Régis Jolivet
Trattato di Filosofia
1 - Logica
Edizione elettronica a cura di Totus Tuus Network - 2009
RẾGIS JOLIVET
TRATTATO DI FILOSOFIA
Piano dell’opera:
Vol.
Vol.
Vol.
Vol.
Vol.
I
II
III
IV
V
:
:
:
:
:
LOGICA
COSMOLOGIA
PSICOLOGIA
METAFISICA (in 2 tomi)
MORALE (in 2 tomi)
Brevi cenni biografici sull’autore
Régis Jolivet (1891-1966) è nato e vissuto a Lione (Francia). E’ stato ordinato sacerdote nel 1914. Dopo
la guerra insegna nella facoltà di Teologia e poi all’Institut Catholique. Per sua iniziativa nel 1932 viene
creata, nell’ambito dell’Università Cattolica di Lione, la Facoltà di Filosofia della quale fu decano per
molti anni. Negli corso degli anni riuscì a dotare la Facoltà anche di un Istituto di Pedagogia (nel 1947) e
di Sociologia (nel 1954). Membro di numerose società scientifiche, nel 1963 è assunto alla Prelatura
Pontificia. Jolivet è stato un grande studioso di Sant’Agostino e San Tommaso.
Breve bibliografia (non esaustiva) delle opere di mons. Régis Jolivet:
 Problème du mal chez Augustin (1929 ?)
 La notion de substance - Essai historique et critique sur le développement des doctrines d' Aristote à
nos jours (1929 ?)
 Le thomisme et la critique de la connaissan (1930 ?)
 Essai sur le bergsonisme (1931 ?)
 Essai sur les rapports entre la pensèe grecque et la pensèe chétienne (1931 ?)
 Le néoplatonisme chrétien (1932 ?)
 Saint Augustin et le neo-platonisme chretien (1932 ?)
 La philosophie chrétienne et la pensée contemporaine (1932 ?)
 Études sur le problème de Dieu dans la philosophie contemporaine (1932 ?)
 Les Sources de l' idéalisme (1936 ?)
 Vocabulaire de philosophie (1942 ?)
 Introductionà Kierkegaard (1946 ?)
 Les doctrines existentialistes, De Kierkegaard à J.P. Sartre (1948 ?)
 Le problème de la mort chez M. Heidegger et J. P. Sartre (1950 ?)
 Traité de philosophie (1954 ?)
 Essai sur le probléme et les conditions d la sincerite (1954 ?)
 Cours de philosophie (1954 ?)
 Le Dieu des philosophes et des savants (1956 ?)
 L’homme métaphisique (1958 ?)
 Aux sources de l'existentialisme chrétien (1958 ?)
 Sartre (1963 ?)
 Sartre ou la théologie de l'absurde (1965 ?)
Alcune sono liberamente fruibili presso
http://openlibrary.org/a/OL4322318A/Régis_Jolivet
RẾGIS JOLIVET
LOGICA
Titolo originale dell'opera:
Traité de philosophie. I: Logique
Emmanuel Vitte - Éditeur - Lyon – Paris
Nihil obstat
Imprimatur
Sac. Tullus Goffi
+ Guilelmus Bosetti
Ep. Hipp. Vic. Gen.
Brixiae, 17-XI-1958
Brixiae, 18-XI-1958
INTRODUZIONE GENERALE 1
SOMMARIO
Art. I - DEFINIZIONE DELLA FILOSOFIA - Oggetto materiale e oggetto formale - La filosofia come
scienza e come sapienza - Le diverse concezioni della filosofia.
Art. II - LA FILOSOFIA E LE SCIENZE - Concetto di scienza in generale - Scienze e senso comune - Il
problema dei confini ­ La soluzione aristotelica.
Art. III - LA FILOSOFIA E LA FEDE - Il problema dei rapporti tra filosofia e fede - Il concetto di
“filosofia cristiana”.
Art. IV - DIVISIONE DELLA FILOSOFIA - Il principio della divisione ­ L'ordine logico del sapere
filosofico - I problemi essenziali delle diverse parti della filosofia.
Art. V - CERTEZZA SCIENTIFICA E CERTEZZA FILOSOFICA - Evidenza sensibile ed evidenza
intelligibile - Le condizioni tecniche del sapere filosofico.
Art. I - Definizione della filosofia
A. OGGETTO MATERIALE E OGGETTO FORMALE
l – 1. IL DESIDERIO DI CONOSCERE - Ogni uomo, dice Aristotele, desidera per natura conoscere,
ciò significa che il desiderio di conoscere è innato. Questo si manifesta già nel fanciullo attraverso i
“perché” e i “come” ch'egli continua a formulare. E proprio questo desiderio è il principio delle scienze, il
cui compito principale non consiste nel fornire all'uomo dei mezzi per dominare la natura, ma innanzitutto
nel soddisfare la curiosità naturale.
Se il desiderio di conoscere è così essenziale all'uomo, esso deve essere universale nel tempo e nello
spazio. E questo è ciò che la storia ci insegna. Non c'è popolo, per quanto arretrato sia, in cui non si
manifesti questa naturale tendenza dello spirito, di conseguenza antica quanto l'umanità.
2. DALL'EMPIRISMO ALLA SCIENZA
a) La conoscenza empirica. Il bisogno di sapere genera dapprima le conoscenze empiriche, che sono il
prodotto del gioco spontaneo dello spirito, ma rimangono imperfette come conoscenze, sia per mancanza
spesso di obbiettività, sia per il loro formarsi caotico, da una generalizzazione primitiva, senza ordine né
metodo. Tali sono, per esempio, i segreti meteorologici del contadino, i proverbi e le massime che
sintetizzano le osservazioni correnti sull'uomo e sulle sue passioni, ecc. Queste conoscenze empiriche non
sono da disprezzarsi. Al contrario, esse costituiscono il primo gradino della scienza, che continua a
perfezionare i procedimenti che l'empirismo adopera per acquisire le proprie conoscenze.
b) La conoscenza scientifica. La scienza tende a sostituire l'empirico con delle conoscenze certe,
generali e metodiche, cioè con verità valide per tutti i casi, in ogni tempo ed in ogni luogo, e congiunte tra
loro secondo le loro cause e i loro princìpi. Tale è la scienza in generale. A questo titolo, come vedremo,
la filosofia è una scienza, ed insieme la più alta delle scienze umane. Ma si suole, al giorno d'oggi,
tendere a limitare l'applicazione del nome di “scienza” alle scienze della natura, e più precisamente alle
scienze che pervengono a formulare delle leggi necessarie e assolute, fondate sul determinismo dei
fenomeni della natura. Tali sono la fisica, la chimica, la meccanica celeste, ecc.
2 - 3. IL SAPERE FILOSOFICO - La conoscenza filosofica è la più alta espressione del bisogno di
sapere. Lo si comprenderà bene considerando successivamente l'oggetto formale e l'oggetto materiale
della filosofia.
a) Oggetto materiale. Materialmente, la filosofia investe tutto il sapere o tutto il reale. La sua
ambizione è di conoscere tutto, cioè non solo tutti gli oggetti senza eccezione, che le scienze particolari
considerano rispettivamente, ma ancora il soggetto stesso che conosce e gli strumenti attraverso i quali la
scienza si costituisce. Essa è dunque la scienza universale. Questa tendenza e questa esigenza di
universalità sono implicite nella natura stessa dell'intelligenza, che è, secondo la espressione di Aristotele,
“in un certo senso tutte le cose”, in quanto essa è ordinata di per sé (e nonostante i limiti che incontra
l'intelligenza umana) a tutta l'estensione dell'essere.
b) Oggetto formale. Tuttavia, non bisogna intendere la universalità della filosofia, nel senso che questa
scienza debba essere la somma di tutte le scienze particolari. Il suo oggetto materiale, è sì tutto il reale,
ma considerato sotto un aspetto o da un punto di vista che gli è proprio (oggetto formale), cioè dal punto
di vista delle cause prime e dei princìpi supremi di tutto il reale.
3 - 4. CAUSE E PRINCÌPI - Che cosa bisogna intendere per cause e princìpi? Le cose, sia nella loro
esistenza, sia nella loro natura o essenza, dipendono da un sistema di cause e di princìpi subordinati tra
loro. Così, l'atto presente di scrivere è attualmente dipendente dalle funzioni vitali, che dipendono a loro
volta dalle forze cosmiche, le quali dipendono dall'energia solare, dipendente a sua volta da altre cause
fisiche. C'è una causa assolutamente prima (cioè non dipendente da una causa superiore) alla quale siano
sospesi insieme il mio atto presente di scrivere e il mio atto di esistere, come pure, per ciò stesso, tutte le
cause intermedie da cui dipendono successivamente l'atto di scrivere e la esistenza? E questa causa prima,
se c'è, qual è? Ecco il problema filosofico che nessuna scienza affronta, né può affrontare, poiché la
ricerca della causa prima ci conduce al di là del sensibile. In questo campo soprasensibile la ragione sola
può introdursi e i sensi (come le scienze, che sono semplicemente dei sistemi di senso più penetranti)
restano impotenti.
Consideriamo ora con Cartesio (2e Méditation in Oeuvres de D. a cura di Adam e Tannery, 11 voll.,
Parigi, 1897-1909), “questo pezzo di cera”, suscettibile di assumere delle forme tanto diverse. Le scienze
della natura ci diranno le sue proprietà sensibili e misurabili (analisi fisica) e il numero e la natura dei suoi
costituenti (analisi chimica). Sono questi i princìpi prossimi che costituiscono il campo del sapere
scientifico. Ma le scienze non potranno dirci quali sono i princìpi ultimi (o primi) che fanno di questa cera
un corpo come tale, un essere materiale come tale. Questi princìpi sono metempirici (non sensibili) e
accessibili alla sola ragione, come osserva Caartesio 2.
Si può comprendere ormai ciò che significa l'asserzione che la filosofia è la scienza di tutte le cose
mediante la cause prime (causa efficiente e causa finale), e mediante i primi princìpi (materia e forma;
atto e potenza; generi supremi dell'essere; vita, ecc.). Ciò significa che la filosofia persegue la
spiegazione ultima e definitiva di tutto il reale.
Si può riassumere tutto ciò dicendo che la filosofia è la scienza dell'essere, in quanto il suo oggetto
formale è l'essere stesso in tutti i suoi gradi. Ma per comprendere meglio, è necessario precisare i termini
di essere e di scienza.
L'“essere” infatti, può significare sia l'essenza o la natura delle cose, sia l'esistenza stessa. Ora è
all'esistenza innanzitutto ed essenzialmente che la filosofia è ordinata, poiché essa mira a scoprire, in
ciascun campo dell'essere, le condizioni più generali o assolute dell'esistenza. Le essenze che essa si
sforza di cogliere e di definire, nei tre gradi di astrazione che distingueremo poi, per la filosofia non
rappresentano che una via per giungere a rendere intelligibili le esistenze, ossia il reale medesimo. I
princìpi e le cause, per essa sono sempre, per definizione, ricercati nel piano dell'essere preso nel senso di
attualità assoluta, in funzione della quale si riesce a spiegare ciò che è, in qualità di essenze realmente
esistenti.
Per questo è esatto dire che la filosofia è per eccellenza la scienza del reale. Tuttavia, il termine
“scienza”, qui, corre il pericolo di introdurre un equivoco. Se è vero, infatti, che la filosofia è realmente
una scienza, questo consiste nel fatto che essa tende essenzialmente a definire le condizioni assolute della
esistenza. Ma l'esistenza, come tale, non è e non può essere oggetto di scienza, poiché mai da nessuna
cosa ci è permesso di poterla dedurre. L'essere, come esistenza, è un dato, da cui bisogna partire, ma non
una cosa che si possa razionalmente dedurre, partendo da un principio superiore all'essere. L'esistenza non
è altro che oggetto di intuizione e di esperienza: l'induzione stessa e il ragionamento, come vedremo, non
sono, in quest'ordine, che dei prolungamenti dell'esperienza e della intuizione, delle esperienze mediate.
Se dunque la filosofia è una scienza, e lo è assolutamente, essa lo è non tanto per il suo oggetto formale,
che è l'esistenza, quanto invece per le tecniche razionali che essa adopera per raggiungere, attraverso le
essenze più generali, la realtà stessa di ciò che è, nel senso primo del termine.
B. LA FILOSOFIA, SCIENZA E SAPIENZA
Il termine filosofia attribuito a Pitagora, e che significa amore della scienza e della sapienza, definisce
felicemente la duplice natura della scienza universale.
4 - 1. LA FILOSOFIA È UNA SCIENZA - Una scienza, abbiamo detto, è una conoscenza razionale
per cause o per princìpi. Da quanto precede, si nota che la filosofia è proprio la più alta e la più perfetta
delle scienze, innanzitutto perché all'origine è perfettamente razionale o sistematica, in quanto tende a
scoprire le cause prime e i primi princìpi, e poi in quanto ha a sua disposizione un metodo rigoroso,
appropriato al suo oggetto formale. Le scienze della natura si propongono di stabilire solo dei rapporti di
conoscenza misurabile e concreta. Facendo astrazione dal problema della natura reale delle cose, esse
considerano (almeno esplicitamente) soltanto i rapporti delle cose tra loro nell'universo nel quale i nostri
sensi le apprendono. Così si sviluppano sempre più in una direzione in cui non hanno nulla da
preoccuparsi intorno alla natura del mondo, né intorno alla causa reale di ciò che esse osservano. Di
conseguenza, esse forniscono solo una intelligibilità (o spiegazione) relativa, provvisoria e simbolica. La
filosofia, al contrario, con i suoi metodi, tende alla spiegazione o intelligibilità assoluta, definitiva e
propria di tutto il reale. Essa è dunque la scienza per eccellenza.
5 - 2. LA FILOSOFIA È UNA SAPIENZA - Compito proprio della sapienza è giudicare, dirigere,
ordinare. Ora questi sono precisamente gli elementi che privilegiano la filosofia in rapporto alle scienze
particolari. Conviene tuttavia distinguere a questo proposito i campi assai differenti delle scienze
dell'uomo e delle scienze della natura (o scienze fisiche). La funzione della filosofia per la quale essa
regge e giudica evidentemente è più immediata nel campo delle scienze umane, poiché esse implicano
tutte postulati metafisici sulla natura dell'uomo e sui fini umani, ed è proprio della filosofia aiutare queste
scienze a trarre all'evidenza tutte le implicazioni metafisiche che esse comportano e parimenti giudicarne
le conclusioni alla propria luce.
Per quanto concerne le scienze fisiche, la funzione di guida della filosofia è meno manifesta: pertanto
comunemente la si nega. È un errore però: infatti le scienze della natura, esse pure, da una parte
continuano a mettere in azione postulati, che esse non possono in alcun modo giustificare, e neppure
sottoporre ad adeguata critica (per esempio, i postulati del determinismo universale o della costanza delle
leggi di natura), e d'altra parte, persistono a mettere in funzione, attraverso gli stessi loro sviluppi,
problemi specificamente filosofici che esse, in quanto tali, non hanno i mezzi per risolvere: (per es., i
problemi dell'origine assoluta del mondo, della vita e del pensiero, o il problema del mondo come
totalità). Infine, e da un punto di vista più generale, la filosofia ordina il complesso del sapere, non solo
per il fatto che essa definisce la gerarchia delle scienze, ma anche perché essa costituisce per tutte l'ultimo
compimento e il termine trascendente. E per il fatto stesso che essa risulta in certo qual modo l'unità del
sapere universale, si compie, come dice San Tommaso (De Ver., q. 8, a. 16, ad 4.um), in una intuizione o
visione sintetica dei molteplici effetti entro la causa una e delle conseguenze entro il principio. Tale
intuizione è il fastigio supremo della sapienza razionale 3.
Si potrebbe dire, più brevemente, che la funzione propria della filosofia, quella che le conferisce lo
status di sapienza, è il procedere alla critica razionale, metodica e sistematica, di tutte le attività umane
(ed è pure per questo motivo ch'essa è vera scienza): scienza della natura e scienza dell'uomo, arte e
tecniche, morale e sociologia, religione, ecc. E, nella filosofia stessa, la metafisica per eccellenza è
deputata ad assumere la duplice funzione di scienza e di sapienza.
C. LE DIVERSE CONCEZIONI DELLA FILOSOFIA
6 - La definizione che noi presentiamo della filosofia, non è stata nel passato acquisita d'un tratto. Al
contrario, essa rappresenta il risultato di una lunga e difficile elaborazione, le cui fasi coincidono in buona
misura con quelle della filosofia greca.
1. LA FILOSOFIA COME SCIENZA DELLA NATURA - I primi filosofi greci hanno avuto una
chiara consapevolezza della filosofia come scienza universale. Ma essi non giunsero a distinguere il senso
e la natura di questo universalismo. Dicevano infatti che la filosofia aveva per oggetto la scoperta dell'elemento primitivo o fondamentale delle cose (ciò che si dovrebbe ascrivere, in realtà, al sapere positivo). E
così gli Ionici cercano l'elemento comune a tutti i corpi, che sarebbe come il substrato di tutto il reale:
Talete di Mileto pensa che sia l'acqua, Anassimene, l'aria, Anassimandro, l'indeterminato (o infinito).
Parimenti, Eraclito d’Efeso crede di scoprire nel fuoco l'elemento primordiale e universale: la sottigliezza
e la mobilità dell'elemento infuocato sembrano infatti giustificare, agli occhi di Eraclito, la sua tesi essenziale che tutto muta, che al mondo non v'è nulla di stabile né di duraturo (“tutto scorre”, egli dice; “non ci
si bagna due volte nello stesso fiume”). Gli Eleati (Parmenide di Elea, Senofane di Colofone, Zenone di
Elea) invertendo la dottrina di Eraclito, sostengono che il cambiamento è una pura illusione dei sensi, che
in realtà c'è solo l'immobilità. Pitagora crede di trovare nelle infinite combinazioni dei numeri (princìpi
primi di tutto) la spiegazione della diversità delle cose. Empedocle di Agrigento afferma che il mondo
risulta dalla combinazione di quattro elementi primitivi: acqua, aria, fuoco, terra (si sa quale lunga fortuna
doveva avere questa “teoria dei quattro elementi”). Leucippo e Democrito (materialisti) proposero la
teoria degli atomi o elementi materiali primitivi omogenei. Infine, Anassagora orienta la speculazione
nella direzione in cui s'impegneranno Platone e Aristotele, osservando (benché di sfuggita e senza distinguere, sembra, la portata di questa riflessione) che non si spiegherà nulla definitivamente senza far
intervenire una causa efficiente, agente in vista di un fine, e che egli chiama il Nous (lo spirito) 4.
Nel XIX secolo, il positivismo (August Comte, Spencer) ritorna in misura notevole alle concezioni
degli antichi greci, assegnando alla filosofia solo un ruolo di unificazione del sapere positivo, il che
conduce ad abbandonare la ricerca delle cause prime (ritenute inconoscibili) e, di conseguenza, tutta la
metafisica, e a rendere la filosofia una scienza più vasta, ma della stessa natura delle scienze fisiche.
7 - 2. LA FILOSOFIA COME SCIENZA PARTICOLARE - Alcuni filosofi hanno misconosciuto
l'universalità essenziale del sapere filosofico e hanno dato alla filosofia un oggetto particolare. È così che
la filosofia dell'Oriente (Cina: Confucio, Lao-Tse, India: Veda, bramanesimo e buddismo) è tutta
orientata verso la morale e destinata a ridurre il mondo “ordinabile” 5 più che intelligibile. Presso i Greci,
gli Stoici (Zenone di Cizio, Crisippo, Epitteto), gli Epicurei (Epicuro), gli Scettici della Nuova Accademia
(Pirrone, Arcesilao, Carneade), riportano il fine della filosofia alla direzione della vita morale o
subordinano a questo fine tutte le ricerche speculative.
Socrate, in un aspetto della sua dottrina, sembra lui stesso ridurre la filosofia alla scienza della
condotta umana. L'essenziale della filosofia, egli diceva, consiste nel “conosci te stesso” dell'oracolo di
Delfo. Tuttavia è più giusto vedere in Socrate, prima che in Platone e in Aristotele, il fondatore autentico
della filosofia, poiché egli insegna il vero metodo filosofico, consistente nel ricercare obbiettivamente la
definizione (o essenza) di ciascuna cosa. Questo metodo, Socrate l'applicava unicamente al campo
morale. Ma valeva universalmente per tutta la filosofia.
3. LA FILOSOFIA COME LOGICA, ARTE o MISTICA - Alcune dottrine, per amore di razionalità,
tendono a ridurre la filosofia ad una pura costruzione logica, che ha valore indipendentemente dalla
esperienza (Idealismo in generale, Hegel, Hamelin). Altri, invece, ne fanno un sapere mistico, una specie
di fede irrazionale, fondata sulle intuizioni del cuore (Jacob Boehme, Schleiermacher, Schopenhauer). La
filosofia sarebbe così solo saggezza (e impropriamente d'altronde, essendo la visione l'elemento
essenziale della sapienza) e non scienza. Kant rientra in questa categoria di filosofi, in quanto sostiene che
tutte le nozioni metafisiche non possono essere acquisite se non come altrettanti postulati della ragion
pratica. Lo stesso errore lo troviamo nei fideisti e nei tradizionalisti (De Bonald, Bautain, Ventura,
Lamennais), per i quali la filosofia sarebbe un sapere, non però acquisito dalla ragione naturale, ma
incluso nella fede e trasmesso dalla tradizione (o dal linguaggio).
8 - 4. LA FILOSOFIA COME SCIENZA UNIVERSALE DELLE CAUSE PRIME ­ Gli sforzi
dell'antica filosofia greca per definire l'essenza del sapere filosofico trovano il loro punto culminante in
Platone e in Aristotele. Platone fa una specie di sintesi delle grandi correnti del pensiero greco, unendo
alla sensibilità per le questioni morali, che gli proviene dal suo maestro Socrate, quella per i problemi
concernenti la natura e l'origine delle cose, che gli proviene dai fisici. Tuttavia, la tendenza che si
manifesta nell'opera platonica, così ricca di magnifiche intuizioni, di elevatezza morale e di potenza
sistematica, sembra piuttosto orientare la filosofia verso una specie di misticismo, che ponga l'accento
sull'aspetto intuitivo della filosofia, a scapito dell'aspetto scientifico.
È Aristotele, discepolo di Platone, che definisce finalmente la filosofia come scienza del reale
mediante le cause prime e i primi princìpi, costruendo sulla duplice base dell'esperienza e della ragione un
edificio d'una meravigliosa ampiezza e d'una prodigiosa ricchezza.
Nel Medioevo, San Tommaso d’Aquino fa la sintesi del pensiero aristotelico e della corrente
speculativa, pervenutagli attraverso Sant'Agostino, dalla tradizione platonica e soprattutto dalla
rivelazione cristiana.
5. LA DUPLICE DIREZIONE DERIVATA DAL CARTESIANESIMO - Nel XVII secolo, Cartesio
sembra proporre una concezione della filosofia tale da renderla soprattutto un'arte, assegnandole una
funzione essenzialmente pratica. Egli paragona infatti la filosofia ad “un albero, le cui radici sono la
metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che spuntano da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si
riducono a tre principali: cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo, una morale che sia la più
alta e la più perfetta, la quale presupponendo una completa conoscenza delle altre scienze, rappresenta
l'ultimo gradino della sapienza” (Principes de la Philosophie, prefazione, § 12, cfr. tr. it., 3a ed., Bari,
1934). La filosofia rimane così definita come una sapienza pratica e solo in misura assai minore come una
scienza; infatti Cartesio lo sottolinea espressamente quando dichiara che la principale utilità della filosofia
è quella di rendere l'uomo capace di divenire “signore e padrone della natura”. La metafisica, in questa
concezione, ha come ragione della sua esistenza la fondazione della scienza (cioè qui il dominio delle
forze naturali) sopra una base ritenuta solida e definitiva.
Tale è la definizione di filosofia che Cartesio offre al mondo moderno, nello stesso tempo in cui gli
offre l'idealismo (dottrina secondo la quale l'uomo non conosce immediatamente e direttamente che le
proprie idee) che costituisce il suo sistema. La filosofia, dopo di lui, oscilla e si divide in due correnti:
l'una, derivata dall'idealismo cartesiano, tenta di costruire una filosofia completamente razionale o
puramente deduttiva, senza ricorrere all'esperienza, l'altra, derivata dal pragmatismo cartesiano, sfocia
nel positivismo, che misconosce la specificità della filosofia riducendola a sintesi del sapere scientifico.
Nessuna di queste due correnti risponde evidentemente alle esigenze di una filosofia fedele alla sua
essenza di scienza del reale e di suprema sapienza.
8 bis - 6. LA FENOMENOLOGIA - La fenomenologia di Husserl è stata un metodo prima di
diventare una dottrina. Partito dalla critica delle matematiche, Husserl ha dapprima mirato a scoprire un
procedimento che ci rendesse possibile l'acquisto delle verità fondamentali e la loro giustificazione
apodittica. Per tale scopo, la sua regola essenziale è di andare alle cose stesse eliminando radicalmente
ogni teoria preconcetta sul reale. Due princìpi sono impliciti in questo punto di partenza: un principio
negativo (epoché), consistente nel rifiutare tutto ciò che non è apoditticamente giustificato, un principio
positivo, consistente nel fare appello alla intuizione immediata delle cose (cioè, secondo Husserl, dei
fenomeni, che sono le sole cose a noi veramente date). Di qui il nome di fenomenologia o scienza dei
fenomeni. Il campo dell'intuizione fenomenologica, sarà dunque costituito da tutti i fenomeni dati alla
coscienza, cioè da tutto ciò che si manifesta in qualche modo e ad un titolo qualunque (con esclusione di
tutto il campo kantiano non apodittico dell'in sé non manifestato e non manifestabile). Il compito della
fenomenologia sarà quello di scoprire e di descrivere col massimo rigore la totalità dei fenomeni,
sforzandosi nel medesimo tempo di cogliere i rapporti che li legano tra loro, cioè di interpretarli.
Questo metodo non ha tardato a far rinascere la metafisica che esso implicava, e che ha, per Husserl,
un carattere idealistico molto spinto. Infatti, poiché l'epoché è un porre tra parentesi tutto il dominio
dell'esistenza lasciando sussistere davanti allo spirito soltanto il puro fenomeno, la fenomenologia
husserliana comporta una specie di idealismo, che riduce l'universo al contenuto immanente della
coscienza, senza riconoscere un altro tipo di conoscenza oltre la intuizione delle essenze. Senza dubbio,
Husserl afferma che il suo metodo, attraverso riduzioni successive, porta ad un Ego trascendentale (che in
tal modo risulterebbe la prima esistenza apoditticamente certa), in quanto principio della costituzione del
mondo, cioè del complesso dei fenomeni in quanto dati oggettivi (o noemi) correlativi all'attività
conoscitiva (o noesi). Tutte queste affermazioni tuttavia comportano parecchie difficoltà di cui ha avuto
coscienza lo stesso Husserl; vi ritorneremo nella Critica (IV, 126-128).
Tuttavia, dei pensatori esistenzialisti, specialmente Heidegger e Merleau-Ponty, hanno ritenuto che la
fenomenologia poteva ricevere un senso molto diverso e tale che, logicamente, doveva andare nella
direzione dell'esistenzialismo; poiché se, per essa, tutti i problemi consistono nel definire delle essenze,
essa è pure “una filosofia che ripone le essenze nella esistenza, né pensa che si possa comprendere l'uomo
ed il mondo in maniera diversa che partendo dalla loro fatticità (o realtà di fatto). Si tratta di una filosofia
trascendentale che pone “tra parentesi”, per comprenderle, le affermazioni dell'atteggiamento naturale, ma
è altresì una filosofia per la quale il mondo è sempre “già là” prima della riflessione, come una presenza
inalienabile, e il cui sforzo consiste nel ritrovare questo contatto naturale col mondo per dargli poi un
ordinamento filosofico” 6.
7. L'ESISTENZIALISMO - Sotto questo termine si sono sviluppate ai nostri giorni diverse correnti
che devono molto alle influenze congiunte di Kierkegaard7, di Nietsche e di Husserl. Rappresentato specialmente, in Germania, da Heidegger e Jaspers8, e, in Francia, da G. Marcel e da J.-P. Sartre9, l'esistenzialismo sembra comportare un metodo comune, che è quello della analisi o fenomenologia esistenziale, e
un principio comune, consistente nella affermazione che l'esistenza ha la priorità sulla essenza.
a) L'analisi esistenziale. L'esistenzialismo manifesta dapprima l'intento di prendere per punto di
partenza l'esperienza concreta e vissuta, di attaccarsi, per così dire, direttamente all'uomo, invece di
assumerlo come termine di un risultato, invece di ritrovarlo alla fine di una ricerca che procede per via
astratta partendo da Dio e dall'essere, dal mondo e dalla società, dalle leggi della natura e della vita.
A tale proposito, bisognerebbe qui distinguere già due direzioni assai diverse. Kierkegaard e Jaspers,
che rappresentano la prima, non pensano che l'analisi esistenziale possa condurre ad una verità universale.
Tutto si compie per essi in una pura esperienza, né comunicabile (direttamente almeno), né
universalizzabile, in un contatto del tutto personale con l'assoluto dell'essere, coscienza vivente
dell'“istante eterno”, per cui l'uomo svincolandosi dal labirinto delle proprie contraddizioni e toccando
una “verità” che non è formulabile in nessun modo, avverte d'un tratto il senso della propria esistenza,
rigorosamente identico ad essa. Il paradosso di questo atteggiamento è che esso sopprimerebbe non solo
la filosofia, ma altresì ogni espressione dell'esistenza: la filosofia esistenziale si esaurirebbe nella propria
negazione. Heidegger e Sartre non condividono questa specie di esistenzialismo. Essi sono entrambi
ontologisti: mirano a fondare una “scienza dell'essere”. Il fatto che le loro dottrine siano
“fenomenologiche”, non toglie nulla alla loro natura di scienza universale, estensibile ad un tempo
sull'universalità dell'essere e valida per tutti gli uomini.
b) L'esistenza e l'essenza. L'esistenza ha la priorità sulla essenza, cioè, secondo Heidegger, Jaspers e
Sartre, l’esistenza non ha un'essenza distinta da se stessa, o, se si vuole, essa è l'opera dell'esistenza e
coincide concretamente con essa. Le conseguenze di questa dottrina, almeno in Sartre, in cui essa è
strettamente solidale con un ateismo radicale, si riassumono in questa fondamentale asserzione: che la
realtà propria dell'esistenza, non potendo essere riferita a nient'altro che sia distinto da essa stessa, è
contingenza radicale e finitezza irriducibile da considerarsi solo come l'atto di una libertà che si
costituisce affermandosi ed è generata da questa sola affermazione di sé 10.
G. Marcel deve essere distinto dagli altri esistenzialisti. Egli ammette sì, con loro, il metodo di analisi
esistenziale ed anche il principio che l'“esistenza precede l'essenza”, nel senso che l'uomo deve formare se
stesso nell'esistenza. Ma tuttavia egli ritiene che tutta l'esistenza e la sua dialettica vivente, centrata sul
mistero dell'essere e su quello del proprio destino, siano polarizzate nella Trascendenza di un Dio
personale, che solo può dare un senso e un valore alla vita umana e al destino dell'umanità.
Art. II - La filosofia e le scienze
9 - Da quanto abbiamo visto intorno alla natura della filosofia e delle scienze positive, possiamo ormai
comprendere la struttura dei loro rapporti. Questo aspetto si può riassumere (partendo dall'esperienza,
base comune per la filosofia e per le scienze) nelle due proposizioni seguenti: la filosofia parte
dall'esperienza sensibile, ma la trascende, - la filosofia utilizza le scienze, ma non dipende da esse.
1. LA FILOSOFIA E L'ESPERIENZA
a) La filosofia parte dall'esperienza sensibile. Tutta la filosofia, sia che si tratti della filosofia della
natura oppure della metafisica, è tributaria dell'esperienza sensibile. Abbiamo visto infatti che la filosofia
è la scienza universale. Come potrebbe fondarsi una tale scienza, se non partendo dalla conoscenza
sperimentale del reale, e innanzitutto da quella conoscenza che è dovuta all'attività sensibile? Dunque
proprio dai sensi, almeno a titolo di condizioni prime del sapere, la filosofia dipende in tutta la sua
estensione, e perfino nel suo campo più immateriale.
Per eliminare un equivoco, a questo proposito importa sottolineare che l'esperienza sensibile, la quale
sta al punto di partenza della filosofia, è soltanto una condizione del sapere filosofico, precisamente nel
senso che ogni conoscenza principia attraverso i sensi in quanto ciò che è dato in prima istanza è l'oggetto
sensibile, e, più generalmente, il mondo stesso come campo o orizzonte di ogni esperienza. Vero è però
che, entro questa stessa esperienza e dal momento ch'essa esiste, risultano già implicati dati non
sensibili, cioè gli schemi più generali (o categorie) del mondo dei fenomeni (campo del metempirico) e i
princìpi primi dell'essere (campo dell'ontologico). Da questo punto di vista con perfetta verità si potrà dire
che al principio della filosofia v'è un'esperienza contemporaneamente sensibile, metempirica e metafisica.
A ciò occorre aggiungere l'esperienza morale, che costituisce essa pure un dato positivo. L'esperienza
iniziale è dunque multiforme e si può dire che tutta la filosofia vi è contenuta in certo qual modo11.
Tuttavia, è necessario rilevare a questo punto che l'esperienza in filosofia si presenta sotto un aspetto
diverso (sebbene altrettanto rigoroso) da quello proprio del sapere scientifico. L'esperienza, nelle scienze
della natura, implica innanzitutto la condizione della misura, in vista di definire delle relazioni tra fenomeni, la cui complessità aumenta proporzionalmente allo sviluppo della scienza. L'esperienza su cui la
filosofia si appoggia è quella di fatti estremamente generali di ordine sensibile o intelligibile, la cui
apprensione si compie con una certezza tale che le scienze positive non possono conoscere nel loro
campo essenzialmente mobile, ambiguo e complesso12. Si ottiene così tutto un materiale filosofico
sperimentale, che non è il semplice prodotto di ciò che si definisce esperienza volgare (cioè esperienza
allo stato bruto, infra-filosofico) bensì il prodotto di quella esperienza già filosofica fondata dal senso
comune, cioè dall'esercizio spontaneo dell'intelligenza, che rivela le evidenze immediate, le certezze
fondamentali risultanti dalla percezione dell'essere, oggetto proprio dell'intelligenza. Tali sono: il fatto
che c'è l'essere, che esiste il pensiero, che c'è il divenire, il continuo, la durata, il molteplice, che c'è
l'ordine, la causalità, che il dovere esiste, che tutto ciò che è ha la sua ragione d'essere, ecc., che il tutto è
maggiore della parte, ecc. Questi dati del senso comune non sono però assunti passivamente dalla
filosofia. Questa al contrario li critica e li giudica, definendo nel medesimo tempo le condizioni e i limiti
della conoscenza sensibile, da cui essa parte. La ricerca filosofica conferma, chiarisce, precisa e
arricchisce costantemente le intuizioni che essa deve al senso comune.
10 - b) La filosofia trascende l'esperienza sensibile. Se la filosofia si fermasse sul piano sensibile
dell'esperienza, essa non si distinguerebbe dalle scienze particolari della natura, il cui oggetto è sempre il
sensibile come tale. Ma noi sappiamo che la filosofia è la scienza universale delle cause e dei princìpi
primi, i quali sono necessariamente, per definizione, non sensibili e accessibili alla sola ragione. Se
dunque la filosofia deve sempre partire dal sensibile, la ragione di ciò è l'esigenza di cogliere, in questa
stessa esperienza, le cause e i princìpi che costituiscono il suo oggetto proprio, il quale è intelligibile e
non sensibile.
Si vede così in quale senso si deve intendere l'adagio famoso: Nihil est in intellectu quia prius fuerit in
sensu. Tutto il sapere filosofico parte dall'esperienza sensibile; ma è l'intelligibile stesso che l'intelligenza
si sforza di cogliere in seno a questa esperienza. In questo senso, come vedremo, anche il più alto oggetto
del sapere filosofico, che è la teologia naturale (Dio e i suoi attributi), è anzitutto incluso nell'esperienza a
titolo di esigenza intelligibile del reale appreso dai sensi.
Si potrebbe dire quindi più semplicemente che la filosofia è una riflessione sulla vita o sul vissuto, col
fine di renderne esplicite forma e contenuto. Per parlare con rigore, la filosofia non inventa nulla: essa si
limita a dis-coprire ciò che è originariamente celato, a rischiarare ciò che è originariamente oscuro o
confuso, a portare alla chiarezza della coscienza, attraverso una critica continua dell'esperienza, ciò che
dapprima è esercitato e vissuto in spontaneità piena. Ecco il motivo per il quale pure la filosofia comincia
da se stessa, in quanto non presuppone altro che l'esperienza originaria di sé e del mondo vissuta
dall'uomo.
11 - 2. LA FILOSOFIA E LE SCIENZE DELLA NATURA
a) La filosofia utilizza le scienze. La filosofia è una sapienza in quanto giudica, dirige e unifica la
totalità del sapere umano. Ciò implica evidentemente che la filosofia utilizza questo sapere per i propri
fini. Le scienze le forniscono dei materiali, elaborati in realtà sotto una forma che non si addice alla
filosofia, ma nei quali essa sa scoprire ciò che ricerca, utilizzando tutto quanto il valore ontologico o
metafisico che essi comportano (accessibile alla sola ragione e non alla scienza positiva come tale). Il
contatto dunque tra il filosofo e lo scienziato non deve mai venir meno: la filosofia deve alimentarsi
costantemente dei ritrovati del sapere scientifico.
b) La filosofia non dipende dalle scienze. Se la filosofia deve utilizzare le scoperte delle scienze, ciò
avviene nello stesso modo in cui un organismo vivente si nutre del mondo vegetale: per assimilazione
vitale. Le scienze apportano al filosofo sia dei fatti positivi, sia delle teorie. Entrambe poi, come vedremo
nella logica, sono ora delle ampie ipotesi simboliche (come altre volte il “fatto” dell'etere, ed oggi il fatto
della curvatura dello spazio, nella teoria di Einstein), ora dei dati sperimentali implicanti tutto un sistema
di costruzioni e di simboli (tali i fatti rilevati dalla meccanica ondulatoria). Teorie e fatti non possono
come tali integrarsi con la filosofia: essi richiedono una elaborazione che consiste nel cogliere,
attraverso il simbolismo più o meno complesso della loro espressione, il grado di valore ontologico
racchiuso in essi.
La ragione più generale di questo atteggiamento filosofico di fronte alle scienze, è che queste si
sviluppano interamente sul piano delle cause seconde e dei rapporti di misura dei fenomeni, mentre
invece la filosofia si trova sul piano dell'essere e delle cause prime. Su questo punto, la scienza, come
tale, non ha nulla da dire: essa non può giudicare la filosofia più che un cieco i colori. Ma all'opposto, la
filosofia non deve giudicare e dirigere la scienza nel campo che le compete. (Queste osservazioni,
beninteso, esprimono una precisazione teorica o di diritto. Praticamente, è chiaro che degli sconfinamenti
e dei conflitti sono possibili da entrambe le parti, in seguito ad errori individuali).
12 - 3. IL PROBLEMA DEI CONFINI - Sembra tuttavia che tra filosofia e scienze vi sia un problema
di confini o di divisione. Dove finisce la scienza? Dove inizia la filosofia?
a) La concezione spaziale. Spesso si scrive che la filosofia è “al di là della scienza”, intendendo con
ciò che si debba arrivare ad un punto e ad un momento in cui la scienza, a forza di avanzare, sfoci nel
campo strettamente filosofico. Che bisogna pensare di questa concezione?
Osserviamo dapprima che questa concezione rappresenta uno pseudo-problema, dovuto all'illusione
spaziale o dualistica. È il problema insolubile della “comunicazione delle sostanze”, in virtù del quale vi
sono due mondi chiusi e contrapposti (poiché non possono assolutamente compenetrarsi né comporsi in
unità): il mondo del pensiero (spirito) e quello della estensione (materia). Questo pseudo-problema non
può evidentemente che comportare una soluzione di questo genere: “attraversando” la estensione, si
giungerebbe al pensiero o allo spirito! È la concezione nominalistica: il nominalismo (dottrina che nega il
valore delle idee generali) è in realtà una dottrina confusa e contraddittoria, un “cosismo” integrale. Lo
stesso cartesianesimo (che è un nominalismo) per il suo dualismo radicale di pensiero e di estensione,
vieta di pensare la metafisica come cosa diversa dall'al di là dei fenomeni. Kant, da parte sua, pone il
noumeno (cioè la metafisica) al di là dei fenomeni come una cosa sotto o aldilà delle altre cose. Si vede
così che in conseguenza di queste differenti teorie la metafisica e la scienza si troverebbero separate da
un confine comune (poco importa che sia concepito spesso come insuperabile).
Quindi, questa concezione (esplicita o implicita) rende inintelligibile l'unità del reale, come
dimostrano a sufficienza le singolari soluzioni proposte per il problema della “comunicazione delle
sostanze” (idee innate di Cartesio, occasionalismo di Malebranche, armonia prestabilita di Leibnitz),
come pure lo dimostra l'idealismo che, ponendo due universi separati, quello delle idee o essenze e quello
dei fenomeni, finisce col negare la realtà di quest'ultimo, che in realtà, è superfluo.
13 - b) L'unità complessa del reale. Una soluzione soddisfacente del problema dei rapporti tra scienza
e filosofia, la si troverà soltanto in una concezione che ponga 1'elemento metafisico come immanente al
sensibile, non però come una cosa sotto un'altra cosa, ma come principio e coprincipio di essere. “Pensiero ed estensione”, o meglio materia e forma, non sono due esseri, due sostanze; come dice Cartesio, ma
due princìpi che, mediante la loro unione, formano un solo essere (minerale, vegetale, animale o uomo,
secondo la natura della forma, cioè del principio intellegibile che determina la materia prima).
Evidentemente, qui non si tratta dell'Assoluto metafisico, oggetto formale della teologia naturale, ma
dell'elemento metafisico della natura (oggetto della Cosmologia), il solo che possa entrare in discussione
quando si tratta dei rapporti tra la scienza e la filosofia; più esattamente lo si dovrebbe chiamare
metempirico.
Da questa dottrina risultano le seguenti conseguenze:
Da un lato, non c'è “confine” tra l'elemento sensibile e quello metafisico, implicando a sua volta la
nozione di confine la realtà di “cose” (ritenute distinte per mezzo del confine) e l'omogeneità di queste
cose, cioè l'unicità del piano. Ora il sensibile e il metafisico non esistono come “cose”; e d'altra parte sono
eterogenei tra loro, quantunque costituiscano insieme un essere uno, ma complesso.
Di conseguenza, la scienza non ha un limite. È assolutamente impossibile che lo scienziato come tale
riscontri dei limiti diversi da quelli accidentali, cioè dovuti alla insufficienza dei suoi mezzi di
investigazione.
Tuttavia la scienza, considerando il sensibile, o, più esattamente, i rapporti misurabili tra fenomeni,
non è che un aspetto (e autentico) della interpretazione del reale. La spiegazione scientifica è reale, ma
non ultima e totale. Solo in questo senso si parlerà dei “limiti della scienza”, cioè di una spiegazione
limitata o inadeguata del reale13.
Infine, si vede che il metafisico sta maggiormente entro questo sapere stesso (benché solo in potenza e
non in atto) che al di là del sapere positivo e sperimentale, esattamente come l'intelligibile (o l'idea),
oggetto della sola intelligenza, è entro la sensazione (o l'immagine sensibile), benché inaccessibile al
senso, come tale.
Così dunque, scienza e filosofia, differiscono più per il punto di vista che per il campo di estensione.
Senza dubbio, c'è tutta una parte della metafisica orientata verso la conoscenza di una Realtà che non è
nel sensibile: si tratta della teologia naturale. Ma anche in quel rispetto bisogna dire che la metafisica non
è, per noi, un al di là della esperienza, poiché la conoscenza di Dio, per noi, non è che una conoscenza
dell'essere, una conoscenza di esso, aggiungiamo, nella sua contingenza, ossia nella sua insufficienza
ontologica. Pure per questo riguardo la metafisica è un punto di vista distinto da quello della scienza (cioè
il punto di vista della causa prima dell'essere, mentre la scienza considera soltanto le cause seconde
dell'essere), ma non è però un campo radicalmente distinto, assolutamente diverso da quello della
esperienza e del sapere positivo.
Art. III - La filosofia e la fede
A. IL PROBLEMA DEI RAPPORTI TRA FILOSOFIA E FEDE
14 - 1. LA FILOSOFIA E LA RIVELAZIONE CRISTIANA - Il problema dei rapporti tra la filosofia
e la fede è innanzitutto posto dalla storia delle dottrine filosofiche 14. È fuori dubbio che la filosofia ha
subìto, in ampiezza e in profondità (volontariamente o no, poco importa qui), l'influenza delle nozioni e
delle dottrine proprie della teologia. Il fatto è certo: la rivelazione cristiana suscita una nuova filosofia
dell'uomo e del mondo e, nel corso dei secoli, la filosofia si arricchisce costantemente delle speculazioni
dei teologi. Tra filosofia e teologia c'è dunque almeno un rapporto di fatto. Il problema che si presenta è
di sapere se l'influenza teologica non corrompa la filosofia nell'essenza che le è propria e se il concetto di
“filosofia cristiana” sia una nozione intelligibile15.
2. PRINCIPI RISOLUTIVI - Per risolvere questo duplice problema, si terranno presenti gli elementi
seguenti:
a) Distinzione radicale della filosofia e della teologia. La filosofia infatti, fa appello al solo criterio
della evidenza intrinseca del proprio oggetto: essa usa unicamente la ragione naturale. La teologia ha per
unico criterio l'autorità di Dio rivelante (evidenza estrinseca). Questi criteri sono tanto distinti da
escludersi reciprocamente: d'una stessa cosa e sotto il medesimo rapporto non si può avere
simultaneamente fede e scienza.
b) Il contenuto razionale della Rivelazione. La rivelazione cristiana non contiene unicamente delle
nozioni sopra-razionali (misteri). Essa racchiude, di fatto e necessariamente, un grande numero di verità
propriamente razionali16. Queste nozioni razionali, la filosofia può evidentemente assimilarle senza
rinunciare alla sua essenza e ai suoi metodi. È ciò che avviene in particolare per l'idea di creazione, che
ha apportato tanta luce alla speculazione razionale, per la nozione di persona morale, soggetto del diritto,
ecc. 17
c) La speculazione in clima cristiano. D'altra parte bisogna tener conto del fatto che la speculazione
filosofica si sviluppa per opera di filosofi che possono essere nello stesso tempo dei cristiani. Come
potrebbero essi evitare di subire e persino di esigere l'influenza di ciò che sanno attraverso la rivelazione?
La sola cosa necessaria qui è che tutto ciò che essi devono ai lumi della fede rientri nel contesto
filosofico, alla condizione però di poterlo dimostrare razionalmente, e inoltre che essi non confondano
mai i metodi essenzialmente diversi della filosofia e della teologia18.
B. IL CONCETTO DI “FILOSOFIA CRISTIANA”
15 - Si è chiesto se la nozione di “filosofia cristiana” racchiudesse delle idee contraddittorie, poiché
“filosofia” implica pura razionalità, mentre l'epiteto “cristiano” implica ricorso a dei princìpi soprarazionali. Le soluzioni fornite a questo problema si possono ridurre a due categorie: quelle che ammettono
solo un'influenza estrinseca della rivelazione e quelle che parlano di influenza intrinseca, sostenenti
entrambe la perfetta intelligibilità della nozione di “filosofia cristiana”19.
1. IL CRITERIO ESTRINSECO DELLA FEDE - Si può evidentemente dire che una filosofia è
cristiana in quanto ammette e ricorre al criterio estrinseco della rivelazione cioè, in quanto costruendo
tutto il sistema razionale alla luce autonoma dei primi princìpi, evidenti di per sé, mira, nelle sue conclusioni, a non urtare alcuna verità di fede o implicata in modo evidente dalla fede stessa. Tuttavia, questo
criterio puramente negativo della fede, solo accidentalmente conferisce alla filosofia un carattere
cristiano. Sembra che parlando di “filosofia cristiana” si voglia dire qualcosa di più.
16 - 2. LA FILOSOFIA INTRINSECAMENTE CRISTIANA - Può essere la filosofia intrinsecamente cristiana, senza cessare di essere completamente razionale? Qui, la soluzione del problema dipende
dalla maniera in cui si intende l'espressione “intrinsecamente cristiana”.
a) La soluzione di Maurice Blondel. Per Blondel (Le problème de la philosophie catholique) la
filosofia è autenticamente filosofia quando è intrinsecamente cristiana, non però nel senso che essa sia
debitrice di tutto all'influenza della rivelazione (ciò che, secondo Blondel, finirebbe col corrompere
l’essenza della filosofia), ma invece nel senso che ogni filosofia autenticamente razionale, ossia che
giunge fino al limite delle esigenze della ragione, comporta in conclusione un bisogno di completezza che essa è d'altronde incapace di definire concretamente ­ una insufficienza, una incompletezza, e un
vuoto che solo la rivelazione cristiana è capace di colmare.
Presa in questo senso, la nozione di filosofia cristiana sembra attribuire alla fede troppo o troppo poco.
Infatti, essa urta dapprima contro la storia delle dottrine, che mostra in modo evidente (e contrariamente
alle affermazioni di Em. Bréhier, “Rev. de Métaph. et de Mor.”, aprile giugno 1931), l'influenza esercitata
dalla fede sulla filosofia. Negando questa influenza, Blondel tende ad eliminare ogni contenuto reale ed
ogni senso dall'espressione di “filosofia intrinsecamente cristiana”. In compenso, se si volesse dare
all'avverbio “intrinsecamente” il senso preciso e pieno desiderato da Blondel, difficilmente si eviterebbe
un certo rischio di fideismo, cioè il rischio di supporre che le verità razionali non possano stabilirsi in
modo sicuro, acquistare consistenza e certezza, senza il concorso della Rivelazione. In questo caso il
concetto di “filosofia cristiana” risulterebbe contraddittorio.
b) La filosofia può essere specificamente cristiana? Alcuni filosofi (Bl. Romeyer, Histoire de la
philosophie chrétienne, t. I, p. 91), non si accontentano di parlare di “filosofia intrinsecamente cristiana”,
ma vogliono che la filosofia sia specificamente cristiana quando risulta “dall'azione intima di tutto
l'insieme cristiano” garantendo al filosofo “uno svolgimento più rettilineo e più profondo delle virtualità
naturali, e così pure, della filosofia umana”.
Questo senso sembrerà ammissibile qualora si precisi che l'azione intima della rivelazione, per quanto
determinante ed efficace, rimanga sempre sottoposta al criterio dell'evidenza razionale. Ma in questo caso
non si vede più come l'avverbio “specificamente” possa conservare ancora il proprio valore. “Specificamente”, infatti, significa “essenzialmente” e, sia nella concezione che noi esponiamo, sia di diritto, la
filosofia non può essere specificamente o essenzialmente cristiana. Ciò è contraddittorio, come si è visto
prima, in quanto filosofia e fede differiscono essenzialmente. L'espressione di “filosofia specificamente
cristiana” rischia dunque di introdurre un equivoco che bisogna appunto evitare con cura.
17 - c) In quale senso una filosofia è intrinsecamente cristiana?
La discussione che precede ci ha dimostrato che la filosofia cristiana è tale non solo negativamente e in
ragione del soggetto che filosofa, ma pure positivamente e in sé (ciò che non equivale a “specificamente”
o “essenzialmente”). Questo significa che, conservando rigorosamente la sua natura propria, specifica, di
scienza fondata sui lumi naturali della ragione, la filosofia può beneficiare da parte della fede di un
duplice conforto: l'uno oggettivo, in quanto la fede le propone un certo numero di verità d'ordine
razionale, implicite nel suo contesto (esistenza di Dio, - libera creazione del mondo da parte di Dio, - in
vista della manifestazione della bontà divina, - Provvidenza universale, - spiritualità e immortalità
personale dell'anima umana, - libero arbitrio ecc.), l'altro soggettivo, in quanto l'atto della fede, con i doni
della sapienza e dell'intelligenza, conferma dall'alto le certezze razionali fondamentali, conferendo loro
una luce e una forza particolari, e illumina, a beneficio dell'intelligenza filosofia, tutto il campo del
sapere.20 Così si può dire che una filosofia garantirà tanto più autenticamente le proprie esigenze
razionali in quanto sarà, nel senso che noi abbiamo visto, più profondamente cristiana.
Art. IV - Divisione e metodo della filosofia
A. PRINCIPIO DELLA DIVISIONE
18 - La questione della divisione della filosofia coincide qui con quella del metodo generale. Lo si
analizzerà studiando le diverse divisioni che sono state proposte.
1. LA DIVISIONE IN LOGICA, PSICOLOGIA, MORALE E METAFISICA - Questa divisione è
usata al giorno d'oggi. Ma è molto più un saggio di distribuzione delle materie filosofiche che una
divisione fondata su di un principio. A prima vista, l'ordine ne appare assai discutibile. Innanzitutto,
poiché lascia supporre che la morale potrebbe costituirsi integralmente senza la metafisica: vedremo più
avanti che ciò non è possibile. E poi, la cosmologia (o filosofia del mondo materiale come tale), sembra
non appartenere alla filosofia (poiché non ne si tratta), ma dipendere unicamente dalle scienze della
natura, - manifesto errore, avendo la cosmologia per oggetto formale la determinazione dei princìpi primi
dell'essere materiale in quanto tale, ciò che è propriamente filosofico, - oppure è inserita ora nella logica
materiale, ora nella metafisica; in nessuno dei due casi questo è il suo posto normale.
In realtà, da un lato la logica è puramente formale, e si riferisce agli oggetti del pensiero e non agli enti
reali; dall'altro lato, la cosmologia, o filosofia dell'essere materiale, è una scienza distinta, per il suo
oggetto formale (l'essere sottoposto al divenire) dalla metafisica (il cui oggetto formale è l'essere in
quanto tale, cioè considerato nel suo aspetto intelligibile proprio). Questa divisione implica dunque gravi
confusioni sulla natura delle scienze filosofiche e per la stessa ragione sul metodo della filosofia.
19 - 2. LA DIVISIONE WOLFFIANA - La divisione precedente dipende in parte dalle innovazioni
introdotte da Wolff, discepolo di Leibniz, nel XVIII secolo, e in parte dalle concezioni kantiane. Tuttavia,
Wolff, lungi dal relegare la metafisica generale dopo la psicologia, poneva l'ontologia immediatamente
dopo la logica, cioè all’inizio della filosofia speculativa. Con ciò si introduceva un metodo a priori che
implica tutta una dottrina idealistica. Nella concezione wolffiana tutta l'ontologia o metafisica generale
deve potersi dedurre a priori dai princìpi di identità e di ragion sufficiente.
Questo metodo è da respingersi, perché la filosofia, scienza del reale tramite le prime cause e i primi
princìpi, non può evidentemente iniziare che facendo ricorso all'esperienza. È nella esperienza sensibile
stessa, come si è visto più sopra, che l'intelligenza, alla luce dei primi princìpi, scopre ed astrae il proprio
oggetto rimanendo tributaria dell'esperienza in tutta la sua ampiezza. La metafisica, lungi dall'essere posta
all'inizio della filosofia, non può dunque venire che dopo la filosofia della natura (cosmologia e
psicologia), in conformità al senso del termine “metafisica” (dopo la fisica) e alla concezione aristotelica
e tomistica21, esigendo che in tutte le scienze, si segua l'ordine naturale del pensiero, che va dal più noto
(le cose sensibili) al meno noto (gli oggetti intelligibili).
3. L'ORDINE LOGICO DEL SAPERE FILOSOFICO
20 - a) Il metodo analitico sintetico - Le considerazioni precedenti inducono ad opporre al metodo
puramente sintetico o a priori di Wolff e degli idealisti, un metodo analitico-sintetico, che si innalza
progressivamente (alla luce dei primi princìpi conosciuti dapprima in modo confuso) dalle cose sensibili
(filosofia naturale) ai primi princìpi (ontologia) e alla Causa prima universale, che è Dio (teologia
naturale): processo analitico o induzione, e che di là ritorna sull'insieme del sapere per considerarlo dal
punto di vista della Causa prima: processo sintetico o deduzione.
b) Divisione logica - Si può osservare dapprima che le cose possono essere considerate sia in se stesse
sia in rapporto a noi. Dal primo punto di vista, si tratta semplicemente di conoscerle secondo i loro
princìpi supremi e secondo le loro cause prime: è l'oggetto della filosofia speculativa. Dal secondo punto
di vista, si tratta di sapere in quale modo dobbiamo usare le cose per il nostro bene assoluto: è l'oggetto
della filosofia pratica. Queste parti essenziali della filosofia saranno inoltre, precedute naturalmente dallo
studio della logica, che è come lo strumento universale del sapere, in quanto essa definisce i mezzi per
arrivare al vero (la logica costituisce così una specie di introduzione alla filosofia e non appartiene che per
riduzione alla filosofia speculativa)22.
Queste tre grandi parti della filosofia, prese dal punto di vista del fine delle discipline filosofiche,
comportano anche esse delle suddivisioni, che risultano dalle considerazioni seguenti, fondate sul punto
di vista della specificazione (od oggetto formale) delle differenti scienze.
B. I DIVERSI TRATTATI DELLA FILOSOFIA
21 - 1. LOGICA - La logica può comportare due punti di vista: o essa tende a determinare le condizioni universali di un pensiero coerente con se stesso (logica formale o minore), oppure essa si applica per
precisare i procedimenti o ì metodi richiesti, in ogni disciplina particolare, dai differenti oggetti del sapere, allo scopo di ottenere, non solamente la coerenza, ma pure la verità (logica materiale o maggiore).
2 - FILOSOFIA SPECULATIVA - La filosofia speculativa, avendo per fine la pura conoscenza, mira
a conoscere l'essere delle cose. Sono qui i tre gradi di astrazione che impongono la divisione dei trattati.
Infatti, l'essere delle cose può essere considerato sotto tre aspetti o gradi di astrazione. Si può dapprima
esaminarlo con le qualità sensibili, astrazion fatta solamente dalle note individuanti (essere mobile e
sensibile), poi con la quantità, astrazion fatta dalle qualità sensibili (essere quantitativo), infine, per
astrazione da ogni materia, considerandolo allora unicamente come essere (essere in quanto essere).
Questi tre gradi di astrazione fondano la divisione della filosofia speculativa in filosofia della natura
(primo e secondo grado di astrazione), e metafisica (terzo grado di astrazione)23.
22 - a) Filosofia della natura - La filosofia della natura si divide in due parti, secondo che essa
concerne: il mondo materiale come tale (cosmologia), cioè l'essere matematico (quantità, estensione e
numero: filosofia dell'essere matematico), e l'essere inorganico (mutamento e movimento, natura del
corpo come tale: filosofia dell'essere inorganico), oppure il mondo vivente come tale (vita vegetativa, vita
sensitiva, vita razionale: psicologia 24.
b) Metafisica - La metafisica concerne l'essere delle cose in quanto tale, considerato in se stesso
(ontologia) e nella sua causa prima (teologia naturale) 25. Dio, in filosofia, ci è noto solo come causa
prima dell'essere universale. La teologia naturale si trova così fondata sulla ontologia. Questa
considerazione determina l'ordine delle trattazioni.
Tuttavia, l'ontologia, a sua volta, implica lo studio preliminare del valore della nostra facoltà di
conoscere. Questa, infatti, si applicherà ormai allo studio di realtà che non sono in alcun modo oggetto di
apprensione sensibile. Importa dunque sapere se ed in quale misura le sue pretese di giungere fino ai
primi princìpi delle cose siano giustificate. È questo l'oggetto della critica della conoscenza.
Critica della conoscenza, ontologia (o metafisica generale) e teologia naturale costituiscono insieme la
metafisica.
23 - 3. FILOSOFIA PRATICA - La filosofia pratica, abbiamo detto, ha per fine di definire il bene
dell'uomo. Essa mira a conoscere, non per conoscere soltanto, ma per dirigere l’azione. Ora l'attività
umana può essere esaminata da due punti di vista: dal punto di vista del produrre, cioè dell'opera in
quanto prodotta (arte in generale e arti del bello in particolare), ciò che costituisce l'oggetto della filosofia
dell'arte, e dal punto di vista dell'agire, cioè degli atti che l'uomo deve compiere per raggiungere il suo
bene assoluto e supremo, ciò che costituisce l'oggetto della morale o etica 26.
È necessario osservare che l'etica è una scienza pratica, ma non una scienza essenzialmente pratica.
Al contrario, essa è essenzialmente speculativa per il suo oggetto e per il suo metodo, e così pure per la
distanza in cui si mantiene dall’operazione, dall'atto concreto della produzione dell'opera. Essa rientra
tuttavia nella categoria dell'arte, in quanto il suo fine è di definire le regole generali dell'azione (ma non di
applicarle, essendo l'applicazione dominio delle arti essenzialmente pratiche).
La tavola seguente riassume la divisione della filosofia:
Art. V - Certezza scientifica e certezza filosofica
24 - Le considerazioni che seguono aiuteranno a cogliere meglio la peculiarità del sapere filosofico e
le condizioni della sua acquisizione.
A. EVIDENZA SENSIBILE ED EVIDENZA RAZIONALE
1. FONDAMENTO DELLA CERTEZZA, IN SCIENZA E IN FILOSOFIA - Come si ha certezza
scientifica? Unicamente attraverso la riduzione delle leggi o formule ad una esperienza o evidenza
sensibile (cioè all'essere sensibile). Come si ottiene la certezza filosofica? Attraverso la riduzione delle
asserzioni filosofiche all'evidenza razionale, la quale consiste nel primo principio (principio di
contraddizione: una cosa non può essere e non essere nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto).
Qual’è, di diritto, la certezza più perfetta? È (per definizione stessa) quella che si fonda sulla evidenza
più perfetta. Ora l'evidenza razionale (o intelligibile) è più perfetta dell'evidenza empirica (o sensibile).
Dunque la certezza filosofica è, di diritto, più perfetta della certezza scientifica.
2. SUPERIORITA’ DELL'EVIDENZA RAZIONALE - L'evidenza razionale (che è quella dei primi
princìpi) non nasconde alcuna specie di oscurità poiché essa è indipendente completamente dalla materia
ed è di una semplicità assoluta. Ora ogni certezza filosofica deve potersi ricondurre all'evidenza dei primi
princìpi o dell'essere intelligibile, cioè deve rivelarsi come un'esigenza dell'essere intelligibile e delle sue
leggi universali. Inversamente, ogni errore filosofico implica una negazione delle leggi universali
dell'essere ed è di conseguenza del tipo: “ciò che è, non è” oppure “ciò che non è, è”.
D'altra parte, l'evidenza empirica (o sensibile) rimane sempre imperfetta, sia in ragione del suo
oggetto sia in ragione degli organi dei sensi. Infatti, il sensibile è essenzialmente mobile e, come tale,
difficile a cogliersi. La scienza per impadronirsene, lo immobilizza; essa riconduce il movimento
all'estensione, la qualità alla quantità; nel reale sensibile essa procede per sezioni; inoltre essa isola gli
oggetti e si costruisce un metodo di analisi 27. L'imperfezione dei risultati scientifici procede in parte da lì.
D'altra parte, bisogna pure tener conto dell'insufficienza degli organi dei sensi, inadatti ad una conoscenza
minuziosa del reale sensibile. Senza dubbio, gli organi dei sensi si perfezionano continuamente con
l'impiego degli strumenti scientifici; ma ciò non fa che ridurre, senza sopprimerla, la loro imperfezione
originaria.
25 - 3. NATURA DELLE CERTEZZE SCIENTIFICHE - Si obietta che la scienza stabilisce delle
leggi d'una certezza assoluta (leggi della caduta dei corpi, leggi delle proporzioni, leggi astronomiche
ecc.). Ciò è incontestabile. Ma interessa rilevare che queste leggi, per la scienza, cioè al livello del sapere
empiriologico, realmente non sono altro che delle certezze empiriche o di fatto, e non delle evidenze
propriamente dette. Di più, la certezza riposa (scientificamente) sopra un postulato, che è quello della
costanza delle leggi della natura. È così allora, poiché l'intelligibilità scientifica rimanendo sempre
imperfetta, non dà mai allo spirito una piena soddisfazione, che bisogna rivolgersi all'evidenza razionale,
cioè ad una evidenza fondata sulla intuizione dell'essere e delle sue leggi assolute. In fin dei conti,
l'ordine scientifico rimane quello della percezione sensibile, della constatazione e del fatto, e non quello
della spiegazione 28.
B. LE CONDIZIONI TECNICHE DEL SAPERE FILOSOFICO
26 – 1. GLI OSTACOLI DA VINCERE - In realtà, capita spesso che la certezza scientifica sia
superiore alla certezza filosofica. Ciò dipende sia dalla natura dell'oggetto della filosofia sia dalle
condizioni da cui dipende l'acquisizione del sapere filosofico.
a) Le difficoltà oggettive - Da un lato, infatti, l'oggetto della filosofia è immerso nel sensibile; è l'essere
delle realtà sensibili (ens in quidditate sensibili existens). Per ciò stesso, è un astratto, cioè una realtà
intelligibile isolata dall’esperienza. Astratto, conserva le sue connessioni trascendentali col sensibile e
questo non cessa di proiettare la sua ombra sull'astratto che lo esprime in nozioni di essere intelligibile.
L'intelligenza umana si trova costantemente impacciata nella sua pura operazione dal gioco delle
immagini (“non si pensa senza immagini”, osserva Aristotele) e, con ciò, sottoposta al timore e al pericolo
di astrazioni insufficienti e imperfette, almeno finché si trova ad agire come facoltà e non come natura,
cioè con la spontaneità e l'infallibilità che essa possiede nell'apprensione dell'essere e delle sue leggi
universali. Da ciò deriva che, non appena essa allenta anche un poco il suo sforzo di astrazione e si lascia
governare dal gioco delle immagini, le certezze filosofiche diminuiscono di fronte al dominio brutale e
massiccio del dato sensibile e di fronte alle asserzioni sperimentali del sapere positivo.
27
- b) Le difficoltà soggettive - Si vede così che l'opera filosofica, soprattutto quando essa è
propriamente metafisica, richiede dall’intelligenza una tecnica rigorosa, difficile e lunga da acquisire. È
necessario uno sforzo continuo e una difficile abnegazione nei riguardi del materiale immaginativo, una
specie di ascesi intellettuale. Ciò è ovviamente raro, come tutto ciò che è difficile. Da tale fatto deriva
che, per mancanza di questa lunga e dura preparazione, le certezze filosofiche e metafisiche rimangono
senza forza su molte intelligenze. Queste non vedono, perché non hanno esercitato e formato il loro
strumento di visione intelligibile. Per queste intelligenze, è chiaro che le sole certezze ammissibili
saranno sempre le certezze sensibili 29.
28 - 2. LA FILOSOFIA COME SCIENZA E TECNICA - Le osservazioni precedenti sembrano
rendere poco spiegabile l'universale tendenza degli uomini a giudicare così facilmente e presuntuosamente delle asserzioni filosofiche e metafisiche. Tuttavia, c'è una spiegazione di questo apparente
paradosso. Essa risiede nel sentimento che tutti gli uomini provano, per il fatto della loro natura
intellettuale, di avere la capacità radicale di giudicare in materia intelligibile. E questo sentimento a sua
volta si appoggia sulla realtà profonda di una ragione che si attua come natura, nella percezione
dell'essere e delle sue leggi universali. Non appena essa si attua, l'intelligenza si trova innalzata sul piano
dell'intelligibile. Da ciò deriva che, sui punti fondamentali dell'ordine intelligibile, le certezze filosofiche
siano ben poco legate alla cultura tecnica dell'intelligenza. Così è pure per le nozioni trascendentali
(essere, vero, bene e bello), per i primi princìpi dell'ordine speculativo e dell'ordine pratico ed ancora per
l’esistenza di Dio, colta con una specie di spontaneità, attraverso il gioco di un ragionamento implicito,
nell'essere dato all'esperienza; in breve, per tutto ciò che noi abbiamo più sopra definito come evidenza
immediata del senso comune. Per contro, queste certezze spontanee spesso si esprimono in modi assai
imprecisi.
Ma, per l'opera metafisica, considerata come scienza propriamente detta, l'intelligenza naturale (cioè
il senso comune), pur rimanendo rigorosamente richiesta, non sarebbe sufficiente, contrariamente alla
pretesa comune. La filosofia, e soprattutto la metafisica, ha tecniche e metodi propri, che sono difficili da
acquisire e da usare. Le realtà su cui essa si estende richiedono un meticoloso discernimento, una grande
potenza astrattiva, un estremo rigore nel ragionamento.
Per chi accetta l'austerità di questo sforzo e arriva a formare nel suo spirito o piuttosto a perfezionare
l'habitus (o capacità) metafisico, si può dire che le certezze metafisiche acquistano una forma e
producono una luce assai superiore a tutto ciò che le scienze della natura possono offrirci, poiché sono
fondate su delle evidenze infinitamente più perfette, coincidenti con le leggi universali e necessarie
dell'essere intelligibile. Ne deriva che qui si può parlare di intuizione o di visione, in quanto il sapere
filosofico, abbracciando tutte le cose sotto la luce dell'essere, si attua nella comprensione sintetica del
reale. La filosofia conduce così a quella contemplazione serena e sazievole, che è la sapienza stessa, la
sapienza (d'altronde imperfetta) accessibile all'uomo, subordinata alla sapienza infinitamente più alta della
fede e, più oltre ancora, a quella della Visione faccia a faccia 30.
Fig. 2 – Tavola delle scienze filosofiche e dei loro rapporti con le scienze della natura e con
l’esperienza (J. Maritain, Les degrés du savoir, p. 79, Desclée de Brouwer)
Logica
INTRODUZIONE
CHE COS' È LA LOGICA?
SOMMARIO31
Art. I - DEFINIZIONE DELLA LOGICA - Logica e psicologia - Logica ed esperienza - Il mito del
“prelogismo” - Storia della logica.
Art. II - IMPORTANZA DELLA LOGICA - Logica spontanea e logica scientifica - Logica e pratica
scientifica.
Art. III - METODO E DIVISIONE DELLA LOGICA - L'esperienza obbiettiva ­ Logica formale e logica
materiale - La risoluzione logica ­ Logica, critica e metafisica 32.
Art. I – CONCETTO DI LOGICA
A. DEFINIZIONE
29 - Il termine di “logica” proviene dalla parola greca “logos” che significa ragione. La logica è infatti
la scienza delle leggi ideali della ragione, e l’arte di applicarle correttamente alla ricerca e alla
dimostrazione della verità.
La logica si appoggia dunque sulla ragione come strumento del sapere, in vista di determinare le
regole d'uso di questo strumento, cioè le condizioni alle quali la ragione dovrà conformarsi per operare
metodicamente e sicuramente nell'edificazione del sapere scientifico. È questo il senso più generale delle
varie definizioni della logica. Tuttavia ora si pone l'accento sul suo aspetto regolativo, in accordo con la
scuola di Port-Royal, che chiama la logica arte di pensare o arte di giudicare, ora, in accordo con
Aristotele e la maggior parte dei moderni, sul suo aspetto speculativo, in quanto essa è scienza del
ragionamento33.
Diremo che la logica è insieme scienza e arte. È scienza in quanto costruisce la teoria del pensiero
valido e, come tale, determina i princìpi primi dell'attività logica, o come dicevamo sopra, le leggi ideali
del ragionamento. È anche un'arte, in quanto fornisce un metodo che consente di far bene un lavoro
secondo certe regole. La logica quindi propriamente costituisce quanto si chiama una scienza speculativopratica.
1. LA LOGICA COME SCIENZA - Dire che la logica è una scienza, equivale a dire che essa è un
sistema di conoscenze certe, fondate su princìpi universali. In ciò, la logica filosofica differisce dalla
logica spontanea o empirica, come ciò che è perfetto differisce da ciò che è imperfetto. Poiché la logica
naturale non è altro che l'attitudine innata dello spirito a usare correttamente le facoltà intellettuali, ma
senza essere capace di giustificare di diritto, per ricorso ai princìpi universali, le regole del pensiero
corretto.
2. LA SCIENZA DELLE LEGGI IDEALI DEL PENSIERO - Dire che la logica è la scienza delle
leggi ideali del ragionamento, è dire che essa è originariamente ed essenzialmente una scienza speculativa
o positiva. Tuttavia il termine “scienza positiva” può essere ambiguo. In realtà è servito soprattutto per
definire il campo dei fatti e delle leggi della natura fisica e in questo senso oggi si parla comunemente
delle “scienze positive”. Non vi sono però soltanto fatti e leggi della natura fisica: vi sono pure fatti e
leggi appartenenti all'ordine intelligibile (o della ragione). Ora, importa assai distinguere tra questi due
ordini di leggi. Quelle fisiche (o “leggi della natura”) sono semplicemente fatti più generali: esse
enunciano ciò che è (122); le leggi morali e quelle logiche enunciano ciò che deve essere e appunto
questo elemento si intende significare quando le si caratterizza come leggi ideali.
Queste leggi ideali sono quindi parimenti dati positivi, come tali dotati di un valore oggettivo, in
quanto colgono e definiscono una struttura intelligibile che ha consistenza pari, se non superiore, a quella
delle strutture fisiche.
Tuttavia le leggi ideali, alla stessa stregua di quelle fisiche, non sono oggetto d'esperienza immediata.
In realtà, sono a priori, cioè anteriori e superiori all'esperienza nostra dell'attività logica, che si esprime e
si sviluppa sotto forma di regole operative più o meno numerose e precise (e tali sono, per es., le regole
della conversione delle proposizioni o le regole del sillogismo). Senonché allo stesso modo che la legge
fisica è immanente nel fatto fisico (la legge della gravità è implicata nel fatto della caduta di qualsivoglia
corpo), così la legge logica è immanente nelle regole attraverso le quali si esprime e si esercita. In
sostanza, questa legge non si diversifica affatto dalla ragione stessa che, in questo rapporto, è la logica
anteriore alla logica, cioè l'a priori di tutte le attività razionali.
Però, alcuni logici hanno sollevato delle obiezioni. E. Goblot ritiene (Logique, n. 5) che la logica non
sia altro che una parte della psicologia dell'intelligenza, poiché tutto lo sforzo del logico consisterebbe nel
fare “l'inventario dei modi di determinazione delle idee per opera delle idee”: in virtù di questo
inventario, i modi riconosciuti validi sarebbero assolutizzati e trattati come imperativi. Ma è allora
evidente, aggiunge Goblot, che all'origine di quest'arte logica non ci sono che fatti logici, i quali sono
anch'essi dei fatti naturali.
C'è in questa obiezione un grave equivoco. Infatti, le nozioni logiche sono tratte, è vero dall'esperienza
che noi facciamo del nostro comportamento logico, ma ciò non significa che la validità dei principi logici
scoperti riposi sull'esperienza: qui, come altrove, bisogna distinguere con cura tra origine sperimentale e
fondamento razionale. Allo stesso modo, le regole della morale ci pervengono attraverso la famiglia, ma
non è tale ambiente familiare che ne fonda il valore e l'obbligazione, presupponendo la famiglia stessa il
valore dei principi morali e riposando di conseguenza su questi principi. Parimenti si deve distinguere,
nell'acquisizione del sapere, il punto di vista psicologico e il punto di vista logico. Le regole logiche ci
sono date nell'esperienza razionale: a questo titolo esse sono dei fatti e dei fatti naturali. Ma questa
esperienza è quella di una ragione che, nel suo esercizio, si esperimenta subordinata a delle leggi che ad
un tempo la costituiscono e la dominano. In altri termini, si tratta della esperienza di una struttura
naturale, così obbiettiva nel suo ordine quanto qualsiasi altra, quantunque essa non possa essere colta che
mediante una riflessione del soggetto sulle proprie operazioni.
b) Logica ed esperienza. Le osservazioni che precedono ci forniscono la spiegazione di una difficoltà
esposta da Goblot nella sua Logique (p. 2): “I logici, egli dice, hanno generalmente pensato che, lungi dal
prescrivere le regole agli scienziati, essi debbano piuttosto studiare le vie seguite da questi, essere i loro
allievi e non i loro maestri, studiare la natura del vero e del falso e le operazioni con cui lo spirito distingue questo da quello”. Tutto ciò è certo, ma non fa della logica una scienza sperimentale o a posteriori;
infatti concerne soltanto le origini temporali della logica scientifica, poiché in realtà tutti i ragionamenti
dei dotti (e degli altri) hanno sempre voluto conformarsi a esigenze logiche che li dominavano e che, di
conseguenza, erano ad essi anteriori e superiori. Goblot ha dunque torto di concludere dalla sua
osservazione che la logica in realtà non è altro che “la teoria del ragionamento”: essa, al contrario, e
molto esattamente, è la teoria delle leggi del ragionamento. Non è il ragionamento come fatto il suo
oggetto formale (ciò appartiene alla psicologia), ma le leggi e i princìpi del ragionamento valido.
30 - 3. LA LOGICA COME ARTE - È questo aspetto che fa della logica una scienza pratica, carattere
che non si addice alle altre scienze (ad eccezione tuttavia della morale), neppure alla metafisica 34. Senza
dubbio, tutte le scienze positive possono dar luogo ad applicazioni. Ma ciò non sarebbe sufficiente a farne
delle discipline pratiche, non avendo le scienze positive per fine quello di regolare l'azione umana. Se la
logica (come pure la morale) è una scienza pratica, ciò è dovuto al fatto che un metodo (o arte) del
ragionamento risulta implicito nel sapere logico, cosicché le leggi logiche rivestono di volta in volta il
carattere “constatativo” della legge e il carattere “normativo” della regola35.
31 - 4. IL FINE DELLA LOGICA: RICERCA E DIMOSTRAZIONE DELLA VERITÀ - Se la
ricerca e la dimostrazione della verità sono il fine della intelligenza, esse devono anche essere il fine della
logica, in quanto essa definisce le condizioni di validità delle operazioni discorsive della ragione.
Si contrappone talvolta logica a verità, o almeno, si propone di distinguerle, osservando che è
possibile giudicare male e ragionare bene, cioè trarre delle conseguenze legittime da princìpi falsi. È così
che si vedono costruire tanti sistemi, scientifici, politici, economici, pedagogici, morali, i cui elementi
sono tra loro coerenti, ma il cui insieme si presta ad obbiezioni, poiché sono erronei i punti di partenza. È
in questo stesso senso che si afferma che tutti i pazzi sono dei logici meravigliosi.
Questa osservazione giustifica sicuramente una certa distinzione tra il logico o il valido (in quanto
coerente) e il vero (in quanto conforme all'oggetto) ed è questa stessa distinzione che ha fondato la
divisione della logica in formale e materiale.
Talvolta si parla di “logica dell'azione” (M. Blondel) o di “logica dei sentimenti” (Th. Ribot). In questi
casi tuttavia si vuol rilevare soltanto che l'attività volontaria e i fenomeni affettivi comportano per se
stessi un determinismo che segretamente regge la loro evoluzione. Ora appunto questo non è un
determinismo logico: per quel che concerne la “logica dei sentimenti”, è un determinismo psicologico,
che facilmente è in contrasto con le leggi della ragione e che spesso deriva semplicemente dal predominio
tirannico degli istinti, ovvero, per quanto riguarda la “logica dell'azione” secondo M. Blondel, è un
determinismo che si potrebbe chiamare metafisico, in quanto esprime le esigenze assolute della natura
morale dell'uomo (o della “volontà come natura”).
32 - 5. IL MITO DEL “PRELOGISMO” -. Si è talvolta sostenuto che i non inciviliti o “primitivi”
avrebbero una mentalità estranea o addirittura refrattaria alla nostra logica. Essi ignorano il principio di
contraddizione, come dimostrano, si dice, le credenze totemiste, in virtù delle quali i selvaggi si ritengono
identici all'animale che serve da “totem” al clan o alla tribù36.
Questa opinione sui primitivi è priva di fondamento. È un fatto certo che i primitivi usano le stesse
operazioni logiche degli inciviliti; capita loro di ragionare malamente, di ammettere delle nozioni
contraddittorie e assurde; ma agli inciviliti capita altrettanto. La loro logica è rozza e grossolana, ma è
sostanzialmente identica alla nostra. Quanto all'argomento della partecipazione (totemismo), esso non ha
il senso che gli si vuole attribuire: i primitivi totemisti, pur ammettendo una parentela tra loro e l'animale
“totem”, si distinguono perfettamente da quest'ultimo; essi si ritengono ad un tempo identici e differenti,
ma non sotto lo stesso punto di vista, ciò che basta per mettere fuori discussione il principio di non
contraddizione, pure quando i primitivi sono incapaci di far valere questa distinzione di punti di vista.
Non c'è dunque motivo di parlare di “prelogismo”, ma solamente di una mentalità “primitiva” (o
prescientifica) che si riscontra pure anche nelle nostre civiltà, e che è, in realtà, indice di una mentalità
infantile 37. È d'altronde ciò che riconosce chiaramente M. Lévy-Brühl, cui era stata attribuita l'invenzione
del “prelogismo dei primitivi”:
“… La mentalità “primitiva” è uno stato della mentalità umana.... Io l'ho studiata presso i “primitivi”
poiché essa sembrava più facile a descrivere e ad analizzare che presso di noi, e questa descrizione, questa
analisi, m'hanno fatto contrapporre questa mentalità alla nostra. Ma io non ho mai detto né pensato che
essa si riscontrasse unicamente presso i “primitivi”. Ho anzi detto il contrario fin dalle Fonctions
Mentales. Del “prelogismo” (...) io non ne ho avuto l'idea. Penso solamente che questo stato descritto e
analizzato sotto il nome di “mentalità primitiva” ha i suoi caratteri propri, senza per questo supporre che
lo spirito dei primitivi sia foggiato diversamente dal nostro (“Revue thomiste”, Luglio 1938, p. 432). (Cfr.
su questo punto O. Leroy, La raison primitive, Parigi, 1927).
B. STORIA DELLA LOGICA.
33 - 1. L'ANTICHITÀ GRECA - Kant osservava che la logica non aveva realmente fatto alcun
progresso importante dopo Aristotele. In realtà, se la logica era stata intravista da Socrate, Platone e dai
Sofisiti, se era stata messa in funzione da loro e dai geometri greci di tratto in tratto, Aristotele per primo
ne fece un'esposizione sistematica (Organon, soprattutto Analitici), in particolare elaborando la sua teoria
dei sillogismi categorici, di cui Lukasiewicz ha detto che essa non è affatto inferiore in esattezza ad una
teoria matematica 38.
Dopo Aristotele, la cui sillogistica si sviluppa nel quadro delle concatenazioni di concetti, gli Stoici
s'applicano a costituire una logica delle proposizioni, orientata unicamente verso la coerenza,
indipendentemente da ogni considerazione oggettiva. Mentre il sillogismo categorico d'Aristotele,
fondato sul valore oggettivo dei concetti, costituisce lo strumento appropriato per una scienza del
necessario39, il sillogismo ipotetico, per mezzo del quale gli Stoici significano i fatti (“se è giorno, è
chiaro”) e i rapporti tra i fatti, sarà strumento adatto alle scienze ipotetico-deduttive. Invece di stare in
opposizione reciproca, le due logiche, in ultima analisi, si integrano felicemente.
