LA RESPONSABILITA’ DEL MEDICO E DELLA STRUTTURA SANITARIA Con particolare riferimento alla responsabilità per errata diagnosi prenatale Parte prima Nell’ambito dell’esercizio dell’attività medica è possibile discernere la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria da quella cui è chiamato a rispondere il singolo medico. L’evoluzione giurisprudenziale in materia ha visto il passaggio da un sistema cd a doppio binario, nel quale alla responsabilità della struttura sanitaria si riconosceva natura contrattuale, mentre a quella del medico si attribuiva natura aquiliana, ad un sistema che, al contrario, afferma la natura contrattuale sia della responsabilità della struttura sanitaria, sia di quella del medico. Con riferimento al primo tipo di responsabilità, la giurisprudenza di legittimità è oramai costante nell’inquadrare la responsabilità della struttura sanitaria nell’alveo della responsabilità contrattuale sull’assunto secondo cui l’accettazione del paziente in ospedale, comporta la conclusione di un contratto atipico a prestazioni corrispettive in forza del quale la struttura sanitaria si obbliga non solo a fornire la prestazione delle cure mediche chirurgiche, ma anche una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico e paramedico, medicinali, di macchinari sanitari, nonché la fornitura di prestazioni latu sensu alberghiere. In virtù di tale rapporto, la struttura sanitaria è tenuta a rispondere in via diretta secondo le regole di cui all’art. 1218 c.c. per il cd danno da disorganizzazione, ossia quel danno dovuto a causa di deficienze organizzative, di dotazioni tecniche o per il mal funzionamento delle apparecchiature. Tale responsabilità si configura come una responsabilità autonoma della struttura sanitaria, in quanto prescinde dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori trovando, invece, la propria fonte nell’inadempimento di obbligazioni direttamente riferibili all’ente. Per quanto concerne invece la prestazione principale, ossia quella medica in senso stretto, l’ente è chiamato a rispondere per fatto del dipendente, sulla base di quanto disposto dall’art. 1228 c.c., non assumendo comunque rilievo lo status giuridico del medico in relazione alla struttura sanitaria, posto che si prescinde dalla sussistenza in ipotesi di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato che leghi il primo alla seconda. Quanto al profilo della responsabilità del singolo medico, dottrina e giurisprudenza oramai consolidate concordano nel ritenere che essa abbia carattere contrattuale e non extracontrattuale. Sul punto occorre rilevare come la giurisprudenza meno recente, stante l’assenza di un vero e proprio rapporto contrattuale tra paziente e medico, attribuisse a quest’ultimo una responsabilità di tipo aquiliano, con il conseguente importante corollario in punto probatorio, di investire il paziente dell’onere di provare la colpa del sanitario. Più di recente, invece, a partire dal leading case costituito dalla sentenza Cass. n. 589/1999, la dottrina e la giurisprudenza attualmente dominante ricostruiscono in termini contrattuali il rapporto intercorrente tra medico e paziente e ciò in virtù del cd contatto sociale che si instaura tra questi ultimi al momento dell’accettazione del paziente e della presa in carico da parte del sanitario accettante. In altre parole, la relazione medico – paziente pur in assenza di un legame di tipo negoziale, è caratterizzata dall’essere fondata su un rapporto di tipo qualificato che genera in capo al sanitario una serie di obblighi di comportamento di varia natura nei confronti del paziente, definiti obblighi di protezione. Più in particolare, occorre precisare come tale fattispecie risulti riconducibile alla categoria dei cc.dd rapporti contrattuali di fatto ex art. 1173 c.c., laddove si prevede che le obbligazioni possano derivare anche da "ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico". A ben vedere infatti, l’inclusione della professione medica tra quelle cc.dd protette, per le quali cioè si richiede una speciale abilitazione, unitamente all’affidamento conseguentemente riposto dal paziente sulla professionalità del sanitario, si traduce concretamente in una serie di obblighi di comportamento nei confronti di chi, pur in assenza di un contratto, entra in contatto col medico e risulta pertanto, parte di un rapporto qualificato. Dalla natura contrattuale deriva altresì, un mutamento nel regime giuridico della responsabilità in esame. In tema di riparto dell’onere probatorio