguerra, ha ingaggiato molti confronti con le altre correnti filosofiche del dibattito tedesco – in particolare, con la teoria critica e con l’esistenzialismo - nonché con Gehlen, l’altro esponente dell’antropologia filosofica, macchiato dal coinvolgimento con il nazionalsocialismo e fino all’ultimo interprete di una declinazione conservatrice di questo indirizzo di pensiero. Analista acuto dei problemi e delle patologie culturali della storia tedesca, Plessner ha coniato la famosa locuzione «nazione in ritardo», per indicare quella non contemporaneità della cultura politica tedesca di inizio novecento, rispetto agli standard della modernità politica europea ed occidentale, che è stata alla base, secondo la sua ricostruzione - compiuta nel libro del ’35 Die Verspӓtete Nation - [1] del successo del nazionalsocialismo. Già negli anni di Weimar, però, Plessner aveva sviluppato una critica del radicalismo politico rivoluzionario di sinistra e di destra, richiamando «i limiti della comunità» e fondando una concezione della sfera pubblica quale ambito di apertura e di confronto politico con l’altro e con l’estraneo, mediato dal diritto quale garante del pluralismo e affidato alle virtù del tatto e della tattica.[2] Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, tornato in Germania dal suo esilio in Olanda dovuto alle sue origini ebraiche, Plessner ha svolto poi un ruolo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 fondamentale nell’ispirare la redazione del primo articolo della Legge fondamentale tedesca: «la dignità dell'uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla». Ed è forse proprio il concetto di dignità umana, insieme a quello, ad esso connesso, d’insondabilità verso il futuro della natura umana, il canale di accesso più idoneo per entrare nel laboratorio concettuale e multidisciplinare del suo pensiero. L’antropologia filosofica in Plessner nasce da un’esigenza fondamentale: ripensare una concezione “essenziale” della natura umana, un criterio di riconoscibilità dell’identità e dell’universalità antropologica, dopo che si è sperimentato come le tradizionali immagini religiose e metafisiche del mondo hanno perso il loro valore universalmente vincolante. E quasi presagendo ciò che, nel giro di pochissimi anni, si sarebbe consumato con l’eugenetica e la biopolitica nazista, questa rifondazione ha avuto fin dall’inizio un intento eminentemente “critico”: quello di determinare i limiti oltre i quali saperi, tecniche, poteri, ideologie, mettono a repentaglio le condizioni di possibilità dell’uomo quale essere vivente di carattere personale, i presupposti appunto della sua «intangibile» dignità umana e della sua insondabilità pratica verso il futuro. Plessner sgancia però il concetto di dignità umana dal riferimento tradizionale ad una destinazione del genere umano all’autodeterminazione razionale e morale, e ripensa questo concetto come la prerogativa dell’uomo quale essere animale di un certo tipo, mortale e vulnerabile, la cui specifica autonomia morale può prendere forma solo in riferimento alla propria determinazione naturale e alla propria dipendenza sociale. Il principio ispiratore di questa antropologia filosofica è allora che, per riuscire a determinare in cosa consiste il tratto specifico e peculiare della natura umana, bisogna innanzitutto coglierne gli aspetti che la legano al resto del vivente: assumere l’umano come un fenomeno che emerge dalla vita e che da questa non può mai svincolarsi del tutto. Ma che cos’è la vita? L’intuizione fondamentale di Plessner a questo proposito è stata che il tratto qualificante di ogni essere vivente, ciò che lo distingue dall’essere inorganico, è la sua «prestazione limite»: il tracciare un limite o un confine rispetto all’esterno, «che contemporaneamente fa apparire l’ambiente nel modo ad esso specifico e fa apparire il limite stesso all’interno di un ambiente».[3] E questo già al livello più elementare della vita: quello di una cellula, che diventa un essere vivente all’interno di un ambiente inanimato, appunto, soltanto grazie alla membrana. Anche l’uomo, in quanto vivente, quindi, è inserito all’interno di limiti corporei e in un ambiente corrispondente, è “posizionato”, ma la sua caratteristica peculiare, la sua differenza rispetto all’animale, è quella di trovarsi nello stesso tempo al di fuori di questi limiti e aperto al mondo. L’uomo ha una «posizionalità eccentrica»: è un vivente che può prendere distanza da sé e dal suo ambiente, oggettivare sé stesso e il mondo circostante. In questo senso, afferma Plessner, è un essere costitutivamente utopico.[4] Il punto è che l’uomo non può vivere soltanto in questo squilibrio «eccentrico» rispetto ai suoi fondamenti naturali, ai quali comunque rimane vincolato: per vivere è costretto, a partire dalla sua eccentricità, a dotarsi di ambienti artificiali, di nicchie culturali, che lo mettono in grado di fronteggiare l’illimitata contingenza a cui la sua stessa posizionalità – che rimanda ad una natura biologica povera d’istinti e di risposte geneticamente programmate agli stimoli ambientali – lo mette in relazione. Da qui il vero e proprio «paradosso» della natura umana, che consiste nel dovere oscillare continuamente tra due istanze tra loro in contraddizione, ma entrambe necessarie per poter approntare le condizioni di una vita umana: l’istanza della chiusura ambientale e quella dell’apertura al mondo. [4bis] In quanto formatore di mondi culturali, linguistici e storici, l’uomo deve sempre operare processi di delimitazione e di riduzione di complessità rispetto all’illimitata contingenza del mondo: costruirsi artificialmente ambienti culturali e istituzionali, ogni volta determinati, in grado di selezionare quelle risposte e quegli schemi comportamentali di cui la sua natura biologicamente povera di determinazioni non lo provvede. D’altra parte, però, proprio per costruire questi mondi culturali, o per metterli in questione, quando questi vengono assolutizzati e scambiati per identità sostantive e ascrittive, esclusive di altre, e che finiscono per abbasare la vita IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 umana al livello dell’animalità, l’uomo deve porsi sempre nello stesso tempo in contatto con l’illimitata contingenza del mondo, far leva, ai fini della sua creatività, sulla sua posizionalità eccentrica. Lo stato di buona salute di una cultura coincide con la sua capacità di sapere mantenere un equilibrio virtuoso tra questi due momenti, quello della chiusura ambientale e quello dell’apertura al mondo. L’assolutizzazione di uno solo di questi momenti genera invece patologie culturali. E secondo Plessner, i mali della modernità occidentale ed europea, da ultimo sfociati nel modello di modernizzazione sociale sostenuto dalle forme del capitalismo avanzato, è quello di soffrire di un’assolutizzazione univoca del momento dell’eccentricità e dell’innovazione, che alla fine sottrae costantentemente il terreno alle condizioni di possibilità di qualsiasi condotta di vita personale. Anche ogni singolo rappresentante della specie umana, infatti, per vivere umanamente, è costretto per Plessner a trovare un equilibrio tra questi due momenti: quello della chiusura e quello dell’apertura. Per condurre la propria vita, ciascun uomo deve continuamente ricentrarsi: incorporare modelli di comportamento e ruoli sociali, esprimersi in forme culturalmente e socialmente articolate e determinate, tutto ciò insomma che nello stesso tempo svela e nasconde, agli altri e a sé stessi, le espressioni della propria immediatezza vitale. Per Plessner, è solo in quanto ciascun singolo apprende a vedersi da una prospettiva oggettivante a partire dai ruoli dello spazio pubblico in cui è inserito, che egli può disporre del proprio corpo e dare forma personale alla propria soggettività. Da qui la critica di ogni esaltazione dell’autenticità, dell’immediatezza, dell’interiorità e, di converso, l’affermazione che gli uomini devono riconoscersi reciprocamente il diritto a portare delle “maschere”, che tutelino dall’esposizione rischiosa della propria «nudità» e «vulnerabilità». Laddove però, il presupposto del divenire sé stessi, rimane sempre, però, nello stesso tempo, l’esperire il proprio corpo come qualcosa di spontaneo e d’indisponibile, di non trasferibile e di non scambiabile: condizione necessaria per poter identificarsi con esso, per poter distinguere tra le azioni imputabili a sé e quelle imputabili agli altri. L’uomo è sempre simultaneamente l’uno e l’altro: un essere vivente animale ed un essere culturale e artificiale, «è un corpo organico» e «ha un corpo fisico», e ciascun singolo è rimesso al compito ineludibile di riuscire a bilanciare tra loro, nella propria condotta di vita, questi due aspetti della sua ambivalente natura. Proprio in questo compito, in cui si rivela la fragilità ma anche la potenzialità di ciascuna esistenza umana, sta la dignità umana di ogni singolo. Tutto ciò spiega anche l’attualità di questa antropologia filosofica nell’ambito dei recenti dibattiti bioetici, divampati attorno alla ricerca e all’ingegneria genetica. Dove passa, nella vita umana, il confine tra naturale ed artificiale? E in che punto determinato, oltrepassare questo confine, per esempio con tecniche di manipolazione genetica volte a predeterminare caratteri, predisposizioni e capacità della futura persona, va a ledere il rispetto della dignità dell’uomo? E d’altra parte, è applicabile il concetto di dignità umana anche alla vita prima della nascita? Oppure è appunto solo l’atto, socialmente individualizzante, del riconoscimento pubblico in un mondo di vita intersoggettivamente condiviso, a rendere l’organismo una vera e propria persona umana? Ma allora, su quali basi ed entro quali termini si può riconoscere anche al vivente in quanto tale, agli animali, al nostro ambiente naturale, diritti e riconoscimento, che ci obbligano a rispettarne il tratto di indisponibilità? Come ha notato recentemente Jürgen Habermas - intervenendo sul dibattito relativo ai «rischi di una genetica liberale» e riconoscendo, proprio in questo contesto, la «straordinaria attualità» dell’antropologia filosofica di Plessner – sono tutte domande nuove e inedite, intrecciate agli sviluppi della scienza e della tecnologia, ma che rinviano nello stesso tempo alle questione fondamentali della stessa filosofia: al senso del nostro essere umani, della nostra differenza dagli altri esseri viventi, della «nostra autocomprensione come esseri-di-genere».[5] E proprio un indirizzo di pensiero come l’antropologia filosofica, con il suo principio fondamentale secondo cui «una persona ha disponibilità “sul” suo corpo solo nella misura in cui – vivendo – “è” IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 questo stesso corpo in quanto organismo», si rivela un possibile e prezioso strumento di orientamento in queste questioni. Come scrive Habermas: «il giovane che sia stato geneticamente manipolato scoprirà il proprio corpo come qualcosa di tecnicamente prodotto. A questo punto, la prospettiva del partecipante che caratterizza la vita vissuta entra in collisione con la prospettiva oggettivante di produttori e sperimentatori. Infatti, al programma genetico i genitori hanno collegato intenzioni che – trasformandosi in aspettative – investono il bambino come destinatario, senza tuttavia concedergli la possibilità di una presa di posizione revisionistica».[6] Abbiamo sollecitato su alcune di queste questioni uno dei maggiori esponenti in Germania dell’impostazione di pensiero dell’antropologia filosofica: il filosofo tedesco Hans-Peter Krüger. Per anni presidente della Helmuth-Plessner-Gesellschaft, Krüger ha condotto negli anni novanta un’opera di sistematica riattualizzazione critica del pensiero di questo filosofo, stabilendo dei ponti con la tradizione del pragmatismo americano (James, Dewey, Mead). Prima di dedicarsi a Plessner, però, Krüger è stato anche un intellettuale attivo nei movimenti di opposizione democratica nella DDR, subendo per anni, per questo suo impegno, il divieto d’insegnamento e di pubblicazione. E i due eventi, quello del suo impegno politico a favore del pluralismo e della democrazia nella DDR, e quello per la riattualizzazione critica dell’antropologia filosofica, come ci spiega in questa intervista, non sono tra loro indipendenti, ma sono uniti da un sottile filo di continuità. Professor Krüger, come è giunto all’antropologia filosofica di Helmuth Plessner? Nel corso dei miei studi filosofici avevo già approfondito la semiotica di Charles Sanders Peirce e la sua idea di una trasformazione della filosofia trascendentale kantiana nell’idea della scientific community. Oltre alla filosofia avevo anche studiato psicologia, in particolare l’interazionismo simbolico di George Herbert Mead e il programma di ricerca di Vygotskij. Tutto ciò era già in qualche modo antropologia filosofica, anche se indipendente dalla tradizione dell’antropologia filosofica tedesca. All’antropologia filosofica in senso stretto sono giunto in seguito, in particolare attraverso il libro di Axel Honneth e di Hans Joas Soziales Handeln und menschliche Natur (1980).