che cambia ogni giorno

annuncio pubblicitario
format
nell’accostare gli ingredienti e da
raffinatezza della presentazione che
fanno trasparire la ricchezza di esperienze acquisite nelle migliori cucine
di Europa e Asia da questo chef 45enne d’origini calabresi, ma nato in
Francia.
L’ambientazione del ristorante di via
dei Banchi Vecchi è oggi più intima,
elegante e discreta. Potremmo definirla
minimalista, ma all’italiana, perché i
colori sono vivi, caldi. Il rosso, il prugna,
il lilla fanno le veci delle tonalità neutre
del minimal chic nord europeo. Il
risultato è un atmosfera che incontra il
gusto sia di una clientela giovane che
di quella più attempata.
Una maggiore essenzialità caratterizza
anche la nuova proposta gastronomica.
"In carta - evidenzia Genovese - ci
sono ora meno piatti: sei antipasti, cinque primi, sette secondi, sei dolci, per
poter dare più attenzione a ognuno di
loro, per essere più precisi nella loro
preparazione, per rispecchiare pienamente la mia filosofia di cucina".
Genovese ha anche eliminato un menu
degustazione. Ora ne propone soltanto
due: "Il pagliaccio", percorso in otto
portate a 130 euro a persona, bevande
escluse, e "Un circo di sapori", da
dieci portate a 150 euro. "In questo
modo - prosegue Genovese - siamo
venuti incontro all’esigenza della clientela di una maggiore chiarezza e leggibilità della proposta. E allo stesso
tempo siamo riusciti a ottimizzare la
gestione e a non aumentare i prezzi,
che anzi in alcuni casi abbiamo ab-
A Roma c’è un
Pagliaccio
che cambia ogni giorno
66
Artù n°58
di Luisa Contri
Qui sopra lo staff de Il Pagliaccio.
Da sinistra: Matteo Zappile
che gestisce la cantina, lo chef
Anthony Genovese, il responsabile
di sala Gennaro Buono e lo chef
Francesco Di Lorenzo.
Anthony Genovese, bistellato chef patron de Il Pagliaccio di Roma, non poteva non celebrare il decennale del
suo ristorante se non rinnovando completamente menu, locale e sito internet. Il perché è presto detto: la sua
personalità si esprime attraverso la
creatività, l’ideazione di piatti sempre
diversi, che concepisce per il mero
piacere di far qualcosa di nuovo.
Piatti moderni, connotati da originalità
Artù n°58
67
format
bassato, pur avendo migliorato la qualità delle materie prime e anche quella
della carta dei vini. Una carta nella
quale, alle bottiglie che non possono
mancare, si affiancano molti ottimi
vini di piccole cantine. Insomma, una
carta che non può certo dirsi copiata
dalle guide dei vini".
La proposta menu è stata completamente rinnovata, una scelta coerente
con la filosofia di cucina di Genovese
che, diversamente da tanti altri colleghi,
non è identificabile con piatti che nel
tempo diventano i famosi "classici" di
un ristorante. "Alcuni miei grandi colleghi
- dice Genovese - cambiano la carta
una o due volte l’anno. Modificano un
paio di piatti. Li ammiro. Forse anch’io
dovrei fare lo stesso. In me però prevale
sempre la componente creativa. E
finisco per cambiare il menu senza
uno scopo preciso, per il semplice piacere di fare dei piatti nuovi. È così che
da me un piatto rimane nel menu un
anno, un anno e mezzo al massimo,
per poi essere sostituito da altri".
Se gli chiedete cosa gli piace di più,
oggi Genovese risponde le animelle, il
manzo crudo con i cannolicchi, i ravioli
al burro, le alici col brodo di pelle di
baccalà, il pescato del giorno sul suo
fondo di cottura fatto con le verdure,
l’agnello con l’acqua di prugne e lo yo-
68
Artù n°58
gurt di bufala. L’anno prossimo, quasi
sicuramente, risponderà diversamente.
Seppure Genovese ritenga di non aver
ancora terminato il fine tuning del
nuovo Pagliaccio, che al momento paragona a un cd nel quale uno o due
pezzi non sono ancora proprio all’altezza
degli altri, di una cosa è soddisfatto:
del lavoro fatto sulle materie prime.
"Siamo andati oltre quelli che sono i
cataloghi dei foodbroker specializzati
nella ristorazione - assicura Genovese -.
Abbiamo ricercato in tutta Italia piccoli
produttori, allevatori e contadini che ci
potessero garantire il massimo della
qualità. Siamo migliorati molto sul
pesce, che ora ci portano da Anzio,
Nettuno o Fiumicino. Per la carne ci riforniamo in Piemonte, per l’agnello in
Toscana. Il maialino invece è spagnolo.
Le spezie arrivano tutte dall’Estremo
Oriente. Spesso me le regalano gli
amici e i parenti di ritorno da viaggi in
Asia. Quello sulle materie prime è stato
ed è un lavoro impegnativo e lungo. È
molto più facile alzare la cornetta e
fare gli ordini. Ma è anche il lavoro che
consente di differenziare la propria cucina da quella di un altro bravo chef".
Creatività e distintività, Genovese ne è
convinto, sono le qualità che gli hanno
consentito di conquistare le due stelle
Michelin. Stelle che sono per lui un ri-
format
conoscimento ambito e gratificante,
perché far parte di una cerchia ristretta
di grandi chef non può che far piacere.
Ma anche una responsabilità, un encomio che si ha sempre paura ti venga
tolto. "Avere un ristorante due stelle chiosa Genovese - richiede passione,
lavoro, sacrificio, condivisione. Ma ti
tiene in continua tensione. Ti senti sempre in equilibrio su una fune. Quello
dello chef è un lavoro bellissimo. Non
è però per niente facile e va affrontato
con umiltà, rispetto, senso del sacrificio
e passione". Aspetti caratteriali che Genovese apprezza nei suoi collaboratori:
nove persone in cucina più sei in sala.
Fra queste il suo secondo in cucina
Francesco Di Lorenzo, Gennaro Buono,
il responsabile di sala, Matteo Zappile
che gestisce la cantina, e la pasticcera
alsaziana Marion Lichtle, al suo fianco
dal 1994. E a maggior ragione fra gli
stagisti, che non esita a scartare se
percepisce in loro arroganza e presunzione. Una squadra nutrita quella de Il
Pagliaccio, per garantire un servizio
molto curato agli 11 tavoli (per una
trentina di coperti) distribuiti fra la sala
principale, il piccolo salottino privato
che ospita il tavolo dello chef (anche
se non si affaccia del tutto sulla cucina),
e una seconda saletta dove sono
esposti i distillati. Semplicità, umiltà e
una punta di timidezza sono i tratti caratteriali che Genovese rivela nel relazionarsi con gli altri e che gli fanno preferire di rimanere il più possibile "davanti
alla sua stufa". "Non sono un patito
dello show business - rivela Genovese
-. Trovo anzi stancante e inflazionata
tutta questa cucina in tv. Soprattutto
mi da fastidio vedere chef improvvisati
che, in un paese come l’Italia dove si
è sempre mangiato bene, dal piccolo
schermo pretendono di insegnare come
si fa la pasta al pomodoro e basilico.
Certo, se mi invitano, ben venga. Ma
mi piacerebbe che in tv si parlasse di
cosa significa veramente avere un ristorante, che si raccontasse com’è la
vita di uno chef, cosa vuol dire avere
due stelle Michelin. Vorrei insomma un
po’ più di sincerità e schiettezza".
70
Artù n°58
Scarica