2. Nel Medioevo Boezio e gli Scolastici sono riusciti a perfezionare ancora lo strumento logico
trasmesso da Aristotele, in particolare integrando la logica con le scoperte stoiche sul sillogismo ipotetico
o logica delle proposizioni. Tuttavia i logici medievali, in particolare Petrus Hispanus, Guglielmo
d'Ockam, Giovanni Buridano, Alberto di Sassonia, non si sono limitati a riprendere semplicemente i
problemi antichi, secondo l'accusa loro rivolta da Prantl40. Hanno rivolto la loro attenzione a problemi
nuovi ed elaborato teorie (teorie delle proprietà dei termini, in particolare della suppositio, teoria della
conseguenza, delle proposizioni insolubili) che anticipano le ricerche dei logici contemporanei41.
3. EPOCA MODERNA - Nel XVII secolo, Leibniz preannuncia una logica simbolica o “caratteristica
universale”, il cui punto di partenza o base sarebbe un inventario di tutto il contenuto della conoscenza
umana, e il cui strumento consisterebbe in un sistema di simboli rappresentante i concetti forniti
dall'enciclopedia delle conoscenze, come pure i loro elementi costitutivi e le diverse combinazioni di cui
essi sono suscettibili. Questi simboli dovrebbero, secondo Leibniz, non solamente rappresentare gli
oggetti (come avviene per i simboli dei chimici), ma soprattutto permettere il ragionamento, secondo il
modello dell'algebra. Leibniz non poté eseguire questo progetto, che dipendeva dall'immensa impresa
dell'enciclopedia. Ma i logistici contemporanei hanno ripreso alcune idee di Leibniz, sopratutto quelle che
hanno rapporto col calcolo logico 42.
Tutti i logici precedenti non si sono preoccupati che della logica deduttiva, mentre i metodi
d'induzione andavano acquistando, con l'avvento del sapere positivo a partire dal XVII secolo,
un'importanza capitale. A dire il vero però, tutta una dottrina della induzione era contenuta già nelle teorie
di Aristotele sul concetto e sull'universale; ma questa dottrina era più filosofica o metafisica che logica.
Con l'opera di Bacone (Novum Organum) e soprattutto di Stuart Mill (System of Logic Ratiocinative and
inductive, 2 voll., Londra, 1943), si avrà una elaborazione della logica dell'induzione nel senso di metodo
piuttosto che di logica formale.
4. EPOCA CONTEMPORANEA. LA LOGISTICA - Dal XVI al XIX secolo, si constata un
abbandono quasi generale degli studi di logica formale. Tutta l'attenzione dei filosofi è assorbita dai
metodi particolari delle scienze. Bisogna arrivare alla metà del XIX secolo per vedere rifiorire i lavori di
logica, che all'inizio furono legati alle ricerche matematiche (Georges Boole, An investigation of the Laws
of Tought, Londra, 1854, Ernest Schöder, Vorlesungen über die Algebra der Logik, Lipsia, 1890), poi si
svincolarono progressivamente da quelle (soprattutto con Whitehead e Russell, Principia Mathematica,
Cambridge, 1910, nuova ed. 1938) per costituire ciò che si chiamò prima Logistica, poi Logica simbolica,
e che oggi si chiama piuttosto col nome di Logica formale o formalizzata. La nuova logica, pur
servendosi di procedimenti nuovi e più appropriati al suo carattere formale (simbolismo, costruzione,
assiomatica), era rimasta una logica classica nel senso che conservava il carattere bivalente e categorico
deduttivo della logica tradizionale. A partire dal 1920 tuttavia (e sotto l'influenza delle discipline
matematiche), si cominciano a costruire logiche non-classiche: logica trivalente e persino polivalente
(Lukasiewicz); logica intuizionista, cioè senza terzo escluso (Brouwer-Heyting), e infine diverse forme di
logica modale (Lewis).
Queste logiche non classiche suscitano problemi metalogici di grande interesse, tra cui quello del
primato della logica classica o bivalente, quello dei princìpi primi, quello della verità 43.
Art. II – Importanza della Logica
34 - Non bisogna né esagerare né minimizzare l'importanza della logica scientifica.
1. LA LOGICA EMPIRICA - È certo che si può arrivare e che si arriva spesso alla verità senza
l'ausilio della logica scientifica, semplicemente per mezzo di quella logica naturale o spontanea che
agisce come un istinto. Anteriormente ad ogni formulazione delle leggi del pensiero corretto, ad ogni
presa di coscienza riflessa delle esigenze che esse implicano, noi compiamo istintivamente le differenti
operazioni logiche. Noi abbiamo precisamente il “sentimento vivo interno” (come si esprime Cartesio) di
ciò che è verità e falsità, dubbio e certezza, probabilità e verosimiglianza, ecc. Come Aristotele osservava
con forza, bisognerebbe essere un vegetale per ignorare (non la formula), ma l'uso del principio di
contraddizione, regola suprema delle operazioni logiche. Così; Leibniz ha ragione di dire che in un certo
senso “le leggi della logica non sono altro che le regole del buon senso poste in ordine e per iscritto”.
2. UTILITÀ DELLA LOGICA SCIENTIFICA
a) Logica e buon senso. Tuttavia, se il buon senso è sempre necessario, esso non è sempre sufficiente.
Infatti, se si possono osservare spontaneamente le regole di un pensiero corretto, si ha ancora maggiore
probabilità di farlo quando queste regole sono conosciute e familiari, soprattutto se si tratta di operazioni
intellettuali implicanti una certa complessità. Inoltre, non si tratta unicamente di conoscere la verità,
bisogna rimuovere le difficoltà e confutare gli errori, e il buon senso quivi spesso non è sufficiente,
poiché esso ignora le cause di errore e i procedimenti sofistici. Infine, il buon senso può trarre da una
verità le conseguenze più immediate; ma, come non sa risalire ai princìpi universali, così non sa
discendere alle conseguenze remote.
La logica è dunque necessaria per rendere lo spirito più acuto e per aiutarlo a giustificare le sue
operazioni, ricorrendo ai princìpi che fondano la loro legittimità.
b) Logica e pratica scientifica. Non c'è da meravigliarsi della necessità d'una logica scientifica, se si
pensa che le facoltà dell'uomo devono tutte perfezionarsi con 1'esercizio e con l'acquisto delle abitudini
operative. L'animale si accontenta dei propri istinti, sebbene questi conservino una certa plasticità, in cui
possono innestarsi delle abitudini: l'uomo non nasce, né diventa artista, saggio, uomo dabbene senza uno
sforzo metodico e diuturno. La facoltà del raziocinio deve essere coltivata e perfezionata come le altre.
Pretendere che l'uomo possa accontentarsi del buon senso naturale, è dire che gli sono sufficienti le sue
due mani per i molteplici bisogni richiesti dalla conservazione della sua vita e dal progresso della civiltà.
Queste osservazioni aiutano a comprendere l'errore di August Comte, consistente nel confondere la
logica con lo studio delle teorie scientifiche. “Il metodo, egli scrive, non è suscettibile di essere studiato
separatamente dalle ricerche in cui viene applicato; altrimenti questo rimarrebbe uno studio morto,
incapace di fecondare lo spirito che vi si dedichi” (Cours de Phil. pos., 6 voll., Parigi, 1830-42, I, p. 34).
Ora, non si tratta di contestare il valore pedagogico della logica in atto. Ma questa non potrebbe escludere
la logica generale (o astratta): bisogna pur chiedersi perché certi ragionamenti concludono ed altri non
concludono, perché si dubiti o si affermi, in che modo si proceda per raggiungere il vero e per
dimostrarlo. Questo è l'oggetto della logica, che è dunque, in un certo modo, secondo il detto di
Sant'Agostino, la scienza delle scienze, poiché essa sola insegna a conoscere.
Art. III – Metodo e divisione della Logica
35 - 1. L'ESPERIENZA COMPLESSA DELL' ASSENSO E DEL DISSENSO LOGICO - Il metodo
di una scienza, abbiamo detto, dipende dal suo oggetto formale. Ora, l'oggetto proprio della logica sono le
leggi delle operazioni dello spirito o delle relazioni logiche dei concetti tra loro e delle proposizioni tra
loro. Queste leggi non possono evidentemente essere date che nella riflessione dello spirito sulle sue
operazioni. Così si deve dire che il punto di partenza della logica scientifica consiste nella esperienza
intellettuale riconosciuta come corretta e valida. Ma ciò può intendersi sotto due punti di vista, che
bisogna distinguere.
a) L'esperienza oggettiva. L'atto di “ritenere per vero” ci appare come risultante, in alcuni casi, dal
fatto che l'asserzione da noi approvata è conforme a certe esperienze obbiettive, esteriori o interiori. È
cosi che noi riteniamo per vera l'asserzione seguente: il fuoco brucia, - oppure questa: i colori degli
oggetti lontani sono più deboli di quelli degli oggetti vicini, - o quest'altra: l'ingratitudine fa soffrire. Noi
stessi abbiamo provato che è proprio così.
b) L'esperienza logica. Altre volte noi aderiamo ad alcune asserzioni in ragione di una dimostrazione e
non in ragione di una esperienza oggettiva. È ciò che avviene negli ordini matematico, fisico, e pure, in
una certa misura, in quello morale. In questo caso l'asserzione ci appare vera per conformità a certe
forme o ad una determinata struttura, oppure falsa in quanto contraddice queste forme o questa
struttura.
Ma cos'è questa struttura formale? Possiamo dire in generale che essa è ciò che ci è dato come
esprimente alcune esigenze valevoli per ogni verità, e che il pensiero umano di conseguenza è obbligato a
rispettare allorché pretende di essere vero. Alcuni esempi aiuteranno a comprendere ciò.
Ogni verità ci appare con questa proprietà: di non contraddire se stessa e di non opporsi ad alcun' altra
verità. Perciò la proposizione “un triangolo è limitato da quattro lati” non è vera più di quanto non siano
vere insieme le asserzioni 2 x 2 = 4 e 2 x 2 = 5. Ogni verità di qualsiasi contenuto, possiede dunque una
struttura formale tale che essa non può contraddirsi, cioè tale che il predicato non può escludere il
soggetto e che essa non può, di conseguenza, essere in opposizione con nessun'altra proposizione vera.
Questo qualcosa che noi nominiamo verità ha dunque una struttura caratteristica, che noi chiamiamo col
nome di struttura formale, poiché questa struttura rimane valevole per ogni verità, qualunque sia la sua
materia.
36 - 2. LOGICA “FORMALE” E LOGICA “MATERIALE” ­ La nozione di verità che domina tutta la
logica, implica dunque un duplice significato oppure due gradi. Noi richiediamo infatti da ogni
proposizione, che abbia la pretesa di essere vera, non solamente una data struttura formale, ma ancora
una validità, intendendo con questo termine tutte le condizioni che derivano, per la struttura o la forma
del pensiero, dalla materia del pensiero. È da qui precisamente che procede la divisione della logica in
Logica formale o minore e logica materiale o maggiore. Ma in realtà, a ben osservare le cose, tutta la
logica è formale, poiché essa è totalmente ordinata a definire ciò che deve essere la forma del pensiero
corretto e vero. Nel caso della logica minore, si tratta di definire le condizioni del pensiero coerente con
se stesso (indipendente da ogni materia determinata). Nel caso della logica maggiore, si tratta di
determinare la forma che deve prendere il pensiero, avuto riguardo agli oggetti diversi ai quali esso può
applicarsi 44.
Se tutta la logica è formale, si potrebbe dire, per meglio distinguere ciò che è stato convenuto di
chiamare logica minore e logica maggiore, che la prima, che è una logica della coerenza, è essenzialmente
una logica del linguaggio, cioè delle convenzioni verbali, mentre la seconda è propriamente una logica
del pensiero, cioè del reale, in quanto si impone allo spirito. Ma rimane vero il dire, come abbiamo visto
più sopra (34), che non c'è logica se non del pensiero, poiché l'ordine stesso che impone il rispetto delle
convenzioni verbali è esso pure opera del pensiero.
3. LA RISOLUZIONE LOGICA - La logica, come scienza, parte dall'insieme delle esperienze
complesse di assenso e di non accettazione. Essa avrà per compito essenziale di determinare le condizioni
formali la cui validità si trova già supposta dall'assenso o dal dissenso logico, il che equivale a dire che
essa procederà per risoluzione o analisi (consistendo la analisi nel procedere dal tutto complesso agli
elementi semplici e primi o dalle conseguenze ai princìpi). È così che la logica si innalza man mano alla
conoscenza delle condizioni più generali della validità (o verità logica). La risoluzione o analisi rimane
compiuta allorché il logico scopre una condizione così generale e fondamentale che gli sia impossibile di
andare oltre. Questa condizione prima e universale della verità logica, è il principio di non
contraddizione (ciò che è - ciò che non è, non è, - una cosa non può nello stesso tempo e sotto il
medesimo rapporto essere e non essere). È facile infatti osservare che ogni tentativo per dimostrare il
principio di non contraddizione implica la validità di questo stesso principio. I limiti della risoluzione
sono dunque ben raggiunti. Per il medesimo fatto, la logica appare come l'arte di giudicare e di ragionare
conformemente alle esigenze del principio di non contraddizione, e tutte le regole logiche particolari
elaborate dal logico non avranno altro fine che quello di assicurare questa conformità: il metodo della
logica consisterà nel definire e nel giudicare tutte le operazioni logiche in rapporto (o per riduzione) al
principio di non contraddizione45.
Il logico non può andare oltre il principio di non contraddizione. Tuttavia, un problema ulteriore si
prospetta, consistente nello scoprire la ragione e il fondamento della certezza invincibile del principio di
non contraddizione. Questo problema compete alla critica e alla metafisica, non è più di spettanza del
logico.
Rileviamo ancora che la logica che noi proponiamo è una logica bivalente, in cui cioè si suppone che
ogni proposizione non possa avere che due valori: vero o falso (in scrittura simbolica della logistica: l o
0). Ma si potrebbe supporre pure che vi siano tre valori: l, 1/2 o 0 (proposizioni certamente vere - dubbie certamente false): si avrebbe allora una logica trivalente. Si potrebbe pure immaginare una logica a
cinque valori: proposizioni certamente vere - probabilmente vere ­ dubbie - probabilmente false certamente false. La logica bivalente è dunque - dal punto di vista formale - solo un caso particolare
delle logiche polivalenti.
Aggiungiamo che tutte le leggi della logica bivalente non sarebbero valide in una logica trivalente. È
così che il principio del terzo escluso (tra essere e non essere, tra essere vero ed essere falso non c'è un
termine medio) (in scrittura simbolica: p o non-p), non vale in quella logica dove si ammette la categoria
intermedia delle proposizioni dubbie. Per contro. nella logica trivalente, si avrebbe un “principio del
quarto escluso”46.
Logica minore
LOGICA MINORE
37 - La logica formale stabilisce le condizioni di accordo del pensiero con se stesso. Essa non
considera dunque le operazioni intellettuali dal punto di vista della loro natura: questo spetta alla
psicologia, ma dal punto di vista della loro validità intrinseca, cioè della loro forma. Ora ogni
ragionamento si compone di giudizi, e ogni giudizio di idee: occorre, di conseguenza, distinguere tre
operazioni intellettuali specificamente diverse: l'apprensione consistente nel concepire un'idea, - il
giudizio, consistente nell'affermare o negare un rapporto tra due idee, - il ragionamento, operazione con
cui, da due o più giudizi dati, si trae un altro giudizio che ne deriva necessariamente.
La logica deve almeno studiare queste tre operazioni in se stesse, cioè sia in quanto sono degli atti
dello spirito, come nella loro funzione logica, cioè in quanto costituiscono gli elementi di ogni
ragionamento, anch'esso ridotto alla sua forma. Così la logica deve studiare essenzialmente il termine,
espressione dell'idea che risulta a sua volta dall'apprensione, - la proposizione, o espressione del giudizio
- il ragionamento, considerato soltanto dal punto di vista della sua validità.
CAPITOLO PRIMO
L'APPRENSIONE E IL TERMINE
SOMMARIO47
Art. I - DEFINIZIONI. L'idea o concetto - Il termine e il segno - La “suppositio”.
Art. II - COMPRENSIONE ED ESTENSIONE. I predicabili - I predicamenti - Gradi metafisici e
distinzioni - I modi di attribuzione per sé o a priori.
Art. III - CLASSIFICAZIONE DELLE IDEE E DEI TERMINI. Punto di vista della comprensione e
dell'estensione - Punto di vista dei rapporti reciproci delle idee - Punto di vista della perfezione
delle idee - Punto di vista del significato: termini univoci, equivoci, analoghi.
Art. IV - DEFINIZIONE E DIVISIONE DELLE IDEE. Regola formale delle idee e dei termini - La
definizione - La divisione: le diverse totalità.
Art. I - Definizione
A. L'APPRENSIONE E L'IDEA.
38 - 1. APPRENDERE significa cogliere, prendere, e l’apprensione, dal punto di vista logico, è l'atto
con cui lo spirito concepisce una idea, senza affermarne o negarne alcunché. L'apprensione differisce
dunque dal giudizio che consiste, come vedremo, nell'affermare o nel negare una cosa di un'altra.
2. L'IDEA o CONCETTO
a) Definizione. L'idea o concetto è la semplice rappresentazione intellettuale di un oggetto. Essa
differisce essenzialmente dall'immagine, che è la rappresentazione determinata di un oggetto sensibile.
“Uomo”, “triangolo”, “bontà”, sono delle idee, in quanto prescindono da ogni concretamento particolare.
Al contrario, “quest'uomo” (Pietro), “questo triangolo isoscele”, (disegnato sulla lavagna), “questo atto di
bontà” (l'atto di Pietro che ha fatto questa elemosina a quel povero) sono delle immagini.
b) Concetto mentale e concetto oggettivo. Si distingue il concetto mentale (o concetto formale o
ancora verbo mentale), che è la cosa concepita in quanto tale, cioè in quanto essa è, nello spirito, mezzo
della conoscenza o ciò per cui lo spirito conosce, e il concetto oggettivo, che è l'oggetto conosciuto in
quanto oggetto, ossia ciò che lo spirito conosce. Il concetto mentale non può evidentemente essere colto
che tramite un atto di riflessione dello spirito su se stesso.
c) Ente reale e ente di ragione. Noi dicemmo che il concetto oggettivo è ciò che l'intelligenza conosce
come oggetto ed in quanto oggetto. Interessa ora rilevare che questo oggetto è presentato nel concetto
soltanto come possibile, cioè il concetto prescinde dalla esistenza attuale. Ora un oggetto può essere
possibile in due modi: sia in quanto può esistere fuori dello spirito (ente reale), sia in quanto pensabile
semplicemente, ma non realizzabile fuori dello spirito (ente di ragione).
Nella prima categoria (ente reale) rientrano tutti gli enti la cui essenza è realizzata (l'uomo, la vita,
questa città, ecc.), o realizzabile (una montagna d'oro, una casa di trecento piani, un mondo migliore di
quello attuale, una longevità normale di duecento anni, ecc.). - Nella seconda categoria (ente di ragione),
rientrano: le negazioni e le privazioni (il nulla, la sordità, la cecità, l'idiozia, ecc.), - le nozioni universali
in quanto tali (l'umanità, la saggezza, il metallo, la verità ecc.).
B. IL TERMINE
39 - 1. DEFINIZIONE - Il termine è l'espressione verbale (o mentale o grafica) segno dell'idea. Dal
punto di vista logico, bisogna distinguere il termine della parola. Il termine può infatti comportare più
parole (per esempio: il buon Dio, alcuni uomini, un atto di valore) che costituiscono tuttavia una sola idea
logica.
2. NOZIONE DI SEGNO - Si chiama segno ogni cosa che ce ne fa conoscere un'altra. Da questo
punto di vista, l'idea stessa è un segno, in quanto ci fa conoscere il suo oggetto, prima ancora di
manifestare se stessa. La parola è il segno dell'idea. La scrittura è il segno della parola (e, per mezzo di
questa, dell'idea).
3. DIVISIONE DEL SEGNO - I segni si dividono nel seguente modo:
a) Segno strumentale, segno formale. Il segno strumentale che è conosciuto per primo, ci fa conoscere
un'altra cosa (la bandiera ci fa conoscere quel tale paese, la freccia sul muro indica una direzione). Il
segno formale è ciò che noi più sopra abbiamo chiamato concetto formale, o similitudine dell'oggetto data
nella facoltà conoscente: l'oggetto è conosciuto in e per questa similitudine e simultaneamente con essa e
non (come nel caso del segno strumentale), prima della cosa significata.
b) Segno naturale, segno convenzionale. Il segno naturale è quello che comporta con la cosa
significata qualche rapporto di causalità o di dipendenza (il lamento è segno di dolore. Il fumo è indice di
fuoco). Il segno convenzionale è quello che risulta da una convenzione arbitraria (Il ramoscello d'olivo
significa la pace. Il nero è segno di lutto. Il bastone bianco annuncia un cieco. Il rosso è un segnale di
fermata per l'automobilista). La maggior parte delle parole sono dei segni arbitrari o convenzionali.
C. LA “SUPPOSITIO”
40 – 1. NOZIONE - La principale proprietà dei termini è quella che si chiama “suppositio” e che
occorre distinguere dalla significazione. La “suppositio” di un termine è il suo valore di supplenza
rispetto alle realtà ch'esso serve a richiamare in una proposizione.
Io posso dire, per esempio: “Paolo è uomo”, “Uomo è una parola di due sillabe”, “L'uomo è una specie
animale”: nei tre casi, la parola “uomo” ha il medesimo significato, ma tiene il posto di tre realtà
differenti, poiché è impossibile dire che Paolo è una parola di due sillabe o una specie animale.
2. DIVISIONE - Si vede come la proprietà di “tenere il posto di” può indurre in numerosi equivoci, se
non si distingue accuratamente il modo in cui il termine tiene il posto. Di qui le seguenti divisioni delle
principali “suppositiones”:
a) “Suppositio” propria o impropria, secondo che il termine è usato propriamente o in modo figurato
(metafora): “Il leone è un quadrupede”. “Pietro è un leone”.
b) “Suppositio” formale e “suppositio” materiale. La “suppositio” propria si suddivide in formale e
materiale a seconda che il termine eserciti la sua funzione di significanza normale, cioè “stia per” gli
oggetti ch'esso significa (l'uomo è mortale), - ovvero non eserciti la sua funzione di significanza, ma “stia
per” se stesso, in quanto segno parlato o scritto (uomo è una parola di due sillabe).
c) “Suppositio” personale e “suppositio” semplice. A sua volta, la “suppositio” formale si suddivide
in “suppositio” personale e “suppositio” semplice, a seconda che il termine universale “ stia per” i suoi
inferiori logici (l'uomo è educabile) ovvero designi il concetto universale corrispondente (l'uomo è una
specie).
d) “Suppositio” distributiva e “suppositio” collettiva, determinante e confusa. La “suppositio”
personale infine si suddivide da una parte, in distributiva e collettiva, a seconda che il termine si predichi
di tutti i soggetti, presi singolarmente, cui conviene (i ministri esercitano il potere esecutivo) - o
solamente a questi soggetti presi insieme (i ministri sono quindici), dell'altra parte, in determinata e
confusa, a seconda che il termine si predichi di certi soggetti presi determinatamente (“qualche uomo è
menzognero“, cioè questo o quell'uomo), - o di certi soggetti presi indeterminatamente, per es., “animale”
in “ogni uomo è animale”: invero non si può inferire da “ogni uomo è animale” che “ogni uomo è
quest’animale” e “ogni uomo è quell'animale”48.
Art. II – Comprensione ed estensione
A. DEFINIZIONI E RAPPORTI
41 - Si può considerare un'idea, e di conseguenza un termine, dal punto di vista della comprensione
dell'estensione. Questa distinzione è di una capitale importanza per tutta la logica formale.
1. LA COMPRENSIONE è il contenuto di un'idea, cioè l'insieme degli elementi di cui un'idea è
composta. Così la comprensione dell'uomo implica gli elementi seguenti: essere, vivente, ragionevole.
2. L'ESTENSIONE - L'estensione è l'insieme dei soggetti ai quali conviene l'idea. È così che il
concetto di “animale” contiene nella sua estensione i concetti “uomo” e “bestia”, e che l'idea di “uomo”
conviene agli Inglesi, ai Francesi, ai bianchi, ai negri, a Pietro, a Giacomo, ecc. Il concetto che ha la
maggiore estensione è chiamato concetto superiore: i concetti che rientrano nella sua estensione sono i
suoi inferiori o le sue parti soggettive.
3. RAPPORTO DELLA COMPRENSIONE E DELLA ESTENSIONE
a) La comprensione di un'idea è in ragione inversa della sua estensione. L'idea di essere, che è la
meno ricca di tutte, è anche la più universale; l'idea di uomo, implicando elementi più numerosi, si
applica solo ad una parte degli esseri, e l'idea di Francese, che aggiunge all'idea di uomo nuovi elementi, è
ancora più ristretta; infine, l'idea di questo individuo, Pietro, Paolo, la cui comprensione è la più ricca, è
pure la più limitata rispetto all'estensione.
b) La gerarchia delle idee e dei termini. È così possibile ordinare le idee, e, di conseguenza, gli esseri
che esse rappresentano, secondo una gerarchia fondata sulla loro estensione. L'idea superiore in
estensione si chiama genere in rapporto all'idea inferiore, e questa specie in rapporto alla prima. Per
principio, chiamasi genere ogni idea che contiene sotto di sé altre idee generali (animale rispetto a uomo,
uccello, pesce, ecc.), e specie ogni idea che non contiene che individui.
L'albero di Porfirio rappresenta questa gerarchizzazione delle idee; in esso sono ordinate dall'alto in
basso secondo la loro comprensione crescente e la loro estensione decrescente (Fig. 3).
La nozione di sostanza costituisce il genere supremo, quelle di corpo e di essere animato costituiscono
dei generi remoti, quella di animale designa il genere prossimo della specie uomo. In altri termini, dal
punto di vista dell'estensione, l'idea di sostanza può servire da attributo a tutte le idee che le sono
sussunte. (Si può dire: il corpo è una sostanza; l'animale è una sostanza). Inversamente, dal punto di vista
della comprensione, l'idea di ogni individuo umano comprende tutte le idee alle quali essa è sussunta e
alle quali può servire da soggetto. (Pietro è uomo, animale, essere animato, corpo, sostanza).
4. L'INDIVIDUO - Al di sotto della specie, come si vede, non ci sono che individui o esseri singoli,
che sono i soli esseri realmente esistenti. Come la specie è costituita da una differenza specifica, così
l'individuo è costituito metafisicamente da una differenza numerica, che ne fa un individuo
numericamente distinto nel seno di una data specie49. Questa differenza individuale non possiamo
conoscerla in se stessa, ma unicamente da un insieme di segni esteriori che si chiamano note individuanti
(forma, figura, luogo, tempo. famiglia, paese, nome).
In realtà, la legge classica del rapporto inverso tra la comprensione e l'estensione si applica esattamente solo alle classi definite per mezzo del “genere” e della “differenza specifica” (50). Ora questa
forma di classificazione, ispirata alla classificazione biologica, presenta un interesse veramente assai
scarso per le scienze moderne (salvo, tuttavia, quelle rimaste ancora di tipo descrittivo), poiché i rapporti
in gioco nella matematica o nella fisica (rapporti d'anteriorità, d'uguaglianza, di superiorità, di numero, di
posizione, ecc.) non si possono ridurre a rapporti di genere e specie. Ecco perché per es. in matematica,
comprensione ed estensione spesso sono in rapporto analogo; così per es. la serie dei numeri interi
costituisce un insieme la cui estensione e la cui ricchezza costitutiva (comprensione) crescono di pari
passo.
B. I PREDICABILI (o UNIVERSALI)
42 - 1. CONCETTO - Si chiamano predicabili i modi o maniere secondo cui una cosa può essere detta
di un soggetto (o servire da predicato a questo soggetto). Si è visto nell'albero di Porfirio che il genere è
determinato da una differenza specifica, cioè da una realtà che riduce il genere ad un genere meno ampio
o (nel caso del genere ultimo) ad una data specie: il corpo, per aggiunta della vita (differenza specifica),
diventa “essere animato”; questo, ricevendo la sensibilità (differenza specifica) diventa “essere animato
sensibile” (cioè “animale”); l'animale (genere ultimo), per la ragione (differenza specifica), costituisce la
specie “animale ragionevole” (o “uomo”).
Alla specie costituita si aggiungono due tipi di complementi: gli uni derivanti necessariamente
dall'essenza della specie, in modo che né la specie può riscontrarsi senza di essi, né questi senza la specie:
essi sono le proprietà (per esempio, il ridere, nell'uomo); gli altri non appartengono necessariamente alla
specie e di conseguenza possono riscontrarsi o no con essa: sono gli accidenti contingenti (la bianchezza
nell'uomo, la bellezza in un quadro, la purezza nell'atmosfera).
Vi sono dunque cinque predicabili (o universali), ossia cinque maniere secondo cui una cosa può
essere detta di un soggetto: cioè secondo il genere, la specie, la differenza specifica, il proprio e
l'accidente contingente. Al di sopra di questi cinque universali, non possono essercene altri, poiché non è
possibile un'altra maniera di attribuire l'universale ad un soggetto.
2. DEFINIZIONI
a) Il genere (o essenza determinabile). Nozione universale che designa solo parzialmente il soggetto al
quale la si attribuisce (L'uomo è un animale. Il cane è un vivente).
b) La specie (o essenza determinata). Nozione universale che definisce completamente il soggetto al
quale la si attribuisce (L'uomo è un animale ragionevole. Il cane è un vivente sensibile).
c) La differenza specifica (o essenza determinante). Nozione universale che si attribuisce al soggetto a
titolo di qualità essenziale (L'uomo è ragionevole. Il cane è un essere sensibile).
d) Il proprio. Nozione universale che si attribuisce al soggetto per modo di qualità necessaria (L'uomo
è capace di ridere).
e) L'accidente. Nozione universale che si attribuisce ad un soggetto per modo di qualità contingente
(cioè che può esistere o non esistere in questo soggetto) (Pietro è musicista, virtuoso).
3. NATURA - I predicabili o universali non sono cose od oggetti di attribuzione (prime intenzioni o id
quod: ciò che si attribuisce), ma solamente dei modi di attribuzione (oggetti di seconda intenzione o
nature universali in quanto tali). Sono ciò che noi abbiamo chiamato più sopra (38) enti di ragione.
43 - 4. IL PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI - Questo problema consiste nel sapere quale valore
bisogna attribuire ai concetti universali. Si distinguono tre opinioni principali: quella dei Nominalisti
radicali che negano ai concetti universali non solamente ogni realtà oggettiva, ma altresì ogni realtà
soggettiva: ad essi nulla corrisponde, né nel reale, né nello spirito: sono delle pure voci che designano una
collezione di individui, - quella dei Nominalisti moderati (chiamati pure Concettualisti), i quali affermano
che al concetto universale, che è una realtà nello spirito, non corrisponde nulla nel reale, ­ infine quella
dei Realisti moderati, secondo i quali l'universale come tale non esiste che nello spirito, ma rappresenta
anzitutto una natura reale, oggettiva (universale diretto o metafisica o concetto oggettivo), sotto una
forma astratta e universale, suscettibile di fondare per riflessione un concetto formalmente universale
(universale riflesso o logico)50. La discussione di questa questione è di pertinenza della psicologia .e della
critica. Si deve tuttavia osservare fin d'ora che, poiché ogni scienza si volge all'universale e al necessario,
il nominalismo, col negare il valore oggettivo dell'universale, conduce logicamente allo scetticismo, in
materia di metafisica e di morale.
5. I GRADI METAFISICI E LE DISTINZIONI - Allorché si dice: “Pietro è sostanza, corpo, vivente,
animale, uomo”, si attribuiscono a Pietro dei predicati che costituiscono tanti gradi metafisici (o gradi
d'essere). È evidente che questi predicati si identificano col soggetto: essi sono aspetti multipli di una sola
e identica realtà. Per il medesimo fatto, essi si identificano realmente tra loro: considerati nel soggetto
individuale, non c'è tra loro una distinzione reale 51.
Tuttavia, è pur certo che la distinzione tra i gradi metafisici non è puramente verbale ma ha un
fondamento nel reale (cioè nella complessità stessa del soggetto concreto individuale). Ma questo
fondamento è solo virtuale, non attuale. La distinzione in atto esiste solo nello spirito e mediante lo
spirito: è ciò che si chiama una distinzione di ragione fondata. Vi sono dei casi, però, in cui la distinzione
di ragione è puramente verbale e arbitraria: quella per esempio che si stabilisce tra due parole di senso
uguale (homo e anthropos: a queste due parole corrisponde realmente un solo concetto ed una sola realtà).
È la distinzione di ragione non fondata (Fig. 4).
maggiore
(tra realtà separabili)
reale
(data in atto nella cosa)
minore
(tra realtà non separabili)
DISTINZIONE
fondata o virtuale
(con fondamento virtuale nella cosa)
di ragione o logica
(non data in atto nella cosa)
non fondata o verbale
(senza alcun fondamento nella cosa)
Fig. 4 – Tavola delle principali distinzioni
C. I PREDICAMENTI O CATEGORIE
44 - 1. NOZIONE - I predicamenti o categorie differiscono dai predicabili o universali logici in quanto
essi non sono semplicemente dei modi di attribuzione, ma gli stessi attributi, ossia ciò che (id quod) si
dice delle cose. I predicabili appartengono all'ordine logico (cioè non sono realizzabili fuori dello spirito);
i predicamenti appartengono piuttosto all'ordine reale. Essi sono i modi speciali sotto i quali l'essere può
esistere, ossia l'insieme dei generi supremi nei quali si distribuisce tutto il reale.
2. DIVISIONE - L'essere è o sostanza, cioè atto a esistere in sé e non in altro come in un soggetto, - o
accidente, cioè atto ad esistere in altro come in un soggetto. D'altra parte si distinguono nove maniere di
esistere in altro come in un soggetto (e di conseguenza nove specie di accidenti): la qualità, la quantità, la
relazione, l'azione, la passione, la localizzazione, la posizione, la situazione nel tempo, l'avere. Vi sono
dunque in tutto (sostanza e accidenti), dieci predicamenti52.
3. ACCIDENTE PREDICABILE E ACCIDENTE CATEGORICO ­ Bisogna distinguere accuratamente l'accidente predicabile (o logico) dall'accidente predicamento (o categorico). Il primo si oppone al
proprio, il secondo alla sostanza. Da ciò deriva che una sostanza può essere attribuita per modo di
accidente predicabile (l'abito con cui Pietro è vestito) mentre l'accidente categorico può essere una
proprietà (il riso attribuito all'uomo).
4. PREDICAMENTI LOGICI E PREDICAMENTI METAFISICI - Lo studio delle categorie
appartiene sia alla logica che alla metafisica. Considerate formalmente come generi (cioè come concetti o
attributi), le categorie (chiamate, da questo punto di vista, predicamenti logici) appartengono alla logica.
Considerate come modi dell'ente reale, cioè in quanto significanti qualche natura reale (predicamenti
metafisici), esse appartengono all'ontologia. Ma è importante notare che si tratta, in logica come in
metafisica, delle stesse categorie, considerate qui come nature, e là come enti di ragione. Secondo
l'aspetto sotto il quale le consideriamo, esse sono una classificazione dei concetti o una classificazione
delle realtà (cioè delle cose stesse che questi concetti significano).
5. ANTIPREDICAMENTI E POSTPREDICAMENTI. ARISTOTELE enumera ancora degli antipredicamenti o preamboli alla teoria dei predicamenti, e dei postpredicamenti o proprietà dei predicamenti.
a) Gli antipredicamenti. Essi consistono in un certo numero di distinzioni. Bisogna distinguere tra
“ciò che si dice” e “ciò che esiste”: così “uomo” si dice di Paolo ma non esiste fuori di Paolo, di
Giacomo, di Giovanni, ecc., cioè fuori dei singoli soggetti. Bisogna distinguere ancora tra “essere detto di
un soggetto” ed “essere in un soggetto”. Infatti, certe cose si attribuiscono ad un soggetto, ma non sono in
un soggetto: è il caso di tutte le sostanze prese universalmente. (Uomo, Animale). Altre cose invece sono
in un soggetto, ma non si attribuiscono ad un soggetto: è il caso di tutti gli accidenti presi singolarmente
(questa virtù, questo colore). Altre sono in un soggetto e si attribuiscono ad un soggetto: è il caso degli
accidenti presi universalmente (la virtù, il colore). Altre cose infine non sono né in un soggetto né si
attribuiscono ad un soggetto: è il caso di tutte le sostanze singole (Pietro).
b) I postpredicamenti. Essi sono: l'opposizione e le sue specie (relazione, contraddizione, privazione,
contrarietà), - le differenti specie di priorità (di tempo, di conoscenza, di dignità, di natura e di causalità),
- la simultaneità, sotto le sue due forme, temporale e naturale, ­ infine il movimento o stato di passaggio
da una maniera d'essere ad un'altra maniera d'essere.
D. L'ATTRIBUZIONE PER SÉ (O A PRIORI)
45 - 1. DEFINIZIONE - Dalla distinzione dei predicabili risulta che alcuni predicati convengono per
se stessi e necessariamente al loro soggetto e possono essergli attribuiti immediatamente (o a priori); è
quanto Aristotele chiama: “modi di attribuzione per sé” (o modo di attribuzione necessario)53.
2. TRE MODI DI ATTRIBUZIONE A PRIORI
a) Primo modo. Questo modo concerne il caso in cui il predicato costituisce sia l'essenza, sia una
parte dell'essenza del soggetto (Così “animale ragionevole”, “animale” e “ragionevole” si dicono per sé
dell'uomo).
b) Secondo modo. Questo modo concerne il caso in cui il predicato è una proprietà del soggetto (Il
concetto di “camuso” per il naso, di “capace di ridere” per l'uomo, di “retta” o di “curva” per la linea).
Queste nozioni non possono definirsi senza riferimento al loro soggetto.
d) Terzo modo. Questo modo concerne il caso in cui il predicato esprime l'azione propria del soggetto
(Il medico guarisce. L'architetto costruisce). Se il predicato non esprimesse l'azione propria del soggetto,
l'attribuzione sarebbe solamente accidentale e non potrebbe farsi che a posteriori (Il medico canta.
L'architetto va a spasso)54.
Art. III – Classificazione delle idee e dei termini
46 - Ci si può porre da più punti di vista per classificare le idee e i termini.
A. PUNTO DI VISTA DELLA COMPRENSIONE E DELL'ESTENSIONE.
1. QUANTO ALLA COMPRENSIONE - Una idea è:
a) Semplice o composta, a seconda che essa comprenda uno o più elementi, o a seconda che i suoi
elementi siano colti separatamente o no. Dal primo punto di vista, l'idea di essere è semplice, l'idea di
uomo è composta. Dal secondo punto di vista, l'idea di uomo è semplice, l'idea di montagna d'oro o quella
di buon viaggio è composta;
b) Concreta o astratta, a seconda che essa si applichi ad un soggetto o ad una qualità manifestata nel
suo soggetto (l'uomo, il saggio [= l’uomo saggio]) 55 o che si applichi ad una natura o essenza considerata
in se stessa, per astrazione dal suo soggetto (l'umanità, la saggezza);
c) Positiva o negativa, a seconda che essa esprima una cosa reale o possibile (una essenza): il saggio,
la bontà, oppure la deficienza (privazione) o l'assenza (negazione) di qualche cosa: la cecità, il nonessere;
d) Diretta o riflessa, a seconda che essa risulti dalla considerazione diretta di una cosa (uomo, saggio,
bianco), oppure dalla riflessione dello spirito sulle sue stesse idee (la idea di predicato, di universale, di
logica). Si dicono pure: termini di prima intenzione (diretti) e termini di seconda intenzione (riflessi).
2. DAL PUNTO DI VISTA DELL'ESTENSIONE - Si distingue:
a) L'idea singolare: quella che non può applicarsi che ad un solo individuo: Pietro, quest'albero, questo
libro.
b) L'idea particolare: quella che si applica in una maniera indeterminata a una parte solamente di una
data specie o di una data classe. Essa è contrassegnata generalmente dall'aggettivo indefinito qualche (o
dall'articolo indeterminato).
c) L'idea universale: quella che conviene a tutti gli individui di un dato genere o di una data specie...
Tali le idee di uomo, di cerchio, di animale, di tavola.
L'idea singolare equivale ad un'idea universale, poiché se essa è ristretta ad un solo individuo,
esaurisce tutta la sua estensione.
d) Concetti collettivi e divisivi. Il punto di vista della estensione dà ancora origine alla divisione dei
concetti (e dei termini) in collettivi (armata, famiglia, governo), in quanto essi si applicano ad un gruppo
di individui presi come formanti un tutto o “collettivamente”, e divisivi (uomo, poeta, oratore), in quanto
essi si applicano solo a degli individui presi come tali.
B. PUNTO DI VISTA DEI RECIPROCI RAPPORTI TRA LE IDEE
47 - Da questo punto di vista, si distinguono principalmente i concetti:
1. CONTRADITTORI - I concetti sono detti contraddittori quando l'uno esclude l'altro senza che tra
loro sia possibile un intermedio. Per esempio: essere e non essere; bianco e non bianco; essere a Parigi e
non essere a Parigi; avaro e non avaro.
2. CONTRARI - I concetti sono contrari tra loro quando esprimono delle note opposte, in uno stesso
genere, in modo che tra queste ci sia intermedio. Per esempio: bianco e nero; avaro e prodigo; essere a
Parigi ed essere a Roma.
3. PRIVATIVI - I concetti sono detti privativi quando essi negano qualche proprietà o qualità di un
soggetto che normalmente deve possederla. Per esempio: cieco in rapporto all'uomo (normalmente sano
di vista).
4. RELATIVI - Sono relativi i concetti che significano un ordine tale, che un concetto non può essere
dato senza l'altro. Esempio: padre e figlio; destra e sinistra 56.
C. PUNTO DI VISTA DELLA PERFEZIONE DELLE IDEE
Dal punto di vista della loro perfezione intrinseca, si distingue:
1. L'IDEA ADEGUATA O INADEGUATA, allorché rappresenta o non rappresenta allo spirito tutti
gli elementi (o note) dell’oggetto.
2. L'IDEA CHIARA OD OSCURA, quando essa è sufficiente o insufficiente a far riconoscere il suo
oggetto tra tutti gli altri oggetti.
3. L'IDEA DISTINTA O CONFUSA, a seconda che essa faccia conoscere o no gli elementi (o note)
che compongono il suo oggetto. Un’idea chiara può non essere distinta: un giardiniere ha un'idea chiara,
ma non necessariamente distinta (al contrario del botanico) dei fiori che coltiva. Al contrario, un’idea
distinta è necessariamente chiara.
D. PUNTO DI VISTA DEL MODO DI SIGNIFICAZIONE
48 - 1. I TERMINI UNIVOCI, EQUIVOCI, ANALOGHI - Ponendoci dal punto di vista del modo in
cui i termini significano gli oggetti, si distinguono i termini univoci, equivoci e analoghi 57.
a) Univoco si dice del concetto che può attribuirsi in una maniera assolutamente identica a soggetti
diversi. Per esempio, il concetto di uomo si applica univocamente a Pietro, Paolo, a un negro e ad un
bianco.
b) Equivoco si dice di un nome che si applica a soggetti diversi ma in un senso totalmente differente.
Esempio: l'ariete, costellazione celeste e animale. L'equivoco non può mai essere un concetto ma
solamente una parola che racchiude dei concetti distinti.
c) Analogo si dice di un concetto che riguarda realtà essenzialmente diverse, ma che hanno tuttavia tra
loro un certo rapporto. Esso è dunque intermedio tra l'univoco e l'equivoco e designa una nozione che si
applica a più soggetti in un senso né totalmente identico né totalmente differente. Così la salute è una
nozione analogica in quanto applicata ad un alimento, al corpo, al volto. Infatti, l'alimento produce la
salute, il volto la esprime, il corpo solo la possiede.
2. LE SPECIE DI ANALOGIA - Si distinguono:
a) L'analogia di attribuzione, che è quella di un termine o di un concetto che convengono ad una o a
più cose in ragione del loro rapporto ad un'altra, alla quale soltanto il termine o il concetto si applicano
propriamente e principalmente. Così il termine sano si dice propriamente e principalmente del corpo
(attribuzione intrinseca); ma per analogia lo si applica ugualmente all'alimento o al clima, che esprime la
salute del corpo (attribuzione estrinseca). Il corpo è l'analogato principale; l'alimento, il clima, il volto
sono un analogato secondario.
b) L'analogia di proporzionalità, che è quella di un termine o di un concetto che convengono a più
cose in ragione di una somiglianza di rapporti. Così, ad es., si parla della “luce della verità”, intendendo
con ciò che la verità è per l'intelligenza ciò che la luce del sole è per gli occhi del corpo. C'è qui, come si
vede, una proporzione di rapporti, che potrebbe tradursi sotto questa forma:
verità / intelligenza = luce / visione corporea 58
Art. IV – La definizione e la divisione delle idee e dei termini
A. REGOLA FORMALE DELLE IDEE E DEI TERMINI
49 - 1. IN SE STESSA, UN'IDEA NON È NÉ VERA NÉ FALSA ­ Infatti, non contiene alcuna
affermazione. Essa è quello che è e niente di più. Le idee di “montagna d'oro”, di “chimera”, di “fenice”
in se stesse non sono né vere né false; esse hanno, in quanto idee, altrettanta realtà di quelle di montagna,
di marmo, di terra, di cavallo.
2. UN'IDEA PUÒ ESSERE CONTRADITTORIA - Si dice che un'idea è contraddittoria in se stessa
quando racchiude degli elementi che si escludono tra loro contraddittoriamente. Tale è l'idea di “cerchio
quadrato”, di “Dio ingiusto”. Le idee contraddittorie non possono essere altro che idee confuse, poiché è
impossibile concepire chiaramente e distintamente un’idea realmente contraddittoria, che è, in realtà, un
nulla di idea.
Bisogna dunque fare in modo che le nostre idee non contengano elementi contraddittori tra loro. Ora
siccome la contraddizione nelle idee proviene sempre dalla loro confusione, bisogna dissipare questa
confusione analizzandole, cioè bisogna definirle e dividerle.
B. LA DEFINIZIONE
50 - 1. NOZIONE - Definire, etimologicamente, è delimitare. La definizione logica consiste infatti nel
circoscrivere esattamente la comprensione di un concetto, in altri termini nel dire ciò che una cosa è.
2. DIVISIONE - Si distinguono diverse specie di definizioni:
a) Definizione nominale. È quella che stabilisce l'uso di un vocabolo. Essa non è una definizione
propriamente detta, poiché non dice ciò che la cosa è in se stessa. La definizione nominale fa appello, sia
ad una parola più chiara che la definisce (“il cloruro di sodio non è altro che il sale da cucina”), sia
all'etimologia (“la filosofia è l'amore della sapienza”).
b) Definizione reale. È quella che esprime la natura della cosa stessa. La definizione reale può essere:
Essenziale, quando si fa col genere prossimo e la differenza specifica (41). Si definisce così l'uomo:
un animale ragionevole, “animale” essendo il genere prossimo, cioè l'idea immediatamente superiore, per
estensione, a quella di uomo, e “ragionevole” essendo la differenza specifica, ossia ciò per cui l'uomo
differisce dagli altri animali e costituisce una specie distinta nel genere animale.
Descrittiva, quando, in mancanza di caratteri essenziali (genere prossimo e differenza specifica), essa
enumera le proprietà o i caratteri esteriori più caratteristici di una cosa, per permettere di distinguerla da
tutte le altre. La definizione per proprietà (o caratteri derivanti immediatamente dall'essenza) (42) è
utilizzata in filosofia, la definizione per caratteri esteriori (semplici segni di proprietà propriamente dette)
è in uso nelle scienze della natura.
Causale, quando si riferisce alla causa della cosa da definire (sia alla causa efficiente o produttrice:
l'anima è un principio spirituale creato immediatamente da Dio - sia alla causa finale: l'uomo è stato
creato per conoscere, amare e servire Dio, - sia alla causa esemplare (o modello): l'anima è stata creata ad
immagine e somiglianza di Dio). Alla definizione causale, si può collegare la definizione genetica, che
consiste nel descrivere il modo come una cosa è prodotta. (Il bronzo è un metallo che deriva da una lega
di rame, di stagno e di zinco. - Il cerchio è una figura piana che risulta dal movimento di una retta intorno
ad un punto fisso).
51 - 3. REGOLE DELLA DEFINIZIONE - Possono essere ricondotte a due principali, di cui la prima
riguarda la comprensione, e la seconda l'estensione del termine da definire.
a) La definizione deve essere più chiara del definito. Ne consegue: che essa non deve contenere il
termine da definire, - che deve essere breve, - infine che essa non deve essere normalmente negativa: dire
che l'uomo non è un angelo, non equivale a chiarire la questione circa la natura dell'uomo.
Tuttavia, accennando a quest'ultima condizione, bisogna osservare che la definizione negativa è valida
quando si tratta di definire una privazione (Il cieco è colui che non vede), e quando si applica a realtà di
cui non abbiamo idea propria e che possiamo definire solo negativamente e per analogia: è il caso delle
realtà puramente spirituali.
b) La definizione deve convenire a tutto il definito e al solo definito. Ossia essa non deve essere né
troppo ristretta (l'uomo è un animale ragionevole di colore bianco), né troppo larga (l'uomo è un
animale). In altre parole, essa deve essere convertibile col definito: “l'uomo è un animale ragionevole”),
può convertirsi nella seguente: “L'animale ragionevole è l'uomo”.
4. LIMITI DELLA DEFINIZIONE - Quanto all'uso della definizione, conviene osservare con Pascal,
che non bisogna pensare di definire tutto. Si possono distinguere quattro casi in cui la definizione
propriamente detta è impossibile ed inutile. Innanzitutto, alcune idee sono così semplici che la loro analisi
è impossibile: tale è l'idea di essere, che ha soltanto questo contenuto: ciò che è. Poi, altre nozioni,
sebbene comportino una certa complessità, sono così generali da non essere suscettibili di definizione
essenziale: tali sono le nozioni delle diverse categorie (44) che, essendo dei generi supremi, non hanno,
per definizione stessa, genere prossimo. Inoltre, gli esseri individuali, come tali, non possono mai essere
definiti, a causa della complessità della loro comprensione o delle loro note individuanti e soprattutto a
causa dell'impossibilità in cui ci troviamo di conoscere la loro differenza numerica (41). Infine, alcuni
dati sperimentali (piacere, dolore, luce, calore, colore blu, ecc.) sono più chiari di tutte le definizioni che
si potrebbe darne e si comprendono immediatamente dall'esperienza che ne abbiamo, mentre nessuna
definizione potrebbe farli conoscere a coloro che non li hanno mai sperimentati.
C. LA DIVISIONE
52 - La divisione delle idee nei loro elementi è uno dei mezzi necessari per ottenere una buona
definizione.
1. DEFINIZIONE - Dividere è distribuire un tutto nelle sue parti. Si avranno così tante specie di
divisione quante sono le specie di tutto.
2. SPECIE - Dicesi tutto ciò che può essere risolto, fisicamente, o almeno idealmente, in più elementi.
Da ciò derivano tre specie di tutto: fisico, logico e morale.
a) Fisico. Il tutto fisico è quello le cui parti sono realmente distinte. Questo tutto può essere:
quantitativo (o integrale), in quanto composto di parti omogenee (o integranti): un blocco di marmo, essenziale, in quanto costituisce una essenza completa: l'uomo, - potenziale, in quanto composto di
differenti potenze o facoltà: l'anima, in quanto composta di intelligenza e di volontà, - accidentale, in
quanto composto di parti unite dal di fuori: un mobile, un mucchio di ciottoli, - o di parti non essenziali: il
tutto costituito da Pietro insieme col suo talento musicale.
b) Logico. Il tutto logico è quello le cui parti non sono distinte che dalla ragione (43). Si esprime con
una nozione universale che ne contiene altre in qualità di parti soggettive (o di soggetti). Così il genere
contiene le sue specie: per es., l'idea di metallo rispetto ai diversi metalli (ferro, stagno, rame, zinco, ecc)
o ancora l'idea di animale rispetto all'animale ragionevole (uomo) e all'animale non ragionevole (bruto).
Questa nozione può servire da predicato a tutti i suoi inferiori: l'uomo è un animale, - il cavallo è un
animale, ecc. ­ il ferro, l'oro, l'argento, lo zinco... è un metallo.
Inversamente, l'universale logico entra nella comprensione dei suoi inferiori, di cui costituisce, con la
differenza specifica di ciascuno di essi, le parti metafisiche (41).
c) Morale. Il tutto morale è quello le cui parti, attualmente (in atto, n.d.t.) distinte e separate, sono
unite col legame morale di uno stesso fine: una nazione, un'armata, una scuola, ecc. Si esprime con un
concetto collettivo (46).
3. REGOLE. Una divisione per essere buona, deve essere:
a) Completa o adeguata, cioè deve enumerare tutti gli elementi di cui il tutto si compone.
b) Irriducibile, ossia deve enumerare soltanto gli elementi veramente distinti tra loro, in modo che
nessuno sia compreso in un altro. La divisione seguente: l'uomo si compone di un corpo, di un'anima e di
una intelligenza, peccherebbe contro questa regola, poiché l'anima umana comprende l'intelligenza.
c) Fondata sullo stesso principio, e, di conseguenza, deve procedere con termini veramente opposti tra
loro. La divisione seguente: la mia biblioteca si compone di libri di filosofia e di libri in formato 8°,
peccherebbe contro questa regola, poiché in formato 8° non si oppone a filosofia.
CAPITOLO SECONDO
IL GIUDIZIO E LA PROPOSIZIONE
SOMMARIO59
Art. I - DEFINIZIONI. Concetto ed essenza del giudizio - Concetto di proposizione - Il verbo Proposizione attributiva e proposizione esistenziale - Comprensione ed estensione.
Art. II - SPECIE DI GIUDIZI E DI PROPOSIZIONI. Giudizi di attribuzione e giudizi di esistenza Divisione della proposizione attributiva - Inerenza e relazione.
Art. III - L'OPPOSIZIONE. Specie e leggi ­ Opposizione delle modali - Conversione delle proposizioni Natura e regola generale della conversione - Conversione delle modali - La quantificazione del
predicato.
Art. I - Definizioni
A. CONCETTO DI GIUDIZIO
53 - 1. DEFINIZIONE DEL GIUDIZIO - Il giudizio è l'atto attraverso il quale lo spirito afferma,
sia un rapporto tra due termini, sia uno o più rapporti tra due o più termini60. Questa definizione
raccoglie insieme i giudizi semplici e quelli complessi.
a) Giudizi semplici. I giudizi semplici pongono un rapporto tra due termini semplici (“L'uomo è
mortale”). Si dà ad essi il nome di giudizi d'attribuzione (o di predicazione). in quanto consistono
nell'affermare (o negare) un rapporto di convenienza tra due termini, chiamati soggetto e predicato, per
mezzo d'un termine chiamato copula (che è il verbo “è”). (I giudizi che grammaticalmente hanno la
seguente forma: “Pietro studia la logica”, significano logicamente: “Pietro (soggetto) è (copula) studiantela-logica (predicato)”).
Spesso si osserva che il giudizio d'esistenza (“Dio esiste”, “La fenice non esiste”)61, sembra
costituisca un caso a sé e sia composto di due termini soltanto: il soggetto (“Dio”, “fenice”) e il verbo “è”
(o “esiste” ) che in questo caso, afferma (o nega) immediatamente e formalmente l'esistenza reale del
soggetto stesso, e non semplicemente, come nel giudizio di predicazione, l'esistenza (reale o possibile) di
una determinazione del soggetto.
Tuttavia, l'elemento di verità che v'è in queste considerazioni non basta a renderle del tutto
soddisfacenti. Non v'è dubbio in realtà che nel giudizio di esistenza il verbo “è” affermi l'esistenza reale
del soggetto in quanto tale: l'esistenza non è un predicato, ma l'attualità stessa del soggetto e delle sue
determinazioni62. Vero rimane che queste considerazioni hanno un valore piuttosto metafisico che logico.
Comunque, non sembra debbano obbligare ad ammettere la realtà paradossale di un giudizio a due
termini. Poiché “Dio esiste” equivale a “Dio è un essere reale” (e non una finzione o un nome) e “La
fenice non esiste” equivale a “La fenice non è un essere reale”; queste seconde espressioni dal punto di
vista della logica formale hanno la forma del giudizio di predicazione, senza averne però esattamente il
senso (poiché “è un essere reale” non significa altro che “esiste (realmente)”.
b) Giudizi complessi. I giudizi complessi pongono uno o più rapporti tra due o più termini complessi (o
proporzioni): “Se domani sarà bel tempo vi saranno molte automobili per la strada e gli incidenti saranno
numerosi”; “O obbedirete, o sarete puniti”, ecc. Più avanti presenteremo una divisione delle diverse
specie del giudizio complesso.
I termini del giudizio, si tratti di termini semplici o complessi, costituiscono la materia del giudizio. La
forma del giudizio risulta, nei giudizi semplici, dalla copula (cioè dalla affermazione o dalla negazione) e,
nei giudizi complessi, dai termini sincategorematici 63.
2. L'ESSENZA DEL GIUDIZIO. Ciò che caratterizza essenzialmente il giudizio non è l'atto di
“comporre” o legare due termini tra loro: pensare “tempo freddo”, “Napoleone imperatore”, “capolavoro
musicale” non equivale a formulare un giudizio, ma semplicemente a concepire nozioni complesse. Il
giudizio consiste essenzialmente nell'atto di affermare (o di negare) un rapporto (o più rapporti) sia per
mezzo del verbo (“Il tempo è freddo”, “Dio esiste”), sia per mezzo dei termini sincategorematici
(“Quando v'è sul suolo del vetrato, gli incidenti sono numerosi e spesso gravi”). Giudicare quindi è
propriamente l'atto vitale d'assentire, espresso per mezzo di una o più proposizioni.
Ciò si vede chiaramente quando si confronta il giudizio con la proposizione semplicemente
enunciativa. Questa consiste nel comparare tra loro due concetti come soggetto e predicato possibili di un
giudizio senza decidere se questi concetti concordino o no tra loro, oppure nel porre la questione della
esistenza reale di un soggetto. Normalmente (e qualunque sia la sua forma verbale), la semplice
enunciazione equivale ad una interrogazione, ad una richiesta indirizzata all'intelligenza: “L'anima è
immortale?”, “Dio esiste?” . Si ha giudizio autentico soltanto quando l'intelligenza dice che ciò è vero o
falso: “Sì, l'anima è immortale”, “Sì, Dio esiste”, “No, il centauro non esiste”.
54 - 3. SEMPLICITÀ E INDIVISIBILITÀ DEL GIUDIZIO - Da ciò che precede si desume che il
giudizio, in quanto atto dello spirito, è semplice, cioè indivisibile. Senza dubbio, la proposizione con cui
si esprime è composta di parti, ma non sono queste parti o elementi, come tali, che costituiscono il
giudizio: essi non sono che la materia. Ciò che costituisce il giudizio (o, in termini più tecnici, ciò che dà
una forma a questa materia facendola esistere come giudizio, è puramente e semplicemente l'atto stesso di
affermare o di negare. Ora quest'atto è qualcosa di assolutamente semplice, da poter essere definito
benissimo (qualunque siano i procedimenti più o meno complessi da cui risulta) come una intuizione o
visione.
B. ANALISI DELLA PROPOSIZIONE SEMPLICE
55 - La proposizione, che è il segno o espressione verbale del giudizio, si compone, come il giudizio,
di tre termini: soggetto, predicato e verbo, chiamato copula, poiché lega o slega il soggetto e il predicato
(proposizioni attributive o predicative), - oppure di due termini soltanto: soggetto e verbo, affermante
quest'ultimo l'esistenza reale del soggetto (proposizioni esistenziali). Noi definiremo dunque la
proposizione, come un enunciato tale che abbia senso il dirlo vero o falso 64.
1. SOGGETTO E PREDICATO - Delle parti grammaticali della proposizione, si distinguono il nome,
il verbo, l'aggettivo, la congiunzione, la preposizione e l'avverbio. Dal punto di vista logico, solo i nomi e
i verbi sono essenziali. Gli altri elementi rientrano sempre come accidenti.
Aristotele definisce il nome come un segno vocale arbitrario, ­ intemporale (cioè che non comporta di
per se stesso alcuna determinazione di tempo), - semplice (o composto di più parole prese come formanti
un tutto: strada ferrata, Stati-Uniti), - determinato (ciò che è indeterminato65 potendo significare tanto il
nulla quanto l'essere: “non­animale” conviene al non-essere come all'angelo), - diretto, cioè che esprime
una cosa o una qualità presa assolutamente o in modo categorematico (Aristotele, Periherm., c. II).
56 - 2. IL VERBO
a) Concetto. Il verbo, secondo la definizione di Prisciano, è una parte del discorso la cui funzione
propria è di significare l'azione nel tempo e nel modo 66. Osserviamo che il tempo di cui qui si tratta non è
la distinzione del passato, del presente e del futuro, i quali non sono che degli accidenti, ma il solo
presente, compreso non come un elemento del tempo, ma come significativo di un'azione (o di una
passione), la quale implica necessariamente il tempo (al contrario del nome, che astrae totalmente dal
tempo).
Questa definizione si scosta sensibilmente dal punto di vista di Aristotele (Periherm., c. III). Senza
dubbio, Aristotele ha ben rilevato i caratteri grammaticali di tempo e di modo che il verbo implica, ma
tende però a ridurli a puri accidenti e a trascurare ciò che c'è di specifico nel verbo, che è di esprimere
l'azione e lo stato che ne risulta. Infatti, per lui, il verbo si riduce a un nome significante un concetto
corrispondente all’azione enunciata dal verbo: “egli canta” significa “il canto”, affetto dagli accidenti di
modo e di tempo. La definizione di Prisciano rileva, al contrario, che la funzione propria del verbo è
quella di esprimere l'azione stessa, cioè una realtà irriducibile al semplice concetto.
b) Verbo copulativo e verbo esistenziale. Logici e grammatici hanno osservato che l’unico verbo della
proposizione logica è il verbo essere. Ma si tratta di sapere se il verbo “è” ha sempre la stessa funzione e
la stessa natura. Ora l'analisi della proposizione ci ha condotto a distinguere due funzioni differenti del
verbo. Ora, infatti, esso ha un senso copulativo, il che vuol dire che serve soltanto a legare un predicato
ad un soggetto (“L'uomo è mortale”, senza implicare l'esistenza reale di questo soggetto, - ora invece
pone (o nega) l'esistenza reale di un soggetto (“Dio è”, “La fenice non esiste”).
Abbiamo visto sopra (53) che il verbo del giudizio d'esistenza non si può ridurre al verbo del giudizio
di predicazione, sebbene, dal punto di vista della logica formale, il giudizio d'esistenza possa prendere la
forma d'un giudizio a tre termini. Non si potrebbe, tuttavia, ridurre il verbo copulativo al verbo
esistenziale? Lo si è affermato67 osservando che la proposizione “Tutti gli uomini sono mortali”
risulterebbe infine equivalente a questa: “Non esiste un uomo immortale”. È un punto di vista però che
sembra soggetto a contestazioni, poiché fa entrare in campo una considerazione extralogica. In realtà la
logica astrae dall'esistenza reale e considera soltanto l'esistenza possibile, cioè la compossibilità o
incompossibilità dei concetti. Tutti gli uomini sono mortali” non implica che vi siano uomini, ma soltanto
che “mortale” conviene a “uomo”. Parimenti “Nessuno uomo è immortale” nega semplicemente che
“uomo” e “immortale” siano compossibili.
Così bisogna concludere che il verbo copulativo ed il verbo esistenziale sono irreducibili tra loro. Se,
come si è visto, l'uno e l'altro servono ad esprimere l'azione di un soggetto, il verbo copulativo esprime
l'atto secondo (od operazione) del soggetto, mentre il verbo esistenziale afferma l'atto primo, in virtù del
quale un soggetto è o esiste, e senza il quale non si avrebbe né soggetto né operazione.
c) Primato dell'“esse” esistenziale. Questa dualità del verbo “è” ha qualcosa di irritante per lo spirito,
che cerca ostinatamente l'unità. Per soddisfare a questa esigenza, i logici si sforzano di sottolineare il
primato dell'“esse” esistenziale, nel che hanno certamente ragione, ma con argomenti che talvolta sono
contestabili. Se è vero, infatti, che il senso primo e fondamentale del verbo “è”, è quello di significare
l'esistenza, in quanto indica anzitutto ciò che si offre allo spirito in forma di attualità assoluta, - se è vero
ancora che, pure nelle proposizioni predicative, l’esistenza è necessariamente implicata nel legame del
predicato al soggetto, per cui ciò che è distinto nel pensiero si identifica realmente nell'esistenza, - se è
vero infine che l'esistenza è sempre così significata nel porre qualsivoglia essenza (essendo un'essenza
nient'altro che “ciò che può esistere”), - non è esatto affermare che l'esistenza possibile e l'esistenza reale
possono essere pensate con un concetto univoco (48), suscettibile di semplici determinazioni accidentali
(possibilità e attualità). Ciò non è esatto, poiché né “l'esistenza possibile” è veramente un “esse”, né
l'esistenza reale è un predicato che si possa aggiungere ad un'essenza per completarla o per
determinarla. L'“esistenza possibile” non è che un'essenza o un concetto, cioè non è che la nozione di un
essere non contraddittorio, che, come tale, può esistere, ma, di fatto, non esiste, dimodochè la
proposizione che la compone con un soggetto astrae completamente dall'esistenza reale. Questa,
all'opposto, non può essere intesa come ciò che viene a determinare dal di fuori un'essenza già esistente
(possibilmente): essa la fa essere assolutamente ed essa è tanto assolutamente prima, che il possibile (o
l'essenza) non si definisce correttamente che con essa.
Bisogna dunque sottomettersi alla irriducibile dualità del verbo “è”. Ma è sufficiente coglierne il senso
per eliminare lo scandalo che essa produce. Essa non implica in nessun modo, infatti, la dualità dell'essere
reale, ma solamente la complessità interna dell'essere finito. L'essere finito è composto di essenza e di
esistenza (id quod - est), ma in modo che essenza ed esistenza, in quanto princìpi metafisici, non formino
che un solo essere (ens), uno e indiviso in se stesso. Il verbo copulativo e il verbo esistenziale non fanno
che testimoniare la complessità fondamentale dell'essere, senza compromettere la sua unità reale, che è
quella dell'unico “esse” esistenziale, per il quale solo, propriamente, esso è 68.
Si vede chiaramente così in che consista il primato dell'esse esistenziale. Esso significa che ogni
giudizio, di per sé, tende all'esistenza, sia per affermarla, puramente e semplicemente, di un soggetto, sia
per enunciare una determinazione di questo soggetto. Si dirà dunque molto giustamente che ogni giudizio
riguarda l'essere, intendendo che l'essere è propriamente ciò che è, o che può essere. E poiché pensare è
giudicare, ogni pensiero ha per termine, attraverso l'essenza, l'essere stesso per il quale questa essenza è.
Se l'“è” copulativo significa anche l'esistenza e se l'“è” esistenziale significa pure l'essenza, è sempre
l'esistenza, esercitata o significata, che specifica il giudizio e il pensiero, in ciò che hanno di essenziale.
d) Ogni logica è predicativa. La discussione che stiamo concludendo, ci porta a concludere
nuovamente che la logica astrae dall'esistenza reale 69. Di questa non c'è logica alcuna: non c'è logica
esistenziale. L'esistenza non può essere che percepita e affermata, ma non dedotta; pure quando essa è
posta al termine di un ragionamento (come nel caso dell'esistenza di Dio), essa lo è solo a modo di
concetto.
Questo non può significare che l'esistenza sfugga al pensiero; i giudizi di esistenza provano che così
non è. Solamente, l'esistenza, posta come un assoluto dell'essere, è colta dallo spirito come esercitata da
un soggetto, come l'atto primo di questo soggetto. Il giudizio di esistenza, che unisce un concetto
(soggetto) con l'atto di esistere (actus essendi), testimonia la complessità dell'essere ed insieme la sua
unità.
57 - 3. COMPRENSIONE ED ESTENSIONE - Ogni giudizio attributivo può considerarsi dal punto
di vista della comprensione o dal punto di vista dell'estensione. “L'uomo è mortale” significa sia che
“mortale” è un attributo di “uomo” (comprensione) sia che “uomo” fa parte della classe dei “mortali”
(estensione). Il punto di vista più fondamentale è evidentemente quello della comprensione, poiché la
estensione dei concetti non è che una conseguenza della loro comprensione.
Ne deriva che la formula d'uso frequente nei logici per designare il rapporto dei termini della
proposizione, vien costituita secondo il punto di vista della comprensione: il predicato è nel soggetto
(praedicatum inest subjecto), o meglio ancora: il predicato appartiene al soggetto.
Questa formula dev'essere rettamente intesa. Leibniz (cfr. Discours de Metaphysique, in Die
philosophischen Schriften von G. W. L., 7 voll., Berlino e Halle, 1875-90, § VIII-XIII, cfr. tr. it., Torino,
1938; Corrispondenza con Arnauld, ed. Janet, t. I, pp. 528-529) ha voluto fondare su questa formula tutta
una metafisica che, rigorosamente, non lascerebbe alcun posto nel mondo alla contingenza o alla libertà.
Se il predicato è nel soggetto, egli dice, si potrebbe, con un'analisi completa di un soggetto dato, scoprire
in esso assolutamente tutti gli avvenimenti che costituiranno il suo futuro, e, in virtù del suo legame col
resto del mondo, tutti gli avvenimenti passati, presenti e futuri dell'universo.
Questa argomentazione è discutibile. Si può senza dubbio ammettere che “il predicato è nel soggetto”,
ma in un senso del tutto diverso da quello di Leibniz (panlogico), cioè nel senso che il predicato è nel
soggetto o appartiene al soggetto per qualche ragione, cioè a titolo necessario, o a titolo contingente o
accidentale. In questi due giudizi: “Pietro è uomo” e “Pietro è sapiente”, i predicati “uomo” e “sapiente”
sono nel soggetto Pietro. Ma tra i due c'è una grande differenza: il predicato: “uomo” appartiene
necessariamente a Pietro e si scopre in questo soggetto per semplice analisi. Ma in “Pietro è sapiente”,
“sapiente” fa parte della comprensione di Pietro solo a titolo accidentale e contingente, poiché non è
necessario che Pietro sia sapiente. Di conseguenza, nessuna analisi del soggetto “Pietro” avrebbe
permesso di scoprire, prima che egli avesse effettivamente acquisito la scienza, il predicato “sapiente”,
ma l'analisi avrebbe potuto scoprire solamente la possibilità, per questo soggetto, di divenire sapiente, in
virtù della sua natura di animale ragionevole.
Art. II – Divisione delle proposizioni
58 - Si possono dividere i giudizi, e per conseguenza le proposizioni, in due specie: le proposizioni
categoriche e le proposizioni ipotetiche 70.
§ l - Definizioni
1. PROPOSIZIONI CATEGORICHE (o SEMPLICI) - Sono le proposizioni che affermano (o negano)
l'esistenza, tra uno, o più soggetti ed un predicato, sia di un rapporto d'inerenza (o predicazione)
(“L'uomo è intelligente”), sia di un rapporto d'appartenenza (“Pietro è mortale” = “fa parte della classe
dei mortali”), sia d'un rapporto d'inclusione di classi (“Ogni uomo è mortale” = la classe degli “uomini” è
compresa nella classe dei “mortali”), sia infine d'una relazione tra due oggetti (“Pietro è più alto che
Paolo”).
2. PROPOSIZIONI IPOTETICHE (o COMPOSTE) - Sono le proposizioni formate da più parti, che
sono proposizioni categoriche e che hanno un certo rapporto tra loro, espresso da un termine
sincategorematico, che è o una congiunzione o un avverbio (“È giorno o è notte”. “Se l'uomo corre,
l'animale corre”).
§ 2 - Divisione
59 A) - PROPOSIZIONI CATEGORICHE - Queste proposizioni si possono dividere dal punto di
vista della materia, della qualità, della quantità.
1. MATERIA: ANALITICHE E SINTETICHE
a) Definizioni. Si chiama analitico un giudizio in cui l'attributo è, sia identico al soggetto (questo è il
caso della definizione “l'uomo è un animale ragionevole”), - sia essenziale al soggetto “L'uomo è
ragionevole”), - sia proprio del soggetto “Il cerchio è rotondo”). Si chiama sintetico un giudizio in cui
l'attributo non esprime nulla di essenziale né di proprio del soggetto: “Quest'uomo è vecchio”, “Il tempo
è chiaro” 71.
I giudizi analitici, dipendendo da uno dei tre modi di attribuzione per sé (45), sono dunque a priori. I
giudizi sintetici sono a posteriori.
b) Il problema dei “giudizi sintetici a priori”. Seguendo Kant, un gruppo di logici moderni
considerano come analitici solo i giudizi in cui il predicato è contenuto nella nozione del soggetto, sul
tipo della proposizione A è A (considerata giustamente dagli Scolastici come una pseudo-proposizione).
In realtà, sono analitici tutti i giudizi in cui la sintesi del predicato e del soggetto è necessaria in virtù
delle sole esigenze dell'oggetto. Kant, avendo ridotto le analitiche ai giudizi puramente tautologici,
considera tutti gli altri giudizi necessari (per esempio: 7 + 5 = 12, - ciò che comincia ad essere ha una
causa) come sintetici a priori, cioè come delle sintesi operate fuori da ogni esperienza; da ciò egli deduce
la sua teoria delle forme a priori dell'intelletto e della sensibilità 72. Ma questa teoria si fonda, come si
vede, su di uno pseudo-problema, in quanto i giudizi sintetici a priori realmente non esistono.
Se si esaminano gli esempi offerti da Kant, si vede che essi si riconducono al secondo modo di
attribuzione per sé (o a priori). Nel giudizio 7 + 5 = 12, 12 non è contenuto nella nozione di 7 + 5, ma
costituisce una proprietà di 7 + 5. Così è pure del principio di causalità: l'idea di “essere causato”
(predicato) non è inclusa nella nozione di “ciò che comincia ad essere” (soggetto), ma appartiene
necessariamente a questa nozione a titolo di proprietà. Questi due giudizi sono dunque analitici.
c) INERENZA E RELAZIONE - Questi giudizi, come si vede, si pongono dal punto di vista
dell'attribuzione o più precisamente dell'inerenza, o inclusione, il che equivale a dire che essi consistono
nell'affermare o nel negare che quel tale predicato esiste (o inerisce) in tale soggetto. Ora alcuni logici
(come B. Russell, J. Lachelier) osservano che c'è tutta una serie di proposizioni (proposizioni di
relazione) che non è possibile ricondurre al tipo delle proposizioni di inerenza. Appartengono a questo
gruppo, secondo loro, le proposizioni matematiche o giudizi di uguaglianza e di disuguaglianza (A è più
grande di B, 2 e 2 fanno 4) e le proposizioni di questo genere: “Parigi è lontano da Roma”, “Pietro è figlio
di Paolo”, “Pietro è più sapiente di Paolo”. J. Lachelier (Études sur les syllogismes, Parigi, 1907, pp. 3944) ritiene che “la copula, in questi tipi di proposizioni, non abbia valore metafisico; essa è piuttosto
simile ai segni di cui ci si serve in aritmetica e in geometria, per esprimere i rapporti dei numeri o quelli
delle grandezze”. Tali giudizi condurrebbero ad elaborare una logica delle relazioni senza alcun
significato ontologico e una logica di proposizioni senza soggetti, poiché i termini non sono dati in essi
come designanti degli esseri.
In realtà, questi giudizi di relazione, se non sono perfettamente riducibili a giudizi d'attribuzione, nel
senso che nel predicato risulta nominato un elemento dello stesso tipo logico cui appartiene il soggetto (“x
è uguale a y”) tuttavia, come Goblot sottolineava contro Lachelier 73, hanno un oggetto e un contenuto,
cioè un soggetto di cui si afferma o si nega qualche cosa e di conseguenza, essi assumono una
significazione ontologica, come il giudizio di attribuzione. In “Pietro è figlio di Paolo”, “figlio-di-Paolo”
fa parte realmente della comprensione di Pietro così come “più-istruito-di-Paolo” (in “Pietro è più istruito
di Paolo”) fa parte realmente, sebbene accidentalmente, della comprensione di Pietro. Tuttavia, se, dal
punto di vista ontologico, tra i giudizi d'attribuzione e quelli di relazione non v'è l'eterogeneità di cui parla
Lachelier (Études sur le Syllogisme), resta che analizzando i giudizi di relazione secondo lo schema
predicativo “X è uguale - a - Y”, “a è più grande - di - b”, ci si preclude la possibilità di render conto della
maggior parte dei ragionamenti matematici, se si interpretano per mezzo delle leggi che reggono i giudizi
predicativi.
Infatti, consideriamo il giudizio “X è uguale - a - Y”, analizzato in forma di giudizio d'attribuzione
(cioè in modo che in esso il predicato “uguale - a - Y” sia considerato come un tutto). Nessuna delle leggi
logiche proprie ai giudizi d'attribuzione può permettere di spiegare il passaggio da “X è uguale - a - Y” a
“Y è uguale - a - X”, precisamente perché lo schema dei giudizi di attribuzione non pone in evidenza la
relazione che in essi risulta affermata come intercorrente fra il soggetto (X) e l'elemento dello stesso tipo
logico (Y) nominato nel predicato. Se invece si fa apparire questa relazione, il passaggio dall'uno all'altro
giudizio diviene possibile.
A tal fine bisogna analizzare il giudizio X=Y nel modo seguente: “X e Y sono eguali l'uno all'altro”
giudizio che permette, data la simmetria della relazione di uguaglianza passare al seguente: “Y e X” sono
eguali l'uno all'altro.
60 - 2. QUALITÀ: AFFERMATIVE (o NEGATIVE) E MODALI
a) Proposizioni affermative e negative - Ponendoci dal punto di vista della qualità della copula, si
distinguono le affermative e le negative, a seconda che il rapporto dell'attributo al soggetto sia un
rapporto di convenienza o di non convenienza.
b) Proposizioni modali - Una proposizione ha una modalità allorché enuncia la maniera in cui il
predicato conviene o non conviene al soggetto (qualità dell'attribuzione)74. Ci sono quattro modi possibili:
la possibilità (È possibile che Pietro diventi ricco), - l'impossibilità (È impossibile che Pietro diventi
ricco), - la contingenza (Non è impossibile né necessario che Pietro diventi ricco), - la necessità (È
necessario che Pietro diventi ricco).
Nelle proposizioni modali, i logici distinguono due asserzioni: il dictum che riguarda la cosa stessa, - il
modo, che enuncia la maniera in cui la cosa affermata conviene al soggetto. È così che “Pietro può
diventare sapiente” equivale a “È possibile (modo) che Pietro diventi sapiente” (dictum). Così pure “Dio
esiste necessariamente” equivale a “È necessario (modo) che Dio esista” (dictum). La critica di queste
proposizioni esige dunque che si discuta insieme il dictum e il modo.
61 - 3. QUANTITÀ
a) La quantità delle proposizioni. Questa quantità dipende dalla estensione del soggetto. Si possono
dunque distinguere:
Le proposizioni universali: quelle in cui il soggetto è un termine universale, preso universalmente. Per
esempio: “ogni uomo è mortale”.
Le proposizioni particolari: quelle in cui il soggetto è un termine particolare: “Qualche uomo è
virtuoso”.
Le proposizioni universali e le proposizioni particolari costituiscono assieme il gruppo delle
proposizioni generali.
Le proposizioni indefinite: quelle in cui il soggetto è un termine la cui quantità non è enunciata:
“L'uomo è mortale”.
Le proposizioni singolari: quelle il cui soggetto è un termine singolare: “Pietro è sapiente”.
Le proposizioni indefinite sono da considerarsi come universali (quando esse sono analitiche, ossia in
materia necessaria o impossibile), o come particolari (quando esse sono sintetiche, ossia in materia
contingente). Così, “l'uomo è mortale” è una proposizione universale, mentre “l'uomo è sapiente” è una
proposizione particolare.
La logica classica tratta le proposizioni singolari come universali, fondandosi sul fatto che, come nelle
universali, il predicato in esse è affermato di tutto il soggetto, che, in questo caso, è incomunicabile e
indivisibile. Tuttavia, occorre notare che non è sempre possibile assimilare l'una all'altra queste due specie
di proposizioni: particolarmente nei sillogismi una maggiore singolare non può avere la stessa funzione
che una maggiore universale: da “Quest'uomo è mortale”. “Ora Pietro è un uomo”, non si può concludere
che “Pietro è mortale”.
b) Priorità della comprensione. Le proposizioni universali e particolari si dovrebbero formulare
correttamente nella forma seguente: “Ogni uomo è mortale”; “Qualche uomo è virtuoso”, e non in questa
forma: “Tutti gli uomini sono mortali” o “Alcuni uomini sono virtuosi”. Infatti esse concernono in prima
istanza e direttamente una natura o essenza universale, di cui affermano (o negano) un attributo, e si
applicano agli individui solo mediatamente, in ragione di tale natura o essenza di cui partecipano.
Tuttavia in quanto la logica, anche quando pone il primato della comprensione, nell'enunciato delle leggi
logiche preferisce situarsi dal punto di vista dell'estensione (perché in esso si possono più facilmente
determinare i rapporti), la seconda formula è usata generalmente come equivalente della prima.
Queste osservazioni permetteranno di risolvere la difficoltà proposta da Goblot nella sua discussione
intorno alle definizioni reali (50), che egli ritiene di poter spiegare con un procedimento consistente nello
svolgere un attributo comune ad una raccolta precedentemente data (Logique, p. 89). Da questo punto di
vista, l'estensione precederebbe la comprensione e la imporrebbe. Così, considerando il gruppo di esseri
concreti, in numero indefinito, chiamati col nome di uomo, noi fisseremmo la comprensione di questo
concetto (“mammifero bimane”, cioè i caratteri che convengono a tutti questi esseri e a essi soli). Ma
come non vedere la petizione di principio in cui va a cacciarsi Goblot? Poiché quale possibilità c'è che io
sappia mai che tale comprensione conviene ad un insieme di individui, dei quali (per ipotesi) ignoro quale
sia questo insieme, cioè precisamente quale sia il carattere costituente la sua comprensione? E come avrei
potuto costituire un gruppo od un insieme di individui, senza avere un'idea almeno confusa della sua
comprensione?
B. PROPOSIZIONI IPOTETICHE.
62 - Le ipotetiche si dividono in congiuntive e disgiuntive - alternative, - condizionali, - causali e
temporali.
1. PROPOSIZIONI CONGIUNTIVE E DISGIUNTIVE - Si chiamano congiuntive le proposizioni le
cui parti sono unite per mezzo della congiunzione “e”: esse sono vere soltanto se tutte le loro parti sono
vere “Piove e fa freddo”). Si chiamano disgiuntive invece quelle le cui parti sono unite per mezzo della
congiunzione “o” (=vel): esse sono vere se è vera almeno una delle parti “Piove o nevica”).
2. PROPOSIZIONI ALTERNATIVE - Si chiamano alternative le proposizioni legate per mezzo della
congiunzione “o” (= aut), cioè in modo tale che le loro parti si escludono reciprocamente “O è giorno, o è
notte”).
3. PROPOSIZIONI CONDIZIONALI - Si chiamano condizionali le proposizioni le cui parti sono
legate per mezzo della congiunzione “se” (o un equivalente): esse sono vere se l'antecedente implica il
conseguente, cioè se è impossibile che si dia insieme l'antecedente e il contraddittorio del conseguente.
4. PROPOSIZIONI CAUSALI E TEMPORALI - Si chiamano proposizioni causali quelle le cui parti
sono legate per mezzo di una congiunzione causale, e temporali, quelle le cui parti sono legate per mezzo
di un avverbio di tempo.