[7] Tra i testi di Plessner ho letto per primo Die Verspätete Nation, per poter capire meglio la linea di sviluppo che ha condotto nella storia tedesca all’Olocausto. Poi all’inizio degli anni Novanta ho cominciato a leggere in modo sistematico Plessner e mi sono convinto che valeva la pena riattualizzare, ricostruire e rifondare questa forma di antropologia filosofica. Poco dopo la caduta del Muro, lei ha pubblicato un libro Demission der Helden (Dimissioni degli eroi) in cui ha compiuto una sorta di bilancio della sua esperienza di intellettuale dissidente nella DDR. In questo testo ha sviluppato anche una riflessione sul ruolo che gli intellettuali devono svolgere nella sfera pubblica moderna, senza appunto proporsi come eroi alla guida del tempo – per poi scoprire magari di essere semplici marionette e casse di risonanza ideologica del potere di turno – ma ponendosi il compito di allargare i contenuti del dibattito pubblico, compiendo innanzitutto un lavoro di traduzione tra sapere degli esperti e mondo di vita dei cittadini. In che modo la sua esperienza di allora ha influito sulla sua apertura nei confronti dei temi dell’antropologia filosofica? La partecipazione all’opposizione all’interno della DDR negli anni settanta e ottanta è stata per me un’esperienza decisiva. Negli anni settanta questa opposizione era ancora prevalentemente interna al marxismo, negli anni ottanta, sotto il tetto della Chiesa, essa è divenuta sempre più pluralista e, in un significato filosofico, liberale. C’erano cittadini di differenti orientamenti, religiosi e non religiosi, di sinistra e di destra, che si trovavano insieme per criticare il regime autoritario e per cambiarlo. Questa esperienza di pluralismo politico, insieme alla lotta per il valore e per la dignità di ogni singolo individuo, come ciò che non può essere sacrificato a nessun ideologia, mi ha molto condizionato. Il motto dell’opposizione nella DDR era il motto di Rosa Luxemburg: «la nostra IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 libertà è la libertà di coloro che pensano diversamente». Questa forma di opposizione aveva però una qualità nuova, che le derivava dal suo essere non violenta e dal lottare per una democrazia pluralista. Tutto ciò mi ha aperto per i temi di Plessner, che nella sua epoca non è stato né con l’estremismo di destra né con quello di sinistra, ma ha rappresentato piuttosto un’idea di politica pluralista in cui al centro stava il riconoscimento del valore del singolo individuo e la critica di ogni tentativo di monopolizzare la questione umana, attraverso una comprensione univoca e conclusiva della sua natura. Ha fatto riferimento allo studio di Plessner Die Verspätete Nation. In questo testo, Plessner sviluppa una ricostruzione storico-genealogica delle premesse del nazionalsocialismo, andandole a ricercare nella storia profonda della Germania, in alcune strutture della mentalità tedesca, intrecciate a filo doppio all’influsso del protestantesimo luterano. Una certa «ascesi intramondana», propria in particolare di una borghesia educata al culto luterano dell’interiorità, secolarizzato in quello delle professioni, e scarsamente educata al confronto con il terreno ostico e concreto della politica e con una sfera pubblica pluralistica, è stata una delle cause fatali, per Plessner, della ricettività di molti settori della popolazione tedesca nei confronti del nazismo. Plessner ricostruisce in questo libro però anche il modo in cui si è potuti giungere, nella storia intellettuale e filosofica tedesca, all’affermazione dell’ideologia della razza nazista, e punta l’attenzione su una dinamica che egli denomina, riprendendo una formulazione di Mannheim, «generalizzazione del sospetto di ideologia». Potrebbe illustrare questo concetto? Da più di duecento anni, nella nostra tradizione, gli intellettuali tendono ad assumere un compito rivoluzionario. Per lo meno in Germania, il modello di questo compito – questa è una delle tesi centrali di Plessner nel suo studio – è stata la rivoluzione copernicana. Dalla prospettiva esterna dell’universo si mostra quanto è falsa la presupposizione tolemaica che il sole e la luna ruotano attorno alla terra. Questo movimento di decentramento nell’universo, l’assunzione del posto dove un tempo era Dio, comincia a divenire il modello di ciò che è moderno, il metodo attraverso il quale è possibile smascherare la falsità del punto di vista del senso comune e della coscienza, di ciò che testimoniano i sensi. Il punto è che nel corso del moderno questo modello è stato radicalizzato: si è innescato un processo di generalizzazione del sospetto d’ideologia. Questo modello si è riversato nella sociologia, nella scienza, nella filosofia, nella politica, e questo ha condotto a una battaglia tra élites di esperti l’una contro l’altra armati, con la conseguenza che alla fine, per esempio nella repubblica di Weimar, non c’era più alcun terreno di condivisione nella società civile e nella sfera pubblica critica. E la Germania ha costituito la terra elettiva di questo processo perché in essa mancava, a differenza di altri paesi occidentali, la consuetudine con un confronto civile con il pluralismo nella sfera pubblica. Non si può solo decentrare, si deve anche preservare un grado minimo di condivisione nella sfera pubblica, e i cittadini non possono essere solo smascherati da avanguardie intellettuali. In questo senso abbiamo bisogno anche di un’attenzione al necessario ricentramento rispetto alle rivoluzioni intellettuali, senza il quale non si dà alcuna condotta di vita personale. Trovo tutto ciò molto attuale. Il capitalismo globalizzato ha bisogno continuamente d’innovazioni per potersi mantenere in vita. Ormai è ben noto il fenomeno per cui esso si serve delle rivoluzioni culturali annunciate in precedenza dagli intellettuali. Ciò che venti o trenta anni prima élites di intellettuali annunciano come rivoluzione culturale e politica, venti o trent’anni dopo diventa un oggetto di mercato, una linea di prodotto, una prestazione pubblicitaria. L’autocomprensione critica si inverte nel suo contrario nel corso delle generazioni. Si deve quindi riflettere, si deve ragionare pragmaticamente sulle conseguenze inintenzionali che la filosofia e il pensiero critico possono avere. Non si può annunciare ingenuamente una rivoluzione, una promessa, che venti o trenta anni dopo si ribalta nel suo contrario. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Negli anni ’90, parallelamente al suo lavoro di rilettura sistematica di Plessner, Lei ha curato anche l’edizione tedesca del libro di John Dewey La sfera pubblica e i suoi problemi. Cosa può insegnarci ancora questo libro, anche rispetto alle dinamiche a cui Lei ha fatto riferimento? Io trovo che la concezione della sfera pubblica sviluppata da Dewey in questo testo sia ancora la migliore e la più attuale. Muovendo dalla differenza tra pubblico e privato, Dewey definisce la sfera pubblica facendo riferimento a tutti coloro che sono influenzati da conseguenze indirette e non intenzionali di transazioni sociali. Oggi la sfera pubblica viene intesa per lo più in modo privato, ciò che empiricamente viene inteso come sfera pubblica non dà alcun contributo alla gestione e alla soluzione dei problemi connessi alle conseguenze indirette e non intenzionali dell’agire sociale. Facciamo alcuni esempi: l’energia atomica, da Chernobyl fino a Fukushima, oppure le conseguenze indirette e non intenzionali di molte innovazioni su mercati globali. Per la tematizzazione di questa dimensione di problemi è necessaria la sfera pubblica, una sfera pubblica globale e una sfera pubblica continentale. Oggi la sfera pubblica viene intesa però per lo più come un ambito dove si ricerca la soddisfazione di bisogni narcisistici o privati, smarriamo con ciò la possibilità di comprendere ciò di cui noi realmente abbiamo bisogno, e siamo spesso sviati in questo dai media, che si occupano di cose false. Quali sono oggi i fronti che polarizzano in termini ideologici il dibattito pubblico? C’è sempre innanzitutto il dilagare del riduzionismo biologico, già ricostruito negli anni passati dalla genealogia di Foucault. Oggi questo riduzionismo prende la forma di una promessa di miglioramento della natura organica e sociale delle persone, attraverso psicofarmaci e terapie mediche. Già da ciò si vede come questo riduzionismo biologico sia intrecciato alle forma di riduzionismo economico: la promessa di un miglioramento dell’uomo va incontro alle esigenze dei mercati, e ciò esige a sua volta deregolamentazione, quanto viene predicato dal neoliberalismo. Oggi si sovrappongono perciò riduzionismi biologici ed economici, e l’intero rapporto tra cultura e politica è compromesso e falsato. Ciò che manca oggi è la regolamentazione politica dei mercati, ma anche l’impegno della società civile e della sfera pubblica critica, anche negli ambienti accademici. Si deve spiegare precisamente quali innovazioni biologiche sono sensate e quali no, quali sono le false promesse di terapie e quali le false patologizzazioni. Anche la politica deve fare la sua parte, attraverso la regolamentazione dei mercati, non può semplicemente lasciar andare tutto al corso delle generazioni. Ma abbiamo bisogno di qualcosa di più di una regolamentazione dei mercati a livello nazionale: la regolamentazione dei mercati globali esige per lo meno un impegno continentale europeo, e in più la cooperazione tra Europa, USA e Cina, altrimenti qualsiasi contrappeso critico non basta per cambiare e regolare i mercati. Spostando l’attenzione nuovamente sulla filosofia, molti oggi parlano dell’esaurimento della spinta propulsiva del linguistic turn. In Italia e non solo divampa il dibattito sul Nuovo Realismo. Lei, muovendo dall’antropologia filosofica, ha parlato per esempio, in relazione alla teoria dell’agire comunicativo di Habermas e alla grammatologia di Derrida, di diverse «strategie di denaturalizzazione in filosofia». Potrebbe spiegare questa affermazione? Io ho letto e apprezzato la teoria dell’agire comunicativo di Habermas e la grammatologia di Derrida durante gli anni ottanta e credo di aver compreso che dietro questi programmi di ricerca c’era anche la volontà di ricercare strategie teoriche per congedarsi dalle spaventose premesse e dalle conseguenze dell’Olocausto e delle dittature totalitarie del Novecento: il nazionalsocialismo e lo stalinismo. Entrambi questi regimi totalitari si sono richiamati in diverso modo alla natura, ad un concetto riduttivo di naturalismo: nel caso del nazionalsocialismo con il richiamo alla razza, nel caso dello stalinismo con il richiamo alla classe, che ha finito anche per svolgere a propria volta una funzione riduttiva e naturalizzante. Letti a partire da questa prospettiva, i programmi di ricerca di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Habermas e di Derrida, il concetto di ragione intersoggettiva comunicativa e la grammatologia, possono essere interpretati anche come due tentativi di uscire fuori dalla natura, per produrre un contrappeso rispetto alla natura. Io credo che questo alla lunga non può essere mantenuto. Ho l’impressione che entrambi questi programmi di ricerca oggi debbano essere storicizzati. Bisogna tematizzare la natura inorganica e la natura vivente, e ciò non in una forma riduttiva ma in una maniera fenomenologica, ermeneutica e critico-ricostruttiva: la natura non deve essere solo concepita come ciò che viene messo a tema dalle scienze naturali, anche la riflessione filosofica deve elaborare questo tema. In che senso allora il programma di ricerca dell’antropologia filosofica può dare una risposta a questa esigenza? Io trovo che Max Scheler ha impresso già negli anni venti del secolo passato una giusta svolta al discorso filosofico, quando, criticando la dicotomia dualistica “o materiale o spirituale”, “o fisico o spirituale”, ha sviluppato la tesi che il vivente non può essere scisso in regioni ontologiche: esso è tanto materiale quanto spirituale, tanto fisico quanto psichico. E’ attraverso la negazione della dicotomia dualistica “o-o” che si giunge dentro la tematizzazione della vita. Ma quando si è dentro questa tematizzazione, allora servono nuove categorie, nuove differenziazioni. Per Scheler questa era l’amore, l’estasi nell’amore, il terzo a partire dal quale egli ha compiuto nuove differenziazioni. Plessner ha preso le distanze dalla metafisica dello spirito che Scheler ha sviluppato a partire da questo concetto di estasi e ha provato a ricollocare la filosofia della vita su un terreno fenomenologico e post-metafisico, e in ciò sta per me l’attrattività della sua rifondazione della filosofia come antropologia filosofica. NOTE [1] H. Plessner, Die verspätete Nation. Über die politische Verfügbarkeit bürgerlichen Geistes, in H. Plessner, Gesammelte Schriften, VI, Berlin, Surkhamp, 2003 [2] H. Plessner, I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, a cura di B. Accarino, Roma-Bari, Laterza 2001. [3] Si veda la ricostruzione del pensiero di Plessner sul sito della Helmuth Plessner Gesellschaft: http://www.helmuth-plessner.de/seiten/se... [4] «La sua forma eccentrica spinge l’uomo al perfezionamento, stimola bisogni che possono essere soddisfatti soltanto mediante un sistema di oggetti artificiali e insieme imprime loro il marchio della caducità. Gli uomini ottengono in ogni epoca ciò che vogliono. E mentre l’ottengono, l’uomo invisibile che è in loro si è già spostato oltre. Il suo costitutivo sradicamento attesta la realtà della storia universale». H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, a cura di Vallore Rasini, Torino, Bollati Bolinghieri, 2006, p. 363. [4bis] Si veda su questo M. De Carolis, Il paradosso antropologico. Nicchie, mocromondi e dissociazione psichica, Quodlibet, Macerata 2008. [5] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, p. 41. [6] J. Habermas, cit., p. 52. [7]A. Honneth, H. Joas, Soziales Handeln und menschliche Natur. Anthropologische Grundlagen der Sozialwissenschaften, Campus-Verlag, Frankfurt a. Main - New York, 1980. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Tra Nichilismo e Illuminismo. Ray Brassier e la sfida del realismo speculativo di KNOX PEDEN Continuando ad approfondire quei nodi di pensiero che, sempre più, sembrano richiedere l’incontro tra la tradizione analitica e continentale, questo intervento si rivolge ad un lavoro che coinvolge intenzionalmente queste due correnti del pensiero, intrecciando le filosofie di pensatori quali Alain Badiou, Quentin Meillassoux, da un lato, e filosofi della mente quali Paul Churchland e Wilfrid Sellars dall’altro. Ray Brassier – l’autore del testo di cui proponiamo la recensione – è conosciuto internazionalmente soprattutto per essere uno dei più autorevoli rappresentanti del Realismo speculativo[1], movimento di pensiero volto a ridefinire le basi del realismo filosofico, alla luce delle sfide poste dalla filosofia post-kantiana. La recensione che presentiamo è ad opera di Knox Peden, ricercatore presso il Centre for the History of European Discourses (Australia), ed è apparsa – in forma parzialmente differente – sulla nota rivista di filosofia Continental Philosophy Review[2]. Inframmezzato da elogi alla “splendente potenza della ragione” ed alla “forza dissociativa della negatività non-dialettica”, Nihil Unbound: Enlightenment and Extinction (Palgrave, 2007) di Ray Brassier è un lavoro filosofico impegnato “nell’opera di disincanto iniziata da Galileo nel mondo fisico, continuata da Darwin nella sfera biologica, ed attualmente estesa dalle scienze cognitive all’ambito della mente” (xi, 45, 40). Lo sgretolamento del “libro del mondo” realizzato durante l’illuminismo rappresenta “un corroborante vettore di scoperta intellettuale, piuttosto che un calamitoso impoverimento” (xi), infatti, “il pensiero ha degli interessi che non coincidono con quelli della vita” (xi). Seguendo tali interessi, Brassier sviluppa un concetto di “volontà di conoscere” congruente con la “volontà di nulla” che resiste alle contrapposte forze della “volontà di vivere”. Animato dalla persuasione che “la filosofia dovrebbe essere più che un debole conforto dell’autostima umana”, ovvero dovrebbe mettere in questione i presupposti antropocentrici che ancora popolano il pensiero contemporaneo, Brassier sviluppa un progetto, il cui nucleo polemico concerne la riabilitazione della scienza, in opposizione al riduttivo e derisorio atteggiamento di alcuni settori della filosofia continentale: la fenomenologia e la teoria critica. I due assi portanti di questo progetto sono i seguenti: (1) il recupero del nichilismo come programma filosofico che sia antitetico al soggettivismo, piuttosto che complice con esso, (2) il riconoscimento che il nichilismo IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 sia la filosofia più adeguata a esprimere la rivoluzione, introdotta da Albert Einstein, inerente la relazione spazio-tempo, contro quelle filosofie che si proclamano filosofie del tempo e trascurano la necessaria congiuntura tra queste due dimensioni. Il libro è diviso in tre sezioni. La prima parte, dedicata a distruggere “l’immagine manifesta” (“Destroying the Manifest Image”) dell’uomo, rappresenta la critica introduttiva, in cui le scienze cognitive ed il razionalismo contemporaneo di Quentin Meillassoux sono utilizzati contro la fenomenologia e la teoria critica di Horkheimer ed Adorno. Nella sezione centrale, “L’anatomia del negativo” (“The Anatomy of Negation”), Brassier elabora un concetto non-dialettico di negazione che presuppone la demistificazione dell’ontologia svolta da Badiou ed il principio ontologico di “unilateralizzaione” ricavato dalla “non-filosofia”di Francois Laruelle. La parte finale, “La fine del tempo” (“The End of Time”), conclude il testo con la considerazione filosofica di Brassier sulla “verità dell’estinzione” (“truth of extinction”), come fatto spaziale che nega, ed in realtà ha già negato, il tempo umano. Questa conclusione è sviluppata a partire dall’abbandono della prospettiva heideggeriana e da una dura ed estesa critica della filosofia di Deleuze. Nonostante l'acutezza della loro riflessione filosofica, Brassier, infatti, rintraccia in entrambi questi pensatori la radice di un comune problema filosofico: l'aver legato assieme vita e morte nelle maglie di una sintesi. Al contrario Brassier sostiene che l'unica possibile relazione ontologica non è la sintesi, ma la negazione. La tematizzazione della nozione di “negativo” permette anche di introdurre le due tesi cardine trattate nel libro, le quali vanno adeguatamente distinte. In primo luogo, il nichilismo, “lungi dall’essere una patologica esacerbazione del soggettivismo, è un inevitabile corollario alla persuasione dell’esistenza di una realtà indipendente dalla mente” (xi). Sebbene questa prima tesi nel libro possa a volte assumere i tratti di un principio normativo da cui far logicamente discendere una politica, in ultima analisi, Brassier riesce a proteggersi da questo rischio. Le istanze prescrittive per la filosofia contemporanea però non sono aliene al testo di Brassier ed affiorano quando si esamina la seconda tesi, per la quale il “nichilismo rivisitato” è la più adeguata filosofia del momento. Questa tesi è ricavata dall’idea che il “disincanto del mondo” sia un conseguenza della “maturità intellettuale” e non del suo “debilitante impoverimento” (xi). Celebrare l'Illuminismo come un "progetto" di disincanto contro "il revisionismo anti-illuminista" promulgato da larga parte della contemporanea tradizione continentale, sembra implicitamente comportare una serie di assunti che vanno ben oltre la critica al soggettivismo proposto nella prima tesi. Ad esempio, se da un lato, Brassier sconfessa la nozione in base alla quale c’è una singola e sovrastorica essenza della filosofia, che può essere chiaramente identificata e criticata in quanto tale, un'ossessione che è fortemente presente in Heidegger e che rischia di compromette anche la filosofia di Laurelle. Dall’altro, egli sembra implicitamente sostenere che fare propria "la convinzione" di celebrare l'illuminismo implichi anche un’idea di come la filosofa dovrebbe essere, reintroducendo qui proprio quell'essenzialismo che egli critica a partire dalla nozione di soggettivismo. La radice di tale ipoteca essenzialista va rintracciata non nella filosofia, ma nel ruolo che in essa sembra debba giocare la scienza. Per Brassirer la critica all'essenzialismo filosofico è un modo per rifiutare di leggere la filosofia come una manifestazione singolare di un'unica inedificabile essenza. Al IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 contrario, la scienza sembra possedere una singolare, elementare forza espressa in un concetto centrale del suo argomento: il disincanto. Descrivendo la scienza in sé come l’impegno del disincanto, Brassier attribuisce ad essa un problematico potere normativo. La sua stessa scelta di favorire la neurofilosofia di Paul Churchland al posto della fenomenologia di Husserl sembra in parte arbitraria, dato che egli stesso riconosce ad essa gli stessi limiti tautologici della fenomenologia husserliana. Il progetto di Churchland riguarda la distinzione tra un approccio al problema della coscienza che cerca di ricondursi all’originaria esperienza pre-predicativa e l’approccio che, invece, riconosce l’incommensurabilità tra l’esperienza della coscienza ed il suo sostrato materiale. Questa distinzione assume particolare valore nel secondo capitolo, quando Brassier discute la scelta di Adorno ed Horkheimer di favorire, nella Dialettica dell’illuminismo, la mimesis sulla mimica. La mimesis è superiore alla mimica, in quanto possiede una componente soggettiva, preferibile agli aspetti automatici ed irriflessivi della mimica. La mimesis è dialettica e storica; la mimica respinge ogni idea di cambiamento. Tuttavia, Brassier ritiene che la mimica che inerisce agli animali, agli insetti, ed al mondo inorganico sia la testimonianza di una negatività senza soggetto che supera la proliferazione mimeticamente motivata della non-identità tra storia e natura. Infatti, Brassier ritiene che “la storia culturale sia mediata dalla storia naturale, che include tempo e spazio, biologia e geologia” (48). Dopo un'esaustiva discussione riguardo al tentativo di Meillassoux di pensare un tempo assoluto indifferente all'esperienza umana – un progetto la cui prossimità con quello di Brassier verrà in seguito esaminata – Brassier sposta la sua analisi su Badiou e Laruelle, con l’obiettivo di sviluppare un concetto di “negazione” che possa servire da valida alternativa alla dialettica. Secondo Brassier, la virtù del progetto ontologico di Badiou consiste nella demistificazione della nozione di essere, mostrando che l'essere in quanto essere "è insignificante; non significa letteralmente niente"(116). La tesi di Badiou che "la matematica è ontologia" funge in questo senso da risposta alla fenomenologia, dal momento che – sottraendo le qualità fenomeniche – può elaborare una nozione di pensabilità dell'essere in quanto inconsistente molteplicità infinita. Il gesto critico di Brassier consiste nel suggerire che Badiou compromette il suo stesso progetto ontologico con il concetto di "Evento", il quale introduce "un idealismo dell'iscrizione"(“an idealism of inscription”) in ciò che sarebbe altrimenti un essere insignificante. Brassier rinuncia a sviscerare sino in fondo le implicazioni della sua critica , vale a dire, che Badiou compromette la sua ontologia per salvare la sua politica, dal momento che l'evento è, assieme con il soggetto fedele all’evento, una delle categorie politiche centrali della filosofia del filosofo francese. Spostando l'attenzione da Badiou a Laruelle, le ragioni della critica che Brassier muove a quest'ultimo sono due. In prima istanza, l'autore denuncia l'ipoteca essenzialista della nozione di non-filosofia nel momento in cui ad essa viene attribuita la capacità di definire la natura della filosofia tout court. In secondo luogo, viene posta in questione l'indulgenza nei confronti del concetto di "immanenza radicale", così come esso è elaborato da uno dei pensatori che sin dal principio ha avuto un peso rilevante nel lavoro Laruelle, Michel Henry. Ma nell’economia generale del libro, l'individuazione di tali punti problematici non toglie nulla all’importanza del “metodo di unilateralizzazione” proposto da Laruelle: "una logica non dialettica della negazione filosofica"(120), con le parole di Laurelle, "l'essere-nascosto del reale alla conoscenza, o...l'essere forcluso di ogni oggetto alla sua propria cognizione...non rende la conoscenza possibile, ma piuttosto la determina" (139). Ciò di cui Laruelle va in cerca non è niente meno che la messa in luce IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 della sintesi trascendentale che traccia la relazione tra pensiero e il suo correlato come oggetto fondamentale della speculazione filosofica. Che l'operatore trascendentale sia letto come vita, coscienza o Dasein, in tutti i casi il momento sintetico è essenziale. Al contrario, Laruelle permette di definire "le condizioni per cui pensare non significa riflettere, o rappresentare il proprio oggetto ma piuttosto mimare la sua inoggettivabile opacità, nella misura in cui quest'ultimo è identico-inultima-istanza ad un reale che è forcluso all’oggettivazione"(138). Questa analisi viene arricchita da ulteriori elaborazioni teoretiche attraverso la lettura della parabola della catastrofe solare in Lyotard, del concetto di “trauma” in Levinas e della teoria freudiana della pulsione di morte. L'audacia speculativa di queste analisi permette a Brassier di argomentante in favore di una nozione di pensiero come risultato o effetto determinato della materialità inorganica piuttosto che come luogo privilegiato della considerazione riflessiva del problema. Data la sua ostilità nei confronti del pensiero rappresentativo, Deleuze sarebbe probabilmente un valido alleato per il progetto di Brassier. Ma pur riconoscendo le grandi virtù di tale progetto, quest'ultimo è – secondo Brassier – fatalmente compromesso da un vitalismo da cui segue che il pensiero è determinante essenzialmente organica della materia inorganica. Una tale concezione pone, in ultima analisi, l'intero progetto di Deleuze a cavallo tra un panpsichismo mistico e un idealismo incoerente. Oltre a Laruelle, l'interlocutore fondamentale di Brassier è Quentin Meillassoux, il cui lavoro è stato recentemente introdotto nel mondo anglofono dalla traduzione ad opera dello stesso Brassier[3]. L’obiettivo critico del pensiero di Meillassoux è una malattia filosofica che lui chiama "correlazionismo". Con “correlazionismo” si definisce ogni filosofia che "afferma l’indissolubile priorità della relazione tra [il?] pensiero e il suo correlato rispetto all'ipostatizzazione metafisica o la reificazione rappresentazionalista o entrambi i termini della relazione"(51). Brassier segue Meillassoux nell'affermare "l'intellegibilità letterale" del fenomeno ancestrale – ovvero, l’occorrenza cosmica precedente alla manifestazione della coscienza – contro l’inintelligibilità della realtà in sé per la filosofia post-kantiana. Rimane però aperta una questione. Da un lato, l’autore critica il correlazionismo poiché esso “sostiene che non ci può essere alcuna realtà intelligibile indipendentemente alla nostra relazione con la realtà; alcun fenomeno senza qualche operatore trascendentale – come la vita o la coscienza o il Dasein – che genera le condizioni per la manifestazione attraverso cui il fenomeno si manifesta a noi"(51). Chiaramente Brassier interpretata il correlazionismo – sia esso di matrice vitalista, kantiana o heideggeriana – come una forma di solipsismo. Dall’altro, però, è lecito chiedersi come faccia la scienza – Brassier assume senza estendervi la stessa critica radicale mossa al correlazionismo – a non ricadere nello stessa trappola solipsistica. Cosa sono gli strumenti della sperimentazione scientifica, se non operatori trascendentali, con tanta variazione tra loro come per vita, coscienza o Dasein, e che "generano le condizioni della manifestazione" del fenomeno? La tecnologia ad infrarossi "genera le condizioni" che permettono alla Nebulosa del granchio non di esistere come il resto materiale di una supernova, ma di essere manifesta grazie alle speciali lenti di un telescopio. Ma quello che importa in ultima istanza non sono i colori della nebulosa, le sue mere qualità fenomeniche, ma il bruto fatto della sua esistenza. A partire da tale considerazione si può tracciare una prima differenza tra Brassier e Meillassoux: le ragioni che conducono Brassier a sostenere una filosofia non correlazionista sono in parte differenti rispetto a quelle proposte dall’autore di Dopo la finitudine. La forza dell'argomento di Meillassoux consiste nella riabilitazione del concetto di qualità primarie – esprimibili attraverso il formalismo matematico. La filosofia non-correlazionista interpreta il "mondo glaciale" ripulito da tutti i fenomeni eccetto uno: la fatticità stessa. Quello che importa non è la Nebulosa del granchio in quanto fenomeno, ma il suo apparire. La virtù della matematica secondo Meillassoux non è quella di essere scientifica, come Brassier sembra implicitamente suggerire, ma , invero, la sua pura formalità, il suo esser libera da qualsiasi riferimento all’esperienza. Al contrario, la scienza in quanto tale è condizionata dall’empirico e, infatti, molte delle immagini scientifiche proposte da IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Brassier rafforzano tale argomento: dagli insetti alle catastrofi solari, tutti questi esempi sono intelligibili solo in quanto sono, appunto, fenomeni. Un secondo punto che mette in relazione, ma anche divide i due filosofi riguarda la temporalità. Brassier insiste che ciò che è anteriore al reame ancestrale di Meillassoux deve essere surrogato da una posteriorità di estinzione cosmica, al fine di consolidare la critica alla filosofia correlazionista in senso assoluto. In ciò, Brassier sostiene che la prospettiva di Meillassoux è ancora antropocentrica in quanto legata ad una concezione lineare del tempo. Eppure, va messo in luce come la tesi dichiaratamente "più assoluta" e radicale di Brassier nello smantellamento della tradizione metafisica sia a sua volta compromessa da un fondamentale presentismo. Nella visione di Meillassoux, Dio rimane una possibilità che si può dare nel futuro. Non per via di un sotterraneo messianismo, ma perché Meillassoux porta alle estreme conseguenze la nozione di contingenza. Lo stesso non vale per Brassier, il quale trova nei fatti scientifici una prova sufficientemente certa per sancire l'impossibilità di alcuni eventi, restringendo quindi il campo del possibile e conseguentemente ponendo in questione la contingenza assoluta. Se il formalismo abiura la fenomenalità, questo anche spiega la complicità con – e in ultima analisi la sua utilità per – il nichilismo. Brassier dà il suo meglio nello sviluppare questo argomento filosofico. Sebbene la decisione di Brassier di abbracciare il nichilismo inauguri la sua analisi, questa stessa decisione non è il risultato di una investigazione filosofica, ma funziona come presupposto al suo pensiero. Questo significa che la forza polemica che motiva il suo lavoro trascura di confrontarsi con altri sforzi intellettuali volti a problematizzare la nozione di nichilismo. Nonostante ciò, Nihil Unbound rimane un testo che riesce ad essere all’altezza delle sue promesse e offre al lettore il gusto della vera scoperta filosofica. A prescindere quindi dai suoi punti d’ombra, il testo conferisce evidenza a una celebre idea di Adorno: “Il pensiero onora se stesso difendendo ciò che è condannato come nichilismo”.[4] NOTE [1] A tal riguardo si veda anche l’intervista rilasciata da Quentin Meillassoux per Il Rasoio di Occam. [2] Cont Philos Rev (2010) 42:583–589. [3] Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, trad. it a cura di M. Sandri, Mimesis, 2012 [4] Theodor W. Adorno. Dialettica negativa, Einauidi, 2004. La traduzione qui proposta è a cura dell’autore. Knox Peden ([email protected]è un post-doc presso il Centro di storia europea dell'Università del Queensland (Australia). I suoi interessi di ricerca riguardano il pensiero filosofico europeo del ventesimo e ventunesimo secolo, con particolare attenzione alla filosofia francese. Fra le sue pubblicazioni più recenti si vedano la raccolte, curate con Peter Hallward, Concept and Form, Volume 1: Key Texts from the Cahiers pour l'Analyse, (London: Verso, 2012) e Concept and Form, Volume 2: Interviews and Essays on the Cahiers pour l'Analyse, (London: Verso, 2012). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Sesso, desiderio e verità in Grecia e a Roma. Su "Subjectivité et vérité" di Michel Foucault di ORAZIO IRRERA e DANIELE LORENZINI Pubblicato in occasione del trentennale della morte di Michel Foucault, il Corso del 1980-1981 intitolato Subjectivité et vérité costituisce il penultimo dei tredici volumi che documentano l’insegnamento del filosofo al Collège de France. Il tema esplicito di questo Corso è una genealogia della nostra morale sessuale, grande questione teorica che, secondo Foucault, è associata a una questione storica “privilegiata”: cos’è successo durante i primi secoli della nostra era, nel momento di passaggio dall’etica che si è soliti definire “pagana” alla morale cristiana? Con il Corso del 1980-1981 intitolato Subjectivité et vérité (a cura di Frédéric Gros, Seuil/Gallimard, 2014) si aggiunge il penultimo tassello all’imponente impresa editoriale cominciata nel 1997 e destinata a ricostruire e a restituire al grande pubblico la serie dei tredici Corsi che Michel Foucault ha pronunciato al Collège de France tra il 1970 e il 1984 – impresa che presto si concluderà con la pubblicazione del Corso del 1971-1972, Théories et institutions pénales, l’unico a tutt’oggi ancora inedito. L’uscita di Subjectivité et vérité è coincisa con il trentennale della morte di Foucault, che in Francia è stato accompagnato da una serie di eventi scientifici e commemorativi: dai molti convegni (tra i quali la significativa tre giorni Foucault(s) 1984-2014, organizzata recentemente dall’Université Paris 1 e dall’Université Paris-Est Créteil) ai numerosi libri, dalle trasmissioni televisive e radiofoniche (il documentario Foucault contre lui-même andato in onda su Arte e la serie che France Culture ha organizzato attorno alla questione Que faire de Foucault aujourd’hui?) fino ai dossier su importanti quotidiani e settimanali (Le Monde des livres, Le Nouvel Observateur, Libération) e ai numeri speciali di alcune riviste culturali a grande tiratura come Le Magazine littéraire, Sciences humaines e Le Point. Questa consistente lista di omaggi tributati negli ultimi mesi all’opera di Foucault rischia, tuttavia, se non di oscurare, quanto meno di attenuare la rilevanza della pubblicazione di Subjectivité et vérité, il primo di una serie di quattro Corsi interamente consacrati dal filosofo francese alla questione del rapporto tra soggettività e verità nell’Antichità greca e romana. Nonostante il titolo forse ingannevole, il tema esplicito di questo Corso è una genealogia della nostra morale sessuale – grande questione teorica che, secondo Foucault, è associata a una questione storica “privilegiata”: cos’è successo nel corso dei primi secoli della nostra era, nel momento di passaggio dall’etica che si è soliti definire “pagana” alla morale cristiana (p. 21)? La IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 risposta di Foucault è sorprendente: molti elementi della cosiddetta morale cristiana sarebbero infatti stati elaborati originariamente in un contesto diverso, ovvero nei trattati filosofici (in particolare stoici) sulle “arti di vivere” fioriti in epoca imperiale. Ma le cose sono ben più complesse di quanto appaiano. Innanzitutto, da un punto di vista “quantitativo”, il maggiore sforzo di Foucault in Subjectivité et vérité è rappresentato da una descrizione dettagliata del regime degli aphrodisia (le opere di Afrodite) nella Grecia classica, e delle principali trasformazioni che tale regime ha subìto nella Roma imperiale. Il regime degli aphrodisia, secondo Foucault, è organizzato attorno a due grandi princìpi. Da una parte, il principio di attività, ovvero la valorizzazione esclusiva, nell’atto sessuale, della posizione attiva; perciò, il problema dell’etica sessuale classica è rappresentato dalla necessità di una scrupolosa auto-limitazione, non tanto per rispetto della dignità del proprio partner sessuale, quanto al fine di restare sempre padroni di sé, nonostante il carattere violento del piacere sessuale (pp. 8692). Dall’altra parte, il principio di isomorfismo socio-sessuale, secondo il quale il “buon” atto sessuale deve rispettare le gerarchie socio-politiche: se è del tutto legittimo, per un uomo sposato, avere rapporti sessuali (attivi) con uno schiavo di sua proprietà, non lo sarà però averne con la moglie di un altro uomo (pp. 79-86). Questi due princìpi, variamente combinati, definiscono secondo Foucault i criteri di valorizzazione dell’etica sessuale classica, che non si fonda quindi su una serie di interdetti chiaramente codificati. Tuttavia, prendendo spunto dalle ricerche di Paul Veyne[1], Foucault sostiene che il regime degli aphrodisia abbia subìto una profonda trasformazione in epoca romana, cedendo il posto a un’etica sessuale incardinata sul legame coniugale (pp. 103ss.). In questo contesto, solo l’attività sessuale che ha luogo all’interno della coppia sposata e che è finalizzata alla procreazione, piuttosto che alla ricerca del piacere, è considerata “legittima”. I due princìpi che caratterizzavano il regime classico degli aphrodisia vengono dunque rielaborati: da un lato, la posizione passiva (tradizionalmente quella della donna) è valorizzata attraverso un’inedita insistenza sull’importanza della reciprocità dei sentimenti, del “consenso” espresso dal partner e della costruzione di una vita in comune; dall’altro, il «continuum socio-sessuale» si sgretola, giacché la coppia sposata rappresenta ormai una realtà specifica, eterogenea e irriducibile a tutti gli altri rapporti sociali (p. 104). È così che, secondo Foucault, emerge per la prima volta il desiderio in quanto nozione autonoma. Il nuovo imperativo di fedeltà al quale l’uomo sposato deve attenersi, infatti, lo obbliga a dissociare, in sé, la virilità “sociale” dalla virilità “sessuale”: le relazioni sociali gerarchiche vengono desessualizzate, mentre l’uomo sposato è chiamato a strutturare il rapporto sessuale con la propria moglie in modo egualitario, evitando ogni forma di dominazione. Per farlo, egli deve esercitare su di sé un controllo scrupoloso, al fine di neutralizzare sul nascere ogni desiderio inappropriato. Ed è proprio attraverso il desiderio, concepito come «principio di soggettivazione/oggettivazione degli atti sessuali» (p. 293), che emerge la “sessualità” in quanto dimensione permanente della soggettività. Se, in Subjectivité et vérité, Foucault mette radicalmente in discussione la tesi di una cesura netta tra la morale pagana e quella cristiana, non bisogna però affrettarsi a concludere per una continuità senza differenze. Nel fare la storia della morale, infatti, si può insistere sui «codici di comportamento» che determinano ciò che è permesso e ciò che è proibito (da questo punto di vista, una certa continuità tra l’Antichità greco-romana e il cristianesimo è innegabile), ma ci si può anche concentrare sulle «forme di soggettivazione»[2]. Assumendo tale prospettiva diviene possibile comprendere non solo come il regime classico degli aphrodisia sia profondamente diverso da quello elaborato in epoca imperiale, e a fortiori da quello cristiano, ma anche come la stessa etica IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 sessuale romana presenti in realtà