infatti, in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c., il paziente - creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità. Al medico, invece, presunta la colpa, incombe ex adverso la prova liberatoria dell’assenza della stessa. Parte seconda Recentemente, l’evoluzione della giurisprudenza in materia di responsabilità medica ha interessato il tema del cd danno da nascita indesiderata, ossia il danno lamentato dalla gestante la quale, a causa della mancata rilevazione di patologie del feto da parte del medico durante la gestazione, abbia perso la possibilità di interrompere la gravidanza. La portata più innovativa della riflessione giurisprudenziale ha condotto ad un’estensione dell’area di legittimazione attiva a far valere pretese risarcitorie avverso l’operato del sanitario, includendo in tale area anche il padre, i fratelli, le sorelle del bambino nato malformato nonché, lo stesso soggetto nato con malformazioni congenite. Al fine di una corretta disamina della questione, occorre in primo luogo soffermarsi sulla particolare natura del contratto che viene posto in essere nell’ambito della diagnosi prenatale, ossia il contratto di consulenza genetica prenatale, stipulato tra la gestante e la struttura sanitaria al fine di porre in essere tutti i necessaria accertamenti utili a diagnosticare eventuali malformazioni del feto. In virtù dell’impegno assunto con tale contratto, il medico ginecologo è tenuto ad una completa informazione su tutte le possibili indagini diagnostiche e sulle percentuali di false negatività offerte dai test prescelti, onde consentire alla gestante una conduzione consapevole del proprio stato. L’obbligazione del medico così descritta trova il suo fondamento nei principi espressi dalla legge n. 194/78 la quale, ai fini di un esercizio consapevole del diritto ad una procreazione responsabile, afferma la necessità che la gestante sia informata di ogni circostanza idonea ad influire sulla decisione di interrompere o meno la gravidanza. Alla luce delle suesposte considerazioni, si ritiene che il danno derivante dall’inadempimento del contratto di consulenza genetica prenatale risieda nella lesione del diritto della gestante ad autodeterminarsi in modo libero e consapevole in ordine alla prosecuzione o all’interruzione della gravidanza, co- sicchè la gestante risulta legittimata a far valere in giudizio il diritto al risarcimento del danno per inadempimento alla richiesta di diagnosi, sì come funzionale all’interruzione della gravidanza in caso di positivo accertamento di malformazioni. Occorre a questo punto rilevare come in tema di responsabilità del sanitario per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata, la più recente giurisprudenza (Cass. Civ. n.16754/2012) si sia pronunciata in favore dell’estensione di tale responsabilità, oltre che nei confronti della madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre, ai fratelli e alle sorelle del neonato, in quanto soggetti rientranti nell’area di protezione del rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta. Sotto quest’ultimo profilo in passato la giurisprudenza di legittimità negava una tale legittimazione sul rilievo di due argomenti. In particolare, sulla base del principio di relatività degli effetti del contratto consacrato all’art. 1372 c.c., si escludeva in linea di principio che quest’ultimo potesse riverberare i propri effetti su soggetti terzi se non nei casi previsti dalla legge. Inoltre, secondo tale indirizzo, difettava nei confronti del padre il nesso di causalità, in quanto quest’ultimo, soggetto terzo del rapporto, subiva un danno mediato ed indiretto, e pertanto inidoneo a determinare la nascita di una pretesa risarcitoria ex art. 1223 c.c.. L’evoluzione giurisprudenziale più recente ha abbandonato tale orientamento, ammettendo un’estensione della legittimazione ad agire in giudizio al fine di avanzare pretese creditorie, sul rilievo della particolare natura del contratto stipulato tra medico e gestante, caratterizzato dall’essere contratto con effetti protettivi nei confronti di terzi o contratto di protezione il quale, pertanto, configurando un’ eccezione al principio di relatività degli effetti contrattuali, rientra a pieno titolo tra quei “casi previsti dalla legge” di cui all’art. 1372 c.c. In virtù del contratto di consulenza diagnostica prenatale infatti, la prestazione è destinata a riverberare i propri effetti su soggetti terzi, rientranti nell’area di protezione del contratto poichè legati da un rapporto