TROMBOFILIE CONGENITE E ACQUISITE Pier Mannuccio Mannucci Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Milano e Centro Emofilia e Trombosi Angelo Bianchi Bonomi, IRCCS Ospedale Maggiore di Milano Corrispondenza a: P.M. Mannucci Via Pace 9 20122 Milano Tel. 02/55035421 Fax 02/5516093 e-mail: [email protected] 1 Lo scopo di questa rassegna è quello di definire le sindromi note come stati trombofilici, tracciare la sequenza delle conoscenze che hanno portato ad individuarne sempre meglio le basi biochimiche e genetiche e descrivere brevemente quanto di esse deve essere conosciuto dall’ematologo. DEFINIZIONE DEGLI STATI TROMBOFILICI Viene definita trombofilia la tendenza, determinata da cause congenite o acquisite, al tromboembolismo venoso e/o arterioso, che tipicamente è caratterizzata e dalla comparsa di manifestazioni cliniche anche in età giovanile (prima di 40-45 anni), senza cause apparenti e con la tendenza a recidivare. Va sottolineato che l’esistenza di uno stato trombofilico non esprime necessariamente la presenza continua di manifestazioni cliniche trombotiche. Anche se il concetto di trombofilia implica l’alterazione dell’equilibrio del sistema emostatico verso la trombogenesi, vi sono numerosi meccanismi compensatori che rendono episodica la trombosi. Affinché questi meccanismi si alterino e si sviluppi quindi la trombosi, è in genere necessario che più di un fattore trombofilico coesista. Come infatti vedremo alcuni fattori trombofilici, specie quelli congeniti, sono frequenti nella popolazione generale, e vi è quindi un’elevata possibilità che coesistano fra di loro o con i fattori trombofilici acquisiti, rompendo così l’equilibrio emostatico e portando alle manifestazioni cliniche. Le Tabella 1 e 2 elencano le principali cause di trombofilia. Esse sono state divise in congenite e acquisite, anche se come si è visto questa distinzione è semplicistica, nella misura in cui le manifestazioni trombotiche sono spesso il risultato dell’interazione di fattori trombofilici appartenenti ad ambedue le categorie. Questa rassegna si limiterà a trattare gli stati trombofilici legati a cause congenite e, fra quelli acquisiti, la sindrome da anticorpi antifosfolipidi. Questa scelta è basata sul fatto che oltre a essere complessivamente più frequenti, queste due tipi di stati trombofilici sono quelli in cui si sono registrati maggiori progressi nelle nostre conoscenze negli ultimi dieci anni. 1. LE TROMBOFILIE CONGENITE La prima causa di trombofilia congenita, la carenza congenita di antitrombina, è stata descritta nel 1965 in Norvegia in una famiglia caratterizzata dalla comparsa di trombosi venose ed embolie polmonari che tendevano a recidivare in giovani di ambedue i sessi. Si è dovuto attendere 16 anni per individuare altre cause. Nel 1981 e poi nel 1984 negli Stati Uniti sono state individuate la carenza di proteina C e la carenza di proteina S, trasmesse con modalità autosomica dominante come la carenza di antitrombina. Più recentemente, gruppi Svedesi, Olandesi e Italiani hanno dimostrato che ben 30-50% dei casi di trombofilia congenita erano associati alla resistenza plasmatica all’azione anticoagulante della proteina C attivata, determinata dalla mutazione Arg506Gln nel gene del fattore V (generalmente conosciuta come fattore V Leiden dalla città dove è stata descritta). Un altro fattore di ipercoagulabilità, che si è successivamente aggiunto alle cause di trombofilia congenita è una mutazione puntiforme della protrombina che spiega 10-20% dei casi. Infine, una causa importante e frequente di trombofilia è l’iperomocisteinemia, che è una frequente causa congenita e acquisita di 2 tromboembolismo arterioso e venoso giovanile. Viene riportata alla fine del testo una bibliografia essenziale, fatta prevalentemente di rassegne, a cui il lettore si può riferire per maggiori dettagli e per ulteriori approfondimenti sulle trombofilie congenite 1-7. LE BASI BIOCHIMICHE E MOLECOLARI Carenze di anticoagulanti naturali. La frequenza della carenza di antitrombina nella popolazione generale è stimata intorno a 1:2,000-1:5,000. La trasmissione del difetto è autosomica dominante. La maggiore parte dei soggetti sono eterozigoti, con livelli plasmatici di antitrombina fra 40% e 70% del normale (vedi in seguito).Quasi cento diverse mutazioni sono state identificate come basi genetiche della carenza. In genere, le mutazioni sono tali da impedire la sintesi della proteina da parte dell’allele mutato, come delezioni, inserzioni e mutazioni nonsense. Vi sono anche mutazioni missense che non arrestano la sintesi della proteina ma producono alterazioni nella sua conformazione e stabilità. La frequenza della carenza di proteina C nella popolazione generale è di 1:5001:700. Circa 200 mutazioni sono state finora identificate. Sono frequenti le mutazioni che arrestano la sintesi della proteina (frameshift, nonsense, delezioni), ma vi sono anche singole sostituzioni aminoacidiche che evidentemente alterano il corretto dimensionamento della proteina e la rendono più instabile. Non vi sono dati sulla frequenza della carenza di proteina S nella popolazione generale. Finora, le mutazioni identificate non raggiungono il numero di cento (singole sostituzioni aminoacidiche, inserzioni, delezioni). Fattore V e protrombina. La maggior parte dei casi di resistenza alla proteina C attivata è associata a una sostituzione nucleotidica del gene del fattore V sito nel cromosoma 1 (G1691A), che porta alla sostituzione di arginina in posizione 506 con glutamina. Questa mutazione diversamente dalle carenze degli anticoagulanti naturali determina un eccesso di funzione coagulante del fattore V. E’ assai frequente nella popolazione generale Europea e Nord Americana di origine Caucasica, con un gradiente dal Nord al Sud fra 10-15% in alcune regioni della Svezia, 2-3% nell’Italia Settentrionale, fino a 1% nell’Italia Meridionale. La trasmissione della mutazione è autosomica dominante. La sostituzione nucleotidica di guanina con adenosina nella posizione 20210 della regione 3’ non codificante del gene della protrombina ha una frequenza nella popolazione generale assai alta e tipica di un polimorfismo (0.3-4%), con un gradiente di frequenza geografica che appare inverso a quello del fattore V Leiden (più frequente nel Sud Europa che nel Nord).Anch’essa determina un eccesso di funzione della protrombina, con aumento dei livelli plasmatici. I portatori della mutazione hanno un aumento del rischio di tromboembolismo venoso che varia da 2 a 7 volte quello dei controlli senza la mutazione, rischio simile o leggermente inferiore a quello riscontrato per il fattore V mutato. Iperomocisteinemia. L’omocisteina è un aminoacido sulforato presente nel plasma dell’individuo normale in concentrazioni variabili fra 5 e 15 µmol/L. Nel metabolismo dell’omocisteina sono coinvolti tre enzimi: la metilenetetraidrofolato reduttasi, enzima chiave nel ciclo dell’acido folico, la metionina sintetasi il cui coenzima è la vitamina B12 e la cistationina-β-sintetasi, che utilizza come cofattore enzimatico la vitamina B6. La carenza o anormalità funzionale di questi enzimi e/o la carenza acquisita di cofattori vitaminici determina un difettoso metabolismo dell’aminoacido e quindi il suo accumulo 3 nel plasma in elevate concentrazioni, che determinano uno stato trombofilico con meccanismi non completamente noti. 4 MANIFESTAZIONI CLINICHE Il più importante determinante della gravità e variabilità dei sintomi è lo stato di omozigosi o di eterozigosi per l’allele mutato, che verranno quindi trattate separatamente. Negli eterozigoti. Il sintomo più frequente è la trombosi venosa delle vene profonde degli arti inferiori, che rappresenta circa il 90% di tutti gli episodi. La trombosi delle vene degli arti superiori, invece, non è sintomo tipico delle trombofilie congenite e quando si manifesta bisogna ricercare altre cause, spesso di natura locale. Altre trombosi delle vene cerebrali o addominali sono più rare (5% di tutti gli episodi) ma di ben maggiore gravità clinica. La tromboflebite superficiale costituisce il rimanente 5% di tutti i sintomi. Anche se circa metà degli episodi trombotici si sviluppano apparentemente in maniera spontanea negli individui eterozigoti, nell’altra metà dei casi si devono ricercare e si possono riconoscere delle concause contingenti. Fra queste, le più importanti sono senz’altro la gravidanza/puerperio e l’assunzione di contraccettivi estroprogestinici. Lo sviluppo di manifestazioni trombotiche durante la gravidanza/puerperio sembra essere più frequente nelle donne carenti di antitrombina (31-44%), che in quelle con gli altri difetti, incluso la mutazione del fattore V (10-28%).Il maggior rischio trombotico determinato dell’assunzione di contraccettivi è stato ben documentato per tutti i difetti ereditari, ma è stato particolarmente ben studiato nelle donne portatrici di mutazioni del fattore V e della protrombina. Queste mutazioni aumentano di 6-10 volte il rischio di sviluppare trombosi delle vene profonde della gamba rispetto alle donne che assumono la pillola senza avere un difetto trombofilico, che a loro volta hanno un rischio trombotico da 4 a 6 volte superiore di donne che non usano la pillola e che non sono portatrici di alterazioni trombofiliche. Un’altra concausa contingente per lo sviluppo di trombosi negli individui con trombofilia ereditaria è l’intervento chirurgico. Un’analisi retrospettiva condotta in Italia in una numerosa casistica di individui con carenze degli anticoagulanti naturali ha dimostrato un’alta frequenza di trombosi venosa dopo chirurgia addominale (21%) e dopo chirurgia ortopedica e oncologica ad alto rischio (37%). Queste frequenze rilevate sono ben più alte di quelle attese, indicando un’interazione fra i difetti trombofilici e la chirurgia nel determinare un elevato rischio di trombosi. Fra le concause dello sviluppo di manifestazioni trombotiche, ve ne sono anche di permanenti, come la presenza concomitante di più di un difetto genico. Questa interazione non è rara, se si considera la frequenza nella popolazione generale di difetti come le mutazioni dei fattori V e protrombina e dell’iperomocisteinemia moderata. Negli omozigoti. Nei difetti genetici degli anticoagulanti naturali, la relativa rarità degli alleli mutati rendono assai poco frequenti i casi di omozigosi. L’omozigosi per la carenza di antitrombina sembra essere incompatibile con la vita, salvo che per la varianti con difettoso legame all’eparina, che sopravvivono ma presentano una grave tendenza trombotica. Le omozigosi per la carenza di proteina C e proteina S sono state descritte con maggiore frequenza, caratterizzate da gravi manifestazioni neonatali di necrosi ischemica di molti organi viscerali, cute e sottocutaneo (purpura fulminans). L’elevata frequenza nella popolazione generale delle mutazioni del fattore V e della protrombina fa sì che le condizioni di omozigosi siano assai più frequenti che per i difetti degli anticoagulanti naturali. Sulla base della frequenza degli alleli mutanti si può calcolare che nella popolazione generale Italiana 1:4,000-5,000 individui sia omozigote. Per 5 il fattore V, il rischio trombotico è stimato essere 11 volte superiore a quello degli eterozigoti e 90 volte quello della popolazione senza mutazione. Negli omozigoti il rischio di sviluppare trombosi prima di 33 anni è doppio che negli eterozigoti (40% contro 20%). Alterazioni trombofiliche e trombosi arteriosa. Per quanto riguarda il tromboembolismo arterioso, l’unico difetto trombofilico congenito associato con certezza a un aumentato rischio è l’iperomocisteinemia moderata. In molti casi, l’iperomocisteinemia sembra essere acquisita e legata a carenze dietetiche, soprattutto negli anziani. E’ assai meno chiaro se i rimanenti difetti congeniti siano fattori di rischio di trombosi arteriosa, perchè i dati sono contrastanti. Anche se alcuni studi sembrano dimostrare un ruolo patogenetico delle mutazioni del fattore V e della protrombina, soprattutto nelle giovani donne con fattori di rischio contingenti come il fumo, altri dati sono negativi o più spesso semplicemente inconclusivi per il numero relativamente basso di individui studiati. 6 DIAGNOSI DI LABORATORIO Lo scopo dell’indagine di laboratorio è di identificare accuratamente la presenza di uno o più dei difetti noti per essere causa di trombofilia congenita. Verrà discusso soprattutto il problema di chi deve essere sottoposto all’indagine e quando; inoltre, quali prove di laboratorio sono necessarie per la diagnosi e dove dovrebbero essere eseguite. Chi e quando. Sono chiaramente da indagare individui che hanno una storia famigliare di trombosi venosa. Altri fattori che indicano l’indagine sono l’età giovanile della comparsa del primo sintomo trombotico (meno di 40-45 anni), la ricorrenza e anche il suo manifestarsi in sedi inusuali (come nelle vene cerebrali, mesenteriche, portali). Manifestazioni trombotiche nel periodo neonatale sono un’altra indicazione per l’indagine, soprattutto per identificare eventuali omozigosi per la carenza di proteina C. Vi sono situazioni cliniche in cui non è opportuno eseguire l’indagine, come per esempio quando la trombosi venosa compare in età adulta o senile, soprattutto se si vi è una causa contingente di trombosi come la chirurgia, un tumore, l’immobilizzazione prolungata. In questi casi, la conoscenza dell’esistenza o meno di una causa congenita di trombofilia non cambia l’approccio terapeutico. Inoltre, le prove diagnostiche di trombofilia non vanno eseguite in individui sani senza storia personale o famigliare di trombosi venosa quando essi siano esposti elettivamente a fattori di rischio trombotici contingenti, come per esempio la gravidanza, la chirurgia ortopedica ad alto rischio e la prolungata immobilizzazione. Lo stesso consiglio di non eseguire le indagini di laboratorio indiscriminatamente vale anche per le donne che assumono i contraccettivi orali, anche per mutazioni frequenti nella popolazione generale come quelle del fattore V e della protrombina. La loro ricerca indiscriminata non è infatti giustificata dal rapporto costo-beneficio. Lo studio di laboratorio è invece fortemente raccomandato nei famigliari anche asintomatici dei casi indice già diagnosticati, perchè possono beneficiare della instaurazione di profilassi antitrombotica in occasione di esposizione a rischi contingenti di trombosi (vedi in seguito). Quali e dove. Le prove di laboratorio scelte per stabilire una diagnosi di trombofilia ereditaria dovrebbero essere specifiche, limitate nel numero e ben correlate al problema clinico. In realtà, non esistono una o più semplici prove di laboratorio globali che permettano di confermare o escludere tale diagnosi. Quelle attualmente disponibili sono molteplici, laboriose e piuttosto costose. Per questi motivi, vanno eseguite solo in individui a rischio. LINEE DI GUIDA TERAPEUTICHE La terapia delle trombofilie congenite comprende la prevenzione primaria delle manifestazioni cliniche in portatori di difetti ma ancora asintomatici, la prevenzione secondaria delle recidive in portatori dei difetti che hanno già avuto un episodio trombotico e naturalmente la terapia degli episodi trombotici acuti. Profilassi primaria. Come abbiamo visto, circa il 30-40% degli individui con difetti degli anticoagulanti naturali non sviluppano mai manifestazioni cliniche nel corso della loro vita. La percentuale di pazienti che rimangono senza trombosi è sicuramente più alta per difetti come le mutazioni dei fattori V e II e l’iperomocisteinemia, come risulta chiaramente dall’osservazione di centenari portatori sani della mutazione del fattore V. 7 Inoltre, la durata della vita degli individui con carenza di proteina C e antitrombina non è diversa da quella della popolazione generale. Né si può identificare in alcun modo chi è destinato ad avere un episodio trombotico da chi rimarrà asintomatico. Per tutti questi motivi la profilassi a vita con farmaci anticoagulanti non è giustificata nei portatori asintomatici dei difetti trombofilici, poiché il rischio emorragico legato a questi farmaci è superiore al rischio trombotico, e per il costo del controllo di laboratorio della terapia. D’altre parte, la profilassi anticoagulante è chiaramente consigliabile quando un portatore asintomatico viene esposto a fattori di rischio contingenti (come chirurgia, prolungato allettamento e gravidanza/puerperio). Consigliata dunque la profilassi in questi casi, il problema seguente è se sono sufficienti i farmaci e i dosaggi consigliati in individui senza difetti trombofilici esposti agli stessi fattori di rischio contingenti, o se invece è necessaria una profilassi più intensa in questi individui ad alto rischio per la loro ipercoagulabilità di base. Le dosi profilattiche comunemente usate di eparina non frazionata o a basso peso molecolare sembrano essere efficaci anche in questi individui. Naturalmente, la terapia standard va potenziata quando questi individui sono sottoposti a interventi chirurgici considerati a rischio trombotico particolarmente elevato (chirurgia ortopedica, chirurgia dei tumori). Vanno considerate situazioni contingenti ad alto rischio trombotico anche la gravidanza e soprattutto il periodo puerperale per almeno quattro settimane dopo il parto, soprattutto nei pazienti con carenza di antitrombina. Per questi motivi, raccomandiamo durante tutta la gravidanza la profilassi con eparina sottocutanea con le stesse dosi raccomandate per la chirurgia maggiore a rischio basso o moderato. Nel puerperio, è opportuno potenziare tale terapia, impiegando gli stessi schemi che si consigliano per la chirurgia ortopedica ed oncologica ad alto rischio. Profilassi secondaria. Come comportasi in un paziente che ha già avuto una manifestazione trombotica e in cui è stato riscontrato il difetto trombofilico? Anche qui, non vi sono studi conclusivi atti a dare risposte specifiche per questi pazienti rispetto a quelli senza difetti. Con queste incertezze sul ruolo della trombofilia nel facilitare la recidiva di trombosi, le raccomandazioni di gruppi esperti sono di eseguire la terapia anticoagulante per 3-6 mesi dopo l’episodio acuto, come del resto si farebbe in pazienti non trombofilici. In gruppi specifici di pazienti considerati a rischio particolarmente elevato, viene raccomandata la terapia anticoagulante a vita. Appartengono senz’altro a questo gruppo coloro che hanno avuto più di un episodio trombotico. Un discorso a parte, sia in termini di prevenzione primaria che secondaria, va fatto quando viene diagnosticata l’iperomocisteinemia. La somministrazione giornaliera di dosi relativamente basse di acido folico, associato o meno alle altre due vitamine coinvolte nel metabolismo della omocisteina (vitamina B6, vitamina B12), riduce i livelli plasmatici dell’aminoacido, con basso costo e nessun effetto collaterale per il paziente. Le dosi supplementari giornaliere di queste vitamine che sono raccomandate sono 0.5 mg di acido folico, 0.5 mg di vitamina B12 e 50 mg di piridossina. Trattamento degli episodi trombotici acuti. Il trattamento raccomandato del tromboembolismo venoso in fase acuta è lo stesso che viene raccomandato in pazienti con tromboembolismo venoso senza difetti trombofilici. Rimandando per maggiore dettagli alle linee di guida della Società Italiana per lo Studio dell’Emostasi e della Trombosi (http://www.airon.it/siset). Ricordiamo che è utile iniziare con eparina non frazionata o a basso peso molecolare combinato subito con anticoagulanti orali, sospendendo il primo trattamento quando viene raggiunto il range terapeutico con il secondo. Non vi è motivo attualmente per raccomandare un intervallo terapeutico diverso da quello raccomandato 8 usualmente, cioè INR fra 2.0 e 3.0. Per la durata ottimale della terapia anticoagulante, vedere in precedenza. 