una configurazione dei rapporti tra la soggettività e la verità del tutto incompatibile con quella che emergerà nel cristianesimo. Attraverso lo studio dell’etica sessuale antica, del resto, è proprio il nesso tra la soggettività e la verità che Foucault giunge a problematizzare, individuandovi sia un momento di cesura storica, sia un nuovo orizzonte di ricerca all’interno del quale si svilupperanno le sue analisi future. In effetti, interrogandosi sullo statuto del regime discorsivo degli aphrodisia in epoca ellenistica e romana, Foucault mostra come questi discorsi non siano né un semplice riflesso, opportunamente codificato, di pratiche sociali già esistenti, né un mascheramento ideologico che nasconde causalità storiche più profonde e materiali, né tantomeno un programma volto ad accordare un fondamento razionale a sistemi prescrittivi di comportamento che ambiscono all’universalità (pp. 229-248). La problematizzazione morale degli aphrodisia è invece comprensibile solo all’interno del quadro costituito dalle technai peri ton bion, le arti di vivere, ovvero quelle “tecniche” che prendono ad oggetto la vita, l’esistenza (p. 253). Tali tecniche sono pensate da Foucault come procedure regolate e riflesse volte a operare su un oggetto determinato un certo numero di trasformazioni in funzione di alcuni fini da raggiungere; esse si esercitano sul bios, ovvero sulla vita in quanto soggettività, esistenza irriducibile tanto alle proprie determinazioni biologiche, quanto a un qualsivoglia statuto sociale, a una professione o a un mestiere. Pensare il bios greco sullo sfondo di queste “tecniche di sé”, delle quali Foucault parla per la prima volta nell’autunno del 1980 a Berkeley e al Dartmouth College[3], non significa soltanto mostrare attraverso quali trasformazioni una soggettività possa far propri certi schemi pratici di azione, ma permette anche di individuare alcune significative differenze tra la soggettivazione antica e la soggettivazione cristiana (e moderna), così come tra i corrispettivi rapporti tra soggettività e verità. Se la soggettività, nel cristianesimo, è pensabile solo attraverso il suo rapporto costitutivo con l’aldilà, mediante un’operazione di conversione in vista della salvezza e sulla base di una verità profonda che ciascuno è chiamato a scoprire nella propria interiorità, quella dell’Antichità greca e romana si svolge interamente entro un campo di immanenza definito dagli obiettivi che ogni individuo si pone; inoltre, lungi dal richiedere un movimento di conversione orientato alla contemplazione divina e alla rinuncia del mondo terreno, la soggettivazione antica implica un incessante lavoro di sé su sé; infine, anziché dalla scoperta di un’“autenticità” nascosta negli arcana conscientiae, il modello antico di soggettivazione è animato da una ricerca continua e indefinita che mira alla padronanza di sé nelle mutevoli circostanze dell’esistenza individuale e collettiva. Di conseguenza, la sfera delle attività sessuali, nell’Antichità greco-romana, è inserita da Foucault in un campo di problematizzazione più ampio, nel quale la padronanza e il governo di sé diventano condizione imprescindibile per l’esercizio del potere sugli altri, acquisendo dunque un valore politico (pp. 280-293). D’altronde, prendendo le mosse da queste analisi è possibile leggere in filigrana anche uno spostamento relativo alla nozione stessa di verità. Già nel Corso al Collège de France del 1980[4] Foucault aveva legato l’esperienza cristiana della carne e la dimensione ineliminabile della concupiscenza all’emergere di obblighi specifici di veridizione a proposito di se stessi che avrebbero preparato la strada all’oggettivazione del soggetto operata dalle scienze umane. Proprio in questo frangente, inoltre, Foucault aveva sostenuto che il governo degli uomini è possibile, in Occidente, solo attraverso la manifestazione della verità nella forma della soggettività. Seguendo lo sviluppo di tali argomentazioni nei successivi seminari americani del 1980, tuttavia, si fa sempre più chiaro che la verità legata alle tecniche di sé antiche non è definita né da una corrispondenza con la realtà, né da qualcosa che si troverebbe nelle profondità della coscienza, in un’interiorità psicologica da decifrare incessantemente. La verità in questione riguarda piuttosto la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi danno forma all’esistenza particolare di ciascuno. Il bios greco si presenta così come la superficie su cui la verità si manifesta (ed è chiamata a manifestarsi) IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 secondo un rapporto tutto da costruire ed inventare, ma che costituisce nondimeno la cifra essenziale della stilizzazione etica e politica dell’esistenza nell’Antichità greco-romana. Questa doppia rivoluzione concettuale operata da Foucault attorno al rapporto tra soggettività e verità, lungi dal rimanere confinata nella dimensione della pura teoria, mira del resto ad indicarci l’urgenza di un compito pratico. Foucault, nei suoi lavori degli anni ottanta, utilizza espressioni diverse per definirlo – “politica di noi stessi”, “etica del sé”, “estetica dell’esistenza” –, ma l’idea è la medesima: come possiamo prendere coscienza del fatto che la forma della nostra soggettività è radicalmente storica e contingente, come possiamo prendere coscienza della non-necessità e della non-naturalità del “regime di verità” in relazione al quale tale forma è stata costituita, senza provare al contempo il bisogno di cambiare gli aspetti del nostro rapporto con noi stessi, gli altri e il mondo che troviamo inaccettabili? Senza provare, insomma, il bisogno di trasformare la soggettività che ci viene imposta e di contestare il regime di verità che “naturalizza” tale imposizione? Il lavoro storico-filosofico effettuato da Foucault sui testi antichi è dunque correlativo a un compito eticopolitico attuale: mettere continuamente in discussione ciò che siamo e concepire non solo il sesso, ma lo stesso rapporto di noi stessi con noi stessi non come una fatalità, bensì come «una possibilità di accedere a una vita creativa»[5]. NOTE [1] Cfr. P. Veyne, La famiglia e l’amore nell’alto Impero romano (1978), in La società romana, trad. it. C. De Nonno, Roma-Bari, Laterza, 1995. [2] M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, trad. it. L. Guarino, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 34. [3] Cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di mf / materiali foucaultiani, Napoli, Cronopio, 2012. [4] M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), a cura di M. Senellart, trad. it. P.A. Rovatti e D. Borca, Milano, Feltrinelli, 2014. [5] M. Foucault, Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità (1984), in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 295. Orazio Irrera si è laureato in Filosofia all'Università di Pisa, proseguendo poi con un dottorato in Filosofia in cotutela tra l'Università di Pisa e l'Université Paris 8. Attualmente collabora con il Centre de Philosophie Contemporaine dell'Université Paris 1 - Panthéon-Sorbonne ed è abilitato come maître des conférences in filosofia e scienze politiche. Daniele Lorenzini si è laureato in Filosofia e storia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ed è dottorando in filosofia a Paris 12 (in cotutela con la “Sapienza” - Università di Roma). IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 L’altro ‘new realism’: anatomia del revival realista anglosassone di ALESSANDRO MULIERI Da alcuni anni si assiste a un revival del realismo politico nella filosofia politica anglofona. A differenza dell’addio al post-moderno che caratterizza il new-realism di Ferraris, quello anglosassone si pone però come obiettivo il contrasto all’egemonia del pensiero di John Rawls e dei suoi seguaci entro il dibattito filosofico-politico anglosassone. New-realism non significa soltanto addio al post-moderno. Da alcuni anni, un altro spettro realista si aggira per l’Europa sfidando ortodossie consolidate e provocando contese animate tra filosofi analitici e continentali. Si tratta del revival realista che sta interessando il dibattito più recente di una parte della filosofia politica anglofona. Il new-realism di Maurizio Ferraris, descritto nel manifesto pubblicato dal filosofo torinese nel 2011, è un approccio basato sulla verità delle nostre pratiche quotidiane e contrapposto al post-moderno e al pensiero debole. Ferraris rifiuta l’assunto nicciano alla base di quest’ultimo (non esistono fatti ma solo interpretazioni) e certi luoghi comuni del post-moderno contemporaneo i cui eccessi avrebbero in qualche modo portato alle mistificazioni del populismo mediatico berlusconiano. Il new-realism anglosassone si pone invece un obiettivo molto diverso: contrastare il pensiero di John Rawls e dei suoi seguaci che da almeno tre decadi dominano il mondo anglofono della filosofia politica. A fare da manifesto informale di questa nuova tendenza filosofica è stata un’edizione speciale dello European Journal of Political Theory pubblicata nel settembre 2010[i]. Tra i contributors di questo numero speciale ci sono figure di spicco dell’accademia britannica come Mark Philp, Richard Bellamy, Glen Newey e Richard North. Uno dei primi articoli di questa special issue si presenta come una mappa concettuale del nuovo filone realista anglofono ed è a firma di William Galston, filosofo affiliato alla Brookings Institution[ii]. Che cosa contraddistingue il new-realism anglosassone? Un primo dato essenziale è la sua estrema varietà. Lungi dall’essere una semplice critica della filosofia politica tutta interna al dibattito analitico, il new-realism sfida certi luoghi comuni relativi alla distizione tra le cosiddette filosofie politiche analitiche e continentali nel mondo anglofono. Alcuni esponenti di questa corrente tendono a presentarlo come una reazione di alcuni filosofi britannici alla filosofia politica liberale americana[iii]. Tuttavia il quadro della sua nascita e del suo sviluppo è più articolato. In sintesi, direi che la svolta realista anglosassone e’caratterizzata da due tendenze che riassumono efficacemente la mappa concettuale proposta da Galston nel suo articolo. Una prima tendenza si IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 sviluppa tra coloro che potremmo definire analitici eterodossi. Bernard Williams, definito dalla New York Review of Books come un filosofo analitico con l’anima di un umanista, è certamente il simbolo di questa prima tendenza del new-realism[iv]. La sua critica al liberalismo rawlsiano e, più precisamente, alla priorità del concetto di giustizia costituisce il nocciolo della critica realista alla filosofia di Rawls. Williams contrappone moralismo politico a realismo politico attribuendo a quest’ultimo una funzione di rottura col primo[v]. Secondo la posizione realista di Williams, standard appropriati di analisi e valutazione dell’azione politica non possono che emergere dall’interno della sfera stessa del politico e non da norme di comportamento extra-politiche o provenienti da altri ambiti del sapere o della realtà. Questa critica di Williams a Rawls non porta necessariamente a esiti radicali: vari filosofi politici contemporanei analitici non respingono in toto il pensiero di Rawls, ma tentano di colorarlo in senso realista. In un articolo apparso recentemente sul Journal of Political Philosophy e intitolato “Justice and the priority of politics to morality” (la giustizia e la priorità della politica sulla moralità), Andrea Sangiovanni, docente di filosofia al King’s College di Londra, si fa promotore di quello che definisce un approccio alla giustizia dipendente dalla pratica (a practice-dependent approach)[vi]. L’articolo non è citato nel contributo introduttivo di Galston, ma figura a buon diritto in questo filone analitico del revival realista nella filosofia politica anglosassone. Sangiovanni propone di mantenere il concetto di giustizia ma sostiene che le istituzioni e le pratiche storiche e istituzionali di ogni società ne condizionano la giustificazione e l’applicazione (questo in contrasto a un approccio rawlsiano puro che limiterebbe la rilevanza di pratiche e istituzioni della società soltanto all’applicazione dei principi di giustizia e non anche alla loro alla giustificazione). La seconda tendenza del new-realism anglosassone incoraggia il ritorno sotto i riflettori del pensiero di alcuni filosofi continentali nell’ottica di una critica strutturata del pensiero rawlsiano e liberale. È il caso, ad esempio, della filosofa belga Chantal Mouffe che usa la figura e il pensiero di Schmitt per criticare il concetto di democrazia deliberativa difeso da Rawls o da Habermas (spesso sovrapposti nel pensiero della filosofa)[vii]. O del filosofo americano Raymond Geuss che utilizza la Scuola di Francoforte, le analisi anti-kantiane di Nietzsche o dei teorici critici come punti di contrasto con il costruttivismo kantiano che è alla base del liberalismo rawlsiano (forse identificando in maniera troppo netta il Kant filosofo morale con il Rawls “filosofo morale applicato”)[viii]. O infine, in ambito americano, di filosofi nicciani di sinistra come Judith Shklar o Bonnie Honig, la prima fautrice del liberalism of fear (“il liberalismo della