Le ipotetiche precedenti si chiamano apertamente composte. I logici enumerano ancora tre specie di
proposizioni chiamate occultamente composte, cioè: le eccettive, contraddistinte dalla parola “salvo” o
“eccetto”, “tranne”, ecc. (“Tutti gli alunni, salvo Pietro, hanno superato l'esame”), le esclusive,
contraddistinte dalle parole “solo”, “soltanto”, “solamente”. (“Dio solo conosce il fondo dei cuori”), le
reduplicative, contraddistinte dall'espressione “in quanto” (“L'uomo, in quanto ragionevole, è capace di
ridere”), o dall'espressione “come tale” (“L'intelligenza umana, come tale, è discorsiva”).
Art. III - Inferenze immediate
63 - Si chiamano inferenze immediate certe operazioni che si possono effettuare sulle proposizioni
categoriche, specialmente sulle proposizioni con soggetto generale (cioè universale o particolare). Il
termine di “inferenza immediata” (d'altronde assai improprio, perché talune di queste inferenze sono ben
lungi dall'essere immediatamente evidenti) è usato per distinguere questo tipo di operazioni dal
ragionamento propriamente detto che si appoggia non su di una sola proposizione, ma almeno su due.
Le principali inferenze immediate che la logica classica ammette sono: l'opposizione, la
subalternazione e la conversione.
A. L'OPPOSIZIONE.
1. LE PROPOSIZIONI GENERALI - Combinando la qualità e la quantità di una proposizione si
possono distinguere quattro tipi di proposizioni con lo stesso soggetto e lo stesso predicato, designate dai
logici medievali per mezzo di vocali cioè: l'universale affermativa (A), - l'universale negativa (E), - la
particolare affermativa (I), - la particolare negativa (O).
2. RAPPORTO DEI TERMINI DAL PUNTO DI VISTA DELL'ESTENSIONE
a) Nelle universali affermative (A). Il soggetto è preso in tutta la sua estensione, ma il predicato è
preso soltanto in una parte della sua estensione: “L'uomo è mortale”, significa che l'uomo è uno dei
mortali, cioè fa parte degli esseri mortali.
b) Nelle universali negative (E). Il soggetto e l'attributo sono presi entrambi in tutta la loro estensione:
“L'uomo non è un angelo”, significa che l'uomo non è alcuno degli angeli.
c) Nelle particolari affermative (I). Il soggetto e il predicato sono presi tutti e due in una parte della
loro estensione: “Qualche uomo è virtuoso” significa che una parte degli uomini costituisce una parte di
coloro che sono virtuosi.
d) Nelle particolari negative (O). Il soggetto è preso in una parte della sua estensione e il predicato in
tutta la sua estensione: “Qualche uomo non è virtuoso” significa che una parte della specie uomo non fa
parte alcuna della specie virtuoso.
Onde la regola seguente: nelle affermative (A e I), il predicato è sempre preso particolarmente, nelle
negative (E ed O), invece, il predicato è sempre preso universalmente.
64 - 3. Definizione - Con il nome di opposizione, la logica classica intende le diverse maniere in cui si
possono escludere due proposizioni generali con lo stesso soggetto e lo stesso predicato, l'una della quali
è affermativa e l'altra negativa. Così si ottengono, tenendo conto allo stesso tempo della quantità e della
qualità delle proposizioni, tre specie di opposizioni: la contraddizione, la contrarietà e la subcontrarietà.
a) Proposizioni contraddittorie. Quando delle proposizioni differiscono sia per la quantità che per la
qualità, si dice che esse sono contraddittorie tra loro, cioè che l'una nega ciò che l'altra afferma, senza che
vi sia un termine medio tra l'affermazione e la negazione:
Ogni uomo è sapiente (A),
Qualche uomo non è sapiente (O).
b) Proposizioni contrarie. Le proposizioni universali che differiscono per la qualità sono dette
contrarie:
Ogni uomo è sapiente (A),
Nessun uomo è sapiente (E).
c) Proposizioni subcontrarie. Si chiamano subcontrarie le proposizioni particolari che differiscono
solo per la qualità:
Qualche uomo è sapiente (I),
Qualche uomo non è sapiente (O).
B. LA SUBALTERNAZIONE.
65 - La subalternazione non costituisce, per parlare con rigore, una opposizione, sebbene la logica
classica, per ragioni d'ordine pratico, abbia l'abitudine di includere questa forma d'“inferenza immediata”
nel cosiddetto quadrato logico. La subalternazione consiste infatti nel passare da una proposizione
universale alla particolare formata dal medesimo soggetto e dal medesimo predicato, in modo che le
proposizioni subalterne differiscano soltanto per la quantità:
Ogni uomo è colto (A),
Qualche uomo non è colto (I).
Nessun uomo è colto (E),
Qualche uomo non è colto (O).
Come è evidente, la proposizione particolare (subalternata) ha il significato stesso sebbene più
ristretto, che l'universale (subalternante).
Il quadro seguente (Fig. 5), detto quadrato logico riassume le diverse opposizioni (alle quali è stata
unita la subalternazione) e le leggi che le reggono.
4. OPPOSIZIONE DELLE INDEFINITE E DELLE SINGOLARI - Nelle indefinite, la contraddittoria
risulta dalla negazione pura e semplice della copula:
L'uomo è sapiente
L'uomo non è sapiente.
Così è pure nelle singolari, che ammettono opposizione soltanto contraddittoria.
Pietro è sapiente
Pietro non è sapiente.
Questa stoffa è nera
Questa stoffa non è nera.
C. LEGGI DELLE OPPOSIZIONI
66 - LEGGE DELLE CONTRADITTORIE - Due proposizioni contraddittorie (A e O, E e I) non
possono essere né vere né false nello stesso tempo. Se l'una è vera, l'altra è necessariamente falsa: se l'una
è falsa, l'altra è necessariamente vera.
Allorché si tratta di futuri contingenti, cioè di avvenimenti futuri che possono verificarsi o non
verificarsi, l'opposizione di contraddizione significa solamente che le due contraddittorie (a Parigi pioverà
fra tre mesi, - a Parigi non pioverà fra tre mesi) non potranno essere vere o false insieme. In questo caso
si dice che queste proposizioni si escludono indeterminatamente.
2. LEGGE DELLE CONTRARIE - Due proposizioni contrarie (A e E) non possono essere vere nello
stesso tempo; se l'una è vera, l'altra è falsa. Ma esse possono essere false nello stesso tempo.
In materia necessaria (59), due contrarie non possono essere simultaneamente false. Si può allora
concludere dalla falsità dell'una alla verità dell'altra.
3. LEGGE DELLE SUBCONTRARIE - Due proposizioni subcontrarie (I e O) non possono essere
false nello stesso tempo. Ma esse possono essere vere nello stesso tempo.
In materia necessaria, due subcontrarie non possono essere vere simultaneamente. Si può allora
concludere dalla verità dell'una alla falsità dell'altra.
4. LEGGE DELLE SUBALTERNE - Due proposizioni subalterne (A e I, E e O), possono essere vere
nello stesso tempo e false nello stesso tempo, oppure l'una può essere vera e l'altra falsa.
D. OPPOSIZIONE DELLE PROPOSIZIONI MODALI
Nelle proposizioni modali, è opportuno tener conto, come si è visto (60), del dictum e del modo,
innanzi tutto dal punto di vista della qualità, potendo essere il “dictum” ed il modo di qualità differente (è
possibile - modo affermativo - che domani non piova - dictum negativo), - e poi dal punto di vista della
quantità, in quanto i modi necessario e impossibile implicano l'universalità del “dictum” (è necessario che
la vita umana abbia un termine = ogni vita umana ha un termine; è impossibile che un uomo abbia tutte le
perfezioni = nessun uomo ha tutte le perfezioni), - ed in quanto i modi possibile e contingente implicano
la particolarità del dictum (può darsi che un uomo abbia del genio = qualche uomo può avere del genio).
Le opposizioni dunque si effettuano, sia semplicemente per negazione del modo e del “dictum”, sia
tenendo conto della quantità del “dictum”.
Il quadrato seguente raccoglie le opposizioni nel caso in cui si faccia astrazione dalla quantità del
“dictum” (Inoltre, per semplificare, il contingente è preso come sinonimo di possibile).
C. CONVERSIONE DELLE PROPOSIZIONI.
67 - 1. NATURA DELLA CONVERSIONE - Si abbia la proposizione seguente: “Nessun cerchio è
quadrato”. Si può enunciare la stessa verità trasponendo i termini, cioè facendo del soggetto il predicato, e
del predicato il soggetto: “Nessun quadrato è cerchio”. Si è così convertita la prima proposizione, cioè la
si è mutata, per inversione reciproca degli estremi, in un'altra proposizione esprimente la medesima
verità. La conversione può dunque essere definita come il procedimento logico consistente nel
trasportare i termini di una proposizione senza modificarne la qualità.
2. REGOLA GENERALE DELLA CONVERSIONE - La proposizione che risulta dalla conversione
non deve affermare (o negare) niente di più della proposizione convertita. In conseguenza, ora la quantità
della proposizione non cambia (conversione semplice), ora, al contrario, si ha cambiamento di qualità
(conversione per accidente).
3. APPLICAZIONI
a) L'universale affermativa (A) si converte in una particolare affermativa. Sia la proposizione: “Ogni
uomo è mortale”. Uomo è universale, e mortale è particolare (62). Avremo dunque: “Qualche mortale è
uomo”.
Questa proposizione, non convertendosi semplicemente, non è reciproca. Bisogna fare eccezione per
il caso in cui l'universale affermativa è una definizione. In questo caso, essa si converte semplicemente:
“L'uomo è un animale ragionevole” “L'animale ragionevole è l'uomo”.
b) L'universale negativa (E) si converte semplicemente, poiché i due termini sono presi in essa
universalmente (62): “Nessun uomo è puro spirito” “Nessuno spirito puro è uomo”. Questa proposizione
è dunque reciproca.
c) La particolare affermativa (I) si converte pure semplicemente, cioè è reciproca, poiché i due
termini sono presi in essa particolarmente: “Qualche uomo è sapiente” “Qualche sapiente è uomo”.
d) La particolare negativa (O) non può essere convertita, di regola. Sia la proposizione: “Qualche
uomo non è medico”; non si può fare del soggetto uomo un attributo, poiché prenderebbe un'estensione
universale nella proposizione negativa: “Qualche medico non è uomo”.
Ma si può convertire questa proposizione per controposizione, cioè aggiungendo la particella negativa
ai termini convertiti: “Qualche uomo non è medico” = “Qualche non medico non è non uomo”, cioè
“Qualche non medico è uomo”.
I logistici nominalisti (43) contestano la legittimità dell'inferenza, immediata ogni volta ch'essa
implica il passaggio dall'universale (A) alla particolare (I), perché, dicono, la proposizione particolare
suppone l'esistenza di soggetti dotati di tali predicati, mentre la proposizione universale non pone alcuna
esistenza. “Alcuni uomini sono colti”, implica l'esistenza di soggetti “uomini” che sono “colti” ma “tutti
gli uomini sono mortali” fa completamente astrazione da siffatta esistenza. Ne seguirebbe che
concludendo da A ad I, come si fa nella conversione e nella subalternazione da A, si porrebbe
un'esistenza che non era contenuta in A e che risulta perciò illegittimamente affermata. In virtù di tale
osservazione, i logistici nominalisti rifiutano, tra le figure del sillogismo, che studieremo più avanti, tutte
quelle che contengono la lettera p (Darapti, Felapton, Baralipton, ecc.) e non si possono ridurre alla prima
figura se non per mezzo della “conversione per accidens” 75.
Tuttavia, queste tesi paiono suscettibili di obiezioni, poiché in tutte le proposizioni predicative, anche
particolari, pure singolari, l'esistenza del soggetto è sempre soltanto significata (56) e non posta come
reale. “Qualche uomo è colto”, “Pietro è colto”, formalmente non pongono l'esistenza d'alcun uomo colto.
Se si tratta di “ classi vuote” (“L'uomo è immortale”), l'invalidità della proposizione particolare (“Qualche
immortale è uomo”) non risulta da una posizione di esistenza, ma soltanto dall’invalidità dell'universale.
Dal punto di vista formale, quello cui la logica s'attiene esclusivamente, la proposizione particolare (I)
ottenuta per conversione vale ciò che vale l'universale (A) e rimane sullo stesso piano che quest'ultima.
La conversione per accidens quindi è perfettamente legittima 76.
68 - 4. CONVERSIONE DELLE MODALI - Nelle modali, il dictum si converte secondo le regole
precedenti (“È impossibile che un uomo sia un angelo”, diviene: “È impossibile che un angelo sia un
uomo”). Il modo non deve cambiare (“Ogni uomo è necessariamente animale”, diventa: “Qualche
animale è necessariamente uomo”).
Oltre all'opposizione e alla conversione, i logici distinguono la proprietà dell'equipollenza. Questa
proprietà risulta dall'obversione, cioè dalla duplice aggiunta della particella negativa, da una parte alla
copula, dall'altra al predicato della proposizione. Tale duplice negazione non muta affatto il valore di
verità della proposizione iniziale. Così la proposizione “Nessun uomo è saggio” diviene “Ogni uomo è
non saggio”. Per dire il vero tuttavia questa proprietà dell'equipollenza riguarda piuttosto il linguaggio e
interessa lo studioso di grammatica più che il logico.
69 - 5. LA QUANTIFICAZIONE DEL PREDICATO.
a) Teoria di Hamilton. Il filosofo inglese Hamilton ha creduto di scoprire un metodo molto più
perfetto e completo di quello della logica classica per fissare la teoria delle proposizioni e dei loro
rapporti (con versione e sillogismo). Questo metodo consisterebbe nell'“enunciare esplicitamente ciò che
è pensato implicitamente” e, di conseguenza, nel precisare o esprimere espressamente non solo la quantità
del S, ma ancora del Pr. Si otterrebbe così, secondo Hamilton, una enumerazione di otto tipi di
proposizioni (mentre la logica classica non ne conosce che quattro: A E I O), cioè:
Quattro affermative:
Ogni uomo è ogni ragionevole (AA: toto-totali).
Ogni uomo è qualche animale (AI: toto-parziali).
Qualche animale è ogni ragionevole (IA: parti-totali).
Qualche animale è qualche ragionevole (II: parti-parziali).
Quattro negative:
Nessun uomo è nessun angelo (EE: toto-totali).
Nessun uomo non è qualche animale (EO: toto-parziali).
Qualche animale è nessun angelo (OE: parti-totali).
Qualche animale non è qualche ragionevole (00: parti-parziali).
b) Discussione. Le teorie di Hamilton sono state criticate da Stuart Mill e da Lachelier. Si può
riassumere questa critica nelle osservazioni seguenti: parecchie proposizioni di Hamilton sono false (è il
caso delle toto-totali e parti-totali affermative, il Pr essendo nelle affermative particolare e non
universale); altre proposizioni sono inutili (è il caso delle toto­totali e delle parti-parziali negative); altre
infine sono anfibologiche (è il caso delle toto-parziali e delle parti-parziali affermative e negative:
“qualche animale) può infatti applicarsi sia all'animale ragionevole, sia all'animale non-ragionevole).
Insomma, la critica delle proposizioni di Hamilton non lascia sussistere, come valide, chiare e logiche,
che quattro proposizioni, che sono precisamente quelle della logica classica.
L'errore di Hamilton consiste innanzitutto nel figurarsi che si possa sostituire alla identificazione del S
e del Pr per mezzo della copula è, una semplice relazione di uguaglianza o di disuguaglianza matematica
(o quantitativa), per cui “L'uomo è mortale” diviene “Ogni uomo = qualche mortale”. Vi è qui un duplice
errore: l'uno concerne il metodo naturale di pensare, che procede più per comprensione che per
estensione; l'altro, di origine nominalistica, consiste nel trasformare l'universale (che è anzitutto una
essenza o una natura) in un tutto collettivo (o raccolta di individui), che si potrebbe sostituire con un
semplice segno 77.
CAPITOLO TERZO
IL RAGIONAMENTO E L'ARGOMENTO
SOMMARIO78
Art. I - NOZIONI GENERALI - Definizioni: il ragionamento, l'argomento, conseguenza e argomento,
l'inferenza - Ragionamento deduttivo e induttivo - Regole del ragionamento deduttivo ­ La
deduzione cartesiana.
Art. II - IL SILLOGISMO CATEGORICO - Natura del sillogismo - Principi del sillogismo - Estensione
e comprensione - Regole del sillogismo - Figure del sillogismo - Valore delle diverse figure ­ Modi
del sillogismo - Specie del sillogismo.
Art. III - IL SILLOGISMO IPOTETICO - Forme del sillogismo ipotetico ­ Sillogismo ipotetico e
sillogismo categorico - Sillogismi incompleti e composti: entimema, epicherema, polisillogismo,
sorite, dilemma.
Art. IV - VALORE DEL SILLOGISMO - Obiezioni - Discussione - La vera natura del sillogismo L'essenza del sillogismo.
Art. V - L'INDUZIONE - Nozioni generali - Principio dell'induzione: induzione e sillogismo - Insieme
collettivo e natura universale - Regola della enumerazione sufficiente.
Art. VI - I SOFISMI - Nozioni generali - Sofismi di parole e sofismi di cose - Confutazione dei sofismi.
Art. VII - LA LOGISTICA - Concetto - La logica delle proposizioni e delle relazioni - Il simbolismo Valore e portata della logistica.
Art. I – Nozioni generali
A. DEFINIZIONI
70 - 1. IL RAGIONAMENTO - Dicesi ragionamento l'operazione con cui lo spirito, da due o più
rapporti conosciuti, conclude a un altro rapporto che ne consegue logicamente. Siccome, d'altra parte, i
rapporti sono espressi dai giudizi, il ragionamento può anche definirsi come l'operazione che consiste nel
trarre da due o più giudizi un altro giudizio contenuto logicamente nei primi.
Il ragionamento è dunque un passaggio dal conosciuto all'ignoto. Esso costituisce per ciò stesso quello
che si chiama discorso. Si suole infatti dividere il pensiero in ragione e intelligenza, in ragionamento e
intuizione, ossia in movimento e riposo. Vedere o apprendere, per mezzo di un'idea o di un giudizio, è
trovarsi in stato di riposo o più esattamente si tratta, per l'attività intellettuale, di aver raggiunto il suo
termine, di essere compiuta e perfetta (almeno relativamente). Ragionare, al contrario, rappresenta uno
stato di sforzo, di ricerca, di inquietudine, una corsa ed un movimento: tutte cose che si esprimono col
termine di discorso (discurrere).
2. L'ARGOMENTO è l'espressione verbale del ragionamento.
3. LA SERIE LOGICA delle proposizioni che compongono l'argomento si chiama forma o
conseguenza dell'argomento.
Le stesse proposizioni formano la materia dell'argomento.
La proposizione alla quale il ragionamento termina dice si conclusione o conseguente, mentre le
proposizioni da cui è tratta la conclusione sono chiamate nel loro insieme l'antecedente:
L'uomo è mortale. Ora Pietro è uomo. (Antecedente).
Dunque Pietro è mortale. (Conclusione).
4. CONSEGUENZA E CONSEGUENTE - Queste definizioni permettono di comprendere che un
argomento può essere buono rispetto alla conseguenza e cattivo rispetto alla conclusione o conseguente.
Per esempio:
Ogni uomo è immortale.
Ora Pietro è uomo.
Dunque Pietro è immortale.
Conseguenza buona
Conseguente cattivo
Così pure, un argomento può essere cattivo rispetto alla conseguenza e buono rispetto alla
conclusione o conseguente. Così:
L'uomo è libero.
Ora Pietro è uomo.
Dunque Pietro è fallibile.
Conseguente buono
Conseguenza cattiva
71 - CONSEGUENZA E ARGOMENTO - Queste due nozioni devono essere accuratamente distinte.
La conseguenza, come abbiamo visto, non concerne che la maniera in cui la conclusione è legata
all'antecedente, prescindendo dalla materia delle proposizioni.
L'argomento, al contrario, essendo per essenza una prova, tiene conto sia della forma che della
materia del ragionamento. Dei due sillogismi precedenti, il primo è buono quanto alla conseguenza, ma
tutti e due formano cattivi argomenti, il primo in ragione della sua materia, il secondo in ragione della sua
forma. Anzi più esattamente, non c'è argomento in nessuno dei due casi, ma solamente parvenza di
argomento. Chi pensa l'assurdo non pensa.
L'argomento autentico, cioè valido, è dimostrativo o probabile, secondo la natura della maggiore:
quando questa è una verità necessaria, l'argomento conduce ad una conclusione necessaria in se stessa
(L'uomo è un animale ragionevole. Ora Pietro è uomo. Dunque Pietro è un animale ragionevole); quando
la maggiore enuncia una verità probabile (per esempio una verità statistica), l'argomento non può che
terminare al probabile (ogni italiano ama il vino. Ora Pietro è italiano. Dunque Pietro ama il vino).
Quanto alla conseguenza, essa è sempre necessaria, in questo senso almeno, che essa deve sempre
risultare necessariamente dalle premesse, qualunque sia la loro natura.
B. RAGIONAMENTO E DEDUZIONE
72 - Per molto tempo si sono considerate la deduzione e l'induzione come due forme opposte di
ragionamento, delle quali la prima consiste nel passare dall'universale al particolare, dai princìpi alle
conseguenze, l'altra, dai casi particolari o singolari all'universale (quest'ultima forma di procedimento, si
riteneva fosse particolarmente impiegata nelle scienze sperimentali).
Ma, come ha dimostrato Cl. Bernard 79, i naturalisti ragionano esattamente come i matematici, cioè
cercano di trarre, da ciò che conoscono o da ciò che hanno posto nell'ipotesi, le conseguenze che vi si
trovano implicate, allo scopo di confrontarle, dopo, con l'esperienza. Ne consegue che i ragionamenti,
propriamente detti, sono solo deduttivi.
l. IL RAGIONAMENTO DEDUTTIVO
a) Definizione. Il ragionamento deduttivo può essere definito nella seguente maniera: dedurre significa
trarre da una o più proposizioni una nuova proposizione, che ne costituisce la conseguenza necessaria,
per mezzo delle sole leggi della logica. Per esempio, il sillogismo che segue:
Tutto ciò che è spirituale è incorruttibile,
Ora l'anima umana è spirituale,
Dunque l'anima umana è incorruttibile;
che si potrebbe enunciare così (perché la validità di questo ragionamento dipende solo dalla sua forma):
Ogni A è B,
Ora X è A,
Dunque X è B.
Aristotele assimilava la deduzione al sillogismo, il che significava evidentemente limitare troppo il suo
campo che è di gran lunga più vasto di quello del sillogismo aristotelico, perché la deduzione congloba
sia i sillogismi ipotetici, sia tutte le forme di ragionamento che la logistica ha scoperto per mezzo del suo
calcolo delle proposizioni, dei predicati e delle classi 80.
b) Il ragionamento per assurdo. Questo ragionamento che Aristotele impiega senza averne formulato
la teoria, è una forma di ragionamento deduttivo. Esso consiste nel partire da tesi (o proposizioni)
ammesse dall'avversario per costringerlo a contraddirsi, cioè a trarre dalle tesi ammesse una conclusione
che sia in contraddizione con l'una o l'altra di queste tesi. Il suo schema è il seguente:
“Se p implica non-p, allora = non-p”.
2. LA DEDUZIONE CARTESIANA - Cartesio che, a causa del suo nominalismo, (43) nega il
significato e l'importanza del sillogismo aristotelico. sostituisce a questo un ragionamento composto da un
numero imprecisato di proposizioni, delle quali l'una determina l'altra consecutivamente, e il cui insieme
determina l'ultima proposizione (conclusione), in maniera da formare una “catena di ragioni” sul tipo
delle serie di uguaglianze o di implicazioni in uso nella matematica (a=b, b=c, c=d, d=e, e=x, dunque
a=x; o anche: a implica b, b implica c, c implica d, dunque a implica d) 81.
È criticabile il nominalismo in forza del quale Cartesio nega il valore delle idee generali e rigetta come
privo d'interesse il sillogismo aristotelico, fondato sul concatenamento dei concetti. Torneremo sull'argomento nella critica della conoscenza. Qui basterà osservare che la “deduzione cartesiana” è un tipo di
deduzione autentica, ma che è condotta unicamente secondo la logica delle proposizioni, l'indiscutibile
valore della quale non può escludere, come ritiene Cartesio (e con lui alcuni logici nominalisti contemporanei), la logica dei concetti.
3. IL RAGIONAMENTO-COSTRUZIONE - La tesi che il ragionamento si riconduce ad una
costruzione, è stata difesa da Goblot (Traité de Logique, la ed., p. 263 sg.). Essa è d'altronde una
conseguenza logica del nominalismo.
a) Dimostrare è costruire. La tesi di Goblot sta in queste tre parole, e consiste nell'affermare che le
relazioni che costituiscono il ragionamento non sono in alcun modo delle relazioni indipendenti
dall'attività dello spirito e che questo debba cogliere nel reale oggettivo, ma unicamente delle costruzioni
od operazioni eseguite dallo spirito conformemente a delle regole. È per ciò stesso, aggiunge Goblot, che
il ragionamento produce qualcosa di nuovo, mentre l'intuizione non troverebbe nell'oggetto nient'altro che
l'oggetto stesso e resterebbe sterile 82. Senza dubbio (al di fuori di costruzioni puramente empiriche), la
constatazione è necessaria. Ma la sua necessità non è nient'altro che quella delle regole dell'operazione,
cioè delle convenzioni logiche adottate all’origine, o delle proposizioni già dimostrate. Così la relazione
necessaria tra i lati del triangolo isoscele e gli angoli opposti a questi stessi lati è nient'altro che il risultato
delle operazioni e delle regole con cui si fa girare idealmente il triangolo su se stesso.
b) Critica. I princìpi di questa teoria riguardano la critica della conoscenza; ma si può, dal punto di
vista logico, mostrare qui che essa è erronea. Infatti, appare in modo evidente che se lo spirito si sente
legato dalle relazioni intelligibili, ciò non avviene in quanto le conosce, ma in quanto esse sono quelle che
sono, ossia in quanto le regole operative obbediscono esse stesse alle necessità intelligibili, lungi dal
costituirle. In altri termini, il risultato del ragionamento è dato dall'operazione eseguita secondo le regole
(matematiche, logiche, ecc.), ma la sua necessità è indipendente dalla operazione stessa: essa procede
dagli oggetti stessi ai quali si applicano le operazioni 83.
C. REGOLE PRINCIPALI DEL RAGIONAMENTO DEDUTTIVO
73 - 1. RELATIVAMENTE AL VERO E AL FALSO
a) Dal vero non consegue che il vero. Infatti, se la deduzione è buona, il conseguente, che è contenuto
nell'antecedente, è necessariamente vero, come l'antecedente.
b) Dal falso possono seguire il vero o il falso. È evidente che si può dedurre un conseguente falso da
un antecedente falso. (Es.: l'uomo è un puro spirito. Dunque egli non ha corpo). Ma si può dedurre pure
per accidente un conseguente vero, quando l'attributo del conseguente contiene, a titolo di specie (o di
parte logica), il soggetto dell'antecedente. (Es.: l'uomo è un puro spirito. Dunque egli è un essere
intelligente).
2. RELATIVAMENTE AL NECESSARIO E AL CONTINGENTE
a) Dal necessario non consegue che il necessario. Infatti, il necessario è sempre vero. Dal necessario
non consegue dunque che il sempre vero (in virtù della regola precedente), cioè il necessario.
b) Dal contingente possono seguire il contingente o il necessario. Infatti, da un lato, il contingente
(ossia ciò che può essere o non essere) può essere legato al contingente. (Es.: Pietro legge. Dunque egli
esiste); dall'altro lato, un fatto contingente può dipendere da una cosa necessaria. (Il mondo esiste.
Dunque Dio esiste).
c) Dal contingente non può conseguire l'impossibile. L'impossibile è ciò che non può essere (né, di
conseguenza, essere vero). Non si può dunque dedurlo da qualcosa di contingente, ossia per definizione,
da qualcosa che può essere (e, per conseguenza, essere vero). (In virtù della prima regola, a) 84
3. RELATIVAMENTE ALL'ANTECEDENTE E AL CONSEGUENTE
a) Ciò che si accorda con 1'antecedente si accorda col conseguente, ma non inversamente. Infatti, il
conseguente è implicato dell'antecedente: se noi diciamo “Pietro è uomo, dunque egli è intelligente”, noi
possiamo pure dire “Pietro è oratore, dunque egli è intelligente”. Ma da “Pietro è oratore, dunque egli è
intelligente”, non si potrebbe passare a “Pietro è oratore, dunque egli è saggio”.
b) Ciò che non si accorda col conseguente, non può accordarsi con l'antecedente, ma non
inversamente. Questa regola deriva immediatamente dalla precedente, di cui essa non è che la forma
negativa.
Art. II - Il sillogismo categorico
§ 1. Nozioni generali
74 - 1. NATURA DEL SILLOGISMO - Il sillogismo è un ragionamento per cui, da un antecedente
che unisce due termini ad un terzo, si trae un conseguente che unisce questi due termini tra loro.
a) Composizione del sillogismo. Ogni sillogismo regolare si compone dunque di tre proposizioni
(materia immediata del sillogismo), nelle quali tre termini (materia prima del sillogismo) sono messi in
relazione due a due. Le due prime proposizioni che compongono insieme 1'antecedente si chiamano
premesse, e la terza, conclusione. I termini sono:
Il termine maggiore (T) (che potrebbe meglio definirsi estremo maggiore): è quello che viene ripreso
come predicato nella conclusione (nel sillogismo in Barbara, è il termine che ha la maggiore estensione).
La premessa che lo contiene si chiama maggiore.
Il termine minore (t) (o estremo minore): è quello che viene ripreso come soggetto della conclusione (e
che nel sillogismo in Barbara, ha l'estensione minore). La premessa che lo contiene si chiama minore.
Il termine medio (M): diversamente da quanto possa indurre a credere il suo nome, il termine medio
non è necessariamente quello la cui estensione è intermedia tra il termine maggiore e il minore; è il
termine comune alle due premesse, quello che permette di comparare il termine maggiore al minore.
b) Forma del sillogismo. Per comprendere la natura del sillogismo, quale noi l'abbiamo definito,
supponiamo di ricercare il rapporto esistente tra la carità e l'amabilità, in modo da stabilire questo
rapporto, non empiricamente, ma logicamente, ossia fondandolo su principi necessari. Per conoscere
questo rapporto e la sua ragione d'essere, noi metteremo in relazione successivamente la carità alla virtù e
l'amabilità alla virtù, poiché noi sappiamo che la carità è una virtù e che la virtù è amabile. Da questa
comparazione noi possiamo concludere che la carità, essendo una virtù, è. necessariamente amabile. Il
che equivale a dire che noi deduciamo dall'identità (logica) dell'amabilità e della carità con la virtù,
l'identità della amabilità e della carità. L'idea di virtù ci è dunque servita da termine medio. Donde il
sillogismo seguente:
La virtù (M) è amabile (T).
Ora la carità (t) è una virtù (M).
Dunque la carità (t) è amabile (T).
Si può immediatamente dedurre dalla forma del sillogismo, tale quale appare da ciò che abbiamo ora
detto, che il termine medio deve trovarsi nelle due premesse, in rapporto, nell'una (maggiore) col termine
maggiore, nell'altra (minore) col termine minore, mentre non deve mai trovarsi nella conclusione.
75 - 2. ANALISI DEL SILLOGISMO - Possiamo ora ritornare sui differenti elementi del sillogismo
per meglio precisare la loro natura e la loro funzione.
a) Antecedente e conseguente. L'antecedente, come indica il termine stesso, è ciò da cui si parte, ciò
che è già acquisito. Esso si compone necessariamente di due proposizioni, maggiore e minore (premesse),
poiché il punto di partenza dell'argomentazione consiste nel rapporto (conosciuto) di due termini (T e t) a
un terzo (M). Il conseguente (o conclusione) è ciò che risulta necessariamente da questo duplice rapporto.
Bisogna dunque dire, con Aristotele, che c'è nelle premesse una vera efficienza, una causalità reale.
Per tale motivo, anche San Tommaso dice che le premesse sono il “principio attivo” del ragionamento
sillogistico, cioè un principio che si può paragonare all'azione delle cause fisiche naturali. Ma,
evidentemente, ciò non esclude il gioco dell'intelligenza. Questa rimane sempre la causa principale delle
operazioni logiche. Nessun ragionamento si fa senza di essa: è essa che lo produce. Ma non lo produce
che obbedendo, secondo la sua legge propria, che è di sottomettersi all'essere, alle esigenze dell'essere
intelligibile che essa considera. Pronunciando la conclusione, essa non fa che affermare la causalità
(ideale) delle premesse.
b) Le premesse. La maggiore formula una legge universale. La minore è essenzialmente la
comparazione di un caso differente o di una legge differente con il caso universale o la legge universale
posti nella maggiore, per determinare se quest'ultima racchiuda o no il caso nuovo, la legge differente. È
da questa comparazione o da questo accostamento che nasce una corrente di pensiero, tendente a
definire il rapporto di T (maggiore) con t (minore), per mezzo dell'intermediario M (medio). La
conclusione, affermativa o negativa secondo il caso, segue necessariamente da questa comparazione, in
virtù della stessa luce che essa apporta alla intelligenza e che cagiona il suo assenso o il suo rifiuto di
assenso.
Questo permette di scartare l'opinione degli associazionisti (Hume, Stuart Mill, Taine), in base alla quale
dalle premesse alla conclusione non si avrebbe che una semplice successione, analoga alla successione
delle fasi del movimento. Per gli associazionisti, infatti, il discorso rassomiglia al movimento con cui noi
passiamo da un punto o da un oggetto ad un altro, senza che si abbia causalità efficiente di un punto del
movimento rispetto al seguente. La conclusione non sarebbe dunque l'effetto delle premesse, ma
semplicemente il termine di una successione. Questa opinione, è chiaro, confonde successione con
causalità. Il discorso che si svolge in virtù della causalità implica bensì una successione di differenti atti
di conoscenza (che sono come le parti o fasi di un movimento continuo); ma esso implica inoltre una luce,
per effetto della quale lo spirito passa dal più conosciuto al meno conosciuto, ed in tal maniera che le
premesse determinino lo spirito a formare la conclusione. Esse gli forniscono la sua potenza e la sua
energia. D'altra parte, è chiaro che il ricorrere alla semplice successione non spiega nulla, poiché ciò che
è da spiegare è la successione stessa degli atti dell'intelligenza, e di tali atti. Spiegare il ragionamento con
la successione, equivale a spiegare il movimento col movimento.
c) Il medio. Il termine medio svolge la funzione essenziale, in quanto è per così dire il punto di
incontro o di unione dei termini maggiore e minore, che con esso vengono posti successivamente in
relazione. È dunque su di esso che appoggia tutto il discorso. La sua scoperta è opera del genio.
76 - 3. PRINCÌPI DEL SILLOGISMO - Questi princìpi derivano dalla natura del sillogismo. Il primo
si ha dal punto di vista della comprensione, cioè dalla considerazione del contenuto delle idee presenti nel
sillogismo. Il secondo si ha dal punto di vista dell'estensione, cioè dalla considerazione dei generi o specie
o degli individui ai quali si applicano le idee presenti nel sillogismo. Questi due punti di vista sono
d'altronde rigorosamente correlativi (41).
a) Principio della comprensione (o principio metafisico). Due cose identiche ad una terza sotto un
certo rapporto sono identiche tra loro sotto lo stesso rapporto.
Due cose di cui l'una è identica e di cui l'altra non è identica ad una terza non sono identiche tra loro.
b) Principio dell'estensione (o principio logico). Tutto ciò che è affermato universalmente di un
soggetto è affermato di tutto ciò che è contenuto sotto questo soggetto. Se si afferma universalmente che
la virtù è amabile, per il medesimo fatto si afferma che ogni virtù è amabile (dictum de omni).
Tutto ciò che si nega universalmente di un soggetto è negato di tutto ciò che è contenuto sotto questo
soggetto. Se si nega universalmente che l'uomo è immortale, lo si nega per ciò stesso per ognuno degli
uomini (dictum de nullo).
77 - ESTENSIONE E COMPRENSIONE - Se, come abbiamo visto (62), il logico si pone volentieri
dal punto di vista dell'estensione per costruire la teoria del sillogismo, il punto di vista spontaneo dello
spirito è piuttosto quello della comprensione (41). Da qui il conflitto di opinioni che divide i logici
moderni, alcuni (Leibniz, Hamilton, i logistici) preferendo considerare l'estensione; altri (Hamelin,
Lachelier, Rodier) non volendo prendere in considerazione che la comprensione.
Questa contesa è del tutto inutile, poiché estensione e comprensione sono correlative. Gli antichi
logici adottavano l'uno e l'altro punto di vista. Il primo serviva loro a mettere in luce i rapporti di
inclusione degli estremi in funzione del medio, il secondo a sottolineare che il carattere proprio del
giudizio è di affermare o di negare la relazione di un Pr a un S. Ma quando essi si esprimevano secondo
l'estensione, supponevano sempre che il pensiero si riferisce nello stesso tempo alla comprensione, come
fondante e giustificante il punto di vista dell'estensione.
E' tuttavia certo che Aristotele, almeno nell'esposizione della sua sillogistica (Cfr. Anal. Pr.), si pone
regolarmente nel punto di vista dell'estensione dei termini, ben che non vi sia dubbio che, per lui, la
comprensione è fondamento dell'estensione. Infatti il porsi nel punto di vista dell'estensione comporta,
insieme a qualche inconveniente, incontestabili vantaggi. Questi vantaggi sono d'ordine tecnico: i
rapporti d'estensione possono, infatti; essere formulati in maniera più uniforme, con maggior rigore e
senza che sia necessario richiamarsi al significato dei termini. Perciò gli schemi di Eulero forniscono una
specie di figurazione visuale o geometrica del sillogismo la quale si richiama solo all'estensione dei
termini.
Gli inconvenienti di questi procedimenti estensivistici consisterebbero, si dice, innanzitutto nella
materializzazione sistematica di un'operazione essenzialmente intellettuale, fondata su una visione dello
spirito e non riducibile ad alcuna combinazione di figure. Tuttavia a questa obiezione si può rispondere
che non è compito della logica studiare il ragionamento come operazione dello spirito, ma studiare
unicamente le leggi del ragionamento. Un inconveniente più grave consisterebbe nel trascurare un
considerevole numero di relazioni che non possono essere espresse in termini d'estensione. Anche a ciò
tuttavia si può rispondere che il problema consiste nel sapere: 1. Se si possono far partecipare, in qualche
modo, queste relazioni ad una logica estensivistica; 2. Se non sia preferibile lasciare fuori della logica
alcune relazioni, a tutto vantaggio di un maggior rigore formale.
§ 2 - Regole del sillogismo
78 - Le regole del sillogismo non sono altro che delle applicazioni varie dei princìpi che abbiamo
esposto.
I logici enumerano otto regole del sillogismo, di cui quattro concernono i termini e quattro le
proposizioni.
A. LE OTTO REGOLE
1. Tre termini solamente: maggiore, medio, minore.
Ecco queste regole, con la loro formula latina:
Terminus esto triplex: major mediusque minorque.
2. Mai nella conclusione essi siano maggiori che nelle premesse.
Latius hos quam premissae conclusio non vult.
3. Il medio non entri mai nella conclusione.
Nequaquam medium capiat conclusio fas est.
4. Almeno una volta il medio sia universale.
Aut semel aut iterum medius generaliter esto.
5. Da due premesse negative, non si può trarre alcuna conclusione.
Utraque si preamissa neget, nil inde sequetur.
6. Da due premesse affermative non può seguire una conclusione negativa.
Ambae affirmantes nequeunt generare negantem.
7. La conclusione segue sempre la premessa più debole.
Pejorem sequitur semper conclusio partem.
8. Da due premesse particolari non si può trarre alcuna conclusione.
Nil sequitur geminis ex particularibus unquam.
B. RIDUZIONE DELLE REGOLE
79 - Queste otto regole possono essere ridotte a tre regole principali, cioè:
1. PRIMA REGOLA - Il sillogismo non deve avere che tre termini.
a) Molto spesso si va contro questa regola col dare al termine medio due estensioni (e di conseguenza
due significati) differenti, ciò che equivale ad introdurre un quarto termine nel sillogismo. Nell'esempio
seguente:
Il cane abbaia.
Ora il cane è una costellazione.
Dunque la costellazione abbaia,
il termine medio cane è preso in un dato senso, nella maggiore, e in un altro senso, nella minore. Vi sono
dunque quattro termini.
b) Si va ancora contro questa regola quando si prende due volte particolarmente il termine medio. Per
esempio, nel sillogismo:
Alcuni uomini sono santi.
Ora i criminali sono uomini.
Dunque i criminali sono santi,
il termine medio uomini, essendo particolare nelle due premesse, è preso, nell'una, in una parte della sua
estensione, e nell'altra, in un'altra parte della sua estensione, il che dà quattro termini.
c) Si va infine contro la medesima regola, nel dare al termine maggiore o minore una estensione
maggiore nella conclusione che nelle premesse. Sia il sillogismo:
Gli Etiopi sono neri.
Ora ogni Etiope è uomo.
Dunque ogni uomo è nero.
Questo sillogismo ha quattro termini, poiché uomo è preso particolarmente nella minore, e
universalmente nella conclusione (63). Affinché il sillogismo fosse corretto, bisognerebbe concludere:
“Dunque qualche uomo è nero”.
2. SECONDA REGOLA - Da due premesse negative, non si può trarre alcuna conclusione. Se infatti
né il termine minore, né il termine maggiore sono identici al medio, non c'è rapporto tra loro, e nessuna
conclusione è possibile. Così, nulla consegue da queste premesse:
L'uomo non è un puro spirito.
Ora un puro spirito non è mortale.
Dunque...
3. TERZA REGOLA - Da due premesse particolari, non si può trarre alcuna conclusione. Infatti, in
questo caso, tre ipotesi sono possibili:
a) Le due premesse sono affermative. Il termine medio è preso allora due volte particolarmente (poiché
nelle particolari affermative, il soggetto ed il predicato sono entrambi particolari), e il sillogismo ha
quattro termini.
b) Le due premesse sono negative. Si va allora contro la seconda regola.
c) Una premessa è affermativa, l'altra negativa. Il medio deve allora essere attributo della negativa,
che è il solo termine universale delle premesse (63). Ma siccome la conclusione sarà particolare negativa
(in virtù della regola secondo la quale la conclusione segue sempre la parte più debole, cioè è negativa, se
una delle premesse è negativa, e particolare, se l'una delle premesse è particolare), il termine maggiore,
che ne è predicato, sarà preso universalmente, e avrà per conseguenza una estensione più grande che nelle
premesse, e il sillogismo avrà allora quattro termini.
Non si può dunque trarre alcuna conclusione da due premesse particolari, senza violare una delle
regole del sillogismo.
§ 3 - Figure del sillogismo
A. NOZIONE E REGOLE DELLE FIGURE
80 - La figura del sillogismo risulta dal posto del termine medio nelle premesse. Ora il medio può
essere soggetto o attributo in entrambe le premesse, o soggetto nell'una e attributo nell'altra. Donde
quattro figure (riassunte nella formula mnemonica seguente: sub-prae, tum prae-prae, tum sub-sub,
denique prae-sub).
1. PRIMA FIGURA - Il termine medio è soggetto nella maggiore e predicato nella minore:
Ogni uomo (M) è mortale (T).
Ora Pietro (t) è uomo (M).
Dunque Pietro (t) è mortale (T).
La regola che governa l'uso della prima figura esige che la minore sia affermativa e che la maggiore
sia universale. Infatti, se la minore fosse negativa, la conclusione dovrebbe essere negativa e la maggiore
affermativa. Di conseguenza il termine maggiore sarebbe universale nella conclusione e particolare nella
maggiore, ciò che andrebbe contro la regola 2. D'altra parte, essendo la minore affermativa, il suo
predicato (M) è particolare; ne consegue che esso dev'essere universale nella maggiore cioè poiché è
soggetto nella maggiore, quella deve essere universale.
2. SECONDA FIGURA - Il medio è predicato nelle due premesse:
Ogni cerchio (T) è rotondo (M).
Ora nessun triangolo (t) è rotondo (M).
Dunque nessun triangolo (t) è cerchio (T).
La regola della seconda figura è la seguente: nella seconda figura, una delle premesse deve essere
negativa e la maggiore deve essere universale. Infatti, se le due premesse fossero affermative, il M, che è
predicato nell'una e nell'altra, sarebbe preso due volte particolarmente, ciò che va contro la regola 4. Se la
maggiore fosse particolare, si andrebbe contro la regola 2, poiché il T avrebbe maggiore estensione nella
conclusione che nella maggiore.
3. TERZA FIGURA - Il medio è soggetto nelle due premesse:
La carità (M) è amabile (T).
Ora la carità (M) è una virtù (t).
Dunque qualche virtù (t) è amabile (T).
La regola della terza figura si enuncia così: nella terza figura, la minore dev'essere affermativa e la
conclusione particolare. Infatti, se la minore fosse negativa, la maggiore dovrebbe essere affermativa
(regola 5): ne risulterebbe che la conclusione sarebbe negativa (regola 7). Ma in questo caso, T sarebbe
particolare nella maggiore e universale nella conclusione, ciò che andrebbe contro la regola 2. Medesimo
errore se la conclusione fosse universale: t avrebbe maggiore estensione nella conclusione che nella
minore.
4. QUARTA FIGURA - Il medio è predicato nella maggiore e soggetto nella minore:
Pietro (T) è uomo (M).
Ora ogni uomo (M) è mortale (t).
Dunque qualche mortale (t) è Pietro (T).
Questa quarta figura (detta figura galenica) è stata per molto tempo considerata come una forma
indiretta della prima figura (Lachelier non l'ammette perché, secondo il suo punto di vista, essa non ha
principio proprio). Non c'è tuttavia ragione di contestarle il suo carattere di figura autentica del
sillogismo, se si determina il numero delle figure in rapporto al termine medio.
B. VALORE RELATIVO DELLE DIVERSE FIGURE
81 - 1. SUPERIORITÀ DELLA PRIMA FIGURA - Aristotele distingue il sillogismo valido
semplicemente e il sillogismo perfetto. Tutte le figure, egli dice, forniscono dei sillogismi validi o
concludenti. Ma solo la prima figura dà dei sillogismi perfetti. Si deve infatti convenire che i sillogismi
della prima figura sono di una estrema chiarezza e che il carattere necessario della conclusione vi appare
immediatamente, mentre, nella terza figura, è necessario un certo sforzo per cogliere il concatenamento
dei termini. La ragione di questa chiarezza risiede nel fatto che nel sillogismo della prima figura,
specialmente nelle forme che gli dà Aristotele, i termini sono posti nel loro ordine naturale. Poniamo il
seguente schema sillogistico:
A (T) appartiene ad ogni B (M)
B (M) appartiene ad ogni C (t)
Dunque A (T) appartiene a ogni C (t)
L'M in questa figura appare evidentemente come contenuto in T e come contenente t. Sotto i due punti
di vista della comprensione e dell'estensione, i rapporti dei termini sono immediatamente evidenti, perché
si trovano ordinati, da una parte (quella della comprensione) secondo la loro grandezza crescente,
dall'altra (quella dell'estensione), secondo la loro grandezza decrescente.
Nello schema classico l'evidenza appare meno immediata, perché l'ordine nel quale i termini sono
enunciati non corrisponde esattamente al loro concatenamento naturale, come si vede chiaramente
comparando il sillogismo che segue a quello precedente:
Ogni uomo (M) è educabile (T)
Ogni francese (t) è uomo (M)
Dunque ogni francese (t) è educabile (T)
2. SECONDA E TERZA FIGURA. Tutto è diverso nelle altre figure. Poniamo questo sillogismo della
seconda figura:
Nessun animale (T) è immortale (M).
Ora l'angelo (t) è immortale (M).
Dunque l'angelo (t) non è un animale (T).
Qui si constata che il M ha perduto il suo ruolo intermediario e che i tre termini non sono più
subordinati tra loro, né in estensione, né in comprensione. Infatti, “animale” e “angelo” non sono che
comparati ad uno ad uno a “immortale”.
Nella terza figura:
L'uomo (M) è un essere intelligente (T)
Ora l'uomo (M) è un bipede (t)
Dunque qualche bipede (t) è un essere intelligente (T)
È l'inverso della seconda figura: M è minore in estensione e maggiore in comprensione che gli altri
due termini. Qui ancora, la gerarchia dei termini è modificata.
Bisogna infine osservare che solo la prima figura permette conclusioni di ogni genere, mentre la
seconda non ammette che conclusioni negative e la terza conclusioni particolari.
3. RIDUZIONE ALLA PRIMA FIGURA - Della seconda e terza figura Aristotele scrisse che si
perfezionano riducendole alla prima figura. Il metodo da seguire per ciò consiste nel servirsi degli
elementi del sillogismo imperfetto per costruire il sillogismo perfetto che esso contiene, convertendo a
questo scopo l'una o l'altra delle premesse. È così che il sillogismo qui sopra della seconda figura diverrà:
Nessun essere immortale (M) è un animale (T)
Ora l'angelo (t) è un essere immortale (M)
Dunque l'angelo (t) non è un animale (T).
Così pure il sillogismo della terza figura diverrà:
L'uomo (M) è un essere intelligente (T)
Ora qualche bipede (t) è uomo (M)
Dunque qualche bipede (t) è un essere intelligente (T).
§ 4 - Modi del sillogismo
82 - 1. DEFINIZIONE E DIVISIONE - Il modo del sillogismo risulta dalla disposizione delle
premesse secondo la qualità e la quantità (A, E, I, O). Ciascuna delle due premesse può essere universale
affermativa (A), universale negativa (E), particolare affermativa (I), particolare negativa (O). Di
conseguenza si hanno, nella maggiore, quattro casi possibili, e, sotto ciascuno di questi casi, quattro casi
possibili nella minore, ciò che dà sedici combinazioni, cioè:
Maggiore:
Minore:
AAAA EEEE
AEIO AEIO
IIII
AEIO
OOOO
AEIO
Se si tiene conto della conclusione, il numero dei modi possibili (secondo le leggi delle combinazioni)
sarebbe per ogni figura, di 4 alla terza = 64 modi e, per le quattro figure, di 256 modi possibili.
Ora questi sedici modi possono esistere in ciascuna delle quattro figure, e si hanno in conseguenza 16
x 4= 64 combinazioni possibili.
2. MODI LEGITTIMI - Un gran numero di questi 64 (o dei 256 modi) possibili vanno contro una
delle regole del sillogismo. I logici insegnano che solamente diciannove modi sono legittimi. Essi li
designano con parole latine di tre sillabe. La vocale della prima sillaba designa la natura della maggiore,
quella della seconda la natura della minore e quella della terza la natura della conclusione.
Vi sono in realtà 24 modi legittimi. Ma cinque di essi hanno scarso interesse perché concludono a una
particolare, mentre le stesse premesse giustificano una universale.
Perciò i logici classici hanno ritenuto soltanto in quanto corretti e interessanti i 19 modi seguenti:
a) Prima figura. Quattro modi legittimi:
AAA Barbara
EAE Celarent
AII Darii
EIO Ferio
b) Seconda figura.
AEA Cesare
AEE Camestre
EIO Festino
AOO Baroco
c) Terza figura.
AAI Darapti
EAO Felapton
IAI Disamis
AII Datisi
AOA Bocardo
EIO Ferison
d) Figura galenica.
AAI Bramantip
AEE Camenes
IAI Dimaris
EAO Fesapo
EIO Fresison
3. Riduzione alla prima figura. I sillogismi della seconda e terza figura e della figura galenica,
possono essere ridotti all'uno o all'altro dei sillogismi perfetti della prima figura. Questa riduzione
costituisce una dimostrazione supplementare della validità di questi sillogismi. Per operare questa
riduzione basta eseguire sul sillogismo una delle operazioni indicate da alcune consonanti delle parole
latine per mezzo delle quali sono designate.
La consonante iniziale di queste parole indica a quale sillogismo della prima figura può essere ridotto
il sillogismo in argomento. Per esempio: Cesare, Camestres possono essere ridotti a Celarent.
La consonante “s” indica che bisogna eseguire, sulla proposizione designata dalla vocale che la
precede, una conversione semplice.
La consonante “p” indica che bisogna eseguire, con lo stesso procedimento, una conversione per
accidens.
La consonante “m” indica che bisogna permutare le due premesse.
La consonante “ c” indica che il sillogismo può essere ridotto solo per assurdo (per contradictionem).
È il caso di Baroco e di Bocardo.
Ecco, per esempio, come si procede per ridurre Cesare (2a figura) e Bramantip (figura galenica):
Cesare
Nessun animale (T) è immortale (M),
Ora l'angelo (t) è immortale (M),
Dunque l'angelo (t) non è un animale (T).
diverrà un Celarent:
Nessun immortale (M) è animale (T)
Ora l'angelo (t) è un immortale (M)
Dunque l'angelo (t) non è un animale (T).
Bramantip
Ogni invidioso (T) è mesto (M)
Ora ogni (uomo) mesto (M) è malato (T)
Dunque qualche malato (t) è invidioso (T).
diverrà un Barbara in forma subalterna (Barbari):
Ogni (uomo) mesto (M) è malato (T)
Ora ogni invidioso (t) è mesto (M)
Dunque qualche invidioso (t) è malato (T).
(permutazione delle premesse, indicata da “m”- conversione per accidens).
5. VARIANTI DEL SILLOGISMO CATEGORICO
83 – 1. Il sillogismo d'esposizione o espositorio. Si chiama sillogismo d'esposizione o espositorio un
sillogismo categorico che ha per premesse due proposizioni categoriche il cui soggetto costituisce il
termine medio. Poniamo:
Giuda ha tradito il Maestro,
Ora Giuda era un apostolo
Dunque qualche apostolo ha tradito il Maestro.
È evidente ciò che caratterizza il sillogismo espositorio, cioè l'avere un M singolare (nel nostro caso
Giuda), mentre nel sillogismo categorico propriamente detto l'M deve essere almeno una volta universale
(78)
2. I SILLOGISMI INCOMPLETI E COMPOSTI
I più usati sono l'entimema, l'epicherema, il polisillogismo, il sorite e il dilemma.
a) L'entimema - È un sillogismo in cui l'una delle premesse è sottintesa:
Ogni corpo è materiale
Dunque l'anima non è un corpo.
Questo argomento sottintende la minore seguente: Ora l'anima non è materiale.
b) L'epicherema - È un sillogismo di cui l'una delle premesse o le due premesse sono seguite dalle
loro prove. Tale l'epicherema famoso del Pro Milone di Cicerone:
È lecito uccidere un ingiusto aggressore: la legge naturale, il diritto positivo, la consuetudine
universale ne fanno fede.
Ora Clodio è stato ingiusto aggressore di Milone: ciò appare evidente dagli antecedenti di
Clodio e dalle circostanze del crimine.
Dunque Milone poteva uccidere Clodio.
c) Il polisillogismo - Questo “sillogismo multiplo” è costituito da una serie di sillogismi collegati in
modo tale che la conclusione di uno serve da premessa a quello seguente. Vi sono dunque due casi
possibili: o la conclusione serve da maggiore al sillogismo seguente (polisillogismo progressivo):
Ciò che è semplice è incorruttibile per sé.
Ora ciò che è immateriale è semplice.
Dunque ciò che è immateriale è incorruttibile per sé. Ora ciò che è spirituale è immateriale.
Dunque ciò che è spirituale è incorruttibile per sé.
Ora l'anima umana è spirituale.
Dunque l'anima umana è incorruttibile per sé.
Oppure la conclusione serve da minore al sillogismo seguente (polisillogismo regressivo):
L'anima umana è spirituale,
Ora ciò che è spirituale è immateriale,
Dunque l'anima umana è immateriale.
Ora ciò che è immateriale è semplice.
Dunque l'anima umana è semplice.
Ora ciò che è semplice è incorruttibile per sé,
Dunque l'anima umana è incorruttibile per sé.
d) Il sorite - È una serie di proposizioni collegate in modo che l'attributo della prima sia soggetto
della seconda, l'attributo della seconda sia soggetto della terza, fino all'ultima proposizione in cui sono
riuniti il primo soggetto e l'ultimo attributo:
Pietro è un fanciullo sapiente.
Il fanciullo sapiente è amato da tutti.
Colui che è amato da tutti è felice.
Dunque Pietro è felice.
La regola essenziale del sorite consiste nel fare in modo che il senso dei termini medi non muti da una
premessa all'altra. Va contro questa regola il sofisma seguente: “Chi beve tropo vino si ubriaca. Chi
s'ubriaca dorme bene. Chi dorme bene non pecca. Chi non pecca è un santo. Chi è santo andrà in cielo.
Dunque chi beve troppo vino andrà in cielo”. Il M “chi non pecca” è preso in due sensi diversi e assimila
indebitamente “non peccare dormendo” con “non peccare affatto”.
c) Il dilemma - È un argomento in cui si costringe l'avversario ad una alternativa, di cui ciascuna parte
conduce alla stessa conclusione:
O tu eri al tuo posto, o non eri.
Se tu c'eri, hai mancato al tuo dovere.
Se tu non c'eri, sei fuggito vilmente.
Nei due casi, meriti di essere castigato.
Per essere valido, il dilemma deve comportare nella maggiore una disgiunzione completa, ossia
considerare tutti i casi possibili, - dedurre da ciascuno dei casi una conclusione legittima. Il dilemma
seguente va contro la prima regola: “Ogni cittadino è rivoluzionario o conservatore. Se è rivoluzionario,
favorisce il disordine predicando la violenza. Se è conservatore, favorisce pure il disordine respingendo le
riforme”). La maggiore del dilemma trascura un terzo caso possibile: quello del cittadino che ammetta
riforme senza il ricorso alla violenza.
Art. III - Il sillogismo ipotetico
84 – 1. DEFINIZIONE - Mentre la necessità del sillogismo categorico si fonda sul concatenamento
dei termini o dei concetti, quella del sillogismo ipotetico si fonda sul concatenamento delle proposizioni.
Il sillogismo ipotetico è dunque quello che enuncia, nella premessa maggiore, un'ipotesi e, nella minore,
afferma (o nega) uno dei membri dell'ipotesi.
2. FORME DEL SILLOGISMO IPOTETICO - Vi sono tre specie di sillogismo ipotetico, secondo che
la maggiore sia una condizionale, una disgiuntiva o una congiuntiva (62).
a) Il sillogismo condizionale. La maggiore di questo sillogismo si compone di due proposizioni, di cui
l'una (antecedente) enuncia la condizione e l'altra (conseguente) il condizionato. Formalmente presa,
essa costituisce una affermazione unica, che si regge sul rapporto delle due proposizioni.
Vi sono quattro regole del sillogismo condizionale:
Porre la condizione, è porre il condizionato: Se Pietro lavora, egli esiste. Ora egli lavora. Dunque egli
esiste (modus ponens).
Porre il condizionato, non è porre la condizione: Se Pietro lavora, egli esiste. Ora egli esiste. Dunque
egli lavora. (Conclusione illegittima, poiché Pietro può esistere senza lavorare).
Negare il condizionato, è negare la condizione: Se Pietro lavora, egli esiste. Ora egli non esiste.
Dunque egli non lavora (modus tollens).
Negare la condizione, non è negare il condizionato: Se Pietro lavora, egli esiste. Ora egli non lavora.
Dunque egli non esiste. (Conclusione illegittima, poiché Pietro può esistere senza lavorare).
b) Il sillogismo disgiuntivo. In questo sillogismo, la maggiore enuncia una disgiunzione completa,
ossia tale che i membri ne siano contraddittori e, di conseguenza, che l'affermazione o la negazione
dell'uno tragga seco la negazione o l'affermazione dell'altro. Vi sono dunque quattro casi possibili.
O è notte o è giorno.
Ora è notte.
Dunque non è giorno.
O è notte o è giorno.
Ora non è notte.
Dunque è giorno.
O è notte o è giorno.
Ora non è giorno.
Dunque è notte.
O è notte o è giorno.
Ora è giorno.
Dunque non è notte.
La regola di questo sillogismo è che la disgiunzione sia veramente completa, ossia che i due membri
della maggiore siano veramente contraddittori tra loro ed escludano con ciò ogni via di mezzo. Infatti, se i
termini non fossero che contrari, essi non potrebbero essere veri insieme, ma potrebbero essere falsi
insieme e la negazione dell'uno non implicherebbe l'affermazione dell'altro (64).
c) Il sillogismo congiuntivo. E' quello la cui maggiore dichiara che due predicati non possono essere
affermati simultaneamente di uno stesso soggetto:
Pietro non legge e passeggia nello stesso tempo.
Ora egli passeggia.
Dunque egli non legge.
Quando la minore afferma uno dei predicati, la conclusione deve negare l'altro. Ma l'inverso non è
vero (salvo il caso in cui i predicati siano contraddittori). Dal fatto che Pietro passeggia, non si può
concludere ch'egli legga.
85 - 3. RIDUZIONE - Il sillogismo disgiuntivo e il sillogismo congiuntivo si riconducono a dei
sillogismi condizionali.
a) Riduzione del sillogismo disgiuntivo:
Se è giorno, non è notte.
Ora è giorno.
Dunque non è notte.
b) Riduzione del sillogismo congiuntivo:
Se Pietro passeggia, non legge.
Ora egli passeggia.
Dunque non legge.
86 - 4. SI PUÒ RIDURRE L'IPOTETICO AL CATEGORICO? ­ Molti logici rispondono affermativamente, osservando che un sillogismo quale “Se Pietro lavora, riuscirà...” si riduce al sillogismo
seguente:
Chi lavora riuscirà nei suoi esami.
Ora Pietro lavora.
Dunque egli riuscirà nei suoi esami.
Tuttavia, bisogna osservare che questa riduzione non si esegue facilmente che nel caso in cui
l'antecedente (condizione) e il conseguente (condizionato) hanno uguale soggetto. Quando vi sono due
soggetti (“Se la giustizia non esiste in terra, bisogna che vi sia un altro mondo”) la riduzione esige che si
ricorra a due sillogismi categorici. Ma con ciò il sillogismo ipotetico si trova completamente trasformato;
c'è più trasposizione e traduzione che riduzione. D'altra parte, pure nel primo caso, in cui l'antecedente e il
conseguente hanno uguale soggetto, non bisogna dimenticare che la riduzione lascia sussistere le
differenze che distinguono i due tipi di ragionamento; la principale differenza è che il sillogismo ipotetico
è un ragionamento che pone una minore in funzione di una connessione di proposizioni, della quale la
minore costituisce l'uno dei membri, mentre il sillogismo categorico formula la minore in funzione di
un'altra proposizione, allo scopo di manifestare, con l'intermediario di un termine medio, la connessione
di altri due termini. Da ciò deriva che il sillogismo ipotetico dà origine ad una logica delle proposizioni,
mentre il sillogismo categorico concerne la logica dei termini o delle idee.
Rimane vero, d'altronde, che se il sillogismo ipotetico non si riduce, propriamente parlando, ad un
sillogismo categorico, esso si appoggia sempre ad uno categorico.
Art. IV - Valore del sillogismo
A. OBIEZIONI
87 - Si sono proposte molte obiezioni contro il valore del sillogismo le quali si possono ridurre alle
due seguenti:
1. IL SILLOGISMO NON SAREBBE CHE UN PURO VERBALISMO ­ È l'obiezione contro il sillogismo ripresa costantemente dopo Cartesio. Questo si ridurrebbe ad una pura tautologia e non farebbe
dunque fare alcun progresso reale allo spirito. Stuart Mill, in particolare, si è sforzato di dimostrarlo.
Infatti, egli dice, esaminiamo il sillogismo seguente:
L'uomo è un essere intelligente.
Ora Giacomo è uomo.
Dunque egli è un essere intelligente.
Noi constatiamo che per poter affermare legittimamente la maggiore universale “l'uomo è un essere
intelligente”, bisogna prima sapere che Pietro, Paolo, Giacomo, ecc. sono degli esseri intelligenti. Dunque
la conclusione non può insegnarmi nulla che io già non sappia. Il sillogismo è un puro verbalismo.
2. IL SILLOGISMO CATEGORICO SI RIDUCE AD UN SILLOGISMO IPOTETICO - Questa
obiezione (Russell, Carnap) in realtà non fa che riprendere ed estendere l'obiezione precedente. Essa
consiste nel dire che, per la nostra impossibilità di enumerare tutti i casi particolari la cui verità
permetterebbe di formulare categoricamente la maggiore universale, avendo ogni sillogismo per maggiore
una proposizione il cui soggetto è un concetto, ossia una nozione universale, in realtà sarebbe soltanto un
sillogismo ipotetico. Il sillogismo precedente si ridurrebbe dunque a questo giudizio ipotetico: “Se tutti
gli uomini sono esseri intelligenti, Giacomo, essendo un uomo, è un essere intelligente”, o, più
brevemente: “Se Giacomo è uomo, egli è intelligente”.
B. DISCUSSIONE
88 - 1. IL SILLOGISMO È STRUMENTO DI SCOPERTA - In realtà, le obiezioni che abbiamo
riportate suppongono a torto che la conclusione sia contenuta in atto nella maggiore, o, in altri termini,
che la maggiore possa risultare solamente dalla enumerazione di giudizi singolari. In realtà, la
conclusione è contenuta nella maggiore in modo solo virtuale, e ciò costringe a ricorrere, per scoprirla, ad
un'idea intermediaria (il termine medio). Da qui deriva pure che la conclusione apporta qualcosa di nuovo
e attua un progresso nella conoscenza, quello cioè che consiste nello scoprire in un'idea ciò che vi è
contenuto, ma che dapprima non si vedeva. È per questo che Aristotele parla giustamente della causalità
del termine medio, rilevando così la sua potenza di fecondità nell'ordine conoscitivo.
2. VALORE DEL SILLOGISMO CATEGORICO - Ogni sillogismo categorico non si riduce ad un
sillogismo ipotetico. L'obiezione che sostiene ciò si appoggia, senza prova, su di una dottrina che nega il
valore delle idee universali. La discussione di questa dottrina spetta soprattutto alla Critica della
conoscenza. Ma si può già osservare qui che il concetto (o idea universale) non esprime primariamente
una moltitudine, ma innanzitutto una essenza o una natura (43). Dunque ha esso a questo titolo un
contenuto proprio, che fonda il valore dei generi e delle specie, in quanto esso significa qualche cosa di
necessario, e per ciò stesso di universale.
Si può osservare, inoltre, che l'obiezione è contraddittoria in sé stessa. Essa vuole infatti ridurre il
sillogismo categorico alla forma seguente: “Se Giacomo è un uomo, egli è un essere intelligente”. Ora la
relazione necessaria, così stabilita tra due attributi o due nozioni (umanità e intelligenza), può
evidentemente essere data soltanto se esiste una natura umana, il che sta a dire che il giudizio ipotetico
suppone un giudizio categorico (85). Così nonché escludere la possibilità che il sillogismo categorico si
riduca ad un sillogismo ipotetico, bisogna dire invece che il sillogismo ipotetico implica necessariamente
un giudizio categorico: si può enunciare la proposizione “Se Giacomo è un uomo, egli è un essere
intelligente” soltanto fondandosi sul giudizio categorico: “L'uomo è un essere intelligente”.
C. LA VERA NATURA DEL SILLOGISMO
89 - Da ciò che precede appare quale sia la natura del sillogismo. Noi abbiamo già rilevato che esso si
fonda sulla essenza delle cose. Ciò equivale a dire che:
1. IL SILLOGISMO SI FONDA SUL NECESSARIO - L'essenza è infatti, negli esseri, ciò che è
necessario, ossia ciò che non può non essere (supposto che gli esseri siano). A questo titolo il ragionamento deduttivo fornisce autenticamente una spiegazione o una ragione d'essere, e non un semplice fatto.
Che l'uomo sia un essere intelligente, non è una semplice constatazione empirica, che debba trarre il suo
valore soltanto dall'avvenuta constatazione che ogni uomo individuale è un essere intelligente, ma una
verità necessaria, in ragione di ciò che la natura umana è per essenza.
2. IL SILLOGISMO CONCERNE L'UNIVERSALE - Infatti, ciò che è necessario è, per il medesimo
fatto, universale. Questo si deve intendere dal duplice punto di vista della comprensione e della
estensione. Poiché ogni natura comporta sempre gli attributi che le convengono essenzialmente: essi
costituiscono il campo del necessario. (Dovunque c'è natura umana, c'è animalità e razionalità).
Egualmente, tutto ciò che è detto di un universale converrà necessariamente a tutti i soggetti singolari di
cui si dice questo universale. (Tutto ciò che è detto dell'uomo, come tale, converrà a tutti gli uomini, presi
individualmente).
Alcuni nominalisti (43) hanno sostenuto che la loro logica poteva benissimo adattarsi a questa
concezione. D'altronde Leibniz faceva osservare appunto ciò ad un nominalista, che negava ogni valore
alle dimostrazioni per la ragione che gli universali non esistono nella natura. “Poco importa, risponde
Leibniz (argomentando ad hominem): perché le dimostrazioni siano valide, è sufficiente che i nomi siano
universali.” (Gerhardt, Phil. Schr., IV, 159-160). Ma Leibniz aggiunge subito che questa difesa del
nominalismo è molto superficiale e fragile. Poiché come potrebbero essere universali i nomi, se essi non
corrispondessero a qualcosa di oggettivamente universale? In realtà gli universali lungi dall'essere, come
vogliono i nominalisti, dei “tutti collettivi”, sono, dice Leibniz, dei “tutti distributivi”, cioè non una
semplice somma di individui, ma una essenza contenuta tutta intera (distribuita) in ciascun individuo della
specie corrispondente. Ecco ciò che fonda il valore del sillogismo e, più generalmente, giustifica tutta
l'attività dello spirito.
Questi rilievi si possono completare con una osservazione molto acuta di Leibniz, diretta contro i
nominalisti che rimproverano alla logica concettualistica di condurre all'abuso di astrazioni. Le cose sono
ben lungi dallo stare così, dice Leibniz: è precisamente il contrario. Sono i nominalisti che favoriscono
l'abuso delle astrazioni e lo psittacismo, in quanto essi fanno consistere la universalità nelle parole e, per
ciò stesso, non possono spingersi oltre nella ricerca. Al contrario, un concettualista (o realista moderato),
professando che l'universale esiste e di conseguenza è concepito solo negli oggetti singolari, deve
necessariamente attendere a riferirsi costantemente a quelli, poiché in essi l'universale trova il suo
fondamento e la sua misura (Cfr. Leibniz, Phil. Schr., ed Gerhardt IV, 147).
3. L'ESSENZA DEL SILLOGISMO - Si può ormai capire che l'essenza del sillogismo non consiste,
come affermano i logici estensivisti (77), nel passare da una proposizione più universale ad una meno
universale, ma che essa consiste nel mettere in rapporto due estremi, T e t, ad uno stesso terzo termine
medio, M, che è necessariamente preso universalmente. Il passaggio dall'universale al meno universale
deriva da questa relazione e ne garantisce la validità logica, permettendo di verificare che il M,
identificato a T, non ha estensione minore che nella sua identificazione a t (sotto un certo rapporto).
In realtà, quando ci si pone dal punto di vista del contenuto delle proposizioni, ci si rende conto che
l'asserzione secondo cui il sillogismo fa concludere da una verità più universale ad una meno universale,
dev'essere intesa, per rimanere esatta, in questo senso che la maggiore implica, a titolo di principio o di
causa, la conclusione o conseguente; questa appare dunque come un effetto, che, in certi casi può essere,
quanto alle relazioni logiche, così universale come la maggiore da cui deriva; esso però, dal punto di vista
degli oggetti di pensiero, ha necessariamente meno ampiezza del principio o della causa.
Si è osservato 85 con ragione, che una logica nominalistica, cioè che implichi la negazione del valore
oggettivo delle nozioni universali e sostituisca, per ciò stesso, all'essenza universale, classi o tutti
collettivi, conduce a negare la vera natura del sillogismo e a mettere al posto della viva attività dello
spirito un cieco meccanismo. Ma quest'obiezione vale evidentemente solo per la logica concreta, cioè per
il sillogismo che si riferisce ad un contenuto di pensiero determinato, e non per gli schemi astratti e
simbolizzati della logica formale, in quanto tali.
Art. V - L'induzione
A. SPECIE D'INDUZIONE
90 - Sotto il nome d'induzione vengono compresi vari processi di conoscenza che bisogna innanzitutto
distinguere e definire.
1. L'INDUZIONE COMPLETA (o FORMALE). - Questa forma d'induzione consiste nel pervenire ad
una conclusione totale, a partire da un certo numero di dati, presi e controllati uno ad uno. Si ponga
l'esempio addotto da Aristotele (Anal. Pr., II, 23):
L'uomo, il cavallo e il mulo vivono a lungo.
L'uomo, il cavallo e il mulo sono animali senza bile.
Dunque gli animali senza bile vivono a lungo.
Quest'induzione è strettamente rigorosa e perviene ad una conclusione, a condizione che si ammetta
che sono stati enumerati tutti i casi, cioè che, nel nostro esempio, l'uomo, il cavallo e il mulo sono i soli
animali senza bile. Infatti, se il carattere “longevità” appartiene a tutti i casi considerati, se, d'altra parte, i
casi considerati comprendono la totalità dei casi possibili, ne consegue necessariamente che il carattere
del quale parliamo appartiene all'intera classe degli “animali senza bile”.
L'induzione completa non costituisce, come Stuart Mill pretende, un “ragionamento inutile” benché
non sia usata tanto frequentemente quanto l'induzione detta amplificante, che definiremo subito. Tutti i
controlli (puntualizzazioni e verifiche) sono forme di induzione completa. Nelle scienze descrittive, con
classificazioni nettamente determinate, questa forma d'induzione permette di attribuire a tutte le specie di
uno stesso genere un carattere che si è potuto verificare in ciascuna specie: così si è potuto stabilire che
“tutti i ruminanti hanno l'unghia bipartita”. Nella stessa matematica, l'induzione completa è alla base di
alcune dimostrazioni: per provare, per esempio, che un numero x possiede la proprietà a, si fa
successivamente la dimostrazione per i tre casi possibili: a >0, a = 0, a< 0.
2. L'INDUZIONE AMPLIFICANTE - L'induzione amplificante è ordinariamente definita un processo
per mezzo del quale lo spirito, da dati singolari sufficientemente enumerati, trae una verità universale.
Questo processo di generalizzazione (o di amplificazione), spesso impiegato dal senso comune, il quale
d'altra parte troppo spesso si appaga di premature generalizzazioni, caratterizzerebbe pure, si dice, il
metodo scientifico, detto metodo induttivo, metodo secondo il quale sarebbero regolati gli esempi che
seguono:
Questo frammento di ferro conduce l'elettricità,
Anche quest'altro frammento,
Anche questo,
Dunque il ferro conduce l'elettricità.
Il ferro conduce l'elettricità,
Anche il rame, anche lo zinco, anche l'argento,
Dunque il metallo conduce l'elettricità.
Come tali esempi dimostrano, questa forma d'induzione passando da alcuni a tutti, cioè dalle premesse
singolari (o particolari) ad una conclusione universale, afferma di più, anzi molto di più, di quanto le
premesse non permetterebbero di fare con certezza assoluta. Ciò ha indotto i filosofi a porsi il problema
del fondamento dell'induzione (sul quale ritorneremo nello studio del metodo sperimentale) e, più
recentemente, a riesaminare il problema della natura dell'induzione scientifica.
91 - B. NATURA DELL'INDUZIONE SCIENTIFICA - Definendo l'induzione come una forma di
ragionamento per mezzo del quale si passerebbe dai casi particolari all'universale, si perverrebbe, pare,
alla negazione dell'autentico cammino dello spirito nell'acquisizione del sapere scientifico, cosa che le
osservazioni seguenti dimostreranno.
1. INDUZIONE E DEDUZIONE - Abbiamo visto (72) che il ragionamento deduttivo segue un
cammino progressivo e rigorosamente necessario, nel senso che la conclusione deriva logicamente (cioè
senza valersi di alcun elemento esteriore ai dati) dalle premesse che sono state poste. Il processo
induttivo, al contrario, rappresenta un salto piuttosto che un cammino: è un passaggio immediato dal
particolare al generale, e talvolta anche dal singolare all'universale (perché accade che si effettui
l'induzione muovendo da una sola osservazione). Ma questo passaggio non può in alcun modo essere
spiegato col solo mezzo delle leggi della logica. Come abbiamo fatto osservare 86, c'è “tra il percetto e il
concetto”, cioè tra il fatto (la mela di Newton) e la legge induttiva (l'attrazione universale), un fossato che
si può superare logicamente.
Aristotele aveva già fatto particolarmente notare che esiste una differenza essenziale tra la deduzione e
l'intuizione. “Noi conosciamo, egli dice, per induzione o per dimostrazione. La dimostrazione muove
dall'universale, l'induzione dall'individuale”. (Anal. Post., I, 17). “Dove c'è un termine medio, il
sillogismo opera per l'interposizione di questo (termine medio); quando manca, lo spirito procede per
induzione” (Anal. Pr., II, 25) 87.
Ma ponendo in opposizione induzione e deduzione, Aristotele non intendeva affatto definire
l'induzione un ragionamento parallelo e antitetico al ragionamento deduttivo. Per lui l'induzione, come
vedremo più avanti, è, in fondo, il risultato di un'intuizione razionale: è il pensiero intuitivo che coglie,
nel singolare dell'esperienza, ciò per cui esso è intelligibile, cioè il suo senso o la sua essenza, ed
essenzialmente in questo intuitivo apprendimento dell'universale e dell'essenza consiste, per Aristotele, il
processo induttivo.
92 - 2. INDUZIONE E GENERALIZZAZIONE - Per il fatto stesso che l'induzione era definita come
il “passaggio dai fatti alla legge”, “dal particolare all'universale”, si faceva della induzione una generalizzazione dell'esperienza, come risulta dall' esempio che segue:
Il ferro, il rame, lo zinco... conducono l'elettricità.
Dunque tutti i metalli conducono l'elettricità.
Si è fatto osservare giustamente che la generalizzazione che accompagna l'enunciazione delle leggi
induttive, è un risultato del procedimento induttivo, ma non la sua caratterizzazione essenziale 88. Infatti,
passare dai fatti alle leggi significa passare “dal dato al pensiero”, dalle percezioni alle relazioni che noi
discerniamo in esse: significa dunque, in qualche modo, passare dai fatti all'idea che li spiega o li rende
intellegibili. Ma l'idea è immediatamente generale, e dunque tale è anche la legge o la relazione per
mezzo della quale essa si esprime. Non si deve, quindi, cercare altra generalizzazione fuori di quella che è
già insita nell'idea. Questa, in quanto tale, trascende il dato singolare e temporale e riveste
immediatamente il carattere di intemporalità e di universalità che è incorporato alle leggi induttive.
3. - INDUZIONE E CONCETTUALIZZAZIONE - Dalle osservazioni che precedono risulta dunque
che l'induzione non è un ragionamento, né quel preteso passaggio da alcuni a tutti che non è possibile
giustificare. Se, infatti, ci si pone in questo punto di vista, l'induzione appare o sofistica (se
l'enumerazione dei soggetti singolari non è completa) o tautologica (se, per ipotesi, è completa, perché
dichiarare: “tutti i metalli sono conduttori di elettricità” non è evidentemente niente di più che enumerare
consecutivamente tutti i metalli come conduttori di elettricità).
Si comprende bene, invece, l'importanza del processo induttivo, quando ci si rende conto che lo
spirito, ben lungi dal contare o enumerare elementi per affermare della loro somma ciò che è stato detto
di ciascuno ad uno ad uno, coglie negli oggetti singolari una natura che è, come tale, universalizzabile.
Quest'apprensione, d'altronde, non è necessariamente immediata e attuata all'istante. Nelle scienze
fisiche non lo è praticamente mai, perché presuppone l'impiego dell'insieme stesso del metodo induttivo
in tutta la sua complessità. Tratteremo ancora questo problema nello studio del metodo delle scienze
sperimentali (189).
Art. VI - I sofismi 89
A. NOZIONI GENERALI
93 1. - DEFINIZIONI - Si definisce col nome di sofisma un ragionamento falso che si presenta sotto
le apparenze della verità. Se il sofisma è formulato in buona fede e senza intenzione di ingannare, viene
chiamato piuttosto paralogismo.
Tuttavia questa distinzione, dedotta dalla buona o mala fede, è propria del moralista. Per il logico,
sofisma e paralogismo sono una sola e medesima cosa.
2. - DIVISIONE - L'errore può derivare da due specie di cause: o deriva dal linguaggio, o deriva dalle
idee che compongono il ragionamento. Donde le due classi di sofismi: sofismi di parole e sofismi di
cose (o di idee).
I sofismi verbali sono fondati sulla identità apparente di alcune parole. I principali sono:
1. L'equivoco. Esso consiste nell'assumere nel ragionamento uno stesso termine in più sensi differenti.
Tale è il ragionamento seguente:
Il cane abbaia.
Ora il cane è una costellazione.
Dunque una costellazione abbaia.
2. La confusione del senso composto e del senso diviso. Questa confusione avviene quando si riunisce
nel discorso, ossia quando si prende collettivamente ciò che è in realtà diviso, oppure, inversamente
quando si divide nel discorso, cioè si prende separatamente, ciò che in realtà è indiviso. Tale è
l'argomento del prodigo:
Questa spesa non mi rovinerà
Neppure questa seconda,
nemmeno questa terza.
Dunque tutte queste spese non mi rovineranno,
ed ancora, in senso opposto, questo argomento:
Quattro e due fanno sei.
Dunque quattro fa sei e due fa sei.
3. La metafora - Essa consiste nel prendere la figura per la realtà. Questo genere di sofisma è
soprattutto frequente quando si parla di cose spirituali: siccome noi dobbiamo servirci di immagini
sensibili per esprimerle, facilmente l'immagine si sostituisce alla cosa e diviene una fonte di errore.
94 - C. SOFISMI DI IDEE o DI COSE
Questi sofismi provengono non dall'espressione in sé, ma dall'idea espressa, e di conseguenza si
estendono alle cose. Si dividono in sofismi di induzione e in sofismi di deduzione, secondo che essi
derivino da una induzione illegittima o da una deduzione illegittima.
1. SOFISMI DI INDUZIONE
a) Sofisma dell'accidente. Esso consiste nel prendere per essenziale o abituale ciò che è soltanto
accidentale e inversamente. Tale è l'argomento:
Questo farmaco è rimasto senza effetto.
Dunque il medico è un ciarlatano.
b) Sofisma dell'ignoranza della causa. Esso consiste nel prendere per una causa un semplice antecedente
o qualche circostanza accidentale (“Post hoc, ergo propter hoc”). Esempio:
Una lesione cerebrale produce turbamenti intellettuali. Dunque il pensiero è un prodotto del cervello.
c) Sofisma dell'enumerazione imperfetta. Esso consiste nel trarre una conclusione generale da una
enumerazione insufficiente. Tale sarebbe il ragionamento:
Quel giudice è venale. Quell'altro pure.
Dunque tutti i giudici sono venali.
d) Sofisma della falsa analogia. Esso consiste nel concludere da un oggetto all' altro, nonostante la loro
differenza essenziale, fondandosi su di una delle loro rassomiglianze. Tale è l'argomento:
La Luna è un pianeta come la Terra.
Ora la Terra è abitata.
Dunque lo è pure la Luna.