2. LA SINDROME DA ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI La sindrome da anticorpi antifosfolipidi è caratterizzata dalla presenza di manifestazioni trombotiche, sia di tipo venoso che arterioso e da marcatori ematici: gli anticorpi anticardiolipina e/o l’anticoagulante tipo lupus 8-6. I criteri diagnostici della sindrome da anticorpi antifosfolipidi e dell’anticoagulante tipo lupus sono standardizzati. Tuttavia la mancanza di test specifici rende ancor oggi difficile la diagnosi. L’atteggiamento terapeutico risente delle difficoltà diagnostiche, dell’assai variabile presentazione clinica e della relativa scarsità di studi controllati di adeguate dimensioni e potere statistico. GLI ANTICORPI ANTIFOSFOLIPIDI Gli antifosfolipidi sono un gruppo eterogeneo di immunoglobuline principalmente di classe IgG, occasionalmente IgM o IgA, che interferiscono con i test di coagulazione fosfolipidi-dipendenti, tipicamente con il tempo di tromboplastina parziale attivato che è allungato (APTT) 8-10. La reattività antigenica di questi anticorpi può essere valutata con metodi immunoenzimatici che utilizzano come antigene la cardiolipina (anticorpi anticardiolipina), mentre la loro attività funzionale anticoagulante (anticoagulante tipo lupus) può essere valutata con test di coagulazione fosfolipido-dipendenti (l'APTT, il tempo di coagulazione con caolino o Kaolin clotting time, il silice clotting time, il test con veleno di vipera Russell diluito). Peraltro questi anticorpi non sono diretti contro i fosfolipidi, ma contro diverse proteine plasmatiche che partecipano ai meccanismi coagulativi (β2-glicoproteina I, protrombina, proteina C, proteina S, trombomodulina e annessina V) e che hanno in comune un’elevata affinità per le membrane ricche di fosfolipidi anionici di cellule coinvolte nell’emostasi come le piastrine e le cellule endoteliali. In particolare, è possibile identificare due sottogruppi di anticorpi con attività anticoagulante lupica: quelli diretti contro la protrombina e quelli diretti contro la β2glicoproteina I 11. Nella maggiore parte dei casi, l’attività anticoagulante è dovuta alla presenza contemporanea di entrambi gli anticorpi. In alcuni pazienti, è però possibile osservare una prevalente attività anti-β2- glicoproteina I che si associa ad un aumentato rischio di sviluppare complicanze trombotiche 11. RISCHIO DI TROMBOSI La sindrome da anticorpi antifosfolipidi può presentarsi sia in forma primitiva (o idiopatica) che secondaria a patologie autoimmunitarie (lupus eritematode sistemico, artrite reumatoide), malattie linfoproliferative, infiammatorie o in seguito all’assunzione di farmaci (cloropromazina e procainamide). Le manifestazioni cliniche più frequenti della forma primitiva sono costituite dalla trombosi, sia venosa che arteriosa, dagli aborti spontanei ripetuti e dalla trombocitopenia 8-10. I pazienti con sindrome da anticorpi 9 antifosfolipidi secondaria manifestano con elevata frequenza neutropenia ed anemia emolitica autoimmune, riscontro generalmente assente nelle forme primitive. La frequenza di trombosi è analoga sia nelle forme primitive che secondarie. L’associazione tra trombosi ed anticoagulante lupico è stata per la prima volta segnalata nel 1963 in un gruppo di pazienti con lupus eritematoso sistemico 12 ed confermata in seguito in pazienti con o senza lupus. Nel 1983 sono stati pubblicati due studi che hanno confermato l’associazione fra positività dei tests per l’anticoagulante lupico e/o gli anticorpi anticardiolipina e la trombosi 13,14. La prevalenza di manifestazioni trombotiche è di circa il 30% negli individui con la sindrome, con un incidenza di 7.5%/pazienti anno. Il rapporto fra la frequenza di tromboembolismo venoso (trombosi venose profonde ed embolie polmonari) e arterioso nei pazienti con sindrome da anticorpi anticardiolipina è di circa 2 a 1. Mentre non vi sono dubbi sull’associazione tra anticorpi antifosfolipidi, poliabortività ed eventi trombotici venosi, per quanto riguarda le trombosi arteriose (coronariche e cerebrali) vi sono dati contrastanti. Per esempio, lo studio di Hamsten et al 15 mette in evidenza un'associazione tra anticorpi anticardiolipina e infarto miocardico. D’altra parte, nello studio di Sltenes et al 16, eseguito su pazienti sopravvissuti a un infarto miocardico, gli anticorpi anticardiolipina non sono risultati un fattore di rischio significativo per la mortalità e il reinfarto. Per quanto riguarda la patologia ischemica cerebrale, il “Physicians Health Study”, uno studio caso-controllo di grandi dimensioni eseguito in pazienti con eventi ischemici cerebrali 17, ha dimostrato che anticorpi anticardiolipina con valori superiori al 95 percentile (>33 U) non sono fattori di rischio per eventi ischemici cerebrali. D’altra parte, l’Antiphospholpid Antibody Stroke Study Group ha dimostrato una significativa prevalenza di anticorpi anticardiolipina in pazienti con manifestazioni ischemiche cerebrali 18. Nel complesso, l’espressione attraverso il calcolo del rischio relativo della dimensione dell’associazione tra anticorpi antifosfolipidi e trombosi arteriosa cerebrale (ictus, attacchi ischemici reversibili) dà valori di rischio relativo varianti tra 2.3-10.6; il rischio relativo corrispondente per trombosi venosa varia tra 2.7 e 11.9. Per quanto riguarda le complicanze ostetriche e presenza di anticoagulante lupico, i dati pubblicati indicano una prevalenza che varia dal 5.2% al 48%. SI PUO’ PREVEDERE IL RISCHIO TROMBOTICO? Va innanzitutto ricordato che anche in una certa percentuale di soggetti sani è possibile misurare anticorpi anti-cardiolipina a basso titolo (<30-40 U), mentre l’attività dell’anticoagulante lupico è di regola assente in tali individui. L’attività anticardiolipina riscontrabile nei soggetti sani è per lo più legata all’isotipo IgM, mentre quella associata alla patologia, sia che si tratti di anticorpi anticardiolipina che di anticoagulante lupico, appartiene all’isotipo IgG. Nonostante i dati contrastanti che esistono nella patologia ischemica arteriosa, la certa associazione fra anticorpi antifosfolipidi, trombosi venosa e complicanze ostetriche pone al clinico il quesito se è possibile predire il rischio trombotico in individui che presentano positività per i test di laboratorio senza aver avuto manifestazioni cliniche. E’ altresì importante valutare il rischio secondario, cioè la tendenza alla recidiva in soggetti che hanno già avuto manifestazioni cliniche. A tale proposito la storia di una trombosi pregressa e valori di anticorpi anticardiolipina superiori a 40 U sono risultati fattori predittivi di eventi vascolari. Sulla base di vari studi, 10 i seguenti fattori di rischio vanno considerati nella storia clinica di un paziente con anticorpi antifosfolipidi: 1. Eventi trombotici nel passato 2. Elevati titoli di anticorpi anticardiolipina (>40-60 U/ml) 3. Persistenza di tali anticorpi nel tempo 4. Isotipo IgG 5. Beta 2 glicoproteina I-dipendenza degli anticorpi La presenza di uno o più di questi fattori permette di classificare orientativamente il paziente in classe con moderato o elevato rischio trombotico. E’ chiaro che la decisione terapeutica varierà a seconda dell’entità del rischio trombotico. APPROCCIO TERAPEUTICO Data l’eterogeneità degli anticorpi e la non esatta conoscenza del loro meccanismo d’azione, le decisioni terapeutiche non possono essere basate soltanto sui dati laboratoristici anche perché, come abbiamo visto, non esiste ancora nessun test capace di distinguere con certezza nel singolo paziente la natura “benigna” o “maligna” di questi anticorpi. Ogni caso va quindi considerato individualmente, tenendo conto dei fattori di rischio sopramenzionati e facendo anche un accurato bilancio fra il rischio emorragico legato al trattamento con farmaci anticoagulanti per un lungo periodo di tempo. In attesa di sperimentazioni cliniche controllate, come lo studio WAPS attualmente in corso, si può proporre la seguente strategia: 1. I soggetti asintomatici, anche se positivi sia per anticorpi anticardiolipina che per l’anticoagulante lupico, non vengono trattati e vanno messi solo sotto osservazione. E’ opportuno peraltro instaurare in questi soggetti una profilassi antitrombotica con eparina non frazionata o a basso peso molecolare quando essi vengono esposti ad altri fattori di rischio trombotico (chirurgia, immobilizzazione, gravidanza) (vedi: http//www.airon.it/SISET). Sconsigliabile l’assunzione di contraccettivi orali. 2. Nei soggetti con un primo episodio trombotico, l’intensità e la durata della terapia anticoagulante sono incerti e dovrebbero essere decisi tenendo conto dei fattori di rischio trombotico sopra descritti e degli eventuali fattori di rischio emorragico di ciascun paziente (es. piastrinopenia, ipertensione arteriosa). I soggetti con più di un episodio pregresso di trombosi venosa vengono messi in terapia anticoagulante orale per un periodo di tempo indeterminato, mantenendo preferibilmente l’INR intorno a 3.00 (vedi: http//www.airon.it/SISET). Non essendoci purtroppo studi solidi in donne con sindrome da anticorpi antifosfolipidi in gravidanza, vi sono diversi protocolli di trattamento. Corticosteroidi, aspirina e eparina da soli o associati tra di loro, sono stati valutati in diversi studi. Out et al 19, in uno studio non randomizzato, hanno evidenziato una frequenza del 21% di perdita fetale in donne con anticorpi antifosfolipidi positivi non trattati, contro il 22% in quelle trattate con basse dosi di aspirina o eparina, e il 36% in donne che prendevano solo corticosteroidi. Più recentemente, uno studio clinico controllato ha indicato un migliore risultato nelle donne trattate con eparina a basse dosi due volte al giorno più aspirina rispetto a quelle trattate con aspirina da sola 20. Due studi clinici di limitato numero hanno valutato la terapia associata, corticosteroidi + aspirina o eparina + aspirina, ottenendo gli stessi risultati 21,22. Quindi, considerando gli effetti collaterali del corticosteroidi durante la 11 gravidanza, riteniamo che la miglior scelta sia l’uso di basse dosi di aspirina e eparina senza corticosteroidi, in attesa che uno studio randomizzato con adeguato numero dei campioni dia una risposta definitiva. 12 BIBLIOGRAFIA 1. Allaart CF, Briët E. 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Am J Obstet Gynecol 169: 141117, 1993. 14 Tabella 1: Principali stati trombofilici congeniti e acquisiti Stati trombofilici congeniti Carenza di antitrombina III Carenza di proteina C Carenza di proteina S Resistenza alla proteina C attivata legata alla mutazione del gene del fattore V Arg506Gln (Fattore V Leiden) Mutazione G20210A del gene della protrombina Iperomocisteinemia Stati trombofilici acquisiti In associazione con stimoli fisiologici o farmacologici . Gravidanza (in particolare il periodo post-parto) . Stati post-operatori . Immobilizzazione . Traumi . Età avanzata . Uso di estrogeni ed estroprogestinici Sindrome da anticorpi antifosfolipidi In associazione con altre condizioni cliniche (vedi tab. 2) Iperomocisteinemia 15 Tabella 2: Malattie acquisite associate a trombofilia • • • • • • • • • • • • Tumori e chemioterapia antitumorale Infusione di concentrati del complesso protrombinico Sindrome nefrosica Piastrinopenia indotta da eparina Porpora trombotica trombocitopenica Malattie mieloproliferative Emoglobinuria parossistica notturna Iperlipidemia Diabete Iperviscosità Insufficienza cardiaca Talassemia 16 TRASFERIMENTO GENICO: FINALITÀ TERAPEUTICHE IN EMATOLOGIA Lucio Luzzatto Department of Human Genetics, Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, New York, NY 10021, USA Nella visione ematocentrica degli ematologi, la comprensione delle basi biologiche delle malattie del sangue è sempre stata almeno un passo più avanti rispetto alle altre specialità della medicina. Possiamo essere legittimamente orgogliosi del fatto che il termine “malattia molecolare” è stato coniato per l’anemia falciforme, e che l’emoglobina è stata la prima proteina oligomerica di cui si è risolta la struttura cristallografica. Inoltre, i geni globinici furono i primi geni umani ad essere clonati, e i polimorfismi evidenziabili a livello di DNA mediante l’uso di enzimi di restrizione furono scoperti analizzando questi geni. Se queste primizie sono state importanti a livello di genetica e fisiopatologia molecolare, che cosa possiamo dire per quanto riguarda la capacità storica dell’ematologia ad utilizzare i progressi della biologia di base per sviluppare nuovi approcci terapeutici? In questo campo, abbiamo naturalmente luci ed ombre. Da un lato, l’anemia perniciosa è stata razionalmente debellata con la scoperta della vitamina B12; l’anemia della insufficienza renale cronica è stato il primo esempio di una malattia specifica controllata mediante l’uso di un fattore di crescita – l’eritropoietina ricombinante. D’altro canto, dobbiamo riconoscere che scarsi progressi sono stati compiuti nel trattamento della sferocitosi ereditaria da quando la splenectomia fu introdotta su base empirica; e il trattamento dell’anemia falciforme è tutt’altro che soddisfacente, malgrado la sua base molecolare sia nota sin dal 1956. In effetti, i primi veri passi avanti in questo campo sono stati l’idrossiurea e il trapianto di midollo allogenico, entrambi inizialmente introdotti in terapia con scopi completamente diversi. Al momento attuale, una delle sfide più importanti alla nostra ambizione è di porre a disposizione dei malati ematologici i progressi della genetica molecolare e dell’ingegneria genetic: in altre parole, utilizzare il trasferimento genico per scopi terapeutici (Huber & Lazo, 1994; Culver, 1996; Jain, 1998). Gli ematologi dovrebbero essere pronti per questo compito. Infatti, le basi razionali per la correzione di una malattia ematologica ereditaria sono state poste da tempo in termini relativamente semplici, e possono essere sintetizzate nei punti seguenti: 1. Ottenere il gene normale in forma pura 2. Introdurre il gene nelle cellule staminali 3. Ottenere l’integrazione del gene in modo idoneo alla sua espressione persistente 4. Ricostituire l’emopoiesi con le cellule così trasdotte. 17 È opportuno considerare brevemente a che punto siamo nel superare queste tappe, e dove si sono presentati i problemi limitanti per l’adozione del trasferimento genico a scopo terapeutico. 1. L’identificazione ed il clonaggio di geni responsabili di malattie ereditarie si sono rivelati più semplici del previsto, grazie alla tecnologia della PCR ed al progetto genoma umano: in effetti, la maggior parte di questi geni sono oggi disponibili. Per contro, la delucidazione dei meccanismi di regolazione dei geni tessuto-specifici ha rivelato livelli multipli di complessità, soprattutto per geni, come quelli globinici, che hanno livelli estremamente elevati di espressione, e la cui espressione non è solo funzione del lignaggio cellulare, ma anche dello stadio ontogenetico dell’organismo. Che i geni per l’α e la β globina non sono geneticamente concatenati è stato chiaro sin dagli anni ‘60 (ben prima che fossero mappati a due diversi cromosomi). Da allora, una delle caratteristiche più interessanti del sistema è la perfetta stechiometria della sintesi delle catene α=e=(γ=+=β=+=δ),=====che non può essere spiegata semplicemente da meccanismi che agiscono in cis. Questo quesito è reso ancora più affascinante dalla scoperta inattesa che la struttura fine del cluster genico dell’α globina (Higgs et al., 1998) è profondamente diversa da quello della β globina (Grosveld et al., 1998) sebbene entrambi abbiano in comune l’esistenza di una locus control region (LCR). È chiaro che, allo scopo di rendere efficace la terapia genica, capire in dettaglio i meccanismi di regolazione estremamente sofisticati che operano in questi complessi genici è altrettanto cruciale che conoscere la struttura dei geni stessi (Rivella & Sadelain, 1998). Da questo punto di vista è probabile che risulti più facile manipolare geni dalla regolazione più semplice, come quelli aventi livelli di espressione assai più modesta, con scarsa o nulla specificità di espressione (ad esempio, i cosiddetti housekeeping genes: Mason, 1998). 2. Per quanto riguarda l’introduzione di un gene nelle cellule bersaglio, la “vettorologia” si è sviluppata in molte direzioni diverse. Per le cellule emopoietiche, i retrovirus restano all’avanguardia. Dall’analisi della loro struttura sappiamo che spesso sono stati capaci di incorporare geni appartenenti alle cellule ospiti, il genoma delle quali mostra segni abbondanti di quanto spesso il trasferimento abbia avuto luogo in senso inverso: vale a dire, materiale genetico è stato reintrodotto dai retrovirus, che possono essere considerati dei professionisti del trasferimento genico. In effetti, da numerosi esperimenti in vitro e in vivo si è confermato che i retrovirus sono dotati di una elevata efficienza di trasduzione e di integrazione permanente. Nel nostro sforzo continuo di integrare biologia e medicina, non è sorprendente che siamo attratti dall’idea di adottare e adattare a fini terapeutici i prodotti di una così lunga storia evolutiva. Il genoma retrovirale è piccolo: perciò, in particolare nel caso dei geni globinici, una seria difficoltà fisica consiste nel comprimere nello spazio disponibile tutti gli elementi strutturali e regolativi necessari. 3. Malgrado le difficoltà alle quali si è accennato, in vari casi i primi due punti sono stati affrontati e risolti. Al contrario, ottenere espressione continua è spesso risultato problematico. Forse la sorpresa maggiore è stata non che l’integrazione non garantisce l’espressione, ma piuttosto che l’espressione può avvenire inizialmente, per poi spegnersi in seguito. In alcuni casi questo fenomeno indica un vero blocco trascrizionale nella cellula in cui il gene era inizialmente trascritto. Ma nel caso delle cellule emopoietiche, una possibilità probabilmente più comune è che cellule che esprimono il gene sono state rimpiazzate da cellule che non lo esprimono. In ogni caso, è chiaro che abbiamo bisogno di passi in avanti in questo senso. Un punto importante è comprendere se questo problema è 18 meno severo per geni molto meno finemente regolati. Numerose forme di anemia emolitica congenita sono dovute alla deficienza negli eritrociti di uno degli enzimi della glicolisi o del metabolismo ossido-riduttivo: per la maggior parte di questi malattie emolitiche siamo ora gunti ad una buona conoscenza delle basi molecolari. 4. L’ultimo punto cruciale è la ricostituzione del sistema emopoietico da parte delle cellule trasdotte. All’inizio degli anni ’80, quando il trapianto di midollo progrediva rapidamente da esperimento piuttosto avventuroso a terapia standard per molte malattie ematologiche, poteva sembrare che il problema cellulare fosse più facile da risolvere del problema molecolare: in effetti, non è stato così. Sebbene migliaia di pazienti vivano da anni grazie ad un sistema linfo-emopoietico ricostituito da cellule staminali proprie o di un donatore, ancora non disponiamo di una metodologia attendibile di analisi delle cellule staminali che non sia il trapianto stesso. Inoltre, dal momento che le cellule staminali sono in numero limitato e si dividono piuttosto di rado, esse sono letteralmente bersagli elusivi per l’integrazione retrovirale. Al momento, possiamo identificare tre problemi tecnici collegati tra loro. (a) Ottenere un numero cospicuo di cellule staminali. (b) Mettere a punto un protocollo che consenta la massima frequenza di trasduzione senza compromettere le caratteristiche staminali delle cellule che vengono trasdotte. (c) Selezionare in vitro o in vivo le cellule staminali trasdotte. Da questo punto di vista, uno degli sviluppi recenti più vistosi è stata la introduzione di vettori basati su lentivirus. Diversamente dai retrovirus murini ‘classici’, i lentivirus hanno la capacità di attraversare la membrana nucleare, e perciò di raggiungere l’integrazione anche prima che la cellula abbia un ciclo di divisione. Se divenisse facile trasferire geni anche in poche cellule che siano veramente cellule staminali, possiamo immaginare che tutte le malattie genetiche curabili mediante trapianto allogenico di midollo dovrebbero essere ugualmente curabili mediante correzione genetica delle cellule staminali seguita da trapianto autologo di midollo. Come esempio di questo tipo di terapia genetica verranno presentati dati in vitro ad in vivo inerenti ad uno studio pre-clinico della glucoso 6-fosfato deidrogenasi (G6PD). È ben noto che la enzimopenia G6PD (una delle più frequenti anomalie genetiche in molte popolazioni, compresa quella Italiana) è spesso del tutto asintomatica e comunque clinicamente benigna. Tuttavia, alcune mutazioni della G6PD sono responsabili di forme di anemia emolitica cronica non-sferocitica che posson essere gravi e per le quali non esiste sinora un trattamento definitivo. Abbiamo trasdotto cellule di midollo osseo di topo con sopranatanti acellulari contenenti un alto titolo di vettori retrovirali (pseudotipati con la glicoproteina G del Virus della Stomatite Vescicolare), nei quali la trascrizione della G6PD umana (HG6PD) è promossa o dal LTR del virus murino MPSV, o da un promotore ibrido LTR-G6PD, che contiene una isola CpG tipica di geni housekeeping. L’integrazione di un gene perfettamente funzionante è stata dimostrata grazie alla espressione stabile (per oltre 18 mesi) di HG6PD nelle cellule di sangue periferico di topi che hanno ricevuto trapianti di cellule trasdotte, ed in topi che hanno ricevuto trapianti secondari (oltre 11 mesi). Il livello di espressione della HG6PD, misurato attraverso il dosaggio diretto dell’attività enzimatica, era dello stesso ordine di quello della G6PD endogena del topo. Con gli stessi vettori abbiamo anche trasdotto cellule staminali ‘mobilizzate’ ottenute da sangue periferico umano, che sono poi state trapiantate in topi NOD-SCID. * * * Infine, è da notare che, sia nell’ematologia sia in altri settori, negli ultimi anni la direzione degli sforzi che mirano ad utilizzare il trasferimento genico a fini terapeutici ha avuto la 19 tendenza a virare dalle malattie ereditarie verso quelle acquisite. E’ chiaro che si tratta in generale di situazioni fondamentalmente diverse. Nel primo caso siamo di solito di fronte ad una condizione recessiva dovuta alla perdita della funzione di un determinato gene, ad esempio un difetto di un enzima o di un fattore della coagulazione: ci attendiamo pertanto che una correzione anche solo parziale può avere un impatto clinico importante. Nel secondo caso las situazione è assai variabile; ma per quanto riguarda le malattie neoplastiche ci troviamo di fronte specialmente nel caso di un tumore, ci si trova di fronte ad una popolazione di cellule nelle quali una o più mutazioni somatiche hanno prodotto un acquisto di funzione che produce il fenotipo maligno. Perciò, un intervento di correzione genetica che non si estenda al 100% delle cellule avrà quasi certamente, anche nel migliore dei casi, un effetto solo temporaneo; e dobbiamo ammettere che al momento attuale le tecniche di trasferimento genico in vivo non hanno un tale livello di efficienza. Ciò malgrado, sono in corso numerosi tentativi di utilizzare il trasferimento genico in modo ingegnoso come parte del trattamento delle leucemie e di tumori maligni. Un raro caso di successo già conseguito a livello clinico è il recente uso di cellule T geneticamente modificate che sono state utilizzate per controllare la ricaduta in leucemia mieloide cronica dopo trapianto allogenico, e poi eliminate mediante l’utilizzo di un appropriato farmaco quando insorge la minaccia di graft-versus-host disease. RINGRAZIAMENTI Alcune parti di questo articolo sono liberamente tradotte, grazie alla cortesia del Dr Antonello Di Cristofano, da Luzzatto (1998a), che contiene ulteriori riferimenti bibliografici. Per i dati sullo studio della G6PD ringrazio i colleghi del mio laboratorio Ana Rovira, Maria De Angioletti, Olga Camacho Vanegas, Delong Liu, Vittorio Rosti, Humilidad Gallardo. Per anni di collaborazione e per la Fig. 1 ringrazio il Dr Michel Sadelain e il Dr Rosario Notaro. BIBLIOGRAFIA Bonini C, Ferrari G, Verzeletti S, Servida P, Zappone E, Ruggieri L, Ponzoni M, Rossini S, Mavilio F, Traversair C and Bordignon C. (1997). 