paura”) e la seconda famosa per le sue critiche “agonistiche” al consensualismo della teoria democratica contemporanea[ix]. All’interno di questa seconda tendenza c’è anche un ramo più “storico” che utilizza la storia del pensiero politico come strumento di interpretazione e codificazione della riflessione politica sul contemporaneo sempre nell’ottica una critica metodologica all’approccio rawlsiano (reo di essere troppo poco attento alla specificità storica e culturale di ogni forma di società). Appartenente a questo secondo filone è ad esempio il filosofo politico oxoniense Mark Philp, che partendo dallo studio del carattere della riflessione politica in Machiavelli e nei classici, propone un approccio empirico alla condotta pubblica fondato sul giudizio politico e scevro da interventi normativi precedenti all’azione politica stessa[x]. Ma ci sono anche esponenti importanti della famosa scuola di Cambridge (allievi di Quentin Skinner e John Pocock) che fanno del lavoro sulla storia del repubblicanesimo il punto di partenza delle proprie riflessioni sulle democrazie contemporanee in contrasto con la nozione liberale di libertà. La critica new-realist alla filosofia politica rawlsiana In sintesi , il new realism in filosofia politica rappresenta un insieme di posizioni tra loro molto diverse che hanno come grande comun denominatore l’opposizione alla filosofia liberale americana di John Rawls o Ronald Dworkin. Occorre dunque accennare brevemente al contenuto di questa critica e cercare di capire in che senso possa essere qualificata come realista. L’articolo citato di IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Galston ci spiega in maniera molto chiara quali sono i caratteri fondamentali della contestazione new-realista al pensiero di Rawls. Secondo Galston (ma questa convinzione è ribadita nella parte introduttiva di quasi tutti i contributi al citato numero speciale dello European Journal of Political Theory), l’accusa di molti new realisti al sistema rawlsiano è che tiene ad emarginare, negare o considerare irrilevanti le forze reali del politico eliminando dal nucleo della riflessione politica concetti chiave come potere, conflitto, resistenza, lotta, di fatto riducendo lo studio della politica a quello di un ramo della teoria morale. In realtà, Rawls nega che la sua filosofia politica sia filosofia morale applicata spiegando che la teoria della giustizia come equità non è una dottrina filosofica, morale o culturale onnicomprensiva o applicabile a qualsiasi soggetto ma funziona se applicata al caso speciale della società democratica moderna. In questo senso, nella misura in cui la teoria della giustizia ralwsiana include principi morali, questi ultimi sono ricavati dall’ethos pubblico di una società democratica. Tuttavia, il fatto che le concezioni morali di Rawls non siano meramente applicate al funzionamento di una società democratica ma, nell’ottica del filosofo americano, derivino dalla sua cultura pubblica non salva il suo sistema dall’accusa di moralismo politico lanciata dai new-realisti. Galston menziona la già citata critica di Bernard Williams al sistema rawlsiano che può essere presa come paradigmatica dell’accusa più generale di moralismo politico lanciata dai realisti al sistema di Rawls[xi]. Nell’ottica di Williams, è il rapporto tra giustizia e politica a costituire il nodo problematico del liberalismo rawlsiano. Infatti, la giustizia non è la prima virtù delle istituzioni sociali perché concetti come ordine e legittimità hanno un primato epistemologico e filosofico che rappresenta la condizione stessa dell’idea di giustizia. Il primo problema politico per Williams, che in questo caso si richiama a Hobbes, è quello di assicurare l’ordine nella società e non, come fa Rawls, quello di chiedersi se esista un criterio normativo extrapolitico sulla base del quale possiamo valutare il senso e il contenuto dell’azione politica giusta. La risoluzione del problema dell’ordine richiede innanzitutto una riflessione sul concetto di legittimità politica, ciò che distingue potere legittimo e forza bruta[xii]. Tuttavia, quest’ultimo non può essere definito in condizioni normative ideali e per così dire extra-politiche, come avviene per l’ideale di giustizia in Rawls, ma emerge all’interno delle forze stesse del politico tenendo conto di circostanze storiche e culturali che sono in continua evoluzione. Questo è ciò che più propriamente distingue in filosofia politica, secondo Bernard Williams, una prospettiva moralista e una realista ed è anche ciò che genera l’equivoco per cui la filosofia di Rawls finisce per difendere un’idea di normatività extra-politica che sovrappone la filosofia politica a quella morale. Due caratteristiche qualificano dunque il new-realismo rispetto alla filosofia di Rawls: il ritorno dell’autonomia del politico e una ridefinizione del concetto di teoria normativa, concetto tanto caro a quella filosofia politica anglofona che è il target principale del new-realismo. L’autonomia della politica e la nuova teoria normativa In linea generale, il ritorno all’autonomia del politico significa una riscoperta delle forze reali che costituiscono l’azione politica e la differenziano da qualsiasi altra forma di azione. Le definizioni date dai new-realisti delle forze reali dell’autonomia del politico sono le più diverse. Si va da una riscoperta del valore agonistico e antagonistico della politica di Mouffe all’esclusività del giudizio dell’azione politica presente nell’analisi machiavelliana di un Mark Philp. Ma l’autonomia della politica è anche quella che guida l’analisi delle circostanze della politica (ciò che costituisce l’esclusivo dominio dell’agire politico in contrapposizione a qualsiasi altra forma di azione) di un filosofo come Jeremy Waldron o che si evidenzia nel ruolo costruttivo che concetti come paura e timore rivestono nell’affermazione e la difesa dei principi dell’individualismo liberale in una filosofa come Judith Shklar. Tuttavia l’elemento costruttivo (e non semplicemente critico delle filosofie liberali anti-politiche rawlsiane) che accomuna tutti i new-realisti nella loro affermazione dell’autonomia politica è la riscoperta del concetto di potere. Non un potere post-moderno o simile a quello analizzato nella biopolitica foucaultiana e nelle filosofie di Deleuze, Guattari o Tony Negri, ma un potere che potremmo definire più legato a circostanze fattuali o a realtà tangibili nella vita IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 quotidiana delle persone. Per i new-realists il potere ha delle manifestazioni concrete, per esempio, nelle conseguenze imprevedibili che vengono dalla creazione delle istituzioni politiche o nel conflitto. Come spiegato da Galston, la creazione, la preservazione e la distruzione delle istituzioni politiche giocano un ruolo fondamentale nel veicolare il potere tra gli individui di qualsivoglia regime politico[xiii]. La partecipazione degli individui alle istituzioni politiche talvolta ne modifica l’identità o i valori, ne condiziona le scelte future e i comportamenti sociali ed è un veicolo fondamentale delle forme del potere. Altro aspetto fondamentale della manifestazione del potere è nel conflitto e nel ruolo che le emozioni possono avere nella definizione dell’interazione politica. Il conflitto è un aspetto intrinseco della politica, ne definisce le dinamiche essenziali e pensare di poterlo sradicare ricorrendo a teorie normative di gestione del conflitto rischia di misconoscere le forze essenziali della politica. Partendo da posizioni radicalmente diverse, sia Mouffe che Williams si trovano d’accordo nel considerare il conflitto e il disaccordo la linfa essenziale dell’agire politico, in qualche modo irrisolvibile, ma sempre tendente a creare equilibri precari e contingenti nell’agone politico di cui bisogna analizzare pazientemente e di volta in volta le specifiche dinamiche[xiv]. Questo ruolo essenziale del potere veicolato tramite le istituzioni e il conflitto porta i realisti a riformulare il concetto stesso di teoria normativa in uso tra i filosofi politici anglosasoni. La teoria normativa cui sono interessati i new-realisti rompe l’associazione tra dimensione prescrittiva della riflessione politica e teorie morali dell’agire stabilito dalla filosofia politica rawlsiana. Mentre per Rawls la teoria normativa diventa un generatore di modelli prescrittivi e un criterio di giudizio morale dell’azione politica giusta, per i new-realisti la normatività non emerge da condizioni extra-politiche ma è parte integrante dell’azione politica stessa stabilendo un rapporto complesso con quest’ultima. Come ricordato da Enzo Rossi in un articolo della stessa edizione dello European Journal of Political Theory, l’articolazione di qualsiasi teoria normativa è di per se stessa sempre una forma di attività sociale e come tale deve essere considerata e valutata nel rapporto tra riflessione politica e political reale[xv]. Per il new-realismo, la teoria normativa può diventare una forma di trasformazione radicale della società che aspira a cambiare l’esistente e, se necessario, a rovesciarne alcuni aspetti fondamentali. In questo senso e in certe sue articolazioni, il new-realismo anglosassone può essere anche interpretato come un rottura con il liberalismo e un’apertura di una parte del mondo filosofico anglofono ai nuovi movimenti di contestazione dell’ordine globale (Occupy Wall Street o gli indignados). I due new-realism e lo spirito dei tempi C’è un rapporto tra il new-realism di Ferraris e quello emergente dal mondo anglofono? La questione è complessa e richiederebbe un’analisi lunga e articolata. Tuttavia, una risposta immediata alla domanda sarebbe ispirata da uno spontaneo scetticismo. Le due svolte new-realiste si sono sviluppate in maniera totalmente indipendente l’una dall’altra, parlano lingue molto diverse e si riferiscono a modelli culturali e filosofici differenti che hanno come target di critica tradizioni completamente divergenti. In più, mentre il new-realism di Ferraris assume i contorni di una tradizione omogenea riferibile a pensatori precisi, quello anglofono è un movimento eterogeneo senza un manifesto e unicamente delimitato da una certa opposizione alla filosofia politica liberale rawlsiana. Dobbiamo allora concludere che l’utilizzo di quest’etichetta comune, “new realism”, sia soltanto una curiosa coincidenza linguistica? Credo che la povertà concettuale di questa risposta la squalificherebbe in partenza e ci impedirebbe di porre il problema all’interno di una riflessione più generale sull’interazione tra idee e accadimenti storici e culturali. I due new-realism sono accomunati da un fattore fondamentale che ritorna nelle loro rispettive critiche alle tradizioni filosofiche da cui si dipartono: il valore dei fatti nudi e crudi come criterio-guida per la riflessione filosofica (quello che Ferraris chiama l’inemendabilità o il carattere saliente del reale mentre i newrealisti ne parlerebbero più genericamente come delle forze reali della politica). Inoltre, entrambi contrastano approcci metolodogici e epistemologici fondati su modelli di interpretazione della realtà IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 troppo centrati sul pensiero o sulla teoria normativa e promuovono una lettura complessa ma concreta degli accadimenti politici e sociali. Questo ritorno ai fatti nudi e crudi o alle forze della politica de-ideologizzate e de-mistificate può essere criticabile sotto tanti punti di vista. Tuttavia, nell’epoca di Internet e del dominio incontrastato della realtà virtuale, ha un che di certamente paradossale. NOTE [i] European Journal of Political Theory, Special Issue on Political Realism, 9:4. [ii] William Galston (2011): Realism in Political Theory, European Journal of Political Theory, 9:4, 385-411. [iii] Questa la descrizione di un panel sul realismo all’ultimo convegno di political theory per giovani studiosi tenutosi alla conferenza annuale dell’università di Manchester Mancept 2012: “The mid to late twentieth century saw a number of British moral, political and legal philosophers make significant contributions to the study of political thought, but which frequently differed from the predominantly abstract and moralistic output of their American counterparts”. (Traduzione mia: Il periodo tra l’inizio e la metà del ventesimo secolo ha visto un numero di filosofi morali, politici e legali dare un contributo significativo allo studio del pensiero politico, distinguendosi dalla produzione astratta e moralistica che caratterizzava le loro controparti americane). [iv] New York Review of Books, 10/04/2013. [v] Bernard Williams (2005), In the Beginning was the Deed: Realism and Moralism in Political Argument, Princeton, Princeton University Press. [vi] Andrea Sangiovanni (2007) , “Justice and the Priority of Politics to Morality’, (2008) Journal of Political Philosophy 36/2: 137-64. [vii] Si veda ad esempio Chantal Mouffe (2000), The Democratic Paradox, Verso books. [viii] Cfr. Raymond Geuss (2009), Philosophy and Real Politics, Princeton: Princeton University Press. [ix] Judith Shklar (1998), Political Thought and Political Thinkers, ed. by Stanley Hoffmann e Bonnie Honig (2003), Political Theory and the Displacement of Politics, Ithaka, NY: Cornell University Press. [x] Mark Philp (2007), Political Conduct, Cambridge, MA: Harvard University Press. [xi] William Galston, cit. p. 387. [xii] Bernard Williams, cit., p. 92. [xiii] William Galston, cit, p. 393. [xiv] Bernard Williams, cit., e Chantal Mouffe (2005), On the Political, London: Routledge. [xv] Rossi E. (2010), ‘Reality and Imagination in Political Theory and Practice: On Raymond Geuss’s Realism, in European Journal of Political Theory 9(4): 504-512, p. 510. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Alessandro Mulieri è dottorando in filosofia politica presso il Centre for Global Governance Studies e l’Istituto di filosofia politica dell’Università di Lovanio in Belgio. In passato ha studiato filosofia all’Università “La Sapienza” e Relazioni internazionali presso la London School of Economics. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 La filosofia delle donne: uguaglianza, differenza, in-differenza di PAOLO ERCOLANI Nel secolare percorso della vicenda umana non c’è dubbio che quella della donna sia una storia a sé. Le lunghe ed estenuanti lotte condotte dall’«altra metà del cielo», prima alla ricerca dell’uguaglianza, quindi, in epoca a noi più vicina, per rimarcare la differenza dall’essere maschile, derivano innanzitutto da alcuni fondamenti della cultura occidentale, e da politiche sociali concrete, che hanno impostato il rapporto con la donna all’insegna della discriminazione e della maledizione. 1. Un antico pregiudizio Che si tratti di un essere fisiologicamente connaturato al male, capace di accoglierlo e di produrlo (e riprodurlo?) in maniera perfino inimmaginabile da parte dell’uomo, è convinzione radicata e agevolmente riscontrabile nel panorama culturale dell’Occidente. Se è la prima donna Eva a convincere il primo uomo Adamo a disobbedire al volere divino, introducendo così nel mondo il peccato e soprattutto la morte, secondo la chiosa di S. Paolo (Biblia sacra: Rom 5,12), morte che Dio non aveva previsto originariamente per la sua creatura prediletta (Biblia sacra: Sp 2,24); è sempre una donna, stavolta la moglie, a tentare il buon Giobbe, descritto di per sé come «integro e retto, timorato di Dio ed estraneo al male», esortandolo a maledire Dio per tutti i colpi gratuiti ricevuti (Biblia sacra: Gb 1,1 e 2,9). Né le cose andavano meglio nella cultura della Grecia antica, dove la donna era vista come un essere irrazionale e ferino, sostanzialmente portatore di discordie, guerre e, infine, morte. Nel poema esiodeo de Le opere e i giorni è Pandora, una donna, colei che recita il ruolo di portatrice dei doni che gli dèi fanno agli uomini (fra i quali proprio le donne), dando in questo modo inizio alle interminabili sciagure che da quel momento li avrebbero colpiti (Esiodo, Opere e giorni: vv. 80-82). Paradigmatico il caso della Medea raccontata da Euripide, che in seguito al tradimento del marito rivela quella che significativamente il tragediografo descrive come un’«indole odiosa e feroce che tutta la riempie» (Medea, vv. 103-104), fino al punto di uccidere i figli e negargli persino la sepoltura, pur di vendicare il proprio sentimento offeso e infliggere dolore al coniuge fedifrago. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Alla furia animale, la Medea di Euripide aggiunge anche l’immancabile nota irrazionale, per esempio quando al marito Giasone che piangeva la morte dei due cari («Figli miei diletti») ella, che pur li aveva uccisi con crudeltà, riesce a rispondere «[diletti] alla madre, non certo a te» (Medea, v. 1397). Una visione, quella di Medea, al tempo stesso olistica e totalitaria (il nucleo famigliare come entità unica e indistinta, per cui il male che colpisce un singolo elemento coinvolge, deve inevitabilmente coinvolgere anche tutti gli altri), ma anche figlia di una deresponsabilizzazione ritenuta del tutto tipica della donna (non sono io a uccidere i figli, è stato mio marito con il suo gesto fedifrago e distruttivo. Io anzi li amo, lui no). Questa connotazione originaria con cui viene definita l’essenza della donna fin dai testi più antichi e fondanti della tradizione occidentale, è certamente alla base di tutto il portato di discriminazioni intellettuali e sociali che ne sono seguite, e che trovano in san Paolo, ideologo del cristianesimo, il suggello più autorevole. E’ lui, infatti, che pur in altre opere aveva pronunciato delle parole inaudite per quei tempi, ispirate alla perfetta uguaglianza fra tutte le creature di Dio, comprese il maschio e la femmina (Biblia sacra: Gal 3,26-28), ad esprimersi in maniera inequivocabile attraverso delle vere e proprie sentenze che sarebbero rimaste indelebili sulla parete della coscienza cristiana e occcidentale: Voglio tuttavia che sappiate che capo di ogni uomo è Cristo, capo della donna è l’uomo e capo di Cristo è Dio […] Le mogli siano obbedienti al proprio marito come al Signore […] Le donne tacciano nelle assemblee, perché non è permesso loro di parlare: siano sottomesse, piuttosto, come recita la legge (Biblia sacra: 1Cor 11,3; Ef 5,22; 1Cor 11,8). Una vera e propria paura della donna, mista a una sottovalutazione a dir poco sospetta, visti i toni estremi, che certamente, come scriveva Jean Delumeau nel suo illuminante La peur en Occident (1978: 309), non costituisce una prerogativa esclusiva dell’ascetismo cristiano, visto che a Roma si considerava la «debolezza» o «pusillanimità» mentale della donna (imbecillitas mentis) come un dato perfettamente naturale, e anche nella tradizione greca, malgrado l’ampio lasso di tempo che separò le opere di Esiodo e Omero dall’Atene democratica, le cose non cambiarono molto, visto che un campione della democrazia come Pericle poteva affermare (anticipando S. Paolo) che «la virtù più grande di una donna è saper tacere» (cfr. Fossier 1991: 360). 2. Fra tradizione pagana e cristiana L’analisi incrociata della tradizione cristiana e di quella pagana conduce sostanzialmente allo stesso assunto di fondo: quello di una creatura, la femmina, viziata fin dall’origine, difettosa e quindi portatrice insana di un virus malefico ben capace di distruggere l’armonia terrena, e anzi, a pensarci bene, perfettamente in grado di identificarsi con quel «male» che è caratteristica della vita mondana segnata dall’assenza di Dio e quindi del Bene (privatio boni). Per la tradizione pagana Aristotele si impegna a descrivere con analisi minuziose l’inferiorità e la difettosità dell’anatomia femminile rispetto a quella maschile, concludendo che le femmine «sono per natura più deboli e più fredde, e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione» (Aristotele, De gen. anim.: 775a, 15-16), ma anche lo stesso Platone, pur alieno dal maschilismo viscerale degli altri filosofi antichi, nel Timeo (90e – 91a) immagina che la donna sia stata prodotta da un processo di corruzione dell’uomo. Per la tradizione cristiana, si può ricordare S. Ambrogio, che nella fisiologica diversità fra l’uomo che è spirito (mens) e la donna che è sensazione (sensus), riteneva di scorgere la risposta al quesito teologico del tempo, cioè se fosse più colpevole Adamo oppure Eva nell’aver ceduto alla tentazione IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 del maligno: sicuramente Adamo, perché lei non era particolarmente furba, e aveva dalla sua la scusante della stupidità» (S. Ambrogio, De inst. Virg.: PL 16, col. 325). Ma anche S. Tommaso, che nella Summa theologiae riprende proprio Aristotele e la definizione che questi dava della donna in quanto «maschio mancato» (mas occasionatus), per arrivare a confermare la sua sottomissione e inferiorità rispetto all’uomo (subiectio et minoratio), nei confronti del quale ella svolge un ruolo di aiuto, ma soltanto finalizzato a «cooperare alla generazione» (in adiutorium generationis), perché per tutto il resto altri maschi potevano essere ben più efficaci. E del resto, che di solo aiuto si tratta, lo evinciamo dal fatto che anche nella procreazione è comunque l’uomo, con il suo seme, a svolgere un ruolo attivo (virtus activa), mentre a quell’essere «difettoso e mancato» (deficiens et occasionatus) che è la donna resta una mera funzione passiva di instrumentum procreationis (Tommaso d’Aquino, Summa Theol.: I, q. 92, arg. 1,2, co. e ad. 1). Insomma, irrazionalità, debolezza (fisica ed emotiva), pusillanimità, difettosità generalizzata della sua natura, ma ancora, aspetto imperdonabile e irrecuperabile per la cultura cristiana, «porta del Diavolo» (diaboli janua), «prima ad abbandonare la legge divina» (legis prima desertrix), di fatto vera e propria incarnazione del male (Tertulliano, De cultu foem.: PL 1, col. 1419). Siamo di fronte a un marchio indelebile, destinato a caratterizzare per secoli la reputazione e la condizione della donna, nonché a giustificare ampiamente l’oppressione maschile e le discriminazioni attuate nei suoi confronti lungo i secoli. Marchio tanto indelebile quanto influente: indelebile perché non risolvibile neppure con l’educazione e l’istruzione, influente perché capace di convincere di ciò persino una personalità illuminata come quella di J.J. Rousseau (non certo l’unico), che nell’Émile ou de l’éducation scrive: Tutta l’educazione delle donne deve essere relativa agli uomini. Piacere loro, essergli utili, farsi amare e onorare da loro, allevarli da giovani e prendersi cura di loro da adulti, consigliarli, consolarli, rendere la loro vita piacevole e dolce: ecco i doveri delle donne in tutti i tempi e ciò che bisogna insegnargli fin dalla loro infanzia (Rousseau, O.C.: II, 637). Il timore che la fragilità innata impedisse alle donne di impegnarsi negli studi più alti è stato condiviso anche al di là dell’Oceano, e per di più quando già eravamo da poco entrati nel XX secolo. Negli Stati Uniti, infatti, alcune commissioni mediche vennero incaricate di analizzare le prime studentesse con lo scopo di prevenire il sovraffaticamento del cervello e verificare il timore diffuso che lo studio troppo impegnativo potesse implicare la sterilità delle loro ovaie (Matthaei 1985: 5). Un pregiudizio imponente e sedimentato nel sentire comune degli individui dalla matrice culturale più varia e diversa. Un vero e proprio muro all’apparenza insormontabile, destinato a separare la donna dal raggiungimento di una consapevolezza e di una riconoscibilità culturale e sociale in grado di parificarla all’uomo. 3. Uguaglianza e differenza La ricerca di una parità, infatti, o se si preferisce dell’uguaglianza, è stato il leit-motiv costante delle prime battaglie culturali condotte in difesa delle donne, quasi un programma minimo di reazione, si potrebbe dire col senno di poi, volto a tentare di scalfire quel grande muro costruito con le pietre della maledizione e del pregiudizio. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Prendiamo il caso di Mary Wollstonecraft, per esempio, che esattamente trent’anni dopo l’Emilio di Rousseau compone un’opera, forse la prima sistematicamente compiuta nel panorama della letteratura femminista, che sembra una risposta diretta al filosofo francese. Per esempio là dove scrive che «per rendere il contratto sociale veramente giusto, con lo scopo di diffondere quei principi illuminanti che soli possono migliorare il destino dell’uomo, alle donne deve essere concesso di fondare la propria virtù sulla conoscenza, cosa scarsamente possibile se non vengono educate con gli stessi criteri e obiettivi degli uomini» (Wollstonecraft 1792 (1891): 250). La scrittrice inglese riconosce il livello inferiore delle donne dell’epoca, per lo più interessate all’aspetto estetico, alle storie d’amore e alla sola, piccola e misera, dimensione privata. Ma imputa tale condizione non a un’inferiorità congenita, bensì alla società governata dai maschi, che esclude la maggior parte di loro dalla possibilità di ricevere un’educazione culturale e mentale adeguata. Si tratta di un’esplicita richiesta di uguaglianza delle opportunità, con delle finalità neppure troppo sconvolgenti (per l’ordine valoriale della tradizione occidentale). Infatti Wollstonecraft sottolinea sì la «massima importanza» che deve essere riconosciuta all’educazione nazionale delle donne, con lo scopo ultimo di renderle «creature razionali» e «libere cittadine» affinché possano diventare «buone moglie buone madri» (Wollstonecraft 1792: 255 e 257). Certo, si era saliti di livello. In quel «libere cittadine» era comunque insita un’istanza sociale che ha caratterizzato per oltre un secolo la fase cosiddetta «liberal-democratica» della lotta femminista, e che si poneva come scopo quello di far raggiungere alle donne un trattamento paritario all’interno delle società liberali che si erano affacciate alla rivoluzione industriale. Fatto sta che i protagonisti della tradizione liberale si guardarono bene dall’accogliere tale istanza, tanto che anche lo stesso pregiudizio negativo nei confronti delle donne fece riscontrare un salto di qualità. Non più confinato alla sola sfera dell’indole e della conformazione fisica più debole (e quindi inferiore), ora si tentava di bollare la donna come costituzionalmente incapace di coltivare delle virtù pubbliche e civili, insomma di interessarsi al bene della collettività e della società. Ed è in nome di questo ulteriore pregiudizio che i pensatori