2. SOFISMI DI DEDUZIONE
a) Falsa conversione e opposizione illegittima. (Riferirsi, nella Logica minore, a ciò che concerne la
conversione e l'opposizione delle proposizioni: (63-66).
b) Ignoranza del soggetto. Questo sofisma consiste nel dimostrare una cosa diversa, o più o meno di
quanto è in discussione. Tale sarebbe il ragionamento che volesse dimostrare che il sommo Pontefice non
è infallibile poiché egli può peccare.
c) Petizione di principio. Questo sofisma consiste nel prendere per principio dell'argomento ciò stesso
che è in questione. Così nell'argomento seguente:
Il pensiero è un prodotto del cervello.
Dunque il pensiero è un attributo della materia organica.
d) Circolo vizioso. Questo sofisma consiste nel dimostrare l'una con l'altra due proposizioni che hanno
ugualmente bisogno di essere dimostrate. Tale sarebbe l'argomento che provasse l'ordine del mondo con
la sapienza divina e la sapienza divina con l'ordine del mondo.
D. CONFUTAZIONE DEI SOFISMI
1. SOFISMI DI PAROLE - Per confutare i diversi sofismi dì parole, non c'è altro mezzo che criticare
spietatamente il linguaggio, per determinare esattamente il senso delle parole usate.
2. SOFISMI DI IDEE - I sofismi di idee e di cose peccano. sia riguardo alla materia sia riguardo alla
forma. Per confutarli, bisogna dunque esaminarli dal duplice punto di vista della materia e della forma.
Una o entrambe le premesse possono essere false o ambigue. Se esse sono false, bisogna negarle; se sono
ambigue, bisogna distinguerle, ossia precisarne i differenti sensi. Se l'argomento pecca per la forma, la
conseguenza dev'essere negata.
Art. VII - La logistica 90
A. CONCETTO
95 - La logica moderna o Logistica, il cui iniziatore è Leibniz, ma che è stata sviluppata solamente
dopo un centinaio d'anni con Boole, Schroeder, Peano e soprattutto. Whitehead e Russell 91 sta alla logica
antica come l'algebra astratta sta all'aritmetica classica. Come l'algebra a poco a poco s'è staccata dalle sue
origini sperimentali per diventare una pura costruzione dello spirito, così la logica moderna, invece di
partire dall'esperienza logica per determinare le leggi del ragionamento, costruisce, non assolutamente a
priori, ma senza riferimento esplicito ad oggetti reali del pensiero, dei sistemi di cui sviluppa poi le
conseguenze. Un lavoro ulteriore, che non è propriamente logico, ma meta-logico, dovrà determinare
quali sono le interpretazioni logiche possibili di questi sistemi. Questa logica si presenta come una logica
formale più completa e più generale della logica classica. La formalizzazione è ottenuta mediante
l'impiego sistematico di segni simbolici, utilizzati secondo regole assai precise, in modo da eliminare ogni
significato intuitivo conosciuto con altri mezzi Questa formalizzazione si applica non solamente alla
logica delle funzioni proposizionali e delle classi (nella quale rientra in qualche modo la sillogistica di
Aristotele) ma pure alla logica delle proposizioni e delle relazioni, sconosciuta ad Aristotele o almeno
quasi interamente trascurata da lui.
La logica delle proposizioni (chiamata pure calcolo proposizionale) è una combinatoria puramente
formale concernente le combinazioni che si possono ottenere per mezzo di due o più proposizioni,
indipendentemente dal loro contenuto, ma considerate in funzione del loro valore “vero” o “falso” (o di
altri valori intermedi nelle logiche polivalenti) (33). La logica delle funzioni proposizionali fa intervenire
le relazioni intraproposizionali, tenendo conto, nell'interno delle proposizioni, di alcune menzioni di
oggetti (x, y, z...) e di predicati (a, b, c...). Essa comprende il calcolo dei predicati monadici in cui il
predicato si applica ad un solo oggetto (individuale o generale), il calcolo dei predicati diadici (o delle
relazioni) in cui due oggetti sono nella relazione significata mediante il predicato, il calcolo dei predicati
triadici, n…adici. La logica delle classi traduce in termini di classi o di insiemi (ossia in estensione) i
rapporti tra concetti e tra proposizioni, definendo la classe per mezzo d'una comune proprietà degli
elementi che la compongono, d'una condizione alla quale questi elementi devono soddisfare. È la logica
delle classi che Russell dapprima aveva posto come fondamento dell'edificio logico in generale; egli l'ha
poi abbandonata a vantaggio della logica delle funzioni proposizionali, molto più generale e più ricca di
sviluppi 92.
1. LA LOGICA DELLE PROPOSIZIONI - Aristotele, nei suoi lavori di logica (Organon) ha fornito
una teoria geniale dei rapporti dei concetti tra loro. Ma non ha elaborato affatto la teoria della logica delle
proposizioni come tali, senza tuttavia ignorarla completamente 93. Sono stati gli Stoici ad aggiungere alla
logica aristotelica questa logica delle proposizioni che le mancava, ossia hanno elaborato la teoria delle
relazioni che possono sussistere tra le proposizioni prese come “tutti” e astraendo dalla loro struttura
interna.
Così le proposizioni seguenti: “se c'è sole, è giorno; ora c'è sole; dunque è giorno” sono di questo tipo:
“si p, tunc q; atqui p; ergo q”, tipo valido fatta astrazione dalla quantità delle proposizioni p e q, dalla loro
qualità, dalla disposizione dei termini, dalla esistenza o della non esistenza del termine medio. Si vede
immediatamente quale generalità si raggiunga con ciò, osservando per esempio, che la formula Barbara
(82) ha una generalità molto più ristretta, poiché essa vale solo se la maggiore è A, la minore A e se il M è
soggetto della maggiore e attributo della minore. In questo modo, non si considerano più i termini, ma le
proposizioni come tali, e la Logistica si propone di fornire le formule di tutte le relazioni che possono
esistere tra due o più proposizioni.
96 - 2. LOGICA DELLE RELAZIONI
a) Il calcolo delle relazioni. I logistici hanno osservato che la logica classica ha trascurato tutta una
serie di relazioni, come quelle di grandezza (matematiche), di parentela, di subordinazione, di posizione,
ecc., di cui la logica deve enunciare le regole e fornire le formule. Questa logica della relazione, secondo
Russell, è del tutto diversa dalla logica aristotelica e scolastica, che è una logica dell'attribuzione e della
inerenza. I logistici si sono messi ad elaborarla, osservando soprattutto i procedimenti dei matematici
(addizione, moltiplicazione, astrazione, corrispondenza, iterazione) e dimostrando come sia possibile
costruire indefinitamente teoremi enuncianti relazioni semplici tra grandezze (matematiche o logistiche),
poi relazioni di relazioni. Le matematiche pervengono con questo procedimento ad una fecondità
indefinita, inesplicabile nella logica classica.
b) Osservazioni. Il problema posto dalla concezione di B. Russell è quello di sapere se vi sono
veramente proposizioni con una struttura irriducibile a quella della proposizione predicativa e tali, di
conseguenza, che la loro necessità e la loro universalità non si possano spiegare con la copula è (o con
l'ontologia). Su questo punto, abbiamo già mostrato (59) che ogni proposizione relativa comporta
l'affermazione di una relazione esistente tra più termini: questa relazione è dunque il predicato ed essa è,
come tale, inerente al soggetto (in comprensione). Questa interpretazione in nessun modo conduce a
negare la realtà delle proprietà particolari alle proposizioni relative, proprietà che sono rimaste quasi
sconosciute alla logica classica 94.
Se dunque la Logistica ha scoperto e sistemato un grande numero di leggi concernenti le proposizioni
relative, essa non è riuscita a mutare il fondamento di esse, nelle quali la copula è sempre sottintesa.
Attraverso questa copula la metafisica spiega e giustifica la necessità delle proposizioni relative,
dimostrando che qui come altrove l'essere è la ragione e il fondamento ultimo dell'affermazione.
97 - 3. IL SIMBOLISMO - Il simbolismo o uso di segni artificiali non è essenzialmente caratteristico
della Logistica, essendosene già largamente servita la logica classica. Ma la Logistica ne generalizza l'uso
e soprattutto essa utilizza questi simboli secondo regole precise, cosicché il loro senso sia perfettamente
chiaro, mentre i termini comuni sono facilmente equivoci. I simboli hanno in più il vantaggio di astrarre
assolutamente da ogni materia e di sopprimere così l'origine di numerosi errori.
Ecco qualcuno dei segni usati (almeno da certi logistici, poiché la simbolica è molto varia):
~ p, “non-p” (proposizione p negata);
p  q, o p  q “se p allora q” (proposizione condizionale; implicazione materiale);
p v q, “p vel q” (proposizione disgiuntiva, non esclusiva);
p.q o pq o P & q, P e q (proposizione congiuntiva);
p/q, “p esclude q e viceversa” (proposizione esclusiva);
p = q (p per definizione è la stessa cosa di q);
p  q o   q, “p se e solamente se q”, o “p e q” sono veri o falsi insieme (proposizione di equivalenza).
Ci si serve pure di parentesi, indicando che ciò che è inscritto nella parentesi è considerato come un
tutto relativamente ai fattori posti prima o dopo. Per esempio (p  q) v r, esprime una proposizione
disgiuntiva, la cui prima parte è p  q e la seconda parte r. Se si omettesse la parentesi, si potrebbe
intendere che p implichi materialmente q o r.
Per mezzo di questi segni si possono tradurre in formule concise, precise e chiare, dicono i logistici,
tutte le regole della logica classica e tutto ciò che concerne il sillogismo ipotetico e la logica delle
relazioni, e fornire con ciò stesso dei procedimenti di verificazione logica di una certezza assolutamente
infallibile 95.
È l'ambizione veramente prodigiosa che manifestava Leibniz proponendo il suo progetto di
Caratteristica. Questa, egli dice, permetterebbe di giudicare infallibilmente le controversie filosofiche:
basterebbe prendere la penna ed eseguire il calcolo richiesto. (Cfr. Philosophischen Schriften, ed.
Gerhardt, VII, p. 200). “Quo facto, quando orientur controversiae, non magis disputatione opus erit inter
duos philosophos, qui inter duos Computistas (calcolatori). Sufficiet enim calamos in manus sumere
sedereque ad abaces et sibi mutuo (accito si placet amico) dicere: Calculemus!”
4. L'ASSIOMATICA - Un sistema assiomatico può essere definito come un insieme di concetti e di
proposizioni organizzato in modo che tutto vi si definisca a partire da alcuni concetti iniziali non definiti e
vi si deduca da proposizioni prime esplicitamente enunciate (o assiomi), per mezzo di alcune regole,
queste stesse esattamente precisate 96.
Tutte le scienze deduttive o razionali procedono o dovrebbero procedere per via assiomatica. Quanto
ad esse, il logico dovrebbe esaminare se nessuna contraddizione risulta dagli assiomi e dalle regole di
deduzione, - se la deduzione delle conclusioni è corretta e rigorosa, - se le conseguenze che non possono
essere dedotte dagli assiomi sono realmente contraddittorie con qualche tesi del sistema. In compenso il
logico non ha da cercare se gli assiomi sono veri o certi, né se essi sono più conosciuti delle conseguenze
che se ne traggono. Possono esserci e di fatto vi sono dei sistemi i cui assiomi non sono evidenti (caso
della teologia), né certi (come spesso in fisica); in altri casi, gli assiomi possono anche essere falsi (caso
frequente nelle scienze della natura: ad es., il principio del sistema chiuso). Ciò che interessa il logico è
qui la correttezza del processo di deduzione e non il valore degli assiomi.
La logica è per eccellenza una disciplina assiomatica, e la Logistica mira innanzitutto, col ricorso al
formalismo, a dare il massimo rigore al metodo assiomatico. L'ideale sarà qui, come altrove, di riuscire a
dedurre il maggior numero di conseguenze partendo dal minor numero possibile di assiomi iniziali. Da
questo punto di vista, molte assiomatiche sono possibili e l'epoca moderna ne ha fornito di fatto, con
Frege, Whitehead e Russell, Hilbert e Ackermann, ecc., parecchi modelli differenti 97.
Si presenta la questione se la logica possa fare astrazione dalla certezza, dall'evidenza, nonché dalla
verità degli assiomi della logica stessa. Noi abbiamo già implicitamente risposto a questa questione (31);
con Frege e Greenwood pensiamo che una logica che non proceda da assiomi certi e veri, non è una
logica attendibile. Ma una logica che partisse da assiomi qualsivoglia, senza pronunciarsi sulla loro verità,
avrebbe almeno un valore teorico. Del resto, qualunque siano le opinioni spesso opposte dei logistici su
questo punto, tutti sono d'accordo di fatto nel partire da assiomi ritenuti per veri e certi, sebbene essi
rinviino la questione intorno alla verità degli assiomi ad una disciplina, che potrebbe essere la filosofia
della logica e che dovrebbe trattare della interpretazione o della accettabilità degli assiomi.
B. VALORE E PORTATA DELLA LOGISTICA
98 - 1. IL FORMALISMO METODOLOGICO - Il principio della traduzione in formule schematiche,
per mezzo di segni convenzionali, delle diverse operazioni logiche, non presenta alcuna difficoltà. Il
formalismo è utile per fissare l'attenzione, per aiutare la memoria, soprattutto per escludere ogni ricorso
all'intuizione e ottenere maggiore precisione e rigore tecnici. Tuttavia non c'è un momento in cui la
molteplicità stessa dei segni diventa più ingombrante che vantaggiosa? In ogni caso ci si potrebbe
augurare una maggiore uniformità nell'impiego dei segni, che variano considerevolmente da un autore
all'altro, a tal punto che, ogni volta che ci si accosta allo studio di un nuovo sistema, ci si deve iniziare per
prima cosa alla sua simbolica particolare.
2. VANTAGGI DEL FORMALISMO - Si è spesso criticato (cfr. Maritain, Petite Logique) l'uso
sistematico del simbolismo in logica, sostenendo che le costruzioni logiche, per mezzo delle
combinazioni dei segni, tendevano a meccanizzare il pensiero, e infine miravano a liberare lo spirito dal
peso del pensiero. Questa critica può valere contro certi logistici (Couturat, Carnap, Tarski) che, proprio
in virtù del loro nominalismo, pretendono fondare con la logistica una pura scienza di segni
materialmente presi, mentre il pensiero concerne, non segni come tali, ma le cose significate, cioè i
concetti. Ma la grande maggioranza dei logistici non nega affatto che i segni abbiano un senso ed un
senso logico. Però questo senso non interviene nel corso della deduzione, al fine di evitare ogni ricorso ad
evidenze che sarebbero fondate sulla intuizione. Esso interviene solamente prima e dopo la costruzione
tecnica: prima, a titolo “euristico”, dopo, in vista dell'interpretazione.
Il rimprovero di “meccanismo verbale” che si fa alla Logistica non va oltre. Senza dubbio la
“meccanizzazione” è innegabile; essa è pure caratteristica di ciò che molto appropriamente si chiama
“calcolo logico.” Non solo il “meccanismo simbolico” rimane pur sempre pensiero, condensato in
formule, ma bisogna pure ammettere, come già Leibniz rilevava, che ogni ragionamento implica una parte
di meccanicità, e che ciò è persino necessario quando la deduzione è lunga e complessa. Sarebbe infatti
impossibile avanzare, qualora si volesse pensare sempre al senso delle parole e sostituire ovunque la
definizione al definito (cfr. Phil. Schrift., VII, p. 204). Come in matematica ci si affida alla tavola
pitagorica, utilizzata meccanicamente, così pure, nel ragionamento, ci si abbandona al meccanismo
verbale e simbolico.
C. CONCLUSIONI
99 - La logistica è certamente riuscita a mettere bene in luce taluni aspetti della deduzione sinora poco
studiati o trascurati. Essa ha sviluppato considerevolmente la logica delle proposizioni che gli Stoici
avevano scoperta, e ha creato, quasi interamente, la logica delle relazioni che svolge una funzione
notevole nelle scienze, in particolare in matematica. Sotto questo aspetto, e nonostante le differenze di
metodo e di spirito, le conquiste della logistica sono una continuazione della logica classica bivalente del
vero e del falso 98.
Ma, da una trentina d'anni, le ricerche si sono orientate in direzioni molto diverse e i lavori di
Whitehead e Russell (Principia mathematica, 1910) sono stati largamente superati. Si son visti sorgere
successivamente i logici trivalenti (Lukasiewicz, Post) e plurivalenti; la logica intuizionistica (Brouwer,
Heyting) che abbandona, senza negarlo, il terzo escluso; i logici modalisti.
D'altra parte, lo sforzo di un formalismo sempre più spinto ha dato origine alle logiche combinatorie
(Curry, Rosser) in cui non ci sono più variabili e in cui le sostituzioni sono surrogate con procedimenti
più semplici.
Bisognerebbe aggiungere che le difficoltà, nate dal formalismo stesso, hanno attirato l'attenzione sulle
nozioni di sintassi, concernenti i rapporti dei segni tra loro, e di semantica, che si occupano dei rapporti
dei segni con le cose che essi denotano 99.
Tutto considerato, il bilancio della logistica è dunque largamente positivo. Essa indica insieme uno
sviluppo ed un progresso rispetto alle logiche classiche 100.
II
LOGICA MAGGIORE
LOGICA MAGGIORE
100 - 1. DEFINIZIONE - Dopo aver studiato le leggi che assicurano la correttezza del ragionamento,
ossia l'accordo del pensiero con se stesso, dobbiamo chiederci a quali condizioni il pensiero deve
soddisfare per essere non solamente corretto, ma altresì vero, ossia conforme ai diversi oggetti che lo
spirito può sforzarsi di conoscere. La Logica maggiore è dunque quella che considera la materia della
conoscenza e determina le vie da seguire per arrivare sicuramente alla verità. Questa parte della logica è
spesso chiamata pure col nome di Metodologia, poiché essa è uno studio dei diversi metodi usati nelle
scienze.
D'altra parte, la Logica maggiore, facendo intervenire la nozione di verità come conformità dello spirito
alle cose, richiede, prima dello studio dei metodi, lo studio delle condizioni di diritto che permetteranno
allo spirito di reputarsi certo legittimamente, ossia realmente conforme alle cose.
Queste questioni sono diverse da quelle trattate dalla critica della conoscenza. In realtà, in logica si
tratta solo di definire, da un punto di vista formale, ciò che sono di diritto la verità e l'errore e quali sono
le condizioni di diritto della certezza, mentre la critica della conoscenza ha per oggetto di risolvere la
questione di sapere se di fatto le nostre facoltà conoscitive sono capaci di raggiungere la verità. Questa
parte della Logica corrisponde a quel che i moderni chiamano epistemologia.
Infatti, poiché per i logici moderni non c'è altra logica che la logica formale, cioè la logica è formale
per essenza e per definizione, l'epistemologia e la metodologia non fanno parte della logica, ma
costituiscono discipline distinte (più vicine, sotto molti aspetti, alla critica della conoscenza).
2. DIVISIONE - La logica materiale comporterà dunque le divisioni seguenti: le condizioni della
certezza, il metodo in generale, e i procedimenti generali della dimostrazione scientifica, analisi e sintesi,
nozione della scienza e delle scienze, i diversi metodi.
CAPITOLO PRIMO
LE CONDIZIONI DELLA CERTEZZA
SOMMARIO 101
Art. I - LA VERITÀ E L'ERRORE. Verità logica e verità ontologica - Le definizioni soggettivistiche
della verità - I diversi momenti dello spirito in presenza del vero - Probabilità e certezza ­ Certezza
ed evidenza - L'errore.
Art. II - IL CRITERIO DELLA CERTEZZA. Natura del criterio - L'evidenza come criterio supremo Insufficienza degli altri criteri: autorità, istinto, successo.
101 - Fino qui abbiamo studiato i princìpi e stabilito le regole del ragionamento corretto. Ma,
nonostante la conoscenza di questi princìpi e l'uso di queste regole, l'uomo rimane soggetto all'errore, e
infatti egli spesso erra, prendendo il falso per il vero. È così necessario definire la verità e l'errore,
conoscere i procedimenti sofistici in cui l'errore si presenta con le apparenze della verità e determinare
quali segni permettano, di diritto, di distinguere la verità dall'errore.
Art. I – LA VERITA’ E L’ERRORE
§ l - La verità
Ora noi parliamo di “vero vino”, di “vero oro”, ora diciamo: “Questo vino è buono”, “quest'oro è
puro”, “questo quadro è bello”. Nei due casi, vogliamo affermare che ciò che è, è. Proprio in questo
consiste la verità in generale.
V'è tuttavia una differenza tra i due generi di espressioni surricordati. Il primo esprime una verità
ontologica, il secondo una verità logica.
1. LA VERITÀ ONTOLOGICA - Per verità ontologica si intende l’essere delle cose in quanto
corrisponde esattamente al nome che gli si dà, e in quanto, di conseguenza, è conforme all'idea divina da
cui procede. Le cose infatti, sono vere in quanto sono conformi alle idee secondo le quali esse sono state
fatte. Conoscere questa verità, ossia conoscere le cose così come esse sono, è il compito della nostra
intelligenza.
2. LA VERITÀ LOGICA - La verità logica indica la conformità dello spirito alle cose, ossia alla
verità ontologica. Quando affermo: “quest'oro è puro”, esprimo una verità, se veramente la purezza
appartiene a quest'oro, ossia se il mio giudizio è conforme a ciò che è.
Ne consegue che la verità logica esiste soltanto nel giudizio, e in nessun modo nella semplice
apprensione. La nozione “oro puro” non esprime né verità né errore. Ci può essere verità solo quando lo
spirito, affermando una cosa di un'altra, conosce (almeno implicitamente) il proprio atto.
102 - 3. LE DEFINIZIONI SOGGETTIVISTICHE DELLA VERITÀ - Alcune definizioni della
verità, proposte dai filosofi, non possono essere ammesse, per il loro carattere soggettivistico, ossia in
quanto considerano la verità come l'accordo del pensiero con se stesso.
a) Definizione cartesiana. Cartesio definisce la verità come costituita dalla chiarezza e dalla
distinzione dell'idea che noi abbiamo di un oggetto. “Avendo rilevato, egli scrive, che non c'è niente in
questo “penso quindi sono” che mi assicuri che io dico la verità, se non che io vedo molto chiaramente
che per pensare bisogna essere, giudicai che potevo assumere come regola generale che le cose che noi
concepiamo assai chiaramente e distintamente sono tutte vere”. (Discorso del Metodo, 4a parte).
Questa definizione è molto equivoca. Infatti la chiarezza e la distinzione sono proprietà formali delle
idee (47), che nulla ci insegnano intorno agli oggetti stessi. Io posso avere un'idea chiara e distinta di una
chimera, di una montagna d'oro, di un chiliagono. Ma queste idee in se stesse non sono né vere né false e
diverranno tali solo con il giudizio che le metterà in connessione con un predicato ad esse conveniente o
no. Quanto alla chiarezza del giudizio, è ovvio che essa non sarà sufficiente a definire la verità. Vi sono
molti giudizi perfettamente chiari che sono perfettamente falsi (La terra è coperta di montagne d'oro).
A maggior ragione si dovrà pure respingere la definizione kantiana della verità come “l'accordo del
pensiero con se stesso”. Infatti, la cosa significata dal soggetto del giudizio, della quale noi affermiamo,
col predicato, qualche attributo, è evidentemente concepita come distinta dal giudizio stesso. Nella
conformità del pensiero con questa cosa o con questo oggetto risiede la verità, non nella semplice
coerenza, che non è altro, di per sé, se non una proprietà formale.
103 - È interessante, facendo un'anticipazione sulla critica, analizzare e discutere qui brevemente una
obiezione che si oppone spesso alla definizione del vero come conformità al reale. In ciò, si dice, v'è un
circolo vizioso, poiché come sapere, se non ancora tramite rappresentazioni, che un giudizio è conforme a
ciò che è? Per assicurarsi della verità della rappresentazione; bisogna ricorrere al reale; ma per conoscere
il reale, bisogna ricorrere alla rappresentazione. Il circolo è evidente 102.
Questa obiezione è irrilevante. La verità che si trova solo nel giudizio (53), si stabilisce infatti con un
riferimento a rappresentazioni (immagini o concetti), ma a rappresentazioni che, come tali, ossia, astratte
dal giudizio, sono il reale stesso, quale è ricevuto negli organi di senso o nell'intelletto (38). L'obiezione
che noi discutiamo riposa dunque su di una falsa nozione della conoscenza e sul postulato implicito che il
giudizio è l'operazione fondamentale dello spirito. Ora questo postulato è errato, poiché il giudizio
suppone sempre la semplice apprensione, con cui lo spirito entra in possesso del reale. Per riferimento a
questa apprensione, e per conseguenza al reale stesso, si può stabilire la verità o la falsità del giudizio. In
tale procedimento non c'è affatto circolo vizioso. Altrimenti, bisognerebbe rinunciare a dare un senso
all'espressione di “verifica”. Si afferma che non potendosi trovare il contatto col reale, si potrebbe tuttavia
stabilire la verità accumulando le rappresentazioni e verificandole le une per mezzo delle altre. Ma chi
non vede che è un accontentarsi di parole? Sarebbe come presumere che girando indefinitamente in una
prigione senza uscita si finirà col trovarsi fuori oppure che si riuscirà ad ottenere una somma positiva col
moltiplicare gli zeri!
4. LA VERITÀ MORALE - La verità morale, per opposizione alla menzogna, consiste nella
conformità del linguaggio col pensiero. Lo studio di essa spetta all'etica.
§ 2 - Le diverse condizioni dello spirito di fronte al vero
Lo spirito in relazione al vero può trovarsi in quattro condizioni o stati differenti: il vero per lui può
essere come non esistente: è lo stato di ignoranza; il vero può apparirgli come semplicemente possibile: è
lo stato di dubbio; il vero può apparirgli come probabile: è lo stato di opinione; infine il vero può
apparirgli come evidente: è lo stato di certezza.
A. L'IGNORANZA
1. DEFINIZIONE - L'ignoranza è uno stato puramente negativo consistente nell'assenza di ogni
conoscenza relativa a qualche oggetto.
2. DIVISIONE - L'ignoranza può essere: vincibile o invincibile, secondo che è o no in nostro potere di
farla scomparire; colpevole o scusabile, secondo che è o no dovere nostro di farla scomparire.
B. IL DUBBIO
1. DEFINIZIONE - Il dubbio è uno stato di equilibrio tra 1'affermazione e la negazione, derivante dal
fatto che le ragioni dell'affermare controbilanciano quelle del negare.
2. DIVISIONE - Il dubbio può essere:
a) Spontaneo, cioè consistente nell'astensione dello spirito per mancanza di esame del pro e del contro.
b) Riflesso, cioè derivante dall'esame delle ragioni pro e contro.
c) Metodico, cioè consistente nella sospensione, fittizia o reale, ma sempre provvisoria, dell'assenso ad
una asserzione ritenuta fino allora per certa, al fine di controllarne il valore.
d) Universale, cioè consistente nel ritenere incerta ogni asserzione. È il dubbio degli scettici.
C. L'OPINIONE
105 - 1. DEFINIZIONE - L'opinione è lo stato dello spirito che afferma col timore di errare.
Contrariamente al dubbio, che è una sospensione del giudizio, l'opinione consiste dunque nell'affermare,
ma in modo che le ragioni della negazione non siano eliminate con una certezza completa. Il valore
dell'opinione dipende così dalla maggiore o minore probabilità di ragioni che fondano l'affermazione 103.
2. DIVISIONE DELLA PROBABILITÀ
a) Probabilità matematica. È quella in cui tutti i casi possibili essendo di uguale natura, in numero
finito, e conosciuti anticipatamente, ammettono la possibilità di una valutazione sotto forma frazionaria
del loro grado di probabilità.
Il denominatore esprime il numero dei casi possibili e il numeratore il numero di casi favorevoli. Se si
suppone una scatola contenente 6 palle nere e 4 palle bianche, la probabilità di estrazione di una palla
bianca sarà matematicamente di 4/10.
b) Probabilità morale. È quella che si applica agli avvenimenti in cui interviene ad un grado qualsiasi
la libertà umana.
C'è differenza di essenza e non solamente di grado, tra la probabilità e la certezza: si avrebbe dunque
assurdità nel dire che la certezza propriamente detta si compone di un numero più o meno grande di
probabilità. Tuttavia, da un punto di vista psicologico, sul quale Newman ha molto insistito nel suo An
Essay in Aid of a Grammar of Assent (Londra, 1875, cfr. tr. it., Filosofia della religione, Modena, 1943),
avviene spesso che una accumulazione di probabilità, soprattutto nel dominio morale, generi una specie di
certezza pratica. Logicamente e fondamentalmente, non c'è che opinione più o meno ben fondata.
Praticamente, il calcolo delle probabilità giustifica di comportarsi come di fronte ad un dato sicuro e
determina una attitudine mentale equivalente alla certezza.
D. LA CERTEZZA E L'EVIDENZA
106 - 1. DEFINIZIONI - La certezza è uno stato dello spirito che consiste nell'adesione ferma ad una
verità conosciuta, senza timore di errare. L'evidenza è ciò che fonda la certezza. La si definisce come la
completa trasparenza con cui il vero s'impone all'adesione dell'intelligenza 104.
2. DIVISIONE - Ci si può porre da più punti di vista per dividere l'evidenza e la certezza che ne
risulta.
a) Dal punto di vista del suo fondamento, la certezza può essere: metafisica (o razionale), quando è
fondata sulla essenza stessa delle cose, in modo che l'asserzione contraddittoria sia necessariamente
assurda e inconcepibile. Tale è la certezza di questo principio: “Il tutto è maggiore della sua parte”;
fisica (o empirica), quando è fondata sulle leggi della natura materiale o sull'esperienza, in modo che
l'asserzione contraria sia semplicemente falsa, ma non assurda né inconcepibile. Tale è la certezza di
questa asserzione: “Il metallo è conduttore di elettricità”, oppure di quest'altra: “Io sono malato”;
morale, quando è fondata su di una legge psicologica o morale, in modo che l'asserzione sia vera nel
maggior numero di casi. Tale è la certezza di questa asserzione: “Una madre ama i suoi bambini”, oppure
di quest' altra: “All'uomo ripugna la menzogna...”.
b) Dal punto di vista del modo con cui la si ottiene, la certezza può essere:
Immediata o mediata, secondo che essa sia acquisita al primo esame dell'oggetto, oppure attraverso la
meditazione della dimostrazione. Per esempio:
Ciò che è, è (certezza immediata).
La somma degli angoli del triangolo è uguale a due retti (certezza mediata).
Intrinseca o estrinseca, secondo che essa risulti dalla visione dell'oggetto stesso, oppure, al contrario,
dall'autorità di chi ha visto l'oggetto. Per esempio:
È giorno, due e due fanno quattro (certezza intrinseca o scientifica).
Roma è stata fondata da Romolo (certezza estrinseca o credenza). Tutte le asserzioni storiche sono
suscettibili soltanto di una certezza estrinseca.
c) Dal punto di vista della sua perfezione. Considerata in se stessa la certezza è indivisibile: essa è o
non è. Tuttavia, la fermezza dell'assenso può ammettere dei gradi accidentali, che dipendono dalla
capacità della intelligenza, dal genere di verità in questione, dal motivo di ammettere la verità. È così che
noi siamo più certi di ciò che vediamo coi nostri occhi che di ciò che ci riferiscono, più certi di una verità
matematica che di una verità morale, ecc. 105.
§ 3 - L'errore
107 - 1. NATURA DELL'ERRORE - Se la verità logica è la conformità dell'intelligenza con le cose,
l'errore, che è il suo contrario, dovrà essere definito come la non conformità del giudizio con le cose.
Errare non è dunque ignorare puramente e semplicemente. L'ignoranza consiste propriamente nel non
saper nulla e nel non affermare nulla, mentre l'errore consiste nel non sapere e nell'affermare credendo di
sapere. È una ignoranza che ignora se stessa 106.
2. CAUSE DELL'ERRORE - L'errore ha cause logiche e cause morali.
a) Cause logiche. Esse provengono dalla debolezza naturale del nostro spirito: deficienza di
penetrazione; deficienza di attenzione; deficienza di memoria.
Tuttavia questa imperfezione naturale dello spirito non è mai la causa sufficiente dell'errore. Poiché
l'intelligenza, essendo determinata all'assenso soltanto dall'evidenza del vero, non errerebbe mai, ossia
non darebbe mai la propria adesione fuori dell' evidenza, se non subendo una influenza estranea. Questa
influenza estranea è quella della volontà sottomessa alle passioni, e, di conseguenza, le vere cause
dell'errore sono quasi sempre morali.
b) Cause morali. Si possono ridurre a tre principali, che sono: la vanità, per cui noi ci fidiamo troppo
del nostro sapere personale, l'interesse, per cui preferiamo le asserzioni che ci sono favorevoli, l'accidia,
per cui noi retrocediamo davanti all' informazione ed al lavoro necessari, accettando senza controllo i
pregiudizi correnti, l'autorità dei falsi sapienti, le apparenze superficiali, gli equivoci del linguaggio, ecc.,
3. I RIMEDI CONTRO L'ERRORE - Se l'errore ha cause logiche e cause morali, si dovrà combatterlo
con rimedi logici e con rimedi morali.
a) Rimedi logici. Essi costituiscono una specie di igiene intellettuale, e tendono a sviluppare la
rettitudine ed il vigore dello spirito, con l'applicazione metodica delle regole logiche, col controllo della
fantasia e lo sviluppo della memoria.
b) Rimedi morali. Sono naturalmente i più importanti. Essi si riassumono nell'amore per la verità che
ci spinge a diffidare di noi stessi, a giudicare con una perfetta imparzialità, a procedere con pazienza,
circospezione e perseveranza nella ricerca della verità.
Rosmini, nella sua Logica (Edizione Nazionale, Fratelli Bocca, Milano t. XXII e XXIII, n. 221-300)
dimostra che quanto rende possibile l'errore è la riflessione, in quanto questa introduce, tra l'intuizione di
ciò che è e l'assentimento, una specie di distanza che permette, talvolta di sottrarsi alla cogenza
dell'evidenza, distraendo l'attenzione dello spirito (come Cartesio aveva osservato), tal'altra, quando
manca l'evidenza, di precipitare un assentimento favorevole ai pregiudizi, all'interesse o alla passione.
Infatti, scrive L. Roure (l.c., Introduction, pp. 81-82) la riflessione, come la concepisce il Rosmini, “non è
la causa dell'errore; essa non produce l'errore, per se stessa, ma per accidente. Ne è, dunque, l'occasione,
perché, dice sempre il Rosmini, essa è l'espressione stessa della libertà (Cfr., Logica n. 200). Essa dunque
può essere pure, e per la stessa ragione, di ausilio alla verità, poiché per suo mezzo la volontà si libera
dagli impulsi irrazionali (Cfr. Logica, n. 181-183, n. 222) ed è essa che permette di acquisire una
coscienza sempre più chiara del vero oggettivo, di svincolarsi dall'attrazione esercitata dall'assentimento
precipitoso; la libertà che si esercita per suo mezzo, è per l'uomo la condizione del bene e del male. Essa
costituisce ciò che rende possibile nello stesso tempo l'assentimento conforme ai lumi della retta ragione e
il rifiuto di assentire alle evidenze che si offrono allo spirito. Essa moralizza in certo modo la nostra
attività spirituale e fa sì che l'uomo, sia nel vero che nel falso, porti la responsabilità della sua scelta.
Art. II – Il criterio della certezza
A. NATURA DEL CRITERIO
108 - 1. DEFINIZIONE - Si chiama criterio il segno per cui si riconosce una cosa e la si distingue da
tutte le altre. Ora, poiché noi opponiamo costantemente la verità all'errore, dicendo: “Questo è vero,
quello è falso”, dobbiamo possedere qualche segno o criterio al quale noi riconosciamo la verità. È questo
segno che noi chiamiamo criterio della verità, e, siccome a questo segno noi dobbiamo il possesso della
certezza, lo si chiama pure il criterio della certezza, ponendosi dal punto di vista, non più dell'oggetto che
si manifesta, ma dello spirito che conosce.
2. IL CRITERIO SUPREMO - Si distinguono criteri particolari ed un criterio universale. I primi
sono propri di ciascun ordine di verità: vi è così una serie di criteri, storico, matematico, morale, ecc.: essi
sono i segni per i quali si riconoscono le verità storica, matematica, morale, ecc. Il criterio supremo della
verità e della certezza, del quale soltanto ci occuperemo qui, è il segno distintivo di ogni specie di verità,
quello che non ne suppone alcun altro, al quale tutti gli altri sono subordinati e che costituisce il motivo
ultimo di ogni certezza.
B. IL CRITERIO DELL'EVIDENZA
109 - Il criterio supremo della verità e il motivo ultimo di ogni certezza è l'evidenza.
1. NATURA DELL'EVIDENZA - Noi abbiamo definito più sopra (106) l'evidenza come la completa
trasparenza con cui il vero s'impone all'adesione dell'intelligenza. Qui ci basterà di spiegare questa
definizione.
a) L'evidenza è il fulgore del vero. Essa in quanto illumina gli oggetti del pensiero, è agli occhi dello
spirito, ciò che il sole, illuminando gli esseri materiali, è agli occhi del corpo.
b) È questa trasparenza o chiarezza che determina in noi la adesione. Infatti è proprio della natura
dell'intelligenza di dare il suo assenso alla verità, quand'essa è chiaramente percepita. L'evidenza esercita
così sullo spirito una specie di coazione, per cui è impossibile per chi vede la verità di giudicare che non
la vede.
2. L'EVIDENZA È IL MOTIVO SUPREMO DELLA CERTEZZA - In altri termini, tutto ciò che è
evidente è necessariamente vero, e questo solo, è, di diritto, necessariamente evidente.
a) Tutto ciò che è evidente è vero. È ciò che provano la natura ed i caratteri dell'evidenza.
Prova per la natura dell' evidenza. Infatti, il criterio della verità è ciò che è ad un tempo necessario e
sufficiente perché lo spirito dia il suo assenso senza timore di errore. Ora tale è la evidenza dell'oggetto:
se essa è necessaria, essa è pure sufficiente, in quanto s'impone allo spirito con una chiarezza tale che il
dubbio riesce impossibile.
Prova mediante i caratteri dell'evidenza. L'evidenza è infatti: universale, ossia essa è il contrassegno
di ogni verità certa, comunque essa sia stata acquisita, e di qualsiasi ordine sia, e valida per tutti gli spiriti
che la vedono; - irreducibile, nel senso che essa basta assolutamente a se stessa, al punto che tutti gli altri
criteri di certezza, quali i primi princìpi della ragione, il senso comune, il consenso universale del genere
umano, ecc., traggono essi stessi la loro certezza dall'evidenza che è loro connessa. L'evidenza è a se
stessa la sua propria prova.
Da ciò deriva che l'evidenza non si deve dimostrare. È sufficiente mostrarla, così come non c'è
argomento per dimostrare che è giorno in pieno mezzogiorno: è sufficiente aprire gli occhi. Ne consegue
ancora che ogni dimostrazione consiste nel far brillare qualche evidenza agli occhi dello spirito.
b) Tutto ciò che è vero, e questo soltanto, è evidente. Dire che tutto ciò che è vero è evidente, non è
affermare che, rispetto a noi, tutte le verità siano attualmente evidenti. Il fatto della esistenza degli stati
d'ignoranza, di dubbio e di opinione dimostra invece il contrario. Ma questa asserzione significa che, in sé
e di diritto, la verità comporta il carattere essenziale di poter essere distinta dall'errore. Solo la verità gode
del privilegio dell'evidenza. Se è vero che vi sono delle evidenze illusorie (allucinazione, sonnambulismo,
ecc.), tuttavia altro non sono che delle illusioni di evidenza. Esse derivano da uno stato psichico anormale
mentre, nello stato normale delle facoltà sensibili, intellettuali e morali, solo la verità può imporsi a noi.
Così per premunirci contro le evidenze illusorie, dobbiamo praticare un'igiene fisica, intellettuale e
morale. È a questa condizione che, secondo il detto di Bossuet, “l'intelletto, liberato dai suoi vizi e
veramente attento al suo oggetto, non errerà mai”.
110 - 3. INSUFFICIENZA DEGLI ALTRI CRITERI - Che l'evidenza sia il criterio supremo della
verità risalta indirettamente ancora dall'insufficienza manifesta degli altri criteri che sono stati proposti
talvolta per sostituirla.
a) L'autorità. Alcuni filosofi hanno voluto fare, gli uni (fideisti: Guglielmo d’Ockam, Huet),
dell'autorità divina (rivelazione), gli altri (tradizionalisti: Lamennais, De Bonald), della tradizione
(consenso generale del genere umano), il criterio supremo della verità. Ma questa dottrina non può essere
ammessa, poiché il criterio dell'autorità è insufficiente in se stesso, giacché, per conoscere l'esistenza ed i
fondamenti dell'autorità, bisogna ricorrere ad un altro criterio, a meno che non si voglia credere
ciecamente, ciò che è indegno della ragione umana. Il criterio dell'autorità è altresì incompleto, giacché
non può estendersi alle certezze derivanti da una evidenza intrinseca.
b) L' istinto, cui s'appella Th. Reid, non supera il criterio supremo della verità, poiché esso non è né
infallibile, né universale. Si deve pure dire che esso non esiste sotto la forma d'una facoltà speciale,
chiamata “senso comune” da Reid e dalla scuola scozzese e ritenuta distinta dall'intelligenza. Il senso
comune è nient'altro che l'intelligenza nel suo esercizio naturale e spontaneo (9, 28). D'altronde, l'istinto
è ordinato al bene sensibile e non alla verità. E se è vero che noi abbiamo un certo “istinto del vero”,
questo non è nient'altro che la tendenza naturale dello spirito ad obbedire all'evidenza. In questo caso, il
termine istinto si usa piuttosto per analogia.
c) Il successo. Secondo il pragmatismo, difeso soprattutto da William James 107 il criterio della verità è
la fecondità pratica o il successo delle dottrine. È vero ciò che dà ottimi risultati, falso ciò che ha cattive
conseguenze. Ne consegue che ciò che è vero per l'uno può essere falso per l'altro o che una cosa può
essere successivamente vera o falsa per la stessa persona.
Questa teoria non può essere ammessa. Infatti, se è incontestabile che la fecondità pratica di una
dottrina può talvolta servire a confermare la sua verità (e così a servire da segno della sua verità), è pure
certo che il successo è insufficiente a garantire la verità di una dottrina. Spesso, le dottrine non possono
essere giudicate dai loro effetti che assai tardi rispetto al momento in cui esse sono state elaborate: in
questo caso, il criterio del successo sarebbe evidentemente poco pratico. D'altra parte, capita che, per
accidente, il vero abbia cattivi risultati o dei risultati apparentemente cattivi, e che il falso abbia
momentaneamente ottime conseguenze. (In realtà, il più delle volte, le grandi opere s'iniziarono con
l'insuccesso). Infine, come determinare che i risultati di una dottrina sono buoni o cattivi, perniciosi o
benefici, senza far intervenire un criterio diverso dal successo (sotto pena di circolo vizioso)? È dunque
impossibile fare del successo il criterio supremo della verità. Questo criterio supremo può essere dunque
solo quello dell'evidenza oggettiva.
CAPITOLO SECONDO
DEL METODO IN GENERALE
SOMMARIO 108
Art. I - NOZIONI GENERALI: Natura e importanza - Divisione - Il dubbio metodico.
Art. II - PROCEDIMENTI GENERALI DEL METODO. La dimostrazione: specie e principi - L'analisi e
la sintesi: natura e specie - Regole d'uso - Ruolo - Analisi e sintesi; sintesi e deduzione.
Art. I – Nozioni generali
A. NATURA E IMPORTANZA
111 - 1. DEFINIZIONE - Nel suo senso più generale, il metodo è l'ordine che bisogna imporre alle
differenti tappe necessarie per raggiungere un determinato fine. Se ci si pone dal punto di vista della
conoscenza, si dirà, con Cartesio, che il metodo è “il cammino da seguire nelle scienze per arrivare alla
verità”.
2. IMPORTANZA DEL METODO - Questa importanza è evidente. Il metodo ha per scopo di
disciplinare lo spirito, di escludere dalle sue investigazioni il capriccio ed il caso, di adattare lo sforzo a
corrispondere alle esigenze dell'oggetto, di determinare i mezzi di investigazione e l'ordine della ricerca.
Esso è dunque fattore di sicurezza e di economia.
Esso tuttavia non può bastare a se stesso e Cartesio esagera l'importanza del metodo quando dice che
le intelligenze differiscono soltanto per i metodi che esse utilizzano. Il metodo, al contrario, implica, per
essere fecondo, intelligenza e talento. Esso dà loro potenza, ma non li sostituisce mai.
B. DIVISIONE
112 - Si possono distinguere specie diverse di metodi. I principali sono i seguenti:
1. METODO D'INVENZIONE E METODO D'INSEGNAMENTO ­ Si dice talvolta che questi due
metodi si oppongono in quanto il primo procederebbe per induzione e il secondo per deduzione. In realtà,
se è vero che la scoperta avviene il più delle volte per induzione (o analisi) e l'insegnamento per
deduzione (o sintesi), l'inventore ed il maestro dovranno tuttavia utilizzare i due procedimenti. Insegnare
una scienza, è in un certo senso condurre l'allievo a scoprirla di nuovo per proprio conto. Parimenti,
scoprire equivale frequentemente a dedurre da una verità generale delle conseguenze inosservate.
2. METODO DI AUTORITÀ E METODO SCIENTIFICO
a) DEFINIZIONI. Il metodo di autorità è quello che, per fare ammettere una dottrina, si fonda
sull'autorità, ossia sul valore intellettuale o morale di colui che la propone o la professa. Esso di regola si
riscontra in materia di fede, in cui i misteri sono creduti sull'autorità di Dio rivelante. Il metodo scientifico
è quello che procede per dimostrazione e per ricorso all'evidenza intrinseca.
b) AUTORITA’ E RAGIONE. In realtà, il metodo di autorità fa, esso pure, appello alla ragione,
quando mostra che le verità da credere hanno delle garanzie così certe che la ragione può inchinarsi con la
certezza di non obbedire che alla forza della verità (evidenza estrinseca). Esso può dunque avere pure un
carattere scientifico.
Tuttavia, quando si tratta di autorità umana, se è prudente tener conto delle opinioni di coloro il cui
genio, le cui opere, le cui scoperte, la cui vita, esigono un universale rispetto, non ci si dovrà rassegnare
ad accogliere queste opinioni senza critica né riflessione. Questo era il metodo dei discepoli di Pitagora,
che si limitavano a dire, per provare le loro dottrine: “Il Maestro l'ha detto”. Ma questo metodo da un lato
condurrebbe al ristagno della scienza, e dall'altro finirebbe col conferire ad autorità umane una in fallibilità che non appartiene loro. Il ricorso all'autorità non può insomma intervenire che per guidare la
ricerca o per confermare delle asserzioni dimostrate in altro modo secondo le esigenze scientifiche. È
chiaro così che l'argomento d'autorità è, secondo l'espressione di San Tommaso, “il più debole di tutti”.
3. METODO SPERIMENTALE E METODO RAZIONALE - Il metodo sperimentale si appoggia sui
fatti dell'esperienza e non ammette altro criterio che quello della verifica (diretta o indiretta) attraverso
la stessa esperienza. Questo metodo è quello delle scienze della natura. Il metodo razionale è quello che
procede per induzione o deduzione, sul fondamento delle sole esigenze logiche e razionali. Tale è il
metodo delle matematiche, che partono da proposizioni ammesse a priori, a titolo di postulati o di
assiomi.
Si può distinguere ancora un metodo empirico-razionale, caratterizzato dal fatto di partire
dall'esperienza sensibile, tendente però ad oltrepassarla per raggiungere le realtà intelligibili (cause e
princìpi) implicati dall'esperienza, ma che possono essere colti unicamente attraverso l'induzione ed il
ragionamento. Questo metodo è per eccellenza quello della filosofia.
Bisogna evitare di formarsi un concetto univoco della esperienza, cioè tale da ammettere un solo tipo
di esperienza. Ciò che abbiamo definito positivismo o scientismo consisteva appunto nel ridurre ogni
esperienza a quella del fatto sensibile: grave errore tuttavia. Poiché l'esperienza è multiforme: oltre
l'esperienza sensibile, sulla quale si fondano tutte le scienze della natura, c'è un'esperienza morale,
un'esperienza metafisica, ed anche un'esperienza mistica, le quali, sotto riserva di una critica appropriata,
hanno, in quanto tali, una vera positività e giustificano l'impiego del metodo empirico­razionale 109.
4. METODI DI COSTRUZIONE E DI SISTEMAZIONE - Questi metodi tendono a facilitare
l'organizzazione del sapere in sistemi o teorie, in modo che la concatenazione delle idee riproduca quella
delle cose.
C. IL DUBBIO METODICO
113 - 1. NECESSITÀ DEL DUBBIO METODICO - Spesso si è detto che per sapere adeguatamente
è necessario saper adeguatamente dubitare. Infatti, essendo ogni scienza una credenza ragionata,
suppone al suo inizio uno stato in cui lo spirito sospende il suo assenso alle certezze spontanee, espunge i
suoi pregiudizi, allo scopo di cedere soltanto all'evidenza del vero. Questo è il dubbio metodico (o
critico).
2. FORME DEL DUBBIO METODICO.
Il dubbio metodico (o critico) deve essere universale, perché è proprio della filosofia porre in
discussione, e senza eccezione, tutte le certezze spontanee, anche quelle che sembrano le più ovvie, e
sviscerare il più possibile i postulati nascosti o impliciti che governano le nostre credenze e le nostre
convinzioni, anche se spesso ne siamo inconsapevoli.
Però, secondo un altro punto di vista, sarebbe giusto dire che il dubbio critico non può essere
universale, perché ci sono evidenze (come quella della mia esistenza o quella dei princìpi primi della
ragione) che non possono, in alcun modo, essere messe in dubbio. Ma, d'altra parte, come abbiamo
osservato (109) è sempre vero che anche queste evidenze devono essere sottoposte alla verifica della
riflessione 110. Anche l'evidenza, per il filosofo, deve essere in un certo senso una conquista dello spirito
(e, per esempio, lo è in quanto egli diviene cosciente che l'evidenza della sua esistenza o quella dei
princìpi primi è implicata nella loro stessa negazione).
E così, anche sotto quest'aspetto, il dubbio critico riacquista la sua universalità di diritto.
Art. II - Procedimenti generali del metodo
114 - Tutti i metodi scientifici, per quanto diversi essi siano tra loro, attuano dei procedimenti comuni
costituenti il metodo generale della scienza. Questi procedimenti sono, da un lato la dimostrazione,
dall'altro l'analisi e la sintesi. In realtà, l'analisi e la sintesi sono esse pure semplicemente strumenti della
dimostrazione.
§ l - La dimostrazione 111
1. CONCETTO - In generale, dicesi dimostrazione ogni ragionamento che si fonda su princìpi certi e
che conduce ad una conclusione certa. In un senso più ristretto, la dimostrazione è, secondo l'espressione
di Aristotele, il sillogismo del necessario, ossia un sillogismo composto di proposizioni necessarie e
generante la scienza propriamente detta o conoscenza per cause.
115 - 2. SPECIE DELLA DIMOSTRAZIONE - La dimostrazione, nel senso largo della parola, può
essere:
a) Razionale o sperimentale. La dimostrazione razionale si appoggia su giudizi analitici (59). La
dimostrazione sperimentale si appoggia su verità di esperienza o giudizi sintetici. Abbiamo visto (112)
che c'è pure un tipo di dimostrazione mista, che si chiama empirico-razionale.
Correntemente ci si serve dei termini di dimostrazione a priori e di dimostrazione a posteriori. In
realtà questa divisione rientra nella precedente. Si dice che la dimostrazione è a priori, quando essa si
compie per mezzo della causa intrinseca ovvero di quella efficiente: si dimostra a priori che i raggi del
cerchio sono uguali tra loro, oppure che il mondo è ordinato in quanto procede da un Dio sommamente
sapiente. La dimostrazione è a posteriori quando essa risale dagli effetti alla causa: ad es., il
ragionamento che prova l'esistenza di Dio dall'ordine del mondo.
Aristotele e gli Scolastici designano con i nomi di dimostrazione propter quid e quia quelle che i
moderni chiamano razionale e sperimentale. La dimostrazione propter quid (perché) è quella che si fa
dall’essenza della cosa o dalle sue proprietà necessarie: così si dimostra che l'uomo è capace di ridere
poiché egli è un animale ragionevole. La dimostrazione quia (che) prova soltanto che la cosa è,
fondandosi sui suoi effetti dati nell’esperienza: tale è la dimostrazione dell'esistenza di Dio. È evidente
che la dimostrazione propter quid è la più perfetta, poiché essa ci permette di sapere, non solamente che
la cosa è così, ma ancora il perché è così.
b) Diretta o indiretta. La dimostrazione diretta va diritto alla conclusione e la stabilisce formalmente.
Così il ragionamento: Dio esiste, poiché egli è la causa prima e poiché il mondo e l'uomo non potrebbero
ricevere alcuna spiegazione valida senza di Lui. La seconda raggiunge il suo scopo per vie indirette. Tale
è la dimostrazione per assurdo: così proveremo l'impossibilità dello scetticismo dalle assurdità a cui
conduce.
c) Assoluta o ad hominem. Dicesi dimostrazione assoluta quella che basta a se stessa e vale di diritto
per tutti gli spiriti. Così la prova dell'esistenza di Dio per mezzo della contingenza del mondo. La
dimostrazione ad hominem parte da princìpi ammessi da colui al quale essa si rivolge, anche se questi
princìpi sono discutibili, allo scopo di fargli ammettere una conclusione contraria alla sua tesi. Così si
argomenta contro lo scettico, che pretende che nulla sia vero: ammettiamo che nulla sia vero, vi è dunque
questo di vero, che nulla è vero. Questo genere di argomento, facilmente efficace, è poco dimostrativo.
d) Deduttiva o induttiva, secondo che essa proceda per deduzione o induzione, per sintesi o analisi.
116 - 2. PRINCÌPI DELLA DIMOSTRAZIONE - Dicesi principio, in generale, ciò da cui una cosa
procede o deriva ad un titolo qualsivoglia. Un principio può essere prossimo o remoto secondo che
dipenda o no da un principio superiore. La dimostrazione si appoggia sui princìpi formali (o princìpi
primi) della conoscenza come princìpi remoti e sui princìpi materiali (definizioni e postulati) come
princìpi prossimi.
a) I princìpi formali. Ogni dimostrazione. in generale, deve rispettare i princìpi primi della conoscenza, che sono, innanzitutto, le leggi fondamentali dell'essere: principio di non contraddizione, princi-
pio di ragion sufficiente. In realtà, ogni dimostrazione, qualunque essa sia, si compie sotto la luce e la
garanzia dei primi princìpi, poiché ogni dimostrazione consiste nel provare, sia che “ciò è necessariamente”, sia che “ciò è necessariamente tale”.
È chiaro così in quale senso si possa affermare che ogni dimostrazione si fonda sui primi princìpi,
evidenti per se stessi e di conseguenza indimostrabili. Questi princìpi sono la garanzia universale del
sapere. Se non si potesse mai raggiungere una proposizione evidente per se stessa, nessuna dimostrazione
sarebbe certa, ossia non ci sarebbe la possibilità di dimostrazione né di scienza. Senza dubbio, non è
necessario che ogni ragionamento parta esplicitamente da un principio per sé evidente; ma bisogna che la
proposizione da cui parte la dimostrazione sia sempre riducibile, immediatamente o mediatamente, ad un
principio primo evidente per sé.
Si può dunque dire che ogni scienza si fonda su di una intuizione, ossia sulla conoscenza diretta e
immediata di verità che si impongono allo spirito per la loro stessa luce.
b) I princìpi materiali. Ciascuna scienza particolare ha i propri princìpi, che enunciano, sia la natura
degli oggetti ai quali si riferiscono la scienza e le sue dimostrazioni (definizioni), sia proposizioni generali
destinate a servire da punto di partenza alle dimostrazioni, proposizioni che si richiede siano concesse
(postulati).
Le definizioni iniziali non sono prove: esse servono soltanto a precisare gli oggetti (cose o nozioni) di
una scienza. Tuttavia, a questo titolo, esse sono indispensabili per evitare gli equivoci generati dall'uso di
termini mal definiti, che vengono presi successivamente in sensi differenti (93). Al contrario, è evidente
che vi sono alcuni termini o alcuni oggetti così chiari per se stessi da render più conveniente l'attenersi
all'intuizione immediata di essi (51).
I postulati, per definizione, non sono dimostrabili dalla scienza che ne fa uso. Ma ciò non significa
che essi siano assolutamente indimostrabili. C'è un ordine tra le scienze, in virtù del quale una scienza
superiore fornisce alle scienze inferiori (subalterne) i princìpi propri da cui esse partono e che per esse, al
livello particolare del sapere in cui esse si mantengono, altro non sono che dei postulati. In realtà, tutte le
scienze particolari, così sospese ai postulati, o princìpi che esse non dimostrano, apportano certezza
scientifica solo nella misura in cui questi postulati sono essi stessi dimostrabili e dimostrati da una
scienza superiore, o coincidenti con assiomi evidenti per sé. Allorché i postulati sono semplici ipotesi
(come avviene nel campo delle scienze sperimentali) o definizioni dissimulate, ovviamente tutta la
scienza che ne dipende conserva in blocco (almeno come sistema) il carattere ipotetico (o convenzionale)
del suo punto di partenza.
Pascal (De l'art de persuader, sezione II del “Frammento dello spirito geometrico”, ed. Brunschvicg,
p. 190) riassume nella seguente maniera le regole di una dimostrazione valida in sé ed insieme capace di
produrre la convinzione.
“Regole necessarie per le definizioni. - Non omettere alcuno dei termini un po' oscuri o equivoci,
senza definizione. Non usare nelle definizioni che termini perfettamente conosciuti o già spiegati.
“Regole necessarie per gli assiomi. - Erigere in assiomi solo cose perfettamente evidenti.
“Regole necessarie per le dimostrazioni. - Dimostrare tutte le proposizioni, usando a loro prova solo
assiomi molto evidenti per sé, o proposizioni già dimostrate o concesse. Non mai abusare dell'equivoco
dei termini, trascurando di sostituire mentalmente le definizioni che li restringono o li spiegano.
“Ecco le cinque regole che costituiscono quanto è necessario per rendere le prove convincenti,
immutabili e, in una parola, geometriche...”.
§ 2 - L'analisi e la sintesi 112
1. CONCETTO
117 - a) Analisi e divisione. Sintesi e addizione. Ciò che noi stiamo dicendo della dimostrazione
mostra che questa sarebbe impossibile senza analisi e sintesi. Infatti, la dimostrazione, nel senso proprio
del termine, si fonda sul necessario, ossia sull'essenza o proprietà delle cose. Ora, si giunge alla
conoscenza precisa delle essenze o nature e delle proprietà soltanto per mezzo dell'analisi, ossia per
mezzo di una operazione tendente a discernere in un tutto complesso ciò che è essenziale e ciò che è
accidentale. La sintesi si aggiunge all'analisi come un mezzo di verifica dei risultati dell'analisi.
L'analisi è dunque una divisione, metafisica o fisica, e la sintesi una composizione, metafisica o fisica
(52). Ma la consuetudine tende a far riservare il nome di analisi a queste specie della divisione ed il nome
di divisione alla distribuzione di un tutto in frammenti o parti integranti (esso potrà essere ricostituito con
un procedimento che sarà, non una sintesi, ma una addizione). Per es., si divide una sbarra di ferro in
frammenti omogenei e la si ricompone alla forgia con questi frammenti. In altri termini, l'analisi e la
sintesi mirano a stabilire rapporti e funzioni, mentre la divisione e la addizione hanno rapporto con la
quantità e si esprimono con un numero: l'acqua = H2O (analisi); l'acqua di questo serbatoio = 1.000 litri
(divisione).
b) Definizioni. Si definirà dunque in generale l'analisi come risoluzione di un tutto nelle sue parti o
come passaggio dal complesso al semplice, e la sintesi come composizione consistente nell'andare dalle
parti al tutto o come passaggio dal semplice al complesso.
118 - 2. SPECIE - Si distinguono due specie di analisi e di sintesi.
a) Analisi e sintesi reali o sperimentali. Esse consistono nell'andare dal composto agli elementi
componenti, oppure dagli elementi al tutto complesso che essi compongono. Esse concernono dunque
l'essere reale. Però non sono sempre attuabili fisicamente: si può scomporre l'acqua in O e 2H e
ricomporla nell'eudiometro partendo da O e 2H; ma l'anima nelle sue facoltà o un atto volontario nei suoi
elementi costitutivi non si possono scomporre che mentalmente.
b) Analisi e sintesi razionali. La prima va dagli effetti alle cause, dai fatti alle leggi che li reggono,
dalle idee meno generali alle più generali (per esempio dall'individuo alla specie, dalla specie al genere).
La seconda va dai princìpi alle conseguenze, dalle cause agli effetti, dalle idee più generali alle meno
generali. Esse si estendono di conseguenza sugli enti ideali o logici e non possono attuarsi che
mentalmente. Esse sono utilizzate soprattutto nelle matematiche e in filosofia.
3. REGOLE D'USO - Cartesio ha riassunto, nel Discours de la Méthode, le regole d'uso dell'analisi e
della sintesi. Queste regole sono le seguenti:
a) L'analisi dev'essere completa. Essa deve infatti tendere a distinguere con la maggior precisione
possibile tutti gli elementi che compongono l'oggetto studiato, sia che questo oggetto sia mentale, o
ideale, o fisico, come l'acqua.
b) La sintesi dev'essere graduale. “Condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più
semplici e più facili a conoscersi, per salire gradatamente fino alla conoscenza dei più composti”. Vale a
dire che bisogna sempre, per riferimento all'analisi interiore, ricomporre l'oggetto secondo l'ordine che
stabilisce un legame di dipendenza e quasi una gerarchia tra gli elementi componenti.
119 - 4. FUNZIONE DELL'ANALISI E DELLA SINTESI
a) Metodo di scoperta e di insegnamento. La scuola di Port-Royal (Logique, 4.a parte, c. II, in Oeuvres
complètes de Arnauld, 43 voll., Parigi-Losanna, 1775-83) definisce l'analisi come un metodo di
invenzione e la sintesi come un metodo di dottrina, cioè di insegnamento. L'analisi è infatti una induzione
(91), ossia un procedimento che consiste nel passare da ciò che è dato all'esperienza sensibile o alla
ragione, ai princìpi (essenze, nature, cause o leggi) che vi sono contenute implicitamente. Essa è dunque
essenzialmente uno strumento di scoperta, facendo passare dall'implicito all'esplicito, dal conosciuto
all'ignoto. (È analizzando l'esperienza della caduta di una mela che Newton ha scoperto la legge della
gravitazione universale). In compenso, se si tratti di dimostrare una proposizione, si procederà per sintesi
dimostrando come si giunge a stabilirla partendo dai princìpi che essa suppone. Così procedono le
matematiche per la dimostrazione dei teoremi. Così si dimostra che l'acqua si scompone in O e 2H e che
la sua composizione nell'eudiometro si effettua partendo da O e 2H.
Tuttavia, in certi casi avviene che l'analisi serva a insegnare e la sintesi a inventare. Nelle scienze della
natura, la sintesi è spesso uno strumento di scoperta, in quanto fa scoprire nelle leggi o teorie delle
conseguenze nuove. Così pure l'analisi può essere un utile procedimento di insegnamento, poiché pone
sotto agli occhi i procedimenti mediante i quali l'invenzione ha avuto luogo e poiché studiandola fa
riscoprire in qualche modo la verità o la legge in questione (112).
b) Controllo reciproco. Analisi e sintesi devono andare insieme, poiché esse si controllano l'una l'altra.
L'analisi usata da sola rischierebbe di condurre a temerarie semplificazioni. Il ricorso esclusivo alla sintesi
tenderebbe dal canto suo a favorire le costruzioni premature e arbitrarie. L'analisi aiuterà dunque a
preparare delle sintesi obbiettive ed a correggere le sintesi artificiose. La sintesi permetterà di verificare
se l'analisi è stata completa.
120 - 5. ANALISI E INDUZIONE. SINTESI E DEDUZIONE ­ Si può ora precisare in che cosa
rassomiglino e differiscano l'analisi e l'induzione, la sintesi e la deduzione. Da un lato, è evidente che
l'induzione è una specie di analisi, in quanto scompone l'oggetto complesso dato all'esperienza, al fine di
cogliere in esso l'essenza, la natura, la causa, il principio o la legge. Nei due casi, il processo è dunque
regressivo, ossia esso è l'inverso dell'ordine naturale, secondo il quale le parti, reali o logiche, sono
(almeno logicamente) anteriori al tutto, il semplice anteriore al complesso. D'altra parte, la deduzione è
una specie di sintesi, in quanto procede dai princìpi alle conseguenze, il che è una composizione, ossia un
processo progressivo, conforme all'ordine naturale delle cose.
Tuttavia, da qui non bisognerebbe inferire che ogni analisi sia una induzione ed ogni sintesi una
deduzione. Induzione e deduzione non sono che tipi dell'analisi e della sintesi, poiché c'è un gran numero
di analisi e di sintesi che non sono ragionamenti: senza parlare delle analisi e sintesi sperimentali, si
vedrà che l'atto di astrarre, se è un'analisi, non è un ragionamento e dipende dall'intuizione; così pure, il
giudizio, che è una sintesi, non è un ragionamento deduttivo, ma un semplice atto dello spirito (54).
CAPITOLO TERZO
LA SCIENZA E LE SCIENZE
SOMMARIO 113
Art. I - CONCETTO DI SCIENZA. Scienze di spiegazione e scienze di constatazione - Non c'è scienza
che del generale e del necessario - Scienze speculative e scienze pratiche.
Art. II - ORIGINE E FINE DELLA SCIENZA. La legge dei tre stadi, di Augusto Comte - Teoria
biologica - L'avvento delle scienze positive - Lo spirito scientifico - Lo spirito positivo.
Art. III - CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE. Aristotele - Bacone - Augusto Comte - Significato e
portata della classificazione - La gerarchia e l'unità delle scienze.
Art. I – Concetto di scienza
121 - 1. DEFINIZIONE - Noi dobbiamo qui precisare la nozione della scienza data all'inizio di questo
libro 1. Il termine di scienza può essere inteso da un punto di vista oggettivo e da un punto di vista
soggettivo.
a) Oggettivamente, la scienza è un insieme di verità certe e logicamente concatenate tra loro, in modo
da formare un sistema coerente. A questo titolo la filosofia è una scienza come pure la fisica o la chimica.
Persino, in un certo senso bisogna dire che essa risponde meglio, di diritto, all'idea della scienza che le
scienze della natura, poiché essa usa princìpi più generali e si sforza di scoprire la ragione universale di
tutto il reale.
b) Soggettivamente, la scienza è la conoscenza certa delle cose attraverso le loro cause e le loro leggi.
La ricerca delle cause propriamente detta (o del perché delle cose) spetta principalmente alla filosofia. Le
scienze della natura si limitano a ricercare le leggi che governano la coesistenza o la successione dei
fenomeni (o ricerca del come). In un altro senso, che è il principale, la scienza è una qualità che
perfeziona intrinsecamente l'intelligenza relativamente ad un campo del sapere, permettendole di operare
facilmente, sicuramente e con gioia.
122 - 2. SCIENZE DI SPIEGAZIONE E SCIENZE DI CONSTATAZIONE - Bisogna ben capire la
differenza considerevole che c'è tra le scienze del perché e le scienze del come. Le prime, che forniscono
la scienza nel senso proprio del termine, sono ordinate a determinare la causa propria o la ragione
propria di ciò che ciascuna cosa è. Ciò sta a dire, come si è visto nello studio della dimostrazione, che
esse concernono l'essenza delle cose (reale o ideale), al fine di scoprire quali sono le proprietà o le
conseguenze che ne derivano necessariamente. Le scienze del perché conducono così a formulare
rapporti essenziali in cui si esprimono propriamente le leggi metafisiche, fisiche o morali del reale e la
cui conoscenza è principio di certezza perfetta. Senza dubbio, la conoscenza delle essenze non è sempre
possibile e lo spirito deve spesso accontentarsi di sostituti dell'essenza o della causa propria, cioè di
proprietà più o meno fondamentali. In questo caso, la scienza è imperfetta, ma corrisponde ancora alla
nozione propria di scienza, in quanto rimane una conoscenza per cause. Tutte le scienze di questo tipo
costituiscono il campo delle scienze di spiegazione.
C'è un altro campo, che è quello della constatazione. Le scienze di questa categoria non si dirigono più
al perché o all'intelligibilità essenziale, ma solamente al come, ossia esse si sforzano di determinare, non
più le cause propriamente dette, ma le leggi secondo cui differenti fenomeni si trovano costantemente
associati tra loro, per coesistenza o successione. Tali sono le scienze della natura, chiamate altresì
scienze sperimentali o positive. Dal loro punto di vista, l'idea di causa (termine di cui queste scienze si
servono ancora in un senso largo) si riduce a quella di un fenomeno o di un insieme di fenomeni condizionante regolarmente l'apparizione di un altro fenomeno o gruppo di fenomeni. La causa è dunque ricondotta alla condizione o determinazione del come dei legami fenomenici, formulata con una legge che è
soltanto un fatto astratto o generale, una constatazione e non una spiegazione. Che i corpi si attraggano in
ragione diretta della loro massa e in ragione del quadrato della loro distanza, ciò è sempre un puro fatto,
come pure l'enunciazione della legge di propagazione della luce in ragione di 300.000 Km. al secondo. Se
si vogliono tuttavia trovare delle spiegazioni nelle leggi, è chiaro che queste si trovano ad un livello
d'intelligibiltà del tutto diverso da quello delle scienze di spiegazione o del perché: esse non tendono che
ad una intelligibilità funzionale, propriamente quella dell'ordine e della relazione, non quella dell'essere,
come tale.
123 - 3. NON C'È SCIENZA CHE DEL GENERALE E DEL NECESSARIO - Ciò risulta dalla
definizione stessa della scienza e ciò rimane vero per ogni scienza, sia essa del perché o del come.
a) La scienza ha per oggetto il generale. Ogni scienza che ha per oggetto di scoprire le cause e le
leggi, è, per ciò stesso, conoscenza di ciò che di più generale c'è nel reale. L'individuo o l'individuale,
come tale, non è e non può essere oggetto della scienza propriamente detta, ma unicamente della
conoscenza intuitiva, sensibile o intellettuale.
Ne consegue che c'è scienza unicamente dell'astratto. Qui, è opportuno distinguere due specie di
astrazione. L'astrazione formale è quella per cui si astrae una forma (o essenza) da una materia (o
soggetto). Per esempio, le idee di quantità, di candore, di virtù, sono degli astratti formali, in quanto la
quantità, il candore, la virtù sono considerati in se stessi, indipendentemente dai loro soggetti.
L'astrazione totale è quella per cui si astrae un tutto universale o logico dalle sue parti soggettive (52).
Così l'idea di animale (considerata fuori dalle sue parti soggettive: leone, cane, cavallo, ecc.) è frutto di
una astrazione totale. Le scienze differiscono tra loro per la natura della loro astrazione formale. Noi
sappiamo già che questa astrazione può comportare tre gradi essenziali, che permettono di distinguere tre
tipi di scienze speculative: fisiche, matematiche, metafisiche (21).
b) La scienza ha per oggetto il necessario. Infatti, le cause e le leggi che essa coglie sono realtà o
rapporti metafisicamente, fisicamente o moralmente necessari, ossia tali che il reale, metafisico, fisico o
morale sarebbe inintelligibile senza di essi. Pure da questo punto di vista, non c'è scienza dell'individuale,
poiché l'individuale (o l'esistenziale) come tale, è contingente (ossia potrebbe non essere).
Pure quando si tratta di scienze positive, c'è ragione di sostenere che anch'esse in un certo modo
poggiano sul necessario. I legami fenomenici che sono l'oggetto di queste scienze, sono in realtà concepiti
come necessari, non però nel senso che debba essere conosciuta e definita la ragione propria della loro
necessità, ma nel senso che la loro costanza è per la scienza un segno della loro necessità, colta da
questo punto di vista come un fatto empirico o come un dato sperimentale. Le leggi scientifiche appaiono
così come sostituti dell'essenza o come segni o simboli di una necessità che rimane oltre la portata e le
ambizioni della ricerca scientifica. Esse forniscono con ciò una intelligibilità relativa ed una spiegazione
simbolica 114.
c) In quale senso l'individuale ed il contingente siano oggetti di scienza. L'asserzione che c'è scienza
solo del generale e del necessario non significa che la scienza non verta sul contingente e sull'individuale,
ma solamente che essa rileva, nel contingente e nell'individuale, ciò che è universale e necessario, cioè le
leggi cui essi obbediscono, le cause da cui dipendono, le essenze che li definiscono come parti di una
specie o di un genere.
124 - 4. SCIENZE SPECULATIVE E SCIENZE PRATICHE ­ Ogni scienza è una conoscenza per
cause. Di conseguenza, la divisione delle scienze in speculative (o teoriche) e pratiche non fa che
distinguere due differenti fini del sapere scientifico. Le scienze speculative cercano il sapere per il
sapere, esse aspirano alla verità per se stessa; le scienze pratiche cercano il sapere in vista dell'azione.
(Questa distinzione vale indipendentemente dai fini personali dello scienziato. La natura del sapere
matematico non è mutata da teoria in pratica, anche se Pietro coltiva le matematiche solo per raggiungere
una posizione migliore).
Le scienze pratiche hanno dunque per oggetto formale la conoscenza delle cose o degli atti da
compiere in quanto tali. Si distinguono le scienze speculativamente pratiche, quelle che concernono i
princìpi dell'azione (morale, medicina teorica), e le scienze praticamente pratiche, quelle che vertono sui
casi concreti e singoli (casistica morale, medicina pratica).
5. LE SCIENZE DELLA NATURA - Queste scienze sono discipline particolari, che si occupano dei
differenti campi del reale. Il loro numero è indefinito e continuano a moltiplicarsi a mano a mano che lo
studio della natura riesce a mettere in evidenza la complessità dei fenomeni naturali.
Si possono tuttavia distinguere, tra le scienze della natura, grandi categorie che comportano
suddivisioni più o meno numerose. La classificazione delle scienze ha per oggetto la determinazione e
l'ordinamento logico di questi gruppi o categorie.
Art. II - Origine e fine della scienza. Lo spirito scientifico
§ 1 - Origine e fine della scienza
125 - Il problema dell'origine della scienza, che per il positivismo si ricollega arbitrariamente alla
questione della genesi dei metodi sperimentali, ritenuti tali da fornire il modello di ogni scienza, si
presenta in realtà sotto un duplice aspetto. Si tratta infatti di spiegare innanzi tutto il passaggio dalla
conoscenza empirica al pensiero scientifico, caratterizzato dallo sforzo della spiegazione causale rigorosa,
in secondo luogo l'avvento delle scienze positive nel XVII secolo.
1. IL PASSAGGIO DALL'EMPIRISMO ALLA SCIENZA - Il positivismo per spiegare la genesi del
pensiero scientifico ha proposto diverse teorie che derivano per una buona parte dalla mitologia.
a) La legge dei tre stadi. La prima in ordine di tempo, di queste teorie si esprime nella cosiddetta
“legge dei tre stadi”, formulata da Augusto Comte nel suo Discours sur l'esprit positif. Secondo questo
filosofo, il pensiero umano sarebbe passato attraverso tre stadi successivi: lo stadio teologico, in cui
l'uomo “si rappresenta i fenomeni come prodotti dall'azione diretta e continua di agenti soprannaturali
più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega tutte le apparenti anomalie dell'universo”, - lo
stadio metafisico, in cui gli agenti soprannaturali cedono il posto alle entità o qualità astratte, come la
“leggerezza”, la “gravità”, “l'orrore del vuoto”, il “luogo naturale”, ecc. - infine lo stadio positivo,
caratterizzato dalla ricerca delle leggi dei fenomeni, cioè delle loro relazioni costanti, e così pure
dall'abbandono di ogni sforzo di determinare “le cause intime dei fenomeni”.
Ai nostri giorni, la Scuola sociologica, con Émile Durkheim, ha voluto dare a queste vedute di Comte
un fondamento storico, tentando di provare che le nozioni scientifiche fondamentali (causa, forza, legge,
ecc.) sono state inizialmente di natura religiosa. È così che l'idea di forza si confondeva originariamente
con quella di mana o energia cosmica diffusa ovunque e principio universale di attività e di efficacia 115.
Queste teorie sono soltanto speciose e nascondono molta confusione. Innanzitutto, la legge di
successione formulata da Augusto Comte non ha fondamento storico, poiché sta di fatto che ancor oggi
teologia, metafisica e scienza positiva, non solamente coesistono, ma appaiono altresì tutte e tre
rigorosamente richieste per la spiegazione completa del reale. Questa coesistenza d'altronde non è un fatto
nuovo. Le civiltà dette primitive, possiedono, per lo meno sotto un aspetto embrionale, simultaneamente
le tre forme di pensiero descritte da Augusto Comte. D'altra parte, non c'è continuità reale dal pensiero
teologico al pensiero positivo. poiché le due forme di spiegazione non sono sullo stesso piano. La prima
non poteva in alcun modo dare origine all'altra, nemmeno tramite il pensiero metafisico. Tutte tre
procedono da un identico bisogno fondamentale di spiegare il reale, ma implicano concezioni radicalmente diverse dell'efficacia causatrice. Perciò esse sono potute sussistere insieme senza confondersi e
completandosi scambievolmente. Nel Medioevo, pensatori preoccupati dei problemi teologici come
furono Alberto Magno e Ruggero Bacone appaiono solleciti di trovare spiegazioni positive dei fenomeni,
come presso i Greci aveva fatto Aristotele. San Tommaso, dal canto suo, dichiara che la ricerca delle
cause seconde o naturali è il primo passo del pensiero scientifico. Nel XVII secolo, Cartesio, fondatore
del pensiero positivo, è nello stesso tempo teologo e metafisico come i suoi predecessori medievali. I tre
stadi di Augusto Comte sono dunque piuttosto tre forme di pensiero o di spiegazioni distinte che tre stadi
successivi.
È opportuno rilevare, per dare il suo valore alla legge di Augusto Comte, che c'è un senso in cui in
realtà la spiegazione qualitativa è respinta dalla spiegazione positiva: ciò è avvenuto ed avviene ancora
ogni volta che la fisica delle qualità si presenta con la pretesa di fornire la soluzione di problemi in cui
può valere unicamente la conoscenza quantitativa. G. Bachelard (La Formation de l'esprit scientifique,
Parigi, 1938) ha dimostrato, con dovizia di documenti, che questo spirito pre­scientifico ha regnato fino
all'inizio del XIX secolo. La stessa fisica cartesiana rimane per lungo tempo una fisica matematica senza
matematiche, tale da tollerare, pure presso Cartesio, tutte le intrusioni della qualità in un campo in cui, per
principio, valgono soltanto la quantità e la misura. Lo spirito positivo si è così affermato solo lentamente
e faticosamente. Da questo punto di vista, le osservazioni di Comte rimangono esatte. Ma l'errore di
Comte è di assimilare alla metafisica delle spiegazioni animistiche o qualitative che non hanno alcuna
comunanza di natura con quella e di escludere così ogni specie di spiegazione teologica e metafisica. In
realtà, il sapere positivo non esclude né la teologia né la metafisica: l'una e l'altra sono necessarie nel loro
grado per una spiegazione totale dell'universo. Il sapere positivo esclude soltanto gli pseudo­razionalismi,
i tipi di spiegazione qualitativa che pretendono di sostituirsi al sapere positivo e che d'altronde non hanno
alcun titolo per proporsi come metafisiche 116.
126 - b) Teoria magica. Una opinione molto diffusa fa nascere la scienza dalla magia primitiva, ossia
delle pratiche di natura mistica per cui l'uomo crede di possedere il potere di esercitare una influenza
occulta, anormale e costrittiva sulle cose o sul corso degli avvenimenti. Questa opinione, già proposta da
Augusto Comte, è stata ripresa e difesa dall'etnologo inglese James Frazer (The Golden Bough, 3a ed., 12
voll., Londra, 1911-15; Il ramo d'oro - Storia del pensiero primitivo - Magia e Religione, Torino, 1950).
A ben considerare le cose, egli dice, la magia è la prima forma di credenza nel determinismo universale,
che è il fondamento della scienza. Il mago infatti crede che le stesse cause producano infallibilmente gli
stessi effetti: il rito, accuratamente esercitato, deve produrre il risultato desiderato: l'antecedente è
necessariamente seguito dal conseguente. D'altra parte, magia e scienza perseguono evidentemente lo
stesso scopo, che è quello di dominare la natura e di asservirla ai fini dell'uomo. È per questo che la magia
si è sforzata di scoprire i rapporti nascosti delle cose ed è riuscita, sotto le forme mistiche e grossolane
che le sono proprie, a svelare dei segreti che sono entrati nel sapere positivo ed hanno costituito il primo
stadio della scienza. (Cfr. Lévy-Brühl, Les fonctions mentales dans les sociétés inferieures, Parigi, 1910).
Non c'è dunque nulla di assurdo nell'ammettere che la chimica derivi dalla alchimia, l'astronomia
dall'astrologia, la medicina dall'arte dei filtri e dei veleni, l'aritmetica dalla speculazione sui numeri
magici, ecc. Se la magia non è l'ava della scienza, essa ne è almeno “la sorellastra”, poiché l'una e l'altra
sono semplicemente manifestazioni diverse di uno stesso spirito e di un'identica ambizione.
Questa tesi è tra le più discutibili. Si noterà innanzitutto che quanto v'è di esatto nella magia non è
magico. Infatti, la magia può coinvolgere un sapere sperimentale e mettere in opera tecniche ingegnose e
sicure: essa tuttavia non perciò mostra di non dipendere da un principio ben diverso da quello che regge il
sapere positivo e le tecniche meccaniche. La prova ne è che la ragione per ammettere ciò che è sperimentale e vero non è, per il mago, di ordine positivo, bensì di ordine mistico. Se, ad esempio, il veleno (in
realtà, espertamente scelto e preparato) provoca la morte, il mago l'attribuirà, non all'azione propria del
veleno, ma alla magia mistica dell'incantesimo. Così si vede come gli insuccessi della magia non la fanno
progredire (se il rimedio non ha prodotto l'effetto atteso, il mago penserà più ad un intervento di una
contro-magia che a controllare la preparazione della bevanda), mentre la scienza trae costantemente
profitto dagli insuccessi. In realtà, se le conoscenze, spesso molto vaste e precise, degli stregoni in
materia di veleni e di rimedi, sono rimaste empiriche e stazionarie, ciò è soprattutto perché sono rimaste
paralizzate dalle credenze magiche, che attribuivano il successo (o l'insuccesso) delle operazioni, non ai
rimedi od ai veleni stessi, ma alle pratiche della magia. In secondo luogo, conviene osservare molto più
che una semplice differenza tra lo spirito della magia e lo spirito della scienza: una reale opposizione.
Infatti, le leggi scientifiche derivano dall'esperienza e implicano un controllo, mentre le “leggi magiche”
dipendono da una causalità mistica ed escludono ogni sorta di verifica positiva. Questa opposizione di
spirito è agevolmente osservabile nella differenza dei climi in cui si sviluppano scienza e magia: mentre
la scienza si sforza di eliminare tutto ciò che è affettività, emotività e di ricorrere soltanto al calcolo ed
alla misura, la magia invece tende a produrre emozione ed illusione e rimane estranea a tutto ciò che è
misura e calcolo. È infine errato presumere che la magia e la scienza perseguano uno stesso fine: in realtà,
come abbiamo già visto, lo scopo della scienza, come tale, è semplicemente di sapere per sapere; essa
procede innanzitutto da una curiosità disinteressata, mentre invece la magia, indifferente al sapere, è
completamente interessata e cupida. Aggiungiamo che la teoria che pone all'origine della civiltà un'età
della magia pura è al giorno d'oggi molto contestata ed appare persino decisamente una falsificazione 117.