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Ad esempio, il supplemento temporaneo di cellule mieloidi’ si riferisce alla possibilità di proteggere da neutropenia pericolosa per un periodo limitato di tempo un paziente sottoposto a chemioterapia intensiva, mediante l’uso di cellule progenitrici relativamente mature rese resistenti al chemioterapico in questione (ad esempio, methotrexate) mediante trasferimento genico (ad esempio, della diidrofolato reduttasi). Tabella 1 Vari usi del trasferimento genico per ottimizzare la risposta immune nel trattamento di malattie neoplastiche Obiettivo principale Cellula bersaglio Gene trasferito Vettore Stadio di avanzamento Riferimento bibliografico Controllo della GVHD Linfociti T HSV-TK Retrovirus Clinico, positivo Bonini et al., 1997 Ottimale presentazione dell’antigene Cellule dendritiche CD2 Retrovirus Pre-clinico Szabolcs et al., 1998 IL-2 Retrovirus Clinico, risultati dubbi Zier & Gansbacher, 1996 CD80 Lipofezion e Pre-clinico Kwon et al, 1997 MG-CSF Retrovirus Clinico Dranoff, 1998 Stimolazione di azione citotossica Cellule neoplastiche Attivazione immune ottimale Linfociti T CD28 Retrovirus Pre-clinico Krause et al., 1998 Immunizzazione attiva senza antigene ?Cellule dendritiche MAGE DNA Pre-clinico Ross et al, 1997 (da Luzzatto, 1998b) 22 GENETICA MOLECOLARE DEI LINFOMI NON-HODGKIN R. Dalla-Favera Columbia University, New York NY 10032, U.S.A. Derivazione cellulare. I linfomi Non-Hodgkin (LNH) derivano nella maggioranza dei casi (85%) da linfociti B a fenotipo maturo (LNH-B), e meno frequentemente, da linfociti T (15%). I sottotipi piu' frequenti di LNH-B hanno origine da B linfociti del centro germinativo (CG) come dimostrato dall' espressione di markers fenotipici caratteristici del CG e dalla presenza di mutazioni nelle regioni variabili (V) dei geni delle Immunoglobuline (Ig), un fenomeno che richiede il transito nel CG. Il linfoma mantellare rappresenta un' eccezione in quanto non presenta IgV mutate e deriva quindi da linfociti pre-CG (Gaidano e Dalla-Favera, 1997). Lesioni genetiche. I LNH presentano un assetto genomico relativamente stabile, non caratterizzato dalla marcata iperploidia ed instabilita' sub-clonale tipica di altri tipi di tumori umani, in particolare quelli a derivazione epiteliale (colon/retto, mammella, polmone, prostata) (Gaidano e Dalla-Favera, 1997). I LNH non sembrano inoltre presentare difetti nella funzione di "mismatch repair" del DNA che sono invece comuni in altre neoplasie solide (Gamberi et al., 1997). Analogamente a quanto osservato in altri tumori umani, la patogenesi molecolare dei LNH-B si ritiene originare dall' accumulo progressivo di lesioni a carico di proto-oncogeni e geni oncosoppressori. Il meccanismo piu' comune di lesione genetica e' rappresentato dalle translocazioni cromosomiche che, nel caso dei LNH, causano la espressione anomala di vari proto-oncogeni tramite un meccanismo di sostituzione delle regioni regolatrici. Negli ultimi 15 anni lo studio della genetica molecolare dei LNH si e' focalizzato sull' identificazione dei proto-oncogeni coinvolti nelle traslocazioni cromosomiche. Tali studi hanno contribuito a sviluppare una classificazione molecolare dei LNH che riflette, in parte, la loro classificazione su base morfologica e immunofenotipica (Tavola 1). Si puo' notare che in alcuni tipi di linfoma (e.g. Mantellari, Burkitt) la presenza della traslocazione cromosomica caratterizza la totalita' dei casi, rappresentando un marker diagnostico e biologico di malattia. Viceversa, in altri tipi di LNH-B (e.g. Diffuso/grandi cellule) la lesione e' presente solo in una frazione dei casi, a dimostrare una eterogeneita' biologica che non puo' essere riconosciuta dalle attuali tecniche diagnostiche. 23 Tavola 1. Sommario della distribuzione cromosomiche nei vari sottotipi di proto-oncogeni coinvolti e proteine da essi codificate. delle LNH-B, principali translocazioni con relativa frequenza, LNH-B TRANSLOCAZIONE (% casi) ONCOGENE PROTEINA Linfoplasmacitoide t(9;14) (50%) PAX-5 Fattore di trascrizione Follicolare t(14;18) (70-90%) BCL-2 Anti-apoptosi Diffuso/grandi cellule t(3; vari) (30-40%) BCL-6 Fattore di trascrizione t(11;18) (30%) BCL-2 Anti-apoptosi Mantellare t(11;14) (100%) BCL-1 Ciclina D1 Burkitt t(8;14), t(8;22), t(2;8) (100%)c-MYC Fattore di trascrizione MALT t(1;14) (?) BCL-10 Anti-apoptosi Dati completi e referenze in Gaidano e Dalla-Favera, 1997 Il ruolo patogenetico di transgenici esse determinano quello del rispettivo tumore dimostrato che nessuna di per se a causare il tumore genetiche. L' identita' di progressione tumorale queste lesioni e' dimostrato dal fatto che in topi l' insorgenza di LNH a fenotipo simile a umano. Gli stessi modelli sperimentali hanno queste traslocazioni cromosomiche e' sufficiente ma richiede l' accumulo di addizionali lesioni queste lesioni, e quindi il meccanismo di dei LNH rimane sconosciuto. Ruolo di BCL-6. Il proto-oncogene BCL-6 e' stato identificato grazie al suo coinvolgimento nelle traslocazioni tra la banda cromosomale 3q27 e vari partner cromosomici che si osservano nei LNH diffusi/grandi cellule e in un numero limitato di linfomi follicolari (<10%) (Ye et al, 1993; LoCoco et al. 1994). Varie osservazioni indicano che oltre a rappresentare la lesione primaria in questi tumori, BCL-6 svolge un ruolo importante nello sviluppo di tutti LNH derivati dal CG. Il gene BCL-6 codifica per un fattore di trascrizione tipo "zinc-finger" che, nella linea linfoide B, e' espresso solo nel CG (Chang et al. 1996; Cattoretti et al., 1995). La proteina BCL-6 e' necessaria per lo sviluppo del CG in quanto topi mancanti di BCL-6 non producono CG (Ye at al., 1997). L' espressione di BCL-6 e' regolata dai segnali necessari per il transito di una B cellula nel CG e la sua maturazione a cellula-memoria o plasmacellula, cioe' l' antigene (Niu 24 et al., 1998) e l' attivazione del recettore CD40. A sua volta BCL-6 modula la risposta a IL-4 regolando negativamente i geni bersaglio del fattore di trascrizione (STAT-6) attivato da IL-4. La funzione biologica di BCL-6 nel GC non e' nota, ma osservazioni iniziali indicano un ruolo nel prevenire l' apoptosi. Nei LNH il gene BCL-6 e' affetto da due tipi di lesioni: i) traslocazioni cromosomiche che ne sostituiscono il "promoter" impedendo lo "spegnimento" del gene (Ye et al., 1995) ; ii) mutazioni del "promoter" che si trovano sia in cellule del CG normale che in LNH a fenotipo CG (70% dei diffusi/grandi cellule, 50% follicolari, 35% Burkitt) (Migliazza et al., 1995; Pasqualucci et al., 1998); in questi ultimi osservazioni preliminari indicano che alcune mutazioni contribuiscono ad alterare l' espressione del gene. In conclusione, indipendentemente dalla presenza di lesioni strutturali, la proteina BCL-6 e' espressa in tutti i disordini linfoproliferativi a fenotipo CG e puo' essere considerata un marker nella diagnosi differenziale dei sottotipi a derivazione CG di LNH, LNH associati a HIV (Gaidano et al, 1994; Carbone et al., 1998a), e linfomi di Hodgkin (Carbone et al., 1998b). L' espressione in questi tumori e il suo ruolo nello sviluppo della struttura da cui essi derivano, il CG, suggeriscono la possibilita' che BCL-6 possa rappresentare uno specifico bersaglio terapeutico. Bibliografia Carbone et al. Differential Expression of BCL-6, CD138/Syndecan-1, and Epstein-Barr Virus-Encoded Latent Membrane Protein-1 Identifies Distinct Histogenetic Subsets of Acquired Immunodeficiency Syndrome-Related Non-Hodgkin's Lymphomas. Blood, 91:747-755, 1998a. Carbone et al. Expression of BCL-6 and syndecan-1 identifies distinct histogenetic subtypes of Hodgkin's disease. Blood 92:2220-2228, 1998b. Cattoretti et al. The BCL-6 protein is expressed in germinal-center B-cells. Blood 86:45-53, 1995. Chang et al. BCL-6, a POZ/Zinc-finger protein, is a sequence specific transcriptional repressor. Proc. Natl. Acad. Sci. USA 93:6947-6952, 1996. Gaidano et al. Rearrangements of the BCL-6 Gene in AIDS-Associated Non Hodgkin's Lymphoma: Association with Diffuse Large-Cell Subtype. 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Orsola - Università di Bologna. *Istituto di Anatomia Patologica – Università di Siena. **Istituto di Ematologia – Università di Perugia (Italia). *** Revised European-American Lymphoma Classification: principi generali In 1991, un gruppo di ematopatologi Europei ed Americani, nessuno dei quali precedentemente coinvolto nella formulazione di una classificazione, decise di fondare l’International Lymphoma Group (ILSG) con l’intento di discutere i problemi connessi con l’ordinamento dei linfomi maligni. Dopo due studi pilota dedicati ai linfomi mantellari (1) ed alla malattia di Hodgkin a prevalenza linfocitaria (2), il gruppo ritenne che esistessero i presupposti per affrontare il più complesso tema della classificazione dei tumori del tessuto linfatico, nell’intento di superare gli ormai ventennali contrasti fra la scuola Americana e quella Europea (3-13). Nell’Aprile del 1993, venne discussa la bozza di una nuova classificazione, poiché tutti i membri dell’ILSG convennero che gli schemi al momento in uso - la Working Formulation (WF) e l’Updated Kiel Classification (UKC) (11-13) - non potevano essere migliorati, nè identificati quale standard internazionale. In particolare, il principio informatore utilizzato nella costruzione della WF rappresentava la sua principale limitazione (13): infatti, lo schema era stato ideato quale semplice sistema di traduzione fra le classificazioni esistenti alla metà degli anni ’70 (3-9). La WF rappresentava, quindi, un compromesso, il quale: 1) non prevedeva la distinzione fra linfomi di derivazione B e Tlinfocitaria e 2) comportava tanto la frammentazione di categorie omogenee di tumori (vedi le fome centrofollicolari), che l’istituzione di gruppi estremamente eterogeni (quali i 27 linfomi misti a piccole e grandi cellule, di tipo diffuso). Inoltre, la banca dati impiegata per la costruzione della WF consisteva in 1.000 casi, tutti trattati sulla base dei protocolli in uso all’inizio degli anni ’70 e classificati in funzione del tipo di crescita, delle dimensioni cellulari e della sopravvivenza cruda, senza l’impego di altre colorazioni al di fuori della ematossilina-eosina e la conoscenza dei dati molecolari e dei principali parametri clinici (quali: lo stadio, la presenza di sintomi sistemici, il reperto di malattia “bulky”, l’esistenza di un picco monoclonale nel siero, la disseminazione leucemica, etc.). La UKC (11,12), pur risultando molto più raffinata rispetto all WF, grazie alla sua base immunologica, presentava anch’essa alcuni importanti limitazioni: a) l’esclusione dei linfomi extranodali (che rappresentano circa il 40% dei tumori linfoidi), b) la definizione del grado di malignità sulla base soltanto degli aspetti citologici, c) la bassa riproducibilità nell’applicazione dei criteri diagnostici ad alcune categorie (14-16). Sulla base di quanto emerso in letteratura e delle nuove cognizioni acquisite fra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, l’ILSG convenne che: 1) il miglior approccio alla classificazione dei linfomi fosse la semplice elencazione di reali entità clinico-patologiche, identificate mediante l’impiego di tutti i possibili mezzi diagnostici; 2) tale elenco dovesse comprendere tutti i tumori di provata origine linfoide (inclusi il plasmocitoma, la malattia di Hodgkin e le leucosi acute); 3) i linfomi andassero distinti in 3 grandi categorie: a cellule B, a cellule T/NK e di Hodgkin; 4) le prime due categorie dovessero essere ulteriormente suddivise in forme di derivazione dai precursori e dagli elementi periferici; 5) la definizione di ciascuna entità derivasse dalla combinazione della morfologia con il fenotipo, il genotipo, il quadro clinico e, quando possibile, la controparte normale. La base metodologica utilizzata dai membri dell’ILSG nella formulazione del nuovo approccio classificativo fu rappresentata dall’accordo nell’interno del gruppo, sia nella descrizione di ciascuna entità, che nell’attribuzione a questa del carattere di forma acclarata o provvisoria. In particolare, l’indicazione di “entià provvisoria” venne riservata ai tumori linfoidi, descritti in letteratura con sufficiente dovizia di particolari da rappresentare delle probabili entità clinico-patologiche, ma per i quali - nell’ambito dell’ILSG - non esisteva sufficiente esperienza o completa unanimità di vedute. La proposta scaturita da tale lavoro fu denominata come “Revised European-American Lymphoma (REAL) Classification” e pubblicata su Blood nel settembre del 1994 (17). La classificazione, pur facendo in parte riferimento ad entità già descritte in letteratura, presentava importanti elementi di originalità: 1) era stata generata mediante il consenso fra il più ampio gruppo di ematopatologi, che mai avesse affrontato il problema dell’ordinamento dei linfomi maligni; 2) comprendeva le forme sia nodali che extranodali; 3) non forniva alcuna indicazione circa il grado di malignità. Quest’ultimo punto merita alcune note di commento. Sulla base di quanto descritto in letteratura e della propria personale esperienza, i membri dell’ILSG convennero sul concetto che l’indice di aggressività del processo varia significativamente in base alla categoria istologica e, nella stessa categoria, tra i diversi pazienti. Tale variabilità è influenzata da una serie di fattori pato-biologici, fra i quali: la citocinesi (intesa quale sommatoria della proliferazione e della delezione cellulare), l’attivazione di oncogeni, la produzione di geni ibridi di fusione, lo sviluppo di resistenza pleiotropa, il microambiente, la correlazione con alcuni agenti infettivi (vedi lo Helicobacter Pylori ed il virus dell’epatite C), etc. (18-35). Per tutte queste ragioni, i membri dell’ILSG preferirono evitare la definizione aprioristica di gradi di malignità, basati sulla sola morfologia o sulla mera analisi statistica, quest’ultima fornendo informazioni limitate alla storia naturale od alla risposta media alla terapia, senza alcuna 28 ricaduta sulla previsione di vita nel singolo paziente, né sulla scelta di trattamenti ad hoc (c.d. tailored therapy) (36,37). Questi concetti hanno trovato conferma, sia nel corso di un Workshop organizzato a Lugano il 1° giugno di quest’anno, che in uno studio retrospettivo presentato in occasione della VII International Conference on Malignant Lymphomas (Lugano, 2-5 giugno 1999) (38,39). In particulare, nel corso di quest’ultimo sono stati reclutati 1.093 pazienti, suddivisi in 3 categorie (a decorso indolente, aggressivo e molto aggressivo), sulla base di criteri clinici precedentemente proposti in letteratura (39). La valutazione del decorso della malattia nell’ambito di ciascuna categoria in funzione dell’istotipo ha chiaramente dimostrato come il raggruppamento clinico fosse del tutto inadeguato: ad esempio, la sopravvivenza a 5 anni dei linfomi “aggressivi” variava dal 78% per le forme a grandi cellule anaplastiche al 14% per il linfoma mantellare, con valori intermedi del 38% e del 68% per il linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso e per il linfoma follicolare di grado 3, rispettivamente (39). Reazioni alla REAL Classification La REAL Classification (REALC) ha determinato reazioni contrastanti, sia fra i patologi che fra i clinici (40-49). Infatti, se da un lato alcuni hanno apprezzato il suo messaggio innovativo, volto ad una ricerca ad impronta più marcatamente biologica ed alla definizione di terapie più efficaci, altri hanno lamentato la mancanza di un background epidemiologico e di un processo di validazione, relativo al grado di riproducibilità inter- ed intra-personale. Nel marzo del 1994, in occasione della prima presentazione della REALC al National Cancer Institute (Bethesda, USA), gli oncologi proposero uno studio per la sua validazione coinvolgente diversi Centri in varie parti del mondo. Il primo scopo del progetto era quello di raffrontare l’applicabilità e la riproducibilità della REALC (17) con quelle della WF (13) e dell’UKC (11,12). Fra gli altri obiettivi, si poneva la definizione: a) dell’incidenza di ciascun istotipo nelle diverse aree geografiche; b) del reale valore diagnostico delle informazioni cliniche e dell’immunofenotipo; c) della rilevanza clinica dell’analisi immunoistochimica; d) della riproducibilità inter- ed intra-personale nell’identificazione di tutte le entità comprese nella classificazione. Al progetto, iniziato nel 1995 e terminato nel 1996, hanno contribuito 9 Centri (Omaha, Vancouver, Capetown, London, Bellinzona/Locarno, Lyon, Hong Kong, Würzburg, Gottingen) con un totale di 1.379 casi, selezionati sulla base dei seguenti criteri: a) pazienti affetti da linfomi all’esordio, non precedentemente trattati; b) insorgenza della malattia fra il 1° gennaio 1988 ed il 31 dicembre 1990; c) composizione casistica rappresentativa dell’incidenza delle varie forme linfomatose nelle diverse aree geografiche; d) disponibilità di materiale adeguato per la diagnosi e la classificazione del tumore; e) esistenza di studi immunofenotipici; f) completezza dei dati clinici (con particolare riferimento ad: età, sesso, etnia, data e sede della biopsia, interessamento nodale/extranodale, stadio, presenza di “bulky disease”, dati di laboratorio, quadro immunologico, “international prognostic index”, terapia iniziale, risposta al trattamento e follow-up). 29 I Centri in questione vennero visitati da un gruppo di ematopatologi di provata esperienza (Jacques Diebold, Kenneth A. Mac Lennan, Hans-Konrad Müller-Hermelink, Bharat Natwani e Dennis Weinsenburger), dei quali uno soltanto membro dell’ILSG (HKMH), che provvidero a classificare i casi selezionati sulla base dei criteri della REALC (17), dell’UKC (11,12) e della WF (13). L’analisi statistica dei dati prodotti fu eseguita da James R. Anderson and Pascal Roy. In particolare, lo studio previde 4 diversi livelli diagnostici: a) visione dei preparati istologici, incluse le biopsie osteo-midollari, alla luce di dati clinici di minima (età, sesso, sede della biopsia e stadio); b) integrazione del quadro istopatologico con i dati immunoistochimici e genotipici; c) revisione del giudizio scaturito dai passi a e b alla luce delle informazioni cliniche complete; d) rivalutazione del 20% dei casi, disponendo di tutti gli elementi clinico-patologici. L’esistenza di 4 diagnosi concordanti su 5 venne considerata quale espressione del consenso fra i membri del gruppo. Al termine di ogni giorno, i casi controversi furono oggetto di una discussione collegiale ad un microscopio a testata multipla. I risultati dello studio, pubblicati su Blood (50), vennero discussi ad un Meeting Internazionale, organizzato ad Omaha nel settembre del 1997. Questi dimostrarono come per la REALC (17) l’indice di concordanza fra la diagnosi del singolo patologo e quella finale emessa dal gruppo (86%-95%) fosse di 20 e 40 punti superiore a quelli ottenuti con l’impiego dell’UKC (11,12) e della WF (13), rispettivamente. Inoltre, la morfologia risultò di per sè diagnostica per un numero limitato di categorie (leucemia linfatica cronica B/linfoma a piccoli linfociti B e linfoma della zona marginale, extranodale), essendo indispensabile per il sicuro riconoscimento delle restanti il ricorso alla caratterizzazione immunofenotipica e/o alla biologia molecolare. La conoscenza delle informazioni cliniche apparve essenziale per la formulazione della sola diagnosi di linfoma a grandi cellule B primitivo del mediastino. Per ciò che attiene al dato epidemiologico, il tipo di linfoma di più comune osservazione a livello mondiale risultò quello a grandi cellule B di tipo diffuso (30%), seguito del centrofollicolare (22%), dal linfoma della zona marginale extranodale (8%), dalla leucemia linfatica cronica B e del linfoma a cellule T periferiche NAS (7%), dal linfoma mantellare (5%), dal linfoma di Burkitt (3%) e dai linfomi a grandi cellule anaplastiche, linfoblastico T ed a grandi cellule B del mediastino (2%). Di estremo interesse risultò anche l’analisi delle curve di sopravvivenza relative alle diverse categorie della REALC (17): infatti, i linfomi a cellule B periferiche di piccola taglia, che nell’UKC (11,12) e nella WF (13) sarebbero stati tutti inclusi nell’ambito del basso grado di malignità, dimostrarono una grande variabilità in termini di sopravvivenza ad 8 anni: 80% per il linfoma della zona marginale, extranodale, 50% per la leucemia linfatica cronica B e 18% per il linfoma mantellare. Un’analoga osservazione venne fatta anche per le forme a grandi cellule, che sarebbero state diagnosticate come alti gradi di malignità sia nella WF (13) che nell’UCK (11,12) (sopravvivenza ad 8 anni: 80% per il linfoma a grandi cellule anaplastiche, 50% per il linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso e meno del 20% per le forme a cellule T periferiche). Inoltre, prendendo i pazienti portatori dello stesso istotipo e stratificandoli in base al valore dell’IPI (0,1 vs. 4,5), si rilevarono importanti differenze statistiche: ad esempio gli indici di sopravvivenza per il linfoma mantellare erano pari al 59% ed al 12% rispettivamente, mentre per il linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso i due valori corrispondevano al 72% ed al 22%. Di particolare interesse, appare il fatto che altri studi sulla REALC, condotti contemporaneamente ed indipendentemente rispetto a quello del NCI, hanno fornito risultati del tutto sovrapponibili (51-54). 30 Il progetto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Nel 1994, la Society for Hematopathology e la European Association of Haematopathology diedero vita ad un progetto comune, volto allo sviluppo di una classificazione delle neoplasie del sistema emolinfopoietico per conto della World Health Organization (WHO). Per tale motivo vennero istituti uno “steering committee”, costituito da membri di entrambe le Società, e 10 Comitati ad hoc per l’inquadramento delle neoplasie mieloidi, linfoidi ed istiocitarie, comprendente la decrizione delle singole entità ed i relativi criteri diagnostici. Più di 50 patologi provenienti da ogni parte del mondo furono coinvolti nel progetto. A questi, fu affiancato un Comitato di riferimento composto da 40 ematologi ed oncologi di fama internazionale, con l’intento di valutare l’approccio classificativo elaborato dai patologi in funzione anche della sua utilità pratica. Dopo una serie di meetings, nel novembre del 1997 venne organizzata una “Consensus Conference” presso la Airlie House (Virginia, USA). La REAL Classification (17) fu adottata quale modello non solo per l’ordinamento delle neoplasie linfoidi, ma anche dei tumori mieloidi ed istiocitari. In particolare, per ciò che attiene ai linfomi maligni, lo schema finale approvato dai partecipanti alla Conferenza corrisponde alla REALC, con alcune modifiche marginali (Tabella 1) (55). Le variazioni relative ai linfomi di derivazione dai linfociti B possono essere così sintetizzate: 1) la “leucemia prolinfocitica B” è stata scorporata dalla leucemia linfatica cronica B (LLC-B) a causa della sua maggiore aggressività, del più alto numero di elementi neoplastici circolanti, delle piccole differenze fenotipiche e della minore aspettativa di vita (17); tuttavia, è stato confermato il concetto proprio della REALC, secondo il quale la LLCB può andare incontro ad una crisi prolinfocitoide, con significativo aggravamento del decorso (17); 2) il termine “immunocitoma” è stato sostituito da quello “linfoma linfoplasmocitico”, al fine di evitare le ambiguità nel suo uso, legate ai differenti significati 31 ad esso attribuito dalla REALC (17) e dall’UKC (11,12): infatti, l’immunocitoma linfoplasmocitoide dell’UKC fa parte dello spettro morfologico della LLC-B nella REALC, a causa della costante espressione di CD5 e CD23, mentre l’immunocitoma linfoplasmocitico dell’UKC corrisponde all’immunocitoma linfoplasmocitoide della REALC; nella WHO Classification, il termine di “linfoma linfoplasmocitico” è attribuito ad un tumore costituito da piccoli linfociti e plasmacellule, che producono IgM, così come osservato nella sindrome di Waldenström; 3) la denominazione di “linfoma extranodale della zona marginale del MALT” è stata limitata alle neoplasie essenzialmente formate da elementi di piccola taglia, poiché esistono dati in letteratura i quali indicano come nelle forme gastriche la presenza di grandi cellule in quantità superiore al 5% della popolazione esaminata o raccolte in gruppi costituiti da più di 20 unità indichi la perdita di sensibilità alla terapia anti-Helicobacter pylori (35); pertanto, le neoplasie con una quota di grandi cellule eccedente i valori sopra indicati debbono essere diagnosticate quali “linfomi a grandi cellule B di tipo diffuso”; 4) sulla base di quanto apparso in letteratura a partire dal 1994 (56,57), le entità “linfoma della zona marginale, nodale” e “linfoma della zona marginale, primitivo della milza” sono state convertite da “provvisorie” ad “acclarate” e tenute distinte dalle forme che traggono origine dalla zona marginale del MALT; 5) il “linfoma centrofollicolare” [definito dalla t(14;18), dalla sovraespressione del prodotto di bcl-2 e dalla positività per la molecola CD10 (17)] è stato ridenominato “linfoma follicolare”; nella pratica clinica, i gradi I e II sono stati accorpati; la presenza di aree diffuse a grandi cellule B nel contesto di una forma follicolare di grado III è stata ritenuta meritevole di una specifica menzione [terminologia consigliata: linfoma follicolare, grado 3/3 (P%), con linfoma diffuso a grandi cellule B (P%)], richiedendo un approccio terapeutico più aggressivo; 6) la sottoclassificazione dei linfomi a grandi cellule B di tipo diffuso è stata mantenuta come opzionale; in particolare, in funzione di futuri trials clinici, le seguenti forme (quelle sottolineate non sono riportate nella REALC) (17) sono state oggetto di specifica menzione: centroblastica (bcl-6+/syndecan-1/CD138-), immunoblastica (bcl-6/syndecan-1/CD138+), anaplastica e ricca in linfociti T e/o istiociti reattivi, (58-60) (compresa la granulomatosi linfoimatoide) (61); sono state inoltre indicate alcune varietà con peculiari modalità di presentazione: primitiva del mediastino/timica, (51,62-64), intravascolare (65,66) e con primitivo versamento sieroso (67,68); 7) l’entità provvisoria della REALC “linfoma Burkitt-like” è stata abolita; tuttavia, la definizione di “linfoma di Burkitt” è stata modificata, sì da includere 2 sottotipi istologici (tipico ed atipico, quest’ultimo corrrispondente a quelle neoplasie molto aggressive, che morfologicamente ricordano il linfoma di Burkitt e che come questo vanno trattate) e 3 varietà cliniche (endemica, non endemica e connessa ad uno stato di immunodeficienza) (69). Per ciò che attiene ai linfomi T, le pricipali differenze dello schema della WHO rispetto alla REALC possono essere così sintetizzate: 1) il termine “leucemia linfatica cronica T/leucemia prolinfocitica T” è stato sostituito da quello di “leucemia prolinfocitica T” nell’intento di sottolineare l’aggressività del processo, anche se non tutti i casi soddisfano ai criteri morfologici per porre diagnosi di “leucemia prolinfocitica” (70); 32 2) il “linfoma T angiocentrico” della REALC (17) è stato ridenominato “linfoma extranodale a cellule NK/T di tipo nasale”, in quanto il carattere angiocentrico del processo non è sinonimo della sua derivazione dai linfociti T (61): il termine “di tipo nasale” è più appropriato, in considerazione del fatto che nei Paesi orientali - nei quali è piuttosto frequente - il tumore si sviluppa a livello delle strutture nasali, mentre nella popolazione occidentale può occorrere indifferentemente, tanto nelle aree centrofacciali che in altra sede extranodale (71,72); 3) le entità “linfoma T epato-splenico a cellule γ/δ” e “linfoma T sottocutaneo, similpanniculitico” (17), sono passate da “provvisorie” ad “acclarate”; 4) è stata aggiunta la categoria “leucemia aggressiva a cellule NK”; 5) nell’ambito dei “linfomi a cellule T periferiche, non altrimenti specificati (NAS)”, è stata inserita la distinzione fra forme nodali (raramente citotossiche) ed extra-nodali (generalmente citotossiche), rimenendo opzionale l’identificazione di sottotipi citologici; 6) i “linfomi a grandi cellule anaplastiche” (LGCA) sono stati suddivisi in “sistemici” e “cutanei”, dal momento che i secondi mancano della t(2;5) e dell’espressione della proteina ALK, hanno un decorso indolente ed appartengono ad uno spettro di condizioni, fra le quali si inserisce la paulosi linfomatoide, elemento questo che richiede l’esatta conoscenza delle informazioni cliniche per il preciso inquadramento di ciascun caso (73); per le forme sistemiche, è stata suggerita l’opportunità di ricercare in ogni caso la proteina ALK, esistendo delle precise indicazioni circa il fatto che il decorso della malattia risulta più favorevole nelle forme positive (32,74); 7) l’entità provvisoria “LGCA, Hodgkin-like” è stata abolita, in quanto: a) il LGCA può mostrare aggregazione nodulare e reazione fibrotica, tanto da simulare la malattia di Hodgkin (MH) a sclerosi nodulare (SN), b) la MHSN può risultare molto ricca in cellule neoplastiche, sì da ricordare il LGCA (75); nei casi problematici, l’espressione della molecola CD15, associata o meno a quella dei marcatori di linea B, e la mancanza, sia di riarrangiamento dei geni che codificano per il “T-cell receptor” (TCR) che del gene ibrido NPM/ALK, depongono per la MH, mentre la negatività per CD15, la positività per marcatori T o la proteina ALK e la presenza di riarrangiamenti per il TCR o NPM/ALK orientano per il LGCA; i casi rimasti irrisolti mediante l’impiego combinato della morfologia, dell’analisi fenotipica e della biologia molecolare dovrebbero essere indicati come “inclassificabili” ed essere sottoposti ad una nuova biopsia o ad un trattamento efficace, vuoi per la MH, vuoi per il LGCA (75). In termini pù generali, i partecipanti alla Consensus Conference hanno convenuto che: a) non esiste la necesssità di una specifica classificazione per i linfomi primitivi della cute, nè 33 dell’immunodepresso, essendo la conoscenza dei dati clinici sufficienti per il corretto trattamento dei singoli pazienti, b) il raggruppamento dei linfomi su base clinica è controindicato, potendo rendere più difficile l’identificazione di caratteristiche peculiari di un certo processo, c) una lista breve dei linfomi è inopportuna, essendo la maggior parte degli oncologi d’accordo su di una elencazione completa, nella quale le entità più frequenti risultino semplicemente evidenziate (Table 1). Conclusioni Hopwood afferma che “la necessità di classificare rappresenta un istinto connaturato con la natura umana: analogamente alla predisposizione a peccare, esso ci accompagna nel corso della nostra vita dalla nascita fino alla morte” (76). Talvolta, in passato, questa tendenza ha dato luogo a classificazioni estremamente complesse, le quali venivano meno allo scopo stesso di una classificazione, che è quello di risultare utile per la diagnosi e la terapia. La REAL Classification e quanto da esso scaturito rappresentano un esempio di come i patologi possano positivamente cooperare e comunicare con i clinici, così facilitando l’ampliamento dell’orizzonte cognitivo: è auspicio generale che questo tipo di collaborazione possa continuare a lungo in futuro, divenendo sempre più stretto, con beneficio per la ricerca e la cura del malato. Ringraziamenti Il presente testo è stato realizzato con fondi A.I.R.C. e M.U.R.S.T. Bibliografia 1) Banks P et al. Mantle cell lymphoma: a proposal for unification of morphologic, immunologic and molecular data. Am. J. Surg. Pathol. 1992; 16:637-640. 2) Mason DY et al. Nodular lymphocyte predominance Hodgkin's disease. A distinct clinicopathological entity. Am. J. Surg. 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Neoplasie dei linfociti B Neoplasie dei precursori dei linfociti B Leucemia/linfoma linfoblastico di derivazione dai precursori B Neoplasie a cellule B mature (periferiche) Leucemia linfatica cronica B/linfoma a piccoli linfociti B Leucemia prolinfocitica B Linfoma linfoplasmocitoide Linfoma splenico di derivazione dagli elementi B della zona marginale (± linfociti villosi) Leucemia a tricoleucociti Mieloma plasmacellulare/plasmocitoma Linfoma extranodale di derivazione dagli elementi B della zona marginale del MALT Linfoma mantellare Linfoma follicolare Linfoma nodale di derivazione dagli elementi B della zona marginale (± elementi monocitoidi) Linfoma a grandi cellule B di tipo diffuso^ Linfoma di Burkitt/leucemia di Burkitt^ Neoplasie a cellule T/NK Neoplasie dai precursori dei linfociti T Leucemia/linfoma linfoblastico di derivazione dai precursori T Neoplasie a cellule T/NK mature (periferiche) Leucemia prolinfocitica T Leucemia a linfociti T, ampi e granulati Leucemia a cellule NK, aggressiva Leucemia/linfoma a cellule T dell’adulto (HTLV-1+)^ Linfoma extranodale a cellule T/NK di tipo nasale 38 Linfoma T enteropatico Linfoma T epatosplenico, a cellule Linfoma T sottocutaneo, simil-panniculitico Micosi fungoide/sindrome di Sézary Linfoma a grandi cellule anaplastiche, primitivo della cute Linfoma a cellule T periferiche non altrimenti specificato (NAS)^ Linfoma T angioimmunoblastico Linfoma a grandi cellule anaplastiche, primitivo, sistemico^ Malattia/linfoma di Hodgkin A prevalenza linfocitaria Di tipo classico A sclerosi nodulare^ Varietà ricca in linfociti A cellularità mista A deplezione linfocitaria * Il carattere sottolineato indica gli istotipi di più frequente osservazione. ^ Per ragioni di chiarezza e di concisione, viene omessa l’indicazione di varianti morfologiche e/o cliniche. 39 IN VIVO PURGING OF CIRCULATING CD34+ PROGENITOR CELLS IN LOW-GRADE LYMPHOMA WITH RITUXIMAB AND HIGH-DOSE CHEMOTHERAPY. A.M. Gianni, M. Magni,* M. Di Nicola,* L. Gandola,* F. Lombardi,* G. Dastoli,* P. Matteucci,* L. Devizzi,* M. Bregni,* S. Campana,* P. Corradini, A. Pileri,* C. Tarella.* Istituto Nazionale Tumori e Università degli Studi, Milan; Roche SpA, Milan; Cattedra di Ematologia, Turin, Italy. *** Purpose. With the aim to overcome the limitations of ex vivo bone marrow purging, we have assessed the ability of the anti-CD20 monoclonal antibody rituximab, given in combination with high-dose chemotherapy, to eradicate PCR-detectable disease, and to enable the harvesting of large amounts of uncontaminated peripheral blood progenitor cells (CPC) in pts with low-grade lymphoma (in vivo purging). Patients and methods. From 4/97 to 12/98, 24 consecutive pts entered the study. Eligibility included age ≤60 years, a diagnosis of untreated mantle cell lymphoma or of refractory/early relapsed follicular lymphoma, CD20 expression by tumor cells, histologic bone marrow infiltration, and availability of a molecular marker for minimal residual disease detection. The study included three consecutive series of pts, whose treatment was dictated exclusively by the availability of rituximab. Thus, the first 10 pts and the last 4 pts enrolled received rituximab, while the remaining 10 consecutive pts served as controls. Overall, 7 pts in the rituximab group, and 3 control patients had a diagnosis of mantle cell lymphoma. Eligible pts received 2 to 4 courses of standard-dose chemotherapy, followed by one course of high-dose cyclophosphamide (CTX, 7 g/m2) plus GM-CSF and/or G-CSF and, three weeks later, by a second high-dose course of cytarabine (AraC, 1.5-2 g /m2 Q12H for 6 days) with CPC and growth factor infusion. The patients allocated in the rituximab group received two i.v. doses of the antibody at 375 mg/m2, approximately on day 2 and day 12 after the last infusion of high-dose cyclophosphamide and cytarabine, respectively. CPC were obtained by leukapheresis when the CD34+ cell count reached ≥50/µL. The intention was to collect, after cyclophosphamide, a PCR-negative leukapheresis product containing a minimum of 11 x 10e6/kg CD34+ cells. In case of PCR-positive products, additional leukaphereses were performed after cytarabine. If still PCR-positive, ex vivo immunological purging with anti-CD19 monoclonal antibody was performed, using a Miltenyi SuperMACS device. 40 Results. At the time of this report, 20 overall pts have completed their treatment, and are thus evaluable for clinical response. The CR rate was 100% in the rituximab arm (11/11 pts), and 78% in the control arm (7/9 pts). After a median follow-up of 11 months (range: 4-21), no pt relapsed. Two pts died of toxicity within 100 days following discharge after their second transplant (1 reactivation of hepatitis C in the control arm, and 1 cardiac arrhythmia in the rituximab arm), for a total toxic death rate of 10% (2/20 evaluable pts). The results of in vivo purging are summarized as follows: Rituximab Controls P % PCR-neg harvests post-CTX 36 20 NS % PCR-neg harvests p- CTX & AraC 93 40 <0.01 % PCR-neg harvests p- CTX & AraC & ex vivo purgi not applic. 80 PCR-neg CD34+ x10e6/kg (median & range) 28.3 (0-75.6) 15.9 (0-53.1) 0.01 Conclusion. We showed that rituximab, in combination with one or two courses of an effective high-dose anti-lymphoma therapy, allowed the harvesting of large amounts of tumor-free progenitor cells in 13 out of 14 evaluable pts, notably including all 7 pts with mantle cell lymphoma. The role of rituximab clearly emerged from comparison with the control group. In fact, only 4 of the 10 pts receiving chemotherapy only yielded a PCR-negative harvest (P <0.01), while the remaining 6 required ex vivo purging that was successful in 4. In addition, the total amount of PCR-negative progenitors harvested from the rituximabtreated pts was significantly superior (P=0.01). In conclusion, this in vivo purging strategy compares very favorably with ex vivo purging in terms of feasibility, costs, and overall success rate in harvesting an amount of uncontaminated CD34+ cells (i.e. ≥11x10e6/kg), fully adequate to support more that one cycle of subsequent myeloablative chemotherapy. 41 MIELODISPLASIE AD ALTO RISCHIO E LEUCEMIE ACUTE Mandelli Franco, Latagliata Roberto. Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia, Università “La Sapienza” di Roma. INTRODUZIONE Il progressivo invecchiamento della popolazione nei paesi occidentali ha determinato un aumento consistente dell’incidenza di molte patologie dell’anziano1. Questo fenomeno è particolarmente evidente anche per le Leucemie Mieloidi Acute (LAM) e le Sindromi Mielodisplastiche (SMD), affezioni entrambe comuni soprattutto in soggetti di età > 60 anni. L’interesse di molti ricercatori si è concentrato negli ultimi anni su queste patologie emergenti, portando ad importanti nuove acquisizioni dal punto di vista biologico ma non a sostanziali miglioramenti della prognosi. A tutt’oggi infatti, le terapie disponibili nei pazienti più giovani (polichemioterapie intensive seguite da procedure trapiantologiche di tipo autologo od allogenico)2 non sono quasi mai proponibili a pazienti anziani per l’elevata tossicità: d’altro canto, i trattamenti concepiti specificamente per i pazienti anziani (polichemioterapie a dosaggi ridotti senza procedure trapiantologiche successive, agenti differenzianti, basse dosi di chemioterapici) hanno 3-4 modificato solo marginalmente la storia naturale di queste patologie . Nel presente lavoro verranno discussi i dati attualmente disponibili sulle LAM e le SMD ad alto rischio, con particolare riferimento alle peculiarità biologiche di queste patologie nell’anziano, ai criteri di selezione per le diverse opzioni terapeutiche ed ai risultati ottenuti. CARATTERISTICHE DEL “PAZIENTE ANZIANO” Il paziente anziano, indipendentemente dalla malattia ematologica da cui è affetto, presenta delle caratteristiche fisiologiche legate all’invecchiamento. E’ stata dimostrata con l’età (soprattutto dopo i 70 anni) una progressiva riduzione dell’attività clonogenica delle cellule staminali normali, con passaggio dall’emopoiesi policlonale dei giovani ad un’emopoiesi oligoclonale: questo reperto, senza conseguenze in condizioni normali, può spiegare la prolungata citopenia post-chemioterapia che si osserva negli anziani11. Inoltre molte 42 funzioni organiche, in particolare l’emuntorio renale e la reattività immunologica, subiscono dai 70 - 75 anni in poi un calo fisiologico che si manifesta clinicamente solo in condizioni di stress per l’organismo (ad esempio in corso di aplasia post-chemioterapia)12. Negli anziani con problemi ematologici, inoltre, spesso coesistono altre patologie d’organo che condizionano la scelta terapeutica: più di un terzo dei pazienti con SMD o LAM di età > 60 anni è affetto da cardiopatie, da problemi respiratori cronici o da epatopatie più o meno gravi13. Considerando globalmente i dati sopra riportati, sembra opportuno mantenere il limite dei 60 anni utilizzato in letteratura per definire il paziente “anziano”. Tuttavia, una ulteriore suddivisione fra i pazienti di età inferiore e superiore ai 70 anni potrà in futuro risultare utile, poichè in questi ultimi il peso dei fattori legati all’invecchiamento è molto più evidente e condiziona notevolmente la scelta del programma terapeutico. Sarebbe molto importante, anche se non facile, valutare il paziente anziano tenendo conto dell’età biologica piuttosto di quella anagrafica. CARATTERISTICHE BIOLOGICHE DELLE LAM E DELLE SMD AD ALTO RISCHIO NELL’ANZIANO Le LAM dell’anziano non presentano aspetti morfologici peculiari rispetto ai giovani, ma se ne discostano per alcune caratteristiche cliniche e biologiche. Dal punto di vista clinico, infatti, è maggiore l’incidenza di LAM secondarie a SMD ed è presente una quota di pazienti (10%) con LAM “oligoblastiche” o “smouldering”; queste ultime, di eccezionale riscontro nei giovani, sono caratterizzate da una blastosi midollare < 40%, da una citopenia con pochi blasti nel sangue periferico e da un decorso clinico relativamente meno aggressivo5. Le peculiarità biologiche delle LAM negli anziani sono importanti perchè permettono di spiegare almeno in parte la minore responsività alle chemioterapie intensive di queste forme rispetto ai pazienti giovani. Tre differenze principali vanno segnalate: 1) la trasformazione leucemica colpisce un precursore più immaturo (più frequentemente CD34+) rispetto ai giovani, con un coinvolgimento più esteso della proliferazione e differenziazione. Come conseguenza, spesso anche gli eritrociti e le piastrine del paziente appartengono al clone leucemico, mentre nei giovani sono prodotti dalle cellule staminali normali residue6. Si spiega così l’alta incidenza negli anziani di “remissioni clonali” con elevato rischio di recidiva, in cui le cellule ematiche apparentemente normali derivano dal clone leucemico. 2) le alterazioni cariotipiche più frequenti nelle LAM dell’anziano sono caratterizzate da perdita di materiale genetico ed appartengono al gruppo “a cattiva prognosi” (del 5q-/monosomia 5, del 7-/monosomia 7, alterazioni cariotipiche complesse). Viceversa, sono estremamente rare (< 2%) le traslocazioni cromosomiche bilanciate [t(8,21), inv(16), t(15,17)], associate ad una buona prognosi, che sono più frequenti nei pazienti giovani7. 43 3) l’espressione della P-glicoproteina (P-gp), codificata dal gene della resistenza pleiotropica (MDR) e legata alla resistenza in vitro ed in vivo a numerosi farmaci antiblastici di corrente impiego nel trattamento delle LAM, è più frequente nei pazienti anziani rispetto ai giovani8. Per quanto concerne le SMD ad alto rischio, il problema centrale è una loro corretta definizione che le distingua dalle SMD a basso rischio, caratterizzate da un decorso cronico con scarsa tendenza all’evoluzione leucemica. In sintonia con la classificazione FAB, rientrerebbero nella definizione di alto rischio le SMD con blastosi midollare > 10%: tuttavia esistono anche altri parametri biologici e clinici (alterazioni cariotipiche, citopenie) il cui valore prognostico è ampiamente dimostrato. Allo stato attuale pertanto, sembra opportuno basare la definizione di SMD ad alto rischio su una valutazione multiparametrica, come quella proposta negli ultimi anni da numerosi sistemi a punteggio (o scoring systems). Fra questi il più adeguato sembra essere l’International Prognostic Scoring System (IPSS)9, elaborato da un gruppo cooperativo internazionale su una vasta casistica e successivamente validato, che prende in considerazione la blastosi midollare, le alterazioni cariotipiche ed il numero di citopenie periferiche. In base a tale sistema classificativo, le SMD ad alto rischio sono quelle con un punteggio superiore ad 1. Così definite, le SMD ad alto rischio sono un gruppo relativamente omogeneo, caratterizzato da una percentuale > 70 - 80% dei casi di evoluzione in LAM nel corso della loro storia naturale ed una sopravvivenza mediana inferiore all’anno. Possono pertanto considerarsi a tutti gli effetti strettamente legate alle LAM dell’anziano, con le quali condividono le principali caratteristiche clinico-biologiche (pancitopenia periferica, target leucemico indifferenziato, prevalenza di alterazioni cariotipiche a cattiva prognosi)10. CRITERI DI SELEZIONE PER LA SCELTA TERAPEUTICA NEL PAZIENTE ANZIANO Vi è un accordo generale sulla necessità di selezionare accuratamente i pazienti anziani con LAM o SMD ad alto rischio, per un loro corretto inserimento nell’approccio terapeutico più adatto. Nonostante i notevoli progressi sugli aspetti biologici di queste malattie e sul loro significato prognostico, la selezione è ancora oggi legata soprattutto alla valutazione clinica del paziente. La maggior parte degli autori prende in considerazione i seguenti criteri di esclusione dalle chemioterapie intensive: - Età > 75 o 80 anni - Performance Status (PS) > 3 secondo la classificazione WHO (ma in alcuni studi vengono esclusi anche i pazienti con PS = 3) - Presenza di cardiopatie sintomatiche, nefropatie o epatopatie (tuttavia i valori di creatinina, GPT e bilirubina utilizzati per escludere i pazienti sono spesso diversi nei vari studi) - Pazienti affetti da LAM con pregressa fase mielodisplastica > 6 mesi (solo in alcuni studi). 44 CHEMIOTERAPIA INTENSIVA Chemioterapia intensiva nelle LAM Le percentuali di inclusione in schemi di terapia intensiva dei pazienti anziani affetti da LAM variano nei diversi Centri dal 39% al 72% (Tab.1): questa ampia variabilità dipende soprattutto dai criteri di selezione impiegati e dalla impossibilità di valutare il numero totale dei pazienti. TAB.1 PERCENTUALE DI PAZIENTI ANZIANI TRATTATI INTENSIVAMENTE OSPEDALE/AREA GEOGRAFICA PERIODO DI TEMPO Ematologia “La Sapienza”Roma Ospedale S. Matteo-Pavia Ospedale Hotel-Dieu-Parigi Ospedali Cardarelli e Cervello Napoli e Palermo Ospedale S. BartolomewLondra Ospedale S. Eugenio-Roma Inghilterra del Nord 1980 - 1986 PAZ. TRATTATI INTENSIVAMENTE (%) 29/74 (39.2%) 1980 - 1988 1980 - 1989 Non riportato 52/103 (50%) 108/235 (45.9%) 72/100 (72%) 1978 - 1986 88/115 (77%) 1987 - 1993 1988 - 1991 92/159 (57.8%) 82/200 (41%) La chemioterapia intensiva di induzione nelle LAM degli anziani si basa sugli stessi farmaci correntemente impiegati nei pazienti giovani. Con l’associazione standard Citosina-Arabinoside (Ara-C) + Daunorubicina (DNR) (schema 3 + /) è stato possibile ottenere negli anni’80 una Remissione Completa (RC) nel 30-52% dei pazienti, a fronte di percentuali di resistenza e di decessi in induzione variabili rispettivamente dal 15 al 41% e dal 22 al 54% (Tab.2)14-15-16-17. TAB.2 SCHEDULA “3 + 7” : RISULTATI ETA’ N. RC (%) MEDIA PTS NA Reiffers (1980) Rai (1981) 69 19 69 22 Yates (1982) > 60 68 Arlin (1990) > 60 51 10 (52.6%) 10 (45%) RES (%) DI (%) 3 6 (16%) (31.4%) 6 6 (27.5% (27.5%) ) 21 (31%) 10 37 (54%) (15%) 19 (37%) 21 11 (22%) (41%) DFS OS MEDIAN MEDIAN A A (mesi) (mesi) NR 7.5 NR NR 12 NR 7.5 2 45 Per migliorare questi risultati sono stati compiuti numerosi tentativi, schematicamente divisibili in 4 gruppi: 1) Variazioni del dosaggio dei farmaci. La riduzione del dosaggio della DNR da 45mg/m2 a 30mg/m2 ha dato risultati contrastanti: 2 studi randomizzati degli anni’80 mettevano in evidenza una superiorità significativa della dose ridotta verso la dose standard di DNR16-18, mentre un recentissimo studio tedesco ha riportato percentuali di RC significativamente migliori usando un dosaggio di DNR di 60mg/m2 nei confronti di 30mg/m2(Tab.3)19. Una possibile spiegazione di queste osservazioni apparentemente contraddittorie è nel miglioramento della terapia di supporto osservato negli ultimi 15 anni, con conseguente riduzione dei decessi in induzione; bisogna comunque sempre tenere presente la diversa selezione dei pazienti da trattare. TAB.3 DOSI ATTENUATE DI DNR VS STANDARD: RISULTATI ETA’ N. SCHEMA DI MEDIA PTS TRATTAMEN NA TO Yates (1982) > 60 73 68 Kahn (1984) > 70 20 20 Buch ner (1997) 66 170 170 3 + 7 (DNR 30mg/m2) 3 + 7 (DNR 45mg/m2) DAT Attenuato DAT Standard TAD (DNR 60mg/m2) TAD (DNR 30mg/m2) RC (%) RES (%) 34 (47%) 21 (31%) 6 (30%) 5 (25%) 88 (52%) 76 (45%) 9 (12%) 10 (15%) 9 (45%) 3 (15%) 48 (28%) 41 (24%) DI (%) DFS OS MEDIA MEDIA NA NA (mesi) (mesi) 12 NR 30 12 NR (41%) 37 (54%) NR 5 5 NR 1 (25%) 12 (60%) NR NR 34 NR NR (20%) 53 (31%) L’impiego delle alte dosi di Ara-C (HiDAC) (2-3 g/m2) da sole od in associazione si è rivelato estremamente tossico negli anziani, soprattutto a livello neurologico, senza un sostanziale aumento delle RC (Tab.4)20-21-22-23. TAB.4 HiDAC: RISULTATI ETA’ MEDIA NA Preisler (1987) Lazaru s (1989) N. SCHEMA DI PTS TRATTAMENT O > 70 23 66 21 RC (%) RES (%) DI (%) HiDAC 2-3 g/m2 10 2 11 twice for 6 days (43%) (9%) (48%) 7 5 9 HiDAC (3 g/m2 (42.8 (23.8 (33.4 twice %) %) %) for 4-5 days)+ DNR DFS OS MEDIA MEDIA NA NA (mesi) (mesi) 9.2 2.8 9 6 46 Petti (1989) 61 125 Feldma n (1997) 70 53 50 32 43 HiDAC (3 g/m2 (34.4 (40%) (25.6 twice %) %) for 2-3 days)+ ASNasi 27 15 11 HiDAC (3 g/m2 (51%) (28%) (21%) for 5 days)+ Mitox 9 5 6 8 2) Impiego di nuovi agenti intercalanti. L’Idarubicina (IDA) ed il Mitoxantrone (Mitox) sono stati confrontati alla DNR in numerosi studi negli ultimi 15 anni. Nonostante alcune promettenti osservazioni iniziali in studi-pilota non randomizzati, cinque studi randomizzati di gruppi cooperativi non hanno messo in evidenza differenze significative in termini di RC, sopravvivenza libera da malattia (DFS) e sopravvivenza globale (OS) (Tab.5)17-24-25-26-27. TAB.5 STUDI DI FASE III: IDA/MITOX VERSUS DNR ETA’ MEDIA NA Arlin (1990) N. PTS > 60 48 51 Mandell i (1991) 62 124 125 Wiernik (1992) > 60 38 45 Reiffers (1996) >55<75 112 108 Lowenb erg (1998) 68 247 242 TERAPIA RC (%) DI INDUZIO NE Mitox+Ara 22 (46%) C 19 (37%9 DNR+Ara C IDA+AraC 50 DNR+Ara (40.3%) C 49 (38.2%) IDA+AraC 19 (50%) DNR+Ara 20 (44%) C IDA+AraC 76 DNR+Ara (67.9%) C 66 (61.1%) Mitox+Ara 115 C (46.6%) DNR+Ara 92 (38%) C RES (%) 15 (32%) 21 (41%) DFS MEDIA NA (mesi) 11 (22%) 10 11 (22%) 8 27 (21.7%) 49 (39.2%) NR NR 47 (37.9%) 27 (21.6%) NR NR 13 (11.6%) 26 (24%) 23 (20.5%) 16 (14.9%) 52 (21.1%) 36 (14.9%) 80 (30.2%) 114 (47.1%) DI (%) OS MEDIA NA (mesi) 3.3 2 10 9.5 3 5.5 NR NR 3.4 3.2 14 11 10.5 9 9 9 10 9 3) Aggiunta di un terzo farmaco all’associazione standard. La 6-Thioguanina (6TG) è stata generalmente impiegata con la DNR e l’Ara-C nello schema DAT (o TAD): tuttavia, in diversi studi non randomizzati (Tab.6)28-29-30-31 ed in uno studio randomizzato32, non si sono osservate differenze significative nei confronti dei risultati ottenuti con l’associazione standard 3+7. TAB.6 SCHEMI DAT/TAD: RISULTATI ETA’ MEDIA NA N. SCHEMA DI PTS TRATTAME NTO RC (%) RES (%) DI (%) DFS MEDIA NA OS MEDIA NA 47 Foon (1981) Rees (1986) Johnson (1996) Rees (1996) > 60 33 3+7+7 25 (76%) NR NR (mesi) 14 (mesi) 22 > 60 305 1+5+5 NR NR 12.5 8 > 60 61 3+7+7 146(49.5 %) 38 (62%) 9 (15%) NR < 12 > 60 167 3 + 10 + 10 80 (48%) 14 (23%) 33 (20%) 54 (32%) NR 7 L’impiego dell’Etoposide (VP-16) come terzo farmaco è più recente: i risultati preliminari di uno studio cooperativo dell’EORTC riportano una percentuale interessante di RC (61%), senza tuttavia miglioramenti della DFS e dell’OS33. 4) Impiego dei Fattori di Crescita (GF). L’avvento in terapia dei GF alla fine degli anni’80 ha creato nuove speranze di poter migliorare i deludenti risultati della chemioterapia intensiva negli anziani. I meccanismi d’azione dei GF che si intendeva sfruttare erano due: a) accorciamento della durata della neutropenia post-chemioterapia con riduzione delle complicanze infettive correlate (somministrazione dei GF dopo la chemioterapia); b) aumento della sensibilità delle cellule leucemiche alla chemioterapia mediante “reclutamento” nel ciclo cellulare delle sottopopolazioni blastiche quiescienti (somministrazione dei GF precedente e contemporanea alla chemioterapia). Sulla base dei numerosi studi randomizzati disponibili con l’impiego del Granulocyte-Macrophage Colony Stimulating Factor (GM-CSF) o del Granulocyte CSF (G-CSF) si possono trarre le seguenti conclusioni (Tab.7)34-35-3637-38-39: - in tutti gli studi la neutropenia è stata di più breve durata nei pazienti sottoposti al GF, ma il numero di infezioni e la percentuale di morti in induzione sono risultati identici (ad eccezione dello studio della Rowe); - la percentuale di RC è stata la stessa in tutti gli studi (ad eccezione dello studio di Dombret, in cui è risultata significativamente superiore soprattutto nei pazienti con cariotipo sfavorevole); - la DFS e l’OS sono risultate uguali in tutti gli studi, ad eccezione degli studi di Rowe e di Witz (ma in quest’ultimo solo nei pazienti di età < 65 anni). Pertanto, non sembra esserci attualmente una chiara indicazione per l’impiego dei GF nella terapia delle LAM dell’anziano, se non in particolari sottogruppi di pazienti. TAB.7 CHEMIOTERAPIA + FATTORI DI CRESCITA: RISULTATI ETA’ MEDIA NA Rowe (1995) 64 N. PT S SCHEMA DI TERAPIA GF RC (%) RES (%) DI (%) 11 7 3+7 (DNR 60mg) GMCSF Placebo 36 (60%) 25 (44%) NR NR NR NR DFS MEDIA NA (mesi) 8.5 9.6 OS MEDIA NA (mesi) 10.6 4.8 48 Stone (1995) 69 38 8 3+7 (DNR 45mg) GMCSF Placebo Lowenbe rg (1997) 68 31 8 3+7 (DNR 30mg) GMCSF Placebo Witz (1998) 66 24 0 IDA+AraC (IDA 8mg) GMCSF Placebo Dombret (1995) 71 17 3 4+7 (DNR 45mg) G-CSF Placebo Godwin (1998) 68 21 1 3+7 (DNR 45mg) G-CSF Placebo 99 (51%) 106 (54%) 88 (56%) 89 (55%) 69 (63%) 74 (60%) 62 (70%) 430 (47%) 43 (41%) 52 (50%) 42 (22%) 44 (23%) 47 (30%) 51 (32%) 21 (19%) 29 (24%) 13 (15%) 28 (33%) NR NR 52 (27%) 45 (23%) 22 (14%) 21 (13%) 20 (18%) 19 (16%) 13 (15%) 17 (20%) NR NR 8.2 10.4 9.4 9.4 < 12 < 12 10 9.8 23 11 6 5 39% at 2yrs 27% at 2yrs 9 8 8 9 6 9 Una volta ottenuta la RC, nei pazienti anziani c’è il problema di quale sia la terapia post-remissionale ottimale. I numerosi approcci impiegati negli ultimi 20 anni (mantenimento, consolidamento, intensificazione con le HiDAC) hanno dato risultati insoddisfacenti, con DFS ed OS mediane generalmente inferiori ad 1 anno: un recente studio randomizzato ha dimostrato che negli anziani la DFS non è influenzata dal dosaggio dell’Ara-C nella terapia post-remissionale40. Nel tentativo di migliorare questi risultati, è stato proposto l’impiego dell’autotrapianto da cellule staminali periferiche, ma i primi risultati disponibili indicano che solo pochissimi pazienti possono essere trattati con tale procedura, sia per una raccolta inadeguata di cellule che per la tossicità delle precedenti chemioterapie33. Chemioterapia intensiva nelle SMD ad alto rischio Nei pazienti anziani affetti da SMD ad alto rischio, le percentuali di inclusione in schemi di terapia intensiva sono inferiori (< 15%) rispetto alle LAM dell’anziano per almeno 3 motivi: a) età mediana più elevata rispetto ai pazienti affetti da LAM (> 70 anni verso 64 anni), b) tendenza da parte di molti medici ad aspettare un’eventuale evoluzione della SMD in LAM prima di iniziare uno schema di terapia intensiva, c) considerare le SMD ad alto rischio (e le LAM evolute da SMD) come patologie più refrattarie alla chemioterapia rispetto alle LAM “de novo”. La valutazione dei risultati terapeutici è resa difficile da 2 ordini di motivi: 1) a differenza delle LAM dell’anziano, non esistono studi di chemioterapia intensiva nelle SMD ad alto rischio condotti specificamente in pazienti anziani, ed i dati relativi ai pazienti > 60 anni vanno estrapolati; 2) le casistiche comprendono il più delle volte sia pazienti in fase displastica che pazienti già evoluti in LAM. 49 Dall’esame degli studi più recenti (Tab.8)41-42-43-44 si possono trarre alcune considerazioni generali: - anche nelle SMD ad alto rischio l’età > 60 anni è un fattore prognostico sfavorevole; - mentre le percentuali di RC sono simili a quelle delle LAM dell’anziano, la DFS e l’OS sono inferiori (generalmente < 6-8 mesi). TAB.8 CHEMIOTERAPIA INTENSIVA NELLE SMD AD ALTO RISCHIO: RISULTATI ETA’ N. SCHEMA DI MEDIA PT TRATTAME NA S NTO Estey (1995) > 60 Economopo ulos (1996) Invernizzi (1997) Estey (1999) > 60 >65 65 RC (%) RES (%) DI (%) IDA+AraC Fluda+AraC+ /-G-CSF 18 IDA+AraC + GM-CSF 27 (57%) NR NR 9 (50%) 8 1 10 2 (20%) 32 (51%) 47 IDA+AraC 62 Fluda+IDA+ AraC +/-G-CSF+/ATRA 7 1 (70%) (10%) NR NR DFS OS MEDIA MEDIA NA NA (mesi) (mesi) 6 5 8 12.5 NR 5 9 7 CHEMIOTERAPIE AD AGGRESSIVITA’ INTERMEDIA Molti pazienti anziani, non essendo elegibili per una chemioterapia intensiva a causa dell’età o di patologie associate di media gravità, sono stati trattati con chemioterapie ad aggressività intermedia, con la finalità comunque di ottenere una RC. In tale ambito, sono stati impiegati 3 diversi approcci: a) basse dosi di AraC (LoDAC); b) monochemioterapie; c) associazione di farmaci antiblastici per os. Il ruolo delle LoDAC, impiegate ampiamente negli anni’80 per un loro presunto meccanismo differenziativo, è stato molto ridimensionato negli ultimi anni, sia nelle LAM che nelle SMD ad alto rischio: ampi studi hanno infatti messo in evidenza un’elevata tossicità da prolungata fase aplastica, con basse percentuali di risposte (< 25-30%) ed una sopravvivenza mediana < 6 mesi45-4647. Nelle SMD ad alto rischio, sono stati condotti 2 studi randomizzati sull’associazione LoDAC + GM-CSF o IL-348-49: non è stata però dimostrata alcuna efficacia aggiuntiva di queste citochine rispetto alle LoDAC da sole. In questo ambito resta da valutare l’associazione LoDAC + ATRA, che in alcuni piccoli studi su pazienti anziani affetti da LAM ha mostrato promettenti risultati 50. 50 L’IDA per os è stata impiegata sia da sola che in associazione ad altri farmaci in schemi ambulatoriali. I risultati nelle LAM dell’anziano sono incoraggianti, ed uno studio randomizzato ha mostrato la superiorità di uno schema orale comprendente l’IDA nei confronti dello schema TAD51: tuttavia l’IDA per os ha comunque una tossicità elevata con aplasia prolungata e con la necessità di ospedalizzazione in quasi tutti i pazienti, rientrando perciò più propriamente fra gli approcci intensivi. Anche nelle SMD ad alto rischio l’IDA per os ha messo in evidenza una efficacia solo ad alte dosi52 con elevata tossicità, mentre a basso dosaggio è risultata inefficace53. L’azacitidina54-55, il melphalan56 e l’alfa-interferone57 sono stati impiegati prevalentemente in pazienti anziani con SMD ad alto rischio con discrete percentuali di risposta (intorno al 40% dei pazienti trattati): tuttavia si tratta di studi con un numero ridotto di pazienti (< 50) che necessitano di trovar conferma in più ampie casistiche. TERAPIA DI SUPPORTO E PALLIATIVA Questo approccio terapeutico è riservato alle seguenti categorie di pazienti anziani: - pazienti affetti da LAM o da SMD ad alto rischio non elegibili ad altri approcci terapeutici per condizioni cliniche particolarmente scadute (PS > 2) o gravi patologie associate: la sopravvivenza mediana in questi casi è generalmente < 4 mesi. - pazienti affetti da LAM oligoblastiche o SMD ad alto rischio senza gravi citopenie periferiche: in questi casi la terapia di supporto può garantire una discreta sopravvivenza mediana (> 6 mesi - 1 anno) e deve essere una scelta obbligata perchè vantaggiosa. La terapia di supporto e palliativa ha in ogni caso come obiettivo principale una buona qualità di vita. Purtroppo non sono disponibili studi specificamente rivolti a questo approccio, se non marginalmente: perciò non vi è un preciso accordo su molti aspetti importanti (quando iniziare una chemioterapia palliativa, quali sono i farmaci più efficaci, secondo quale schema e quanto a lungo devono essere somministrati, quale può essere il ruolo di un’assistenza domiciliare). D’altro canto, con il progressivo invecchiamento della popolazione e l’insorgenza sempre più frequente di LAM e SMD in pazienti molto anziani (> 80 anni), nei quali è quasi sempre opportuna una terapia di supporto e contenimento58-59, sarà richiesto un maggiore approfondimento con studi clinici controllati di questo approccio terapeutico. PROSPETTIVE FUTURE: L’INSEGNAMENTO DELLA LEUCEMIA ACUTA PROMIELOCITICA Alle soglie del nuovo millennio è un dato di fatto che le LAM e le SMD ad alto rischio degli anziani sono patologie ancora incurabili. Tuttavia, è possibile delineare alcune direzioni future: 51 - nelle forme in cui si sono comprese le alterazioni molecolari ed il meccanismo della trasformazione neoplastica, è stato possibile cambiare radicalmente la prognosi anche negli anziani. E’il caso della Leucemia Acuta Promielocitica (LAP), in cui è stato possibile clonare il gene ibrido PML/RARa prodotto dalla traslocazione t(15,17) e trattare questi pazienti con l’acido alltrans retinoico (ATRA), primo esempio nelle LAM di terapia mirata su una lesione molecolare specifica. Con l’ATRA in associazione alla chemioterapia è possibile ottenere la RC in > 90% dei casi ed una DFS > 60% a 5 anni nei pazienti giovani; tali risultati, anche se un po' inferiori, sono stati ottenuti anche nei rari pazienti di età > 60 anni, annullando quasi completamente il significato prognostico sfavorevole dell’età che esiste nelle altre forme di LAM60. Il primo obiettivo nel prossimo futuro è perciò una migliore comprensione dei meccanismi di trasformazione neoplastica nelle LAM e nelle SMD, per avere nuovi target a cui mirare con terapie specifiche. - la chemioterapia intensiva dà risultati più o meno favorevoli in base alle caratteristiche biologiche dei pazienti (alterazioni cariotipiche, espressione della P-gp), indipendentemente dalle condizioni cliniche del paziente all’esordio8. Il secondo obiettivo è perciò il passaggio da una selezione clinica ad una selezione biologica dei pazienti elegibili. - vi sono alcuni nuovi promettenti approcci terapeutici ancora in fase di valutazione clinica: l’anticorpo monoclonale anti-CD33 (nelle LAM e nelle SMD ad alto rischio), l’amifostine (nelle SMD ad alto rischio) ed i revertanti della Pgp (in entrambe le patologie). Il terzo obiettivo è l’esatta comprensione del ruolo di questi nuovi approcci. BIBLIOGRAFIA 1) Paccaud F, Sidoti Pinto C, Marazzi A, Mili J. 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Ann Oncol 1997; 8:1273-5. 56 I LINFOMI NON-HODGKIN AGGRESSIVI DELL’ANZIANO: PROGNOSI E TERAPIA Sante Tura Istituto di Ematologia e Oncologia Medica “Seràgnoli”, Università di Bologna Grazie al progressivo miglioramento dei presidi diagnostico-stadiativi ed a causa del costante aumento di incidenza della patologia linfomatosa in generale e negli individui di età superiore ai 60 anni in particolare, i linfomi non-Hodgkin dell’anziano occupano oggi un posto di sempre maggior rilievo in campo oncoematologico. Ciò è soprattutto vero per le forme aggressive, per le quali tanto la prognosi quoad vitam quanto le strategie terapeutiche devono quotidianamente essere investigate in pazienti ancora in buone condizioni fisiche, ma per i quali l’età di per se è stata identificata come fattore prognostico sfavorevole. Quest’ultima considerazione può essere spiegata compiutamente solo tenendo conto di alcune variabili che spesso sfuggono al processo decisionale relativo a questi pazienti: la possibilità di una maggior tossicità legata al trattamento e quella di una biologia della malattia in qualche modo più aggressiva. Fino ad un recente passato ne è derivata una sostanziale riluttanza a stadiare completamente, quando non addirittura a completarne l’iter diagnostico, ed a trattare con intento curativo cospicue coorti di pazienti ultrasessantenni. Durante il corso degli ultimi 15 anni si è assistito da un lato all’evolversi di un trend sempre meno caratterizzato dall’atteggiamento mentale paziente anziano-trattamento palliativo da parte del medico e dall’altro dal conseguimento di risultati via via sempre più incoraggianti sia in termini di ottenimento della remissione completa che di incremento della sopravvivenza libera da malattia a 5 anni. E’ evidente che, prima ancora di addentrarsi in una disamina sul come trattare il paziente anziano portatore di linfoma aggressivo, non si possa prescindere dall’identificarlo correttamente. Quali sono i pazienti anziani portatori di linfoma ? In termini di co-morbidità e di raffronto fra età biologica ed età anagrafica, esistono dati in supporto del fatto che l’aspettativa di vita per i pazienti anziani, a fronte di una certa frequenza di malattie associate all’età, resta piuttosto alta, essendo pari a circa 15 anni per i settantenni, ad 8 anni per gli ottantenni ed a 5 anni per i novantenni. Ne consegue che, nel caso specifico dei linfomi aggressivi, un approccio terapeutico a carattere potenzialmente curativo dovrebbe essere visto come adeguato nella maggior parte dei casi. In questo senso, ovviamente, un’attenta e possibilmente standardizzata valutazione dell’età biologica attraverso l’impiego di scale specifiche (per esempio: RDRS2 di Linn, SPMSQ di Pfeiffer, ADLA di Katz) dovrebbe essere perseguita vigorosamente, invece di continuare a basarsi empiricamente sulla più immediata ma pur sempre meno indicativa età anagrafica. 57 In termini farmacocinetici, va ricordato che il fisiologico processo di invecchiamento si associa ad alterazioni significative della distribuzione del grasso corporeo e dell’acqua, nonché del più o meno accentuato peggioramento della funzione epatica e renale. Nel caso specifico dei pazienti anziani con linfoma aggressivo poi, bisogna tenere conto dell’aumentata tossicità da farmaci (per esempio cardiotossicità da antracicline, tossicità polmonare da bleomicina ed ematologica da adriamicina, metotrexate, etoposide e vinblastina, nonché la maggior severità dei processi mucositici); in aggiunta, il rischio di reazioni avverse a farmaci può aumentare fino a 7 volte, per lo più per mancanza di specifiche informazioni relative alla compatibilità farmaco-paziente, piuttosto che per problemi legati alla collaborazione del paziente stesso. In termini psicosociali, le relazioni familiari ed una sostanziale integrazione del paziente anziano nel contesto sociale influenzano sempre e comunque la possibilità di trattarlo nella maniera più consona ed adeguata. Nello stesso tempo, va da sé, che la lucidità ed il livello culturale del paziente giocano a loro volta un ruolo determinante sul potenziale livello di collaborazione. Quanto al rapporto medico-paziente in termini di attitudine reciproca, con tutto il fardello di considerazioni legate talora al pregiudizio e talora alla realtà, si osserva non di rado che il paziente anziano tende ad essere privato di qualsiasi trattamento di potenziale successo nonostante una sostanziale assenza di controindicazioni maggiori. Più spesso, peraltro, questo paziente viene sottotrattato e meno spesso riferito ad un centro specializzato o curato con un approccio multidisciplinare rispetto ai pazienti più giovani. Possono essere trattati come i pazienti più giovani ? Quando e dove, in passato, si è ritenuto di potere o di dovere trattare i pazienti anziani con linfoma aggressivo, l’età senile è stata fissata più spesso oltre i 60 anni e logicamente, prima di sperimentare approcci polichemioterapici per così dire ad hoc, si è tentato di curare i malati con le stesse armi in uso per i pazienti al di sotto di quell’età. Risultati contraddittori sono stati ottenuti quando si consideri la percentuale di casi in cui si è riusciti ad indurre la remissione completa. Se da un lato, infatti, schemi come CHOP ed alcuni CHOP-like si rivelavano statisticamente più efficaci nei pazienti giovani che negli anziani, utilizzando protocolli di polichemioterapia di terza generazione quali il CAP/BOP od il MACOP-B tali differenze scemavano. Ancora più evidente era la scarsità di rilevanza del fattore età quando si procedeva alla valutazione della sopravvivenza libera da malattia, in quanto solo alcuni protocolli CHOP-like evidenziavano differenze a vantaggio della coorte di pazienti più giovani. Al contrario però, in termini di sopravvivenza globale, tutti i protocolli di polichemioterapia mostravano chiari vantaggi per i pazienti più giovani, come del resto poteva essere facilmente prevedibile a prescindere dal più o meno evidente successo iniziale del trattamento. A questo punto si rese necessario analizzare più minuziosamente un parametro che, se da un lato interessa qualunque coorte di pazienti, per quelli anziani diventa imprescindibile ai fini di un completo inquadramento nosografico della malattia e di ogni suo potenziale tipo di terapia: la mortalità correlata al trattamento. Se Armitage già nel 1984 poteva sottolineare in tutta la sua evidenza tale problema, quantificandolo in un 30% dei casi trattati con lo schema CHOP, gli studi che si sono succeduti per circa un decennio hanno dimostrato che, utilizzando i protocolli aggressivi in uso per i pazienti più giovani, 58 anche in condizioni di terapia di supporto ottimale, non si riusciva a ridurre la mortalità trattamento-associata al di sotto del 10%. Ne è scaturita una intensificazione della ricerca clinica volta a disegnare regimi di chemioterapia efficaci e possibilmente meno tossici al fine di impiegarli esclusivamente per i pazienti anziani con linfoma aggressivo (1-8). Cosa ci hanno insegnato i trials randomizzati ? Gli schemi di polichemioterapia disegnati appositamente per i pazienti anziani con linfoma aggressivo si caratterizzano per due peculiarità fondamentali: l’essere di più breve durata ed il non contenere metotrexate e doxorubicina allo scopo di ridurre incidenza ed intensità di mucositi e cardiomiopatia. Gli schemi concepiti allo scopo di non rinunciare comunque al contributo delle antracicline si sono poi avvalsi a seconda dei casi di mitoxantrone, pirarubicina, aclarubicina od idarubicina. Negli ultimi 5 anni diversi studi randomizzati sono stati portati avanti con l’intento di identificare modalità terapeutiche alternative ed efficaci. Nel 1994 Kitamura (9) ha paragonato 3 coorti di pazienti ultrasessantacinquenni (in totale 420) trattati rispettivamente con gli schemi THP-COP, LD-CHOP e THP-COPE. Nessuna differenza statisticamente significativa è stata riscontrata in termini di percentuale di remissioni complete, mentre il primo schema si è caratterizzato per una sopravvivenza globale a 3 anni appena significativamente superiore. E’ seguito lo studio di Sonneveld (10), in cui oggetto della comparazione erano gli schemi CHOP e CNOP. A fronte di differenze statisticamente significative a favore del primo in termini di percentuale di remissioni complete indotte e di sopravvivenza globale a 3 anni, irrilevanti si osservavano le differenze relative alla dose-intensity ed alla sopravvivenza libera da malattia. Nello stesso anno, questa volta su pazienti ultrasessantenni, Meyer (11) dimostrava non esservi alcuna differenza significativa, in termini di remissioni complete, dose-intensity e sopravvivenza libera da progressione a 2 anni, fra i pazienti trattati secondo lo schema CHOP e quelli che ricevevano una sua versione modificata nei dosaggi e somministrata settimanalmente. Bastion (12) e Tirelli (13), ambedue su coorti di pazienti prevalentemente ultrasettantenni, hanno infine confrontato rispettivamente il primo gli schemi CVP e CTVP, il secondo quelli CHOP e VMP. Nel primo caso l’aggiunta della pirarubicina è stata efficace, in termini statistici, sia per ciò che concerne le remissioni complete che in termini di sopravvivenza globale a 5 anni. Nel secondo la significatività statistica in favore dello schema CHOP è stata evidenziata in termini di risposta globale, remissioni complete, sopravvivenza libera da progressione e globale entrambe a 2 anni. Limitatamente alle forme localizzate in stadio I o II, è doveroso citare gli studi di Vose (14) e di Oguchi (15). Nel primo caso, pazienti ultrasettantenni sono stati trattati alternativamente con lo schema CAP-BOM per 6 cicli, con lo schema CAP-BOM per 3 cicli + radioterapia sulle sedi di malattia, oppure solo con la radioterapia sulle sedi di malattia, con una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni pari rispettivamente al 35%, 47% e 10%. Nel secondo studio, peraltro non randomizzato, pazienti ultrasessantacinquenni ricevevano radioterapia sia sulle sedi di malattia (40 Gy) che sulle altre (30 Gy) dopo una polichemioterapia secondo lo schema ACOP o MACOP-B. Questo trattamento aggressivo ha comportato risultati estremamente interessanti: 100% di remissioni complete, con una sopravvivenza globale a 5 anni pari all’82% ed una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni pari al 70%. 59 I fattori di crescita possono essere d’aiuto ? Il passo successivo, virtualmente obbligato, è stato quello di verificare se, al di là dei costi, l’impiego dei fattori di crescita emopoietici potesse servire a ridurre la tossicità senza sacrificare l’efficacia dei trattamenti polichemioterapici. I primi studi randomizzati disegnati in tal senso risalgono al 1994, quando Bertini (16) e Zagonel (17) testarono l’impiego del G-CSF in associazione rispettivamente con gli schemi P-VEBEC e CHVmP/VB. Nel primo caso i pazienti che ricevettero il fattore di crescita ottennero un vantaggio statisticamente significativo in termini di incidenza della neutropenia e di dose intensity, ma non per ciò che riguarda la percentuale di remissioni complete ottenute e la sopravvivenza libera da ricaduta. Nel secondo il vantaggio statistico si concretizzò, oltre che in termini di incidenza della neutropenia, anche in termini di ritardi della chemioterapia e degli episodi infettivi. Nessun vantaggio, al contrario, è stato osservato per quanto concerne le remissioni complete ottenute. Uno studio più recente (18), non randomizzato, merita infine di essere citato perché Gomez ha deciso di associare al classico schema CHOP il GM-CSF invece del G-CSF. I dati più interessanti emersi sono un 62% di remissioni complete, un 95% relativo alla dose intensity ed un 43% di cicli di chemioterapia durante i quali si è sviluppata una neutropenia febbrile; la mortalità legata al trattamento si è attestata intorno all’8%. L’esperienza di Bologna Il primo tentativo di disegnare un protocollo polichemioterapico ad hoc per pazienti anziani con linfoma ad alto grado di aggressività presso l’Istituto Seràgnoli risale ai primi anni ’90, con risultati pubblicati nel 1993 (19). Con l’obiettivo di aumentare il tasso di remissioni complete senza per questo perdere in sicurezza e fattibilità, fu messo a punto lo schema VNCOP-B, un regime MACOP-B-like che si caratterizza per la sua minor durata, le dosi ridotte e, soprattutto, per la sostituzione di adramicina e metotrexate rispettivamente con mitoxantrone e VP-16. L’aggiunta in tutti i casi di G-CSF completava lo schema terapeutico predisposto per questo studio pilota. Dei 29 pazienti arruolati presso il nostro istituto, 22 ottennero la remissione completa (76%) e 5 la remissione parziale (17%), con una sopravvivenza libera da ricaduta calcolata a 5 anni pari al 59% (13 pazienti su 22). Ciò ha costituito la base di partenza per allestire uno studio prospettico multicentrico e randomizzato volto a comparare l’efficacia dello schema VNCOP-B immodificato, ma eseguito rispettivamente con o senza l’ausilio del fattore di crescita. Il trial ha coinvolto 12 centri italiani dal marzo 1993 al giugno 1995 ed ha portato all’arruolamento di 149 pazienti valutabili (20). I 77 pazienti arruolati nel braccio G-CSF e i 72 che non hanno ricevuto il fattore di crescita sono stati stratificati senza il riscontro di sostanziali differenze in termini di: età (pressochè identici range e mediana) e distribuzione per sesso, sintomi sistemici, stadio all’esordio, malattia bulky all’esordio, elevata LDH, performance status, interessamento extranodale, istologia. Quanto ai risultati clinici, nessuna reale differenza è stata riscontrata in termini di dose-intensity (95% vs 85%) e di ottenimento della remissione completa (60% vs 58%) o parziale (23% vs 22%), mentre altamente significative sotto il profilo statistico sono 60 risultate le differenze in termini di incidenza della neutropenia (23% vs 55%; p = 0,00005) e degli episodi infettivi (p = 0.004). Recentemente abbiamo rivisitato l’intera casistica di pazienti trattati con VNCOP-B negli studi da noi coordinati durante il periodo 1992-1997 (21). Si tratta complessivamente di 350 pazienti di età compresa fra 60 ed 87 anni (mediana 69), perfettamente ripartiti fra i due sessi e nei due terzi dei casi senza sintomi sistemici all’esordio. Circa il 40% dei pazienti si era presentato in II ed in IV stadio, mentre il restante 20% era esordito in III stadio. Poco meno di un terzo dei pazienti mostrava almeno una localizzazione “bulky” all’esordio ed altrettanti un incremento patologico della LDH. Un interessamento extranodale è stato osservato in circa il 60% dei pazienti, 18% dei quali con infiltrazione midollare. Da un punto di vista istologico infine, la metà dei casi riguardava linfomi centroblastici, mentre progressivamente meno rappresentati erano nell’ordine gli immunoblastici, gli anaplastici a grandi cellule ed i linfomi a cellule T periferiche. In termini di risultati clinici, ben l’83% dei pazienti ha ottenuto una remissione completa (58%) o parziale (25%), con una sopravvivenza libera da malattia mediana pari a 36 mesi (range: 9-72). Da notare che il numero delle remissioni complete non differiva sostanzialmente stratificando i pazienti in 3 gruppi secondo l’età: 60-69, 70-79 e >80 anni. L’analisi statistica univariata ha permesso di identificare nell’esordio “bulky” (p<0,02), nel cattivo performance status (p<0,01) e nello stadio avanzato (p<0,01) fattori prognostici sfavorevoli al conseguimento della remissione completa. Quella multivariata, invece, ha segnalato l’importanza della malattia localizzata, o stadio iniziale (p<0,001), e del buon performance status (p<0,0002) ai fini dell’ottenimento di una più lunga sopravvivenza, tanto globale quanto libera da ricaduta. Altamente significativa in rapporto con la prognosi dei pazienti si è infine rivelata la loro stratificazione in gruppi secondo i criteri dell’ IPI (p = 0,001). Il VNCOP-B è un regime polichemioterapico che consente di ottenere nei pazienti anziani con linfoma aggressivo una percentuale di remissioni complete solo leggermente inferiore rispetto ai pazienti più giovani. I pazienti che grazie a questo schema ottengono la remissione completa hanno buone probabilità di sopravvivere a lungo termine. Non vi è a tutt’oggi alcuna evidenza di tossicità severa o permanente ad esso associata. Più in generale, l’uso di trattamenti disegnati “su misura” per i pazienti anziani, sia attraverso modifiche posologiche e farmacologiche che l’impiego di fattori di crescita emopoietici, permette di ottimizzare l’approccio terapeutico e di ottenere una remissione completa in più della metà dei pazienti trattati, con prospettiva di guarirne oltre un terzo. Bibliografia 1. Grogan L et al. 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Elderly aggressive-histology non-Hodgkin’s lymphoma: first-line VNCOP-B regimen experience on 350 patients. Blood 94: 33, 1999. 63 ONCOEMATOLOGIA NELL’ANZIANO: IL MIELOMA MULTIPLO M. Boccadoro, A. Pileri Divisione Universitaria di Ematologia, Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista, Torino. Il mieloma multiplo è una neoplasia della linea B linfocitaria, la cui età di incidenza è intorno ai 65-70 anni1. La sopravvivenza mediana è di circa 3 anni con la terapia convenzionale mentre risulta prolungata a circa 5 anni con le terapie ad alte dosi2; 3. L’età è uno dei criteri discriminanti per la scelta della terapia più idonea. Vi è ormai accordo che tutti i pazienti giovani debbano essere avviati a terapie ad alte dosi, mentre tali terapie risultano più difficilmente applicabili a pazienti anziani in cui spesso si associano altre patologie. E’ però difficile definire cosa si intenda per paziente anziano. Infatti, su casistiche selezionate, terapie ad alte dosi sono state applicate anche a pazienti fino a 70 anni di età con risultati del tutto paragonabili a quelli ottenuti in pazienti più giovani4. Tuttavia si può affrontare il problema in modo inverso, cercando di definire cosa si intenda per paziente giovane valutando l'età mediana dei pazienti inseriti in una serie di studi sulle alte dosi. In generale in questi studi l’età mediana è inferiore a 50 anni: 231 pazienti con età mediana di 50 anni sono stati trattati con trapianto autologo dal gruppo di Barlogie3, 63 pazienti con età mediana di 44 anni sono stati trattati da Fermand5, e 334 pazienti con età mediana di 49 anni sono stati iscritti nel Registro Europeo6. L’unica eccezione è lo studio randomizzato francese di Attal, che ha arruolato 100 pazienti avviati ad una procedura trapiantologica e la cui età mediana era di 57 anni; il 42% dei pazienti di età compresa tra 60 e 65 anni però non è riuscito a completare l’iter terapeutico previsto a causa dell’elevata tossicità2. Nel nostro centro negli ultimi 4 anni sono stati 37 i pazienti affetti da mieloma multiplo avviati al trapianto autologo: 34 (92%) di età inferiore a 55 anni e 3 (8%) di età compresa tra i 55 e i 70 anni. Dall’insieme di questi dati si può dunque concludere che nel mieloma multiplo, al di fuori di singoli pazienti selezionati, per anziani si debbano intendere pazienti con età superiore ai 55 anni. I pazienti giovani vengono attualmente avviati a terapie ad alte dosi, anche se è ancora da definire quali sottogruppi di pazienti maggiormente beneficino di queste procedure ed ancora debba essere eseguito uno studio prospettico su grandi numeri e sulla base di nuovi parametri prognostici7. Al contrario non è ancora definito quale sia il miglior trattamento per il paziente anziano. Sempre dall’analisi dei dati della letteratura risulta che oltre i 70 anni il golden standard per ora rimane la terapia convenzionale, che si è dimostrata efficace nel 50% dei pazienti anziani con una buona tollerabilità e un allungamento della sopravvivenza. E’ quindi evidente che la fascia di età più critica è quella compresa fra i 55 ed i 70 anni in cui è necessario definire nuove strategie terapeutiche più efficaci del trattamento convenzionale ma meno tossiche dei trattamenti ad alte dosi riservati ai pazienti giovani. Alla fine degli anni ottanta la disponibilità di fattori di crescita emopoietici ha permesso la mobilizzazione nel sangue periferico di un elevata quantità di cellule progenitrici dal midollo emopoietico (denominate Peripheral Blood Progenitor Cells, PBPC)8. Queste cellule possono essere raccolte, conservate a 4°C o in azoto liquido e 64 reinfuse dopo terapie con Melphalan ad alte dosi. Grazie al supporto di PBPC il periodo di mielosoppressione si è decisamente ridotto: la granulocitopenia durava mediamente quattro settimane dopo alte dosi senza supporto, circa tre settimane dopo terapia ad alte dosi e trapianto di midollo ed infine meno di due settimane dopo alte dosi e supporto di PBPC. Inoltre la mortalità del trapianto è scesa a meno del 2%. Le PBPC sono risultate una valida alternativa al midollo osseo per una serie di vantaggi: assenza di anestesia generale, procedura meno invasiva, possibilità di raccolta anche in casi di midolli fibrotici e una significativa minore durata della pancitopenia in seguito alla reinfusione. Il più rapido recupero ematopoietico risulta in un minor uso di antibiotici ev, in un minor fabbisogno trasfusionale e infine una riduzione del periodo di ospedalizzazione. Quindi l’uso delle PBPC oltre ad un benefecio clinico si associa ad un vantaggio economico9. L’uso delle PBPC ha consentito di estendere l’applicazione delle terapie ad alte dosi a patologie come il mieloma multiplo in cui i pazienti risultano comunque più anziani rispetto ad altre patologie onco-ematologiche. La mobilizzazione delle PBPC è stata modificata nel mieloma multiplo rispetto agli schemi inizialmente adottati per i pazienti affetti da linfoma al fine di ridurre la tossicità ma ancora permettere una adeguata raccolta. Dopo infusione di ciclofosfamide (7 g/m2) e G-CSF alla dose di 5 µg/kg è possibile osservare mediamente la comparsa nel sangue periferico di 126 cellule CD34+/ l. L’uso di ciclofosfamide alla dose di 3 g/m2 seguita da una dose doppia di GCSF (10 µg/kg) ha consentito un’analoga mobilizzazione di PBPC (102 CD34+/ l), permettendo inoltre di eseguire l’intera procedura in regime di Day Hospital in pazienti di età inferiore a 70 anni. Questi studi preliminari hanno permesso di definire un nuovo protocollo terapeutico: lo schema CM10. Tale schema prevedeva la raccolta di PBPC dopo ciclofosfamide 3 g/m2 , seguita da Melphalan 60 mg/m2 e reinfusione di PBPC non criopreservate ma stoccate per 48 ore ad una temperatura di 4°C. Ogni ciclo veniva ripetuto ad una distanza di 6 mesi l’uno dall’altro per un totale di 3 cicli. Questo primo studio pilota condotto su 30 pazienti in fase di recidiva, con età mediana di 63 anni, si proponeva di valutare la fattibilità e la tossicità di una dose di Melphalan doppia rispetto alla dose convenzionale utilizzata a scopo palliativo in fase terminale. Lo schema CM presentava una tossicità ematologica analoga a quella di un gruppo storico di controllo trattato con Melphalan 30 mg/m2 ev seguiti da solo G-CSF. Da rilevare che a seguito di 3 dosi “intermedie” di Melphalan, nonostante si trattasse di un gruppo di pazienti in fase di recidiva, il 30% dei pazienti raggiungeva la CR. La durata di remissione risultava inoltre prolungata rispetto ai pazienti trattati con 30 mg/m2 di Melphalan seguiti da solo G-CSF. Tali risultati sono stati ottenuti su pazienti selezionati ed in uno studio non randomizzato. Tuttavia la percentuale di CR raggiunta risulta nettamente superiore a quanto fino ad ora segnalato con le terapie convenzionali. Sulla base di questi dati il Gruppo Italiano per lo Studio del Mieloma Multiplo ha iniziato uno studio nazionale multicentrico che ha permesso di arruolare, da dicembre 1994 a maggio 1997, 68 pazienti alla diagnosi, con età mediana di 65 anni (manoscritto sottomesso). I risultati confermano che la dose-intensity del Melphalan possa essere aumentata grazie alla reinfusione di PBPC con una tossicità accettabile. La ripetizione dello schema CM riduce pero’ la capacità di mobilizzazione: questa è moderata al secondo ciclo, ma diventa consistente al terzo (CD34+ x 106/Kg: 2.8 al primo ciclo, 2.3 al secondo, 1.5 al terzo) e tale da non consentire una adeguata raccolta. Sulla base di questa considerazione si è ritenuto opportuno eseguire una singola mobilizzazione con ciclofosfamide seguito da due o tre procedure di staminoaferesi. Le 65 cellule staminali così raccolte venivano suddivise in più sacche criopreservate in azoto liquido, potendo cosi’ essere utilizzate sia alla diagnosi che in recidiva. In un secondo studio pilota abbiamo valutato la tossicità e l’efficacia di un protocollo (MEL100) con dosi intermedie di Melphalan (100 mg/mq) con supporto di cellule staminali ripetuto ogni due mesi in pazienti alla diagnosi di età superiore ai 55 anni11. Questo protocollo prevede due cicli DAV (Desametasone, Adriamicina e Vincristina) in regime di Day Hospital, un ciclo con Ciclofosfamide 4 g/mq e successiva mobilizzazione di cellule staminali periferiche. Le raccolte di PBPC sono risultate sistematicamente contaminate da cellule tumorali12, ma non si è osservata alcuna correlazione tra il numero di plasmacellule reinfuse e l’andamento clinico dei malati, per cui al momento non viene effettuata alcuna purificazione in vitro13. A 4 settimane dalla Ciclofosfamide viene somministrato il Melphalan 100 mg/mq e reinfuse le cellule staminali precedentemente criopreservate. Il MEL100 viene ripetuto ogni 2 mesi per un totale di 2 cicli nei pazienti che raggiungono la remissione completa e per un totale di 3 cicli per chi è in remissione parziale dopo il secondo ciclo. Da novembre 1993 a novembre 1997 sono stati arruolati 71 pazienti, di cui l’89% ha completato il programma. L’età mediana dei pazienti arruolati è di 64 anni (range 55-75). Dopo il secondo MEL100 24 pazienti hanno raggiunto la remissione completa e hanno quindi interrotto il trattamento; 63 pazienti sono risultati elegibili per il terzo ciclo. I cicli sono stati nel complesso ben tollerati e l’aplasia ha avuto una durata inferiore alla settimana in tutti i pazienti. Il tempo mediano intercorso tra il primo e il secondo ciclo è stato di 2.3 mesi e tra il secondo e il terzo di 2.2 mesi. La frequenza di remissioni parziali è stata di 36% dopo i DAV, 43% dopo la Ciclofosfamide, 77% dopo il primo MEL100, 86% dopo il secondo MEL100, 88% dopo il terzo MEL100. La frequenza di remissioni complete è stata di 2% dopo i DAV, 3% dopo la Ciclofosfamide, 19% dopo il primo MEL 100, 34% dopo il secondo e 47% dopo il terzo. Nonostante l’aumento della dose di Melphalan e l’età mediana dei pazienti non si sono avuti decessi correlati al trattamento. Dopo un follow-up mediano di 30 mesi il 55% dei pazienti sono vivi in remissione, il 30% sono recidivati, il 4% sono in progressione di malattia e l’11% sono dispersi. Tra i pazienti recidivati il 13% sono deceduti per progressione di malattia. Pur non essendo un protocollo randomizzato, i risultati appaiono interessanti: questo gruppo di pazienti è stato confrontato con 71 pazienti analoghi per età e 2-microglobulina trattati con MP ed è risultata superiore sia la sopravvivenza libera da eventi (34 mesi vs 17.7 mesi, p<0.001) che la sopravvivenza mediana (>56 mesi vs 48 mesi, p<0.01). Questo studio ci permette di affermare che il MEL100 è valida alternativa terapeutica per i pazienti che per età o per condizioni cliniche scadute non sono arruolabili in un protocollo ad alte dosi autotrapiantologico. Non essendo ancora definita la superiorità di queste terapie a dosi “intermedie” rispetto alla terapia convenzionale nel paziente anziano in termini di risposte e di sopravvivenza, è il Gruppo Italiano per lo Studio del Mieloma Multiplo ha iniziato uno studio randomizzato (M97G). E’ fortemente probabile che gli studi in corso confermeranno che le terapie ad alte dosi risultano indicate per tutti i pazienti con MM con età fino a 70 anni: alte dosi “convenzionali” (Melphalan 200 mg/m2 ) per pazienti al di sotto dei 55 anni e dosi “intermedie” per pazienti più anziani. Questa tendenza di applicare le alte dosi a quasi tutti i pazienti con mieloma multiplo è confermata da una valutazione delle scelte terapeutiche effettuate nei i pazienti venuti alla nostra osservazione negli ultimi 4 anni: i pazienti di età compresa tra i 55 e i 70 anni nel 60% dei casi hanno ricevuto una terapia a dosi “intermedie” con supporto di cellule staminali periferiche, nel 38% dei casi sono stati 66 trattati con terapia convenzionale e nel 2% dei casi hanno ricevuto un trapianto autologo convenzionale. Reference List 1. Boccadoro M, Pileri A: Diagnosis, prognosis, and standard treatment of multiple myeloma. Hemat Oncol Clin North Am 11:111, 1997 2. 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Fermand JP, Ravaud P, Chevret S, Divine M, Leblond V, Belager C, Dreyfus F, Troussard X, Brechignac S, Mariette X, Brouet JC: Early versus late high dose therapy (HDT) and autologous peripheral blood stem cell (PBSC) transplantation in multiple myeloma (MM): results of a prospective randomized trial. Blood suppl 1-88:2730:1996 (abstr.) 6. Bjorkstrand B, Ljungman P, Svensson H, Hermans J, Alegre A, Apperley J, Blade J, Carlson K, Cavo M, Ferrant A, Goldstone AH, De Laurenzi A, Majolino I, Marcus R, Prentice HG, Remes K, Samson D, Sureda A, Verdonck LF, Gahrton G: Allogeneic bone marrow transplantation versus autologous stem cell transplantation in multiple myeloma: a retrospective case-matched study from the European Group for Blood and Marrow Transplantation. Blood 88:4711, 1996 7. 