liberali, ma anche gli stati che si richiamavano a tale nobile tradizione, esclusero per secoli le donne dal godimento di quei diritti politici e sociali che pur essi teorizzavano con tanta enfasi. Basti pensare al padre del liberalismo economico, Adam Smith. Questi, ritenendo che il possesso della generosità e dello spirito pubblico fosse fondato sullo stesso principio della giustizia, distingue la generosità dall’umanità e conclude che quest’ultima è una virtù della donna, mentre la prima appartiene all’uomo. Il «sesso debole» è sì fornito di umanità e maggiore sensibilità rispetto al maschio, ma si tratta di una dote che si estrinseca nella sfera privata, quella della cerchia ristretta degli affetti. Nel più ampio ambito sociale la donna è meno generosa e meno disposta a impiegare i beni propri o della propria famiglia per il bene della collettività (Smith 1759: 190). Allo stesso modo la pensava Tocqueville, compiaciuto nel notare come nella democrazia americana ci si guardava bene dall’impegnare le donne negli affari politici e sociali, che esulassero da quell’ambito famigliare in cui lei è sì la regina, ma comunque sottoposta all’uomo che ne è il «capo naturale» (chef naturel) (Tocqueville 1951 sgg., t. I, v. II: 219-220). Non c’era niente da fare, insomma, perché il pregiudizio naturalistico si estendeva con grande facilità anche all’ambito sociale, portato avanti da quegli stessi autori liberali da cui era lecito attendersi una ricerca dell’uguaglianza delle opportunità. IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 È a partire da questi presupposti che il movimento femminista decise di compiere un salto di qualità, concentrandosi sul principio della «differenza sessuale» e non più su quello dell’emancipazione e della ricerca della parità fra uomo e donna. Gli scritti di autrici come Luce Irigaray e Julia Kristeva ebbero un’influenza enorme soprattutto sul movimento femminista italiano, artefice di una dura requisitoria contro il concetto di uguaglianza inteso come momento incapace di valorizzare le differenze di un essere, quello femminile, che doveva uscire dall’ordine costituito maschile e liberarsi dai rischi dell’omologazione. Insomma, se «lo sfruttamento delle donne è fondato sulla differenza sessuale, non può risolversi che attraverso la differenza sessuale», secondo le parole della stessa Irigaray (Boccia 2002: 155-8). La donna, insomma, almeno quella immaginata dalle femministe, prende le distanze da quel cosmo maschile che l’ha culturalmente bollata e relegata ai margini più bassi del consorzio sociale, e nel fare questo, in maniera coerente, si trova a rimettere in discussione ogni aspetto della storia del pensiero, della storia e della prassi politica, persino del linguaggio, poiché questi sono tutti rami di una pianta malata all’origine: la pianta di un mondo pensato dagli uomini e per gli uomini, in cui la donna è destinata a recitare un ruolo marginale, quando non subordinato o del tutto strumentale (servile). 4. Per un nuovo femminismo tra Freud e Hegel Non è compito di questo saggio tentare di trarre un bilancio della deviazione estremistica posta in essere dal movimento femminista negli ultimi decenni del XX secolo, né certamente di tentare un bilancio esaustivo della vicenda femminile nel suo complesso, quanto piuttosto evidenziare quello che mi sembra un ulteriore salto di qualità nel rapporto tra filosofia e pensiero femminista. Questo ulteriore salto di qualità è composto certamente da slanci in avanti significativi, ma anche da ripensamenti tanto inaspettati quanto prolifici sul piano della speculazione scientifica e su quello di una nuova percezione che le donne posso avere della propria identità di genere. L’occasione è fornita dall’uscita, per i tipi di Mimesis, del Manifesto per un nuovo femminismo, a cura di Maria Grazia Turri (pp. 236), filosofa ed economista dell’Università di Torino, che si avvale dei contributi di studiose e studiosi di estrazione culturale e ambiti disciplinari diversi. Dalla lettura di questo testo, veniamo a scoprire un cambiamento radicale di atteggiamento che si manifesta fin dalla premessa contenuta nel saggio intitolato «Specchio», della psicologa e ricercatrice dell’Università di Bologna Sara Giovagnoli. La cui lettura mi ha ispirato una parafrasi del celebre incipit del Manifesto di Marx ed Engels: un fantasma si aggira dentro l’animo di ogni donna! Tremendamente capace di condizionarla, di fornirla di senso come anche di annichilirla. Si tratta dello sguardo dell’uomo, una sorta di vero e proprio specchio interiore attraverso cui la donna cerca quell’approvazione in cui reperire finalmente una propria identità pacificata. In questa strettissima dipendenza dall’approvazione dello «sguardo» maschile risiedevano l’errore fatale e la debolezza congenita della donna fin dai tempi di Simone de Beauvoir, che nel suo celebre Il secondo sesso (1949) scriveva già di una «fanciulla che ha sognato se stessa attraverso gli occhi di uomo: negli occhi di un uomo la donna crede finalmente di ritrovarsi» (de Beauvoir 1949: 627). Lo scopo supremo dell’amore umano è il medesimo dell’amore mistico, ossia l’identificazione con l’amato, la ricerca della sua approvazione, il bisogno di servirlo, di trovare in esso l’identità e il IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 senso della vita, che altrimenti sfuggono tragicamente relegando l’individuo in una dimensione chiusa e soffocante. Senza speranza alcuna di un possibile salvezza. L’essere che ama per antonomasia è la donna, come scriveva il Nietzsche de La gaia scienza, capace del «dono totale dell’anima e del corpo», con una dedizione incondizionata che fa del suo amore «una fede, la sola che abbia» (cit. in de Beauvoir 1949: 623). La forza dell’uomo consisterebbe proprio in questo disequilibrio, perché esso non si concede mai del tutto, non abdica mai per farsi servitore della donna amata, mentre a lei è concesso di amarsi soltanto attraverso l’amore che ispira, secondo le parole di de Beauvoir riportate in apertura del suo saggio da Giovagnoli (p. 195). Questo aspetto, possiamo dire consustanziale all’animo femminile, è quanto forse è stato più trascurato dall’ala estremista del movimento femminista, che nel rimarcare la «differenza» delle donne ha spesso dimenticato di «pensare» (e quindi concettualizzare) quelli che sono gli elementi anche di debolezza insiti in quella differenza: Così come Freud vedeva nelle donne della sua epoca il motivo portante del disagio della civiltà e il simbolo evidente della repressione sociale – scrive Giovagnoli con perspicacia profonda e suggestiva – così oggi, nell’illusiva parvenza di parità, nella corsa alla conquista del negato, possiamo vedere nella donna moderna una persona altrettanto frustrata, non più vittima della repressione sociale, ma della sua stessa repressione. È lei stessa che si vincola, che si impone delle rinunce, che castra il suo essere donna e si getta tra le braccia della nevrosi. Forse è meglio cadere vittima per propria mano che per quella altrui? Meglio una castrazione autoinflitta di una subìta? Ma poi, a prezzo di tutto ciò, le donne di oggi hanno realmente maggior potere? Abbiamo parlato dell’attrazione, sfruttata come oggetto, un mezzo per arrivare alla mèta finale (affermazione dell’intelletto). Ma, a parere di chi scrive, più che una proprietà della donna, sembra una concessione dell’uomo. Nell’illusione del pieno controllo del mezzo, ci troviamo ancora una volta a subire una decisione altrui. Il credere di sfruttare questo potere è un misero ripiego per nascondere un’ulteriore imposizione. È in realtà l’uomo che ci concede il potere illusorio dell’attrazione, che non è mai appartenuto fino in fondo alla donna. Scarso o nullo è, in verità, il potere che ella ha sulla razionalità maschile (p. 206). Ora, tralasciando il fatto, peraltro non marginale, su quanto converrebbe all’economia globale della società che la donna riuscisse effettivamente a «scalfire» l’impianto razionale dell’uomo (materia di discussione pressoché infinita), bisogna prendere atto di un dato filosofico sostanziale che sembra uscire da questo Manifesto: la proposta di riappacificazione del pensiero femminista con Freud (o quantomeno un tornare a leggerlo con obiettività e profitto), il cui contenuto obiettivamente maschilista di alcuni scritti è stato fin troppo volgarmente esasperato, ma anche con Hegel, il pensatore su cui le femministe storiche proponevano di «sputare». E non tanto lo Hegel che riproduceva gli schemi reazionari già visti, per esempio nella Fenomenologia dello spirito, in cui definisce il «feminino» come l’«eterna ironia della comunità», l’elemento limitato e limitante pronto a sminuire il fine universale del governo riconducendolo a fine privato, a «possesso e orpello della famiglia», oppure nella Filosofia del diritto, dove attribuisce all’uomo una vita sostanziale e reale che si realizza nello stato e nella scienza, a differenza della donna, per cui ciò avviene esclusivamente nell’ambito della famiglia (Hegel 1807, v. 2: 34; 1821: § 166). Quanto piuttosto, potremmo dire, con il metodo dialettico hegeliano, nella misura in cui esso permette di superare la contrapposizione duale maschio/femmina, per rimettere al centro il concetto IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 di individuo, non più sospeso nella dicotomia differenza/uguaglianza, ma riconosciuto e sintetizzato nel concetto di libertà (che le contiene, o le dovrebbe contenere, entrambe). Un aspetto quanto mai centrale per l’epoca odierna, in cui occorre andare oltre, e qui risiede una tesi dirompente del volume, per superare quel femminismo anacronistico che, rimanendo comunque ancorato alla rigida distinzione di genere (o «differenza»), dimentica «tutto il resto del mondo», come scrive la curatrice Maria Grazia Turri nel suo lungo saggio introduttivo. Come per esempio i gay uomini, a cui una femminista storica del calibro di Luisa Muraro voleva negare il diritto di adozione dei bambini, ma anche i transgender, gli ermafroditi etc.. Mai come oggi, insomma, un pensiero femminile e femminista che voglia superare le rigide dicotomie dell’ordine maschile, nonché la logica del dominio e dell’esclusione che lo sottende, deve innalzarsi alla considerazione dell’individuo nella sua irriducibilità generica e sessuale, compiendo un salto di qualità che comprenda le persone non nella loro «differenza», quanto piuttosto nell’indifferenza che le caratterizza come esseri umani (a prescindere dal sesso, dalla razza, dal censo etc.). Cosa che del resto era stata intuita già da Judith Butler nel suo Gender Trouble del 1990 (ora rieditato in italiano attraverso una pregevole edizione per i tipi di Laterza: J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, pp. 221), là dove scriveva che «la categoria del sesso e l’istituzione naturalizzata dell’eterosessualità sono costrutti, fantasie o feticci, categorie politiche e non naturali» (Butler 1999: 126). Il superamento dell’antico pregiudizio di cui è stata vittima la donna, in nome del quale si è esercitato su di essa un dominio secolare, non può essere superato, almeno non da un pensiero femminista che opera in un’epoca e in una civiltà evolute e libere, attraverso la riproduzione di schemi dicotomici che possono generare nuove forme di dominio e di esclusione. Attraverso questo snodo fondamentale può essere ancora attuale il grande contributo, e la nobile lotta, che il pensiero femminile e femminista hanno condotto, conducono e condurranno contro quella volontà di potenza che alberga irrimediabilmente nell’essere umano. Uomo, donna, gay o transgender che sia. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aristotele: il testo greco delle singole opere è citato dall’edizione Aristotelis Opera, 11 vv., E Tipographeo Academico, Oxonii 1837 Biblia sacra: vulgatae editionis, Sumptibus P. Lethielleux, Parisiis 1891 (i passi biblici vengono citati direttamente nel testo secondo la vulgata canonica) Boccia M.L. (2002): La differerenza politica. Donne e cittadinanza, Il Saggiatore, Milano Butler J. (1999): Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York – London 1990 De Beauvoir S. (1949): Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 2008 Delumeau J (1983).: La Péché et la Péur. La culpabilisation en Occident, XIII-XVIII siècles, Fayard, Paris Esiodo: Opere e giorni, in Opere, testo greco a fronte, Utet, Torino 1977 Euripide: Medea, in Le tragedie, 2 vv., Mondadori, Milano 2007 IL RASOIO DI OCCAM – Numero 1 – marzo 2013 Fossier R. (1991): La société médiéval, A. Colin, Paris Hegel G.W.F. (1807): Fenomenologia dello spirito, 2 vv., La Nuova Italia, Firenze 1973 Id. (1821): Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006 Matthaei J. A. 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Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale, oltre che fondatore e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio filosofico (www.filosofiainmovimento.it). Fra i suoi libri, che più volte hanno suscitato un dibattito acceso sui media nazionali: Il novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006); Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008); La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana (Bari 2012).