127 - c) Teoria biologica. Molti filosofi hanno voluto riscontrare nei bisogni vitali o nelle necessità
pratiche della vita la spiegazione della genesi delle scienze. Per quanto lontano noi risaliamo nel corso
della storia, vediamo gli uomini provvisti di tecniche diverse, dapprima rudimentali, poi perfezionantisi e
differenziantisi a poco a poco in un progresso continuo, così che Bergson ha potuto scrivere che “l'intelligenza, esaminata in ciò che appare essere il suo processo originario, è la facoltà di costruire oggetti artificiali, in particolare degli strumenti” (Évolution créatrice, Parigi, 1907, p. 151). Di qui sarebbe nata la
scienza, come un mezzo per mettere al servizio dell'uomo, in un modo sempre più efficace ed ampio, le
energie e le ricchezze della natura 118.
La storia delle scienze, si aggiunge, sembra proprio testimoniare in questo senso. Essa ci mostra che
l'aritmetica è nata dal calcolo, la geometria dall'agrimensura pratica degli Egiziani, l'astronomia dalle
osservazioni utilitarie dei Caldei, ecc. Anche oggi, i bisogni vitali, costantemente accresciuti, stimolano
senza sosta i ricercatori e producono per mezzo di questo sprone nuove scoperte: i progressi dell'anatomia
e della fisica derivano dalle esigenze della medicina; le scoperte di Pasteur sono legate allo sforzo di
sollevare l'umanità dai suoi mali. Di più, il progresso delle tecniche favorisce senza posa l'avanzamento
delle scienze: l'incisione dei vetri, l'invenzione del microscopio sono stati la fonte di immense scoperte
che a loro volta hanno generato nuove tecniche e perciò ancora nuove scoperte.
Questa teoria biologica contiene una buona parte di verità, ma puramente materiale, nel senso che essa
valorizza fatti certissimi interpretandoli in maniera discutibile. Non c'è dubbio infatti che i bisogni vitali
abbiano costantemente provocato ricerche e condizionato l'avvento di nuove tecniche. Ma non si può
concludere che la scienza come tale ha la sua causa reale e totale nella pressione dei bisogni vitali. Ciò
equivale a ridurre la scienza alla tecnica utilitaria e confondere la causa con la condizione o l'occasione.
La scienza è di per sé una conoscenza disinteressata che procede dal bisogno di conoscere e di capire.
Essa si pone al servizio dell'uomo, ma nasce da un bisogno più profondo di quello dell'utile. È assodato
che le scoperte più feconde per l'umanità sono rimaste lungamente senza utilità pratica e apparentemente
effetti di una vana curiosità. “Il marinaio che una esatta osservazione di longitudine preserva dal
naufragio, scrive Condorcet, deve la vita ad una teoria concepita duemila anni addietro, da uomini di
genio che attendevano a semplici speculazioni geometriche”. Inversamente, l'inquieta ricerca dell'utile ha
avuto spesso per effetto di arrestare lo slancio della ricerca: anche oggi è facile constatare che non sono i
popoli più utilitaristici ed i più avanzati nelle tecniche a produrre le più feconde scoperte. Parimenti, è
molto degno di nota che un positivista come Augusto Comte, per il quale la scienza doveva innanzitutto
proporsi dei fini utilitari, bandisca tutta una categoria di ricerche che egli considera vane e senza profitto
per uomo. 119 In realtà, un'umanità consacrata all'utile sarebbe rimasta notevolmente stagnante,
soddisfatta di poter colmare i suoi bisogni maggiori.
128 - 2. L'AVVENTO DELLE SCIENZE POSITIVE - Questo avvento non è che un caso particolare
della lunga evoluzione del pensiero scientifico 120. Questo era nato ancor prima dell'impulso dei metodi
detti positivi nel XVIII secolo. Le scienze della natura, infatti, non sono tutta la scienza. Esse non ne sono
neppure la forma perfetta, poiché forniscono una intelligibilità solamente relativa e simbolica. L'impulso
delle discipline positive rappresenta dunque nella storia dell'umanità un immenso avvenimento, ma un
avvenimento che è in continuità con tutta una serie di sforzi anteriori che trovarono in fin dei conti,
all'epoca di Galileo e di Cartesio e soprattutto nel XIX secolo, le condizioni favorevoli al loro decisivo
successo. Infatti, da un lato, i filosofi avevano precisato e affinato i concetti fondamentali (causa seconda,
legge naturale, forza, azione e passione, ecc.) che servivano a formulare i nuovi metodi. Dall'altro lato,
l'empirismo stesso, sotto la forma già alquanto elaborata che gli avevano dato le ricerche fatte a tentoni
nel Medio Evo e nel Rinascimento, implicava l'impiego di metodi sempre più precisi e generali ed il
ricorso alla misura dei fenomeni. Gli alchimisti, per quanto puerili ci sembrino i loro tentativi, sono, sotto
certi punti di vista, degli autentici precursori dei nostri scienziati.
“Galileo, scrive Whitehead (citato da H. Delacroix, Noveau traité de Psychologie, 10 voll., Parigi,
1930, t. V, p. 295) lasciò cadere dei corpi pesanti dall'alto della torre pendente di Pisa e dimostrò che i
corpi di pesi diversi, abbandonati simultaneamente, toccavano terra insieme. Per quanto riguarda l'abilità
dello sperimentatore e la sottigliezza dell'accoppiamento utilizzato, questa esperienza avrebbe potuto
essere eseguita in qualsiasi momento dei cinquemila anni precedenti. Le nozioni implicate concernevano
solamente il peso e la velocità di spostamento, nozioni correnti nella vita ordinaria. Tutte queste idee
erano senza dubbio familiari al re Minosse di Creta e alla sua famiglia, quando gettavano ciottoli nel
mare, dall'alto dei bastioni che dominavano le coste. Noi non possiamo renderci conto troppo chiaramente
che la scienza ha avuto inizio da esperienze della vita comune (...). Essa si è limitata a studiare i rapporti
che regolano la successione dei fenomeni evidenti”.
“Due secoli prima della nostra era, scrive da parte sua Duhem, l'astronomia, la scienza dell'equilibrio
dei pesi e una parte dell'ottica avevano assunto la forma di teorie matematiche precise, tendenti a
soddisfare le esigenze del controllo sperimentale; molte parti della fisica, a loro volta, hanno assunto
questa forma soltanto dopo lunghi secoli di tentennamenti; ma, per farlo, hanno seguito il metodo con cui
le prime erano pervenute allo stato di teorie razionali.
L'attribuzione del titolo di creatore del metodo delle scienze fisiche ha dato luogo a molte
contestazioni; alcuni hanno voluto attribuirlo a Galileo, altri a Descartes, altri ancora a Francesco Bacone,
che è morto senza aver mai capito nulla di questo metodo. In verità, il metodo delle scienze fisiche è stato
definito da Platone e dai Pitagorici del suo tempo con una chiarezza ed una precisione non ancora
superate; esso è stato applicato la prima volta da Eudosso allorché tentò, combinando delle rotazioni di
sfere omocentriche, di giustificare i movimenti apparenti degli astri”. (Le système du monde, t. I, pp. 128129).
Ma tutto ciò non bastava affinché tanti sforzi riuscissero, bisognava che i mezzi d'investigazione
fossero più perfezionati. Che l'antichità ed il Medioevo non siano riusciti nonostante i numerosi ed audaci
tentativi fatti per conoscere “i segreti della natura” è dipeso spesso dalla mancanza di strumenti
appropriati. Il progresso del sapere positivo era condizionato da un progresso delle tecniche che solo
lentamente poteva operarsi. Un Tycho-Brahe compila un'ammirevole tavola celeste senza ricorrere alle
lenti. Di quale precisione tuttavia diverrà suscettibile l'astronomia da quando il taglio dei vetri, e in
seguito la spettroscopia, porranno al servizio degli scienziati potenti strumenti di osservazione! Così pure,
non è stato sufficiente a Cartesio porre le basi del metodo positivo per fare della buona anatomia: gli
mancavano gli strumenti necessari, che il perfezionamento del microscopio fornirà ai suoi successori 121.
Così dunque, l'avvento del sapere positivo è una conseguenza e non un inizio assoluto. Esso deriva da
tutto un complesso di condizioni che sono state pazientemente create dallo sforzo secolare degli uomini.
Se esso consiste nel sostituire ad un metodo di ricerche che confondeva spesso la spiegazione meccanica
con quella metafisica, un metodo che si limita a determinare il come dei fenomeni, cioè le leggi della loro
coesistenza o della loro successione, questa sostituzione, di una portata immensa, perfeziona un
movimento iniziato di fatto fin dai primi tempi dell'umanità.
129 - 3. IL FINE DELLA SCIENZA - Il problema dei fini della scienza non è diverso da quello delle
origini della scienza, se per origine si intende designare le cause prime della scienza e non semplicemente
le sue cause accidentali o le sue condizioni. Queste cause, lo abbiamo visto, si riducono fondamentalmente al bisogno di sapere e di comprendere il più ed il meglio possibile, in ampiezza ed in profondità, il
perché ed il come delle cose, allo scopo di ricondurre tutto all'unità. Questo bisogno è un lineamento
essenziale dell'essere ragionevole che noi siamo: in esso si esprime la sua autentica grandezza, che sta
nello sforzo di pareggiare col pensiero l'ampiezza dell'essere.
Nello stesso tempo, ma secondariamente, la scienza. ha fini pratici, espressi da Augusto Comte nella
formula: sapere per prevedere allo scopo di provvedere. Al servizio dell'uomo essa è come uno strumento
per mezzo del quale questi diventa sempre più, secondo il detto di Cartesio, “padrone e dominatore della
natura”.
§ 2 - Il pensiero scientifico
130 - V'è uno spirito scientifico generale ed uno spirito scientifico particolare alle discipline positive.
Un errore comune oggi, sotto l'influenza del positivismo, consiste nel ridurre il primo al secondo, come se
la scienza autentica fosse soltanto sperimentale e descrittiva. Tutto ciò che precede dimostra invece che si
tratta di un pregiudizio, assai contrario al vero spirito scientifico, la cui prima condizione consiste nel
rispetto dei fatti e nell'obbiettività.
1. LO SPIRITO SCIENTIFICO - La scienza, come abbiamo visto, è la conoscenza certa delle cose
attraverso le loro cause o leggi ed ha per strumento la dimostrazione nelle sue differenti forme. Ciò
implica nello scienziato le seguenti qualità:
a) L'obbiettività. Se la scienza è conoscenza delle cose, bisognerà che lo scienziato si sforzi dapprima
di osservare il reale con la massima esattezza possibile, ossia che si sottometta scrupolosamente
all'oggetto del suo studio. Per tale scopo, egli si sforza di eliminare dalla sua ricerca tutte le preoccupazioni estranee alla scienza (interesse personale, pregiudizi di classe, di parte o di razza), e di utilizzare
tutti i mezzi di informazione e di osservazione che sono alla sua portata, in modo da ottenere la massima
precisione possibile. L'obbiettività richiede dunque un complesso di qualità che costituiscono la probità
intellettuale e lo spirito di osservazione.
b) Il rigore. Vi sono tecniche della dimostrazione o metodi generali che lo scienziato, qualunque sia il
suo campo, deve possedere e utilizzare, se vuol compiere un'opera sicura. Il vero spirito scientifico è
infatti uno spirito di rigore, che si sforza di non supporre nulla che non sia strettamente dimostrato
secondo tutte le esigenze dell'oggetto e che, in ogni caso, distingue sempre nettamente ciò che appare
provato da ciò che è soltanto probabile o ipotetico. Il metodo, che aiuta a procedere con ordine e senza
omettere nulla di ciò che è richiesto per la dimostrazione, è lo strumento necessario di questo spirito di
rigore.
c) Lo spirito critico. Lo spirito critico è essenziale alla scienza. Per spirito critico tuttavia, non bisogna
intendere una semplice qualità negativa, che tolga la credulità naturale, ma uno spirito di libertà
intellettuale, per cui lo scienziato acquista il senso del problema, accetta di ritornare sulle certezze che
appaiono già stabilite, ammette discussioni e riserve, confronta i risultati delle sue ricerche con quelli
degli altri scienziati restando costantemente disposto a modificare le proprie conclusioni. In questo senso
si è potuto dire che una condizione della scienza era di “ saper dubitare”, cioè che per il vero scienziato la
passione d'interrogare cresce insieme col sapere 122. (113) Il dubbio, così inteso, è una forma dell'amore
del vero, della consapevolezza che il reale è complesso e l'intelligenza umana limitata.
131 - 2. LO SPIRITO POSITIVO - Lo spirito positivo, soggetto alle esigenze di obbiettività, di rigore,
di libertà intellettuale, che caratterizzano in generale il pensiero scientifico, ha pure alcune esigenze
particolari, che nascono dalla natura del suo oggetto, definito tutto insieme come costituente i fenomeni
della natura.
a) La sottomissione al fatto sensibile. L'obbiettività positiva ha speciali esigenze. Tutto il pensiero
scientifico parte dall'esperienza e vi si commisura in qualche aspetto. Ma, nelle scienze della natura, che
sono le scienze dei fenomeni e delle loro relazioni costanti, il criterio del controllo sperimentale ha un
carattere diretto e pesante che le discipline metafisiche non possono comportare poiché in quest'ultime
l'esperienza sensibile è una base e un punto di partenza e non un limite.
Lo scienziato è un uomo sottomesso al fatto, nel senso che l'obbiettività che presiede e regola le sue
ricerche, in fin dei conti è sempre quella del dato sensibile, sperimentalmente verificabile e misurabile.
b) Il pensiero simbolico. La grande scoperta del sapere positivo, è stata quella della quantificazione dei
fenomeni. È per essa che la scienza della natura ha conseguito immensi progressi, grazie alle precise
misure che sono divenute possibili. Il rigore positivo è dunque propriamente quello che si esprime sotto
forma matematica. Questa matematizzazione della scienza, o riduzione della qualità alla quantità,
definisce lo spirito positivo in ciò che ha di più caratteristico. Se essa ha contribuito ad estendere
prodigiosamente la potenza dell'uomo sulla natura, essa ha contribuito nello stesso tempo a trasformare
sempre più la scienza in pura algebra simbolica.
132 - c) La credenza nel “determinismo”. Questa credenza non è che un aspetto della credenza
nell'ordine della natura. Ma la definizione di quest'“ordine”, non spetta più alla scienza, bensì alla
filosofia. Lo scienziato votato alle scienze positive lo intenderà tuttavia naturalmente nel senso che ogni
fenomeno deve poter spiegarsi adeguatamente con un altro fenomeno, e che il comportamento dei fenomeni può essere ricondotto ad un sistema di relazioni invariabili (leggi funzionali).
Una tale concezione rimane legittima solo nella misura in cui essa si mantenga strettamente sul piano
fisico per definire un ideale di intelligibilità puramente funzionale. Dovremo chiederci più avanti se essa
rimanga compatibile con l'ipotesi di un certo indeterminismo nel gioco dei fenomeni, nel quale le leggi
statistiche reintroducono la regolarità e permettono la prevedibilità che il “determinismo” scientifico
richiede. Soprattutto, il determinismo così inteso implica che lo scienziato eviti sempre di far intervenire
spiegazioni mutuate all'ordine teologico o metafisico: esse infatti, prese in se stesse, possono essere
legittime e valide, ma dipendono da un grado di intelligibilità assolutamente distinto da quello del sapere
positivo. Questa astensione, d'altronde, non deve trasformarsi in uno spirito di negazione per non
implicare un pregiudizio molto contrario al vero spirito scientifico 123.
Art. III – Classificazione delle scienze 124
133 - La scienza è soltanto un'astrazione, definiente soprattutto, come abbiamo visto, uno spirito
comune a discipline essenzialmente diverse per i loro oggetti e tali che, attraverso lo stesso progresso del
sapere, non cessano di differenziarsi tra loro e di dare così origine a nuove scienze. Donde lo sforzo di
mettere ordine in questa molteplicità che le classificazioni delle scienze manifestano. Questo sforzo non è
nuovo. Fin dall'antichità greca, i filosofi hanno cercato di classificare razionalmente il complesso del
sapere umano, al fine di ottenere una specie di quadro ordinato di tutto il reale. Le principali
classificazioni sono le seguenti:
1. CLASSIFICAZIONE DI ARISTOTELE - Aristotele distribuisce le scienze in teoriche (fisica,
matematica, metafisica) e pratiche (logica e morale). (Le scienze poietiche, od ordinate allo operare, sono
piuttosto tecniche).
Questa classificazione è veramente obbiettiva. Infatti, la divisione delle scienze teoriche si fonda sul
grado di intelligibilità dell'oggetto delle diverse scienze o grado di astrazione: il primo grado comprende
le scienze che riguardano le qualità sensibili (o scienze della natura), ponendo tra parentesi soltanto i
caratteri individuali; il secondo grado è quello delle scienze che vertono sulla pura quantità come tale,
per astrazione dalle qualità sensibili (matematiche); il terzo grado è quello dell'essere considerato nella
sua più alta generalità, con astrazione da ogni specie di quantità (metafisica). D'altra parte, la divisione in
scienze teoriche o speculative, aventi per oggetto il puro conoscere, ed in scienze pratiche, aventi per fine
la direzione dell'agire umano, è, essa pure, obbiettivamente fondata (20-21). Tuttavia, questa
classificazione rimane alquanto generale e presa da un punto di vista più filosofico che scientifico. I
moderni hanno proposto classificazioni fondate su un principio di divisione più immediato e tendente
sempre più a gerarchizzare, non più l'insieme del sapere umano, ma solamente le scienze positive.
134 - 2. CLASSIFICAZIONE DI BACONE - Bacone divide le scienze secondo le facoltà usate in
esse: scienze della memoria (storia), scienze dell'immaginazione (poesia), scienze di ragione (filosofia).
Il principio di questa classificazione è mal scelto: infatti tutte le facoltà intervengono simultaneamente,
sebbene in gradi diversi, in ciascuna scienza.
3. CLASSIFICAZIONE DI AMPÈRE - Ampère classifica le scienze in cosmologiche (o scienze della
natura) e noologiche (o scienze morali). Questa divisione, con una serie di suddivisioni dicotomiche,
mette capo ad un totale di 128 scienze particolari, in cui, per il fatto del procedimento artificiale della
divisione dicotomica, vi sono troppe inserzioni artificiose escogitate per la simmetria.
135 - 4. CLASSIFICAZIONE DI AUGUSTO COMTE - Questa classificazione è migliore delle due
precedenti in quanto si fonda su un principio più rigoroso. Comte distingue dapprima le scienze astratte o
fondamentali, che sono scienze di spiegazione, in quanto stabiliscono delle leggi generali (fisica e
chimica), - e le scienze concrete o derivate, che sono scienze descrittive, intese a studiare gli esseri
(zoologia, botanica, mineralogia, ecc.). Le scienze fondamentali, che sono, per Comte, le vere scienze,
possono a loro volta essere classificate secondo la loro crescente complessità e la loro generalità
decrescente, ciò che ci dà la seguente tavola: matematiche, ­astronomia, - fisica, - chimica, - biologia, sociologia 125.
Questa classificazione non è perfetta. Innanzitutto, la distinzione delle scienze in esplicative e
descrittive non è rigorosa, essendo il fine di ogni scienza positiva quello di formulare delle leggi, cioè di
spiegare (puramente nel senso limitato proprio della scienza positiva). D'altra parte, la classificazione
delle scienze fondamentali pecca sia per difetto, in quanto non comprende né la meccanica (che ha
tuttavia un oggetto proprio e irriducibile, cioè il movimento), né la psicologia (di cui Comte nega che
abbia un oggetto proprio), ­ sia per eccesso, in quanto introduce l'astronomia, che in realtà è unicamente
una scienza applicata, cioè una meccanica, una fisica ed una chimica celesti.
Tuttavia, il principio della classificazione è veramente obbiettivo, nel senso che esso stesso riposa su
una base obbiettiva di specificazione, cioè sulla specificità degli oggetti delle scienze e di conseguenza
dei fenomeni della natura. Come nei generi e nelle specie, la complessità crescente e la generalità
decrescente (rapporto inverso della comprensione e dell'estensione) sono insieme effetti e segni delle
differenze specifiche. Secondo questo principio e completando e correggendo la tavola di Augusto Comte,
si ottiene la divisione seguente:
matematica,
meccanica,
fisica,
chimica,
biologia,
psicologia,
sociologia.
Questo gruppo può a sua volta essere ridotto nei tre gruppi seguenti: scienze matematiche (quantità),
scienze fisico-chimiche (fenomeni della natura inorganica) e scienze biologiche (fenomeni vitali), scienze
umane (fenomeni umani, individuali e sociali).
Questi tipi generali ci sono forniti dall'ontologia naturale dell'intelletto rivolto all'esperienza. Essi
esprimono esattamente i dati fisici intuitivi che stanno alla base della scienza sperimentale, risultanti
dall'intervento congiunto dell'osservazione e della schematizzazione (o astrazione), allo stesso modo che
la geometria procede fondamentalmente dalla conoscenza intuitiva dello spazio.
136 - 5. SIGNIFICATO E PORTATA DELLA CLASSIFICAZIONE
a) La gerarchia delle scienze. Tra le differenti categorie di scienze intervengono, sempre più
numerose, le scienze intermediarie: non solo le matematiche tendono a fornire a tutte le scienze positive il
loro tipico modo di espressione e perciò a conferire ad esse una specie di unità formale, - ma ancora tra la
fisica e la chimica si inserisce la chimica-fisica (geochimica, elettro chimica, ecc.), e poi, tra la chimica e
la biologia, la chimica biologica; la psicofisiologia costituisce ugualmente una specie di intermediario tra
la biologia e la psicologia sperimentale.
Non bisognerebbe concludere da ciò che queste scienze intermediarie colmino realmente i vuoti e
sopprimano le distanze che separano i differenti gruppi di scienze. Esse significano soltanto che gli enti
della natura sono in rapporto simultaneo con molti campi scientifici, in ragione delle loro nature
complesse: così l'uomo manifesta nello stesso tempo fenomeni fisici, chimici, biologici, psicologici e
sociologici. È l'interdipendenza di questi differenti fenomeni che fornisce il loro oggetto speciale alle
scienze intermediarie, senza sopprimere le differenze essenziali che le definiscono nella loro realtà 126.
137 - b) L'unità della scienza. La classificazione delle scienze risponde ad un bisogno di unità, che
caratterizza l'intelligenza umana. L'unità tuttavia che essa propone allo spirito è, come abbiamo visto,
quella di un ordine o di una gerarchia, che lascia sussistere le differenze essenziali distinguenti tra loro le
diverse scienze o categorie di scienze, in relazione agli oggetti essenzialmente differenti che esse
studiano. La classificazione non significa dunque che si possa passare da una scienza all'altra senza far
intervenire un elemento radicalmente nuovo, cioè che sia possibile ridurre le scienze superiori alle
inferiori. Al contrario, ogni gradino introduce un elemento irriducibile ai precedenti: la meccanica
introduce l'idea di movimento, che non è incluso nella nozione delle matematiche, le quali vertono solo
sulla quantità, e il fatto che il movimento possa essere espresso in termini di spazio non può giustificare
una assimilazione essenziale di queste due realtà; così pure, la biologia introduce l’idea della vita, che le
scienze fisico-chimiche non comportano in alcun modo; a loro volta, le scienze morali fanno intervenire
la nozione di un'attività intelligente e libera, che è di ordine assolutamente nuovo rispetto ai precedenti.
Bisogna osservare, d'altra parte, che questa classificazione considera unicamente le scienze positive o
suscettibili di essere trattate, almeno fino ad un certo punto, secondo i metodi positivi, e lascia dunque
fuori di prospettiva la filosofia. Essa, dotata di un oggetto proprio, il più generale di tutti, conserva
tuttavia il suo posto, al di sopra di tutte le scienze particolari e completamente separato da queste scienze,
come scienza suprema dell'ordine naturale.
Così è chiaro che cosa si debba intendere per unità della scienza. Questa unità risulta dal fatto che
tutte le scienze positive rispondono allo stesso fine di conoscenza razionale, ­ che esse limitano tutte la
loro ambizione a definire le relazioni costanti dei fenomeni tra loro, - dalla gerarchia o subalternazione
delle differenti scienze, - infine dall'unità conferita loro dal pensiero filosofico in quanto ricollega i loro
oggetti diversi e molteplici alle prime cause ed ai primi princìpi 127.
CAPITOLO QUARTO
I DIFFERENTI METODI
138 - 1. IL METODO DIPENDE DALL'OGGETTO DELLE SCIENZE - Si comprende che ogni
categoria di scienza, essendo per definizione irriducibile alle altre categorie, esige l'impiego di un metodo
distinto. Il metodo da impiegare in una scienza dipende infatti dalla natura dell'oggetto di questa scienza.
Non si studia l'intelligenza, che è immateriale, con gli stessi procedimenti utilizzati per conoscere i corpi
ed i suoi organi. Lo studio della vita richiede metodi diversi da quelli dello studio della materia inorganica
o della pura quantità astratta. È dunque opportuno definire i differenti metodi che sono in uso nelle
scienze e descrivere i loro procedimenti caratteristici.
2. I METODI-TIPO - Teoricamente, vi sono tanti metodi quanti sono i gruppi di scienze ammessi
nella classificazione che più sopra abbiamo data. Tuttavia abbiamo osservato che questa classificazione
stessa può essere ridotta a tre grandi divisioni, che sono: le matematiche, - le scienze fisico-chimiche e
biologiche, - le scienze umane. Distingueremo così tre grandi metodi, che senza dubbio comporteranno,
per adattarsi a ciascuna scienza del gruppo, modificazioni accidentali, ma conserveranno ogni volta i loro
caratteri distintivi.
Studieremo dunque successivamente il metodo delle matematiche, - il metodo delle scienze della
natura fisica - e il metodo delle scienze umane 128.
Art. 1 – Metodo delle matematiche
SOMMARIO 129
§ l - CONCETTO DELLE MATEMATICHE. Definizione. – Divisione. - Le scienze dei numeri:
aritmetica, algebra, analisi - Le scienze delle figure: origine - Matematica ed esperienza.
§ 2 - PROCEDIMENTI DELLE MATEMATICHE. Natura della dimostrazione. ­Analisi e sintesi. Princìpi della dimostrazione. Definizioni. Assiomi. Postulati.
§ 3 - LA DEDUZIONE MATEMATICA. Sillogismo e ragionamento matematico. - C'é una induzione
matematica? - La costruzione matematica.
§ 4 - FUNZIONE DELLE MATEMATICHE. Le matematiche e le scienze della natura.
Matematizzazione delle scienze. - Fecondità pratica. - Il reale non matematizzabile. - Le matematiche
e la formazione dello spirito.
§ l - Concetto delle matematiche
A. DEFINIZIONI
139 - In generale, le matematiche sono lo studio della quantità dei corpi, prescindendo dalla natura di
questi corpi. La questione della natura della quantità spetta alla cosmologia, qui osserviamo solamente
che si distingue la quantità discontinua, quella le cui parti sono separate e formano un numero, e la
quantità continua, quella le cui parti non sono separate, ma unite tra loro in modo che l'estremità dell'una
sia l'inizio dell'altra: è ciò che si chiama estensione o spazio.
B. DIVISIONE
140 - Secondo che le matematiche vertano sulla quantità discontinua o sulla quantità continua, si
distinguono:
1. LE SCIENZE DEI NUMERI - Tra esse: l'aritmetica o la scienza del numero e delle sue proprietà, l'algebra, generalizzazione dell'aritmetica in quanto scienza dei rapporti generali dei numeri rappresentati
con lettere, - l'analisi, generalizzazione dell'algebra, scienza delle relazioni di dipendenza tra grandezze
130
diverse.
a) L'aritmetica. Il numero di cui si occupano le matematiche è il numero numerante o astratto, che
implica una lunga elaborazione, con la quale il concetto di numero è stato separato o astratto dalle cose
numerate e considerato in se stesso, nelle sue proprietà formali e nelle combinazioni di cui è suscettibile.
Il termine di calcolo, applicato alla scienza del numero, ben indica le origini empiriche dell'aritmetica, in
quanto designa etimologicamente i piccoli ciottoli (calculi) che servivano da principio a numerare gli
oggetti.
b) L'algebra. L'algebra rappresenta una ulteriore elaborazione ed un nuovo progresso nella
generalizzazione. Abbozzata da Diofanto, nel IV secolo, ebbe la sua forma scientifica dal matematico
Viète (XVI secolo). L'astrazione algebrica estende considerevolmente il campo del calcolo: mentre
l'aritmetica ha per oggetto soltanto le proprietà individuali dei numeri, l'algebra, con l'impiego delle
lettere come simboli delle grandezze numeriche, permette di trattare relazioni di grandezze come tali,
indipendentemente dai loro valori numerici. È così che la relazione (a+b) al quadrato = a al quadrato + b
al quadrato +2ab rimane sempre vera, qualunque sia il valore numerico di a e di b. Si è così preparati ad
accogliere la nozione di funzione, cioè di una variazione simultanea e dipendente di due termini (o
variabili): una variabile y è detta funzione di una variabile x quando a ciascuno dei valori numerici di x
corrisponde un valore determinato di y, in modo che questa corrispondenza possa essere espressa sotto
forma analitica con una equazione
[y = f (x)].
La nozione di funzione ha ricevuto una considerevole estensione, in tal misura che tutte le scienze
positive si sono dedicate alla determinazione delle funzioni o dei rapporti costanti tra fenomeni,
sforzandosi di esprimere questi rapporti sotto forma di equazioni algebriche. Di qui l'aspetto simbolico
che diventa sempre più proprio e specifico delle scienze della natura.
141 - c) L'analisi. Con il nome generale di analisi, si intende l'insieme delle scienze matematiche che
studiano le relazioni di dipendenza esistenti tra diverse grandezze, ossia il calcolo infìnitesimale, la teoria
generale delle funzioni, la teoria degli insiemi ed il calcolo delle probabilità. Più avanti parleremo del
calcolo infinitesimale. La teoria generale delle funzioni studia le leggi della corrispondenza tra numeri,
cioè le leggi che definiscono la dipendenza di una quantità qualsiasi in rapporto ad una o più altre quantità
(chiamate variabili). La teoria degli insiemi si suddivide in due gruppi: la teoria degli insiemi finiti (o
degli insiemi la moltitudine dei cui elementi può esprimersi con un numero della serie indefinita degli
interi 1, 2, 3...), e la teoria degli insiemi transfiniti (un insieme è detto transfinito quando la moltitudine
dei suoi elementi non può esprimersi con un numero intero: ad esempio, l'insieme stesso dei numeri
interi).
Il calcolo delle probabilità si applica ai casi in cui intervengono cause troppo numerose o troppo
complesse perché si possa enumerarle o conoscerle tutte. Esso permette di determinare il grado di
probabilità di un avvenimento o di una classe di avvenimenti, cioè il rapporto del numero di probabilità
favorevoli all'avvenimento (a) rispetto al numero totale delle probabilità (A) in un insieme dato. La
probabilità così intesa dice si statistica, quando il rapporto a:A deriva da un numero considerevole di
osservazioni e risulta esteso a tutti i casi della stessa specie. Tale è il caso, ad esempio, delle tavole di
mortalità utilizzate nelle assicurazioni: nessuna legge permette di prevedere che una certa persona morrà
nell'anno; ma il calcolo statistico fornisce una media di mortalità praticamente sufficiente alle
assicurazioni. Il calcolo delle probabilità può dunque servire ad un duplice fine: a prevedere in un modo
approssimato il numero di avvenimenti di una data specie che si produrranno su di un totale
sufficientemente grande, e, ogni volta che interviene il caso (ad esempio nelle scommesse o nelle
lotterie), a regolare le poste in un modo equo, cioè in funzione delle probabilità 131.
142 - 2. LE SCIENZE DELLE FIGURE - Sono: la geometria o scienza delle figure tracciabili nello
spazio, la geometria analitica o applicazione dell'algebra alla geometria, la meccanica razionale, o studio
del movimento nello spazio.
a) Dalla geometria al calcolo numerico. Le scienze delle figure, che sono più concrete di quelle dei
numeri, hanno preceduto queste ultime. È infatti con la geometria che i Greci dimostrarono i loro teoremi,
come appare dalla soluzione euclidea del quadrato del binomio (Fig. 7). Euclide ragiona nella seguente
maniera: sia da conoscere il quadrato della somma di due quantità a e b. Si trasportano queste due
quantità di seguito su una linea e si costruisce il quadrato sulla lunghezza totale. Quindi costruendo sulla
stessa figura il quadrato di a e prolungandone il lato fino in M e N, si constata che il quadrato di (a+b)
comprende il quadrato di a ed il quadrato di b ed inoltre due rettangoli, che sono entrambi, uguali al
prodotto di a per b, ciò che dà in totale: a al quadrato + b al quadrato + 2ab.
Come per il calcolo dei numeri, le origini empiriche della geometria sono consistite nell'impiego di
procedimenti concreti per la misura di figure determinate. Soltanto a poco a poco, e da principio con
Pitagora ed Euclide, le figure furono studiate per se stesse nelle loro proprietà generali e si giunse ad
enunciare formule generali, valide universalmente per tutte le figure della stessa specie, qualunque sia il
valore numerico delle variabili, come ad esempio quella che dà il rapporto della circonferenza al raggio
(C = 2πR), valida indipendentemente dal valore numerico di R.
143 - b) LA GEOMETRIA ANALITICA - Ancora la nozione di funzione operante nella geometria
analitica sostituisce allo studio diretto delle figure geometriche il calcolo delle relazioni algebriche che si
fanno corrispondere ad esse. L'idea che stava all'origine di questa magnifica scoperta di Cartesio è che
ogni problema di geometria poteva essere sostituito con un problema sui numeri suscettibile d'essere
trattato in se stesso, il che significa che si poteva rovesciare il procedimento con cui gli antichi geometri
dimostravano i loro teoremi, ossia ottenere conclusioni geometriche partendo da una formula numerica;
egli pensava pure che il procedimento poteva essere generalizzato, nel senso che era possibile far
corrispondere una equazione ad ogni figura ed una figura ad ogni equazione.
“Non mi curai, scrive Cartesio, di apprendere tutte le scienze particolari dette comunemente
matematiche; e vedendo che sebbene i loro oggetti siano differenti, esse si accordano nel fatto di
considerare soltanto i diversi rapporti o proporzioni che si trovano, pensavo che fosse meglio esaminare
solamente queste proporzioni in generale, e senza supporle oltre i soggetti che servivano a rendermene la
conoscenza più facile; così pure senza forzarle in alcun modo, per poterle applicare meglio a tutte le altre
cui esse si confacevano. Quindi, avuto riguardo che per conoscerle avrei talvolta bisogno di considerarle
ciascuna in particolare, e talvolta solamente di giudicarne o comprenderne parecchie insieme; pensai che
per considerarle meglio in particolare, dovevo rappresentarle con linee, giacché non trovavo niente di più
semplice, né che potessi rappresentare più distintamente alla mia immaginazione ed ai miei sensi; ma
pensai che per giudicarne o comprenderne parecchie insieme, bisognava che le esponessi con qualche
lettera nel modo più semplice possibile. Pensai ancora che in questo modo attingerei tutto il meglio
dell'analisi geometrica e dell'algebra, correggendone tutti i difetti.” (Discours de la Méthode, 2a parte).
Partendo da queste premesse, Cartesio fu condotto a creare una specie di algebra delle figure, cioè un
procedimento consistente nel mettere in equazione le coordinate di una figura 132.
Le applicazioni di questo procedimento sono innumerevoli. In fisica, in particolare, le leggi o formule
possono esprimersi con curve regolari rappresentanti le relazioni definite di due grandezze variabili (per
esempio della pressione e del volume).
c) Il calcolo infinitesimale. Questo procedimento del calcolo, scoperto da Newton e da Leibniz,
apporta un nuovo progresso nello studio delle funzioni, perfezionando grandemente il calcolo del
continuo per mezzo del numero. Prima della scoperta della geometria analitica, la difficoltà era data dal
fatto che il numero, essendo discontinuo, non può tradurre le variazioni continue di una grandezza (o di
una curva), poiché ogni lettera rappresenta un momento od un valore fisso della curva o della grandezza,
ma non il passaggio da una posizione o da un valore all'altro. L'artificio è qui consistito nel supporre
dapprima degli incrementi quantitativi infinitamente piccoli (cioè più piccoli di ogni numero dato), poi
degli incrementi infinitesimali correlativi ∆x, ∆y, di due variabili x, y, funzioni l'una dell'altra, tra le quali
si rilevano delle relazioni fisse, che permettono di stabilire regole per mezzo delle quali si passa, dalle
differenze indefinitamente decrescenti (o differenziali dx, dy), alle relazioni delle quantità finite. Così le
operazioni matematiche destinate a determinare le relazioni esistenti tra grandezze finite con la
considerazione di quantità infinitesimali fanno intervenire un numero divenuto, come quantità fluente
(secondo la parola di Newton), simbolico del movimento stesso delle grandezze continue 133.
C. ORIGINE
144 - 1. DUE PROBLEMI DI ORIGINE - Il problema dell'origine delle nozioni matematiche può
essere esaminato da un punto di vista psicologico e da un punto di vista critico. Questi due punti di vista,
come si è già visto più volte (29), sono del tutto diversi. L'origine empirica o psicologica di una nozione
non dà ragione della sua origine radicale o del suo fondamento razionale: non rimane spiegata la genesi
delle nozioni astratte mostrando come il fanciullo a poco a poco le acquisisce, né quella del numero
mostrando che alcuni “primitivi”, alla guisa dei fanciulli, si servono delle loro dita per contare. Il concetto
di numero, come ogni nozione astratta, esige una elaborazione che oltrepassa i mezzi del fanciullo e del
primitivo, sebbene sia chiaro che questo concetto è già implicito nelle operazioni molto semplici che essi
compiono.
2. MATEMATICHE ED ESPERIENZA.
a) Teorie innatistiche. Ponendosi da un punto di vista critico, cioè dal punto di vista dell'origine
radicale o del fondamento razionale delle nozioni matematiche si è talvolta preteso che queste nozioni
debbano esistere nello spirito assolutamente a priori, prima di qualsiasi esperienza. La ragione invocata in
favore di questa tesi è che la natura non fornisce mai il numero, ma unicamente unità discrete, e neppure
gli oggetti geometrici, punto senza dimensione, superficie senza spessore, retta e cerchio perfetti, ecc.
Tutte queste nozioni sarebbero dunque innate allo spirito (teoria innatistica) o colte per intuizione in un
mondo intelligibile superiore al mondo sensibile (teoria platonica).
b) Discussione. In realtà, bisogna dire che gli oggetti matematici sono costruiti dallo spirito per mezzo
di dati forniti dall'esperienza. C'è una geometria perché nella natura vi sono corpi solidi. Così pure, la
pluralità delle unità di uguale natura è servita da fondamento all'elaborazione del numero. “La cifra,
scrive P. Boutroux, non è costruzione del matematico e al principio non ne fu questi l'inventore. I primi
calcolatori erano dei pratici, agrimensori e ingegneri”.
La difficoltà che si fa valere contro questa tesi, insistendo sul fatto che la natura non ci fornisce che un
piccolo numero di figure, d'altronde assai imperfette, e che il numero esiste realmente soltanto nel
pensiero che conta e misura, dipende da una concezione empiristica della conoscenza che misconosce a
fondo la natura e la funzione dell'attività propria dello spirito applicato all'esperienza. Questa ci fornisce
la materia bruta: l'unità concreta che è l'individuo, ci fornisce delle figure, linee rette e curve, volumi
(linea dell'orizzonte, curva dell'arcobaleno, superficie e volumi dei corpi, ecc.), che appaiono ai sensi
sufficientemente regolari per fondare le nozioni astratte e perfette della geometria. La nozione dello
spazio omogeneo, che è quella della immaginazione, fornisce dal canto suo il campo uniforme in cui
possono costruirsi le figure geometriche, per combinazione delle linee e delle superfici e qui dunque non
si tratta di una rettificazione che debba fare lo spirito dei dati della esperienza, secondo modelli innati
nello spirito (come pensa Platone nel Menone), ma propriamente di una operazione per cui le linee,
superficie e volumi sono considerati per se stessi, astratti dai corpi che li manifestano e perciò trattati
come pure essenze, ciò che spiega la loro perfezione formale. Il processo di formazione delle nozioni
matematiche è così soltanto un caso particolare della potenza di astrazione, propria dello spirito umano.
Il geometra tratta, è vero, superfici senza spessore, cerchi perfetti, linee assolutamente diritte, spazio
omogeneo, ecc., pensando di ricavare tutta la geometria dal suo cervello: in realtà, senza saperlo, non fa
che studiare alcune proprietà di estensione della materia precedentemente astratte dall'esperienza. Da
questo punto di vista, tutto l'apparato matematico, all'insaputa persino del matematico, è fondato
materialmente su una base di proprietà fisiche e dipende formalmente dal gioco dell'astrazione. Si
potrebbe dire, utilizzando una espressione di L. Brunschvicg, che le matematiche implicano una
“oggettività” senza “oggetto”. Ma questo è, precisamente, definire ciò che v'è di più generale nel processo
dell'astrazione (123).
145 - c) La teoria assiomatica. Secondo B. Russell (Principia mathematica, in collab. con Whitehead,
2 voll, 2a ed., Cambridge, 1925 e 1927 risp. I e II), le matematiche sono essenzialmente assiomatiche,
ossia costituiscono una scienza puramente ipotetico - deduttiva, che elimina completamente l'intuizione
sensibile e l'esperienza, e tende a ricostruire completamente il suo oggetto per mezzo di proposizioni
indimostrabili (assiomi) combinate tra loro secondo le possibilità e col massimo rigore. Da questo punto
di vista, osserva B. Russell, le matematiche considerano soltanto relazioni logiche puramente formali e si
può dire che il loro studio è tale che “si ignora ciò di cui si parla e che non si sa se ciò che si dice sia
vero”.
Non è il caso di contestare il valore ed i successi del metodo assiomatico, non solamente nelle
matematiche pure, ma anche nei diversi campi delle matematiche applicate (specialmente in fisica
teorica). Per B. Russell non si tratta però semplicemente di metodo, ma altresì di una teoria sull'origine
degli oggetti matematici (numeri e figure) e, in generale, degli universali (42-43). Questa teoria è di tipo
platonico: per B. Russell, gli universali sussistono fuori del pensiero del soggetto; essi sono colti dal di
fuori e non “costruiti”: in 1 + 1 = 2, il segno + designa unicamente una relazione tra due unità, e per nulla
una operazione generante il numero 2.
Osserveremo che questa opinione misconosce la funzione dell'intuizione nella formazione delle
nozioni matematiche. Precisando la natura di questa intuizione, preciseremo pure il compito
dell'esperienza in matematica. Per intuizione, non bisogna intendere qui né una intuizione intelligibile del
mondo platonico, che abbiamo già esclusa, né, a maggior ragione, l'intuizione sensibile come tale, che
verte principalmente sulle qualità. L'intuizione che dà origine alle matematiche è una forma di astrazione
immaginativa, che astrae la quantità dalle qualità sensibili che essa regge e che costruisce, partendo da
questo astratto, gli schemi generali (essenze e proprietà) del mondo della quantità pura 134. È ciò che noi
abbiamo chiamato (21) il secondo grado di astrazione da Leibniz designato come costituente quella
“Logica dell'immaginazione” da cui procedono le matematiche 135.
§ 2 - Procedimenti matematici
A. NATURA DELLA DIMOSTRAZIONE MATEMATICA
146 - 1. I RAPPORTI NECESSARI TRA GRANDEZZE - Per ben comprendere la natura della
dimostrazione matematica, bisogna osservare che si tratta di scoprire le relazioni esistenti tra grandezze
differenti (tra i differenti numeri, tra una linea ed una superficie, ecc.). L'esperienza, da principio, ha
permesso, come si è visto, di stabilire alcune di queste relazioni. Si trattava però di una semplice
constatazione. I Greci, fondando così la scienza matematica, vollero determinare le ragioni di queste
relazioni e procedere con princìpi suscettibili di conseguenze necessarie e in numero indefinito. Tale è,
nella sua nozione più generale, la dimostrazione matematica, che risponde dunque esattamente alle condizioni della dimostrazione scientifica (116), in quanto parte da premesse necessarie e conduce a
conseguenze necessarie. Tuttavia, i rapporti su cui si fonda la dimostrazione matematica non sono
rapporti di inclusione, ma, in aritmetica ed in algebra, dei rapporti di uguaglianza e di equivalenza,
espressi dai segni =, > , < , o, in geometria, dalle relazioni di posizione (relazioni di parallelismo, di
perpendicolarità, di congruenza, ecc.).
2. LA SOSTITUZIONE DELLE GRANDEZZE - Il tipo della dimostrazione matematica può essere
definito dall'esempio seguente:
3+5=8
4+4=8
3+5=4+4
il che sta a dire che essa consiste nel sostituire una grandezza ad un'altra per mezzo di intermediari
numerosi quanto richiede la necessità, in modo da pervenire a definire qual è il rapporto di due grandezze
tra loro. Questa comparazione di grandezze si appoggia sui due assiomi seguenti: due quantità uguali ad
una terza sono uguali tra loro, due quantità di cui l'una è uguale e l'altra differente da una terza sono tra
loro differenti.
Lo stesso tipo di dimostrazione si riscontra in tutte le parti della matematica. Per es. in algebra:
essendo data l’equazione ax2 + bx + c = 0, si cerca il valore della x in funzione di a, b, c, con una serie di
sostituzioni di uguaglianze equivalenti:
pag. 216 – pag. 216 – pag. 216
In geometria, si procede per sostituzione di figure. Questa sostituzione si compie con procedimenti
diversi: per sovrapposizione delle figure (è così che si stabilisce l'uguaglianza di due triangoli ad angolo
uguale tra 2 lati uguali); per scomposizione della figura (in questo modo si dimostra che i parallelogrammi aventi uguale base stanno tra loro come le loro altezze); per trasformazione della figura in una
figura equivalente (in questo modo si misura l'area di un poligono qualsiasi, scomponendolo in triangoli);
per ricorso all'insieme di questi procedimenti (teorema del quadrato dell'ipotenusa di un triangolo
rettangolo).
147 - 3. ANALISI E SINTESI - La dimostrazione matematica utilizza l'analisi e la sintesi. Il
matematico si serve del procedimento analitico quando per dimostrare parte dalla proposizione complessa
riducendola ad una proposizione più semplice di cui essa è una conseguenza necessaria, e così di seguito
finché giunge alla fine ad una proposizione ritenuta certa e la cui verità garantisce quella della
proposizione che si trattava di dimostrare. Questo procedimento si usa generalmente per la soluzione dei
problemi.
Il matematico utilizza il procedimento sintetico quando parte da verità generali - assiomi o
proposizioni già dimostrate - e ne trae, per via di conseguenza, altre proposizioni più complesse. È il
metodo impiegato per la dimostrazione dei teoremi.
La dimostrazione per riduzione all'assurdo è un procedimento indiretto. Essa consiste essenzialmente
nel supporre vera la contraddittoria della proposizione da dimostrare e nel mostrare che essa implica una
o più conseguenze assurde.
B. PRINCÌPI DELLA DIMOSTRAZIONE
148 - Questi princìpi sono tre: le definizioni, gli assiomi, ed i postulati 136.
1. DEFINIZIONI - Le definizioni sono ora essenziali (50), quando danno le proprietà di un oggetto
matematico (ad esempio questa definizione: la circonferenza è una figura i cui punti sono tutti ad uguale
distanza da un punto chiamato centro), ora genetiche, quando formulano la legge di costruzione di un
oggetto matematico (ad esempio: la sfera è il volume generato da un semicerchio che gira intorno al suo
diametro).
La definizione genetica caratterizza le matematiche. La definizione essenziale è secondaria e derivata.
Da ciò deriva che le definizioni matematiche, essendo costruzioni, sono definitive immediatamente e
costituiscono il punto di partenza della dimostrazione, mentre nelle scienze della natura esse sono alla
fine della dimostrazione o della investigazione.
Ciò non significa evidentemente che, psicologicamente o storicamente, le definizioni non siano state il
prodotto di una elaborazione più o meno lunga. Si è visto più sopra come l'esperienza intervenga nella
formazione delle nozioni matematiche. Ma in se stesse, una volta scoperte e formulate, esse esprimono
essenze numeriche o geometriche necessarie e immutabili, che si possono dire ugualmente a priori nel
senso che esse sono universali e indipendenti dalle forme concrete capaci di tradurle nella esperienza o
nella immaginazione.
2. ASSIOMI - Gli assiomi sono princìpi immediatamente evidenti, derivanti dall'applicazione del
principio di identità all'ordine della quantità. Esempio: due quantità uguali ad una terza sono uguali tra
loro; se da due quantità uguali si sottrae una uguale quantità, l'uguaglianza rimane.
Gli assiomi sono verità puramente formali, da cui non si possono dedurre conseguenze come avviene
per le definizioni. In quanto applicazioni immediate del principio di identità all'ordine della quantità, cioè
in quanto formulanti le leggi più generali dell'essere quantitativo come tale, essi si trovano implicati in
ogni ragionamento matematico, così come il principio di non contraddizione è implicato in ogni specie di
ragionamento. Ma, per essere fecondi, essi richiedono una materia determinata cui applicarsi, così come
una misura è utile e feconda solo per le operazioni concrete che permette. Gli assiomi sono la misura
universale dell'essere quantificato.
Con l'apparizione delle geometrie non-euclidee, da una parte, la costruzione delle logiche nonclassiche o non-bivalenti (99) dall'altra, la nozione di verità si è trasformata e indebolita per divenire,
infine, nelle scienze deduttive, sinonimo di coerenza. Nello stesso tempo, la nozione di assioma ha
perduto il suo senso assoluto ed è divenuta l'equivalente di postulato. Gli assiomi di un sistema
costituiscono l'insieme delle proposizioni (considerate come vere per il sistema) dalle quali si può
dedurre, per mezzo delle regole di derivazione, l'insieme delle proposizioni (o teoremi) del sistema 137.
149 - 3. POSTULATI
a) Definizioni. I postulati sono proposizioni che si richiede di ammettere, sebbene non siano né
evidenti, né dimostrabili (116). Il matematico chiede di concederglieli provvisoriamente (di qui il nome
di postulati), giacché la loro dimostrazione dovrà risultare dalla costituzione della scienza che li utilizza.
Tale è il caso del postulato di Euclide: “per un punto preso fuori di una retta, si può sempre condurre
una parallela a questa retta e non si può condurne che una”, - o ancora: “lo spazio è una grandezza a tre
dimensioni”, - o in meccanica, i tre princìpi dell'inerzia, dell'indipendenza dei movimenti, dell'uguaglianza della azione e della reazione.
A questi postulati espliciti si potrebbe aggiungere ancora un certo numero di postulati impliciti, in
particolare questo che “movimenti periodici ripetentisi in condizioni identiche sono essi stessi identici e
per conseguenza di uguale durata”.
b) Teoria delle forme a priori. La questione della natura dei postulati è stata oggetto di numerose
controversie. Kant li considerava come princìpi (o forme) assolutamente a priori e necessari,
indipendentemente da ogni esperienza, e che servono a costituire l'esperienza, non essendo questa
possibile che per mezzo dello spazio a tre dimensioni, del tempo omogeneo, ecc. (Critica della ragion
pura, Estetica trascendentale, tr. it. di Gentile e L. Radice, 2 voll., Bari, 1910).
A questa concezione di Kant si obbietta spesso che essa si troverebbe smentita in realtà dalla costituzione delle geometrie non euclidee, cioè dalle geometrie fondate sui postulati quali quello di
Lobatchewski (per un punto si possono condurre più parallele ad una retta), o quello di Riemann (essendo
lo spazio concepito come illimitato, ma non infinito, non si può, per un punto dato, condurre alcuna
parallela ad una retta, e, per due punti, si possono condurre una infinità di rette). Noi non crediamo valida
questa critica: se i postulati fossero necessari nel senso kantiano, le geometrie non-euclidee sarebbero così
perfettamente concepibili come nell'ipotesi (conforme alla realtà, crediamo) in cui la nozione di spazio
euclideo fosse imposta dall'esperienza obbiettiva. In realtà, la difficoltà che incontra la teoria kantiana è
molto più generale, poiché è tutta la dottrina delle forme a priori dell'intelletto e della sensibilità che è
qui in gioco. Ora noi dimostreremo, in cosmologia e in critica, la difficoltà di questa dottrina.
c) Teoria pragmatistica. Reagendo contro l'apriorismo kantiano, Henri Poincaré definisce i postulati
come comode convenzioni. La geometria euclidea, da questo punto di vista, varrebbe soltanto per la sua
maggiore semplicità (La Science et l'Hypothèse, Parigi, 1902, p. 67; cfr. tr. it., Firenze, 1950). Tuttavia,
per convenzione, H. Poincaré non vuole che si intenda arbitrio. La “comodità” dei postulati risulta
veramente in un senso dalla loro oggettività: se la geometria euclidea è la più comoda, ciò deriva dal fatto
“che essa si accorda molto bene con le proprietà dei solidi naturali” (ibid., p. 67) e dal fatto che essa si
trova nello stesso tempo garantita e suggerita dall'esperienza.
d) I postulati e l'esperienza. In definitiva, sembrerebbe più esatto dire che i postulati siano suggeriti
dall'esperienza come ipotesi molto generali, e che non si verifichino direttamente, ma dalle conseguenze
che essi implicano. Essi hanno cosi una specie di necessità, derivante dalla loro relazione più o meno
immediata con le essenze geometriche o fisiche cui essi si applicano e di cui esprimono delle proprietà.
Questa necessità tuttavia rimane ipotetica, In quanto essa è messa in evidenza soltanto dalla fecondità
logica ( o pratica) dei postulati.
Quanto alle geometrie non euclidee, ne parleremo in cosmologia. Qui osserviamo solamente che,
essendo i loro postulati pure convenzioni arbitrarie, esse, in virtù del loro carattere puramente formale,
costituiscono casi particolari non generalizzabili.
Se la meccanica partisse da un postulato contrario al principio di inerzia, essa potrebbe svilupparsi in
una maniera coerente, non essendo i postulati, secondo l'espressione di H. Poincaré, che definizioni
mascherate, ma essa incapperebbe costantemente nelle smentite dell'esperienza, in ragione del carattere
arbitrario (non sperimentale) delle convenzioni iniziali, cioè delle definizioni 138.
§ 3 - La deduzione matematica
150 – 1. SILLOGISMO E DEDUZIONE MATEMATICA - Il ragionamento matematico dipende
dalle regole generali della sillogistica o costituisce un tipo particolare di dimostrazione? In favore di
quest'ultima opinione, alcuni logici hanno presentato un certo numero di ragioni che conviene esaminare.
a) Rapporti di inclusione e rapporti di equivalenza. Goblot si appoggia innanzi tutto, per distinguere
essenzialmente deduzione sillogistica e deduzione matematica, sul fatto che i rapporti delle grandezze
matematiche sono rapporti di uguaglianza e non di inclusione.
In matematica, egli scrive, “la proprietà iniziale è il principio da cui si deducono le altre proprietà, ma
non il genere di cui esse possano rappresentare le specie. L'uguaglianza degli angoli non è contenuta
nell'uguaglianza dei lati, che definisce il triangolo isoscele, essa ne risulta. L'incommensurabilità della
circonferenza e del diametro, non è contenuta nell'uguaglianza dei raggi, essa ne risulta. Non si tratta di
implicazione di un concetto in un altro né di un giudizio in un altro, si tratta di dipendenza di un giudizio
rispetto ad un altro” (Logique, p. 257).
Queste osservazioni hanno il torto di trascurare il fatto che il sillogismo non è limitato ai rapporti di
inclusione, ma esso si estende pure sui rapporti necessari, sia di causa ad effetto, che di principio a
conseguenza, di natura a proprietà, e considera di conseguenza la dipendenza dei giudizi tra loro (89). In
particolare, ogni volta che il sillogismo considera le proprietà di una cosa, tutto il suo ufficio consiste nel
dimostrare, non che questa proprietà è contenuta nella cosa, ma che essa ne deriva necessariamente
(59); (77). Da questo punto di vista, il ragionamento matematico non sarebbe dunque che un caso
particolare del ragionamento sillogistico 139. Tuttavia, sarà perciò necessario allargare la nozione del
sillogismo, perché come hanno dimostrato Lachelier (Ètudes sur le syllogisme, Parigi, 1907, pp. 34-44) e
i logistici che lo hanno seguito, non si possono spiegare i ragionamenti matematici, formati da
proposizioni relazionali, per mezzo delle sole regole della sillogistica tradizionale (77).
Non c'è dubbio che, facendo apparire una premessa maggiore sottintesa si sono potuti ridurre all'uno o
all'altro sillogismo alcuni ragionamenti matematici semplici, ma ciò si è potuto fare nella maggior parte
dei casi, solo a danno della chiarezza e della precisione.
Goblot (Traité de Logique, n. 117) riduce così il ragionamento
“a=b, b=c, dunque a=c” in un sillogismo in Barbara:
Due quantità uguali a una terza sono uguali tra loro; a e c sono due quantità uguali a una terza; dunque
a e c sono uguali tra loro.
Per spiegare un ragionamento analogo (per esempio: a=b e b=c, dunque a=c), R. Le Masson 140 è
costretto a ricorrere a due sillogismi e ad impiegare una premessa maggiore molto meno chiara e meno
evidente del ragionamento del quale parliamo. Questa premessa maggiore d'altra parte non fa che porre in
una forma più oscura la tesi da dimostrare.
In realtà i ragionamenti matematici rientrano in una “sillogistica” nel senso largo, la cui teoria è stata
formulata solo dai logici contemporanei, e particolarmente da Whitehead e da Russell141: la teoria o
logica delle relazioni (96).
b) La “ virtù creatrice” delle matematiche. H. Poincarè contro il sillogismo ha fatto valere che esso
sarebbe “un'enorme tautologia” e perfettamente incapace di aggiungere qualcosa ai dati ad esso forniti,
mentre la dimostrazione matematica avrebbe per se stessa una specie di virtù creatrice (La Science et
l'Hypothèse, p. 10). Ma v'è in ciò un duplice equivoco. Da una parte si è visto che il sillogismo è
realmente fecondo (89). Dall'altra parte, se le matematiche sono “creatrici”, in un senso che non si addice
a tutte le specie di ragionamenti deduttivi, ciò deriva dal carattere speciale del loro oggetto, che è,
puramente ideale: le matematiche procedono a costruzioni che sono sottomesse soltanto alle leggi della
coerenza formale, mentre negli altri campi, il pensiero ha più da scoprire che da costruire. La scoperta
d'altra parte, non richiede meno ingegnosità della costruzione e la fecondità dello spirito vi si manifesta
come nel campo matematico.
151 c) Il ragionamento matematico: deduzione o sillogismo? Ed. Goblot, per distinguere il
ragionamento matematico (deduttivo per eccellenza) dal sillogismo tradizionale, pretende che, “nelle
scienze matematiche, nessuna dimostrazione ha per oggetto di stabilire la proposizione singolare o
speciale contenuta in una generale” (Traité de Logique, n. 160)
a quest'asserzione si può rispondere:
l) Che la sillogistica tradizionale comprende, oltre ai sillogismi predicativi (fondati su concatenamenti
di concetti), i sillogismi ipotetici degli Stoici (33). Ed è incontestabile che alcuni ragionamenti matematici, in particolare le dimostrazioni per assurdo così formulate:
(p  q  q)  N p, cioè se p implica q e se non - q, allora non - p), rientrano nella categoria dei
sillogismi ipotetici.
2) Che se è vero che Aristotele ha formulato solo la teoria dei sillogismi predicativi, è altresì certo,
come abbiamo già osservato (72), che la sua definizione del sillogismo è così vasta da comprendere tutte
le forme del ragionamento deduttivo.
3) Che è falso sostenere, come fa Goblot, che il ragionamento matematico non passa mai da una
proprietà più generale a una proprietà meno generale. Senza dubbio, la maggior parte delle deduzioni
matematiche procedono dal meno generale al più generale (il teorema della somma degli angoli del
poligono deriva dal teorema della somma degli angoli del triangolo, e il triangolo è un caso particolare del
poligono). Ma, da una parte, ci sono casi, in cui il livello di generalità è lo stesso sia nella conclusione che
nelle premesse (caso del triangolo isoscele, in cui dall'uguaglianza dei lati si deduce l'uguaglianza degli
angoli), e dall'altra parte, casi in cui la conclusione è più particolare delle premesse (tutti i casi di
applicazioni, almeno tanto numerosi quanto i casi di generalizzazioni; per esempio: sapendo che un
numero è divisibile per 9, se la somma delle sue cifre è divisibile per 9, ne deduco che 4059 è divisibile
per 9, perché 4 + 5 + 9 = 18 è divisibile per 9).
152 - 2. C'È UNA INDUZIONE MATEMATICA? - H. Poincaré, in ragione dell'errore che
commetteva sulla natura del sillogismo e sui rapporti di questo con il ragionamento matematico, è stato
condotto, per spiegare la “virtù creatrice” delle matematiche, a supporre che esse utilizzassero una specie
di induzione, che egli chiamava ragionamento per ricorrenza o induzione completa (La Science et
l'Hypothèse, p. 19). Questo ragionamento consisterebbe essenzialmente in ciò: “Si stabilisce dapprima un
teorema per n = l; si dimostra poi che se esso è vero per n - l, esso è vero per n e si conclude che esso è
vero per tutti i numeri interi”. Poincaré vede in ciò il ragionamento matematico per eccellenza, che ha la
caratteristica dell'induzione, la quale consiste nell'estendere a tutti i casi simili ciò che è stato verificato di
un caso particolare.
È tuttavia dubbio che si abbia in questo procedimento una vera induzione. Sembra piuttosto che si
abbia a che fare con una deduzione, consistente nell'applicare indefinitamente una proprietà verificata di
un caso dato di costruzione numerica a numeri costruiti nello stesso modo, deduzione che potrebbe
tradursi sotto la forma seguente:
Ciò che è vero di n, lo è di n + 1.
Ora tale proprietà è vera per n.
Dunque essa è vera per n + 1.
3. LA COSTRUZIONE MATEMATICA - Tutte queste discussioni conducono a rilevare la vera
natura della costruzione matematica. Il ragionamento matematico è costruttivo, in quanto estende
indefinitamente le proprietà o applicazioni dei dati iniziali, per mezzo di combinazioni sempre più
complesse di valori numerici o di figure, che sono serviti come punto di partenza. Noi abbiamo dunque
bensì a che fare con procedimenti deduttivi, che mettono in opera il ragionamento sillogistico, ma
applicati ad oggetti ideali che sono suscettibili di combinazioni e di applicazioni praticamente indefinite.
§ 4 Funzione delle matematiche
153 - Si può esaminare la funzione delle matematiche da due punti di vista: dal punto di vista
scientifico e dal punto di vista della formazione dello spirito.
1. LE MATEMATICHE E LE SCIENZE DELLA NATURA - Le matematiche forniscono alle scienze
della natura un linguaggio comodo ed uno strumento di una grande fecondità pratica.
a) La matematizzazione delle scienze. H. Poincaré osserva che, se tutte le leggi sono tratte
dall'esperienza, è necessaria una lingua speciale per enunciarle, essendo troppo vago il linguaggio
ordinario per esprimere rapporti precisi. (La valeur de la science, Parigi, 1905, p. 141). Le scienze della
natura si sforzano infatti di ricondurre i fenomeni qualitativi dell'universo ad una espressione
quantitativa, che non definisce i fenomeni in se stessi, ma unicamente nel loro modo d'azione e nei loro
rapporti reciproci. La formula numerica è dunque il linguaggio naturale delle scienze ed il linguaggio più
rigoroso che esse possano utilizzare.
Per stabilire queste formule, esse ricorrono a strumenti di misura sempre più perfetti, e tendono a dare
alle leggi la forma di funzioni matematiche, suscettibili di una espressione grafica. In molti casi, esse
riescono perfino ad ottenere che il fenomeno stesso registri la curva delle sue variazioni, il cui studio
permette poi di formulare matematicamente la legge alla quale esso obbedisce. Tale è, ad esempio, il
grafico della caduta di un corpo, ottenuto con l'apparecchio di Morin (Fig. 9), oppure il grafico registrato
sul tamburo dallo stiletto del diapason.
b) Fecondità pratica - L'espressione matematica dei fenomeni può a sua volta favorire importanti
scoperte. La comparazione delle formule di fenomeni molto diversi permette spesso di scoprire analogie
che erano sfuggite all'osservazione e di suggerire generalizzazioni estremamente estese.
“Una stessa equazione, scrive H. Poincaré, quella di Lap1ace, si riscontra nella teoria dell'attrazione
newtoniana, in quella del movimento dei liquidi, in quella del potenziale elettrico, in quella del magnetismo, in quella della propagazione del calore ed in molte altre ancora. Che ne risulta? Queste teorie
servendosi del loro linguaggio si chiariscono reciprocamente; chiedete ai fisici se non si rallegrano per
aver inventato il termine di flusso di forza”. (La valeur de la science, p. 141).
D'altra parte, la natura funzionale delle leggi permette indefinite applicazioni. Grazie all'equazione in
cui si esprime la legge, si può determinare, indipendentemente da ogni esperienza concreta, quale risultato
si debba attendere per un determinato valore numerico delle variabili e, inversamente, quale valore
debbano ricevere le variabili per un determinato risultato ricercato. Tutti i formulari degli ingegneri
dipendono da questo principio.
155 - c) IL REALE NON-MATEMATIZZABILE - Per quanto grande sia la funzione delle
matematiche nella scienza, essa non è illimitata, come credeva Cartesio. Che, in realtà, Cartesio volesse
che il metodo matematico fosse il metodo universale. derivava da una concezione intesa a ridurre tutto il
campo materiale alla pura estensione geometrica, definita dai suoi due attributi, la figura ed il movimento,
ed altresì da una concezione deduttiva della scienza. Ora su questi due punti egli errava. Da un lato infatti,
c'è tutta una parte del reale che non è matematizzabile, neppure indirettamente: senza parlare dei fatti di
natura spirituale, ribelli alla misura, senza parlare pure delle scienze umane, in cui il calcolo, quand'è
possibile, non può intervenire che sotto forma statistica; i fenomeni biologici, nonostante l'importanza che
vi possono acquistare i procedimenti di controllo dell'analisi fisico-chimica, sfuggono, come tali, per la
loro stessa essenza. al calcolo numerico, poiché la finalità che li definisce è qualcosa di irriducibile ai
meccanismi da essa utilizzati come strumenti; ridurre a cifre od a equazioni il gioco di questi meccanismi
non equivarrebbe a spiegare la vita e la sua organizzazione.
Questa considerazione occorre fare per tutto il reale, pure per quello fisico-chimico. Ammirevoli per la
potenza che esse ci conferiscono sulla natura, misurandola, le scienze matematizzate ci forniscono
soltanto una figura simbolica del reale: esse ce lo fanno conoscere solamente attraverso la remota
analogia della rappresentazione numerica. Quando si sa che il coefficiente di dilatazione cubica del
metallo si esprime con l'equazione
v = v° (l + kt)
si ha una formula di una precisione e di una efficacia certa, per trattare i metalli, ma non, propriamente
parlando, la conoscenza del metallo. Il sapere quantificato, per quanto preciso e fecondo, rimane un
sapere superficiale.
Dall'altro lato, il metodo deduttivo può intervenire nelle scienze solo quando esse sono già costituite,
cioè quando sono state determinate in maniera completa le condizioni da cui dipende il gioco dei
fenomeni. Questa condizione è data soltanto raramente, soprattutto in quei campi in cui la complessità dei
fenomeni è estrema. Così, per lo più, le scienze non possono procedere che per induzione. Senza dubbio,
la deduzione rimane l'ideale della scienza: ogni scienza ha l'ambizione di scoprire la formula generale da
cui si possano dedurre matematicamente tutte le leggi particolari, e l'insieme delle scienze aspira a
scoprire l'unica formula che sia in grado di comprenderle tutte, come un principio supremo comprende la
successione indefinita delle sue conseguenze142. Potrebbe darsi tuttavia che fosse soltanto ideale
utopistico questo di sperare di poter descrivere l'universo materiale e “la sua organizzazione così
abissalmente vasta e profonda”, secondo il detto di Hamelin, in quelle “lunghe catene di ragioni, tutte
semplici e facili” che Cartesio aveva immaginate143.
156 - 2. LE MATEMATICHE E LA FORMAZIONE DELLO SPIRITO - Si esaltano molto le
matematiche per l'abitudine che si pensa possano generare nello spirito di procedere per idee chiare e
distinte e per ragionamenti rigorosi. Si è pure talvolta preteso che il loro uso possa sostituire lo studio
della logica.
Queste opinioni sono contestabili. Il metodo matematico certamente procura allo spirito abitudini di
chiarezza e di rigore, ma che rimangono valide soltanto nel campo del calcolo e per nulla generalizzabili,
essendo la chiarezza ed il rigore del pensiero reale (cioè del pensiero che si estende sul reale concreto) di
un genere assai differente. Le matematiche in realtà hanno a che fare soltanto con oggetti semplici e del
tutto analizzabili, mentre il reale è straordinariamente complesso e, quando si giunge all'individuale, si
ribella all'analisi (51). Il peggior errore sarebbe di voler trattare questo reale secondo lo spirito
matematico e, come si esprime Pascal, di prendere gli uomini per teoremi. Da ciò deriva ancora che ci
sarebbe errore, per confusione di generi, nell'esigere ovunque, in materia di prova, il rigore matematico, e
nel ricusare la certezza fisica o morale nei campi in cui essa sola è accessibile. È irragionevole sacrificare
alla tirannia dell'equazione fino al punto di negare ogni valore scientifico ai concetti che non cadono sotto
la giurisdizione del numero (112). Se dunque le matematiche possono rendere preziosi servizi per la
formazione dell'intelligenza, questo avviene però alla condizione che l'esprit de géometrie sia
constantemente temperato dall'esprit de finesse, cioè dall'esigenza del concreto e dal senso della sua
infinita complessità 144.
Art. II – Metodo delle scienze della natura
SOMMARIO145
§ l - NOZIONI GENERALI. Le scienze sperimentali - Divisione - Scienze fisico-chimiche e scienze
biologiche - Della divisione in scienze fisiche e scienze naturali - Le differenti fasi delle scienze
sperimentali - Descrizione e classificazione - Induzione – Deduzione.
§ 2 - PROCEDIMENTI. L'osservazione - Concetto - Sensi e strumenti ­ Osservazione e sperimentazione Condizioni: morali, intellettuali, materiali - Il fatto scientifico - L'ipotesi - Concetto - Origini ­
Condizioni di validità - La sperimentazione - Concetto - Principio generale della sperimentazione - Le
tavole di Bacone - Il metodo di coincidenza isolata di Stuart Mill - L'induzione ­Concetto - Le leggi
scientifiche - Le teorie scientifiche - Il fondamento dell'induzione - Il principio del determinismo L'indeterminismo nella fisica contemporanea - Determinismo e finalità ­Valore del principio del
determinismo.
§ 3 - PROCEDIMENTI PARTICOLARI DELLA BIOLOGIA. Nozioni generali ­ Specificità delle
scienze biologiche - Il punto di vista finalistico ­ Divisione - La classificazione - Le differenti specie di
classificazione - I metodi di classificazione: comparazione, correlazione e subordinazione delle forme
- Principio della serie naturale ­Valore delle classificazioni - Tipi di organizzazione e tipi formali.
§ l - Nozioni generali
A. LE SCIENZE SPERIMENTALI
157 - Sono chiamate col nome generale di scienze della natura le scienze che hanno per oggetto i
fenomeni dell'universo materiale. Sono dette anche scienze sperimentali poiché esse si fondano
sull'esperienza e vi si riferiscono costantemente, come al solo criterio di validità delle loro conclusioni.
Esse ricevono altresì il nome di scienze induttive in quanto partono da fatti singolari per risalire alle leggi
che li reggono.
B. DIVISIONE
158 - l - SCIENZE FISICO-CHIMICHE E SCIENZE BIOLOGICHE - Si è visto più sopra (135) che
si possono distinguere due gruppi di scienze della natura: le scienze fisico-chimiche, concernenti i
fenomeni della natura bruta o inorganica e comprendenti da un lato la fisica, che ha per oggetto l'energia
sotto le sue differenti forme, dall'altro lato la chimica che tratta la costituzione dei differenti corpi e le loro
trasformazioni profonde e permanenti; - le scienze biologiche, che trattano gli esseri viventi come tali ed i
fenomeni particolari della vita organica.
Per definire sperimentalmente la fisica e la chimica, bisogna dire che la fisica è la scienza dei
fenomeni (movimento, peso, pressione, calore, luce, suono, elettricità, ecc.) che non modificano la
struttura molecolare dei corpi, mentre la chimica è la scienza delle specie chimiche (definite da un
gruppo di proprietà o, più esattamente ancora, dalla misura di queste proprietà in peso, volume ed
energia) e dei mutamenti che interessano la loro struttura molecolare.
2. - DELLA DIVISIONE IN “SCIENZE FISICHE” E “SCIENZE NATURALI” - Si è talvolta voluto
distinguere un gruppo di scienze (mineralogia, botanica, zoologia, anatomia, ecc.) la cui ambizione non
supererebbe la osservazione e la classificazione dei fatti. Queste scienze (chiamate scienze naturali) si
pensa vertano su esseri concreti, per opposizione ad un altro gruppo (scienze sperimentali) che avrebbe
per oggetto i fenomeni e le loro relazioni costanti. Questa divisione tuttavia appare alquanto arbitraria. Da
una parte, infatti, le scienze “naturali” si occupano, esse pure, dei fenomeni, cioè delle forme e delle
strutture, ed esse tendono ugualmente a formulare leggi (leggi di costituzione, di correlazione, di
evoluzione), partendo da ipotesi suggerite dall'osservazione e dalla descrizione. Dall'altra parte, si può
dire che in un certo senso le scienze sperimentali concernano gli esseri della natura; la chimica, in
particolare, studia la costituzione dei corpi, le loro combinazioni e trasformazioni. La fisica atomica, dal
canto suo, sembra rispondere bene alla definizione delle “scienze naturali”. Si vede dunque che non c'è
motivo di mantenere una divisione che non ha un fondamento oggettivo sufficiente e che è meglio
attenersi alla divisione in scienze fisico-chimiche ed in scienze biologiche.
C. LE DIFFERENTI FASI DELLE SCIENZE SPERIMENTALI
159 - 1. DESCRIZIONE E CLASSIFICAZIONE - Le scienze sperimentali sono scienze di fatti, a
differenza delle matematiche, che hanno giurisdizione su oggetti ideali, costruiti dal matematico. Si
tratterà dunque, nelle scienze della natura, di cominciare ad osservare il reale nella maniera più vasta e
più esatta possibile. Bacone assegnava come primo compito alla scienza l'accumulare i fatti singolari e
concreti, senza preoccupazione di spiegazione: è ciò che egli chiamava “la caccia di Pan”. In realtà, né lo
sforzo di definire, né quello di classificare e di spiegare sono realmente lontani dalla fase descrittiva
della scienza e l'accumulazione delle osservazioni non è sempre una condizione né una prova di genuino
spirito scientifico. Una massa di fatti è solamente la materia bruta della osservazione. Questa, per essere
veramente scientifica, deve sforzarsi di definire i fatti o gli esseri ai quali si applica, cioè in questa fase di
descrivere esattamente le apparenze e le circostanze, poi di raggruppare i fatti o gli esseri in categorie, in
funzione dei caratteri comuni che essi possiedono, in modo da ricondurre la loro molteplicità ad un certo
numero di tipi generali, che saranno in sostanza l'oggetto immediato della scienza. Tutto ciò implica
evidentemente un primo sforzo di spiegazione provvisoria, in cui si manifesta la sagacia dello scienziato.
160 - 2. INDUZIONE - La scienza tende a scoprire delle relazioni costanti tra fenomeni, esprimibili
per quanto possibile in formule matematiche rigorose. Queste relazioni, essa deve innanzitutto
immaginarle sotto forma di ipotesi o di idee anticipate, secondo l'espressione di Claude Bernard, che poi
si tratterà di verificare o di controllare con esperienze più o meno numerose, costituenti la fase della
sperimentazione. Il procedimento, a questo stadio, dal punto di vista del fine perseguito, è propriamente
induttivo, nel senso che esso tende a formulare delle leggi universali, le quali non sono altro che quelle
ipotesi o idee la cui obbiettività si è potuta verificare attraverso la sperimentazione. Ciò non significa
tuttavia che sia esclusa ogni specie di deduzione: vedremo al contrario che la sperimentazione consiste
per lo più nel controllare delle conseguenze dedotte dall'ipotesi anteriormente formulata.
Così dunque, l'induzione permette, insieme con la formulazione delle leggi, di sostituire alle
definizioni e classificazioni provvisorie della fase descrittiva, definizioni o classificazioni definitive (di
diritto, se non di fatto). Queste, infatti, possono evidentemente derivare soltanto da una conoscenza certa
della natura dei fenomeni, la quale è realmente data soltanto alla fine della investigazione scientifica.
3. DEDUZIONE - Il gioco dell'induzione tende di per sé alla maggiore universalità possibile. La
scienza non si appaga di aver stabilito delle leggi particolari, essa si sforza, più oltre, di riportare queste
leggi all'unità di una legge superiore e più generale, formulando nuove ipotesi, che ricevono il nome di
teorie scientifiche, le cui leggi particolari devono rivelarsi come tali da costituirne le molteplici
conseguenze. A questo grado è particolarmente all'opera la profonda ambizione della scienza di costituirsi
in disciplina deduttiva. Questa ambizione risulta soddisfatta principalmente in quanto le teorie permettono
di passare, per deduzione, a conseguenze verificabili che accrescono la nostra conoscenza del reale. Le
scienze si costruiscono mediante questo gioco alternato d'induzione e deduzione. Di qui il nome di
metodo ipotetico deduttivo dato a questa forma di ragionamento scientifico.
Così la gravitazione universale combinata col principio dell'inerzia ha potuto spiegare i movimenti
degli astri e ha permesso di prevedere con precisione e anche di scoprire nuovi astri, grazie alle
perturbazioni che questi provocano nel movimento dei pianeti conosciuti.
Nello stesso modo, più recentemente, ha portato alla costruzione dei satelliti artificiali, che è la prima
esperienza di astronomia, la quale nel medesimo tempo permetterà di moltiplicare le osservazioni sugli
spazi interplanetari.
§ 2. - Procedimenti
161 - Si possono distinguere quattro fasi nell’ elaborazione delle scienze della natura. Due concernono
la conoscenza dei fenomeni: la osservazione e la sperimentazione: altre due concernono la formulazione
delle leggi: e sono l'ipotesi e l'induzione.
A. L'OSSERVAZIONE
1. CONCETTO
a) Osservazione empirica e osservazione scientifica. Osservare, in generale, consiste nell'applicare
l'attenzione ad un oggetto per ben conoscerlo. L'atto di osservare è uno dei più costanti della nostra vita:
esso è provocato sia dai bisogni pratici della vita, sia dallo sforzo disinteressato di conoscere. E' da questo
che la scienza procede in primo luogo (127), e, da questo punto di vista, si può dire che ogni osservazione attenta e curiosa è già l'abbozzo di un sapere scientifico. Così un fisico contemporaneo ha potuto
scrivere che non c'è “alcuna differenza di essenza tra gli enunciati dell'osservazione corrente e le leggi
della fisica, che abbracciano un maggior numero di fatti meglio studiati”. (P. Langevin, “Bull. Soc. Phil.”,
1909, p. 174).
Tuttavia, se l'osservazione scientifica differisce solo per il suo grado di perfezione dall'osservazione
empirica, la differenza è davvero considerevole. L'osservazione empirica, infatti, si compie a caso e senza
metodo rigoroso: così essa lascia spesso sfuggire i fatti significativi per rivolgersi, al contrario, a fatti
privi di interesse per lo scienziato.
I giardinieri fiorentini si limitavano a constatare che le loro pompe aspiranti non potevano innalzare
l'acqua ad una altezza superiore ai 10 metri: questo fatto acquistò, agli occhi di Galileo e di Torricelli,
un'importanza di prim'ordine. Nel 1643, Torricelli ebbe nettamente l'idea che l'elevazione dell'acqua nelle
pompe era prodotta dalla pressione atmosferica e che sostituendo all'acqua il mercurio, più denso, la
colonna liquida sarebbe stata meno alta, ciò che diverse esperienze verificarono.
Se ne ricava che l'osservazione empirica si ferma frequentemente alla semplice constatazione dei fatti
o che essa non si cura di controllare metodicamente le ipotesi suggeritele, priva com'è dei mezzi per farlo.
L'osservazione scientifica è dunque una osservazione metodica, rigorosa e precisa e orientata verso la
spiegazione dei fatti.
162 - b) Sensi e strumenti - Vi sono dei casi in cui i soli sensi bastano per una osservazione veramente
scientifica. In origine, i sensi sono stati i soli strumenti dell'osservatore: proprio col loro ausilio gli
uomini hanno cominciato a dissociare la massa compatta dei fenomeni per meglio studiarli. Si potrebbe
pure dire che i sensi sono gli unici strumenti dell'osservatore, poiché gli strumenti artificiali usati dallo
scienziato, per quanto perfezionati siano, sono soltanto sensi più sottili e penetranti. Ma essi sono pure
sensi “razionalizzati” : lo strumento della misura implica già tutta una teoria scientifica nel suo complesso
meccanismo. Da questo punto di vista, si potrà dire, con G. Bachelard (La formation de l'esprit
scientifique, 2a ed. Parigi,. 1947, p. 242) che “il microscopio è un prolungamento dello spirito più che
dell'occhio”.
L'uso di questi strumenti artificiali di osservazione è divenuto sempre più necessario, man mano che la
scienza progrediva. “L'uomo, scrive Claude Bernard, può osservare i fenomeni che lo circondano soltanto
in limiti assai ristretti; il numero maggiore di fenomeni sfugge naturalmente ai suoi sensi, e la semplice
osservazione non gli basta. Per estendere le sue conoscenze, egli ha dovuto amplificare, per mezzo di
speciali apparecchi, la potenza di questi organi, mentre s'é pure fornito di strumenti diversi che gli hanno
permesso di penetrare nell'interno dei corpi per scomporli e per studiarne le parti nascoste”.
L'osservazione così condotta con l'aiuto di strumenti è stata chiamata da C. Bernard, osservazione armata.
Si pensi alla potenza che il microscopio, ad esempio, ha conferito al fisiologo per la conoscenza degli
organi e dei loro infimi elementi ed al fisico per la scomposizione della materia nei suoi elementi. Man
mano che la conoscenza del reale diviene più precisa, nuovi strumenti vengono a soddisfare gli
accresciuti bisogni dello scienziato, sia per la rilevazione dei fenomeni (microscopio, telescopio,
fotografia, elettroscopio, spettroscopio, ecc.), - sia per la registrazione e l'amplificazione dei fenomeni
(sismografo, sfigmografo, miografo, ecc.), - sia per la misurazione dei fenomeni, (termometro, barometro,
dinamometro, voltametro, igrometro, ecc.).