di vicinanza qualificata o proximity con la persona parte del contratto. Corollario di tale nuova ricostruzione è che un eventuale inadempimento del contratto, in virtù del principio di propagazione degli effetti diacronici dell’illecito, coinvolgerà anche tali soggetti, i quali risulteranno pertanto legittimati ad agire in giudizio per chiedere ristoro. Un punto assai dibattuto attiene infine, alla possibilità anche per il soggetto nato malformato di proporre istanza risarcitoria iure proprio. Parte della giurisprudenza negava l’ammissibilità di una tale tutela sulla base di un preciso iter argomentativo. Si riteneva infatti, che il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, fosse comunque un soggetto di diritto, poiché titolare di molteplici interessi riconosciuti meritevoli di tutela, quali il diritto alla vita, all’onore, all’identità personale, a nascere sano, per l’azionabilità dei quali era necessario l’avverarsi della condicio iuris costituita dall’evento nascita. (Cass. n. 10741/2009). Tuttavia, se tra i diritti di cui era titolare il nascituro era ricompreso quello a nascere sano, non così poteva dirsi del diritto a non nascere se non sano. Si negava dunque, la possibilità al bambino nato con malformazioni genetiche a causa di errata diagnosi prenatale, di poter agire per il risarcimento del danno, poiché si riteneva che ciò avrebbe aperto la strada al cd aborto eugenetico, vietato nel nostro ordinamento. Di recente, la Cassazione è intervenuta sull’argomento ribaltando il precedente orientamento. In particolare, la Suprema Corte, ripudiando la categoria della soggettività giuridica e riconducendo la questione alle regole della responsabilità civile e alla disciplina della propagazione degli effetti diacronici dell’illecito, ha incluso anche il soggetto nato malformato a causa di omessa o errata diagnosi medica prenatale tra i soggetti legittimati ad agire giudizialmente poiché è anche (e soprattutto) nei confronti di quest’ultimo che si propagano gli effetti dannosi derivanti dall’inadempimento del sanitario. Una precisazione tuttavia, merita di essere menzionata. Bisogna sottolineare che il soggetto che agisce in giudizio non si duole dell’essere nato, il vulnus lamentato da parte del minore malformato non risiede cioè nella malformazione in sé considerata, bensì nello stato funzionale di infermità, in cui è soggetto a vivere e che una condotta diligente ed incolpevole del medico, avrebbe permesso di evitare. L’interesse giuridicamente protetto è dunque quello di alleviare sul piano risarcitorio la propria condizione di vita, essendo in tal caso la funzione del risarcimento del danno non quella di compensare una vita che non era degna di essere vissuta a causa delle malformazioni, quanto quella di consentire al soggetto più direttamente coinvolto nella vicenda, una vita meno disagevole. Quanto infine, al profilo attinente all’individuazione del nesso di causalità e al problema del riparto dell’onere probatorio, viene in rilievo come la responsabilità del medico per errata diagnosi prenatale possa essere ricostruita secondo le regole proprie degli illeciti omissivi, ossia mediante un procedimento di tipo ipotetico, trattandosi di considerare cosa sarebbe accaduto se il medico avesse tenuto la condotta doverosa. Secondo un primo indirizzo, graverebbe sulla gestante l’onere di provare il nesso di causa tra l’omessa informazione del medico e la nascita indesiderata, dimostrando così che se avesse saputo delle malformazioni, avrebbe abortito. Tuttavia, tale onere era stato notevolmente assottigliato in via di fatto dalla giurisprudenza, mediante un ampio ricorso alle presunzioni: la richiesta da parte della gestante di essere sottoposta ad un esame diagnostico per verificare l’esistenza di eventuali malformazioni del feto, unitamente alla gravità delle malformazioni poi riscontrate nel neonato, avrebbero dovuto far ritenere al giudice, nel caso di positività della diagnosi di malformazioni, che la gestante non avrebbe condotto a termine la gravidanza. Recentemente, la Cassazione con sentenza n. 7269/2013, pur confermando che in ogni caso grava sulla gestante la prova del fatto che se fosse stata informata delle malformazioni, avrebbe interrotto la gravidanza, tuttavia, si precisa che tale prova non possa essere desunta dal solo fatto di avere chiesto di essere sottoposta ad esami volti ad accertare l’esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta costituisce solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità.