Leopardi: filosofo scettico? In una pagina dello Zibaldone

G.Iodice 1/9
Giuliano Iodice. 18/03/2010.
Relazione per il laboratorio di filosofia morale sulle Operette Morali di Leopardi. Prof. A.Vigorelli.
A.A. 2009-2010
Leopardi: filosofo scettico?
In una pagina dello Zibaldone del 1821, Leopardi definisce il suo sistema di pensiero uno
Scetticismo ragionato e dimostrato.
Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la
ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il
vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal
vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di
Cartesio ec. v. Dutens, par.1. c.2. §.10.), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si
possa sapere.1
Si tratta di una dichiarazione di intenti teoretici dal carattere perentorio, che apparentemente poco si
addice a un filosofo che intenda fare del dubbio il suo mezzo di ricerca. Col termine ‘scetticismo’ ci
si riferisce a quelle correnti di pensiero che negano la possibilità di stabilire la verità o falsità di una
qualsiasi proposizione, e di conseguenza ritengono la realtà stessa inconoscibile. Portato alle
estreme
conseguenze,
lo
scetticismo
conduce
paradossalmente
all’afasia,
al
silenzio,
all’impossibilità di pronunciare qualsiasi affermazione e, in ambito pratico, all’inazione,
all’immobilità, alla paralisi della volontà. Colpisce quindi la denominazione sistema utilizzata da
Leopardi in questa sua pagina. Un sistema è un insieme di relazioni organicamente strutturato, in
cui ciascun elemento concorre alla realizzazione di un disegno unitario e ordinato, solitamente
orientato a un fine specifico. Elaborando un sistema di pensiero, il filosofo o lo scienziato intendono
dare una descrizione ‘vera’ del mondo, imporre al mondo stesso un insieme di strutture concettuali
che ne rendano intelligibile la sua forma.
Conosciamo la particolare avversione di Leopardi per i sistemi delle cose, per i sistemi naturali, per
quei sistemi filosofico-scientifici che propongono una visione meccanicistica e deterministica della
natura. Le sue obiezioni a queste grandi elaborazioni teoriche non mancano di ribadire una
impossibilità ontologica per l’uomo di giungere alla conoscenza di verità assolute.
Ascriviamo a leggi eterne e immutabili, a sistema naturale, a Provvidenza e all’opera del caso e delle circostanze
accidentali e arbitrarie. Aggiungete all’assuefazione, le opinioni, i climi, i temperamenti corporali e spirituali, e
persuadetevi che molto, molto poche verità sono assolute e inerenti al sistema delle cose. Oltre all’indipendenza da
queste verità che può trovarsi in altri sistemi di cose.2
1
G.Leopardi, Zibaldone di pensieri, Garzanti, Milano, 1991, p.1655. I numeri di pagina dello Zibaldone qui riportati
sono quelli dell’autografo leopardiano.
2
G.Leopardi, Zibaldone, op. cit., p.68, citato in A.Negri, «Il riso di Nietzsche e il riso di Leopardi» in Il riso
leopardiano. Comico, satira, parodia. Atti del IX Convegno internazionale di studi leopardiani. Leo S.Olschki editore,
Firenze, 1995, p.69.
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L’«amor de’ sistemi» è per Leopardi dannoso alla ricerca del vero3. Un sistema occulta, in un certo
senso, la realtà, perché opera una selezione e una valutazione gerarchica dei fatti, delle osservazioni,
delle percezioni, e li riconduce a un modello interpretativo unitario e statico, ignorando l’incidenza
delle «opinioni, dei temperamenti corporali e spirituali», delle pre-cognizioni e delle disposizioni
affettive dei soggetti osservatori. In tal modo la visione della realtà viene distorta dalle ‘lenti’ di un
impianto speculativo necessariamente parziale e fondato su basi incerte.
Dobbiamo intendere quindi il sistema di Leopardi in un altro senso: non una solida e grandiosa
costruzione teorica che si imponga come “descrizione vera del mondo”, bensì un complesso
organico di pensieri e ragionamenti che assumano il dubbio come elemento centrale della ricerca
filosofica. Un dubbio che rievoca alla memoria il fulcro attorno al quale ruota l’epochè cartesiana
nelle Meditazioni metafisiche; ma sappiamo che il dubbio metodico di Cartesio, ovvero la messa in
questione di ogni opinione precedentemente ritenuta vera, è funzionale alla costruzione di un
sistema di conoscenze certo e indubitabile, fondato sul cogito4. Le intenzioni di Leopardi sembrano
quindi allontanarsi da quelle di Cartesio, pur mantenendo affinità evidenti. Il dubbio leopardiano
assurge paradossalmente al ruolo di verità, e di conseguenza ogni conoscenza tende a contenere in
sé, quasi dialetticamente, il proprio principio di negazione e refutazione.
Qui potrei dimostrare che ogni sillogismo, cioè ogni atto ed ogni nozione della nostra ragione, avendo bisogno di piú
altri sillogismi, e questi di piú altri in infinito, si arriva al non poter trovare verun principio né fondamento assoluto alla
nostra ragione, non potendo arrivare a un primo sillogismo che non abbia bisogno di piú altri. […]5
Collocandosi nel solco tracciato dalla nobile tradizione logica aristotelica, Leopardi delinea la sua
concezione di conoscenza razionale, basandola sulla struttura inferenziale dei sillogismi: una serie
di catene di proposizioni connesse tra loro mediante rapporti logici. Alcuni sillogismi fungono da
premesse per altri e consentono di trarre delle conclusioni che saranno a loro volta premesse per
catene inferenziali ulteriori. A differenza di Cartesio, per Leopardi il processo è infinito e non può
fondarsi in alcun modo su una conoscenza prima e assoluta, cioè su un sillogismo che sia
indipendente da tutti gli altri. Si tratta di una concezione olistica della conoscenza in cui la
complessità e l’infinità delle relazioni coinvolte nel processo cognitivo ne rendono impossibile una
chiarificazione analitica esaustiva. E’ sorprendente notare come questa teoria presenti molte affinità
con l’ermeneutica del filosofo americano C.S.Peirce e la sua semiosi infinita. L’impossibilità di
giungere a una conoscenza oggettiva rigorosamente razionale della realtà è implicitamente
contenuta nello stesso processo di pensiero, e nell’interminabile complesso di intrecci e di rimandi
3
Ivi, pp.70-71
Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Cartesio, Opere filosofiche, vol. 2, Laterza, Bari, 1986, p.21 e segg.
5
G.Leopardi, Zibaldone, op. cit., p.1772
4
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semantici che ogni concetto e ogni inferenza necessariamente comportano. Ma commetteremmo un
errore se pensassimo che Leopardi voglia limitare l’ambito della conoscenza (o della possibilità
della conoscenza) alla pura e vuota6 logica sillogistica, come avveniva ai tempi della scolastica
medievale. L’interessante lettura che F.Gallo, M.Biscuso e P.Zignani offrono del Dialogo di
Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez delle Operette morali7 ci consente di comprendere
chiaramente un altro aspetto dell’epistemologia leopardiana: le teorie prodotte dalla ragione
necessitano di una verificazione sul piano empirico. Una conoscenza, sia pur fallibile e suscettibile
di infinite correzioni ulteriori, potrà allora essere conseguita, in accordo con la più fulgida
tradizione scientifica, attraverso l’incontro della teoria con la prassi empirica, la formulazione di
ipotesi e il controllo della loro validità mediante l’esperienza: sperimentando cioè l’effettivo
verificarsi degli eventi fattuali predetti dalla teoria. Iniziamo a comprendere come la speculazione
leopardiana sfugga decisamente a una rigida classificazione negli schemi classici delle forme di
pensiero. Elementi di scetticismo convivono con altrettanti elementi di empirismo e
‘verificazionismo’.
Fin qui ci siamo limitati a considerare alcuni aspetti teoretici dello scetticismo, ma Leopardi è un
intellettuale interessato principalmente alla dimensione pratica (in senso aristotelico) della vita: alla
filosofia morale. Dobbiamo allora porci la domanda se sia possibile applicare i principi teorici dello
scetticismo leopardiano anche alla vita pratica, e nel contempo cercare di chiarire quale relazione
intercorre tra la sfera delle conoscenze e quella delle azioni, e quindi delle intenzioni, delle
disposizioni affettive ed emotive dell’esistenza umana. In linea di principio, dovremmo poter
rintracciare asserzioni di carattere scettico anche negli scritti di filosofia morale più rilevanti di
Leopardi: le Operette morali. In effetti possiamo ravvisare in quest’opera una certa vena scettica, un
gusto per il dubbio e l’incertezza, soprattutto nell’aporeticità di molti dialoghi e nel modo in cui le
proposizioni vengono ammantate di un’ambiguità, resa retoricamente efficace dall’uso dell’ironia e
del sarcasmo. Ma, se escludiamo la domanda provocatoria del Genio «Che cosa è il vero?» nel
Tasso8, non troviamo mai dei passi dal tono apertamente scettico. Lo scetticismo sembra annidarsi
nel tessuto stesso sul quale vengono intrecciate le trame delle Operette, sul quale l’autore costruisce
i suoi pensieri e i suoi dialoghi; sembra permeare i pori del testo, restando immerso in profondità,
senza mai affiorare realmente alla superficie. Uno scetticismo che rimane dunque sullo sfondo di
una rappresentazione allegorica e simbolica delle idee di Leopardi sulle questioni più importanti
della vita umana. Il dubbio dovrebbe aleggiare sopra ogni asserzione del filosofo, se i suoi propositi
fossero applicabili in ambito morale con metodo rigoroso, ma sappiamo che questo non avviene. Lo
6
Vuota perché eccessivamente formalistica e priva di contenuti reali.
M.Biscuso, F.Gallo, P.Zignani, «Lineamenti di una teoria alternativa della soggettività» in M.Biscuso, F.Gallo,
Leopardi antitaliano, Manifestolibri, Roma, 1999, pp.196-202
8
G.Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare in G.Leopardi, Operette morali, Mondadori, Milano,
1988, p.109
7
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‘scettico’ Leopardi sembra avere infatti delle profonde certezze riguardanti la vita umana. Ne
menzioniamo soltanto due fondamentali: l’infelicità necessaria dell’uomo (e dei viventi) e
l’impossibilità di dimenticare le verità filosofiche precedentemente acquisite.
Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è
vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso.9
Il male dei viventi, di cui parla Leopardi, l’infelicità, appartiene all’insieme delle verità necessarie,
ossia di quelle realtà che sono ed è impossibile che non siano. Prescindendo dalle varie
argomentazioni che il filosofo e poeta adduce nei suoi scritti per sostenere questa tesi, dobbiamo
evidentemente riconoscere che su questo argomento egli ha raggiunto una condizione di conoscenza
stabile e relativamente priva di dubbi. Come si concilia questa certezza con la dichiarazione di
scetticismo citata all’inizio? Apparentemente sono inconciliabili.
Io non ignoro che l’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare. Dal
che s’inferisce che la filosofia, primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare, non fa di bisogno esser
filosofo; secondariamente è dannosissima, perché quella ultima conclusione non vi s’impara se non alle proprie spese, e
imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute, e
deponendosi più facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare.10
La condanna della frequentazione della filosofia e della pratica della ricerca del vero è inesorabile.
E’ una condanna sostenuta da un punto di vista pragmatico: non è esecrabile la ricerca in sé, ma
sono le implicazioni pratiche della conoscenza delle verità a condurre l’uomo alla rovina, cioè alla
consapevolezza della propria infelicità, e a rendere detestabile l’indagine filosofica. Il sapere
acquisito non può essere dimenticato. Dunque esistono davvero delle conoscenze che si imprimono
profondamente nella coscienza, sfuggendo alla dialettica erosiva del dubbio? E quelle conoscenze
razionali, alle quali si giunge mediante una fase di studio e di ricerca, portatrici di sventure per la
specie umana, contengono in sé un riferimento implicito al metodo del dubitare? Per cercare di
trovare una risposta a questi interrogativi dobbiamo ritornare allo Zibaldone, ed esaminare il
rapporto tra conoscenza, credenza e azione.