Grazie ai differenti strumenti, la scienza ottiene misure sempre più minuziose, che in alcuni casi vanno
fino al decimiliardesimo di metro o al miliardesimo di chilogrammo. Se queste misure sono esse pure
soltanto approssimazioni, oltrepassano immensamente per rigore le possibilità dei semplici sensi.
Senza dubbio è impossibile eludere la finale necessità di constatare direttamente, con i sensi, gli effetti
prodotti sugli strumenti di rilievo e di misura e, per ciò stesso, la relatività legata all'intervento
dell'organismo non può essere completamente eliminata. Nondimeno la scienza si sforza, pure a questo
punto, di ridurla. Essa a questo fine ha la possibilità della scelta dell'operazione finale in cui interviene la
sensibilità organica: questa scelta opterà per il senso che sia meno “relativo” e per le condizioni in cui la
sua oggettività sia meglio garantita. È noto infatti che alcuni sensi sono meno “relativi” di altri (il tatto è
più obbiettivo del gusto; la vista è più obbiettiva del tatto) e che, in questi stessi sensi, alcuni aspetti sono
meno relativi di altri (nella vista, ad esempio, la sensibilità allo spazio è più precisa e più obbiettiva che la
sensibilità alla luce). Si distinguono così percezioni privilegiate, assai scarse, in verità, e tali che il loro
uso diretto ridurrebbe immensamente il campo dell'osservabile, mentre invece l'uso indiretto ne è
praticamente illimitato. In questo modo la scienza ha trovato il mezzo di portare tutti i fatti fisici alla
possibilità di una iscrizione sui cilindri registratori. Da ciò appare in che modo, partendo da alcune
percezioni privilegiate, grazie alla libera selezione delle percezioni e degli strumenti da utilizzare, la
scienza crei le condizioni più favorevoli ad una conoscenza dell'universo obbiettiva quant'è possibile.
163 - c) Osservazione e sperimentazione. Cl. Bernard ha studiato a lungo, nella sua Introduction à la
Médecine expérimentale, la differenza che è necessario porre tra osservazione e sperimentazione.
Innanzitutto si potrebbe pensare, egli dice che tutte queste differenze si riducano a questa: “il fatto che lo
sperimentatore deve constatare non si è presentato naturalmente a lui (che) ha dovuto farlo apparire, cioè
provocarlo per una ragione particolare ed in un punto determinato. Onde ne consegue che si può dire:
l'esperienza in fondo non è che una osservazione provocata in un punto qualsiasi” (§ 5). Sembra tuttavia
opportuno per maggior precisione, dire che l'osservazione è l'insieme dei processi, provocati o no, che
conducono ad elaborare una ipotesi o idea direttrice, mentre la sperimentazione è l'insieme delle
esperienze che tendono a controllare una idea o una ipotesi. Da questo punto di vista, si avranno delle
“esperienze per vedere”, cioè implicanti l'intervento attivo dello scienziato nel corso dei fenomeni, che
condurranno all'osservazione propriamente detta, in quanto esse non sono fatte per verificare un'idea, ma
per aiutarla a formularsi o a chiarirsi. Si avranno, inversamente, delle esperienze già preparate dalla
natura che equivarranno ad una sperimentazione in quanto esse serviranno a verificare un'ipotesi già
formulata.
Così avviene, osserva Cl. Bernard, (Introduction, § l), di una infinità di lesioni patologiche, da cui il
medico ed il fisiologo traggono profitto, senza tuttavia che da parte loro vi sia alcuna premeditazione per
provocare queste lesioni, effetto semplicemente della malattia.
Conviene infine osservare, ancora con Cl. Bernard, che osservazione e sperimentazione sono spesso
difficili a distinguersi nettamente. L'osservatore, in realtà, non è mai veramente passivo di fronte ai
fenomeni, nel senso innanzi tutto che egli deve per lo più “pescare in acqua torbida”, cioè andare alla
ricerca dei fenomeni fra complessi compatti e confusi, - e soprattutto nel senso che l'osservazione è già
guidata da una idea preconcepita, che conduce lo scienziato a variare l'esperienza, modificandone le
circostanze, la materia, la quantità, ecc., a ripeterla e ad estenderla ad altri casi (ad esempio dal suono alla
luce), a invertirla con una controprova, a farne applicazioni diverse, a riunire differenti esperienze e a
realizzare esperienze cruciali. In tutto questo processo, descritto da Bacone, una specie di
sperimentazione o di controllo è già in atto. - Dal canto suo, la sperimentazione propriamente detta è
dovunque un aspetto, un prolungamento dell'osservazione: l'idea direttrice rimane per così dire in
sospeso, poiché gli sforzi dello scienziato hanno per effetto di condurre spesso ad una determinazione più
precisa dei fatti osservati oppure alla scoperta di fatti nuovi suscettibili di modificare la direzione delle
sue ricerche. Se dunque osservazione e sperimentazione rispondono a momenti logicamente distinti del
metodo sperimentale, entrambe procedono normalmente alla pari porgendosi un mutuo appoggio.
164 - 2. CONDIZIONI - Si tratta di constatare i fatti. L'osservazione deve dunque soddisfare alle
condizioni morali, intellettuali e materiali che garantiranno il suo valore obbiettivo. Queste condizioni si
applicano d'altronde parimenti alla sperimentazione.
a) Condizioni morali. Esse si riducono alla imparzialità e alla pazienza. Claude Bernard vuole che
l'osservatore sia “il fotografo dei fenomeni”. Ciò non significa in alcun modo ch'egli debba rimanere
passivo, ma solo che deve sottomettersi al reale, e per questo eliminare ogni idea che non sia suggerita dai
fatti stessi o che sia imposta da considerazioni estranee al campo scientifico. Egli deve lasciarsi condurre
dalla natura, e liberarsi dai pregiudizi o dalla precipitazione, che tenderebbero a falsare la ricerca e
l'obbiettività della sua visione.
b) Condizioni intellettuali. Queste condizioni non sono a disposizione assoluta dello scienziato. Esse
sono, per una parte importante, frutto del genio stesso. Tuttavia esse sono pure parzialmente frutto del suo
metodo. I fatti, in generale, sono di una estrema complessità; essi aumentano ogni giorno nella scienza
moderna, in virtù della potenza degli strumenti che essa utilizza. Così, sempre più bisogna ricorrere a
tecniche precise, di un uso assai delicato e richiedenti l'impiego di metodi rigorosi. L'osservatore
coscienzioso è dunque prima di tutto un osservatore metodico, e la sagacità che è sotto questo rispetto la
sua qualità precipua consisterà in misura importante nel procedere con più ordine e con la minuzia
necessaria.
c) Condizioni materiali. Lo scienziato deve infine adoperare tutti i mezzi che gli strumenti di analisi o
di misura gli forniscono per attuare una osservazione corretta, sforzandosi costantemente di correggere le
cause accidentali di errore che possono provenire dagli stessi strumenti, sia soprattutto da condizioni
personali, cioè dal temperamento psico-fisiologico dell'osservatore stesso.
165 - 3. IL FATTO SCIENTIFICO - È manifesto ormai come ed in che cosa il fatto scientifico
differisca dal fatto bruto, cioè dal fatto quale è dato nell'esperienza sensibile immediata o nella intuizione,
con i suoi caratteri di complessità concreta e di instabilità. Il passaggio dal fatto bruto al fatto scientifico
è contrassegnato dall'intervento di un sistema di segni per quanto possibile invariabili e concisi, intesi ad
apprezzare obbiettivamente le variazioni delle qualità o dei fenomeni, ciò che conduce direttamente,
come si è visto, alla schematizzazione matematica. L'astrazione matematica infatti riesce sempre più la
forma propria della sperimentazione e di conseguenza del fatto scientifico. Ne consegue che il fatto
scientifico si definisce con i caratteri seguenti:
a) Il fatto scientifico è un fatto misurato. Uno dei titoli di gloria dei geni scientifici del XVI e del XVII
secolo è stato quello di scoprire che la fisica non poteva diventare chiara e rigorosa che parlando il
linguaggio matematico, cioè sforzandosi di rappresentare con numeri tutte le nozioni di cui essa fa uso.
“Io non accetto affatto princìpi in fisica, scriveva Cartesio, che non siano pure accettati in matematica”.
(Principes de la Phil. in Oeuvres, 11 voll., ed. Adam e Tannery, Parigi, 1897-1909; tr. it., 3.a ed. Bari,
1934; II, 4.) In virtù di questa concezione gli elementi qualitativi sono sistematicamente ricondotti alla
quantità (153) con tutta una serie di espedienti sempre più complessi, che traducono, ad esempio, il
colore o il suono in moti vibratori di una determinata frequenza al secondo, l'elettricità in spostamento
misurabile su una scala di galvanometro, di amperometro, di voltametro, ecc., il calore col livello di
mercurio in un tubo di vetro, ecc. Ciò che occupa ormai l'attenzione dello scienziato, non è più il
fenomeno generale, ma la forma matematizzata, con le sue variabili. Per lui, le proprietà fisiche si
riducono rigorosamente alla descrizione del loro procedimento di misura.
L'artificio della misura d'altra parte ha la conseguenza di permettere alla scienza di scoprire fatti
inaccessibili alla intuizione sensibile. La sperimentazione ha rivelato aspetti del reale per i quali non
disponiamo di alcun apparato sensoriale: ad esempio, la pressione atmosferica, il potenziale elettrostatico. Abbiamo così una massa di fatti scientifici che si possono cogliere solo in forma quantitativa,
tramite le variazioni misurabili degli strumenti-testimoni 146.
166 - b) Il fatto scientifico è un fatto astratto. Esso è “astratto” in più sensi. Innanzitutto, in quanto è
isolato dall'insieme in cui si trova normalmente situato. La scienza procede con frazionamento e con
sistemi chiusi, cioè con un procedimento che tende a distinguere gruppi di avvenimenti legati da un
significato più che dalla loro localizzazione in questo o in quel punto dello spazio. Per ciò stesso, essa
immobilizza il movimento e schematizza il reale sensibile. D'altra parte, il fatto scientifico è astratto nel
senso che per riduzione agli elementi costanti che lo costituiscono, esso è portato ad un grado, di
generalità che ne fa il sostituto e il simbolo di una essenza astratta e universale. La forma matematica
porta al suo punto più alto questo carattere astratto delle nozioni e delle leggi scientifiche. La formula 
ph =  1/2 mv2 definisce, in tutti i casi possibili, il lavoro effettuato dalla caduta dei gravi.
167 - c) Il fatto scientifico è un fatto interpretato (o “razionalizzato”). Si fa osservare talvolta che il
fatto scientifico è un “fatto costruito”. Ciò è vero, tuttavia, in un senso che la psicologia e la critica
spiegheranno, per ogni sorta di fatti. Il fatto scientifico è inoltre suscettibile di rientrare in un sistema o in
una legge, cioè la sua intelligibilità è relativa a questa legge o a questo sistema. Esso forma dunque un
tutt'uno con la sua interpretazione ed è proprio costituito per una parte da questa interpretazione o
“razionalizzazione” 147. In certi casi, i fatti scientifici hanno soltanto un carattere teorico od un valore di
segni: tali sono, ad esempio, l'etere, le onde elettriche, luminose, ecc. 148. La parte di esperienza bruta
mantenuta in sé dal fatto scientifico è come il nucleo di oggettività pura che potrà adattarsi all'occorrenza
ad un altro simbolismo matematico o ad un'altra teoria fisica. L'ottica, con le teorie dell'emissione
(Newton), dell'ondulazione (Fresnel) e la meccanica ondulatoria (L. De Broglie), fornisce una
illustrazione sorprendente di questo carattere del fatto scientifico 149.
B. L'IPOTESI
168 - 1. CONCETTO.
a) Definizione. Una volta che i fatti siano ben stabiliti, si tratta di scoprire la legge della loro
manifestazione, del loro concatenamento, cioè di spiegarli, nel senso in cui questo termine si usa nelle
scienze della natura (123). “La scienza si fa con i fatti, scrive H. Poincaré, così come una casa si fa con le
pietre; ma una accumulazione di fatti non è una scienza più che un mucchio di pietre sia una casa (...). I
puri fatti non possono dunque bastarci; a noi abbisogna la scienza ordinata o piuttosto organizzata”. (La
Science et l'Hypothèse, pp. 168-170). Ora la spiegazione dei fatti non è evidente. Lo scienziato, per
concepirla, è costretto innanzitutto a ricorrere ad una ipotesi, che costituisce una spiegazione provvisoria
dei fenomeni osservati.
Ne risulta che l'ipotesi è un processo a posteriori. Se c'è anticipazione della legge e di conseguenza
pericolo di errore, non si può dire, con Goblot (Logique, p. 295) che l'ipotesi “ è un modo arbitrario del
pensiero”, un “salto nell'ignoto”. Al contrario, essa deve essere suggerita dai fatti stessi ed adattarvisi il
più esattamente possibile. Essa ha dunque di per sé un carattere di probabilità, il cui grado è funzione dei
fatti sperimentali che la sostengono.
b) Funzione dell'ipotesi. L'ipotesi, abbiamo detto, non è che spiegazione provvisoria. Il suo scopo
appare con ciò definito, e comporta due aspetti distinti. Da una parte, l'ipotesi serve a orientare il lavoro
dello scienziato (funzione euristica). Essa infatti lo aiuta a escogitare i mezzi da attuare ed i metodi da
utilizzare per proseguire la sua ricerca e raggiungere la certezza. Proprio essa è dunque principio
d'invenzione e di progresso. D'altra parte, l'ipotesi serve a coordinare i fatti già conosciuti (funzione
sistematica). Essa ha il compito di ordinare i materiali accumulati dall'osservazione. Senza di essa, dice
Claude Bernard, “si potrebbero soltanto ammucchiare sterili osservazioni”, come fa il puro empirismo.
169 - 2. ORIGINI DELL'IPOTESI - Queste origini possono dipendere sia da fattori interni, che si
riassumono nel genio dello scienziato, sia da fattori esterni, come il caso o le circostanze concrete
dell'osservazione. Il gioco dei fattori esterni tuttavia dipende esso stesso dalla perspicacia e dalla
ingegnosità dello scienziato, in modo tale che bisogna ritornare sempre al “coefficiente personale”.
a) Il genio dello scienziato. E la condizione prima della scoperta e da ciò deriva che non vi sono regole
della scoperta più che procedimenti per avere del genio. L'invenzione deriva il più delle volte da una
specie di illuminazione immediata o di intuizione divinatrice che apporta allo scienziato una luce
inaspettata. Così Archimede scoprì immediatamente, bagnandosi, che i corpi immersi subiscono una
spinta dal basso in alto esercitata dal liquido in cui si trovano. Così, scrive Éd. Le Roy, “non c'è nulla da
rispondere a coloro che chiedono come ci si debba comportare per inventare. Ogni speranza di un
meccanismo è illusoria. Altrettanto sarebbe per la ricerca di una tecnica della creazione. Il genio è
originale, autonomo, indisciplinabile, sempre personale e impensato” (La pensée intuitive, t. II, Parigi,
1930, p. 78).
Bisogna osservare tuttavia che il genio è per una buona parte fatto di riflessione e di pazienza. È la
lezione che danno i grandi inventori e H. Poincaré rileva con ragione che se la scoperta avviene spesso in
una ispirazione improvvisa, questa è in certo modo la fioritura o la ricompensa di un lungo lavoro
anteriore.
b) Dissociazione e associazione. I fatti sono soltanto la materia bruta cui il genio dello scienziato si
volge. Bisogna ancora interpretare i fatti e a tale scopo dissociarli ed associarli. La dissociazione è il
primo passo dello scienziato in cerca di una ipotesi intelligibile, poiché ogni sintesi nuova proviene da
un'analisi critica dell'esperienza. La capacità inventiva dello scienziato si misura da un lato dalla sua
attitudine a dissociare i raggruppamenti familiari dei fenomeni, a ricondurre ai loro materiali primitivi le
architetture comuni, a sottrarsi alla tirannia del “tutto fatto”. Th. Ribot (Essai sur l'imagination créatrice,
Parigi, 1900, p. 19) osserva che “è un lavoro analogo a quello che, in geologia, produce nuovi terreni
attraverso la disgregazione delle vecchie rocce”. Dissociare non basta. Il puro spirito critico non conduce
necessariamente all'invenzione; essa sgorga il più delle volte da un confronto e si definisce come una
sintesi. Talvolta il caso vi contribuisce.
Galvani attacca ad una sbarra di ferro, con un filo di rame, le membra di una rana scorticata e osserva,
con sua grande sorpresa, che queste membra sono prese da convulsioni non appena sono in contatto col
ferro. Questo fenomeno dovuto al caso condusse Volta a supporre che bastasse il contatto di due metalli
differenti per produrre elettricità. Così pure, per caso Roentgen si accorse che il funzionamento
dell'apparecchio a raggi catodici provocava la fluorescenza del platinocianuro di bario, osservazione che
portò alla scoperta dei raggi X. Lo stesso avvenne per la scoperta della penicillina, nel 1928, da parte di
Alexander Fleming, in seguito ad una contaminazione accidentale di una cultura di microbi per opera
d'una muffa di fungo, della quale Fleming osservò l'azione distruttiva sulla flora microbica adiacente.
Tuttavia, i casi in cui interviene il caso sono eccezionali. Normalmente, lo scienziato lavora attivamente per costruire sintesi possibili, aiutandosi con analogie che permettono di avvicinare fenomeni
remoti.
Così Newton paragona il fenomeno della caduta di una palla a quello dell'attrazione dei pianeti da
parte del sole, e Franklin paragona la folgore ad una scintilla elettrica.
c) Deduzione. Infine, la deduzione interviene spesso anche all'inizio dell'ipotesi, in quanto essa fa
apparire le conseguenze fino allora non intraviste di fenomeni o di leggi già conosciute.
170 - 3. CONDIZIONI DI VALIDITÀ - Prima di ogni verifica, l'ipotesi, per essere presa in conoiderazione, deve soddisfare alle condizioni seguenti:
a) L'ipotesi dev'essere suggerita e verificabile dai fatti. Vediamo che l'ipotesi non è un puro arbitrio e
che essa deve nascere in qualche modo dai fatti osservati. È il senso di un detto di Newton spesso citato:
Hypotheses non fingo150. D'altra parte, l'ipotesi non dev'essere assurda, ossia contraddittoria in se stessa.
Ciò non significa tuttavia che essa non possa contraddire altre ipotesi precedentemente ammesse. In
realtà, il progresso della scienza avviene per lo più in seguito alla sostituzione di ipotesi nuove, più
razionali, alle antiche teorie.
La verifica dell'ipotesi dipende anch'essa evidentemente dall'esperienza. Un'ipotesi che sfuggisse ad
ogni tipo di verifica sperimentale non potrebbe essere presa in considerazione.
Tuttavia è opportuno rilevare che la verifica diretta non è sempre possibile e che in questo caso è
necessario ricorrere alla verifica indiretta, costituita dal controllo delle conseguenze di natura sperimen-
tale che possono essere dedotte dall'esperienza. Ciò fece, ad esempio, Galileo per la legge delle velocità;
ne verificò, con l'aiuto di un piano inclinato, la conseguenza che aveva dedotto sotto il nome di “legge
degli spazi”.
Bisogna andare ancora oltre e osservare che la verifica può risultare talvolta dal solo valore
sistematico dell'ipotesi. Le grandi teorie non possono verificarsi altrimenti. Questa verifica, d'altronde,
rimane ancora in un senso sul piano sperimentale, poiché è l'attitudine della teoria a unificare le leggi il
più possibile ciò che ne fonda la legittimità ed il valore.
b) L'ipotesi dev'essere semplice. Ciò deve intendersi nel senso che tra più ipotesi, lo scienziato
sceglierà normalmente quella che apparirà la più semplice. Il principio che qui interviene è quello della
semplicità delle vie della natura (principio che per la scienza è solo un postulato). Sennonché la
semplicità è un concetto ambiguo: c'è una semplicità che è povertà ed una semplicità che è ricchezza: il
meccanismo della visione è semplice, in quanto perfettamente uno, ma straordinariamente complesso nei
suoi differenti organi. Il criterio della semplicità sembra dunque sia di uso assai difficile.
C. LA SPERIMENTAZIONE
171 – 1. CONCETTO - La sperimentazione consiste nell'insieme dei procedimenti utilizzati per
verificare le ipotesi. Come si è visto più sopra (163), essa differisce dall'osservazione in quanto
obbedisce ad un'idea direttrice, e non semplicemente, come si dice talvolta, in quanto implica l'intervento
dello scienziato al fine di modificare i fenomeni.
2. PRINCIPIO GENERALE DELLA SPERIMENTAZIONE - L'idea generale che regge i metodi di
sperimentazione è la seguente: consistendo essenzialmente l'ipotesi nello stabilire un rapporto di causa ad
effetto o di antecedente a conseguente tra due fenomeni (o due gruppi di fenomeni), si tratta di scoprire
se realmente B (supposto effetto o conseguente) varia ogni volta che si fa variare A (supposto causa o
antecedente) e varia nelle stesse proporzioni di A.
In altri termini, si tratta di scoprire, nella massa complessa dei rapporti che sussistono tra due
fenomeni o due gruppi di fenomeni, quelli che sono realmente essenziali e perciò di eliminare quelli che
sono soltanto accidentali. Questo evidentemente non si può fare a priori, per conseguenza della nostra
ignoranza delle essenze reali. Bisogna dunque procedere a posteriori, per sperimentazione e prendendo
per criterio essenziale la costanza delle relazioni fenomeniche, ossia appoggiandosi sul principio del
determinismo, che si enuncia così: in uguali circostanze, le stesse cause producono medesimi effetti, o
ancora: le leggi della natura sono costanti.
172 - 3. LE TAVOLE DI BACONE - Per attuare l'idea generale della sperimentazione, sono stati
pensati diversi procedimenti tendenti a conseguire la maggior precisione possibile. A Francesco Bacone si
deve il primo saggio di sistemazione del metodo sperimentale, conosciuto sotto il nome di tavole di
Bacone. Queste tavole sono fondate sul criterio della coincidenza costante, che si esprime nei tre corollari
del principio di causalità: Posita causa, ponitur effectus, sublata causa, tollitur effectus, variante causa,
variatur effectus, e, di conseguenza, nella istituzione di tre tavole corrispondenti rispettivamente a
ciascuno di questi tre corollari: tavola di presenza, che offre, con le loro circostanze, i casi in cui avviene
il fenomeno da spiegare, tavola di assenza, in cui sono registrati i casi affini ai primi in cui il fenomeno
non avviene, tavola dei gradi, che offre i casi in cui esso ha subito variazioni.
Questo metodo non offre una certezza sufficiente. In realtà le tavole di Bacone non garantiscono, da
un lato, che la coincidenza dei fenomeni o gruppi A e B sia realmente costante: ci si può sempre chiedere
se, portando più avanti le tavole, non si vedrà cessare la coincidenza. Per eliminare questo rischio
bisognerebbe che si potessero realmente isolare uno alla volta gli antecedenti possibili del fenomeno in
questione, per determinare mediante sperimentazione quale tra essi sia causa o condizione effettiva, cosa
tuttavia praticamente impossibile. D'altra parte, con le tavole di Bacone, non è possibile riuscire a
distinguere tra le condizioni in cui appare il fenomeno quella che è realmente essenziale o determinante
da quelle che sono accidentali (senza cessare spesso di essere ugualmente costanti).
Perciò il metodo baconiano non permette di definire qual’è la condizione essenziale dell'ascesa
dell'acqua nel tubo di una pompa: presenza (costante) del vuoto in questo tubo o azione della pressione
atmosferica?
Insomma la coincidenza costante può aiutare ad immaginare una ipotesi, ma non a provarla; essa
riesce in realtà soltanto a far apparire l'insieme delle circostanze costantemente presenti, senza permettere
di determinare con rigore sufficiente quella che è realmente essenziale o determinante.
173 - 4. METODO DI COINCIDENZA ISOLATA DI STUART MILL - Stuart Mill ha immaginato,
per rimediare al difetto delle tavole di Bacone, di sostituire al principio della coincidenza costante quello
della coincidenza isolata, il cui fine è di eliminare gli antecedenti accidentali (donde il nome di metodo di
esclusione dato pure a questo procedimento) allo scopo di scoprire il solo antecedente (A) che è insieme
condizione necessaria e sufficiente dell'apparizione del fenomeno. Di qui i quattro metodi o procedimenti
che propugna: concordanza, differenza, variazioni concomitanti, residui.
a) Metodo di concordanza. Si cerca di realizzare più casi assai differenti in cui avviene un dato
fenomeno. Se si scopre un antecedente che sia comune e il solo comune a tutti i casi, lo si considera come
avente un rapporto essenziale col fenomeno. Esempio: si osserva il suono prodotto da una corda vibrante,
da una campana, da un tamburo, da una voce, ecc., e si constata che tutti questi casi comportano un solo
fenomeno comune consistente nella vibrazione di un corpo sonoro; se ne conclude che questo fenomeno è
la causa del suono.
Il metodo di concordanza non può bastare, poiché esso può essere deficiente in due punti. Innanzitutto
esso lascia nel dubbio se si sia veramente colto il solo antecedente comune a tutti i casi. Si tenta, è vero,
di rimediare a questa insufficienza confrontando “il maggior numero possibile di fatti differenti il più
possibile” (Goblot, Logique, p. 301).
Così Galileo si servi per le sue esperienze della torre pendente di Pisa, di palle di piombo, d'avorio e di
cera. Ma questo procedimento non è sufficiente per fornirci la certezza; esso perviene soltanto ad una
probabilità più o meno grande.
D'altra parte, il metodo di concordanza non permette di distinguere la semplice coincidenza dalla vera
causalità o dalla condizione necessaria e sufficiente. L'osserva giustamente Cl. Bernard, rilevando che
nelle scienze complesse come la biologia, “le coincidenze costituiscono uno degli scogli più gravi del
metodo sperimentale”. In realtà, la complessità si trova dovunque nei fenomeni della natura ed aumenta
man mano che la scienza progredisce.
174 - b) Metodo di differenza. Questo metodo è destinato a completare il precedente con una specie di
controprova. Esso consiste nel considerare due casi simili quant'è possibile e tali che differiscano per un
solo elemento. Se il fenomeno avviene in un caso e non nell'altro, questo elemento sarà l'antecedente
cercato.
Esempio: le esperienze di Pasteur sulla generazione spontanea. Due fiale di identica natura e poste
nelle stesse condizioni di temperatura per un tempo uguale rimangono l'una chiusa e l'altra aperta; in
questa avviene una fermentazione; in quella non avviene: Pasteur ne deduce che la fermentazione era
dovuta ai germi portati dall'aria.
Questo metodo comporta un uso più ristretto del metodo di concordanza, poiché esso implica in
generale l'intervento dello scienziato per eliminare la causa supposta al fine di verificare se l'effetto si
offre ancora alla constatazione, ciò che non è sempre possibile in fisica. In compenso, questo metodo è
d'uso corrente nella fisiologia ed è per questo che Claude Bernard lo considerava come il vero metodo
cruciale, esagerandone tuttavia il valore e la portata. Infatti non manca di comportare una grave difficoltà
in quanto è veramente sicuro soltanto quando vi sono due sole ipotesi possibili.
Per tale ragione vennero contestate le prime esperienze di Pasteur. Poteva avvenire infatti “che la
fermentazione avesse luogo senza germi, per generazione spontanea, ma che il rinnovo dell'aria fosse
necessario alla vita dei micro-organismi. Pasteur rifece la sua esperienza chiudendo una fiala con un
tampone di ovatta sterilizzata dal calore, e la fermentazione non avveniva. Si poteva ancora dire che la
circolazione dell'aria attraverso l'ovatta era insufficiente; egli si accontentò di curvare al cannello il collo
della fiala inclinandola verso il basso e la fermentazione non avvenne”. (Goblot, Logique, op. cit., p. 303).
Insomma, Pasteur riuscì a lasciare presenti soltanto due ipotesi, contraddittorie tra loro e dimostrò che i
micro-organismi nascono dai germi per esclusione dell'ipotesi contraddittoria, poiché, se si sopprimono i
germi, si sopprime ogni fermentazione.
175 - c) Metodi delle variazioni concomitanti. È il metodo usato allorché non ci si trova in presenza di
due ipotesi contraddittorie. Esso si formula così: quando un fenomeno varia nello stesso modo e nelle
stesse proporzioni dell'uno dei suoi antecedenti, è causato da questo antecedente.
Esempio: le esperienze di Pascal sul Puy-de-Dome, destinate a dimostrare che l'elevazione della
colonna d'acqua arrossata nel tubo barometrico, varia proporzionalmente alla pressione atmosferica.
Stuart Mill cita ancora il caso delle maree: si osserva che l'intensità delle maree varia nel tempo
proporzionalmente alle posizioni della luna relativamente alla terra.
Questo metodo ha il vantaggio di far ricorso alla misura dei fenomeni, ciò che in fisica lo rende
pratico; è mirabilmente coerente con la struttura della scienza moderna, caratterizzata, come si è visto,
dalla “sostituzione dell'idea di funzione a quella di causa”. (Renouvier, Traité de Logique gènèrale,
Parigi, 1875, II, p. 25). L'espressione grafica delle leggi è una delle applicazioni più feconde di questo
metodo, in quanto con ciò si perviene non solamente a definire i rapporti sperimentali di due grandezze,
ma altresì a scoprire i rapporti non sperimentali, grazie al procedimento cosiddetto di estrapolazione,
consistente nel prolungare la curva al di là dei limiti della sperimentazione. Ovviamente l'estrapolazione
comporta dei rischi, ma essa interviene, in ogni caso, a titolo di ipotesi verificabile e fornisce un campo
nuovo all'immaginazione scientifica.
In compenso, il metodo delle variazioni concomitanti non ha più lo stesso interesse allorché i
fenomeni non sono suscettibili di misurazione quantitativa (vedremo come il tentativo di Weber e di
Fechner di applicarlo in psicologia alla determinazione del rapporto della sensazione e della stimolazione
finì in un insuccesso). Esso può ancora servire in questo caso a stabilire che esiste un rapporto (non
misurabile) tra due fenomeni o gruppi di fenomeni; ma perde il suo valore principale, quello di tradurre in
grandezze numeriche le relazioni dei fenomeni tra loro.
176 - d) Metodo dei residui. Il metodo dei residui, per ammissione di Stuart Mill, è uno strumento di
scoperta, ma non di verifica o di prova. Esso è usato ogni volta che gli elementi di un dato caso sono
perfettamente conosciuti e spiegati, salvo uno: se ne conclude che questo elemento deve spiegarsi con
un'altra causa, che si tratta di scoprire con l'ausilio di uno dei precedenti metodi.
Il più celebre esempio è quello della scoperta di Nettuno: l'azione reciproca dei pianeti conosciuti non
spiegava completamente le perturbazioni di Urano, allorché Le Verrier suppose che un pianeta non ancora
osservato dovesse esercitare la sua influenza su Urano, ciò che fu confermato poco dopo dall'osservazione
diretta di Galle. Goblot cita quest'altro esempio: “Si estrae l'azoto dall'aria atmosferica facendo assorbire
l'ossigeno da un corpo ossidabile, ad esempio il fosforo, l'acido carbonico dal potassio, il vapor d'acqua
dall'acido solforico. Si credeva finita l'analisi poiché il corpo che rimaneva sembrava avere con notevole
approssimazione le stesse proprietà dell'azoto estratto dai suoi composti. Raileigh e Ramsay dimostrarono
che c'era una differenza tra le costanti fisiche dei due azoti: restava dunque da scoprire l'elemento o gli
elementi che mescolati all'azoto ne alteravano le proprietà. Qui il metodo dei residui ha terminato il suo
compito: esso ha messo in luce il fatto da spiegare, che solo esso poteva far conoscere. A partire da questo
momento, la scoperta dell'argon non è più compito del metodo dei residui”. (Logique, p. 309).
5. VALORE DEL METODO DI COINCIDENZA ISOLATA - Questo metodo darebbe una certezza
assoluta solo nel caso in cui si fosse sicuri di aver compiuto un'analisi completa dell'esperienza. Tuttavia
il ricorso al procedimento delle variazioni concomitanti, quando è applicabile, può produrre, con
l'intervento dei precisi calcoli numerici che esso comporta, una vera certezza nella determinazione delle
relazioni fenomeniche. In ogni caso, l'impiego del metodo di esclusione è sufficiente praticamente alla
scienza, che ammette d'altronde sempre la possibilità di spiegazioni ulteriori nuove, maggiormente
conformi ai dati di una esperienza meglio conosciuta 151.
D. L'INDUZIONE
177 - 1. CONCETTO - L'induzione scientifica consiste essenzialmente nel passare, dalla scoperta di
un rapporto costante tra due fenomeni o due proprietà all'affermazione di un rapporto essenziale, e di
conseguenza universale e necessario, tra questi due fenomeni o proprietà. Questi rapporti si esprimono
sotto forma di leggi.
L'induzione non è, propriamente parlando, un procedimento particolare del metodo sperimentale. Essa
ne è il carattere essenziale e si riscontra ovunque: già presente nell'osservazione da cui muove e guida le
differenti direzioni, essa dà il suo senso alla sperimentazione, il cui fine e la verificazione d'una ipotesi o
induzione anticipata. Questo che si chiama “problema dell'induzione” è dunque esattamente il problema
del valore della scienza intera.
178 - 2. LE LEGGI SCIENTIFICHE
a) Definizione. Si può definire la legge positiva come una formula generale tale che si possa dedurne
anticipatamente i fatti di un certo ordine, o più esattamente ciò che sarebbero questi fatti se essi avvenissero allo stato di isolamento (“Vocab. technique et critique de la Philo.”, art. Loi). Le leggi esprimono
sia rapporti di coesistenza: l'acqua è un corpo incolore, inodore, con una data densità, suscettibile di
assumere gli stati gassoso, ecc. (si tratta, in questo caso, piuttosto di fatto scientifico che di legge
propriamente detta), sia rapporti di causalità o di successione: l'acqua bolle a 100 gradi; il calore dilata i
metalli, ecc., sia infine rapporti di finalità: il fegato ha la funzione di regolare la proporzione di zucchero
nel sangue.
b) Il valore approssimativo delle leggi. Le leggi scientifiche possono presentarsi solo come delle
approssimazioni. Vi sono innanzitutto dei casi in cui le leggi possono essere approssimative in se stesse
(o qualitativamente), cioè quando non determinano in una maniera molto rigorosa l'elemento che deve
essere considerato come veramente essenziale. Il progresso della scienza dipende qui dagli sforzi
compiuti per analizzare nella maniera più minuziosa la complessità fenomenica. La leggi possono essere
poi approssimative solo dal punto di vista della misura dei fenomeni (o quantitativamente): per quanto
siano straordinariamente sottili i procedimenti di misura, essi restano, come si è visto, sempre
approssimati e suscettibili di perfezionamento.
Da ciò deriva che il valore delle leggi scientifiche è in ragione inversa della complessità dei fenomeni
sui quali esse hanno giurisdizione. Ecco la ragione per la quale il rigore delle leggi diminuisce quando si
passa dalle scienze fisico­chimiche alle scienze biologiche ed alle scienze morali. Pure nel campo fisico,
quando la scienza si occupa di fenomeni di una grandissima complessità (ad esempio, nella teoria cinetica
dei gas), essa tende a stabilire soltanto leggi statistiche, cioè medie formulanti un risultato globale.
Quest'ultima osservazione, che può essere generalizzata, è di grande importanza: vieta infatti di
considerare le leggi della natura come assoluti, sottolineando che esse non hanno senso che nell'interno
stesso delle strutture fisiche da esse rappresentate. Lo faceva osservare Cournot (Traité de l'enchainement
des idées fondamentales, dans les sciences et dans l'histoire, Parigi, 1861, § 183-184): la legge della
caduta dei corpi, egli diceva, è vera e tale resterà solo se la velocità di rotazione della terra non aumenta
col tempo; poiché, in quest'ultimo caso, la forza centrifuga potrebbe compensare, poi oltrepassare quella
di gravità. Brunschvicg osservava nello stesso senso che l'esperienza di Cavendish ci dà una “legge in sé”
soltanto in funzione della teoria newtoniana della gravitazione. Ma non appena si introduce la nozione di
campo gravitazionale e, quindi, cessando di essere una proprietà individuale e assoluta dei corpi pesanti,
la gravitazione risulta legata a certe regioni dello spazio qualitativamente distinte, come vuole la teoria
della relatività generalizzata, la legge non esprime più una proprietà assoluta del mondo: ma definisce
semplicemente un certo stato di equilibrio delle forze che determinano la storia del sistema solare 152.
Insomma, le leggi sono valide soltanto per complessi relativamente stabili; altre strutture fisiche
potrebbero rivelarsi, le cui proprietà sono imprevedibili e tali da dover essere tradotte con altre leggi. Le
leggi dipendono dunque dal corso delle cose, dalla storia del mondo, e non inversamente. L'universo
fisico dev'essere inteso, esso pure, come una storia, caratterizzata, come ogni storia, da uno sviluppo
discontinuo e comportante come tale salti e crisi. Le serie causali lineari della scienza, come le leggi le
esprimono, non sono che sezioni più o meno arbitrarie (166) ed “astrazioni”; esse, ipostatizzate,
finirebbero col misconoscere che il principio di causalità postula la solidarietà e l'interazione di tutti i
fenomeni, in un universo in cui questi fenomeni stessi non sono mai elementi isolati e semplicemente
giustapposti, bensì unità complesse, in cui s'iscrivono forme o strutture che danno ad esse il loro vero
senso.
179 - 3. LE TEORIE SCIENTIFICHE
a) Definizione. Si dà il nome di teorie a ipotesi il cui fine è quello di unificare un grande numero di
leggi sotto una legge molto generale. Tali sono la teoria ondulatoria, secondo cui la luce si propaga per
onde, la teoria elettronica, secondo cui l'atomo è composto di elettroni, la teoria evoluzionistica, secondo
cui le forme viventi deriverebbero, per differenziazioni progressive, da forme meno numerose e più
semplici 153.
b) Princìpi e teorie. È opportuno distinguere le teorie dai princìpi delle scienze. Ogni scienza dipende
da uno o più princìpi: così, la meccanica si appoggia sui tre princìpi della dinamica (149), la fisica, sul
principio di Archimede, l'anatomia comparata sul principio della correlazione delle forme negli esseri
organizzati. Altri princìpi hanno una estensione ancora più generale e dominano un numero più o meno
grande di scienze diverse: tali sono il principio della conservazione e della degradazione dell'energia.
Tutti questi princìpi rientrano nella categoria dei postulati di cui abbiamo parlato a proposito del
metodo delle matematiche. Essi non sono dunque, propriamente parlando, né teorie, poiché stanno al
punto di partenza della scienza, né ipotesi particolari suscettibili di essere verificate dalla sperimentazione, ma bensì, per lo più, definizioni dissimulate o enunciati suggeriti dall' esperienza comune. Così il
principio della conservazione della massa appare come un'applicazione del principio di sostanza e il
principio della conservazione dell'energia è solamente un'applicazione del principio di causalità. In tal
modo si spiega come questi princìpi, in virtù della loro estrema generalità, sfuggano al controllo diretto
della esperienza. Poincaré illustra con un esempio molto chiaro questa particolarità dei princìpi delle
scienze:
“L'esempio più sorprendente è il principio di Carnot. Carnot l'ha stabilito partendo da ipotesi false;
quando ci si accorse che il calore non è indistruttibile, ma che può essere trasformato in lavoro, si
abbandonarono completamente le sue idee; poi interviene Clausius e le fa trionfare definitivamente. La
teoria di Carnot, nella sua forma primitiva, esprimeva, accanto a rapporti veri, altri rapporti inesatti,
residui di vecchie idee; ma la presenza di questi ultimi non alterava la realtà degli altri. Clausius non ha
avuto che da scartarli così come si tagliano dei rami secchi. Il risultato è stato la seconda legge fondamentale della termodinamica. Erano sempre gli stessi rapporti; sebbene questi rapporti non avessero più
luogo, almeno in apparenza, tra gli stessi oggetti. Ciò bastava perché il principio conservasse il suo
valore. E persino i ragionamenti di Carnot non sono per questo perenti; essi si applicavano ad una materia
frammista di errore; ma la loro forma (cioè l'essenziale) restava corretta” (La Science e l'Hypothèse, p.
194).
180 c) Funzione delle teorie. Le teorie hanno una funzione considerevole nelle scienze. Esse servono
innanzitutto a coordinare ed a unificare il sapere positivo, in quanto tendono a raggruppare sotto una
ipotesi molto generale il maggior numero possibile di leggi particolari, ritenute altrettante conseguenze
dell'ipotesi. Così la teoria elettromagnetica di Maxwell ha permesso di dedurre le leggi dell'ottica da
quelle dell'elettricità, e altresì la meccanica ondulatoria ha unificato a sua volta non solamente un grande
numero di leggi, ma campi che sembravano fin qui separati.
In secondo luogo, le teorie scientifiche sono strumenti di scoperta, suggerendo analogie fino ad ora
inosservate (così è stato della teoria dei fluidi di Coulomb, nelle sue applicazioni all'elettricità), e provocando nuove ricerche. Le teorie evoluzionistiche di Lamarck e di Darwin sono state il principio di un
immenso numero di studi da esse suggeriti, sebbene questi le abbiano senza dubbio in larga misura
abbattute.
181 - d) Valore delle teorie. Il valore delle teorie dipende evidentemente dalla natura della funzione
che esse adempiono e dalla maniera in cui la adempiono. Abbiamo visto che esse sono ipotesi rispondenti
al duplice fine di coordinare e di unificare il sapere positivo e di provocare nuove scoperte. A titolo di
ipotesi, esse valgono dunque come convenzioni pratiche o come comode finzioni, simbolizzate nella
espressione classica “tutto avviene come se...”. Ciò spiega la breve durata, almeno in apparenza, delle
teorie. La fisica, in particolare, vede le teorie succedersi con un ritmo sconcertante. La scienza modifica le
sue ipotesi generali a seconda dei nuovi bisogni. L'atomo, per lungo tempo, non è stato che un comodo
strumento di sistematizzazione; l'etere aveva una funzione identica; la selezione naturale di Darwin ha
potuto render conto di fatti abbastanza numerosi; oggi, la teoria dell'onda associata, in meccanica ondulatoria, sistema un grande numero di fenomeni che sembrano inspiegabili nella meccanica newtoniana.
Tuttavia, sarebbe esagerato ridurre le teorie a pure convenzioni pratiche. Ondulazione ed emissione,
nella teoria della luce, l'etere di Fresnel, il calorico di Cournot, i quanti di Planck, l'onda associata di
Louis de Broglie, la lotta per la vita di Darwin, ecc., sono sì, se si vuole, finzioni giustificabili innanzi
tutto per la loro fecondità teorica e pratica, ma sono altresì nozioni cui gli scienziati si sforzano di
conferire un valore oggettivo (il che non significa “ontologico”). Da un lato, relazioni costanti sono
messe in luce dalle teorie e queste relazioni sopravvivono spesso alla rovina delle teorie: le leggi
dell'ottica, scoperte da Fresnel in funzione dell'ipotesi dell'etere rimangono valide al di fuori di questa
ipotesi, eliminata dalla teoria della relatività; così pure, tutte le difficoltà comportate dalla teoria cinetica
dei gas non le tolgono affatto il merito di aver rivelato un rapporto vero, quello della pressione gassosa e
della pressione osmotica. D'altra parte, alcune teorie hanno per se stesse una portata non solamente
matematica o di coordinazione, ma fisica, in quanto mirano, non solamente a rapporti, ma a realtà fisiche
o a “cose”. Quando Poincaré scrive che la realtà o la non realtà dell'etere è “la questione dei metafisici”
(La Science e l' Hypothèse, p. 245), implicitamente lo riconosce. Così avviene ancora dell'atomo divenuto, da comoda ipotesi, una realtà sperimentale. Tutti questi “oggetti fisici” non hanno mai d'altronde,
come tali e direttamente, un valore propriamente ontologico. Essi sono ancora dei simboli (167). Perciò
non vi è ragione di prender pretesto dalla caducità delle teorie per contestare il valore della scienza. In
un certo senso, questa stessa caducità è indice di potenza e di progresso. Le teorie, succedendosi, non
scompaiono mai integralmente: per lo più esse entrano, modificate e trasformate, in concezioni più
comprensive; ciascuna s'è rivelata così una tappa verso una scienza più completa e più sicura. Senza
dubbio, esse comportano, con i rischi di errore, tutti i pericoli che si riassumono in ciò che è chiamato “lo
spirito di sistema”, pericoli nondimeno accidentali: essi non pervengono all'essenza delle teorie. La storia
di queste, scrive P. Duhem, svolgendo sotto gli occhi dello scienziato:
“la tradizione continua per cui la scienza di ogni epoca è nutrita dei sistemi dei secoli passati, e per cui
essa è gravida della fisica dell'avvenire; indicandogli le profezie che la teoria ha formulato e che
l'esperienza ha realizzato, crea e rafforza in lui la convinzione che la teoria fisica non è affatto un sistema
puramente artificiale, oggi comodo e domani senza utilità; ed altresì la convinzione che essa è una classificazione sempre più naturale, un riflesso sempre più chiaro delle realtà che il metodo sperimentale non è
in grado di contemplare direttamente”. (La théorie physique, p. 441).
182 - 4. IL FONDAMENTO DELL'INDUZIONE - Lo studio del processo induttivo (90-91) ci ha
già preparati a comprendere il senso del problema che l'induzione impone alla riflessione filosofica, per
esempio del problema del fondamento dell'induzione, che riveste un'importanza particolare nel campo
delle scienze positive, a cagione del carattere di universalità e di necessità che appartiene immediatamente
alle leggi scientifiche (di diritto, almeno, perché si sa che di fatto la loro importanza è spesso rimessa in
discussione).
Questo problema è propriamente filosofico e trascende i mezzi del sapere positivo. Lo si può formulare
così: su che cosa si fonda il carattere di universalità delle leggi, posto che le osservazioni o le esperimentazioni, movendo dalle quali vengano scoperte e formulate le leggi, sono sempre esperienze singolari e
contingenti? E' dunque, qui, in discussione ciò che viene definito, talvolta, il principio delle leggi, tal altra
il principio del determinismo.
183 - a) Il principio del determinismo. Abbiamo fin qui utilizzato costantemente la nozione di causa e
quella di condizione necessaria e sufficiente. Ogni scienza è in realtà innanzitutto ricerca delle cause, così
per le scienze della natura come per le altre, sebbene in esse non si tratti che di cause seconde o di
condizioni determinanti. Questa ricerca implica evidentemente che lo scienziato creda che nulla avvenga
senza causa o che ogni fenomeno abbia una causa proporzionata o ancora che nelle stesse condizioni le
stesse cause producano gli stessi effetti o infine che la natura sia sottomessa a leggi, cioè che nella
natura vi sia un ordine. A queste differenti forme del principio di causalità, o principio del determinismo,
affermante il condizionamento reciproco dei fenomeni, si riduce il fondamento della induzione.
Il principio del determinismo, in quanto forma del principio di causalità, è solamente una applicazione
del principio di ragion sufficiente (“tutto ha la propria ragione d'essere”), il quale ha una portata
universale. La ragion d'essere è però evidentemente diversa a seconda delle diverse regioni dell'essere, e
si avrebbe qui sofisma di falsa analogia (94) quando si esigesse, per ogni dimensione del reale, un tipo di
spiegazione o di determinismo (ossia di ragion d'essere) valido per una parte del reale. Quest'errore
commetteva Cartesio estendendo a tutto il campo della natura e della vita il tipo di spiegazione
matematico.
Lo stesso errore si manifesta nella concezione secondo la quale il determinismo significa
universalmente che tutti gli esseri dell'universo costituiscono un tutto univoco, i cui elementi sono
assolutamente interdipendenti e sottoposti, nel tempo e nello spazio, alla necessità assoluta. È puramente
gratuito dare al determinismo un senso ed una portata definiti a priori come tali da implicare
universalmente la necessità assoluta. In realtà, non è affatto evidente che tutti i fenomeni così diversi del
mondo siano riducibili ad un'unica legge, che il mondo inorganico, quello della vita e quello dello
spirito, formino un tutto unico e univoco e siano riducibili agli elementi universalmente e assolutamente
interdipendenti. In ciò sta un enorme postulato, né giustificato, né verificabile ed implicante a prima vista
immense difficoltà. A dir vero, esso non sarebbe neppure valido pel solo universo materiale, se si
pretendesse di fargli significare l'impossibilità assoluta di una certa indeterminazione dei fenomeni (quale
è parsa implicare dianzi la teoria dei quanti)154. Bisognerebbe, è chiarissimo, si potesse dimostrare
sperimentalmente il determinismo uniforme, univoco, di tutti gli elementi componenti l'insieme
macroscopico, o, in altri termini, si potesse dimostrare che tutti e ciascun elemento obbediscono ad una
sola e medesima legge, quella del tutto, e che in seno al tutto perdono ogni margine di comportamento
individuale, cosa invece tanto lontana dall'accadere che molti fisici hanno voluto parlare di un
“indeterminismo della natura”...
184 - b) Determinismo e legge dei grandi numeri. La concezione moderna delle leggi fisiche come
leggi statistiche (o calcoli delle medie) deriva dunque, non solamente dal fatto che i fenomeni della natura
dipendono spesso da cause troppo complesse perché si possa analizzarle, ma pure dalle scoperte che
hanno messo in luce la discontinuità della materia facendo considerare i fenomeni fisici come risultanti da
una massa di azioni elementari, suscettibile ognuna di un certo margine di comportamento individuale. Le
leggi statistiche permettono di trovare la semplicità cui mira la scienza, senza dissimulare che questa
semplicità delle formule nasconde una complessità ribelle ad ogni analisi, (di fatto e senza dubbio di
diritto 155.
185 - c) Determinismo fisico e contingenza. È chiaro dunque che il senso da attribuirsi concretamente
al principio del determinismo nelle scienze della natura dipenderà dalla nozione di legge fisica o, ciò che
è lo stesso, dalla natura dell'oggetto fisico, e, d'altra parte, che il determinismo può adattarsi, a molti
gradi e sotto molti aspetti, alla contingenza. Abbiamo infatti dimostrato più sopra (178) come il
determinismo meccanico si esprima spesso sotto una forma statistica, cioè sotto una forma tale che la
legge funzionale sia una legge di media, lasciando sussistere, nel comportamento reciproco degli elementi
individuali, una certa indeterminazione.
D'altra parte bisogna osservare che il determinismo è compatibile, non solamente con una certa
indeterminazione degli effetti individuali, ma pure, a maggior ragione, con la possibilità dell'intervento di
cause libere (libero arbitrio o miracolo) nel gioco dei fenomeni. Negare questa duplice fonte di contingenza, è, dallo stesso punto di vista positivo, oltrepassare gratuitamente ciò che l'esperienza fornisce.
Infine si potrebbe aggiungere, da un punto di vista più filosofico che scientifico, che l'ipotesi di un
determinismo universale e assoluto è poco intelligibile. Infatti, essa condurrebbe ad escludere il tempo e
ad immobilizzare l'universo, postulando che l'avvenire è completamente determinato, cioè del tutto
presente, poiché l'effetto sarebbe insieme concepito come implicato nella causa e la causa nell'effetto: non
sarebbe dunque possibile nessuna novità e non si avrebbe né passato né futuro156. Senza dubbio si
potrebbe rispondere che il tempo nasce dalla successione misurata ed enumerata, ed in nessun modo dal
caso, dall'accidente o dalla libertà e che di conseguenza una successione assolutamente necessaria può
perfettamente fondare un tempo reale per uno spirito che enumera i momenti della successione. Sarà
difficile tuttavia reputarsi soddisfatti di questa risposta, se si pensa che lo spirito, chiamato a fondare la
realtà del tempo dovrà essere lui stesso (poiché tale è l'ipotesi) subordinato al determinismo assoluto,
ossia dovrà essere concepito come una struttura meccanica applicata ad un altro meccanismo più vasto. In
questo sistema non ci sarà dunque realmente il tempo, ma solamente la materia del tempo, che è la
successione ed il movimento. In realtà, il tempo è reale solo se è una storia: l'universo non acquista senso
(e di conseguenza realtà) che per mezzo della contingenza e della libertà.
186 – d) L'indeterminismo nella fisica contemporanea. Ora si spiega meglio come s'è posto per alcuni
scienziati (Heinseberg, Dirac, Louis de Broglie), in seguito agli stessi progressi della fisica corpuscolare,
il problema di sapere se la natura non comportasse una parte di indeterminismo (Dirac giungeva sino a
parlare del “libero arbitrio della natura”). Non si tratterebbe d'altronde “di rinunciare interamente al
determinismo in fisica, ma [di] non considerarlo più come rigoroso e universale, [di] imporgli dei limiti”.
(L. de Broglie, Matière et Lumière, Parigi, 1937, p. 264).
Si è chiesto se questi fatti, ben definiti in fisica corpuscolare (relazioni di incertezza di Heinseberg) 157,
obblighino realmente a negare la portata universale ed il valore assoluto del principio del determinismo
nel campo fisico (meccanico). Gli scienziati di cui parliamo sembra lo dicano, sebbene, riducendo il senso
del termine determinismo a quello di possibilità di previsione rigorosa dei fenomeni, sembrino ammettere
implicitamente che 1'“indeterminismo” potrebbe significare le relazioni funzionali tra i fenomeni
comportino un margine di incertezza metrica, sia per il fatto che le nostre osservazioni non sono né
sufficientemente delicate né tanto precise da permetterci una previsione rigorosa di tutti i fenomeni
componenti un insieme dato, sia per quest'altro motivo, che l'atto stesso di misurare i fenomeni subatomici determina fatalmente in questi fenomeni una perturbazione (che si traduce precisamente nelle
relazioni di Heinseberg)158. Insomma, le incertezze proverrebbero dal laboratorio più che dalla natura.
Tuttavia, la portata delle osservazioni degli “indeterministi” andava molto più in là di queste teorie,
perché, essi, ammettendo una parte di caso nella vita dei fenomeni, affermavano che l'indeterminazione
osservata nei fenomeni elementari non era semplicemente accidentale (in quanto risultante dell'intervento
degli osservatori): essi pensavano che si trattasse di “una indeterminazione essenziale impossibile a
eliminare”159 e tale che d'ora in avanti il determinismo, valido ancora praticamente come dottrina
euristica al livello macroscopico, non poteva più essere che un'opinione o una credenza, come ipotesi di
valore universale. Anche L. De Broglie riteneva, nel 1945, basandosi sulle esperienze di Von Neumann,
che questo “atto di fede” o questa “audace estrapolazione” non avesse più fondamento160.
Queste teorie scientifiche sono state abusivamente sfruttate da filosofi poco sicuri dei loro argomenti
per puntellare (affatto inefficacemente) l'affermazione della libertà. Noi ne facciamo menzione solo a
questo titolo. Bisogna aggiungere che esse, oggi, appaiono quasi abbandonate. Lo stesso L. De Broglie
sembra sia tornato alla concezione deterministica (nel campo delle scienze della natura)161.
187 - 5. DETERMINISMO E IDENTIFICAZIONE - Si ripete spesso, dopo Meyerson (Identité et
Realité, Parigi, 1932) che l'ideale ed il termine di spiegazione scientifica è la riduzione all'identico, in
quanto il determinismo implicherebbe universalmente la identificazione dei fenomeni legati tra loro dal
gioco delle leggi meccaniche. L'ideale delle scienze della natura sarebbe così di unificare tutto il reale
sensibile sotto una sola legge, trasformando progressivamente tutti i rapporti di fatto in rapporti di diritto,
cioè in semplici espressioni di un meccanicismo universale.
Tuttavia in questa visione vi sono molteplici equivoci. Innanzitutto, come ha dimostrato Boutroux, da
un punto di vista teorico (cfr. La contingence des lois de la nature), e come prova praticamente l'ostacolo
degli “irrazionali” contro cui le scienze non cessano di urtare, la riduzione sarebbe impossibile a
compiersi e potrebbe proporsi, sul piano speculativo, solo come un semplice passaggio al limite o una
estrapolazione delle più azzardate.
D'altra parte, conviene osservare che, nei limiti stessi in cui la scienza è fondata a perseguire
l'identificazione dei fenomeni riconducendoli al meccanismo e di conseguenza a formule metriche ed a
equazioni, questa identificazione non è reale: essa non ha che un valore simbolico e si fonda soltanto su di
una astrazione. Non si può concludere infatti, come si fa troppo spesso, dalla riduzione al meccanismo,
che tutti i meccanismi si rassomiglino. Quando si è spiegato meccanicamente, attraverso la probabilità,
l'irreversibilità di alcuni fenomeni, si son con ciò soppressi i fenomeni irreversibili? Dal fatto che la
chimica riduce l'acqua a H2O, è fondato il dire che l'acqua reale è identica all'ossigeno ed all'idrogeno
separati? Il che equivarrebbe a dire che la casa si riduce ad un mucchio di pietre lavorate dal muratore
oppure al piano disegnato dall'architetto.
Si osserva d'altronde che se una scienza (ad esempio la fisica), per operare la riduzione al
meccanismo, trascura sistematicamente una quantità di aspetti reali delle cose e dei fenomeni, altre
scienze prendono come oggetto questi stessi aspetti, che non sono dunque stati “ridotti” o “identificati”,
ma, semplicemente astratti o posti tra parentesi. Per il chimico l'acqua è nient'altro che H2O; ma per il
biologo e per il batteriologo (senza parlare dell'animale che ha sete), essa è senza dubbio qualcosa di più!
188 - 6. DETERMINISMO E FINALITÀ - Lachelier considera l'induzione fondata “su due principi
distinti: l'uno in virtù del quale i fenomeni formano delle serie in cui l'esistenza del precedente determina
quella del seguente; l'altro in virtù del quale queste serie formano a loro volta dei sistemi in cui l'idea del
tutto determina l'esistenza delle parti”. (Du fondement de l'induction, 2a ed., Parigi, 1896, p. 12). Sarebbe
dunque opportuno ammettere al di sopra del determinismo causale un principio d'ordine che vigila per
così dire “sulla conservazione delle specie chimiche come pure sulla conservazione delle specie viventi”
(op. cit., II). In realtà, osserva Lachelier, il meccanismo non è di per se stesso un principio d'ordine, ma
esso obbedisce ad una legge immanente che governa dall'interno, per la costituzione dei sistemi naturali e
del sistema universale della natura, il gioco delle forze meccaniche.
Niente è meglio fondato, dal punto di vista filosofico, che la dottrina di Lachelier. Il determinismo
meccanico non è di per sé sufficiente a spiegare l'ordine naturale (né, di conseguenza a giustificare
l'induzione), poiché ciò corrisponderebbe rigorosamente a voler spiegare tutto col puro caso. Le forze
meccaniche agiscono in direzioni definite, in limiti precisi e sotto una forma ordinata che esse in nessun
modo comportano di per sé. Esse sono dunque assunte e utilizzate per una causalità di ordine superiore,
chiamata finalità, che propriamente è la causalità di un'idea.
Tuttavia, la spiegazione finalistica, richiesta dal filosofo, è esclusa dallo scienziato, non assolutamente,
ma relativamente ai suoi fini ed ai suoi metodi. C'è in realtà una spiegazione meccanicistica che
costituisce, almeno nel campo fisico-chimico, tutta l'ambizione della scienza. Collegare ogni fenomeno
alle sue condizioni determinanti, definire in che modo si comporta la natura, misurare con la maggiore
precisione possibile le relazioni fenomeniche: la scienza, di per sé, non va più lontano. È per questo che il
quadro della natura che essa ci offre dipende molto più dalla descrizione (anzi dalla trascrizione
simbolica) che dalla spiegazione (165-167). Non è possibile tuttavia contestarle il diritto di fare
astrazione dalla finalità e di limitarsi al meccanismo. È d'altronde il solo campo che le sia accessibile,
dipendendo la finalità, non dalla osservazione sensibile, ma dalla investigazione razionale162.
Ogni fase di un movimento fisico è evidentemente condizionata dalla fase che la precede
immediatamente (b da a, c da b, d da c): si ha così una comunicazione del movimento che si compie
successivamente, a catena. È il piano spazio-temporale del meccanismo. Ma bisogna proprio che si abbia
una legge (forma, idea, argomento) che regga il senso e la direzione del processo considerato nel suo
insieme: se i fenomeni in catena sono sistematicamente associati (ossia si orientano verso un termine
definito, e non verso un termine qualsiasi), bisogna che si abbia una legge del sistema e che lo sorvoli per
così dire tutto intero. Altrimenti avremmo una serie di movimenti non diretti, e di conseguenza un
concatenamento accidentale, che avrebbe nello stesso tempo la proprietà singolare di tendere
regolarmente verso il medesimo termine, ciò che è contraddittorio e assurdo. Perciò il meccanismo non
basta: esso richiede una ulteriore spiegazione 163.
189 - 7. VALORE DEL PRINCIPIO DEL DETERMINISMO - Il fondamento dell'induzione consiste
dunque nella credenza al determinismo, ossia alla causalità ed alla costanza delle leggi della natura. Ma ci
si può chiedere ancora donde venga questa credenza e quale ne sia il valore.
a) Inconsistenza dell'associazionismo. Non è il caso di fermarsi lungamente a confutare le teorie
associazionistiche. Per Stuart Mill, l'induzione si spiega con l'aspettazione automatica di un avvenire
simile al passato ed al presente. “Il bambino che si è bruciato il dito si ricorda di essere stato bruciato e,
su questa testimonianza della sua coscienza, egli crede, quando vede la candela, che mettendo il dito nella
fiamma si brucerà nuovamente. Egli crede ciò in tutti i casi che si presentano, ma senza vedere oltre il
caso presente”. L'atteggiamento dello scienziato sarebbe dello stesso ordine, con questa differenza che
essa vincola espressamente l'avvenire. Così la legge secondo cui il calore dilata il metallo, non sarebbe
nient'altro che l'espressione di una associazione meccanica tra due sensazioni.
L'insufficienza di questa dottrina è evidente. La scienza si fonda così poco sulle associazioni
meccaniche che essa è uno sforzo continuo per rompere quelle dell' esperienza comune. Inoltre, la legge,
nello spirito dello scienziato, esprime qualcosa di essenziale e di necessario; la legge formula non
solamente ciò che “sarà”, ma ciò che “dev'essere”. Siamo così lontani dall'associazione.
b) Induzione e astrazione. Il principio del determinismo per la scienza non è che un postulato.
Pretendere di dimostrarlo “scientificamente” sarebbe evidentemente assurdo. La scienza come tale crede
nella costanza delle leggi naturali: essa non la dimostra, o almeno non è suo compito il dire perché
bisogna ammetterla. In realtà, la soluzione di questo problema dipende dalla psicologia e dalla critica
della conoscenza, poiché il problema si riduce a quello della formazione e del valore delle idee generali. Il
problema dell'induzione scientifica non è che un caso particolare del problema generale della
conoscenza astrattiva (90-91), essendo la legge scientifica unicamente la generalizzazione di un caso
singolare. Vedremo appunto che l'intelligenza ha il potere di cogliere, mediante l'astrazione, l'universale
nel singolare ed il necessario nel contingente, e mostreremo ciò che giustifica la funzione astrattiva dello
spirito e ne garantisce il valore.
Qui, basterà mostrare come la nozione di essenza universale e necessaria è di fatto, indirettamente
almeno, ciò che costituisce il nerbo dell'induzione scientifica. Questa riposa infatti su di una
argomentazione di questo tipo: un carattere che si manifesta costantemente negli inferiori di un soggetto
universale deve o appartenere all'essenza del soggetto o essere una delle proprietà di questa essenza. Se
dunque si constata, ad esempio, in un certo numero di metalli (o parti logiche del metallo) il fenomeno
della dilatazione sotto l'azione del calore, da questa sostanza si concluderà che la dilatazione è una
proprietà del metallo come tale e che essa di conseguenza deve verificarsi in tutti i metalli. Così, come si
vede, la questione del valore del procedimento induttivo si riduce alla questione sul valore dell'astrazione.
Hamelin (Le système d'Aristote, Parigi, 1920, p. 259) ritiene questa soluzione troppo semplice: se
l'induzione risulta da una visione intuitiva dell'universale nel singolare, come potrebbe essa imporre alla
scienza tanti procedimenti complessi, tanti tentennamenti ed incertezze? È facile vedere tuttavia che
questa obiezione si appoggia sulla considerazione di un carattere accidentale del ragionamento induttivo,
cioè sui casi in cui gli oggetti fisici in gioco presentano grandi difficoltà di osservazione e di misura. Che
c'è da meravigliarsi se i processi scientifici sono lunghi e delicati? Se ci si pone però, come si deve, dal
punto di vista dell'essenza del procedimento induttivo, si dovrà convenire con Aristotele che l'induzione è
un cogliere l'universale nel singolare, sia che questa apprensione avvenga immediatamente, come nella
astrazione semplice per cui io vedo immediatamente l'uomo nell'individuo (Callia), oppure che essa esiga
lunghi processi preparatori, come nelle scienze sperimentali164.
§ 3 - Procedimenti particolari della biologia
A. NOZIONI GENERALI
190 - 1. SPECIFICITÀ DELLE SCIENZE BIOLOGICHE - Le scienze biologiche, in cui interviene la
considerazione della vita e dei suoi fenomeni, comportano dei procedimenti che sono ad esse particolari
o, più esattamente, dei procedimenti che sono forme particolari dei procedimenti comuni alle scienze
sperimentali. La sperimentazione specialmente, praticata principalmente in anima vili, ossia sugli animali,
ha fatto progressi enormi, grazie ai numerosi metodi che la scienza adopera per variare le condizioni di
esistenza degli esseri viventi. Si modifica sia l'ambiente esterno (temperatura, composizione dell'aria,
ecc.), sia l'ambiente interno, con la trasformazione dell'alimentazione, con iniezioni di sostanze tossiche,
con l'asportazione di organi diversi, con l'utilizzazione dei procedimenti di vaccinazione (iniezione di
virus depotenziato di una malattia, allo scopo di immunizzare l'organismo) e di sieroterapia (iniezione di
siero di un soggetto già vaccinato, allo scopo di combattere e di eliminare la malattia). La biologia ha
potuto, con questi metodi, accumulare una massa di osservazioni che hanno non soltanto aumentato
considerevolmente la nostra conoscenza dei fenomeni vitali, nonostante la loro estrema complessità, ma
altresì contribuito a far progredire alquanto la terapeutica (medicina e chirurgia).
D'altra parte, le scienze biologiche danno un'importanza capitale ai procedimenti di classificazione
degli esseri viventi. La classificazione, che costituisce l'oggetto di una branca speciale della biologia,
chiamata sistematica, si sforza di scoprire, secondo l'espressione di Cuvier “un ordine in cui degli esseri
dello stesso genere risultino tra loro più vicini di quelli di altri generi; i generi dello stesso ordine, più di
quelli di tutti gli altri ordini, e così di seguito” (Le règne animal, Introduzione), ossia si sforza di ripartire
gli esseri viventi, vegetali e animali, in gruppi distinti sempre più generali e tali che i gruppi inferiori si
rivelino come delle suddivisioni dei gruppi superiori. Questa classificazione, fondata sulla natura delle
cose, risponde ad un bisogno dello spirito, che ricerca ovunque l'unità. Essa deve pure aiutare a formulare
la definizione degli esseri viventi, attraverso l'enumerazione dei caratteri che fissano ad essi il loro posto
nella classificazione.
191 - 2. IL PUNTO DI VISTA FINALISTICO - È l'intervento della nozione di finalità, cioè di
organizzazione e di adattamento, che caratterizza le scienze biologiche. Il biologo sostiene che i viventi
sono organismi attuanti funzioni diverse, le quali si dispongono in vista di un fine determinato e di
conseguenza che tutto si svolge come se un'idea immanente organizzi e governi dal di dentro l'insieme
straordinariamente complesso degli organismi e delle funzioni costituenti il vivente animale o vegetale,
come pure i fenomeni fisico-chimici di cui è la sede. Pure Claude Bernard osserva che l'attività di ogni
vivente si svolge secondo una idea direttrice, un piano precedentemente tracciato. La finalità qui è,
innanzitutto, un dato sperimentale. La sua interpretazione è poi, come si è visto (187), compito della
filosofia.
3. DIVISIONE - Le nozioni di organo e di funzione si trovano costantemente associate, come
rigorosamente correlative. L'organo è in realtà, come indica il termine, uno strumento in vista di una
attività determinata da esercitare o funzione. Per tale motivo anche la sua definizione (o la sua
descrizione) sarà perfetta solo mediante la determinazione della sua funzione. Questa definizione, nel
senso di descrizione della struttura esterna ed interna, della forma e della situazione dell'organo,
costituisce l'oggetto proprio della morfologia. Lo studio del funzionamento dell'organo o dell'esercizio
della sua attività specifica, costituisce l'oggetto della fisiologia.
La morfologia si suddivide in citologia (studio della cellula vivente), istologia (studio dei diversi
tessuti differenziati: ossa, muscoli, nervi, ecc.), anatomia comparata (comparazione delle diverse forme
viventi), embriologia od ontogenia (studio delle fasi di sviluppo dell'essere vivente a partire dall'uovo),
paleontologia (studio dei fossili scoperti negli strati geologici). La fisiologia si suddivide secondo il
genere di attività vitale (biomeccanica, biofisica, biochimica, bio-energetica). La fisiologia propriamente
detta è lo studio delle funzioni vitali di cui i fenomeni precedenti sono gli strumenti165.
La sistematica si appoggia sui dati comparati dell'anatomia e della fisiologia per definire e per
classificare gli esseri viventi come tali.
B. LA CLASSIFICAZIONE
192 - 1. LE DIFFERENTI SPECIE DI CLASSIFICAZIONE - Si distinguono due specie di
classificazioni: le classificazioni artificiali, che si eseguiscono secondo caratteri non essenziali all'oggetto
e facili da scoprire. Esse tendono soprattutto a stabilire un ordine provvisorio e pratico. Sono puramente
artificiali e arbitrarie, quando i caratteri distinti sono semplicemente esteriori e accidentali. (Tale è la
classificazione dei libri di una biblioteca secondo il formato). Tali classificazioni non hanno evidentemente alcun valore scientifico. Esse acquistano un valore scientifico solo quando fanno appello a
caratteri distintivi ben evidenti, senza che si sia d'altronde in grado di determinare se questi caratteri siano
realmente essenziali. Di questo tipo è la classificazione delle piante che Tournefort fondò sulla presenza o
sull'assenza di corolla. La classificazione è naturale, quando si fonda su caratteri veramente essenziali,
permettendo, non solamente, come nel caso precedente, di distinguere praticamente una pianta o una
specie dall'altra, ma altresì di distinguere il tipo stesso nei suoi elementi costitutivi, cioè di darne la
definizione per genere prossimo e differenza specifica (50).
193 - 2. I METODI DI CLASSIFICAZIONE
a) Metodo generale: la comparazione. Il metodo generale della sistematica è la comparazione, con cui
ci si sforza di determinare i caratteri comuni e costanti degli animali o dei vegetali individuali, quindi dei
gruppi che essi compongono. Questi caratteri sono considerati come distintivi delle specie o dei gruppi
superiori. Per il medesimo fatto, risultano eliminati (in teoria) i caratteri accidentali, cioè quelli la cui
presenza o assenza non dipende che dalle condizioni individuali. Insomma, anche qui, sono usati i metodi
di concordanza e di differenza (173-174).
b) Correlazione e subordinazione delle forme. Partendo dalle specie, ottenute con la determinazione
dei caratteri “essenziali” e con l'eliminazione delle note individuanti, ci si sforza, sempre seguendo la via
della comparazione, di costituire gruppi più generali, distinguendone, nell'insieme dei caratteri
“essenziali”, i caratteri coordinati ed i caratteri dominanti.
Si dicono coordinati i caratteri che sono sempre dati insieme: così c'è correlazione tra l'apparato
mammario e lo scheletro (dal che deriva che ogni mammifero è un vertebrato); così pure c'è correlazione
costante tra la forma del dente, del condilo, delle unghie, degli intestini (dal che deriva che si può
concludere dalla forma di uno di questi organi a quella degli altri). Si dicono dominanti i caratteri più
generali che i precedenti, in quanto la loro presenza risulta necessariamente da quella dei caratteri
coordinati, ma può pure constatarsi in altri gruppi di caratteri coordinati. Così si trova uno scheletro
(vertebrati) ovunque si constata la presenza dell'apparato mammario (mammiferi), ma lo scheletro si
riscontra pure in molti non mammiferi (rettili, uccelli, pesci, ecc.). Si ammette che l'insieme dei caratteri
dominanti costituisca il genere prossimo, e che l'insieme dei caratteri coordinati costituisca la differenza
specifica o le specie ultime (cioè quelle che comprendono solo individui).
Ci si sforza poi di formare gruppi ancora più generali con l'aiuto degli stessi princìpi di correlazione e
di subordinazione. Si distinguono così, in biologia animale, dei gruppi sempre più generali, che hanno
ricevuto i nomi di specie, generi, famiglie, ordini, classi, branche. Quanto alle razze ed alle varietà, non
sono che forme accidentali, più o meno stabili, delle specie.
194 - c) Principio della serie naturale. Ciascuno dei gruppi superiori alla specie comprende un certo
numero di gruppi inferiori o sottogruppi. Per classificare questi, quando non si può utilizzare il principio
della subordinazione dei caratteri, si fa ricorso al principio della serie naturale, consistente nel
classificare i gruppi secondo il grado di perfezione con cui ciascuno realizza i caratteri dominanti
comuni. Così i sottogruppi del ramo dei vertebrati si distribuiscono nella seguente maniera, secondo il
grado di perfezione dello scheletro: mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, pesci.
195 - 3. VALORE DELLE CLASSIFICAZIONI
a) Difficoltà della classificazione. Le classificazioni biologiche tendono verso la classificazione
naturale, ma rimangono artificiali e imperfette sotto parecchi aspetti, in ragione delle lacune
dell'osservazione e delle insufficienze della descrizione, dell'estrema difficoltà che si riscontra nel
determinare le specie inferiori (cioè i caratteri realmente specifici): molto spesso le “specie” della
sistematica differiscono tra loro solo per caratteri accidentali (colore e grandezza), ciò che spiega come P.
Marchal distingua 800.000 specie di insetti, mentre alcuni entomologi americani ne contano fino a
2.000.000. Nonostante tutto, la sistematica ha raggiunto un grado di precisione considerevole, in
considerazione della complessità delle forme viventi.
“Il valore della classificazione, scrive L. Vialleton, è confermato in un modo lampante dal fatto che le
innumerevoli forme animali scoperte nelle esplorazioni geologiche, geografiche o marine per quanto
moltiplicate da più di cent'anni non hanno affatto bisogno di serie revisioni dei loro quadri. Da quando la
tavola del regno animale di Cuvier ebbe ricevuto le variazioni rese necessarie dalla conoscenza più
completa di animali che la difficoltà del loro studio aveva, per così dire, sottratti alle sue ricerche, cioè
allorché il numero delle divisioni fu da Leukart portato a sette (protozoi, celenterati, vermi, echinodermi,
molluschi, artropodi, vertebrati), erano tracciati i quadri entro i quali sono potute rientrare senza difficoltà
tutte le specie conosciute fino ad oggi. È necessario aumentare il numero di certi casi, soprattutto dei più
piccoli, sdoppiarne alcuni altri, ma i princìpi stessi di Cuvier, sui quali era fondata la sistematica, non
hanno dovuto affatto essere cambiati” (L'origine des étres vivants, Parigi, 1929, p. 195-196) (Fig. 12).
Gruppi
Mammiferi
Uccelli
Rettili e anfibi
Pesci
Lepidotteri
Coleotteri
Linneo
1758
Specie
conosciute
1898
183
444
181
414
542
595
3.500
13.000
5.000
12.000
50.000
120.000
Imenotteri
Ditteri
Neurotteri
Ortotteri
Emitteri
Aracnidi
Miriapodi
Crostacei
Picnoginidi
Tunicati
Briozoi
Vermi
Molluschi e brachipodi
Echinodermi
Spugne (celenterati)
Protozoi
229
190
35
150
195
78
16
89
-3
35
41
674
29
11
28
4.162
38.000
28.000
2.050
13.000
30.000
20.000
3.000
400
1.000
8.000
150
8.000
50.000
3.000
1.500
6.000
415.600
Fig. 12 – Tavola delle specie conosciute nel 1758 e nel 1898, costruita da Plate (1903), secondo i
lavori di Moebius (da Valleton, Origine des ệtres vivants, p. 191). A questa tavola bisognerebbe
aggiungere le 80.000 specie fossili conosciute oggi.
b) Tipi di organizzazione e tipi formali. Per apprezzare il valore ontologico della sistematica, è
opportuno distinguere, nei gruppi che essa fornisce, tipi di organizzazione e tipi formali, in virtù dei
criteri essenzialmente differenti che entrano in gioco: l'organizzazione da una parte, la forma dall'altra. In
realtà, osserva L. Vialleton (Membres et ceintures des vertébrés tétrapodes, Parigi, 1924, pp. 674-678), le
grandi suddivisioni della sistematica, dalla diramazione all'ordine compreso, si fondano solo sulla
organizzazione, mentre al di sotto l'organizzazione non è più in causa, poiché rimane essenzialmente la
stessa in tutte le specie di un medesimo ordine. Tuttavia, queste specie non costituiscono una massa
caotica: esse si distribuiscono naturalmente in un certo numero di forme generali che corrispondono ai
grandi generi degli antichi naturalisti (famiglie attuali) e costituiscono dei tipi formali.
Queste osservazioni significano che i tipi di organizzazione designano soltanto enti astratti o
inquadramenti (come il triangolo o il cerchio del geometra) non essendo mai esistiti essi come tali (il che
non vuol dire che queste divisioni non abbiano alcun valore). I tipi formali rappresentano al contrario dei
“ tipi concreti esistenti come tali per un tempo più o meno lungo”, e di conseguenza soltanto tra questi
tipi formali è possibile applicare le leggi di correlazione e di subordinazione degli organi166. È pure nei
loro limiti che si pone attualmente il problema del trasformismo.
Art. III – Metodo delle scienze umane
SOMMARIO
§ l - NOZIONI GENERALI - Concetto delle scienze umane - Scienze umane e psicologia - Scienze
umane e scienze positive - Scienze umane e determinismo - Divisione - Distinzione dei metodi.
§ 2 - METODO DELLA STORIA - Concetto di storia - Natura dei fatti storici - L'avvento del metodo
storico - Le tappe del metodo ­ L'euristica - Le differenti specie di documenti - Il ritrovamento dei
documenti - La critica storica - Critica dei resti - Critica delle testimonianze - La sintesi storica L'imparzialità dello storico - Le qualità letterarie dello storico - La storia è una scienza? - Il metodo
scientifico della storia - La filosofia della storia.
§ 3 - METODO DELLA SOCIOLOGIA - Concetto di sociologia - La scienza sociologica - Natura della
scienza sociologica - Il fatto sociale oggetto della sociologia - La realtà del comportamento sociale -
C'è una coscienza collettiva? - La coazione - Il determinismo del fine ­ Natura del fatto sociale - Il
concetto di società - Specificità del fatto sociale - Generalità del fatto sociale - L'osservazione in
sociologia - Osservazione diretta: monografia ed etnografia - Osservazione indiretta: la storia - Le
statistiche - Classificazione dei tipi sociali - La definizione - Le leggi sociologiche - Le differenti
specie di leggi - Il problema del sostrato - Il determinismo in sociologia ­ Compito della sociologia La sociologia non è una morale - La sociologia è utile al moralista ed al politico.
§ l - Nozioni generali
A. CONCETTO DELLE SCIENZE UMANE
196 - 1. DEFINIZIONE - Si dicono scienze umane, quelle che concernono le differenti attività,
individuali o collettive, dell'uomo, in quanto essere intelligente e libero. La considerazione di ciò che
caratterizza l'uomo, cioè l'intelligenza e la libertà, dà alle scienze umane il loro oggetto speciale e
irriducibile nella gerarchia delle scienze.
2. DIFFICOLTÀ - La definizione delle scienze umane testé letta urta contro alcune obiezioni che qui è
opportuno esaminare, al fine di precisare la nozione di “scienza umana”.
a) Scienze umane e psicologia. Definendo le scienze umane come le scienze dell'attività umana come
tale, si implica, si dice, che la psicologia e la sociologia concernano soltanto l'uomo, mentre ci sono una
psicologia ed una sociologia animali. Gli animali, in realtà, scrive Th. Ribot (La psychologie anglaise
contemporaine, 5a ed., Parigi, 1900, p. 25), “hanno le loro sensazioni, i loro sentimenti, i loro piaceri e i
loro dolori [...], v'è in ciò un insieme di fatti psicologici che non abbiamo alcun diritto di separare dalla
scienza”. D'altra parte, il fatto sociale non sarebbe specifico solo dell'uomo, anche gli animali
costituiscono società, che raggiungono pure (api, formiche, castori) un alto grado di evoluzione.
Bisogna riconoscere una parte importante di verità in queste osservazioni, per lo meno in ciò che
concerne la psicologia. È esatto, in realtà, che la psicologia, o studio dell'anima e delle sue manifestazioni, comprende nel suo dominio specifico, prima dello studio dell'anima umana, quello dei fenomeni
della vita in generale (vegetativi e sensitivi), che sono comuni all'animale e all'uomo. Non si può reagire
troppo contro la concezione cartesiana, che pretende spiegare la vita con il puro meccanismo e, riducendo
l'anima al pensiero, non ammette psicologia fuorché quella umana. Tuttavia, non v'è in ciò una ragione
decisiva di escludere la psicologia dal gruppo delle scienze umane, a condizione si ammetta che,
proponendosi lo studio dell'uomo a titolo principale, la psicologia implica, a titolo preliminare, lo studio
dell'anima in generale, come principio della vita e dei suoi fenomeni. Quanto alla sociologia, non sembra
che si possa parlare univocamente, come fa Espinas, di “ società animali”. Propriamente v'è società
soltanto di persone, così come propriamente non c'è altra intelligenza che quella umana.
197 - b) Scienze umane e scienze positive. Si obietta ancora che è molto difficile far rientrare in un
solo gruppo scienze positive, come la psicologia sperimentale e la sociologia, scienze pratiche e
normative, come la morale e la politica, una scienza metafisica come la psicologia razionale, infine una
disciplina come la storia, che per definizione stessa esclude il generale e il necessario, oggetti della
scienza propriamente detta (123). A ben considerare, il gruppo delle scienze umane apparirebbe come un
insieme confuso di discipline eterogenee, composto nel modo più arbitrario.
Tuttavia, queste difficoltà non sono decisive. Esse dimostrano soltanto che, nel gruppo delle scienze
umane, è opportuno introdurre delle suddivisioni, come si è dovuto fare, d'altronde, nel gruppo delle
scienze della natura. Perché si ammetta la legittimità del raggruppamento, è sufficiente infatti che le
diverse discipline che lo costituiscono abbiano un elemento comune tra loro, nonostante. le loro
differenze. Questo elemento comune, è appunto, come si è visto, la considerazione del comportamento
umano, come tale, nei molteplici campi in cui si esercita l'attività dell'uomo. Infatti, tutte le scienze
umane sono ordinate a questo unico fine, anche quando esse si appoggiano, come la psicologia, sopra
investigazioni infraumane (biologia, psicologia e psicologia animale). D'altra parte, esse meritano, le une
e le altre, sebbene per ragioni diverse, il nome di scienza. Non si potrebbe rifiutare ad esse questo titolo
che in nome di una concezione strettamente positivistica della scienza. Se è vero che ogni scienza ha la
base nell'esperienza, non c'è esperienza che del sensibile e del misurabile, e la scienza sopravanza
legittimamente ciò che è accessibile ai sensi (9). La storia, è vero, costituisce un caso particolare, in
quanto concerne il singolare e il contingente. Si pone il problema tuttavia se essa non meriti, per altri
aspetti, di essere considerata come una scienza. In ogni caso, non si tratterebbe che di farle un posto a
parte nel gruppo delle scienze umane.
198 - c) Scienze umane e determinismo. Si osserva infine che se il campo delle scienze umane è quello
del comportamento umano come tale, esso esclude necessariamente il determinismo assolutamente
richiesto dalla scienza.
Ma questa obiezione procede ancora da una concezione insostenibile del determinismo, poiché essa
implica che c'è soltanto una specie di determinismo, quello del puro meccanismo. In realtà, come si è
visto (183), il principio del determinismo, nel suo senso più generale, non è nient'altro che il principio di
ragion sufficiente o di intelligibilità, richiedente per ogni realtà e per ogni fenomeno la sua ragion
d'essere. Questo principio riceve applicazioni e riveste forme diverse secondo i diversi campi studiati
dalle scienze, in cui sono in atto tipi essenzialmente distinti di determinazione. Del resto, si sa come le
stesse scienze fisico-chimiche si approprino, con il pretesto delle leggi statistiche, la indeterminazione
degli elementi (sia che questa indeterminazione sia reale o che risulti dall'insufficienza dei nostri
procedimenti di osservazione e di misura). Se dunque determinismo significa puramente, in fin dei conti,
intelligibilità, tutte le scienze umane, in quanto esse sono appunto scienze, soddisfano al principio del
determinismo, tendendo a rendere intelligibile, nei suoi differenti campi, il comportamento umano come
tale. Il fatto che l'uomo sia qui considerato come un essere dotato di libertà non significa che le scienze
umane rinuncino a stabilire delle leggi: innanzitutto, vi sono le leggi dell' attività libera come tale (leggi
umane), poi l'uomo, individuale e collettivo, pure agendo liberamente, è suscettibile di un comportamento
normale, regolare e prevedibile, che permette di stabilire leggi positive, valevoli per la maggior parte dei
casi (leggi statistiche)167. In sintesi, niente si oppone acché si conservi il gruppo delle scienze umane, che
riesce perfettamente definito nel suo oggetto e nel suo fine.
B. DIVISIONE
199 – 1. SUDDIVISIONE DELLE SCIENZE UMANE - La discussione della nozione delle scienze
umane ci ha già rivelato quale divisione convenga introdurre nel complesso gruppo delle scienze umane.
Sembra che si possano distinguere due grandi categorie, cioè:
a) Le scienze umane teoriche. Sono quelle che studiano l'uomo, preso individualmente o
collettivamente, così com'è. Tali sono la psicologia, la sociologia, l'economia, la storia. Queste scienze
sono dunque scienze di fatti.
b) Le scienze umane pratiche. Sono quelle che definiscono le leggi cui deve conformarsi l'attività
umana. Tali sono la morale e la politica. Queste scienze sono dunque, secondo la formula corrente,
scienze normative (o pratiche) (30).
2. DISTINZIONE DEI METODI - Le due categorie di scienze umane sono distinte tra loro in misura
sufficiente ad esigere metodi distinti. La prima categoria dipende evidentemente dai procedimenti del
metodo sperimentale, adattati a questi nuovi oggetti.
Quanto alla seconda categoria, essa fa intervenire quelli che si chiamano giudizi di valore o giudizi
formulanti ciò che è bene e ciò che conviene fare, e per questo riguardo essa dipende da un metodo
parzialmente differente da quelli che sono in uso nelle scienze dei fatti. Studieremo questo metodo
quando ci accosteremo alla morale.
Quanto al metodo della psicologia, lo studio d'esso interverrà insieme con quello di questa disciplina.
Qui non ci rimane dunque che trattare del metodo della storia e di quello della sociologia.
§ 2 - Metodo della storia 168
A. CONCETTO DI STORIA
200 - 1. DEFINIZIONE - In un senso alquanto generale, dicesi storia lo studio di tutto ciò che ha un
passato (storia della terra, storia dell'arte, storia della fisica, ecc.). In un senso stretto, la storia è lo studio
dei fatti del passato che hanno interessato l'evoluzione delle società umane. In quanto risponde a tal
definizione, la storia si occupa ad un tempo dei fatti umani (ad esempio la guerra delle Gallie, l'assassinio
di Cesare, la Riforma, la Rivoluzione francese, ecc.), e di fatti materiali che hanno avuto ripercussioni
notevoli nelle società umane (eruzione del Vesuvio nel 79, inondazioni del Nilo, ecc.).
È chiaro che conviene distinguere due sensi del termine storia, a seconda che esso designi la realtà
storica stessa o la storia vissuta dall'umanità, oppure un'opera letteraria tendente a delineare questa realtà
storica (storia scritta).
Un fatto storico può dunque essere un fatto individuale, dal momento che questo ha esercitato una
influenza notevole sul corso degli avvenimenti: il naso di Cleopatra, la renella di Cromwell, la psicologia
di Napoleone I, appartengono sotto questo punto di vista alla storia. La grandissima maggioranza dei fatti
storici sono d'altronde di questo genere, poiché la storia, in un certo senso, è opera delle grandi
individualità. In compenso, un numero incomparabilmente più grande di fatti individuali non sono
“storici”, per non aver avuto una ripercussione apprezzabile sul corso degli avvenimenti.
Langlois et Seignobos (Introduction aux études historiques, 4a ed., Parigi, p. 216) osservando due casi
in cui è opportuno tenere per storica l'azione di un individuo: “Quando il suo atto ha agito come esempio
su di una massa d'uomini ed ha creato una tradizione, caso frequente in arte, in scienza, in religione, in
tecnica; 2° quando è stato in possesso del potere di dare ordini o di imprimere una direzione ad una massa
di uomini, come avviene per i capi di Stato, d'armata o di Chiesa”.
201 - 2. NATURA DEI FATTI STORICI - Diconsi fatti storici dei fatti singolari affetti dalle
circostanze in cui si sono concretati nello spazio e nel tempo. I fatti storici sono dunque originali e unici.
È uno dei caratteri che distinguono la storia dalla sociologia: questa infatti può prendere per oggetto di
studio i fatti del passato, ma li considera solo sotto il loro aspetto generale, epurandoli dalle circostanze
concrete che li hanno contrassegnati storicamente. Nell'assassinio di Giulio Cesare essa si sforzerà di
scoprire i caratteri dell'assassinio politico in generale; nella Riforma essa cercherà di scoprire la forma
generale delle rivoluzioni religiose.
Da qui deriva che se la storia e la sociologia possono avere lo stesso oggetto materiale, esse non lo
considerano dal medesimo punto di vista: esse hanno ciascuna un oggetto formale distinto, cioè per la
storia la determinazione dell'ordine degli avvenimenti, per la sociologia invece la determinazione dei tipi
sociali e delle leggi della vita sociale.
202 - 3. L'AVVENTO DEL METODO STORICO
a) La storia, genere letterario. Il metodo storico s'è formato a poco a poco. Le tappe del suo progresso
sono contraddistinte dal progresso del rigore scientifico apportato nella ricerca e nella critica dei
documenti. Da questo punto di vista, come si vedrà, le scienze ausiliarie della storia hanno meravigliosamente tratto profitto dallo studio del passato e contribuito in una maniera decisiva a trasformare la
storia, da genere letterario che essa era stata per lungo tempo, in disciplina scientifica. La storia, in realtà,
è stata spesso concepita, nell'antichità e nel Medioevo, come uno strumento di insegnamento morale e di
edificazione, come un procedimento per consacrare la gloria di un popolo o di una famiglia. Nelle opere
influenzate da questa concezione, la cura letteraria e oratoria era predominante, a detrimento delle strette
esigenze della verità storica. Opera d'immaginazione, la storia vedeva nei documenti nient'altro che
pretesti per amplificazioni più o meno ingegnose.
b) La storia-scienza. Tuttavia sarebbe errato pensare che tutte le opere storiche dell'antichità, dal
medio evo all'epoca moderna, fino al XIX secolo, si rapportino all'immaginazione romanzesca,
all'apologia o alla amplificazione oratoria. Lo si afferma talvolta, ma alquanto ingiustamente. È certo
infatti che l'antichità ha prodotto delle opere storiche anche scientifiche, di intenzione e di ispirazione,
come i lavori contemporanei, sebbene i procedimenti di informazione ed i mezzi di critica fossero
infinitamente meno abbondanti e perfezionati dei nostri. Tucidide e Tacito non mancano almeno di spirito
scientifico. Altrettanto è da dire, ed ancora a maggior ragione, dei grandi eruditi del XVII e del XVIII
secolo, quali Lenain De Tillemont, i Bollandisti, i Benedettini della Congregazione di San Mauro,
Mabillon soprattutto, che, col suo famoso trattato De re diplomatica, fonda autenticamente il metodo
scientifico della storia. In realtà, non è affatto vero che lo spirito scientifico nella storia sia una cosa
nuova e contemporanea. Ciò che progredisce, sono i mezzi di informazione e di critica. Questi sono del
resto unicamente strumenti, che valgono solo per l'uso che di essi si fa.
4. LE TAPPE DEL METODO - Il fatto storico, essendo un fatto del passato, non può essere
conosciuto direttamente: si può conoscerlo solo attraverso le tracce che ha lasciato, cioè attraverso gli
svariati documenti che ci attestano la realtà e le circostanze dell'avvenimento. Conviene altresì criticare e
interpretare questi documenti, al fine di determinarne il valore ed il senso. Il metodo storico comprenderà
dunque tre fasi distinte, cioè: la ricerca dei documenti, la critica dei documenti, infine la costruzione
della storia.
B. L'EURISTICA
203 – 1. LE DIFFERENTI SPECIE DI DOCUMENTI - Dicesi euristica l'insieme degli atti destinati a
portare alla luce i documenti del passato.
a) Monumenti e scritti. Si distinguono comunemente due specie di documenti: i monumenti o
documenti materiali, (iscrizioni, tavolette, papiri, archi di trionfo, trofei, immagini, templi, opere d'arte,
tombe, ecc.), e gli scritti o documenti psicologici (annali, storie, biografie, memorie, corrispondenza, atti
pubblici, strumenti diplomatici, registri di stato civile, opere letterarie, ecc.).
b) Resti e testimonianze. Alla divisione precedente, che è lungi dall'essere irriducibile, si può preferire
la divisione dei documenti in resti e testimonianze. Gli uni infatti non sono in realtà che resti o tracce del
passato, senza essere destinati per se stessi a trasmetterne il ricordo alla posterità: tali sono le stoviglie,
armi, gioielli, graffiti, registri di spesa, libri di contabilità, monete, templi, opere d'arte, ecc. Le altre sono
testimonianze, tendenti formalmente ad informare la posterità: tali sono le memorie, cronache, annali,
iscrizioni, archi di trionfo, ecc. La critica storica dovrà tener gran conto della differenza esistente tra
queste due categorie di documenti.
204 - 2. IL RITROVAMENTO DEI DOCUMENTI
a) Il fiuto del ricercatore. Non vi sono regole per la scoperta dei documenti più che per l'invenzione
logica o scientifica. Il genio del ricercatore è qui il fattore capitale. È un dono particolare (il “fiuto
dell'erudito”) quello che conduce il ricercatore a mettere la mano, in una massa enorme e confusa di
documenti, nei cataloghi delle biblioteche sul documento significativo e rivelatore, ad iniziare scavi in un
punto in cui il profano non vede assolutamente niente e che nasconde dei tesori per la storia.
Ma una volta compiuta la scoperta, tecniche numerose e complesse intervengono spesso per la sua
interpretazione. Ciò è soprattutto vero quando si tratta di scavi: non basta aver scoperto un sottosuolo
ricco di documenti (palazzi, statue, monete, oggetti mobiliari, tavolette, papiri, fossili, ecc.): per portare in
luce questi tesori si richiede l'impiego di metodi definiti, generalmente assai delicati e richiedenti mezzi
materiali potenti.
b) Le scienze ausiliarie (erudizione). Sempre più si accumulano così i documenti del passato
attraverso le scienze ausiliarie della storia: archeologia, epigrafia, papirologia, paleografia,
numismatica, ecc. Gli archivi pubblici e privati, i musei, le biblioteche, sono posti in ogni paese a
disposizione degli scienziati e, per facilitarne lo studio, pubblicano cataloghi con descrizione più o meno
particolareggiata dei pezzi, disegni o fotografie di questi. La ricerca, la classificazione, la critica di questi
documenti diversi costituiscono l’oggetto della erudizione, che è alla base della storia, come
l'osservazione è alla base della scienza.
C. LA CRITICA STORICA
205 - La critica storica tende a definire, con la maggiore precisione possibile, il valore dei differenti
documenti del passato, resti e testimonianze.
1. CRITICA DEI RESTI - La critica dei documenti-resti del passato si svolge su tre punti: autenticità e
provenienza, integrità e senso del documento.
a) Autenticità e provenienza. Si tratta qui di determinare qual è l'autore del documento e di quale
epoca. Per questo, si ricorre sia a criteri esterni (critica esterna), sia a criteri interni (critica interna). I
criteri esterni (esteriori al documento stesso) consistono nei riferimenti al documento fatti (esplicitamente
o implicitamente) dai contemporanei e testimonianti che esso appartiene (o non appartiene) all'autore
presunto. Si è così accertato, ad esempio, che il trattato Delle Leggi è autenticamente di Platone, per il
fatto che Aristotele lo cita a più riprese come tale. Si constata, al contrario, che le opere attribuite al
Medioevo a Dionigi l'areopagita (stimato quel Dionigi di cui parlano gli Atti degli Apostoli, XVII, 34, e
che fu convertito da San Paolo) non sono citate né conosciute prima del V secolo.
Quest'ultimo caso fornisce un argomento chiamato argomento del silenzio. Questo argomento non è
senza valore, ma di per se stesso non è generalmente decisivo. Può accadere infatti che un documento
perfettamente autentico non sia stato conosciuto e citato dai contemporanei, oppure che tutte le tracce
contemporanee di esso siano andate perdute. Qui dunque bisogna utilizzare i criteri interni.
I criteri interni di autenticità sono quelli che si ricavano dal contenuto del documento: scrittura,
vocabolario, stile, idee, lingua, allusioni a fatti conosciuti, fatti di costume, ecc. Ci si sforza di
determinare se questo contenuto concordi con quello che si sa d'altronde sull'autore presunto, - se,
autentico in parte, il documento non contenga delle parti interpolate, dei plagi, dei rimaneggiamenti, ecc.
Così appunto la critica interna delle opere dello Pseudo-Dionigi rileva uno stile ed idee mutuate dal
filosofo greco Proclo (411-485): l'autore riproduce anche testualmente, nel De divinis nominibus, 13,85
(in Migne, P.G., III, IV; cfr. tr. it., Messina, 1953), un brano del De malorum subsistentia di Proclo, (in
Opera Procli, 6 voll., Parigi, 1820-27) e vi si scoprono delle allusioni all'eresia monofisita (V secolo).
Quando si possiedono altri documenti del medesimo autore, la critica interna diviene evidentemente più
facile.
206 - b) Integrità. Due casi possono presentarsi, a seconda che si possieda il documento originale o
solamente una copia d'esso. Nel primo caso, si tratta di decidere sull'integrità del documento secondo i
criteri esterni ed interni, conformemente ai procedimenti utilizzati per la ricerca dell'autenticità.
Se si tratta di copia o di copia di copie, la critica si sforza di scoprire e di correggere per quanto
possibile gli errori, accidentali o intenzionali, provenienti dai copisti (confusioni di parole o di lettere,
trasposizioni, omissioni, addizioni, corruzioni fraudolente, ecc.). Si stabilisce così, per comparazione dei
documenti, la lista delle varianti, tra le quali si sceglie quella più probabilmente autentica.
Le regole, qui, permettono un grande arbitrio. Per limitarlo, si tenta, quando si possiedono più copie
dello stesso documento, di determinare quale sia la più antica (e all'origine la migliore) ed insieme la
fonte delle altre (genealogia dei manoscritti).
c) Senso dei documenti. La critica qui diviene interpretazione. Per questo la si chiama ermeneutica. Va
da sé che essa comporta innanzi tutto la decifrazione del documento e la sua traduzione. Ciò d'altronde
esige, oltre la conoscenza delle lingue, l'impiego di regole di interpretazione implicanti: il ricorso al
contesto ed ai brani paralleli, che permettono di interpretare le parole in funzione dell'insieme l'attenzione al genere letterario (alcuni generi comportano il senso letterale, altri comportano o
ammettono metafore, iperboli, allegorie, ecc.), - la determinazione delle citazioni implicite (riportando
l'autore discorsi altrui, che egli non necessariamente sottoscrive di persona)169.
Le principali scienze ausiliarie qui usate sono l'epigrafia (lettura delle iscrizioni), la paleografia
(lettura dei manoscritti), la diplomatica (lettura dei diplomi antichi), la numismatica (studio delle monete
e delle medaglie), infine la filologia (scienza delle lingue).
207 - 2. CRITICA DELLE TESTIMONIANZE - La critica delle testimonianze (il cui insieme
costituisce la tradizione) implica innanzitutto il ricorso ai procedimenti precedenti, al fine di stabilire
l'autenticità ed il significato dei documenti. Ma bisogna inoltre determinare il valore della testimonianza,
ossia cercare se la testimonianza è insieme sincera ed esatta (la buona fede non implica necessariamente
l'esattezza). Per questo, si criticherà sia il fatto in se stesso, sia i testimoni che lo trasmettono.
a) Esame del fatto. I documenti riportano talvolta dei fatti che appaiono alla critica come impossibili in
se stessi o come inverosimili relativamente alle circostanze di persone, di tempo e di luogo in cui si sono
presumibilmente svolti. L'errore, qui, non fa concludere necessariamente alla insincerità del testimonio:
questi potrebbe essere vittima dei suoi pregiudizi, della sua credulità, dell'insufficienza della sua
informazione, ecc.
Conviene tuttavia osservare che qui la critica deve dare prova di un'estrema prudenza ed evitare di
giudicare a priori impossibili, o inverosimili dei fatti che appaiono tali solo in relazione alle idee
preconcette dello storico. Dei fatti ritenuti dapprima come inverosimili (le “piogge di sangue” di Tito
Livio), perfino dall'Accademia delle Scienze (magnetismo, aeroliti, ecc.), hanno dovuto in seguito essere
riconosciuti esatti, in conseguenza del progresso delle scienze, che ha permesso di spiegarli.
In un altro campo, allorché Renan, ad esempio, scrisse che “il principio della critica è che il miracolo
non trova posto nelle cose umane”, egli pone un a priori di natura filosofica che è molto contrario alla
pura obbiettività storica e scientifica, e che lo conduce, in molte circostanze, ai più grossolani errori di
fatto.
208 - b) Esame dei testimoni. Qual è il grado di veracità del o dei testimoni? Non si può scoprire nella
sua testimonianza traccia di errore o di menzogna? Se non c'è che un solo testimonio, bisogna ricercare,
in generale e relativamente al fatto in discussione, se il testimonio ha l'intelligenza, il valore morale e la
competenza richiesti: né la forma dell'affermazione, né la precisione della testimonianza sono garanzie
sufficienti (c'è un genere di esattezza che è la peggior falsità, per il modo secondo cui dei fatti,
materialmente veri, sono posti in reciproco rapporto, come, inversamente, alcune inesattezze materiali
testimoniano talvolta una osservazione molto sicura e fedele), - se il testimonio è sincero, qualità che si
potrà inferire da ciò che si sa d'altronde su di lui e dal fatto che egli non sembra avere alcun interesse ad
alterare la verità dei fatti. Tuttavia si terrà sempre conto di una certa possibilità di alterazione dei fatti,
dovuta al “coefficiente personale” impossibile ad eliminarsi completamente.
Il caso di testimoni molteplici del medesimo fatto comporta due ipotesi: l'accordo delle testimonianze,
che costituisce, soprattutto quando i testimoni sono indipendenti, una seria presunzione di veracità, - la
discordanza delle testimonianze, nel qual caso conviene dare la preferenza, non alla testimonianza che ha
più testimoni in suo favore, ma a quella che è fornita dal o dai testimoni che hanno il maggior valore
morale, di competenza e di intelligenza.
Tutto ciò d'altronde offre per lo più delle probabilità. Così lo storico scrupoloso si guarderà dal
credere all'infallibilità dei suoi metodi.
D. LA SINTESI STORICA
209 - Fin qui, non si è avuta che un'analisi dei fatti, tendenti a fornire allo storico una quantità più o
meno imponente di materiali storici. Si tratta poi di passare alla sintesi, che è il lavoro proprio dello
storico e che consiste nel ricostruire l'ordine degli avvenimenti passati. (Opera difficile, che richiede tutto
un insieme di qualità morali, scientifiche e letterarie).
1. L'IMPARZIALITÀ DELLO STORICO - C'è una imparzialità evidente: è quella che consiste
nell'escludere assolutamente la falsità premeditata, sia per deformazione sistematica dei fatti, sia per
omissione volontaria di certi fatti.
L'imparzialità storica ha tuttavia ancora altre esigenze. Essa vuole che lo storico si mantenga in uno
stato di costante diffidenza contro i suoi pregiudizi, le sue simpatie o antipatie personali, di partito, di
razza o di religione, al fine di evitare che la sua esposizione ne sia involontariamente alterata o falsata. Lo
storico deve così sottomettersi ad una specie di ascesi tanto più vigile e stretta quanto più i fatti dei quali
tratta incidono sul corso ordinario delle sue idee e dei suoi sentimenti.
Non è il caso tuttavia di esigere dallo storico la pura indifferenza. Oltre al fatto che essa sarebbe quasi
impossibile, non è neppure necessaria all'imparzialità. Lo storico è un uomo e conserva sempre il diritto
di esprimere i suoi sentimenti intorno ai fatti che espone. Ciò che importa, è che, qualunque siano i suoi
sentimenti confessati o nascosti, egli si proponga come legge assoluta il rispettare scrupolosamente la
verità.
210 - 2. LE QUALITÀ SCIENTIFICHE DELLO STORICO - I “fatti” non si mettono in ordine da
soli. Proprio allo storico incombe di scoprire l'ordine del loro concatenamento, cioè di classificare e di
spiegare i fatti.
a) La classificazione dei fatti. Questo lavoro è, in qualche modo, un lavoro provvisorio, senza il quale
lo storico rischierebbe di perdersi nella massa dei documenti da ordinare. La sua prima cura sarà dunque
di classificare i fatti e di coordinarli con serie della stessa natura (avvenimenti politici, religiosi, letterari,
economici, sociali, ecc.), e con periodi più o meno lunghi, ma mantenendo una specie di unità o di
totalità. Questo lavoro, assai delicato, esige da un lato, che lo storico attenda a colmare le lacune che
possono sussistere nella sua documentazione: egli utilizza a tale scopo le conoscenze che possiede sulle
persone e sulle cose del periodo studiato, ­ d'altra parte che lo storico si preoccupi di ritenere, nella massa
dei fatti, solo quelli realmente importanti e significativi. Ad ogni modo, infatti, la storia deve
necessariamente presentarsi come una specie di disegno schematico o di pianta. Diversamente,
l'esposizione della storia sarebbe rigorosamente altrettanto lunga quanto la storia stessa.
b) La spiegazione dei fatti. - La classificazione o esposizione cronologica dei fatti richiede una
spiegazione: si tratta infatti di rendere intelligibile la successione degli avvenimenti, cioè di porli nella
relazione di cause ed effetti. La successione cronologica non è necessariamente indice di rapporto
causale, e inversamente questo rapporto può sussistere tra fatti che sembrano a prima vista non avere tra
loro alcuna relazione di tempo e di luogo. Lo storico qui si trova dunque posto davanti a difficili problemi
da risolvere. I mezzi di soluzione gli saranno forniti sia dai fatti stessi, allorché portano in sé il
contrassegno esplicito delle loro cause, sia dalle leggi fisiche, fisiologiche, psicologiche o sociali che
dirigono l'attività umana. Sapendo, ad esempio, che “ la cattiva situazione delle pubbliche finanze tende a
provocare uno sconvolgimento sociale” (Langlois e Seignobos, l. c., p. 223), si sarà condotti ad
ammettere che le difficoltà finanziarie della monarchia sono state una causa della Rivoluzione del 1789.
211 - c) Il ragionamento per analogia. Da ciò che precede si vede che il ragionamento per analogia è
quello che sta alla base delle “leggi storiche”. “Al presente, si osserva che i fatti umani sono legati tra
loro. Si ammette che nel passato i fatti simili erano concatenati ugualmente”. (Langlois e Seignobos, l. c.,
p. 222). Questo principio ha un valore incontestabile, in virtù dell'uniformità relativa del comportamento
umano nel tempo e nello spazio, fondata essa pure sulla stabilità essenziale della natura umana. Tuttavia,
il ricorso a questo principio è sottoposto a due condizioni: innanzitutto, lo storico deve ammettere la
possibilità di cause fortuite, di accidenti e di eccezioni alle leggi generali, poi, deve mantenere sempre il
senso dell'originalità propria delle società del passato e formarsi in qualche modo, per simpatia,
un'anima contemporanea alle società che studia.
3. LE QUALITÀ LETTERARIE DELLO STORICO - La storia deve essere anche un'opera d'arte. Si
tratta infatti di far rivivere il passato: ciò presuppone nello storico i doni riuniti dello scrittore, del
pittore, dello psicologo e del poeta. La fantasia poetica soprattutto, quella che dà vita ai fatti ed ai
personaggi del passato, è un aiuto prezioso e indispensabile dello storico. Essa sola permette il lavoro di
ricostruzione del divenire umano, sociale e spirituale insieme, che incombe allo storico. M. Heidegger
(Sein und Zeit, Halle 1927, pp. 372-403; cfr. tr. it. Milano-Roma, 1953) ha proposto una concezione della
storia e dello storico che si fonda essenzialmente sulle due osservazioni seguenti. Da una parte, il senso
(cioè la qualificazione) degli avvenimenti passati dipende fondamentalmente dallo schema dello storico,
cioè da ciò che egli considera come suscettibile e degno di ripetizione. Lo storiografo, infatti, è anche lui
“storico”: egli si storicizza nell'atto stesso di comprendere la storia alla luce delle sue idee e dei suoi
schemi, politici, sociali, economici, culturali, cioè dei suoi stessi “progetti”. Così, ad esempio la
Rivoluzione francese del 1789 assumerà un senso assai differente a seconda dell'idea che lo storico si
forma della società politica (e, di conseguenza, di ciò che egli desidera o attende): le storie di Michelet,
Taine e Thiers riflettono la diversità di questi “progetti”.
D'altra parte, se è vero (come si potrebbe obiettare) che la storia deve avere un senso assoluto, questo
senso potrebbe essere definito solo se la storia fosse compiuta. Non si avrà storia “obiettiva” che alla fine
del mondo. Da ora fino a quel giorno, la storia è in sospeso: il senso del passato è sempre in questione,
poiché non è mai definitivo. Chi vorrà emettere, sul significato della Rivoluzione del 1789, un giudizio
sicuro, obiettivamente certo, mentre i suoi effetti sono costantemente fluenti e mutevoli, e d'altronde
imprevedibili?
E. LA STORIA È UNA SCIENZA?
212 - 1. IL METODO SCIENTIFICO DELLA STORIA - È ben evidente che la storia non è una
scienza uguale, per natura, alla fisica o alla chimica. Queste enunciano leggi universali: la storia espone
fatti singoli, irripetibili. Tuttavia, si potrà considerare la storia come una scienza in virtù di ciò che essa
comporta di certezza, acquisita con metodi dotati di sufficiente rigore; ed in quanto essa spiega i fatti
riportandoli alle loro cause. Per parlare esattamente, si dovrebbe dunque dire che la storia è una scienza
non per il suo oggetto, che non ha i caratteri di universalità e di necessità richiesti per le scienze
propriamente dette, ma per i metodi che essa utilizza.
213 - 2. LA FILOSOFIA DELLA STORIA.
a) Storia e filosofia della storia. Lo storico, a rigore, non è né un filosofo, né un moralista, né un
sociologo, né un politico. Tuttavia, è naturalmente indotto a tentare di isolare le leggi generali che
sembrano governare il corso degli avvenimenti. In un certo senso, ciò sembrerebbe essere la vera finalità
della storia: lo studio degli avvenimenti del passato dovrebbe insegnarci a conoscere meglio l'uomo ed il
suo comportamento, individuale e sociale, e ad attingere in questa conoscenza lezioni per la direzione
della vita umana e delle società. Historia, magistra vitae.
Si può ammettere tuttavia che lo storico lascia questo compito ad altri, pressappoco, se si vuole, come
il chimico, il fisico, il naturalista possono esimersi dal discutere la filosofia della natura. Si possono così
scoprire quasi due prolungamenti della storia: la sociologia, e la filosofia della storia. Abbiamo già
distinto (201) la prima dalla storia propriamente detta, dimostrando che essa tende a stabilire, col metodo
comparativo, i tipi sociali e le leggi generali della vita in società. La filosofia della storia ha un fine
ancora molto più vasto, poiché essa cerca di scoprire le cause più generali degli avvenimenti umani, ciò
che si potrebbe chiamare il piano generale della storia.
214 - b) Il piano della storia. Cercare di scoprire il piano della storia suppone innanzitutto che la
storia sia logica, mentre essa appare alogica nei sui elementi, poi che si sorvoli in certo modo tutta la
storia, ciò che implica del profetismo.
Questo profetismo è in atto nella maggior parte delle “filosofie della storia”. Vico pensa che la legge
ideale della evoluzione faccia passare tutte le società dalla teocrazia (diritto religioso) all'aristocrazia
(diritto eroico) ed infine alla democrazia (diritto umano). Ballanche pensa che ogni progresso della storia
confluisca nella democrazia (intesa soprattutto in un senso morale). Comte e Spencer sostengono che la
umanità sia governata da una legge di progresso, che conduca dallo stadio teologico a quello metafisico
ed infine a quello positivo. Karl Marx definì il movimento della storia in rapporto al gioco di fattori
economici, conducente all'avvento di una società senza classi170.
Tutte queste dottrine, destinate a rendere intelligibile il movimento della storia, sono in realtà delle
ipotesi ampie, in cui l'apriori filosofico adempie una funzione più importante dello studio obbiettivo dei
fatti storici171.
c) Il senso della storia. Sarà meno ambizioso tentare di cogliere il senso della storia, cioè la direzione
generale che sembra delinearsi attraverso l'immenso divenire storico vissuto dall'umanità dalle sue remote
origini (per quanto almeno si possono conoscere)172.
Da questo punto di vista, sembra che si debba parlare d'una storia dell'uomo demiurgo: cioè l'uomo e
non i “fatti” è il soggetto della storia, poiché solo l'uomo ha la proprietà di essere “storico”. Senza dubbio
vi sono fatti e leggi, naturali, antropologiche, geografiche, linguistiche e pure, se si vuole, politiche e
sociali. Questi fatti e queste leggi tuttavia sono la stessa materia che l'uomo elabora senza posa per
dominare e sulla quale si appoggia per umanizzare il mondo e se stesso. Lungi dal ridurvisi, l'uomo si
sforza di superarle e, insieme, di superare se stesso. Senza queste resistenze che egli deve vincere, non si
avrebbe più storia; ma nemmeno la si avrebbe con esse sole. La storia è umana: è l'uomo che fa la storia e
non la storia che fa l'uomo. O almeno, l'uomo si fa con la storia ed ogni storia è storia di questa creazione
del mondo e di questa autocreazione.
La storia non è dunque né lineare, come vorrebbero le teorie razionalistiche, né puntuale, come
implicano le teorie storicistiche. Poiché è vero che c'è una natura, che è elemento produttore ed insieme
spiegazione della storia. Ma bisogna aggiungere ché questa natura o essenza è soltanto l'insieme delle
possibilità offerte alla libertà dell'uomo e che il destino che gli detta i suoi fini lo lascia libero dei suoi
mezzi; di conseguenza bisogna aggiungere che le vie con cui l'uomo crea se stesso ed umanizza il mondo
della sua azione, sono radicalmente imprevedibili e sottoposte a tanti accidenti e contingenze a tanti
avanzamenti e regressi, casi e fatalità, che nessuna logica può giustificarli. La logica che vi si scopre a
cose fatte è, in realtà, quella dei “fatti”, cioè del compiuto, quella della fatticità, in cui i possibili
realizzati, ossia “trasformati” dall'uomo in “realtà”, escludono tutti quelli che non ha deliberato di attuare,
sia perché non l'ha voluto, sia perché non l'ha potuto, sia perché bisogna sempre scegliere e di
conseguenza rinunciare e perché il tempo, che è il terreno dei possibili, impone all'uomo le forme del
prima e del poi. Questa logica è quella di ciò che è fatto e non quella di ciò che si fa.
La storia autentica attenderà dunque non solamente a riafferrare l'uomo stesso nel suo sforzo secolare
per accedere ad una più perfetta umanità, ma altresì e per ciò stesso, a riprendere nella loro irriducibile
originalità quella genesi e quegli avvenimenti di cui gli eventi non sono mai altro che l'espressione
esteriore e spenta.
§ 3 - Metodo della sociologia 173
A. CONCETTO DI SOCIOLOGIA
215 - LA SCIENZA SOCIOLOGICA.
a) Dall'antichità al XIX secolo. La sociologia, come scienza positiva dei fatti sociali, è una disciplina
recente. Ciò non significa però che lo studio delle società e dei fatti sociali sia stato ignorato dagli antichi
né altresì che essi non abbiano mai avuto l'idea di una scienza positiva delle società. In realtà, se il punto
di vista normativo domina generalmente tutti gli studi sociali fino al XIX secolo, consistendo lo sforzo
nel definire innanzitutto ciò che dev'essere la società, è opportuno osservare che, ordinate da un fine
normativo, opere come la Repubblica di Platone, la Politica di Aristotele, il De regimine principum di
San Tommaso, il De Cive ed il Leviathan di Hobbes, quelle di Locke, di Montesquieu, di Vico, di
Condorcet, di De Maistre, ecc., non mancano di implicare o di includere una sociologia positiva, in
quanto gli uni e gli altri cercano di determinare come si comportano di fatto gli uomini in quanto esseri
sociali. Solamente, la nozione di un comportamento sociale e di una psicologia collettiva rimane mal
definita e talvolta misconosciuta.
Tuttavia, con gli economisti del XVIII secolo, la nozione di leggi naturali delle società si fa strada.
Quesnay parla, nel suo Tableau économique (in Oeuvres économiques et politiques de F. Quesnay, Parigi,
1888), delle “leggi naturali” che il legislatore deve aver cura di conoscere al fine di dare alla società le
leggi politiche più utili. Così pure, Dupont De Nemours, discepolo di Quesnay, parla di “fisica sociale” o
di “leggi fisiche relative alla società”, e pone così in rilievo l'idea di una analogia tra i fatti sociali ed i
fatti della natura fisica. Questi princìpi generali cominciano d'altronde a ricevere, fin dal XVIII secolo,
parziali applicazioni, come nelle celebri Recherches et considérations sur la population de la France di
Moheau (1778), e nel XIX secolo, nel lavoro di Quételet intitolato Sur l'Homme et le développement de
ses facultés (2 voll., Parigi, 1835) e destinato a fornire con procedimenti statistici, una visione positiva dei
fatti sociali e delle loro relazioni reciproche (natalità, matrimonio, criminalità, suicidio). Quételet a
conclusione del suo lavoro scriveva che “nella maggioranza dei fenomeni sociali che dipendono
unicamente dalla volontà umana, i fatti si svolgono col medesimo ordine e talvolta con ordine ancora
maggiore di quelli che sono puramente fisici”.
216 - b) Augusto Comte. È soprattutto con Augusto Comte che la sociologia si sforza di costituirsi
come scienza positiva e di definire il suo oggetto formale, il fatto sociale, al fine di formulare, con un
impiego rigoroso dei metodi positivi, le leggi che reggono la vita delle società e la vita degli uomini in
società. A. Comte tratta ex professo questa questione nel suo Cours de Philosophie positive (lezioni 4852). Il metodo positivo, in sociologia, egli dice, implica l'esclusione di ogni ricorso ad un'entità metafisica
(Provvidenza o caso) per spiegare l'evoluzione sociale. Di questa evoluzione c'è solo una spiegazione
possibile attraverso il gioco delle leggi naturali, il che sta a dire come la prima condizione di una scienza
sociale sia l'osservazione dei fatti sociali. Questa stessa osservazione comporta una parte statica o “studio
delle condizioni di esistenza della società” ed una parte dinamica, o “studio delle leggi del suo
movimento”. Statica e dinamica sociali costituiscono scienze tanto distinte l'una dall'altra quanto
l'anatomia e la fisiologia; l'una corrisponde all'idea di ordine, l'altra all'idea di progresso. La statica
sociale studia le leggi della coesistenza degli stati sociali, la dinamica quelle della successione di questi
stati.
Queste vedute di Augusto Comte, per quanto nuove siano da più punti di vista, si riferiscono ancora
nonostante tutto, ad una concezione più vicina al “profetismo” o alla filosofia della storia che alla sociologia come “fisica sociale”. Comte, in realtà, ha ben visto e dimostrato la possibilità di una sociologia
positiva, ma senza ammettere che una tale scienza possa essere autonoma, essendo la sociologia, per
essenza, ordinata secondo lui alla elaborazione di una politica positiva, senza praticamente tendere ad
altra cosa che alla determinazione della legge che domina l'evoluzione sociale in generale.
217 - c) Émile Durkheim. Émile Durkheim (1858-1917) riprende il tentativo di Augusto Comte, con
!'intenzione di conferire un maggior rigore alla nozione di una sociologia positiva, cioè di farne una
scienza strettamente autonoma, fornita di un oggetto formale definito. Si può dire che ogni sua opera sia
stata un vasto saggio di definizione del “fatto sociale”. Su questo punto, a dire il vero, Durkheim ha
alquanto mutato di parere e le sue esitazioni non hanno cessato di calare grandi oscurità sul suo modo di
concepire il metodo sociologico.
Tuttavia l'idea generale di questo metodo è che esso deve rassomigliare a quello delle scienze della
natura, cioè che bisognerà: l° liberarsi da ogni pregiudizio; 2° trattare i fatti sociali come cose, cioè
osservarli dal di fuori ed escludere tutte le interpretazioni psicologiche soggettive; 3° definirli in rapporto
ai loro caratteri (o segni) esterni: riti, azioni, costumi, istituzioni, leggi, ecc.; 4° seguire una spiegazione
specificamente sociologica, tale, per conseguenza, che i fatti sociali si spieghino con altri fatti sociali.
Questo metodo tende a mettere in evidenza il fatto di una realtà sociale, indipendente dagli individui,
esteriore e superiore agli individui. “La vita sociale, scriveva Durkheim, deve spiegarsi, non con la
concezione che se ne fanno quelli che vi partecipano, ma con cause profonde che sfuggono alla loro
coscienza” “Rev. philos.”, dic. 1897. Queste cause profonde sono date in ciò che Durkheim ha chiamato
la coscienza collettiva, fonte di tutte le “rappresentazioni collettive” che sono alla origine dei fatti sociali.
Queste rappresentazioni collettive, di natura mentale, ben inteso, ma non individuale, hanno sempre più
costituito per Durkheim la vera spiegazione nei fenomeni sociali, a scapito delle spiegazioni mediante la
“struttura sociale” della sociologia marxista. Il ricorso alla struttura sociale, pensa Durkheim, è un
semplice materialismo, spiegando l'uomo dal di fuori ed è una sociologia falsa, poiché la struttura sociale
avrebbe essa stessa bisogno di essere spiegata. In realtà, tutto dipende, dall'“insieme degli ideali
collettivi” (Cfr. De la méthode dans les sciences). Senonché, ben inteso, questi ideali collettivi si
registrano, in qualche modo, nella morfologia sociale, cioè nelle forme materiali delle società (tutto ciò
che si vede, si numera e si misura: estensione geografica, numero di abitanti, densità della popolazione,
movimenti interni, forme degli agglomerati, distribuzione delle attività economiche, ecc.), e di qui
appunto partirà, come da una base sperimentale, la scienza sociologica. Il metodo mette in evidenza, in
secondo luogo, l'esistenza delle leggi sociali, valevoli per la sola società e provenienti da essa sola, tali, in
conseguenza, che non bisogna pensare a riallacciarle né direttamente, né indirettamente, alle tendenze
fondamentali della natura umana. Infine, il metodo sociologico, stabilendo le leggi sociali, mostra la
realtà di un determinismo sociale, che esclude, nell'ordine sociale, ogni specie di contingenza.
Lo sforzo di Durkheim ebbe per risultato di fare accettare in una maniera generale l'idea di una
sociologia positiva e, nello stesso tempo, per le ambizioni eccessive che una tale impresa si attribuiva e
per i postulati filosofici sui quali essa si appoggiava, di orientare le ricerche in un senso in cui esse non
sembrano aver dato tutto ciò che si poteva attendere. In fondo, Durkheim ha sempre più ceduto al suo
temperamento di filosofo e, sotto il nome di sociologia, ha voluto far prevalere una data concezione
dell'uomo e della società, che, senza parlare della sua deficienza filosofica, non rispondeva più al disegno
(quale lui lo proponeva) di una sociologia autenticamente positiva 174.
d) La sociologia americana. Le condizioni sociali degli Stati Uniti sono state favorevoli allo sviluppo
della sociologia. Popolo giovane, alla ricerca del suo vero volto, la nuova società urtava contro problemi
numerosi e vari che spingevano a riflettere sulla vita sociale, sulle sue condizioni e le sue leggi. 175 D'altra
parte, lo sviluppo delle grandi metropoli urbane, le distanze tra la città e la campagna, dovevano facilitare,
più che in Europa, il progresso della sociologia rurale e della sociologia urbana. L'industria americana, la
struttura del capitalismo americano, così diverso dal capitalismo europeo, dovevano provocare studi
scientifici sul lavoro, in un momento in cui gli europei erano ancora allo stadio delle considerazioni
filosofiche su questo soggetto. Infine una scienza nuova poteva, più facilmente che in Europa, trovare
posto in università nuove, liberate dai compartimenti stagni tra discipline scientifiche.
La sociologia americana innanzi tutto dipendente dall'influenza di Comte e di Spencer, con i primi
grandi sociologi americani, attribuendo tuttavia una maggiore importanza al fattore psichico 176,
specialmente con Ch. Cooley177, che introduce la feconda idea di ciò che ora si chiama il Gruppo
elementare (quello i cui membri hanno tutti tra loro relazioni personali) e che getta le basi della psicologia
sociale moderna dimostrando che il carattere dell'individuo è costituito da un gioco di stimoli e di
risposte, ha prodotto e non cessa di produrre opere di un estremo interesse e di grandissimo valore178.
218 - 2. NATURA DELLA SCIENZA SOCIOLOGICA - Il disegno di Durkheim infine è fallito solo
per aver mirato ad un fine impossibile. Da una parte, infatti, l'oggetto della sociologia, che è il fatto
sociale, non può definirsi correttamente che per riferimento ai fini della società. Durkheim vuole scartare
ogni idea di finalità e considerare il fatto sociale come una cosa, spiega bile col puro meccanismo delle
cause efficienti. Ma ciò è poco intelligibile, essendo l'efficienza stessa (l'agire o il comportamento)
regolata dai fini perseguiti in comune: come spiegarla senza ricorrere a questi fini? Dall'altra, e per il
medesimo fatto, non c'è e non può esserci sociologia positiva nel senso di scienza indifferente al valore
umano dei fatto sociali. I fatti sociali, per la finalità che essi implicano e per l'agente morale che li
produce, sono fatti morali, e la sociologia è a questo titolo una scienza morale, e non, come vuole
Durkheim, una scienza della natura. L'essenza del fatto sociale è dunque costituita propriamente dal suo
senso umano ed è definibile adeguatamente soltanto per riferimento ai fini della persona umana. Dunque
per puntualizzare proprio il valore umano del fatto sociale dà a questo, come tale, la sua intelligibilità
formale. La sociologia è dunque proprio una scienza speculativa, poiché il suo oggetto proprio, il fatto
sociale, è costituito dall'intervento significativo degli esseri umani.
Il fatto sociale non è dunque una cosa: si dovrebbe chiamarlo soggettivo, per rilevare che esso consiste
essenzialmente nel comportamento dei soggetti. Non è soggettivo tuttavia nel senso di arbitrario; al
contrario, esso ha una obbiettività propria, in quanto è conforme ai tipi o modelli (patterns) che si possono
obbiettivamente studiare.
B. IL FATTO SOCIALE, OGGETTO DELLA SOCIOLOGIA
219 - La difficoltà incontrata dalla sociologia consiste nel definire esattamente il proprio oggetto. Si
dice che questo oggetto è il fatto sociale, e su ciò tutti sono d'accordo. Ma questa nozione di fatto sociale
è lungi dall'essere perfettamente chiara. Si tratta infatti di sapere qual è la natura e qual è il criterio con
cui contraddistinguere l'elemento della società.
1. LA REALTÀ DEL COMPORTAMENTO SOCIALE - Materialmente preso, il fatto sociale è
perfettamente evidente. Noi ci conformiamo a princìpi, usanze, (regole morali o giuridiche, linguaggio,
mode, ecc.), che esistono fuori di noi, che ci impongono una specie di coazione, al punto da imporci
spesso atteggiamenti e comportamenti assunti a malincuore. I sentimenti sociali che fanno nascere in noi
queste realtà sociali differiscono considerevolmente dai sentimenti individuali. Così si condannano
collettivamente degli atti che invece individualmente si compiono. Si determina così tutto un
conformismo sociale che riceve l'influenza del gruppo e delle sue rappresentazioni o delle sue idee sulle
coscienze individuali e corrisponde ad una realtà psicologica di natura speciale.
I fatti sociali esercitano una specie di coercizione sugli individui, la quale è manifestata sia
dall'esistenza di certe sanzioni determinate, sia dalla resistenza che essi oppongono a tutti gli sforzi
individuali che incontrano. R. Maunier classifica le sanzioni sociali in mistiche (scomunica, messa
all'indice, espulsione, penitenza, ecc.), giuridiche (riparazioni, pene diverse), morali (rimprovero,
riprovazione), satiriche (beffe, vessazioni). Quanto alla resistenza alle innovazioni o trasformazioni, essa
si esprime soprattutto col misoneismo.
220 - 2. C'È UNA “COSCIENZA COLLETTIVA”? - Come spiegare questo comportamento sociale?
Non basta riconoscerne la realtà o classificarne le diverse manifestazioni, bisogna ancora definire perché i
fatti in questione sono fatti sociali, cioè bisogna definire l'essenza del fatto sociale. Qui si incontra
dapprima la nozione di coscienza collettiva, proposta da Durkheim. Il fatto sociale, secondo lui, sarebbe
essenzialmente quello prodotto da una coscienza collettiva, esterna e superiore alle coscienze individuali,
e fonte di tutte le rappresentazioni (idee e sentimenti) e, in conseguenza, di tutte le realtà tangibili e
visibili componenti la realtà sociale.
Si pone il problema di come bisogna intendere il rapporto tra la coscienza collettiva e le coscienze
individuali. Bisogna intendere che la vita sociale genera nella coscienza individuale fatti originali di
ordine psicologico, ma di natura speciale?, oppure la coscienza collettiva appartiene ad un essere distinto
dalle coscienze individuali? Durkheim ha ondeggiato dall'una all'altra di queste concezioni. La prima non
può soddisfarlo, poiché, secondo lui, i fatti sociali sono “modi di agire, di pensare e di sentire che esistono
al di fuori delle coscienze individuali”. (Règles de la méthode sociologique, Parigi, 1895, p. 6). Quanto
alla seconda, essa tenderà ad introdurre una nozione mitica che Durkheim sembra ugualmente respingere:
“La società, egli dice, non contiene nulla al di fuori degli individui” (Règles, p. XV). Finalmente, la
coscienza collettiva dovrà essere concepita come la riunione delle coscienze individuali, ma costituente,
in quanto riunione, un tutto assolutamente irriducibile agli elementi individuali e di natura assolutamente
diversa (Règles, pp. XV-XVI). C'è qui qualcosa di analogo a ciò che si produce nella formazione, per
sintesi, dei complessi naturali.
Queste spiegazioni non risolvono la difficoltà. La comparazione con i complessi naturali è fallace,
poiché supporrebbe una fusione delle coscienze individuali. Tuttavia Durkheim insinua proprio qualcosa
di questo genere scrivendo:
“Bisogna che (le) coscienze siano associate, combinate e combinate in un certo modo. Da questa
combinazione scaturisce la vita sociale. Aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali
danno origine ad un essere, psichico, se si vuole, ma che costituisce una individualità psichica di nuovo
genere”. (Règles, p. 127).
Questa concezione dipende, prendendola alla lettera, da un materialismo inintelligibile. Se, al
contrario, come Durkheim sembra pure ammettere, non s'intendesse con fusione una cosa diversa da una
interazione delle coscienze individuali si finirebbe coll'assimilare la sociologia all'interpsicologia (o
psicologia delle masse), il che sopprimerebbe la specificità della sociologia, riducendo il fatto sociale al
fatto psicologico individuale.
Così, la “coscienza collettiva” sembra dunque sfuggire ad ogni definizione rigorosa. Ciò dipende
dalla difficoltà in cui ci si trova di concepire una radicale separazione tra la coscienza collettiva e le
coscienze individuali, da cui risulterebbe questa assurdità che i fenomeni esistenti in un tutto rimarrebbero
estranei alle parti di questo tutto, come tali.
221 - 3. LA COAZIONE - Durkheim ha tentato ugualmente di definire il fatto sociale con la coazione
che esso esercita sulle coscienze individuali. “Ogni modo di fare, stabilito o no, suscettibile di esercitare
sull'individuo una coazione esteriore”. Questa coazione sarebbe addirittura il carattere essenziale dei fatti
sociali (Règles, p. 19). Conviene però riconoscere che questa nozione di coazione è tra le più ambigue.
Si tratta di una forza esterna, che obbliga l'individuo ad agire in un determinato modo, sotto pena di
incorrere in un fallo (se noi vogliamo farci intendere in Italia, siamo costretti a parlare italiano)? oppure di
un gioco di influenze esterne che impongono determinati comportamenti agli individui (ad esempio lo
sviluppo dell'industria che trascina all'esodo dalle campagne verso le città)? Durkheim segnala tali fatti di
“coazione”. Ma è chiaro che questi fatti non hanno nulla di specificamente sociale. Rimane un terzo
senso, che è quello del prestigio che eserciterebbe l'elemento sociale sulle coscienze individuali. Questo
senso ben corrisponde ad una realtà sociale, ma non può servire a definire universalmente il fatto
sociale, poiché il prestigio nasce molto spesso dall'esempio individuale e spesso si esplica pure contro
l'elemento sociale. La coazione­prestigio esiste dunque, ma non in quanto carattere specifico e universale
del fatto sociale179.
222 - 4. IL DETERMINISMO DEL FINE - L'idea di coazione potrebbe essere mantenuta per
caratterizzare il fatto sociale; ma a condizione di escludere ogni apparenza meccanica, mentre Durkheim,
desideroso di farne una cosa esteriore, non giunge a distinguerla dalle pressioni che non hanno nulla di
specificamente sociale. In realtà, la coazione, o meglio, la pressione sociale sembra essere innanzitutto la
pressione esercitata sugli individui dall'idea della società (o del suo fine, o ancora del bene comune, il
che è lo stesso). È dunque una coazione morale e di conseguenza interiore alla coscienza individuale,
quantunque proveniente da una fonte esteriore e superiore agli individui come tali, cioè dalla società e
dalla sua propria finalità.
La coazione sociale così intesa lascia libero campo alla libertà umana rendendone intelligibile
l'esercizio, non essendo la coazione di un'idea per nulla contraria in sé alla libertà e, al contrario,
definendo quel determinismo razionale che è un aspetto della libertà umana. È chiaro così che proprio la
nozione di finalità fornisce la chiave della coazione sociale e ne definisce la vera natura. È per non
averlo ammesso e compreso che Durkheim ha potuto riconoscere a questa pressione, pure assimilata a
rappresentazioni, soltanto un carattere meccanico, che, in realtà non le si addice per nulla mentre poi non
sa definire la forma della realtà sociale.
C. NATURA DEL FATTO SOCIALE
223 - La discussione che precede ci ha già permesso di rilevare gli aspetti principali del fatto sociale.
Dobbiamo ora precisare tutto ciò riferendoci alla nozione di società, al fine di delimitare strettamente la
specificità del fatto sociale.
1. IL CONCETTO DI SOCIETÀ.
a) L'elemento sociale e l'individuale. Si eviterà accuratamente di identificare quanto è sociale con
quanto è individuale preso in blocco o per accumulazione. Non si ottiene il sociale con l'individuale,
poiché la giustapposizione degli individui non costituisce, propriamente parlando, una società. Onde si
ricava pure che la definizione del fatto sociale dipenderà evidentemente dalla nozione della società.
Che è dunque una società, in generale? È l'unione morale di esseri intelligenti, raggruppati in una
maniera stabile ed efficace, per conseguire un fine comune e voluto da tutti. In ogni società vi sono
dunque tre elementi: l'unità del fine, conosciuto e voluto da tutti180, l'unità delle volontà, in vista del
conseguimento di questo fine (bene comune) e generante dei sentimenti ed un comportamento comuni a
tutti, infine e necessariamente, la coordinazione dei mezzi atti a procurare questo fine: ne deriva la
necessità di un'autorità rispettata da tutti. Tale essendo la società, si intende come le relazioni dei membri
tra loro non siano relazioni semplicemente individuali. Queste esistono in ogni società; ma esse sono
extra­sociali e non derivano dalla stessa società (se non accidentalmente). Le relazioni dei membri del
corpo sociale come tale sono relazioni determinate dal fine (o bene comune) della società e da esso
imposte.
224 - b) La causalità della società. Da tutto questo risulta immediatamente che fatto sociale deve
definirsi quello che risponde alla finalità propria della società, o ancora quello che trova nella società
come tale la sua causa formale o finale. È un fatto che tende, in una maniera più o meno immediata, a
conseguire il fine che determina l'esistenza e la coesione della società.
Queste nozioni devono essere rettamente intese. Quando si dice che la causa formale del fatto sociale è
la stessa società, non bisogna intendere che l'individuo debba essere soltanto una specie di strumento
passivo, sprovvisto, nella sua attività sociale, di autentica realtà psicologica. Il fatto sociale è sì, sotto un
certo aspetto, un fatto individuale e personale, ossia posto dall'individuo stesso a titolo di causa
efficiente, posto di conseguenza in una maniera più o meno libera. Tuttavia, ponendo il fatto sociale,
l'individuo obbedisce ad un fine che non gli è strettamente personale, ma che è realmente un fine
esteriore e superiore a lui, cioè il fine comune o il bene comune al gruppo come tale. Egli ha le sue
personali ragioni per obbedire a questo fine, ma questo fine non è un fine particolare a lui; esso lo
comanda ed egli gli obbedisce come ad un ordine extra e super-individuale. Così, l'individuo, in quanto
essere ragionevole e libero, è causa efficiente dell'atto, considerato come atto umano, ma la società (ossia
il bene comune) è invece la causa finale dell' atto, in quanto atto sociale.
225 - 2. SPECIFICITÀ DEL FATTO SOCIALE - Il fatto sociale così definito differisce
evidentemente dal fatto storico, come si è visto più sopra (201), dal fatto psicologico individuale e dal
fatto biologico.
a) Psicologia e sociologia. Il fatto individuale (o psicologico), abbiamo detto, ha un fine puramente
personale e soggettivo. L'individuo che si aggrega ad una società sportiva, lo fa per ragioni che
concernono lui solo (salute, snobismo, desiderio di sfuggire al controllo familiare, ecc.) e di cui la società
sportiva non si cura. Ma una volta divenuto membro della società sportiva, egli adotterà tutta una serie di
comportamenti (uniforme, sentimenti, attività) che sono determinati dalla stessa società e rispondono al
fine perseguito da questa. Questi comportamenti, sebbene posti in atto dall'individuo, sono realmente fatti
sociali, in quanto hanno senso solo in funzione della società e dei suoi fini.
Si dovrà dunque non confondere più la sociologia con la psicologia interindividuale, o psicologia delle
masse, come faceva Gabriel Tarde, per il quale il fatto sociale era unicamente un fatto psichico
individuale che si trasmette secondo le leggi della imitazione181. In questo caso, infatti, non c'è finalità
comune, ma semplicemente una esaltazione dei sentimenti individuali per il solo fatto della
giustapposizione di individui più o meno numerosi, sottoposti accidentalmente alle stesse influenze ed
alle stesse passioni. La psicologia delle masse non è che un caso particolare della psicologia individuale.
b) Biologia e sociologia. Il fatto sociale si distingue pure nettamente dal fatto biologico,
contrariamente a ciò che hanno preteso le teorie organicistiche della società. H. Spencer concepiva la
società come un immenso organismo estremamente complesso. Egli paragonava la circolazione delle
ricchezze alla circolazione del sangue, le linee telegrafiche al sistema nervoso182. Ora vi sono qui
rassomiglianze che non oltrepassano il livello della semplice analogia. D'altronde, l'organismo, che
sopprime la individuazione, è evidentemente incapace di dar ragione dell'associazione degli individui. La
assimilazione dei due ordini è assolutamente impossibile, essendo i fatti sociali essenzialmente fatti
morali, mentre i fatti biologici sono essenzialmente di natura fisica.
226 - 3. GENERALITÀ DEL FATTO SOCIALE - I fatti sociali che la sociologia si sforza di
determinare, sono, come in tutte le scienze, fatti generali e astratti. Ciò sta a dire che il fatto sociale
costituirà innanzitutto un tipo e poi che esso si esprimerà scientificamente in termini di causalità o sotto
forma di leggi. Lo studio del metodo ci condurrà a determinare le condizioni e le regole della tipologia e
la natura del determinismo sociologico. Fin da ora tuttavia l'analisi della nozione di fatto sociale mette in
evidenza questo carattere della sociologia, d'essere orientata, per la sua stessa natura, verso la
determinazione dei tipi sociali (istituzioni morali o giuridiche, forme di società, ecc.), e verso la
formulazione delle leggi che governano l’apparire, la successione e le relazioni di questi differenti tipi
sociali. Ciò vuol dire che la sociologia sarà, per definizione, “lo studio descrittivo, comparativo ed
esplicativo delle società umane”. (R. Maunier, l. c., p. 3).
È ben evidente che non esiste un fatto sociale puro. Un fatto sociale è sempre quel tale fatto sociale
determinato, politico, economico, religioso, giuridico, morale, ecc. A questo titolo, esso appartiene ad
altre discipline prima di appartenere al sociologo. Da ciò deriva che la sociologia può ora apparire come
priva del suo oggetto proprio, ora presentarsi come una scienza universale (o architettonica, nel senso
aristotelico della parola). In realtà, essa rappresenta un punto di vista generale su tutte le altre scienze
dell'uomo, cioè il punto di vista sotto cui gli oggetti particolari di queste scienze appaiono precisamente
come determinati, nella loro esistenza, nella loro forma o nei loro caratteri, dalla realtà sociale. È la loro
socialità che costituisce l'oggetto proprio della sociologia.
D. L'OSSERVAZIONE IN SOCIOLOGIA
227 - Poiché la sociologia è una scienza di fatti, il suo metodo sarà il metodo induttivo, sotto la
particolare forma che l'oggetto della sociologia richiede. Raccogliere i fatti, definire i loro caratteri
comuni o le differenze che li distinguono tra loro, poi ripartirli in un certo numero di classi o di tipi, per
innalzarsi infine fino alle leggi generali che li reggono, tali sono le tappe che deve percorrere il sociologo.
1. OSSERVAZIONE DIRETTA: MONOGRAFIE ED ETNOGRAFIE ­ La descrizione dei fatti
sociali può essere diretta o indiretta. L'osservazione diretta è quella che concerne realtà sociali presenti.
Essa assume l'aspetto della monografia, quando riguarda fatti sociali singolari: ad esempio, lo studio di
una determinata famiglia di operai nel tal paese, o ancora lo studio dell'andamento dei salari in una
determinata industria di una determinata regione, durante un periodo determinato. È il metodo praticato
quasi esclusivamente da Le Play. Esso può fornire utili informazioni, ma di una portata troppo ristretta
perché ci si possa accontentare. L'etnografia è la descrizione delle realtà sociali dei diversi gruppi umani
non inciviliti (i Pigmei dell'Africa equatoriale; i “primitivi” australiani). L'etnografia non solamente ha un
campo infinitamente più ampio di quello della semplice monografia, ma soprattutto essa permette, ciò che
questa non fa, di determinare le reciproche relazioni dei molteplici fatti che costituiscono un insieme
sociale. Questo lavoro di sistematizzazione è l'oggetto dell'etnologia.
Il metodo di osservazione diretta è di ampiezza ristretta, poiché è limitato al presente. Esso dev'essere
completato con lo studio delle società del passato, fino, se è possibile, alle epoche più remote.
228 - 2. OSSERVAZIONE INDIRETTA: LA STORIA - La sociologia deve dunque far ricorso alla
storia. Questa ha il duplice vantaggio di “determinare una istituzione nei suoi elementi costitutivi, poiché
essa ce li mostra sorgere nel tempo gli uni presso gli altri” ed, in più, situando ciascuno, di essi
nell'insieme delle circostanze in cui ha avuto origine, di offrirci “il solo mezzo che noi abbiamo per
determinare le cause che l'hanno suscitato”. (Durkheim, “Rev. de Métàphis.”, 1909, p. 735).
3. L'INTERPRETAZIONE DEI FATTI - Osservare non basta. Bisogna ancora comprendere i fatti, i
riti, gli usi, i costumi riferiti dagli osservatori: essi hanno un senso che bisogna scoprire, ogni volta che
esso non s'impone in una maniera evidente183. Ciò significa che bisogna interpretare i fatti. Le regole che
reggono l'interpretazione (secondo Graebner, Die Methode der Ethnologie, Heidelberg, 1911), sono le
seguenti:
a) Un fatto deve sempre essere ricollocato nell'insieme culturale di cui fa parte. È da questi insieme
infatti che esso. riceve il suo senso autentico. Così avviene che un fatto di proibizione alimentare può
significare, a seconda dell'ambiente culturale cui appartiene, sia un rito penitenziale, sia una pratica
totemica.
b) Un fatto dev'essere interpretato per comparazione con fatti differenti nel tempo e nello spazio. In
realtà, ciò. permette, da un lato, di definire il campo e la durata di una data unità culturale e così di
precisare l'applicazione della regola precedente, dall'altro lato, di interpretare i fenomeni di una
determinata regione per analogia con quelli di un’altra.
229 - 4. IL PROBLEMA DEI PRIMITIVI
a) Natura del problema. Lo sforzo principale della sociologia tende a circoscrivere il fatto sociale in
ciò che esso ha di essenziale e di semplice. È sembrato che, molto più di un'analisi puramente logica, lo
studio delle civiltà primitive possa in qualche modo fornirci allo stato puro i differenti tipi sociali. “In
queste società, scrive Durkheim, l'accessorio, il secondario, gli sviluppi ornamentali non sono ancora
venuti a nascondere la sostanza; tutto è ridotto all'indispensabile, cioè all'essenziale” (“Rev. de Métaph.
1909”, p. 739). Se si potesse conoscere il tipo umano primitivo, si avrebbe la probabilità di risolvere il
problema dell'origine delle grandi funzioni mentali: morale, religione, vita sociale. Il problema che qui si
pone è dunque il seguente: nell'insieme dei gruppi sociali attuali, che differiscono enormemente tra loro,
come discernere anteriorità relative, e con l'aiuto di quale criterio?
b) I criteri a priori. Qui bisogna scartare i criteri a priori, che sono puramente pregiudizi arbitrari. Il
più diffuso ed il meno difendibile di questi criteri si stabilisce sotto la seguente forma: l'umanità evolve, si
perfeziona più o meno velocemente, ma continuamente. Dunque, più un tipo sociale è evoluto, “civile “,
più è recente; inversamente, quanto più esso sembra rozzo, rudimentale, “selvaggio”, tanto più esso è
antico, tanto più si avvicina al tipo primitivo. Questo criterio è antiscientifico, poiché è privo di ogni
obbiettività: esso dipende da una concezione del progresso e delle origini umane che è puramente
arbitraria. Esso implica in realtà due postulati che non si possono ammettere: da un lato, il postulato
dell'equivalenza tra cultura materiale e cultura morale, equivalenza che non è né necessaria di diritto, né
stabilita di fatto (piuttosto risulterebbe il contrario) e che conduce a confondere primitivo con degradato o
rozzo (se ogni evoluzione può compiersi solo nel senso del progresso, non si dà una degenerazione:
postulato gratuito e falso, smentito dai numerosi casi di degenerazione collettiva profonda rivelati dalla
storia); dall'altro lato, implica il postulato che i fatti più semplici sono storicamente i primi, ciò che
dipende da quel “mito dell'elementare”, su cui dovremo ritornare più avanti, e che consiste nel confondere
l'elementare con l'essenziale.
230 - c) Il metodo storico-culturale. Il solo metodo che sembra suscettibile di permettere una
determinazione obiettiva della primitività (relativa) delle differenti società consisterebbe innanzitutto nel
ricostituire in maniera precisa per quanto possibile i complessi culturali, i tipi organici di civiltà,
utilizzando a questo scopo caratteri (materiali o spirituali: forma della società, credenze, culto,
suppellettili, vesti, armi da guerra, attrezzi, lingua 184, ecc.) indipendenti dalle circostanze accidentali
abbastanza da manifestare una vera cultura originale.
È dunque il metodo delle concordanze che qui interviene. Esso comporta l'impiego di due metodi:
Criterio di forma. In certi casi, tra elementi culturali di due gruppi etnici c'è una somiglianza tale che né
la natura, né l'ambiente né la destinazione possono darne ragione. Si conclude che i due gruppi
appartengono allo stesso ciclo culturale. Criterio di quantità. In due gruppi etnici diversi si osserva un
grande numero di elementi culturali identici (armi, abitazioni, costumi, stato sociale, lingua, ecc.): se ne
conclude ad una parentela culturale 185.
231 - d) I criteri di primitività relativa. Una volta stabiliti i differenti tipi o cicli culturali si tratta di
cercare di definire i rapporti di reciproca dipendenza e di anteriorità relativa186. Le caratteristiche
materiali di ogni ciclo culturale permettono infatti di seguire l'espansione geografica e storica,
relativamente agli altri cicli sui quali esso agisce o di cui ha subito l'influenza 187. Così appunto
comparando i diversi cicli si può stabilire la primitività di ciascuno di ess 188.
Qui interviene infine, a titolo ausiliario, il criterio della situazione geografica. Come in geologia,
l'anzianità dei fossili scoperti non è stabilita in rapporto alla natura stessa dei fossili, ma secondo la natura
del terreno in cui sono rinvenuti; così pure in etnologia, una osservazione pressappoco costante, e che
rivela una legge, stabilisce che i popoli si ricacciano gli uni gli altri dai luoghi fertili fino nei meno
produttivi. Da ciò deriva che la popolazione situata nel luogo migliore può essere legittimamente
considerata come posteriore a quella che occupa la posizione meno favorevole. Sarebbe arduo supporre
che gli Esquimesi siano venuti spontaneamente a stabilirsi nelle regioni artiche della baia di Hudson e che
i Pigmei negri si siano stabiliti spontaneamente nel cuore delle foreste impenetrabili dell'Africa
equatoriale.
Quindi, se si constata che un tipo culturale è per lo più installato in regioni sfavorevoli, si può
concludere che esso costituisce un tipo anteriore, e se non si conosce chi possa essergli considerato
anteriore, si potrà ritenerlo “primitivo”.
232 - e) La nozione di “primitivo”. Supposta acquisita la scoperta di un tipo realmente (cioè
storicamente) “primitivo”, sussisterebbero ancora alcune difficoltà se si tenga conto del carattere ambiguo
della nozione di primitivo. Si tratterebbe, infatti di sapere se questo tipo è veramente il tipo primitivo
dell'umanità, cioè il dato primitivo originale. Il più antico tipo conosciuto non è necessariamente il primo.
D'altra parte, quale relazione esiste tra questo “primitivo” ed i tipi di civiltà più complessi, più elaborati,
che gli sono contemporanei? Infine, come spiegare la stasi relativa di questi “primitivi” durante tanto
lunghi secoli? Tutte queste questioni concernono la classificazione: si vedrà più avanti che sono questioni
difficili da risolvere e che lasciano sorgere qualche difficoltà sulle conclusioni dell'etnologia.
233 - La sperimentazione propriamente detta non è affatto praticabile in sociologia. La sola forma che
essa possa rivestire consiste nello studio degli effetti prodotti in una data società dalle innovazioni
politiche o sociali. o da un determinato avvenimento, ad esempio, l'introduzione dell'industria in un paese
agricolo, l'introduzione del divorzio in un paese che non lo ammetteva affatto, i tentativi di
collettivizzazione agraria (Russia), ecc. Inoltre questo genere di studio dipende piuttosto dall'osservazione
che dalla sperimentazione. In compenso, il sociologo troverà nell'impiego del metodo comparativo e
statistico un succedaneo della sperimentazione.
1. LA COMPARAZIONE - La comparazione consiste nel confrontare le usanze od i fatti sociali simili
di differenti luoghi o paesi: si confronterà ad esempio la feudalità francese con gli ordini gerarchici
dell'Oriente, oppure le forme religiose dei Bantù con quelle dei Pigmei, oppure la famiglia patriarcale di
Atene, di Roma e di Sparta, il diritto matrimoniale di culture di tipi differenti, ecc. Lo scopo della
comparazione è di scoprire ciò che vi è di essenziale (e di conseguenza di costante) nel fatto sociale,
distinguendolo dall'accidentale, risultante dalle particolarità di tempo o di ambiente. Questo procedimento
è d'altronde d'impiego molto delicato, a causa della estrema complessità dei fatti sociali. Troppo spesso,
analogie superficiali o rassomiglianze puramente materiali conducono ad identificare fatti sociali
essenzialmente differenti tra loro. (È così che alcuni etnologi hanno parlato della “comunione mitraica”,
insinuando così, che il rito mitraico era identico alla comunione eucaristica cristiana. Ora Franz Cumont
(Les religions orientales dans le paganisme romain) ci avverte che “la cena mitraica e quella dei suoi
compagni” devesi intendere nello stesso senso del “socialismo di Diocleziano”!).
234 - 2. LE STATISTICHE - La comparazione è destinata ad isolare alcuni tipi di fatti sociali. Con la
statistica, si cerca di scoprire le relazioni esistenti tra alcuni tipi di fatti sociali di natura diversa (metodo
delle variazioni concomitanti). Dicesi statistica una nota numerica di fatti singoli di uguale natura che si
sono verificati in un dato tempo ed in un dato luogo: statistica delle nascite o dei suicidi in Francia, nel
1938; livello della produzione delle miniere nel Pas-de­Calais nel 1937, numero dei casi di tubercolosi,
dal 1930 al 1936, tra gli operai di tale industria.
Le statistiche sono di largo uso in sociologia. Così si tratterà di determinare col loro aiuto quale
proporzione esiste tra il numero di ettolitri d'alcool consumato in un dato paese ed il numero di casi di
pazzia in questo paese, o ancora la relazione che sussiste tra la disoccupazione e la criminalità. Quando si
constata una correlazione più o meno stretta tra le variazioni dell'uno e dell'altro fatto, si conclude
all'esistenza, tra questi fenomeni, di un nesso che si può calcolare matematicamente ed esprimere con un
grafico (228)189 che indica se sia o no il caso di stabilire tra i due fenomeni una relazione di causa ed
effetto.
Fig. 13 – Moneta, prezzo e produzione negli Stati Uniti, dal 1930 al 1935. (Estratto da Aperçu de
la situation monetaire, Società de Nations, Ginevra, 1935)
A = Depositi a vista
B = Velocità di circolazione dei depositi a vista
C = Prezzi all’ingrosso
D = Produzione industriale
E = Somme portate al debito dei conti particolari
F = Produzione industriale e prezzi all’ingrosso
La statistica è una scienza difficile, non solamente a causa dell'attenzione e della scrupolosità che
devono intervenire nel calcolo e nella elaborazione degli elementi, ma altresì perché questa scienza, più
delle altre, richiede come essenziale il dubbio critico.
Critica delle fonti, critica dei metodi, dei risultati e delle conclusioni: l'“esprit de finesse”, deve sempre
controllare l'“esprit de géométrie”, il discernimento dominare il puro calcolo ed il senso delle complessità
sociologiche, dominare lo spirito di sistema 190.
La statistica si è ramificata in tecniche numerose e diverse, quali quelle delle inchieste e dei controlli
per sondaggi, e, nelle imprese, gli studi dei mercati, dei campi di espansione commerciale, ecc.
235 - 3. CLASSIFICAZIONE DEI TIPI SOCIALI - Questa classificazione può tendere a stabilire
raggruppamenti naturali o specie di fatti, appoggiandosi sull'importanza dei caratteri, la determinazione
dei complessi culturali, indi dei cicli culturali. Essa può pure cercare di stabilire serie progressive e
genetiche, definienti come i differenti tipi sociali si siano succeduti gli uni agli altri.
a) Le classificazioni genetiche. Numerosissime sono quelle proposte. Spencer, Durkheim, Giddings,
hanno stabilito classificazioni morfologiche, implicanti (secondo la legge di Comte), che la società evolve
per via di differenziazione, dal fatto più semplice al più complesso. Vi sono pure classificazioni
economiche, attuate ora secondo l'organizzazione economica generale (Bucher), ora secondo lo sviluppo
della tecnica (Grosse), ora secondo l'organizzazione familiare (Le Play). Sutherland propone dal suo
canto una classificazione psicologica, in funzione dello sviluppo della vita mentale (Cfr. Steinmetz,
Classification des types sociaux, in “Année sociologique”, 1898-1899).
b) Il mito dell'elementare. Tutte queste classificazioni hanno il difetto di pretendere di scoprire il fatto
elementare od il fatto più semplice come punto di partenza dell'evoluzione, poiché le forme della cultura
si ritiene si generino le une dalle altre per via di complessità crescente. Così Comte suppone la
successione dei tre stadi, e, nell'interno del primo (stadio teologico), la successione di queste tre forme:
feticismo, politeismo, monoteismo, - tra i quali il feticismo è ritenuto la forma più elementare191. - Ora, la
determinazione dell'elementare è quanto vi può essere più incerto e gratuito. Doppio, mana, totem, ecc.:
ogni sociologo ha optato per l'uno o l'altro di questi fatti seguendo le proprie preferenze, ma non per
ragioni veramente obbiettive. I pretesi fatti elementari sono in realtà per lo più di una estrema
complessità192. Oggi, nessuna classificazione genetica è possibile: le concatenazioni culturali che si
propongono difettano di base scientifica. Il compito della sociologia deve dunque consistere prima di tutto
nella fondazione di una classificazione naturale dei differenti tipi di fatti sociali.
236 - 4. LA DEFINIZIONE.
a) Natura della definizione in sociologia. La definizione, in sociologia, scienza di fatti, non può
evidentemente essere che il riepilogo della classificazione naturale. Avendo questa ordinato e subordinato
i fatti in funzione dei loro caratteri distintivi, la definizione esprimerà il tipo generale cui un dato fatto
appartiene.
L'errore capitale di molti sociologi è di partire da una definizione a priori, ciò che è arbitrario e
antiscientifico. Tuttavia ciò appunto fa regolarmente Durkheim: egli tratta le sue definizioni iniziali (che
dovrebbero essere puramente nominali e provvisorie (50) come definitive e pretende di cogliere d'un
tratto il carattere essenziale di una data realtà (religione, suicidio, socialismo, ecc.). Sul fondamento di
queste definizioni gratuite ed arbitrarie, il culto di Dio non è nient'altro che il culto idealizzato della
società193; per altri (Tylor), esso si riconduce ad una forma dell'animismo; la morale cristiana diventa, per
alcuni (S. Reinach), la forma moderna di un vecchio tabù, i sacramenti derivano dalla magia, ecc. Queste
definizioni, lungi dall'essere il risultato di una inchiesta obbiettiva sui fatti, dominano queste inchieste
imponendo loro arbitrariamente i loro risultati. In conclusione, in queste costruzioni pseudo-scientifiche,
si riscontrano solo le opinioni filosofiche dei loro autori194.
b) Condizioni di una buona definizione. Appare chiaro, da tutto ciò che precede, che una buona
definizione sociologica deve essere ottenuta per mezzo dell'insieme organico di cui il fatto considerato fa
parte, come pure del ciclo culturale cui appartiene, cioè del suo contesto etnico, sociale, geografico195.
Ne consegue che la definizione di fatti materialmente simili potrà variare secondo gli organismi o i cicli
in cui questi fatti si riscontrano (così è di una interdizione alimentare in ciclo animista e in ciclo
cristiano), il che sta a dire come la definizione possa essere realmente formulata solo quando sia stata
scientificamente elaborata una classificazione organica.
F. LE LEGGI SOCIOLOGICHE
237 – 1. LE DIFFERENTI SPECIE DI LEGGI - La formulazione di leggi sociologiche è una
spiegazione dei fatti ottenuta partendo dalle loro cause. Essa è dunque una ricerca delle cause, prendendo
questo termine nel suo senso empirico, come antecedente costante. I procedimenti qui in uso, come
abbiamo visto, sono, con le differenze richieste, quelli delle scienze sperimentali: metodo di concordanza,
metodo delle variazioni concomitanti. Comparazioni e statistiche non fanno che porre in atto questi
metodi generali e risultano al servizio dell'induzione quanto dell' osservazione.
Le leggi che la sociologia cerca di stabilire sono: leggi di coesistenza dei gruppi o tipi sociali, leggi di
funzionamento di questi gruppi, infine leggi di evoluzione di questi gruppi.
In realtà, i sociologi contemporanei evitano generalmente di parlare di leggi. Essi si sforzano, infatti,
di determinare tipi piuttosto che di formulare leggi. Le “leggi” di cui parliamo qui devono dunque essere
intese come esprimenti i differenti aspetti, statici o dinamici, dei tipi o patterns, oggetti propri della
sociologia.
2. IL PROBLEMA DEL SOSTRATO - Le leggi ci informano sul “come”: spiegazione empirica del
genere di quella delle scienze della natura e che lascia da scoprire il “perché”. La risposta a questa
questione, quando essa è possibile, darà la spiegazione vera, dando ragione del meccanismo dei fatti
sociali. Si è visto, infatti, che il meccanismo (dominio del “come”) non era mai una spiegazione
sufficiente, ma richiedeva esso stesso d'essere spiegato (122). A nulla servirebbe dunque dire che i fatti
sociali si spiegano gli uni con gli altri: questo sistema di cause e di effetti implica esso stesso
necessariamente un' azione fondamentale o un “sostrato” da cui procede l'insieme dei fatti sociali. Quale
è questo sostrato?
238 - a) L'ipotesi biologica. Una prima ipotesi considera questo sostrato come di natura biologica.
Questa ipotesi si presenta essa stessa sotto due forme differenti:
La razza. Gli uni fanno del complesso biologico definito dalla razza un dato primo, determinante in un
modo fatale tutta la evoluzione umana. La sociologia rientrerebbe così nella biologia (H. de Lapouge,
Gobineau). In realtà, le considerazioni biologiche non spiegano nulla: non si è mai potuto stabilire alcuna
correlazione precisa tra i caratteri antropologici ed i fatti sociali. Ricorrere all'ereditarietà sarebbe qui
perfettamente inutile. Burk fa giustamente osservare che nelle società di uguale razza si riscontrano tipi di
organizzazione estremamente differenti (e inversamente). Del resto, il concetto di razza è tra i più
confusi: l'incrocio che c'è nelle razze primitive impedisce di definirlo con caratteri somatici precisi; non
si possono utilizzare maggiormente gli aspetti psichici, poiché questi si presentano come conseguenza (e
non come causa) dei fatti sociali.
La famiglia, cellula sociale fondamentale. Il vero sostrato risiede nel legame naturale determinato
dalla procreazione e dalla consanguineità (Le Play). La prima vera società è quella dello sposo, della
donna e dei bambini, e non una semplice riunione di individui realizzata dall'effetto di un atto giuridico di
forma simbolica. Queste osservazioni, per quanto esatte siano, non possono essere sufficienti per spiegare
l'insieme della realtà sociale.
239 - b) La spiegazione attraverso l'ambiente fisico - Un secondo gruppo di ipotesi vuole spiegare le
realtà sociali con le condizioni di natura fisica: non sarebbe più la biologia, ma la geografia che
fornirebbe la chiave della spiegazione sociologica. (Scuola della Scienza sociale). È così che la steppa
asiatica, inadatta alla cultura, spiegherebbe la vita pastorale e nomade e con ciò stesso la famiglia
comunitaria. Al contrario, il fiordo norvegese, per l'isolamento che impone; spiegherebbe la famiglia
particolaristica. La scuola tedesca di Katzel accetta a fondo il determinismo del suolo e considera come
dimostrato il fatalismo dell'ambiente fisico.
Questa ipotesi mette in evidenza tutto un gioco di influenza che agisce sullo sviluppo sociale. Lo
psichismo umano, le società umane sono in stretto rapporto col suolo. Bisogna ancora intendere la natura
di questo rapporto: questo rapporto risulta creato dall'attività umana che trasforma, utilizza ed
assoggetta le condizioni geografiche. Ciò che qui interessa molto di più è l'uso che le tecniche umane
fanno del suolo e solo in seconda linea il suolo. (Cfr. J. Brunhes et C. Vallaux, La Géographie de
l'Histoire, Parigi, 1921).
c) La spiegazione con le tecniche umane. Una terza ipotesi vuole spiegare la vita sociale con le
continue trasformazioni che la tecnica imporrebbe alla natura. È l'ipotesi di Karl Marx: l'intera
organizzazione sociale apparirebbe condizionata dai bisogni economici dell'uomo: il mulino a mano vi
darà la società con il signore; il mulino a vapore vi darà la società col capitalismo industriale196.
Durkheim ammette un meccanismo analogo. Ciò che costituisce il sostrato sociale, secondo lui, è “la
massa degli individui componenti l'Essere sociale, il modo secondo cui sono disposti sul suolo, la natura e
la configurazione delle cose d'ogni specie che incidono sulle relazioni collettive”. Questi elementi (luogo
e lavoro) hanno un'azione effettiva sull'organizzazione sociale; ma essi non agiscono da soli: dipendono
dall'attività psichica e di conseguenza da contingenze accidentali. Ad esempio, l'idea di addomesticare il
cavallo è un'idea tarda e accidentale nella storia della civiltà, ed ancor più il modo di attaccare il cavallo al
veicolo (Lefèvre Des Nouets).
d) Il luogo, il lavoro, le dottrine. Per una spiegazione completa della realtà sociale, Paul Bureau
propone con ragione di aggiungere ai fattori di luogo e di lavoro un terzo elemento da lui chiamato la
rappresentazione della vita e che comprende l'“insieme e l'amalgama delle dottrine morali, religiose,
filosofiche più o meno diffuse nel corpo sociale in un dato momento e che ottengono l'adesione delle
diverse famiglie spirituali che le compongono”. Questi tre elementi costituiscono la “trinità
organizzatrice” da cui deriva tutto il resto.
240 - 3. IL DETERMINISMO IN SOCIOLOGIA - Lo studio della nozione di determinismo (183) ci
ha dimostrato che esso implica soltanto la realtà di un ordine, la cui natura può e deve variare secondo i
differenti campi del reale. L'ordine della natura morale non sarà dunque uguale a quello della natura
fisica. Pretendere di ridurre il primo al secondo o - il che è lo stesso - ammettere solo un tipo di
determinismo per tutto il reale, è ricorrere ad un postulato gratuito, d'altronde inintelligibile.
a) Il determinismo sociale. Il determinismo sociale non potrà essere concepito che secondo il tipo
morale e non secondo il tipo fisico, poiché concerne un campo in cui giocano le libertà umane. Esso
definirà l'ordine più frequente secondo cui si esercitano queste libertà. Per il medesimo fatto, le leggi
sociologiche saranno solo leggi statistiche, definienti medie più o meno precise.
b) L'esercizio della libertà. Si può senza dubbio osservare che la libertà umana non si esercita
costantemente e che l'automatismo ha una parte considerevole nella nostra vita. Ciò è vero, ma non
risolve il problema, Qui, la sola considerazione che sta al fondo della questione consiste nel dire che
appunto è l'indeterminismo degli elementi individuali che fonda il valore delle leggi statistiche.
In realtà, quando si considerano grandissime quantità, le differenze individuali, diventando
sensibilmente uguali da una parte e dall'altra, si annullano e lasciano trasparire verità costanti; così pure, i
casi aberranti ed eccezionali scompaiono nella massa dei casi conformi alle leggi della natura morale. È
così che una legge come quella che stabilisce una relazione inversa tra la frequenza dei divorzi ed il tasso
della natalità potrà comportare numerose eccezioni: essa manterrà ogni suo valore statistico non appena si
prenderà in considerazione un tempo ed uno spazio sufficientemente estesi. In un altro senso, se si getta 6
volte il dado, si potranno avere, ad esempio, tre 3 e tre 6, o quattro 2 e due 5. Se lo si getta 6.000 volte, i
numeri usciti si divideranno molto sensibilmente secondo la proporzione di 1/6 o 1.000 ciascuno (se sei
colpi successivi daranno sei volte 5, sei altri colpi successivi daranno, una volta o l'altra, sei volte 3, poi
sei volte 2, ecc.).
Un ordine e delle leggi sono così posti in evidenza, senza che la contingenza dei fatti singolari
(indeterminazione nell'ordine fisico, libertà umana nell'ordine morale) possa esser mai messa in
questione. Al contrario, la costanza delle leggi statistiche e la precisione dei mezzi implicano
l'indeterminazione degli elementi. Pretendere, come fa Durkheim, di fondare il valore delle leggi
sociologiche sulla negazione della libertà umana o di dedurre questa negazione dalla realtà delle leggi
sociologiche, è dunque falsare fino in fondo il senso delle leggi statistiche e misconoscere le condizioni di
una vera scienza sociologica.
G. FUNZIONE DELLA SOCIOLOGIA
241 - 1. LA SOCIOLOGIA NON È UNA MORALE - La sociologia ha avuto, con Durkheim, grandi
ambizioni. Si è preteso, in realtà, di ricavarne un'arte sociologica, che ci assegnerebbe i fini da perseguire,
allo stesso modo che la morale ci stabilisce le regole del vivere. Ora ciò è impossibile, poiché la
sociologia non è che una scienza di fatti, che ci indica il come dei fatti sociali, senza essere capace di
offrirci ordini che ci impongano questa o quella maniera di agire.
Questa impossibilità è particolarmente evidente nel contesto sociologico di Durkheim: se in realtà la
sociologia è una specie di fisica sociale, come potrebbe essa rivestire un carattere normativo? Senza
dubbio, le scienze della natura danno luogo a tecniche: ma le tecniche non fanno che indicare come
bisogna agire se si vuole ottenere un determinato risultato. Esse non impongono che si ricerchi questo
risultato.
Quanto all'osservazione di Durkheim che la sociologia può definire il normale (o stato di salute
sociale), essa non regge di più: il normale ed il sano (che Durkheim ha inoltre il torto di identificare,
poiché può accadere che ciò che è normale di fatto, non sia sano), sono definibili, come stati di diritto,
solo in funzione di una metafisica, determinante la natura ed il destino dell'uomo. A maggior ragione, la
sociologia di Durkheim sarebbe assolutamente incapace di definirli come obbligatori. È dunque
impossibile accettare la concezione di Durkheim circa un'arte sociologica: la sociologia, così intesa non
può dare degli ordini, né stabilire regole di condotta; è essa stessa incapace di dire ciò che è buono o
cattivo.
Ad ogni modo, se si ritiene la sociologia come una Scienza propriamente detta, bisognerà ammettere
che essa rimane, come tale, estranea alla determinazione dei fini (ciò che non vuol dire estranea al regno
dei fini) (222).
242 - 2. LA SOCIOLOGIA È UTILE AL MORALISTA ED AL POLITICO - In compenso sarebbe
errato pensare che non vi sia nulla da attendere dalla sociologia. I fatti sociali che essa mette in luce, le
comparazioni che essa istituisce e le relazioni che stabilisce tra realtà sociali che a prima vista sembrano
estranee, i tipi sociali che essa riesce a determinare, l'influenza che le sue indagini riescono ad attribuire,
nei campi più svariati, alle rappresentazioni sociali, le leggi che riesce a formulare: questi sono elementi
preziosi al fine della morale sociale e politica. La sociologia può così diventare come uno strumento nelle
mani del moralista e del politico, facendo loro conoscere meglio la natura umana e suggerendo loro i
mezzi più adatti per assicurare, per una migliore organizzazione sociale, il bene ed il progresso della
persona umana.
INDICE ANALITICO
Introduzione generale
Art. I – DEFINIZIONE DELLA FILOSOFIA - Oggetto materiale e oggetto formale - La filosofia come
scienza e come sapienza ­ Le diverse concezioni della filosofia
Art. II – LA FILOSOFIA E LE SCIENZE - Concetto di scienza in generale - Scienze e senso comune - Il
problema dei confini ­ La soluzione aristotelica
Art. III - LA FILOSOFIA E LA FEDE - Il problema dei rapporti tra filosofia e fede - Il concetto di
“filosofia cristiana”
Art. IV - DIVISIONE DELLA FILOSOFIA - Il principio della divisione - L'ordine logico del sapere
filosofico - I problemi essenziali delle diverse parti della filosofia
Art. V - CERTEZZA SCIENTIFICA E CERTEZZA FILOSOFICA - Evidenza sensibile ed evidenza
intelligibile - Le condizioni tecniche del sapere filosofico
Logica
Introduzione: CHE COS'È LA LOGICA?
Art. I - DEFINIZIONE DELLA LOGICA - Logica e psicologia – Logica ed esperienza - Il mito del
“prelogismo” - Storia della logica
Art. II - IMPORTANZA DELLA LOGICA - Logica spontanea e logica scientifica - Logica e pratica
scientifica
Art. III - METODO E DIVISIONE DELLA LOGICA - L'esperienza obbiettiva - Logica formale e logica
materiale - La risoluzione logica - Logica, critica e metafisica
Logica minore
CAP. I - L'APPRENSIONE E IL TERMINE
Art. I - DEFINIZIONI. L'idea o concetto - Il termine e il segno - La “suppositio”
Art. II - COMPRENSIONE ED ESTENSIONE. I predicabili - I predicamenti - Gradi metafisici e
distinzioni - I modi di attribuzione per sé o a priori
Art. III - CLASSIFICAZIONE DELLE IDEE E DEI TERMINI. Punto di vista della comprensione e
dell'estensione - Punto di vista dei rapporti reciproci delle idee - Punto di vista della perfezione delle
idee - Punto di vista del significato: termini univoci, equivoci, analoghi
Art. IV - DEFINIZIONE E DIVISIONE DELLE IDEE. Regola formale delle idee e dei termini - La
definizione - La divisione: le diverse totalità
CAP. II - IL GIUDIZIO E LA PROPOSIZIONE
Art. I - DEFINIZIONI. Concetto ed essenza del giudizio - Concetto di proposizione - Il verbo Proposizione attributiva e proposizione esistenziale - Comprensione ed estensione
Art. II - SPECIE DI GIUDIZI E DI PROPOSIZIONI. Giudizi di attribuzione e giudizi di esistenza Divisione della proposizione attributiva - Inerenza e relazione
Art. III - L'OPPOSIZIONE. Specie e leggi - Opposizione delle modali - Conversione delle proposizioni Natura e regola generale della conversione - Conversione delle modali - La quantificazione del
predicato
CAP. III - IL RAGIONAMENTO E L'ARGOMENTO
Art. I - NOZIONI GENERALI - Definizioni: il ragionamento, l'argomento, conseguenza e argomento,
l'inferenza - Ragionamento deduttivo e induttivo - Regole del ragionamento deduttivo - La deduzione
cartesiana
Art. II - IL SILLOGISMO CATEGORICO - Natura del sillogismo ­ Princìpi del sillogi-smo - Estensione
e comprensione - Regole del sillogismo - Figure del sillogismo - Valore delle diverse figure - Modi
del sillogismo - Specie del sillogismo.
Art. III - IL SILLOGISMO IPOTETICO - Forme del sillogismo ipotetico ­ Sillogismo ipotetico e
sillogismo categorico - Sillogismi incompleti e composti: entimema, epiche-rema, polisillogismo,
sorite, dilemma
Art. IV - VALORE DEL SILLOGISMO - Obiezioni - Discussione - La vera natura del sillogismo L'essenza del sillogismo
Art. V - L'INDUZIONE - Nozioni generali - Principio dell'induzione: induzione e sillogi-smo - Insieme
collettivo e natura universale - Regola della enumerazione sufficiente
Art. VI - I SOFISMI - Nozioni generali - Sofismi di parole e sofismi di cose – Confuta-zione dei sofismi
Art. VII - LA LOGISTICA - Concetto - La logica delle proposizioni e delle relazioni - Il simbolismo Valore e portata della logistica
Logica maggiore
CAP. I - LE CONDIZIONI DELLA CERTEZZA
Art. I - LA VERITÀ E L'ERRORE. Verità logica e verità ontologica ­ Le definizioni sog-gettivistiche
della verità - I diversi momenti dello spirito in presenza del vero – Proba-bilità e certezza ­ Certezza
ed evidenza - L'errore
Art. II - IL CRITERIO DELLA CERTEZZA. Natura del criterio ­ L'evidenza come crite-rio supremo Insufficienza degli altri criteri: autorità, istinto, successo
CAP. II - DEL METODO IN GENERALE
Art. I - NOZIONI GENERALI: Natura e importanza - Divisione - Il dubbio metodico
Art. II - PROCEDIMENTI GENERALI DEL METODO. La dimostrazione: specie e princìpi - L'analisi e
la sintesi: natura e specie ­ Regole d'uso – Ruolo - Funzione - Analisi e sintesi; sintesi e deduzione
CAP. III LA SCIENZA E LE SCIENZE
Art. I - CONCETTO DI SCIENZA. Scienze di spiegazione e scienze di constatazione - Non c'è scienza
che del generale e del necessario - Scienze speculative e scienze pratiche
Art. II - ORIGINE E FINE DELLA SCIENZA. La legge dei tre stadi, di Augusto Comte - Teoria
biologica - L'avvento delle scienze positive - Lo spirito scientifico - Lo spirito positivo
Art. III - CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE. Aristotele - Bacone ­ Augusto Comte - Significato e
portata della classificazione ­ La gerarchia e l'unità delle scienze
CAP. IV - I DIFFERENTI METODI
Art. I - METODO DELLE MATEMATICHE
§ 1 – CONCETTO DELLE MATEMATICHE. Definizione - Divisione ­ Le scienze dei numeri:
aritmetica, algebra, analisi - Le scienze delle figure: origine - Matematica ed esperienza
§ 2 - PROCEDIMENTI DELLE MATEMATICHE. Natura della dimostrazione - Analisi e sintesi Princìpi della dimostrazione Definizioni - Assiomi – Postulati
§ 3 - LA DEDUZIONE MATEMATICA. Sillogismo e ragionamento matematico - C'è una induzione
matematica? - La costruzione matematica
§ 4 - FUNZIONE DELLE MATEMATICHE. Le matematiche e le scienze della natura Matematizzazione delle scienze - Fecondità pratica - Il reale non matematizzabile - Le matematiche e
la formazione dello spirito
Art. II - METODO DELLE SCIENZE DELLA NATURA
§ l - NOZIONI GENERALI. Le scienze sperimentali - Divisione ­ Scienze fisico-chimi-che e scienze
biologiche - Della divisione in scienze fisiche e scienze naturali - Le dif-ferenti fasi delle scienze
sperimentali - Descrizione e classificazione - Induzione ­ Deduzione
§ 2 - PROCEDIMENTI. L'osservazione - Concetto - Sensi e strumenti - Osservazione e sperimentazione
- Condizioni: morali, intellettuali, materiali - Il fatto scientifico - L'ipotesi - Concetto - Origini Condizioni di validità - La sperimentazione ­ Concetto - Principio generale della sperimentazione - Le
tavole di Bacone - Il metodo di coinci-denza isolata di Stuart Mill ­ L'induzione - Concetto - Le leggi
scientifiche - Le teorie scientifiche - Il fondamento dell'induzione - Il principio del determinismo L'indeter-minismo nella fisica contemporanea ­ Determinismo e finalità - Valore del principio del
determinismo
§ 3 - PROCEDIMENTI PARTICOLARI DELLA BIOLOGIA. Nozioni generali ­ Specificità delle
scienze biologiche - Il punto di vista finalistico ­ Divisione - La classificazione - Le differenti specie
di classificazione - I metodi di classificazione: comparazione, correlazione e subordinazione delle
forme - Principio della serie naturale ­Valore delle classificazioni - Tipi di organizzazione e tipi
formali.
Art. III - METODO DELLE SCIENZE UMANE
§ I - NOZIONI GENERALI. Concetto delle scienze umane - Scienze umane e psicologia - Scienze
umane e scienze positive ­ Scienze umane e determinismo - Divisione - Distinzione dei metodi
§ 2 - METODO DELLA STORIA. Concetto di storia - Natura dei fatti storici - L'avvento del metodo
storico - Le tappe del metodo ­ L'euristica - Le differenti specie di docu-menti - Il ritrovamento dei
documenti - La critica storica - Critica dei resti – Critica delle testimonianze - La sintesi storica L'imparzialità dello storico - Le qualità lette-rarie dello storico - La storia è una scienza? - Il metodo
scientifico della storia - La filosofia della storia
§ 3 - METODO DELLA SOCIOLOGIA. Concetto di sociologia - La scienza sociologica - Natura della
scienza sociologica - Il fatto sociale oggetto della sociologia - La realtà del comportamento sociale C'è una coscienza collettiva? - La coazione - Il determi-nismo del fine - Natura del fatto sociale - Il
concetto di società - Specificità del fatto sociale - Generalità del fatto sociale - L'osservazione in
sociologia - Osservazione diretta: la monografia ed etnografia - Osservazione indiretta: la storia ­ Le
statistiche - Classificazione dei tipi sociali - La definizione - Le leggi sociologiche - Le differenti
specie di leggi - Il problema del sostrato - Il determinismo in sociologia - Compito della sociologia La sociologia non è una morale ­ La sociologia è utile al moralista ed al politico
1
Cfr. per tutta l'Introduzione: Aristotele, Metaph., I, c. I e II, VI, c. I.; S. Tommaso, In Met., I, lect. I, n. I (Cathala),
lect. 2, n. 36, lect. 3, n. 56; VI, lect. I; J. Maritain, Introduction générale à la Philosophie, Parigi, 1920, tr. it.,
Torino, 1934; E. Baudin, Introduction générale à la Philosophie. I. Qu'est-ce que la philosophie? Parigi, 1932; R.
Le Senne. Introduction à la Philosophie, Parigi, 1947; J. Rimaud, Thomisme et Méthode, Parigi, 1925; Vialatoux,
L'intention philosophique, Parigi, 1952; Heidegger, Was ist das - die Philosophie?, Pfullingen, 1956, tr. fr., Qu'estce que la philosophie?, Parigi, 1957.
2
Méditations § 9: “Bisogna dunque essere d'accordo che io non saprei neppure comprendere con l'immaginazione
ciò che è questo pezzo di cera, e che non c'è che il mio intelletto solo che lo comprenda. Io dico questo pezzo di cera
in particolare; poiché per la cera in generale, è ancora più evidente”.
3
Sulla nozione di sapienza, cfr. Peghaire, «Intellectus» et «Ratio» chez S. Thomas, p. 154 segg., e J. Maritain,
Science et Sagesse, Parigi, 1935, c. I.
4
Sulla storia dell'antica filosofia greca, cfr. J. Burnet, L'aurore de la philosophie grecque (traduzione di Augusto
Reymond), Payot, Parigi, 1952; J. Chevalier, Histoire de la pensée, I, pp. 15-141, Parigi, 1955.
5
Cfr. P. Masson-Oursel, La Philosophie en Orient (nell'Histoire de la Philosophie, di É. Bréhier.
6
Merleau-Ponty, Phénoménologie de la Perception, Parigi, 1945, p. 1.
7
Cfr. J. Wahl, Études Kierkegaardiennes, Parigi, 1948. - R. Jolivet, Introduction à Kierkegaard, Parigi 1946. - C.
Fabro, Introduzione al “Diario” di S. Kierkegaard, Brescia, Morcelliana, 1948, pp. I - CXL. - Studi
Kierkegaardiani, a cura di C. Fabro e altri, Brescia, Morcelliana, 1957. - W. Baranger, Nietzsche, Parigi, 1946.
8
Cfr. A. De Waelhens, La Philosophie de M. Heidegger, Lovanio, 1946. - M. Duprenne e P. Ricoeur, Karl Jaspers
et la Philosophie de l'existence, Parigi, 1947.
9
) Cfr. J. Delhomme, ecc., Existentialisme chrétien: Gabriel Marcel, Parigi, 1947. - Fr. Jeanson, Le problème moral
et la pensée de Sartre, Parigi, 1947. ­ R. Jolivet, Les doctrines existentialistes, de Kierkegaard à J.-P. Sartre, Parigi,
1948. - D. Morando, Saggi sull' esistenzialismo teologico, Brescia, Morcelliana, 1949. - P. Prini, L'esistenzialismo,
Roma, Studium, 1952.
10
I testi essenziali sono: Heidegger, Sein und Zeit, Halle, 1927, tr. it., L'essere e il tempo, Milano-Roma, 1953.
Qu'est-ce-que la Métaphysique, trad. H. Corbin, Parigi, 1938. - Jaspers, Philosophie, 3 voll., Berlino, 1932. - J. P.
Sartre, L' Etre et le Néant, Parigi, 1943. - G. Marcel, Journal Métaphysique, Parigi, ERTS. - Etre et Avoir, Parigi,
1935.
11
Cfr. R. Jolivet, L'Uomo metafisico, Ed. Paoline, Catania, 1958, p. 8 e segg.
12
Cfr. P. Duhem, La théorie physique, 2a ed., Parigi, 1914, p. 265: “Il profano crede che il risultato di una
esperienza scientifica si distingua dall'osservazione volgare per un più alto grado di certezza; egli si sbaglia, perché
la relazione di una esperienza di fisica non ha la certezza immediata e relativamente facile a controllarsi della prova
volgare e non scientifica. Meno certa di quest'ultima, essa ha su di lei la precedenza per numero e per precisione di
particolari che essa ci fa conoscere; in ciò consiste la sua verità ed essenziale superiorità”.
13
Cfr. H. Bergson, La Pensée et le Mouvant, Parigi, 1934, p. 156: “La verità è che la filosofia (...) se si pone spesso
sul terreno della scienza, e se abbraccia talvolta in una visione più semplice gli oggetti di cui la scienza si occupa,
ciò non compie intensificando la scienza, né portandone i risultati ad un più alto grado di generalità. Non ci sarebbe
posto per due modi di conoscere, filosofia e scienza, se l'esperienza non si presentasse a noi sotto due aspetti
differenti”.
14
Cfr. Et. Gilson, L'esprit de la philosophie médiévale (trad. ital., Brescia, Morcelliana, 1947). - Bl. Romeyer,
Histoire de la philosophie chrétienne. - R. Jolivet, Essai sur les rapports entre pensée grecque et pensée chrétienne,
nuova ed., Parigi, 1955.
15
Cfr. S. Tommaso, S. c. G. II, c. II-IV.
16
) Cfr. Et. Gilson, L'esprit de la philosophie médiévale, t. II, p. 204: “La conclusione che sgorga da questo studio, o
piuttosto l'asse che lo attraversa da un capo all'altro, è che tutto avviene come se la rivelazione ebreo-cristiana fosse
stata una sorgente religiosa di sviluppo filosofico, essendo il medioevo latino, nel passato, il testimonio per
eccellenza di questo sviluppo”.
17
) È ciò che Kant stesso riconosce, scrivendo a proposito della nozione di fede (Metodologia del giudizio teologico,
cfr. tr. it. in Critica del giudizio, Bari, 1937). “Questo non è il solo caso in cui questa religione (il cristianesimo),
così ammirabile e semplice, ha arricchito la filosofia di concetti più determinati e più puri di quelli che quest'ultima
aveva potuto fornire fin là, ma che, una volta introdotti nel mondo, sono liberamente approvati dalla ragione, e
accettati come dei concetti che essa stessa avrebbe potuto e dovuto trovare e altresì introdurre”.
18
Cfr. J. Maritain, De la philosophie chrétienne, p. 27 e segg.
19
Per l'insieme delle discussioni su questo soggetto, cfr. Bl. Romeyer, Autour du problème de la philosophie
chrétienne, in «Archives de Philosophie H, t. X, fasc. 4.
20
Bisognerebbe aggiungere ancora, conformemente all'insegnamento dei teologi, che, nello stato reale e concreto in
cui l'uomo si trova, e che è lo stato di caduta, la Rivelazione gli è necessaria per conoscere l'integralità delle verità
filosofiche necessarie alla retta direzione della propria vita.
21
Cfr. Aristotele, Phys., I c. I; Metaph., I, c. II; IX, c. I - S. Tommaso, In Boethium de Trinitate, p. V, I; S. c. G., I, c.
3.
22
Cfr. San Tommaso, In Boeth. de Trinit., V, a. 2, ad 2: “Res de quibus est Logica, non quaeruntur propter seipsas,
sed ut adminiculum quoddam ad alias scientias. Et ideo Logica non continetur sub philosophia speculativa quasi
principalis pars, sed quasi quoddam reductum ad eam, prout ministrat speculationi sua instrumenta, scilicet
syllogismos et definitiones et alia hujusmodi, quibus in speculativis scientiis indigemus. Unde (…) non tam est
scientia quam scientiae instrumentum”.
23
Cfr. San Tommaso, In Boeth. de Trinitate, p. V, a. I.
24
La parte della psicologia che concerne la vita razionale, cioè lo spirito, è come un passaggio alla metafisica.
25
Ci si serve pure del termine teodicea, che proviene da Leibniz, ma che ha, etimologicamente (difesa di Dio), un
senso più ristretto dell'espressione di teologia naturale.
26
La filosofia dell'arte, se ci si ponesse solo dal punto di vista della specificazione delle scienze per il loro oggetto
formale, rientrerebbe evidentemente nella filosofia naturale. Ma sembra che si abbia un vantaggio qui a dare la
precedenza al punto di vista del fine, che conduce ad unificare (distinguendole), la filosofia del fare e quella
dell'agire (Cfr. su questo punto J. Maritain, Introduction général à la Philosophie, p. 198, n. 1; cfr. tr. it., 2a ed.,
Torino, 1934).
27
) Cfr. M. Blondel L'Action (Parigi, 1937), t. I, p. 74; cfr. tr. it., Torino, 1950: “I fatti (scientifici) sono ricostruzioni
arbitrarie di dati la cui sintesi è di solito un miscuglio di suddivisioni e di saldature, che serve a raggruppare
tendenziosamente degli insiemi parziali in un mezzo costituito di interdipendenze e di interferenze innumerabili”.
Vedere anche su questo punto Ed. Le Roy, Continu et discontinu dans la matière, Le problème du morcelage.
(“Cahiers de la Nouvelle Journée” n. 15, pp. 135 segg.).
28
È ciò che Maine De Biran aveva ben osservato, nel momento in cui si staccava dai metodi mutuati dell'empirismo
di Locke e di Condillac, “In realtà, egli osserva, non si può mai avere una spiegazione completa, finché è adottato
l'atteggiamento raccomandato da Newton (hypoteses non fingo, cioè io mi attengo alle leggi sperimentali di
successione dei fenomeni, senza preoccuparmi delle loro cause). Per timore di richiamare qualche principio oscuro,
ci si accontenta di stabilire una legge generale esprimente l'ordine di successione dei fenomeni. Ma chi non si
accorge che, nelle formule delle leggi così ottenute, si riscontrano, in definitiva, solo dei termini astratti, indicando
in un modo più breve i fatti stessi che si vogliono spiegare? E non è imponendo a questi fatti un nome comune,
quello della gravitazione per esempio, che si può avere la speranza di renderne conto. Strettamente parlando ci si
limita ad annotare delle somiglianze, a descrivere dei fenomeni e ad avvicinarli sotto il medesimo titolo: si crede di
conoscere i fatti, ma si dà loro solamente un nome”. (G. Le Roy, L'expérience de l’effort e de la grace chez Maine
de Biran, p. 128, commentando la Mémoire sur la décomposition de la pensée, 1.a parte, Introd. § 2, ed., Tisserand,
t. III, pp. 47-48). Bisogna osservare tuttavia che le scienze induttive si orientano naturalmente verso un tipo di
conoscenza più perfetta (tipo esplicito e razionale); esse hanno tendenza a razionalizzarsi, a prendere la forma
deduttiva. Ciò è dimostrato bene dalla concezione cartesiana della scienza. Ma il loro valore esplicativo consiste
unicamente nell'indicare, per la via dell’esperienza sensibile, delle necessità, o più esattamente delle costanze, nelle
cose, e per nulla invece ad assegnarne le ragioni per via intelligibile. Cfr. J. Maritain, Les degrés du savoir, Parigi,
1932, pp. 69 segg.
29
Si riscontra, nella storia della filosofia, un buon numero di dottrine che denotano una specie di impotenza a
sorpassare il livello dell’immaginazione. Fra queste rientrano tutte le dottrine che dipendono dall'empirismo e dal
nominalismo.
30
Cfr. S. Tommaso, In Boeth. de Trinitate, VI, a. I: “Animae secundum quod habent rationabilitatem diffusive
circumeunt veritatem, et in hoc defìciunt ab angeIis, sed in quantum convolvunt multa ad unum, quodam modo
angelis aequantur. Intellectus per prius unam et simplicem veritatem considerat, et in illa totius multitudinis
cognitionem capit, sicut Deus intelligendo essentiam suam, omnia cognoscit”. De Causis: “Sunt diversi gradus
quibus anima in cognoscendo proficit: prius occurrit nobis sensus, dein imaginatio, postea ratio, postea intellectus,
postea intelligentia, et in summo est sapientia, quae est ipse Deus”.
Per le opere di Aristotele in genere, si rimanda all’ed.cr. Didot, 5 voll., Parigi, 1848-74; per la Metaphysica in
particolare all’ed. Ross, Londra, 1936; per le versioni italiane: Organon, a cura di G. Colli, Torino, 1955;
Perihermenéias, tr. parz., a cura di G. Scarpat, Arona, 1951 (sotto il tit. Il discorso e le sue parti in Aristotele):
Metafisica, tr. di A. Carlini 2a ed., Bari, 1950, ovvero Oggioni-Eusebietti, Pa<dova, 1950; Etica Nicomachea, trad.
it. Di A. Carlini, Bari 1913, ovvero Dal Sasso, Padova, 1949; Poetica, tr. di M. Valgimigli, Bari, 1934.
Per le opere di San Tommaso in genere, si rimanda all’Edizione Leonina, finora 16 voll., Roma, 1882 sgg.,
ovvero alla Taurinensis, finora 37 voll., Torino, 1895, sgg.; per il Commentum in Sententiarum lib., ed. P.
Mandonnet e F. Moos, ed. 4, 1956, De ente et essentia, ed. M. D. Roland Gosselin, Parigi, 1926; Ch. Boyer, 3a ed.,
Roma, 1950; De spiritualibus creaturis, ed. L. W. Keeler, Roma, 1938, rist. 1946; De unitate intellectus contra
Averroistas, ed. L. W. Keeler, 2a ed. Roma, 1957; De principio naturae, ed. L. Pauson, Friburgo-Lovanio, 1950; De
natura materiae, ed. J. M. Wiss, Friburgo-Lovanio, 1953; per le versioni italiane, della Summa Theologiae con testo
della Leonina, a cura dei Domenicani, Firenze, 1949, sgg. (con introd. e note) della Summa contra Gentiles, a cura
di A. Puccetti, 2 voll., Torino, 1930; del De ente et essentia, a cura di V. Miano, Torino, 1952; del De unitate
intellectus contra Averroistas, a cura di B. nardi, Firenze, 1938; del De magistro, a cura di M. Casotti, Brescia, 1948
(N. di T.).
31
Cfr. per l'introduzione: San Tommaso, In Anal. post., I, l. Bacone, Novum Organum in The Works of F. B. a cura
di J. Spedding, R. L. Ellis e D. D. Heath, 7 voll. n. ed., Londra, 1887-1892. Cartesio. Discorso del Metodo, I; Règles
pour la direction de l'esprit, I-V. Logique de Port-Royal, discorsi l° e 2°, in Oeuvres complètes de Arnauld, 43 voll.,
Parigi-Losanna, 1775-83. Bossuet, De la connaissance de Dieu et de soi-mème; c. I. Goblot, Logique, Parigi, 1918,
Introduzione. L. Roure, Logique et Métalogique, Lione-Parigi, 1957.
32
I numeri stampati in neretto nel testo rinviano ai numeri marginali.
33
Cfr. Lukasiewicz, Aristotle's syllogystic from the standpoint of modern formal logic, Oxford, 1951, il quale insiste
sul fatto che per Aristotele la logica è essenzialmente una scienza.
34
Si parla spesso in questo caso di scienza normativa. In realtà, la nozione di “scienza normativa” non ha senso,
poiché una scienza, per definizione, è puramente positiva. Per esprimersi correttamente, bisognerebbe dire che la
logica (come la morale) è una scienza pratica, cioè un sapere speculativo in rapporto con la pratica. Noi non
usiamo in un altro senso l'espressione, molto corrente al giorno d'oggi, di “scienza normativa”.
35
Cfr. J. Piaget, Traité de logique, Parigi, 1949, p. 8.
36
La mentalità delle società inferiori, scrive Lévy-Brühl, “è di carattere essenzialmente prelogico e mistico; essa è
orientata diversamente dalla nostra, le rappresentazioni collettive vi sono governate dalla legge della partecipazione,
indifferenti di conseguenza alla contraddizione e unite tra loro da legami e da pre-legami sconcertanti per la nostra
logica”. (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, Parigi, 1910, p. 454).
37
) J. Maritain ha mostrato (Quatre essais sur l'esprit dans sa condition charnelle, pp. 63-130, Parigi, 1939) come la
partecipazione, presso i primitivi, si trovi legata al gioco dei segni o simboli in un “regime notturno della
immaginazione, che è il regime dell'infanzia (condizione in cui l'intelligenza è tutta legata e subordinata
all'immaginazione): poiché ci siamo posti per ipotesi nella condizione notturna dell'immaginazione..., poiché, d'altra
parte, tuttavia l'intelligenza è là, legata e investita nella immaginazione, si comprende che per il primitivo l'identità
delle cose deve farsi e disfarsi costantemente. È troppo sommario il dire che presso di lui c'è semplicemente identità
tra il segno ed il significato. No, c'è oscillazione continua dalla distinzione alla identificazione. Quando i fanciulli
giocano costruendo dei castelli nella sabbia, per loro questi sono veramente dei castelli; se voi ci mettete il piede,
essi piangeranno di rabbia e di sdegno. Finito il gioco, non rimane che sabbia. Il primitivo crede identico (per la
forza vitale dell’immaginazione) ciò che oscuramente conosce come diverso (per la sua intelligenza ancora legata).
Non si può comprendere nulla del suo pensiero se lo si concepisce in rapporto allo stato luminoso e logico
dell'intelligenza, preso come regola e misura di ogni pensiero; è un pensiero da sognatore desto, in cui la parte del
gioco ed il margine del gioco sono immensi”. (p. 315).
38
Cfr. Lukasiewicz, Aristotle's syllogistic, p. 131.
39
Cfr. J. Chevalier, La notion du Nécessaire chez Aristote et ses prédécesseurs, Parigi, 1915, p. 105 segg.
40
Cfr. K. Prantl, Geschichte der Logik, im Abendlande, ed. an., Graz, 1955.
41
Cfr. Bochenski, Formale Logik, Friburgo in Br., 1956, p. 169 segg.
42
Cfr. Couturat. La Logique de Leibniz, Parigi, 1901.
43
Cfr. L. Roure, Logique et Métalogique, Lione-Parigi, 1956, p. 217 segg.
44
Noi adottiamo come più pratica, in ragione dell'importanza presa dalla metodologia delle scienze, la divisione in
logica minore e logica maggiore. Ma questa divisione non è essenziale; essa è accidentale, essendo la materia del
pensiero, dal punto di vista logico, un puro accidente, ossia un elemento che non modifica minimamente le
operazioni logiche in ciò che esse hanno di essenziale. È ciò che noi vogliamo sostenere osservando che tutta la
logica è formale. In realtà, essendo la logica essenzialmente la scienza delle leggi del pensiero corretto, la divisione
richiesta da questo oggetto formale dovrebbe derivare dalle tre operazioni mentali, cioè apprensione, giudizio,
ragionamento.
45
) Cfr. L. Roure, Logique et Métalogique, pp. 11-23.
46
Cfr. I. M. Bochenski, Nove lezioni di logica simbolica, Roma, 1938, p. 40.
47
Cfr. per tutto il capitolo: I. M. Bochenski, Elementa logicae graecae (Roma, 1927), N.i 1-35. Giovanni di San
Tommaso, Logica in Cursus philosophicus, 3 vol., Torino, 2a ed., 1948, I, p. I, 1. I e II (c. I e IV). J. Maritain, Petite
Logique, Parigi, 1923, pp. 19-102. E. Goblot, Traité de Logique (I ed.), pp. 90-152. J. De Tonquédec, La critique de
la connaissance, Parigi, 1929, pp. 133-178, 323-343. Dopp, Leçons de logique formelle, Lovanio, 1949. Hoenen,
Recherches des Logique formelle, Roma, 1947. A. Sesmat, Logique. I. Les définitions et les jugements, Parigi, 1950.
J. Piaget, Traité de Logique. Essai de Logistique opératoire, Parigi, 1949.
48
) Cfr. Ockam, Summa Logicae, I, capp. 67-77, Lovanio, 1951.
L'albero di Porfirio la designa come “petreità” (o differenza numerica per la quale Pietro è questo individuo) o
“paolinità”. Ma non sono evidentemente che dei termini designati, ciò che noi ignoriamo e che non hanno altra
pretesa.
50
Un'altra forma di realismo, chiamato Realismo esagerato e sostenuto da Platone, consiste nel considerare gli
universali come esistenti e sussistenti indipendentemente dagli individui.
51
Duns Scoto ammette tuttavia tra i gradi metafisici, considerati in uno stesso soggetto, una distinzione che egli
chiama attuale formale, caratterizzata dall'inseparabilità di gradi realmente distinti, e riserva il nome di distinzione
reale a quella che esiste tra elementi separabili. Questa dottrina dipende da un realismo esagerato, in virtù del quale
ad ogni distinzione concettuale deve corrispondere una distinzione reale nella cosa. Per San Tommaso, la distinzione
reale è quella che ha un fondamento attuale nella cosa, sia che gli elementi distinti siano separabili (Pietro e Paolo,
l'anima e il corpo) o non separabili (la linea e la sua curvatura).
52
) È evidente che la tavola delle categorie è suscettibile di perfezionamento. Aristotele stesso non sempre le
enumera allo stesso modo: nel V libro della Metaphysica, non ne conta che otto e sembra esitare sulla
determinazione delle ultime categorie. Il movimento, in particolare, potrebbe essere menzionato, almeno come
legato allo spazio e al tempo. Si è pure pensato che converrebbe farne una categoria distinta. Ma questi problemi
spettano all'ontologia, in cui li ritroveremo.
53
Aristotele, I An. Post., c. IV. Cfr. San Tommaso, In I Post., lect. 10.
54
Aristotele distingue un quarto modo di perseità, cioè il caso in cui si enuncino delle nozioni che possono
convenire soltanto al soggetto singolo al quale si attribuiscono, Pietro, Giacomo, ecc. Ma questo è piuttosto un modo
di esistenza che di attribuzione.
55
L'idea concreta può essere individuale o universale, secondo che essa rappresenti un soggetto individuale, o un
soggetto universale. Negli esempi citati (l'uomo, il saggio), si tratta evidentemente di soggetti universali. Il problema
se noi possiamo avere delle idee concrete individuali, appartiene alla psicologia.
56
Si distingue: la relazione predicamentale o accidentale: che non è nulla fuori del rapporto accidentale esistente
tra i due termini relativi (padre e figlio, padrone e servitore), e la relazione trascendentale, che afferma un rapporto
essenziale tra due termini, tale di conseguenza che è impossibile definire un termine senza ricorrere all'altro (la parte
e il tutto - la volontà e il bene - la verità e l'intelligenza).
57
Cfr. San Tommaso, I.a q. XIII, a. 5.
58
Cfr. San Tommaso, De Malo, q. VII, a. l: De Veritate, a. 11.
59
Cfr. per tutto il capitolo: Aristotele. Periherm., Anal. post., I, c. XVIII. San Tommaso, De Veritate, q. X, a. 12;
Summa theologica, I.a, q. II, a. 1. Giovanni di san Tommaso, Logica, II, q. XXIV, a. 2. Kant, Prolegomeni.
Garrigou-Lagrange, Le sens commun. 4a ed., Parigi, 1936, p. 179 sg.; tr. it., Brescia, 1952. J. Maritain, Petite
Logique, pp. 105-177; Réflexions sur l'intelligence, pp. 68-77. Couturat, La logique de Leibniz, Parigi, 1901.
60
Cfr. A. Sesmat, Logique, I, p. 298.
61
La logica classica chiamava queste proposizioni: de secundo adiacente, perché esse ammettono soltanto l'aggiunta
del verbo al soggetto. Le proposizioni predicative erano chiamate de tertio adiacente, perché il predicato in esse
occupa il terzo posto, dopo il soggetto e la copula (Aristotele, Periherm., X, 4).
62
Si presentano spesso come esempi di giudizi di esistenza, giudizi che sono invece formalmente predicativi. Così
“Non esiste montagna d'oro” equivale a “Nessuna montagna è d'oro” (inteso come giudizio di fatto), “V'è dell'oro in
questa montagna” equivale a “Questa montagna è aurifera” (giudizio di fatto), e “Non vi è circolo quadrato”
significa “Nessun circolo è quadrato”.
63
Categorematico si dice dei termini che hanno una significazione di per sé, come sostantivi e aggettivi. Si
chiamano sincategorematici i termini che, presi isolatamente, non hanno significato, ma che sono necessari ad ogni
discorso (“non”, “se”, “allora”, “e”, “o”, “tutti”, “qualche”).
64
Cfr. Dopp, Leçons de logique formelle, I, p. 18.
65
L'indeterminazione si esprime con una particella negativa posta davanti ad un nome: non-uomo, inintelligente,
irrazionale, anormale, ecc.
49
66
Prisciano, Institutiones grammaticae, I. VIII, I, I (ed. Herz, Lipsia, 1865, t. I, p. 369): “Verbum est pars orationis
cum temporibus et modis, sine casu, agendi et patiendi”.
67
Brentano, Psychologie vom Empirischen Standpunkie, Vienna, 1874; tr. it., Lanciano, 1913; tr. fr., Parigi, 1944, p.
213.
68
Cfr. San Tommaso, In Periherm., lect. 5.
69
Cfr. San Tommaso, In Metaph., VIII, lect. 17 (Cathala, n. 1568): “Logicus considerat modum praedicandi. et non
existentiam rei”.
70
I giudizi di valore, enuncianti il valore d'un soggetto (“La virtù è il maggior bene dell'uomo”), costituiscono una
classe psicologica (o metafisica) distinta; ma, dal punto di vista logico, entrano nella categoria dei giudizi di
predicazione.
71
La logica medievale non si serve dei termini “analitico” o “sintetico”: essa parla di proposizioni in materia
necessaria, contingente e impossibile, a seconda che esse enuncino una cosa che non può essere diversamente - o
che può essere diversamente - o che non può essere. (Necessario e impossibile corrispondono a analitico;
contingente e possibile corrispondono a sintetico).
72
Cfr. Critica della ragion pura, tr. it., 2 voll., Bari, 4a ed., 1949. Introduzione, § 4-6.
73
Cfr. Goblot, Traité de Logique, n. 116-117.
74
Le proposizioni che enunciano semplicemente che un predicato conviene ad un soggetto sono chiamate assolute
(de inesse).
75
Cfr. L. Rougier, La structure des thèories deductives, Parigi, 1921, p. 8.
76
Cfr. L. Roure, Logique et Métologique, pp. 36-49
77
Sulla questione della quantificazione del predicato, cfr. Aristotele, Perihermeneias, I, c. VII, e soprattutto S.
Tommaso, In Perihermeneias, I, lect. 10.
78
Cfr. per tutto l'articolo: Aristotele, Anal. pr., I, c. IV-XXXIX (Bochenski, Elementa logique graecae, n. 48-149).
Giovanni di San Tommaso, Logica, p. I.a, Summulae, lib. 3. Maritain, Petite Logique, 181-343. Stuart Mill, System
of Logic, Ratiocinative and Inductive (The Syllogism) 2 voll., Londra. 2a ed., 1875. L. Cou-Turat, La Logique de
Leibniz, Parigi, 1901, pp. 81-118, 323-387. Ch. Serrus, Traité de Logique, Parigi, 1945. R. Blanché, Introduction à
la logique contemporaine, Parigi, 1957. J. Chavineau, La logique moderne, Parigi, 1957. A. Sesmat, Logique, II,
Parigi, 1951.
79
Introduction à la méthode expérimentale, Parigi, 1878, cap. II, § 5.
80
In realtà, sebbene Aristotele tratti solo del sillogismo categorico, la definizione che ne fornisce è così vasta da
conglobare ogni specie di deduzione. “Il sillogismo è un discorso nel quale, poste alcune cose, un'altra cosa
differente consegue necessariamente da quelle che sono state poste, per la sola ragione ch'esse sono state poste”.
(Anal. Prior., I, 124 b 18).
81
Cfr. Regulae ad directionem ingenii, III; in Oeuvres de D. II voll., a cura di Adam e Tannery, Parigi, 1897-1909
(cfr. tr. it., Bari, 1954): “...Vi sono molte cose che si possono conoscere sicuramente, sebbene non siano di per sé
evidenti, a condizione tuttavia che si deducano da princìpi dimostrati o conosciuti, per mezzo di un processo
continuo e ininterrotto del pensiero, con una intuizione chiara di ciascuna cosa. E’ così che noi sappiamo che
l'ultimo anello di una lunga catena è unito al primo, quantunque noi non possiamo abbracciare d'un solo sguardo
tutti gli anelli intermedi che li uniscono, se non per averli percorsi successivamente e per avere il ricordo che, dal
primo fino all'ultimo, ogni anello è legato a quello che lo precede e a quello che lo segue...”.
82
Cfr. Traité de Logique, p. 264: “Un pensiero puramente contemplativo non saprebbe scoprire nel suo oggetto
nient'altro che questo stesso oggetto, senza passare da una proprietà ad un'altra proprietà: esso potrebbe scoprire in
un principio generale le proposizioni più particolari, più ristrette, implicitamente affermate in esso: esso non
saprebbe però scoprirvi le conseguenze che non vi si trovano attualmente ma che ne derivano... scorgere una
relazione necessaria tra proprietà eterogenee; esso sarebbe dunque incapace di compiere alcuna dimostrazione”.
83
Si dovrebbe dire, dal punto di vista di Goblot, che le operazioni della macchina calcolatrice sono giuste, poiché la
macchina funziona bene. Ora, al contrario, è chiaro che il meccanismo della macchina calcolatrice è stato costruito
per eseguire operazioni giuste e che essa stessa è un prodotto delle regole delle operazioni giuste.
84
Dal contingente si può dedurre l'impossibilità della contraddittoria (es.: Pietro legge. Dunque è impossibile che
non legga). Ma questa non è altro che una deduzione apparente: qui il conseguente non è che la ripetizione
dell'antecedente, ossia la semplice affermazione del fatto contingente. All'opposto, la deduzione sarebbe viziosa se si
volesse ricavare dal fatto contingente che Pietro legge, l'impossibilità che Pietro non legga mai: dal contingente non
si può dedurre l'impossibile.
85
Cfr. J. MARITAIN, Petite logique, pp. 249-252.
86
M. Dorolle, Les problèmes de l'induction, Parigi, 1926, p. 71.
87
Cfr. O. Hamelin, Le système d'Aristote, Parigi, 1920, pp. 253-259.
88
M. Dorolle, Les problèmes de l'induction, p. 30 sg.
89
Cfr. ARISTOTELE, De sophismaticis elenchis.
90
M.lle Marie-Louise Roure, professore di logica formale alla Facoltà Cattolica di Lione, ha acconsentito a rivedere
e a completare questo articolo.
91
Da quarant'anni i lavori di logica si sono moltiplicati considerevolmente. Tra i nomi più ragguardevoli, si possono
citare: Carnap, Church, Hilibert, Ackermann, Lukasiewicz, Tarski.
92
La nozione di classe e le relazioni tra le classi possono essere espresse per mezzo del calcolo dei predicati
monadici, mediante l'uso dei quantificatori che permettono di introdurre le nozioni di “tutti”, “alcuni”, “qualche”.
93
In realtà, Aristotele utilizza a più riprese tesi della logica proposizionale, in particolare nella riduzione dei
sillogismi. Si riscontra ad esempio nei suoi Analitici (An. Pr.. II, 4-6) l'equivalente delle due tesi seguenti:
(p  q)  (~ q  ~ p)
(p & q  r)  [p & ~ r  q]
94
Non interamente tuttavia, poiché nei suoi Topici, Aristotele sviluppa un certo numero di tesi concernenti le
relazioni.
95
Cfr. Bochenski, Précis de Logique mathématique, Bussum, (Olanda), 1948; J. Dopp, Leçons de logique formelle,
Lovanio, 1950.
96
Blanché, L'axiomatique, Parigi, 1955
97
Hildert-Ackermann, Grundzuge der theoretischen Logik, Berlino-Gottinga, 19l8; ried. 1938, 1949; tr. ingl.,
Nuova York, 1950, p. 27, utilizza i quattro assiomi seguenti (in linguaggio di implicazione e di disgiunzione):
Ass. I - (p v p)  p
Ass. II - p  (p v q)
Ass. III - (p v q)  (q v p)
Ass. IV - (p  q)  (r v p)  (r v q)
Traduzione in linguaggio comune:
I. La disgiunzione di p e di p implica p.
II. Una proposizione implica la disgiunzione tra questa stessa proposizione e qualsiasi altra.
III. La disgiunzione di due proposizioni comporta la loro disgiunzione in senso inverso.
IV. Il risultato della implicazione di due disgiunzioni aventi antecedente uguale è la conseguenza dell'implicazione
dei loro conseguenti.
Quanto alle regole, Hilbert ne utilizza due: le regole di sostituzione e di separazione (o di conseguenza): la prima
precisa che si può sostituire ad una variabile, dovunque compaia, un'altra variabile, o una espressione del calcolo,
che si può sostituire una espressione con un'altra espressione equivalente; la seconda al modus ponens del sillogismo
ipotetico: se si ha p e nello stesso tempo p q, si ha ugualmente q.
98
Bisogna rilevare che la logica di Aristotele non è del tutto una logica a due valori (vero e falso), poiché essa
considera i giudizi “modali”, nei quali sono prese in considerazione la possibilità, l'impossibilità, la necessità e la
contingenza (An. Pr., I).
99
Gli antichi non hanno completamente ignorato la scienza che i moderni chiamano col nome di semantica. Come
alcuni logici moderni hanno rilevato (cfr. J. Dopp. Leçons de logique formelle, t. I, pp. 96-97), la teoria scolastica
della suppositio, sviluppata specialmente con G. d'Ockam, corrisponde apprezzabilmente alla semantica dei logici
contemporanei, che ha avuto, con Carnap e Tarrki, un grande sviluppo.
100
Cfr. R. Blanché, Introduction à la Logique contemporaine, Parigi, 1958. L. Roure, Logique et métalogique, pp.
32-97.
101
Cfr. per tutto questo capitolo: Aristotele, Periherm., c. I. San Tommaso, q. XVI, De Veritate; Summa Th.. la, q.
XVI, art. 2. J. Maritain, Réflexions sur l'intelligence, Parigi, 1924, pp. 8 sg. Brochard, De l'erreur, Parigi, 1897. M.
Heidegger, Vom Wesen der Warheit, Francoforte, 1943; Sull'essenza della verità, trad. it., Milano-Roma, 1952. K.
Jaspers, Von der Wahrheit (1.a parte della Philosophische Logik), Monaco, 1948.
102
Cfr. Mouy, Logique, Parigi, 1944, p. 23.
103
Cfr. J. De Tonquèdec, La Critique de la connaissance, pp. 502-505. E. Borel, Probabilité et certitude, Parigi,
1950.
104
Cfr. S. Agostino, Contra Academicos (ed. Desclée de Brouwer), I-III, c. XV, n: 34. J. De Tonquèdec, La critique
de la Connaissance, pp. 436-443.
105
Cfr. Rosmini, Teoria dell'assenso, (in Logica, e scritti inediti vari, voll. XXII e XXIII dell'Ed. Naz., Roma, 194243).
106
Dal punto di vista storico, cfr. Leo W. Keeler, The problem of error from Plato to Kant, Roma, 1934.
107
W. James, Pragmatism: a New Name for some old Ways of Thinking. Nuova York, 1907; Le Pragmatisme, tr fr.,
Parigi, 1914.
108
Cfr per tutto il capitolo: Aristotele. Analyt. Prior. Bacone, Novum Organum. in The works of F. B.. 7 voll.,
Londra, 1887-92; cfr. tr. it., Napoli, 1927. Cartesio, Discours de la Méthode (ed. Gilson, 2a ed., Parigi, 1930, cfr. tr.
it., 2a ed., Firenze, 1954); Regulae ad directionem ingenii, Torino, 1943; tr. it., Torino, 1954. Leblond. Logique et
Méthode chez Aristote, Parigi, 1939.
109
Cfr. R. Jolivet, L'Homme métaphysique, Parigi, 1958, pp. 9-24, 64-74; cfr. tr. it., Catania, 1958.
Cfr. Rosmini, Logica n. 200 in cui Rosmini, come Cartesio, spiega la funzione di ciò che egli definisce
riflessione superiore, (in opposizione ad una riflessione comune, non critica) nella costituzione della filosofia. Su
quest'argomento cfr. Rosmini, Théorie de l'assentiment, (tr. fr. con introduzione di L. Roure. p. 76 seg.).
111
Cfr. Aristotele, Analyt. Post. San Tommaso, In Lib. Analyt. Post. Giovanni da San Tommaso, Logica, q. XXV de
Demonstratione (in Cursus philosophicus, 2a ed., Torino, 1948). Pascal, De l'esprit géométrique (Pensées, in
Oeuvres complètes de P., 12 voll., 1904-14). J. De Tonquèdec, Critique de la connaissance, pp. 285 segg., 408-429.
L. Rougier, Les paralogismes du rationalisme, Parigi, 1920.
112
Sull'analisi e la sintesi, cfr. Logique de Port-Royal, IV, c. II, Cournot, Essai sur les fondements de la
connaissance et sur les caractères de la critique philosophique, Parigi, 1851, c. XVII.
113
Cfr. per tutto il capitolo: Giovanni di San Tommaso, Logica, q. XXVI, a. I. Pascal, Fragment d'un Traité du vide.
J. Maritain, Le degrés du savoir. Parigi, 1932, pp. 43-136, 265-398. Cournot, Traité de l'enchainement des idées
fondamentales. P. Duhem, La théorie physique, son objet et sa structure, Parigi, 1906. H. Poincarè, La valeur de la
science, Parigi, 1905; tr. it., Firenze, 1950. E. Meyerson, L'explication dans les sciences, Parigi, 1921. G. Bachelard,
Le nouvel esprit scientifique, Parigi, 1934; tr. it., Bari, 1951; L'activité rationaliste de la Physique contemporaine.
Parigi, 1951. - Il problema della scienza. “Atti del IX Convegno del Centro di Gallarate”, (1953), Brescia,
Morcelliana, 1954, A. Guzzo, La Scienza, Torino, 1955.
114
“Osserviamo, scrive Jacques Maritain, che la legge scientifica esprime soltanto (in modo più o meno indiretto) la
proprietà o l'esigenza di un certo indivisibile ontologico di per sé non suscettibile di cadere sotto i sensi (non
osservabile), che per le scienze della natura rimane un x (d'altronde indispensabile), corrispondente a ciò che i
filosofi designano col nome di natura o di essenza. In virtù dell'ontologia (o filosofia spontanea) immanente alla
nostra ragione noi sappiamo anticipatamente che il complesso di fenomeni o di relazioni da noi colti come oggetto
di osservazione ha per sostegno tali nature o essenze, tali x ontologici. Le scienze sperimentali non penetrano queste
essenze nella loro costituzione intelligibile, e pure la questione di sapere se le categorie più o meno provvisorie e
instabili che esse costruiscono e sulle quali esse effettuano il loro lavoro razionale corrispondano loro esattamente,
rimane il più delle volte dubbia. E’ però in questi presupposti ontologici non osservabili che risiede la ragion
d'essere della necessità delle relazioni stabili formulate dalla scienza tra gli elementi che lo spirito coglie nei
fenomeni o che esso costruisce sul loro fondamento. La necessità delle leggi deriva dal fatto che queste concernono
propriamente le essenze o nature, e dal fatto che le essenze o nature sono il luogo delle necessità intelligibili: poiché
ogni natura o essenza, in virtù della sua costituzione intrinseca, possiede necessariamente tali proprietà (come la
diagonale del quadrato è incommensurabile al lato), o tende necessariamente a produrre tale effetto determinato in
tali condizioni (come “il calore” a dilatare i solidi)”. (Les Degrés du savoir, pp. 50-52).
115
Cfr. D. Essertier, Les formes inférieures de l'explication, Parigi, 1927.
116
Le formule «animistiche» si riscontrano, persino oggi, presso i razionalisti più intransigenti e più appassionatamente attaccati a spiegazioni positive. È così che Marcel Boll scrive (Matière, électricité, radiations, p. 76) a proposito della teoria elettronica: «L'idea direttrice di queste perdite ed acquisti di elettroni, è che lo strato periferico
dell'atomo predilige il numero otto. Questa (affezione) dello strato periferico per il numero otto sicuramente vale
bene l'orrore del vuoto!». Senza considerare che la spiegazione finalistica, sotto il nome di «idea direttrice» ha qui
una funzione assai poco positiva.
117
Cfr. R. Allier, Magie et Religion, Parigi, 1935. J. H. Rony, La Magie, Parigi, 1950.
118
Cfr. A. Leroi-Gourhan, Milieux et Techniques, Parigi, 1945.
119
Cfr. Système de politique, 4 voll., Parigi, 1851-54, I, 36 “L'Universo deve essere studiato, non per se stesso, ma
per l'umanità. Ogni altro proposito sarebbe in sostanza insieme poco razionale e poco morale”.
120
Cfr. P. Duhem, Le système du Monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, 5 voll.;
Parigi, 1913-1917, rist. 1954.
121
Cfr. E. Bauer, L'évolution de la physique et de la philosophie, p. 4.
122
Cfr. G. Bachelard, La formation de l'esprit scientifique, 2.a ed., Parigi, 1947, pp. 13 sg.
123
Cfr. Liard, La science positive et la métaphysique. Parigi, 1879. E. Goblot, Logique, 1.a ed., Parigi, 1918, pp. 376
sg. E. Meyerson, Essais, Parigi, 1936, pp. 106 sg.
124
Cfr. Spencer, The Classification of Sciences, Londra, 1864. E. Goblot, Essai sur la classification des sciences,
Parigi, 1898.
125
Cfr. A. Comte, Cours de Philosophie positive, Parigi, 1830-42; 2a lezione. A partire dal 1848 (Discours sur
l'ensemble du positivisme), la morale ormai separata dalla sociologia risulta al sommo della scala enciclopedica. Il
punto di vista morale, precisa Comte (Catéchisme positiviste, 2a ed., Parigi, 1852; 1a Conversazione, ed. Garnier, p.
94), deve prevalere come il più complicato e speciale. È ovvio che, per Comte, questo punto di vista è rigorosamente
dipendente dai metodi positivi.
126
Cfr. E. Boutroux, De la Contingence des lois de la Nature, Parigi, 1874; tr. it., Milano, 1952.
127
Cfr. Giovanni di San Tommaso, Logica, q. XXVI, a. 2. J. Maritain, Science et Sagesse. Parigi, 1935, pp. 17-67.
Leclerc Du Sablon, L'unité de la science, Parigi, 1919.
110
128
L'espressione «scienze umane» è ora usata più spesso che quella di «scienze morali» ed è in realtà più esatta.
Cfr. per tutto l'articolo: San Tommaso, In II Phys., lect. 3; la, q. XL, a: 3. P. Boutroux, Les Mathematiques. J.
Tannery, capit. sulle matematiche nelIa raccolta «De la méthode dans les sciences». H. Poincaré, La Science et
l'Hypothèse, Parigi, 1904, cfr., tr. it., Firenze 1950. L. Brunschvicg, Les étapes de la philosophie mathèmatique,
Parigi, 1912. B. Russell, Introduction to Mathematical Philosophy, Londra 1919, tr. it., Milano, 1946. P. Boutroux,
Les principes de l'analyse mathématique. L. Couturat, Le principes des mathématiques, Parigi, 1905. Daval et
Guilbaud, Le raisonnement mathématique, Parigi, 1945. A. Darbon, La Philosophie des Mathématiques, Parigi,
1949.
130
Cfr. R. Le Masson, Philosophie des nombres, Parigi, 1932. G. Veriest, Les nombres et les espaces, Parigi, 1951.
131
Cournot, Exposition de la théorie des chances et des probabilités, Parigi, 1843. H. Poincaré, La Science et
l'Hypothèse, c. XI: le calcul des probabilités. E. Borel, Le hasard, Parigi, 1914.
132
“Il procedimento, scrive Cournot (Considérations sur la marche des idées, ed. Mentré, Parigi, 1934, t. I, p. 223),
consiste nel. rappresentare una grandezza, nei suoi stati successivi, con lunghezze trasportate partendo da un punto
fisso su una stessa linea retta orizzontale. Alle loro estremità variabili si innalzano linee rette verticali le cui
lunghezze siano in proporzione dei valori corrispondenti dell'altra grandezza e il tracciato della linea curva o sinuosa
che congiunge le estremità superiori di tutte queste verticali offre la tavola o il segno grafico del legame che sussiste
tra le due grandezze variabili. Se questo legame comporta una espressione semplice, essa si chiamerà formula o
legge; altrimenti ciò non sarà che un fatto empirico. In ogni caso, il modo di rappresentazione metterà bene in
evidenza l'andamento generale delle variazioni e gli accidenti particolari”.
133
Cfr. R. Taton, Histoire du calcul, Parigi, 1946, pp. 43-125.
134
Cfr. Gonseth, Les fondements des mathématiques, Parigi, 1926, che bene dimostra come l'assiomatica costituisca
una «schematizzazione della realtà», e, a questo titolo, dipenda dal procedimento astrattivo caratterizzante
l'intelligenza. A. Laut-Mann, Essai sur les notions de structure et d'existence en mathématiques. Parigi, 1938. R.
Poirier, Le nombre, Parigi 1938.
135
Cfr. San Tommaso, In Boeth. de Trinitate, p. XI, a. 2: «In qualibet cognitione, duo est considerare, scilicet
principium et finem sive terminum. Principium quidem ad apprehensionem pertinet, terminus autem ad judicium, ibi
enim cognitio perficitur. Principium autem cujuslibet nostrae cognitionis est in sensu (...). Sed terminus cognitionis
non est semper uniformiter: quandoque in solo intellectu (...). Deduci autem ad aliquid est ad illud terminari: et ideo
in divinis neque ad sensum, neque ad imaginationem debemus deduci; in mathematicis autem ad imaginationem; in
naturalibus autem etiam ad sensum. Et propter hoc peccant qui uniformiter in tribus his speculativis partibus
procedere nituntur».
136
Cfr. Pascal, Frammento De l'esprit géometrique, ed Brunschvicg, pagina 164 sg.
137
L. Roure, Logique et Métalogique. Lione-Parigi, 1957, pp. 217 seg.
138
Cfr. R. Ruyer, Esquisse d'une philosophie de la structure, Parigi, 1930, p. 164.
139
Vedere la discussione di E. Goblot, Traité de Logique (1a ed.), n. 165-173.
140
Cfr. R. Le Masson, Philosophie des nombres, Parigi, 1939, pp. 34-35.
141
Cfr. Whitehead e Russell, Principia Mathematica, 2a ed., Cambridge, 1925-1927.
142
Cfr. E. Goblot, Le système des sciences, Le vrai l'intelligible et le réel, Parigi, 1922: p. 39.
143
Gaston Bachelard (Le nouvel esprit scientifique, Parigi, 1934, tr. it., Bari, 1951), ha dimostrato molto bene come
la scienza contemporanea, invece di risolvere tutto, come voleva Cartesio, in elementi (o «nature») semplici,
procede al contrario per sintesi costruttrici, per costituzione di sistemi complessi.
144
Cfr. P. Boutroux, L'idéal scientifique des mathématiques. H. Reymond, Logique et Mathématique.
145
Cfr. per tutto l'articolo: Cl. Bernard, Introduction à la médecine expérimentale, Parigi, 1865; Rabier, Logique, c.
VIII. Lalande, Les théories de l'induction et de l'expérimentation, Parigi, 1929.. Meyerson, De l'explication dans les
sciences, Parigi, 1921. Duhem, La théorie physique, son objet, sa structure, 2a ed., Parigi, 1914. Goblot, Traité de
Logique, Parigi, 1918, c. XlII-XVI. H. Poincaré, La valeur de la science.. J. Maritain, Les degrés du savoir, Parigi,
1922, pp. 265-398. De Broglie, Le positivisme et la science expérimentale. Dr. Grasset, Les limites de la biologie,
Parigi, 1903. Cuénot, Invention et finalité en Biologie, Parigi, 1941. P. Renoirte, Éléments de critique des sciences et
de Cosmologie, Lovanio, 1945.
146
Questa matematizzazione delle scienze fisiche introduce queste scienze nella categoria che gli antichi
chiamavano «scienze intermediarie» (scientiae mediae). Esse diventano infatti matematiche quanto alla forma,
restando fisiche quanto alla loro materia. Dal punto di vista della spiegazione (empirica) esse si avvicinano
maggiormente alla matematica; dal punto di vista dell'oggetto, che è sempre, per riduzione ultima, il reale mobile e
sensibile come tale, esse sono più fisiche che matematiche (Cfr. San Tommaso, In Boeth. de Trinit., q. V; a. 3 ad
6um).
147
Cfr. Duhem, La théorie physique, p. 277: «In fisica, non si tratta più di lasciare alla porta del laboratorio la teoria
che si vuol provare, poiché, senza di essa, non è possibile guidare un solo strumento, né interpretare una sola lettura.
Allo spirito del fisico che esperimenta, due apparecchi sono costantemente presenti: l'uno è l'apparecchio concreto,
in vetro, in metallo, che egli manipola; l'altro è l'apparecchio schematico e astratto che la teoria sostituisce all'appa129
recchio concreto, e sul quale il fisico ragiona; queste due idee sono indissolubilmente legate nella sua intelligenza;
ciascuna di esse richiama necessariamente l'altra; il fisico non può più concepire l'apparecchio concreto senza
associargli la nozione dell'apparecchio schematico come un francese non può concepire un'idea senza associarle il
termine francese che la esprime. Questa impossibilità radicale, che impedisce di dissociare le teorie della fisica dai
procedimenti sperimentali atti a controllare queste stesse teorie, complica particolarmente questo controllo».
148
L'onda, scrive Louis de Broglie (Intr. a la mécanique ondulatoire, Hermann, p. XIII), non è che «una semplice
rappresentazione simbolica di ciò che noi sappiamo sul corpuscolo».
149
J. Maritain (La Philosophie de la Nature, p. 99 sg.) propone di distinguere, nelle scienze della natura, l'analisi
empiriometrica, con cui si traduce il sensibile in formule matematiche, e l'analisi empirioschematica, con cui i
concetti (o schemi) scientifici si risolvono nell'osservazione come tale, senza subire la regola della spiegazione
matematica.
150
) Cfr. M. Koyrè, L'hypothèse et l'éxpérience chez Newton, in «Bulletin de la Soc. Fr. de Ph.», aprile-giugno,
1956.
151
Cfr. A. Rey, La théorie de la physique chez les physiciens contemporains, Parigi, 1908.
152
L. Brunschvicg, L'expérience humaine et la causalité physique, p. 513.
153
Si troverà nel II vol., in Cosmologia, l'esposizione critica delle grandi teorie scientifiche moderne.
154
È la posizione presa da Paul Langevin (cfr. A. George, L'oeuvre de Louis de Broglie et la Physique d'aujourd'hui,
Parigi, 1931), che propone di abbandonare la nozione di individualità corpuscolare per salvare il determinismo.
Ritorneremo più avanti su questo argomento.
155
«Che cosa di più complicato, scrive H. Poincaré, dei movimenti oscuri dei pianeti, che di più semplice della legge
di Newton? Là, la natura, beffandosi, come diceva Fresnel, delle difficoltà analitiche, non impiega che mezzi
semplici e genera, con la loro combinazione, non so quale matassa inestricabile. Là è la semplicità nascosta, quella
che bisogna scoprire. Gli esempi del contrario abbondano. Nella teoria cinetica dei gas si considerano molecole
animate da grandi velocità, le cui traiettorie, deformate da urti continui, hanno le forme più capricciose, e solcano lo
spazio in tutti i sensi. Il risultato osservabile è la legge semplice di Mariotte; ogni fatto individuale era complesso; la
legge dei grandi numeri ha ristabilito la semplicità nella media» (La Science et l'Hypothèse, p. 175).
156
È ciò che bene esprime un testo famoso di Laplace: «Noi dobbiamo dunque considerare lo stato presente
dell'universo come effetto del suo stato anteriore e come causa dello stato che seguirà. Una intelligenza che, ad un
dato istante, conoscesse tutte le forze di cui la natura è animata e la rispettiva situazione degli esseri che la
compongono, se d'altronde fosse abbastanza vasta da sottomettere questi dati all'analisi, abbraccerebbe nella stessa
formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e quelli del più leggero atomo; niente sarebbe incerto per essa
e l'avvenire come il passato sarebbero presenti ai suoi occhi». (Le Système du Monde).
157
Il «principio di Heinseberg» enuncia che è impossibile dare un valore assoluto ed esatto insieme alla variabile
che esprime la situazione di un corpuscolo ed alla variabile che esprime lo stato dinamico (o velocità d'onda) dello
stesso corpuscolo.
158
Dirac (Les Principes de la Mècanique quantique, Parigi, 1931) nota che non si può osservare un elettrone senza
illuminarlo, cioè senza inviare su di esso almeno un fotone che ne altera il movimento; è dunque impossibile
conoscere esattamente la posizione e la velocità dell'elettrone in un dato momento. «Da questo punto di vista,
aggiunge Dirac, l'apparente deroga alla legge di causalità può essere attribuita ad una imperfezione, teoricamente
inevitabile, dei nostri mezzi di osservazione».
159
L. De Broglie, Matière et Lumière, p. 252. Sulla questione dell'indeterminismo, cfr. Eddington, The Philosophy
of Physical Science, Londra, 1939, cfr. tr. it., Bari, 1941. L. De Broglie, La Physique nouvelle et les quanta; Continu
et discontinu. A. Sesmat, Systèmes de références et mouvements. Travaux du IX. Congrès International de
Philosophie, t. VII. Ch. De Conninck, Le problème de l'indéterminisme, Quebec, 1937.
160
Cfr. L. De Broglie, Hasard et Contingence en Physique classique, in «Revue de Metaph. et de Morale», 1945, p.
249.
161
Cfr. L. De Broglie, Nouvelles perspectives en microphysique, Parigi 1956.
162
Cfr. Bounoure, Déterminisme et finalité, Parigi, 1957.
163
Cfr. su questo punto le giuste osservazioni di R. Ruyer, Èléments de psychobiologie, Parigi, 1946, n. 187-190
«l'insieme degli anelli in atto (a-b-c-d) deve esprimere un principio D situato in un altro piano. La storia spaziotemporale della realizzazione di d non permette di comprenderla: proprio perché i particolari della spazializzazione e
della temporalizzazione del tema D hanno un carattere secondario relativamente all'azione di D essi possono sempre
essere «ripresi». Una perturbazione nello svolgimento causale abcd, ad esempio la sostituzione accidentale di b' a b,
che, nell'ordine spazio-temporale, dovrebbe tendere ad una cosa diversa da d, è corretta, regolarizzata dall'azione del
principio, in modo tale che d è sempre raggiunto» (pp. 190-191) Fig. 11
164
I casi in cui la legge o l'essenza risulta enucleata da una sola esperienza non sono rari nella storia delle scienze. È
noto, ad esempio, che vedendo una paglia violentemente respinta dal vapore di un recipiente d'acqua bollente Denis
Papin ebbe l'intuizione istantanea del vapore come forza motrice.
165
La biologia fisica (fisica biologica e chimica biologica) di biologico non ha che il nome, poiché essa considera
nel vivente soltanto ciò che non è particolare al vivente come tale, ma si riscontra nel mondo inorganico (fenomeni
di osmosi, dissoluzioni e precipitazioni, ossidazioni, catalisi e idrolisi, ecc.).
166
Cfr. L. Vialleton, Types d'organisation et types formels, in «Cahier de la Nouvelle Journée», n. 15 (1929), pp.
103-106.
167
Per la teoria positivistica, cfr. St. Mill, System of Logic, Ratiocinative and Inductive, 9.a ed., 2 voll., Londra,
1875, VI, C. I, IV, XI.
168
Cfr. De Smedt, Principes de la critique historique. Langlois e Seignobos, Introduction aux études historiques,
Parigi, 1898. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, 1917. Lacombe, De l' histoire considérée comme
science. R. Aron, Introduction à la philosophie de l' histoire. Essai sur les limites le l'objectivité historique, Parigi,
1938. L. Halphen, Introduction à l' Histoire, Parigi, 1946. Eric Dardel, L' histoire, science du concret, Parigi, 1946.
M. Hudegger. Sein und Zeit, Halle, 1927, pp. 372-403. K. Jaspers, Philosophie, Berlino, 1932, t. II,
Eistenzerhellung, pp. 118-148. F. Battaglia, Il valore nella storia, Bologna, 1948. Il problema della storia in « Atti
dell'VIII Convegno di Gallarate», (1952), Brescia, Morcelliana, 1953.
169
Di questo lavoro di interpretazioni e di problemi ch'esso comporta, le discussioni suscitate dalla scoperta (fin dal
1948) dei Manoscritti del Mar Morto (Manoscritti dell'Antico Testamento, più antichi di tutti quelli che si
conoscevano fino a quel. momento, e degli altri scritti ebraici non inclusi nel canone biblico) forniranno un esempio
efficace. Nell'enorme bibliografia relativa a questa scoperta, si possono citare: R. De Vaux, ecc., Qumran Cave,
Oxford, 1955; Dupont-Sommer, Nouveaux aperçus sur le Manuscrits de la Mer Morte, Parigi, 1953. Del Monaco,
L'énigme des Manuscrits de la Mer Morte, Parigi, 1957. J. T. Milik, Dieci anni di scoperte nel deserto di Giuda,
Torino, 1957. J. M. Allegro, I Rotoli del Mar Morto, tr. it., Firenze, 1958.
170
Cfr. J. Chaix-Ruy. La formation de la pensée de Vico, Parigi, 1945. F. A. Amerio, Introduzione allo studio di
Vico, Torino, 1946. Calvez, La pensée de Karl Marx. Parigi, 1957.
171
Cfr. anche Condorcet, Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain (1794) (ora in Oeuvres
complètes de C., 21 voll., Parigi, 1801-1804) e Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menscheit (Riga e
Lipsia, 1784-1791). Il De civitate Dei di S. Agostino e il Discours sur l'Histoire universelle di Bossuet (Parigi, 1.a
ed., 1681), propongono una teologia della storia più che una filosofia della storia. Questa teologia della storia
tuttavia dà alla storia un senso che perfeziona e rischiara, senza contraddirlo, quello che è già implicato nella
filosofia della storia. Vedi pure: U. A. Padovani, Filosofia e teologia della storia, Brescia, Morcelliana, 1953; N.
Petruzzellis, L'idealismo e la storia, 3.a ed., Brescia, Morcelliana, 1957.
172
Cfr. K. Jaspers, Von Ursprung und Ziel der Geschichte, Zurigo, 1949 (cfr.tr. fr. Origine et sens de l'histoire,
Parigi, 1954).
173
Cfr. S. Tommaso, Ia IIae, q. 90-107 (cfr. in: La loi, la société, ed. della «Revue des Jeunes», Parigi, 1935). Aug.
Comte, Cours de Philosophie positif, 6 voll., Parigi, 1830-42, 48a lezione. Discours sur l'esprit positif, Parigi, 1844.
E. Durkheim, Les règles de la métode sociologique, n. ed., Parigi, 1947. P. Bureau, Introduction à la méthode
sociologique. R. Lacombe, La méthode sociologique de Durkeim. O. Maunier, Introduction à la sociologie,
Marsiglia, 1934. O. Leroy, La raison primitive. J. Monnerot, Les faits sociaux ne sont pas des choses, Parigi, 1946.
Bouthoul, Traité de Sociologie, 2 voll., Parigi, 1946-54. J. Lacroix, La sociologie d'Aug. Comte, Parigi, 1957.
174
Per la storia della sociologia, cfr. Cuvillier, Introduction à la sociologie, Parigi, 1936, pp. 7-87.
175
Ad esempio: problemi dei Neri e degli immigranti, incontro delle razze e delle culture, assimilazione e suoi
processi.
176
Tra questi pionieri, è da citare W. G. Summer (Folkways, 1906), e L. F. Ward (Dynamic Sociology, or applied
Social Science, 2 voll., Nuova York, 1883, 2.a ed., 1897).
177
Opere principali: Human Nature and the social order (Nuova York, 1902); Social Organization (ivi, 1909);
Social Process (ivi, 1918).
178
Devesi citare specialmente Ellwod (Sociology in its Psychological Aspects, Londra, 1912; The psychology of
human society, Durham, 1925); Ross (Social Control, Nuova York 1904, Foundation of Sociology, ivi, 1905; The
principles of Sociology, ivi, 1920; Ezra Park, che ha rinnovato l'ecologia umana (Scuola formalista, caratterizzata
dallo studio dei processi sociali indipendentemente dal loro contenuto): The City, 1925; tra i rappresentanti
dell'antropologia culturale, Lowie (Primitive religions, Londra, 1922; Primitive Society, ivi, 1923, ecc.); infine, nel
campo della psicologia sociale, G. Herbert Boas. Sugli autori più recenti, cfr. Gurvitch e Moore, La Sociologie au
XX siècle, Parigi, P. U. F., 1947.
179
Cfr. R. Lacombe, La méthode sociologique de Durkheim, Parigi, 1936.
180
È del tutto ovvio che questa conoscenza può essere confusa e oscura, e questa vo1ontà, implicita.
181
Les lois de l'imitation, Parigi, 1921.
182
Cfr. Spencer, Principles of Sociology, 2.a ed., 2 voll., Londra, 1876-96; tr. fr., t. II; pp. 218-237; cfr. tr. it.,
Padova, 1922. La tesi organicistica è stata ripresa da Espinas, Les Sociétés animales, Parigi, 1877 e da R. Worms.
Organisme et société, Parigi, 1896.
183
Ciò è frequente. Un cranio ornato, ad esempio, significa senza tema d'errore un culto di crani, ma senza indicare
se si tratta di rispetto dei morti o di caccia alle teste.
184
La linguistica (fonetica, grammatica, lessico) è particolarmente importante. Essa infatti fornisce: l° un elemento
essenziale per la determinazione di un ciclo culturale; 2° un indizio di affinità o di origine. È così che la fusione
(probabile) delle diverse lingue bantù con le lingue del Sudan costituirebbe un serio indizio di comunanza d'origine
delle popolazioni bantù e sudanesi. (Cfr. Max Miller, Essay on comparative mithology, Londra, 1856. W. Schmidt,
Kulturkreise und Kulturschichten in Sudamerika).
185
Per non ammettere questa parentela, bisognerebbe supporre inventori molteplici, indipendenti gli uni dagli altri,
che giungano simultaneamente agli stessi risultati (fino nei particolari delle invenzioni), ciò che è estremamente
inverosimile e, in ogni caso, dovrebbe essere eccezionale e assai limitato. Per questo Morgan (Ancient Society,
Nuova York, 1877; tr. fr., Les premièrs civilisations, p. 117) ritiene che «la teoria che suppone la propagazione per
influenza è molto più ammissibile (di quella delle invenzioni multiple), poiché essa rientra nei fenomeni che
vediamo avvenire costantemente».
186
Fu Ratzel, creatore della geografia antropica, in uno studio sugli «archi africani», a segnalare per primo la
dipendenza geografica delle diverse forme di questi strumenti (in Africa e in Oceania) e formulò la teoria delle
migrazioni, secondo cui i primi inizi «si sarebbero operati non in luoghi diversi, sotto forme diverse ed indipendenti,
ma solamente in alcuni centri da cui si sarebbero propagati per via di spostamenti locali». (Schmidt, Die moderne
Ethnologie, Vienna, 1906).
187
G. Poisson ha dato un esempio considerevole di questo procedimento nell'opera che ha consacrata agli Ariani. Il
ricorso ai dati della linguistica, della etnologia e della preistoria permette a G. Poisson di seguire le migrazioni e di
determinare l'origine degli Ariani. (Les Aryens, 1934).
188
Questo procedimento etnologico è stato valorizzato soprattutto da Graebner (Die Methode der Ethnologie,
Heidelberg, 1911) e da W. Schmidt (Der Ursprung der Gottesidee, 12 voll., Munster e Vienna 1912-55; L'origine de
l'idée de Dieu, tr. par. fr., Parigi, 1910). Esso riposa innanzitutto, scrive A. Bros (L'Ethnologie religieuse, 2a ed., p.
200) sul principio che «gli elementi particolari della civiltà materiale non si sono propagati isolatamente. In tutti i
casi, c'è un complesso culturale più o meno ricco secondo il livello della civiltà, ma abbracciante sempre, in una
unità organica, tutti i bisogni essenziali, materiali e spirituali, della natura umana; è un ciclo culturale che si forma in
qualche parte, che si sviluppa e che si propaga, sia che un popolo spostandosi lo porti con sé, sia che esso si
trasmetta da popolo a popolo, da tribù a tribù» (Schmidt, Die moderne Ethnologie; tr. fr. Voies nouvelles en
Ethnologie, p. 18). In altri termini, i diversi stadi di civiltà si esprimono da un insieme di credenze che sono
dipendenti le une dalle altre e che si ritrovano, attraverso le diverse migrazioni, ancora coerenti. Ciascuno di questi
stadi dicesi ciclo culturale, area di civiltà e si può darne una precisa descrizione. Ogni ciclo, essendo dato che esso
abbraccia tutte le manifestazioni della vita di una tribù, riunisce in sé tutt'insieme la civiltà materiale e quella
spirituale».
189
Cfr. G. Darbois, Statistique et applications. Haber, Borrel, ecc., La Statistique, Parigi, 1944. R. Dumas, La
Statistique et l'Entreprise, Parigi, 1954.
190
Cfr. G. Gurvitch, Déterminismes sociaux et liberté humaine, Parigi, 1955.
191
Riguardo alla confusione dell'elementare coll'essenziale, cfr. la discussione della Società francese di filosofia,
«Bulletin de la Soc. fr. de phil.», marzo 1938. Per la critica dell'evoluzionismo spenceriano, cfr. A. Lalande, Les
illusions évulutionnistes, Parigi, 1930.
192
È così che Frazer scrive: «Nell'evoluzione del pensiero, come in quella della materia, il più semplice è primo nel
tempo». Ora, M. Lévy-Bruhl. citando questa frase (Les fonctions mentales dans les sociétés inferieures, Parigi,
1910, p. 11) fa osservare che, contrariamente all'affermazione di Frazer, le lingue primitive sono estremamente
complesse.
193
Cfr. E. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Parigi, 1912.
194
.Cfr. R. Lacombe, La méthode sociologique de Durkheim, op. cit.
195
Ne consegue che il metodo di Frazer (The golden Bough, op. cit.) procedendo per accumulazione di fatti
riscontrati non importa dove, né quando (senza parlare della spiegazione evoluzionistica a partire da qualche ipotesi
psicologica arbitraria) può dare unicamente risultati illusori. Esempio: sotto la rubrica non toccare il suolo (Frazer)
raggrupperà pratiche come queste, supposte fondate sulla stessa interdizione: il Mikado e il pontefice degli
Zapotechi non dovevano mettere i piedi a terra; i sovrani di Thaiti non dovevano toccare il suolo fuori dei loro Stati
era un cattivo presagio che il re di Dosuma toccasse il suolo; i re di Persia non andavano che in carro o a cavallo: nei
loro palazzi, essi calpestavano tappeti; il re del Siam non metteva mai piede a terra; i re dell'Uganda non
passeggiavano a piedi fuori dei loro palazzi; gli Australiani di Vittoria non gettavano al suolo la carne di emù. (Tr.
fr., II, pp. 396, 397, op. cit.; cfr. tr. it., Il ramo d'oro; Storia del pensiero primitivo. Magia e religione, 2 voll.,
Torino, 1950). Il lettore può credere di aver visto susseguirsi sotto i suoi occhi forme diverse di una stessa
superstizione. Se guarda più da vicino, esso vedrà che si viene a darne... una prova. Vi sono qui in realtà tre tipi di
fatti: l, 4, 5, 6, dignità reale; 2, i sovrani fanno parte del paese e non devono abbandonare il loro posto sacro; 7, non
bisogna gettare le cose sacre (l'idea di suolo non ha qui nulla a vedere, se si gettasse la carne di uccello nel fuoco o
nell'acqua, il risultato sarebbe del tutto simile); 3, dubbio. Cos'è che costituisce l'unità di questo raggruppamento
eteroclito? Nient'altro che il termine suolo...» (O. Leroy, L'oeuvre de J. G. Frazer in «Vie intellectuelle», 25 ottobre
1938, p. 272).
196
Cfr. K. Marx, Die deutsche Ideologie, (in M. - Engels. Historischkritische Gesamtausgabe, Berlino, 1933 sg.), I,
pp. 239-240: «La produzione delle idee, delle rappresentazioni della coscienza è innanzitutto implicata nell'attività
materiale e nel commercio materiale degli uomini, linguaggio della vita reale. La rappresentazione, il pensiero, il
commercio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come l'emanazione diretta del loro comportamento
materiale». (Materialismo storico). G. Arvon, Le marxisme, Parigi, 1955. H. Lefebvre, Problèmes actuels du
marxisme, Parigi, 1958.