[…]l’uomo credendo (non dico conoscendo ma credendo) diversamente, opera diversamente.11
In questo frammento sono contenuti indizi importanti per comprendere meglio il rapporto fra il
dominio teoretico e quello pratico. Leopardi sembra tracciare una linea di demarcazione tra le
9
G.Leopardi, Dialogo di Timandro e di Eleandro in Operette morali, op. cit., p.218
Ivi, p.221
11
G.Leopardi, Zibaldone, op.cit., pp.412-413
10
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conoscenze (teoretiche e razionali) da una parte, e le credenze e le azioni dall’altra. Le credenze
hanno il potere di condizionare le nostre azioni, di modificarne la condotta, di indurci ad agire o non
agire nelle varie situazioni in cui ci troviamo, hanno quindi un valore eminentemente pratico;
mentre le conoscenze non hanno un’influenza diretta sulle nostre azioni, si riferiscono alla sfera
della teoria e della ragione. Probabilmente un filosofo scettico ‘ortodosso’ contesterebbe questa
distinzione tra conoscenze e credenze, e ridurrebbe le prime a delle semplici credenze ritenute vere
o giustificate in base a dei criteri di coerenza e validità non assoluti. Ma Leopardi sente l’esigenza
di mantenere la separazione tra i piani semantici dei due concetti. Nei suoi testi, le credenze sono
chiamate significativamente ‘illusioni’ e corrispondono a quei valori religiosi, morali e politici che
vengono trasmessi al cittadino mediante l’educazione. Sono caratterizzate dall’assenza di un
rigoroso fondamento razionale, ma sono anche ritenute molto utili per formare una coscienza
morale nel soggetto, per rendere civile la convivenza tra gli uomini, per promuovere il rispetto
reciproco e per consentire alle persone di raggiungere una condizione di relativa felicità.
[…] l’uomo qual è ridotto, non può esser felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno
stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni, senza le quali non c’è felicità, ma
ch’essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all’uomo, come paiono agli altri viventi […].12
Tuttavia le conoscenze razionali non si limitano a risiedere nell’iperuranio platonico, lontane dal
contesto pratico in cui gli uomini operano concretamente. Hanno una forza ‘corrosiva’, perchè sono
in grado di far crollare le credenze più solide. Demolendo le illusioni, esse esercitano indirettamente
anche un’influenza sulla condotta umana. Possiamo affermare quindi che, in Leopardi, la sfera della
ragione e delle sue cognizioni può entrare in contatto con quella delle azioni umane non in maniera
diretta, ma passando attraverso la mediazione delle credenze: delle illusioni.
Prevalendo sempre più la ragione e il sapere, e scemando l’ignoranza parziale, quelle religioni più naturali e felici, ma
perciò appunto più rozze, non potevano più esser credute, né servire di fondamento a illusioni reali e stabili, alle azioni
che ne derivano, e quindi alla felicità. Le nazioni pertanto disingannandosi appoco appoco, perdevano colle illusioni
ogni vita.13
La perdita delle illusioni, per opera della ragione, conduce l’essere umano alla condizione di
infelicità.
Ed ecco il momento in cui comparve il Cristianesimo, cioè quel momento in cui l’eccessivo progresso della ragione e
del sapere, negando tutto o dubitando di tutto (perché tutto è veramente falso o dubbio senza la rivelazione), spegnendo
tutte le illusioni o credenze primitive, gettava l’uomo nell’inazione, nell’indifferenza, nell’egoismo (e quindi nella
12
13
G.Leopardi, Zibaldone, op.cit., p.411
Ivi, p.424
G.Iodice 6/9
malvagità); riduceva la vita affatto morta, e barbara di quella orrenda barbarie nella quale, in maggior grado però, siamo
caduti in questi ultimi secoli: quel momento in cui la virtù, l’eroismo, l’amor partio, l’amore scambievole ec. erano
considerati per quei fantasmi che sono (umanamente parlando): quel momento in cui per conseguenza erano rotti tutti i
legami sociali, e anche individuali […] quel momento in cui non solo le illusioni primitive, ma anche quelle che si
sviluppano naturalmente nell’uomo ridotto in società […] erano pure estinte: quel momento a cui forse si dee riferire il
maggior progresso della setta scettica o Pirroniana.14
Leopardi sta fornendo qui un’interpretazione storicistica dell’affermazione del cristianesimo sul
mondo greco-romano classico. La diffusione di una conoscenza eccessiva e di un uso spregiudicato
della ragione e del dubbio (dello scetticismo pirroniano insomma) hanno avuto conseguenze
disastrose sulla società; corrodendo le credenze antiche, ossia le illusioni, si sono propagate le
piaghe dell’inazione, dell’egoismo, della malvagità, della paralisi della volontà e della barbarie. La
religione cristiana si è potuta allora imporre, in quel periodo, sulla società grazie a un artificio
logico-epistemologico, ancor prima che metafisico; occupando cioè uno spazio prelogico entro il
quale la ragione non ha la possibilità di intervenire con una forma di giudizio, di inferenza, di
esperienza (o un qualunque altro suo mezzo di conoscenza della realtà), collocandosi al di là di
qualsiasi genere possibile di ragionamento umano: radicando le proprie credenze nella rivelazione,
nella teofania, nella manifestazione della Verità direttamente dalla voce e dagli atti di Dio. In tal
modo, la religione ha donato nuova vita alle illusioni tradizionali più utili alla società.
Rigenerandole, le ha poste al riparo dalla minaccia del dubbio teoretico, e le ha mutate in dogmi
necessariamente veri.
Non c’era altro mezzo se non che una nuova religione, ammessa e creduta per vera dalla ragione, e conforme ai lumi di
quel tempo: la qual religione tornasse a far la base delle illusioni perdute: (altrimenti a che valeva nel nostro caso?) in
maniera che queste ripigliassero l’aspetto stabile di verità agli occhi degli uomini. In somma bisognava che questa
religione, nuova base delle illusioni naturali e necessarie, fosse il parto della ragione e del sapere. O parlando
cristianamente, bisognava che una espressa rivelazione assicurasse la ragione, che quelle credenze ch’ella aveva
ripudiate, erano vere. Ecco dunque arrivata la necessità di una religione perfettamente ragionevole (cioè rivelata, perché
senza il fondamento della rivelazione, come può una perfetta ragione credere o tornare a credere quello che,
umanamente parlando, è veramente falso?)15
Non possiamo non notare tuttavia, nella domanda finale di Leopardi, una tipica espressione di uno
scetticismo profondo e radicale nei confronti dei fondamenti teologici, costretto però dalle
circostanze storico-sociali a retrocedere e inchinarsi di fronte al principio d’autorità supremo:
l’appello diretto alla divinità, al mistero metafisico impenetrabile dalle nostre facoltà intellettuali.
Ciò non significa che Leopardi intenda concedere un sostegno incondizionato alla religione
cristiana. In altre pagine dello Zibaldone, attribuisce proprio al cristianesimo la colpa di aver
14
15
Ivi, pp.426-427
Ivi, pp.425-426, sottolineatura nostra.
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peggiorato i costumi della società o di aver diffuso l’incredulità tra le persone, mediante le
complesse speculazioni teologico-metafisiche da un lato e l’ignoranza unita alla fede dall’altro.
[…] la barbarie cupa ed oscura, […] non proveniva solamente dall’ignoranza, ma da questa mescolata alla religion
cristiana. Se fosse stata una barbarie pagana, quella religione aperta, chiara, materiale, senza misteri, avrebbe dato a
quella ignoranza un colore più allegro […].16
Non è egli un paradosso che la Religion Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell’ateismo, o generalmente, della
incredulità religiosa? […] La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose, che esamina la natura, le nostre
immaginazioni, ed idee ec.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fonti della incredulità.17
Prendendo in considerazione queste pagine e altri suoi scritti18, si potrebbe avanzare l’ipotesi che
Leopardi non intenda perdonare alla fredda razionalità umana, sia essa di carattere filosoficoscientifico o di impianto teologico-religioso, la dimenticanza delle vere finalità verso cui dovrebbe
naturalmente tendere: il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani organizzati in
società, la ricerca di una pienezza di senso dell’esistenza su questa terra, il superamento dei volgari
conflitti, l’adesione a dei principi etici che sappiano restituire dignità all’individuo e alla comunità
in cui vive. Seguendo il modello teorico di Platone, la ragione dovrebbe dunque porsi al servizio
delle finalità pratiche e della ricerca di una condizione di benessere autentico per l’uomo. Ma forse
questa facoltà umana della speculazione razionale non è neppure in grado di assolvere pienamente
questo compito da sola. Leggiamo questo passo del Tristano per rendercene conto:
Il corpo è l’uomo; perché […] la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò
che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. […] L’educazione non si degna
di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il
corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito.19
La significativa condanna della spiritualizzazione dell’essere umano, prodotta da una lunga
tradizione pedagogica cattolica e conservatrice, pone in luce come la riduzione della persona alle
mere facoltà intellettive e spirituali, a discapito delle sua corporeità, comporti un allontanamento
dell’uomo dall’azione e dall’esperienza autentica della vita.20 Per Leopardi è dunque opportuno
16
Ivi, p.132
Ivi, pp.1059-1060
18
Pensiamo ad esempio al Dialogo della Natura e di un Islandese, dove Leopardi polemizza contro la tendenza di una
cerchia di intellettuali a rifiutare il contatto col mondo e rifugiarsi in un’ascetica condizione di assenza di dolori e di
stimoli, un regno di pura spiritualità e intellettualità disimpegnata: l’ideale antico dell’atarassia, dell’imperturbabilità.
19
G.Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in Operette morali, op.cit., p258
20
M.Biscuso, F.Gallo, P.Zignani, «Lineamenti di una teoria alternativa della soggettività» in M.Biscuso, F.Gallo,
Leopardi antitaliano, Manifestolibri, Roma, 1999, p.180
17
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ritornare a dare valore principalmente alle componenti corporee, emotive e affettive dell’esistenza
umana.
Qual cosa è più potente nell’uomo, la natura o la ragione? Il filosofo non vive mai né pensa giornalmente, e intorno a
ciò che lo riguarda, né vive con se stesso (se anche vivesse cogli altri) da vero filosofo; […] Egli è sempre più o meno
soggetto a ricardere in tutte le stravagantissime illusioni dell’amore, ch’egli ha conosciuto e sperimentato ipossibile,
immaginario, vano. Non v’è uomo così profondamente persuaso della nullità delle cose, della certa e inevitabile miseria
umana, il cui cuore non si apra all’allegrezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto più vana) alle speranze le più
dolci, ai sogni più frivoli, se la fortuna gli sorride un momento[…]. Anzi basta un vero nulla per far credere
immediatamente al più profondo e sperimentato filosofo, che il mondo sia qualche cosa.21
Si profila allora un’ulteriore forma di conoscenza, per nulla misteriosa, ma più profonda rispetto
alla razionalità. Una forma di sapere radicata nella dimensione corporea, affettiva ed empatica dello
stare al mondo dell’uomo.
Basta una parola, uno sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca importanza
faccia all’uomo il più immerso nella disperazione della felicità, e nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle
speranze, e cogli errori.[…] Un menomo bene inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorché
piccolissimo, basta a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente.22
In questa immagine dell’incontro e del riconoscimento reciproco di due esseri umani è
emblematicamente rappresentata una diversa modalità di entrare in contatto con il mondo naturale e
sociale, ridefinendo le categorie tradizionali della conoscenza. Il gesto, lo sguardo, l’espressione del
viso, la voce, il riso, il pianto, gli stati d’animo, le tonalità affettive personali ed altrui finiscono per
costituire un universo di senso assolutamente pregnante per il soggetto conoscente, e si impongono
con un’evidenza che sfugge a qualsiasi tentativo di oggettivazione razionale o di revocazione in
dubbio. Ecco allora delinearsi una risposta ai nostri interrogativi precedenti. Se nell’ambito della
lucida speculazione teoretica Leopardi può definirsi davvero uno scettico, nell’ambito della vita
pratica e delle sue implicazioni emotive, affettive e corporee, lo scetticismo deve cedere il passo a
dei criteri di verità più solidi, perché radicati nella dimensione stessa dell’esistenza umana e della
relazione dell’uomo con il mondo cui appartiene.
Bibliografia
21
22
Ivi, pp.1651-1652
Ivi, pp.1652
G.Iodice 9/9
G.Leopardi, Zibaldone di pensieri, Garzanti, Milano, 1991.
G.Leopardi, Operette morali, Mondadori, Milano, 1988
F.Gallo, «Una scrittura militante, prospettive di lettura della comunicazione filosofica delle operette
morali» in M.Biscuso, F.Gallo, Leopardi antitaliano, Manifestolibri, Roma, 1999.
M.Biscuso, F.Gallo, P.Zignani, «Lineamenti di una teoria alternativa della soggettività» in
M.Biscuso, F.Gallo, Leopardi antitaliano, Manifestolibri, Roma, 1999.
A.Vigorelli, Il disgusto del tempo. La noia come tonalità affettiva, Guerini&Associati, Milano,
2009.
A.Negri, «Il riso di Nietzsche e il riso di Leopardi» in Il riso leopardiano. Comico, satira, parodia.
Atti del IX Convegno internazionale di studi leopardiani. Leo S.Olschki editore, Firenze, 1995
U.Dotti, «Riflessioni sul comico e sull’ironia leopardiana» in Il riso leopardiano. Comico, satira,
parodia. Atti del IX Convegno internazionale di studi leopardiani. Leo S.Olschki editore, Firenze,
1995
G.Leopardi, Discorso sopra lo stato presente de’ costumi degl’Italiani, Feltrinelli, Milano, 1991.
Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Cartesio, Opere filosofiche, vol. 2, Laterza, Bari, 1986.