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Palumbo A, Pileri A, Triolo S, Omedè P, Bruno B, Ciravegna G, Galliano M, Frieri R, Boccadoro M: Multicyclic, dose-intensive chemotherapy supported by hemopoietic progenitors in refractory myeloma patients. Bone Marrow Transplant 19:23, 1997 11. Palumbo A, Triolo S, Argentino C, Bringhen S, Dominietto A, Rus C, Omedè P, Tarella C, Pileri A, Boccadoro M: Dode-intensive Melphalan with stem cell support (MEL100) is superior to standard treatment in elderly multiple patients. Blood 94:1248, 1999 12. Corradini P, Voena C, Tarella C, Astolfi M, Ladetto M, Palumbo A, Van Lint MT, Bacigalupo A, Santoro A, Musso M, Majolino I, Boccadoro M, Pileri A: Molecular and clinical remission in multiple myeloma: the role of autologous and allogeneic transplantation of hematopoietic cells. J Clin Oncol 17:208, 1999 13. Boccadoro M, Omedè P, Dominietto A, Palumbo A, Bringhen S, Giaretta F, Ortolano B, Triolo S, Pileri A: Multiple myeloma: the number of reinfused plasma cells does not influence the outcome of patients treated with intensified chemotherapy and PBPC support. Bone Marrow Transplant in press:1999 68 TRANSPLANTATION OF HEMATOPOIETIC STEM CELLS FROM UNRELATED VOLUNTEER DONORS Claudio Anasetti, M.D. Immunogenetics Program, Clinical Research Division, Fred Hutchinson Cancer Research Center, Seattle, Washington 98109. Address Correspondence to: Claudio Anasetti, M.D. Fred Hutchinson Cancer Research Center 1100 Fairview Ave. N. Seattle, WA 98109 Phone (206) 667-7115 Fax (206) 667-5255 E-Mail [email protected] ABSTRACT Transplantation of hematopoietic stem cells from human leukocyte antigen (HLA)compatible unrelated volunteer donors have become feasible for more than 70% of patients without a family match. Chronic myeloid leukemia is the most common indication for unrelated donor marrow transplantation. The 5-year survival for patients up the age of 50 years has improved to 75% with transplantation in the chronic phase within the first year from after diagnosis, the selection of a closely matched donor, and the prophylactic use of fluconazole and ganciclovir. However, graft failure, and acute and chronic graft-versus-host disease (GVHD) remain frequent causes of morbidity and death. The incidence of graft failure is correlated with multiple Class I HLA-A, B, and C mismatching in the donor. The risk of grades III-IV acute GVHD is highest with Class II HLA-DRB1 and DQB1 mismatching in the recipient. Refractoriness to glucocorticoid therapy is the dominant factor predisposing to chronic GVHD. Mismatching for a single Class I or Class II allele has no effect on survival, but mortality is increased by simultaneous mismatching for Class I and Class II alleles. Transplantation of marrow from an HLA-matched, unrelated donor is safe and effective therapy for selected patients with hematological malignancy. Since fully matched donors will not available for many patients, the challenge is developing methods for marrow transplantation that can decrease morbidity and improve survival despite genetic disparity between donor and recipient. OVERVIEW 69 Transplantation of marrow stem cells from healthy individuals was initially employed for treatment of patients with marrow failure or advanced leukemia, and successful engraftment was achieved only by selecting a twin donor or a sibling donor identical for human leukocyte antigens (HLA) (1). Subsequent studies of partially HLAmatched related donors demonstrated that the degree of HLA incompatibility correlated with the incidence of graft failure and graft-versus-host disease (GVHD) (2, 3). In patients with hematologic malignancy, transplants from relatives incompatible for multiple HLA loci have been associated with lower survival than transplants from HLA-identical siblings (3). These results demonstrated that HLA is the major histocompatibility complex in man and provided the basis for testing the use of HLA compatible unrelated donors for patients without a family match. Since less than 30% of patients in developed countries have an HLA-matched sibling, the only chance of finding a compatible donor for most patients in need of an allogeneic stem cell transplant is through the identification of an HLA-compatible unrelated volunteer. Unrelated donor transplants have become feasible and successful thanks to the identification of HLA genes and their functional products (4), the development of precise and efficient HLA typing methods using DNA technology (5), and the development of a network of registries containing more than five million HLA-typed donors worldwide (6). More than two thousands patients with acute and chronic leukemias, lymphoma, myeloma, myelodysplasia, aplastic anemia, congenital errors of metabolism and immunodeficiency syndromes are transplanted each year in the world using marrow or blood stem cells from unrelated volunteers. Many patients have achieved complete immunological tolerance and have become long-term survivors (7,8). A higher incidence of GVHD, however, was found in unrelated than in sibling transplants despite matching for HLA-A, B, and DR, indicating that the methods used initially for the assessment of histocompatibility were inadequate (8,9). HISTOCOMPATIBILITY HLA antigens are cell surface molecules encoded by Class I A, B, C and Class II DR, DQ, and DP genes that are located on human chromosome 6. The function of HLA molecules is to bind and present antigenic peptides to T lymphocytes, one determinant step in the initiation of the immune response. To bind the variety of ever changing environmental antigens, the HLA complex has evolved to become the most polymorphic set of known human genes. T cells from one individual react vigorously to mismatched HLA molecules on the surface of antigen-presenting cells from another individual. Polymorphic specificities of HLA-A, B, C, DR and DQ antigens have been routinely typed by alloantisera. A serologically defined specificity, however, does not necessarily represent a unique allele. Analysis of HLA-B27 molecules by gene sequencing, for example, has revealed that there are at least seven distinct alleles, defined B*2701-2707, each of which encode a unique primary amino acid sequence that can be distinguished by T cells (10). Hybridization of sequence specific oligonucleotide probes (SSOP) to polymerase chain reaction (PCR)-amplified DNA has proven to be a powerful method for identifying polymorphisms of Class II loci. Typing with panels of SSOPs can reveal specific alleles indistinguishable by serological typing. A single incompatibility for DRB1 70 or DQB1 alleles distinguished by SSOP but not by serology (for example: DR4/DRB1*0401 versus DR4/DRB1*0402) is associated with a significant increased risk of acute GVHD in either unrelated or related marrow transplants (8, 11). There is as yet insufficient data to assess the relevance of DP mismatching to GVHD development after unrelated donor transplants. The relevance of Class I allele mismatching to clinical marrow transplantation has first been suggested by the occurrence of marrow graft rejection in a case where an unrelated donor was mismatched only for HLA-B*4402 versus B*4403 two alleles that differ by a single amino acid residue but are serologically indistinguishable. Anti B*4403specific CTL (cytotoxic T lymphocytes) were found in the patient's blood following rejection of the B*4403-positive donor graft (12). Initial data using sequencing of PCRamplified DNA have indicated that mismatching for Class I HLA-A, B and C alleles is a risk factor for marrow graft failure and death (13,14). These observations have demonstrated that serological typing methods are not adequate for identifying all HLA antigens relevant to marrow transplantation. At this time, HLA Class I gene typing is becoming a routine technique in many tissue typing laboratories. Theoretical considerations have suggested that pairs of unrelated individuals are more likely to have disparity for non-HLA minor histocompatibility genes than occurs between related individuals (15). Unfortunately, only two non-HLA minor histocompatibility genes has been well characterized in humans: the male-associated gene H-Y, and HA-1 (16,17). Functional assays may test reactivity of donor T cells against nonHLA minor histocompatibility determinants of the recipients, and vice versa (18). Both functional and genetic assays may help to select more closely matched donors, but they have not yet been widely implemented for donor selection. REGISTRIES OF HLA TYPED VOLUNTEER DONORS Because of the enormous polymorphism of HLA-A, B and DR genes, the probability of matching two random individuals for both alleles at all three loci is small. The success of matching is higher than expected, however, because of non-random association between the individual alleles of one HLA locus with alleles of the other loci on the same chromosome, a phenomenon termed linkage disequilibrium. As for racial traits, HLA types are associated with the ethnic background of the individual person, and populations living in different geographic areas demonstrate variable degrees of HLA polymorphism that correlate to some extent with the ethnic heterogeneity of the population. Therefore, the probability of matching a patient with a donor in a pool of unrelated volunteers depends on the number of donors in the pool, the ethnic heterogeneity of the population and the donor pool, the relationship of the patient with the ethnic composition of the donor pool, and the HLA diversity of the ethnic groups. The problem of finding a suitable donor becomes especially complex when intergroup marriages have occurred. The United States of America represent an example of great complexity. In 1986 it was predicted that a marrow donor registry containing at least 100,000 volunteers was needed to find an HLA-A, B and DR match for at least 50% of patients (19). The United 71 States National Marrow Donor Program (NMDP) began search operations in September 1987. Initially the donor registry contained HLA data for approximately 18,000 volunteers. By 1998, the NMDP registry contained more than 3.4 million donors typed for HLA-A and B and more than 1.5 million also typed for DR. The NMDP network includes 105 donor centers, 111 marrow collection centers and 76 transplant centers located in 40 different states and 10 countries. In addition, NMDP maintains cooperative donor search agreements with other national networks in Australia, Austria, Canada, United Kingdom, France and Switzerland which combine more than 500,000 additional donors. This international donor search agreement expands the pool of HLA typed unrelated volunteers that can be accessed through the NMDP to more than 4 million. By 1998 more than 7,000 patients have been transplanted through NMDP. DONOR SEARCH The probability of finding an HLA-A, B, DR match at the initial search has increased from 10-15% in 1987 to 80% in 1998 and has crossed the 50% mark, just when the number of HLA-A, B, and DR-typed volunteers was 100,000. Some patients also find a match through DR typing of HLA-A and B matched donors. By molecular typing, approximately 2/3 of HLA-A, B, DR matched donors are also identical for the HLA-DRB1 allele (8). All but 3% of patients find at least one HLA-A and B matched donor. Since 80% of the donors in the registry are Caucasian, the probability of finding a match is highest for Caucasians and lower for other racial groups which are represented in North America and the NMDP as minorities. The time interval from the initiation of the search to transplant varies according to the patient's HLA type and diagnosis but currently averages 3-4 months. This long search time is a concern especially for patients with marrow failure or acute leukemia. A substantial amount of this time is necessary for contacting donors to provide blood samples for additional typing. With recent advances in molecular HLA typing technology and with the establishment of a repository containing donor DNA it may no longer be necessary to call in specific donors for complete typing. These changes might decrease the duration of the donor search. RESULTS OF UNRELATED DONOR TRANSPLANTS Engraftment One of the mechanisms for failure of unrelated donor grafts is immunological rejection of donor hematopoietic cells by recipient T cells that recognize incompatible HLA determinants (12). It has also been proposed that recipient natural killer cells might mediate rejection of marrow grafts by destroying donor hematopoietic cells incompatible for HLA Class I determinants (20,21). Consistent with this hypothesis, we found that the risk of graft failure is increased by HLA-A, B and C mismatching of the donor (13,14). A matched case-control study was designed in Seattle to evaluate the role of HLA-C disparity assessed by DNA sequencing methods in 21 patients who experienced graft failure (cases) following transplantation with unmanipulated marrow (13). The donor was 72 unrelated, either HLA-A, B serologically matched, DRB1 matched (n = 14) or single locus mismatched (n = 7) with the recipients. Graft failure was more frequent in patients with CML than patients with any other diagnosis. For each case, two patients who successfully engrafted were selected as controls based on similarity for factors known or suspected to influence engraftment. The estimated odds ratio (OR) of graft failure for an HLA-C mismatch relative to match was 5.2 (95% CI: 1.4, 19; p=0.01). Serologically undetectable HLA-A or HLA-B allele disparity was also associated with graft failure. The association between HLA-C disparity and graft failure remained significant even after accounting for the contribution of HLA-A and B allele disparity (OR 4.0; 95% CI: 1.1, 15; p=0.03). A subsequent study utilized DNA amplification and sequencing to identify the HLA-A, B, and C alleles of 300 patients with CML and their donors (14). Graft failure occurred in 3/146 (2%) HLA-A, B, C, DRB1 and DQB1 compatible transplants, and in no cases of transplants incompatible only at DRB1 or DQB1. The incidence of graft failure was increased with multiple Class I A, B, or C mismatching (9/31 cases, 29% incidence; OR 10.5, 95% CI: 2.2 to 49.8; p=0.003) or Class I A, B or C combined with Class II DRB1 or DQB1 mismatching (4/34 cases, 12% incidence; OR 10, 95% CI: 1.7 to 58.4; p=0.01). These results show that mismatch for HLA-A, B and C alleles that are not appreciated by serological typing is biologically important. Furthermore, data indicate that mismatching for a single Class I HLA allele does not increase the risk of graft failure in patients receiving conditioning with cyclophosphamide plus whole body irradiation. However, mismatching for multiple Class I HLA alleles or mismatching for Class I and Class II HLA alleles combined significantly increases the risk of graft failure. Additional factors associated with an increased incidence of graft failure are sensitization of the recipient against donor antigens, a less intense conditioning regimen before transplantation, a less intense post transplant immunosuppression, lower marrow cell dose, and by depletion of donor T lymphocytes from the marrow inoculum. The use of hematopoietic growth factors can accelerate engraftment, but their utility in decreasing the risk of graft failure and improving outcome of unrelated transplants remains unproven (22). Conversely, the use of blood stem cells is expected to improve the probability of engraftment, especially in HLA incompatible transplants that are depleted of T cells (23). Acute GVHD Clinical GVHD results from an immune reaction of mature donor T lymphocytes contained in the marrow inoculum against histocompatibility determinants of the recipient. This reaction is directed towards normal tissues such as skin, gastrointestinal mucosa and hepatic biliary tract, and also against normal as well as malignant lymphohematopoietic cells. Human clinical trials evaluating T cell-depleted marrow transplants have found a reduction in incidence of GVHD but also an increase in the incidence of graft failure and relapse of malignancy (24). Current studies are evaluating whether less complete removal of donor T cells or T cell subset depletion can be sufficient to prevent GVHD without increasing the risk of graft failure and leukemia relapse. Initial data from the Milwaukee transplant team reported favorable results when a low degree (1.5 log) of T cell depletion was achieved by in vitro treatment of marrow cells with the anti-T cell receptor antibody T10B9 and complement in recipients of unrelated donor grafts (25,26). 73 The alternative approach for GVHD prevention is to deliver post-transplant immunosuppression. The first large series of successful unrelated transplants was reported after the introduction of combination therapy with cyclosporine and methotrexate used in 1985. The incidence of moderate to severe acute GVHD was significantly higher in HLA matched unrelated transplants (79%) than in HLA matched sibling transplants (35%) (9). In a subsequent study of patients less than 36 years of age, the probability of moderate to severe acute GVHD was 95% in 42 transplants mismatched for one A, B or D/DRB1 locus compared to 70% in 70 HLA-A, B, D/DRB1 matched unrelated donor transplants (p=<0.05) (27). Since post transplant immunosuppression with cyclosporine and methotrexate is insufficient to control GVHD in most unrelated transplants, alternative modalities for GVHD prevention are being explored. The extent to which unrecognized mismatching for alleles that encode DR1-18 contribute to the increased risk of acute GVHD and overall survival was initially investigated in patients receiving transplants from HLA-A, B, DR serologically matched donors (11). DRB1 alleles were typed by SSOP hybridization methods and selected alleles were confirmed by DNA sequencing. Of the 365 pairs, 306 were matched and 59 were mismatched for DRB1. The probability of moderate to severe acute GVHD was 47% for the matched and 70% for the mismatched patients. Compared to mismatched patients, the estimated relative risk (RR) of GVHD for matched patients was 0.58 (95% CI: 0.40, 0.84). DRB1 matching decreased the risk of transplant-related mortality (RR 0.65; CI: 0.44, 0.96) and was associated with decreased overall mortality (RR 0.7; CI: 0.5, 0.99). Acute GVHD and survival after unrelated marrow transplantation are significantly improved by matching DRB1 alleles of the donor and recipient. A further study to address the relevance of DQB1 matching was conducted in 449 HLA-A, B, and DR serologically matched transplants (28). Molecular typing of HLADRB1 and DQB1 revealed 335 DRB1 and DQB1 matched pairs; 41 DRB1 matched and DQB1 mismatched pairs; 48 DRB1 mismatched and DQB1 matched pairs; and 25 DRB1 and DQB1 mismatched pairs. The conditional probabilities of grades III-IV acute GVHD were 42%, 61%, 55%, and 71%, respectively. The relative risk associated with a single locus DQB1 mismatch was 1.8 (CI: 1.1, 2.7; p=0.01), and the risk associated with any HLADQB1 and/or DRB1 mismatch was 1.6 (CI: 1.2, 2.2; p=0.003). The dominant role of incompatibility for HLA-DRB1 and DQB1 in the development of acute GVHD has remained even after accounting for mismatching at HLA-A, B, and C alleles (14). These results provide evidence that matching donors and recipients for DRB1 and DQB1 can further decrease the incidence of GVHD. Therefore, prospective matching of patients and donors for DRB1 and DQB1 alleles is warranted. Chronic GVHD Beyond 100 days from transplantation, GVHD may involve skin, oral mucosa, eyes, liver and lungs and assume features resembling scleroderma, biliary cirrhosis and obliterative bronchiolitis. Approximately 35% of patients transplanted with unmodified marrow grafts show manifestations of chronic GVHD on day 100. These patients and an other 35% who develop chronic GVHD after day 100 require continued immunosuppressive treatment. The incidence of chronic GVHD is increased in recipients of female grafts, and in patients with acute GVHD who fail to achieve a complete and 74 sustained response to glucocorticoids (29). Approximately 30% of all patients do not develop chronic GVHD, and in this situation, immunosuppression can be terminated by 56 months after transplantation. The median time for successful withdrawal of immunosuppressive therapy is 18 months, but 3% of patients continue to require some degree of immunosuppression four years or more after transplant (8). The duration of therapy for chronic GVHD is increased in patients older than 20 year old, in recipients of HLA-incompatible grafts, and in male patients transplanted from a female donor (29). Twenty-five to 30% of all patients die from complications of chronic GVHD while receiving immunosuppressive therapy. Mortality is increased in patients with history of glucocorticoid-resistant acute GVHD, and in those patients with serum bilirubin greater than 2 mg/dl or platelet count less than 100,000/ L at the onset of chronic GVHD (29). By one year after transplantation 75% of surviving patients have recovered a good performance status and by four years 95% have done so. Permanent disability may be caused by side effects of glucocorticoid therapy, cataract formation, osteoporosis, and avascular bone necrosis or by complications of chronic GVHD such as scleroderma and chronic obstructive pulmonary disease (29). Opportunistic Infections Immune reconstitution is severely impaired by acute and chronic GVHD and by prolonged immunosuppressive treatment. Repopulation by mature T cells and recovery of immunoglobulin production is extremely slow after unrelated donor transplantation. Immunodeficiency and glucocorticoid therapy predispose patients to opportunistic infections, predominantly with aspergillus and cytomegalovirus (CMV). Disseminated aspergillus has an incidence of approximately 15% and is associated with more than 90% mortality in unrelated transplants. No improvement has been achieved in the prevention or treatment of aspergillus infection over the last several years. CMV seropositive patients have an increased incidence of CMV disease and CMV-associated mortality after transplantation compared to CMV seronegative patients (7, 27). The risk is also slightly increased in seronegative patients transplanted from seropositive donors. Controlled clinical trials have shown that ganciclovir can prevent cytomegalovirus disease in CMV seropositive recipients of allogeneic marrow transplants (30). Post transplant prophylaxis or preemptive therapy with ganciclovir at the first evidence of CMV reactivation can significantly decrease CMV morbidity and mortality in seropositive recipients of marrow transplants from unrelated donors (31). Prophylaxis with fluconazole has also improved survival by decreasing the risk of disseminated Candida Albicans infection and the use of amphotericin B (31,32). Recurrent Malignancy after Transplantation The probability of relapse after transplantation depends predominantly on the diagnosis, stage of disease, and tumor load at the time of transplant (33,34). There is a trend however, for a lower probability of relapse in patients transplanted from an unrelated donor than patients transplanted from a HLA-matched sibling (9). This trend is particularly apparent in patients transplanted for CML in chronic phase. The data from Seattle indicate a 5% probability of relapse in unrelated transplants compared to 18% in HLA matched sibling transplants. Data from Milwaukee indicates a 5% relapse probability in unrelated transplants compared to approximately 50% in HLA matched siblings treated with the same T cell depletion regimen (35). There is also a further 75 reduction in the probability of relapse after transplantation by using an HLA incompatible as opposed to a HLA compatible unrelated donor (34). Survival The probability of survival after transplantation depends predominantly on the diagnosis and stage of the disease at the time of transplant. Chronic myelogenous leukemia is the most common indication for unrelated donor transplantation and therefore provides the largest homogeneous group of patients for analysis. In a study of CML patients transplanted in Seattle from 1985 through 1994, the probability of diseasefree survival at 5 years was 56% for 196 patients transplanted in first chronic phase, 45% for 17 patients in second chronic phase, 42% for 71 patients in accelerated phase and 6% for 35 patients in blast phase (8). Survival was 74% at 5 years in patients transplanted in chronic phase within the first year of diagnosis (31). These data, therefore demonstrate better survival for patients transplanted early in the course of the disease. Over the last 10 years, survival has improved thanks to the use of antiviral and antifungal prophylaxis, and the selection of better matched donors (14,31,32,36). Multiple Class I mismatching (hazard ratio [HR] 3.5, 95% CI: 2.1 to 5.9; p<0.001) or Class I combined with Class II mismatching between donor and recipient (HR 3.3, 95% CI: 2.0 to 5.5; p<0.001) correlated with increased patient mortality. Thus, molecular-based methods for pretransplant assessment of Class I and Class II compatibility should be utilized for the selection of unrelated marrow donors. Results for patients with acute leukemia are less favorable, because until now most patients treated with unrelated transplantation have had advanced disease. Survival has exceeded 50% in patients with high risk AML or ALL transplanted in the first remission (34,37). Risk factors for an increased risk of transplant-associated mortality are older patient age, positive patient CMV serology in absence of ganciclovir prophylaxis, low marrow cell dose, and lack of compliance with post-transplant immunosuppression (7, 8, 34). HLA mismatch has been associated with worse survival in one study (7) but not in another (34). This apparent discrepancy likely reflects different levels of precision in HLA typing and different criteria for matching among transplant centers (7, 34). CONCLUSION Use of an HLA-compatible unrelated donor has become standard practice for patients who need an allogeneic marrow transplant and lack a HLA-compatible family member. Current efforts are directed towards improving the probability of finding a donor by expanding the size and the genetic heterogeneity of donor registries, decreasing the search time by implementing more efficient strategies for donor typing, and improving outcome by selecting better matches. Clinical studies are investigating new approaches for GVHD prevention and treatment. Improved treatment protocols could make unrelated marrow transplantation safer and simpler, thereby allowing this therapeutic approach to be exported from few selected highly specialized centers to a larger number of marrow transplant units worldwide. ACKNOWLEDGMENT 76 This work was supported by grants AI 33484, CA 18029, CA 18221, CA 15704, HL 36444 and AR 39153. Literature Cited 1. Thomas ED. The Nobel Lectures in Immunology. The Nobel Prize for Physiology or Medicine, 1990. Bone marrow transplantation-past, present and future (classical article). Scandinavian Journal of Immunology 39: 339-45, 1994. 2. Anasetti C, Amos D, Beatty PG, Appelbaum FR, Bensinger W, et al. Effect of HLA compatibility on engraftment of bone marrow transplants in patients with leukemia or lymphoma. N. Engl. J. Med. 230: 197-204, 1989. 3. Beatty PG, Clift RA, Mickelson EM, Nisperos B, Flournoy N, et al. 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Simili coppie donatori-riceventi sono usualmente incompatibili in ambedue le direzioni “host versus graft” e “graft versus host”. Queste alloreazioni sono in gran parte mediate in vivo dai linfociti T, ma anche l’alloreattivita’ delle cellule Natural Killer (NK) puo’ avere un ruolo nell’esito clinico dei trapianti incompatibili per un intiero aplotipo (4). In particolare, nel contesto di un trapianto incompatibile per tre loci, le cellule NK del donatore e/o del ricevente possono essere responsabili di tre situazioni : 1. un potenziale effetto “graft versus host” quando il ricevente non esprime gli alleli MHC riconoscibili dai recettori inibitori (KIR) delle cellule NK del donatore; 2. un potenziale effetto “host versus graft” mediato dalle cellule NK, quando il donatore non esprime gli alleli MHC riconoscibili dai KIR delle cellule NK del ricevente; 3. nessuna alloreattivita’ NK quando gli alleli mismatched del donatore e del ricevente sono riconosciuti dai KIR sia del donatore che del ricevente. Nel corso degli anni ’80, tutti i tentativi clinici di effettuare trapianti da donatore incompatibile per tre loci dettero esito negativo a causa dell’elevatissima incidenza di GvHD severa nei trapianti non manipolati (T-repleti) (5,6) e, per converso, di rigetto dei trapianti il cui inoculo era stato sottoposto ex vivo ad intensa T deplezione (7,8). Attorno alla fine degli anni ’80, risultava evidente che, nei modelli sperimentali, il trapianto incompatibile T depleto poteva essere effettuato con successo, attraverso opportune modificazioni del regime di condizionamento e/o della composizione dell’inoculo. Ad esempio, si dimostro’ che la risposta del sistema immunologico residuo dell’ospite era superabile tramite l’impiego, accanto alla TBI, di agenti anti cellule T a bassa tossicita’ extramidollare, quali l’ATG, gli anticorpi monoclonali anti-T (9) e la Fludarabina (10). L’attecchimento di un trapianto T depleto incompatibile poteva, poi, essere migliorato addizionando alla TBI farmaci mieloablativi come il Busulfano, il Dimetilmyleran (11) e il Tiotepa (12). Per quanto riguarda la composizione dell’inoculo e’ merito precipuo di Y. Reisner l’aver dimostrato nel modello sperimentale murino che l’impiego di megadosi di cellule staminali incompatibili T-depletate consentiva di ottenere l’attecchimento nella piu’ parte dei riceventi anche in condizioni sperimentali particolarmente difficili, ad esempio in topi 81 presensibilizzati con linfociti del donatore, o in animali il cui sistema immune era parzialmente ricostituito prima del trapianto tramite l’aggiunta di un certo numero di timociti maturi dell’ospite (13) e infine in topi irradiati con dosi subletali (6.5 Gy) in cui un numero rilevante di T linfociti sopravviveva dopo l’irradiazione (14). Nel 1993, il nostro gruppo, sulla base delle conoscenze derivanti dai modelli sperimentali, ha disegnato un regime di condizionamento in cui, successivamente all’irradiazione corporea totale (8 Gy in un’unica frazione ad alto dose rate), venivano impiegati Tiotepa (10 mg/Kg), Ciclofosfamide (60 mg/Kg/die per due giorni), ATG (5 mg/die per 5 giorni) con lo scopo di potenziare l’effetto mieloablativo e immunosoppressivo (15). Inoltre, poiche’ nei modelli sperimentali una dose elevata di cellule staminali si era rivelata come uno dei fattori piu’ importanti nel promuovere l’attecchimento di un trapianto incompatibile T-depleto, venne impiegato un inoculo contenente un elevatissimo numero di cellule CD34+ (circa 10x106/Kg). Per raggiungere questo livello, vennero impiegati, accanto al midollo osseo, progenitori ematici circolanti raccolti dal sangue periferico dopo stimolo con G-CSF. Sia il midollo osseo che le cellule mononucleate periferiche erano depletate dei T-linfociti con la metodica della E rosettazione e agglutinazione con la lectina soybean. L’inoculo conteneva in media un quantitativo di cellule CD3+ pari a 2x105/Kg di ricevente. Questo primo studio pilota, effettuato tra il 1993 e il 1995, comprendeva 36 pazienti affetti da Leucemia Acuta Mieloide (LAM) e Linfoide (LAL), con eta’ mediana di 23 anni. La stragrande maggioranza dei casi era ad alto rischio vuoi per recidiva leucemica posttrapianto vuoi per mortalita’ trapianto-relata. L’80% dei pazienti raggiunse un attecchimento primario e stabile. Nonostante che non venisse impiegata alcuna terapia immunosoppressiva post trapianto, l’incidenza della GvHD (20%) era fortemente ridotta a confronto di un trapianto incompatibile non manipolato. Un importante punto da sottolineare e’ che in un precedente gruppo di pazienti sottoposti allo stesso regime di condizionamento, ma che erano stati infusi con una dose convenzionale di cellule staminali midollari incompatibili T-depletate, si verifico’ il rigetto in tutti i riceventi. In sintesi, questo studio dimostro’ per la prima volta che nell’uomo - come nel topo - una megadose di inoculo rappresenta un fattore cruciale nel consentire il superamento della barriera di istocompatibilita’. Negli anni successivi, si e’ tentato di ridurre la tossicita’ extra ematologica del regime di condizionamento, sostituendo la Ciclofosfamide con la Fludarabina, nella dose di 40 mg/m2/die per 5 giorni. L’impiego della Fludarabina, da noi per la prima volta proposta nel trapianto di cellule staminali allogeniche, fa seguito a studi nel modello murino in cui si dimostro’ che Fludarabina + TBI determinava un’azione immunosoppressiva analoga a quella della Ciclofosfamide + TBI (10). Allo scopo di eliminare completamente la GvHD, si decise di ridurre il numero dei T-linfociti nell’inoculo midollare a 3 x104/Kg, quantitativo inferiore di un log a quello utilizzato nello studio pilota precedente (2 x 105/Kg). Per la T-deplezione ex vivo delle cellule mononucleate del sangue periferico venne impiegata la E-rosettazione seguita da immunoselezione delle cellule CD34+, con il sistema Ceprate. Il secondo studio pilota, condotto tra il 1995 e il 1997, comprendeva 43 pazienti con eta’ media di 22 anni, affetti da LAM e LAL, la piu’ parte dei quali ad alto rischio per mortalita’ trapianto-relata e per recidiva leucemica. Otto dei 43 pazienti avevano recidivato dopo un trapianto autologo (16). 82 Per quanto concerne l’inoculo, in 28 pazienti vennero infusi sia il midollo osseo che i progenitori circolanti : l’inoculo finale conteneva una mediana di 10 milioni di cellule CD34+ e di 3.5 x104 cellule CD3+/Kg. Quindici pazienti ricevettero solo progenitori da sangue periferico con una composizione dell’inoculo affatto simile in termini di cellule CD34+ e CD3+. La stragrande maggioranza (95%) dei pazienti raggiunse un attecchimento primario e stabile, con una ricostituzione emopoietica molto veloce sia in termini di granulociti neutrofili che di piastrine. Un’analisi in PCR del DNA polimorfismo evidenzio’ un completo chimerismo del donatore nel sangue periferico e nel midollo osseo di tutti i pazienti. In due casi di rigetto un trattamento immunosoppressivo addizionale con Ciclofosfamide e ATG, seguito da un trapianto T-depleto da un differente membro della famiglia, consenti’ di ottenere un attecchimento stabile. Nessun caso di GvHD sia acuta che cronica complico’ il decorso di questi trapianti da donatori incompatibili per tre loci, nonostante che non venisse praticata alcuna terapia immunosoppressiva post trapianto. Infine la tossicita’ extraematologica del regime di condizionamento si rivelo’ oltremodo modesta (nessun caso di VOD ; 5% di incidenza di mucosite severa e di distress respiratorio acuto), ove si consideri che la stragrande maggioranza dei pazienti era stata pesantemente pretrattata. In sintesi questi risultati testimoniano del pieno raggiungimento di tutti gli obiettivi originari dello studio : a. alta incidenza di attecchimenti in pazienti trattati con un regime di condizionamento a bassa tossicita’ extraematologica ; b. completa prevenzione della GvHD in pazienti che non erano stati sottoposti ad alcuna profilassi immunosoppressiva post trapianto. Diciotto pazienti vennero trapiantati solo con cellule staminali da sangue periferico. A paragone dei soggetti che avevano ricevuto midollo osseo e cellule staminali periferiche, sia l’incidenza di attecchimento che la velocita’ di ricostituzione emopoietica rimasero invariate, il che indica come l’aggiunta di midollo osseo alle cellule staminali periferiche non sia essenziale per l’attecchimento. Un’altra riflessione emergente da questi dati e’ che cellule staminali purificate, infuse in alto dosaggio, facilitano, di per se’ stesse, l’attecchimento. Successivamente a questa ipotesi - e a riprova di questo concetto - Y. Reisner e coll. hanno dimostrato che cellule umane CD34+ - purificate con la stessa metodologia impiegata nel trapianto clinico - determinano in una cultura mista linfocitaria una riduzione specifica della frequenza di precursori citolitici diretti contro i loro antigeni di istocompatibilita’, ma non contro cellule stimolatorie di una terza parte (17). In altri termini, le cellule CD34+ sono in grado di indurre una tolleranza specifica, come altre cellule veto o facilitanti. Una possibile spiegazione per questo effetto veto puo’ essere costituita dal loro peculiare fenotipo che presenta antigeni MHC di classe I e II, in assenza delle molecole di costimolo B7, il che renderebbe le cellule T anergiche alle molecole MHC di classe I e II. Un altro aspetto degno di menzione e’ che i fattori che hanno condizionato l’alta percentuale di attecchimento , in assenza di GvHD, vale a dire il regime di condizionamento ed i numeri di cellule CD34+ e CD3+ nell’inoculo, sono tra loro strettamente legati, nel senso che variazioni nell’uno implicano di conseguenza anche variazioni negli altri. Un esempio puo’ essere rappresentato dal recente studio clinico condotto da R. Handgretinger e coll. in Germania. In bambini affetti da Leucemia Acuta, trapiantati da donatori aploidentici, vennero riportati un’alta incidenza di attecchimenti e 83 nessun caso di GvHD (18). Il regime di condizionamento, basato esclusivamente sulla chemioterapia (Tiotepa, Busulfano, Ciclofosfamide e ATG) e’ sicuramente meno immunosoppressivo di un condizionamento quale quello da noi utlizzato caratterizzato dalla presenza di TBI in unica frazione ad alto dose rate. D’altro canto, l’inoculo conteneva circa il doppio di cellule CD34+ (20 milioni/Kg contro 10 milioni/Kg) di quanto utilizzato nel nostro studio, poiche’ i pazienti della casistica tedesca, essendo bambini, avevano un basso peso corporeo. Un altro esempio puo’ essere costituito dal numero di T-linfociti nell’inoculo che rappresenta la dose soglia per la GvHD. Nella nostra esperienza l’impiego di un quantitativo di T-linfociti pari a 3x104/Kg non e’ stato seguito da nessun caso di GvHD. Si deve pero’ sottolineare la presenza dell’ATG nel regime di condizionamento. Dacche’ l’emivita plasmatica dell’ATG e’ di sei giorni, il farmaco puo’ aver contribuito a ridurre l’incidenza della GvHD, esercitando un’azione di deplezione in vivo dei T-linfociti presenti nell’inoculo midollare. E’ ampiamente noto come i problemi maggiori della T-deplezione siano rappresentati dall’aumentata incidenza di recidive leucemiche post-trapianto, (dovuta alla mancanza di un effetto GvL, GvHD-relato) e dal deficit immunologico post-trapianto con relativa aumentata incidenza di infezioni. Nel nostro studio, la piu’ parte delle recidive sono state osservate nei pazienti con LAL, particolarmente in quelli in recidiva, al momento del trapianto, fenomeno questo piu’ che atteso in un simile gruppo di soggetti ad alto rischio. Per contro, nei 32 pazienti con LAM trapiantati nel corso del primo e del secondo studio, tra il 1993 e il 1997, la probabilità a sei anni di recidiva leucemica fu del 22%, un valore molto basso ove si consideri che circa la meta’ dei pazienti erano in recidiva al momento del trapianto, la piu’ parte in recidiva chemioresistente. Questi dati indicano un effetto GvL specifico nei riguardi della LAM. Recentemente, A. Velardi e coll. hanno suggerito che l’alloreattivita’ NK possa avere un ruolo nell’azione GvL (4). Come gia’ sottolineato, in molte coppie donatore-ricevente i recettori inibitori (KIR) per l’MHC delle cellule NK del donatore non riconoscono come self gli alleli di classe I del ricevente. Di conseguenza le cellule NK del donatore sono capaci di lisare le cellule linfoemopoietiche del ricevente. In questi casi si e’ dimostrato che la ricostituzione del repertorio NK nel ricevente - per almeno 3-4 mesi dopo il trapianto e’ caratterizzata dalla presenza di un quantitativo significativo di cloni NK alloreattivi nei riguardi del paziente. Questi cloni sono in grado di lisare in maniera molto efficace cellule di LAM e di LMC prelevate dai pazienti e criopreservate prima del trapianto. Per contro l’azione litica non si esplica nei riguardi delle cellule della piu’ parte dei casi di LAL. I livelli di espressione di LFA-1 -una molecola di adesione essenziale per la formazione del coniugato cellula effettrice -cellula target e per l’attivazione delle cellule effettrici sembrano indicare il grado di suscettibilita’ alla lisi NK (alta espressione nelle cellule sensibili della LAM e della LMC, bassa espressione nella piu’ parte dei pazienti con LAL). A riprova di questa ipotesi, va sottolineato come sino al momento attuale non si sia osservata alcuna recidiva nei pazienti con LAM o con LMC trapiantati da donatori potenzialmente NK alloreattivi. I cloni alloreattivi NK lisano con la stessa efficienza anche le cellule linfoemopoietiche normali (linfociti stimolati con PHA, linee linfoblastoidi B) del ricevente, criopreservate prima del trapianto, per cui e’ ipotizzabile che l’alloreattivita’ NK 84 abbia un ruolo anche nella prevenzione del rigetto, contribuendo ad eliminare il sistema immune residuo dopo il condizionamento. Nessuno dei pazienti sviluppo’ segni clinici di GvHD acuta o cronica, pur presentando in circolo un significativo numero di cellule NK alloreattive. Questa osservazione non deve destare sorpresa poiche’ lo stesso fenomeno - seppur in senso opposto - e’ stato descritto nel cosiddetto modello murino di resistenza ibrida, dove le cellule NK di un ricevente F1 sono in grado di rigettare il trapianto di midollo osseo dei genitori, ma non trapianti di cute o altri organi (19). Il maggior problema clinico, nei pazienti adulti, ma non nei bambini, e’ rappresentato dalla lentezza con cui avviene il ripristino di un’efficiente immunita’ contro virus, batteri e funghi, dovuta ad un ritardo nella ricostituzione del sistema T-immune. Nonostante una profilassi antivirale e antifungina, il 71% delle morti non-leucemiche (quindi il 70% della mortalita’ trapianto-relata che e’ pari al 49%) e’ dovuto ad infezioni batteriche e fungine. Questa incidenza di infezioni fatali puo’ sembrare alta, ma e’ necessario prendere in considerazione che la piu’ parte dei pazienti del nostro studio aveva una lunga storia di malattia ed era stata pesantemente pre-trattata, con conseguente alta incidenza di colonizzazioni batteriche e fungine prima del trapianto. Ad esempio, vi e’ una differenza notevole nell’incidenza di infezioni letali tra pazienti con pregresse storie di severe infezioni batteriche e/o fungine prima del trapianto e pazienti a minor rischio : nei pazienti non colonizzati la mortalità dovuta ad infezioni era pari al 13%. Inoltre va sottolineato come questa relativa immunoincompetenza non sia una caratteristica unica dei trapianti incompatibili per tre loci. Ad esempio simili condizioni di immunodeficienza e gli stessi tipi (e incidenza) di infezioni sono stati del tutto recentemente riportati in soggetti adulti che avevano ricevuto un trapianto di midollo osseo T-depleto da donatori HLA-compatibili non correlati geneticamente (20). E del resto analoghi problemi contraddistinguono il decorso di pazienti con GvHD sottoposti a trapianto convenzionale (T-repleto) da donatori non correlati. E’ ampiamente noto che, nei primi 6-8 mesi dopo il trapianto, la ripopolazione T linfoide di un paziente adulto e’ essenzialmente sostenuta dall’espansione di T-linfociti maturi del donatore presenti nell’inoculo midollare. Anche nei trapianti convenzionali compatibili, il repertorio delle cellule T rimane piu’ o meno severamente compromesso sino all’avvento di cellule CD4+, CD45RA+RO- che verosimilmente rappresentano il prodotto della maturazione intratimica. E’ ovvio che nei trapianti intensamente Tdepletati, come quelli che forzatamente devono essere effettuati nel caso di donatori incompatibili, il ritardo della ricostituzione dei livelli e delle funzioni dei linfociti T e’ ancora piu’ accentuato. L’ostacolo potrebbe essere superato trasferendo, dopo il trapianto, cellule T mature del donatore, previa deplezione ex vivo delle cellule T alloreattive. Questi linfociti T non alloreattivi possono essere diretti (oppure no) contro specifiche sorgenti di infezione (ad esempio Candida, Aspergillo, Cytomegalovirus e Toxoplasma). Al momento attuale, il recupero delle funzioni immunitarie appare tuttavia piu’ rapido di quanto da noi pubblicato nel 1998. Vari fattori potrebbero aver contribuito a tale fenomeno. In primo luogo, con il sistema Meltenyi e’ possibile trapiantare un numero maggiore di cellule CD34+ (e, verosimilmente, anche piu’ funzionali data la relativa rapidita’ della procedura di purificazione). A questo riguardo, e’ stato proposto come l’infusione di alti numeri di cellule CD34+ possa promuovere un piu’ rapido recupero di cellule T (18). In secondo luogo, poiche’ dati in vitro indicano che il gancyclovir potrebbe esercitare effetti immunosoppressivi, esso e’ stato sostituito nella profilassi anti-CMV con il foscarnet. 85 Dacche’ e’ stato dimostrato (Roncarolo MG et al, dati non pubblicati) che il G-CSF induce la produzione, da parte delle cellule presentatnti l’antigene, della citochina immunosoppressiva IL10 (che e’ in grado a sua volta di impedire la presentazione antigenica e l’attivazione delle risposte immuni), il G-CSF non viene piu’ somministrato ai pazienti dopo il trapianto, il che, del resto, non sembra aver prodotto conseguenze negative nell’attecchimento. Gli effetti immunoregolatori connessi a tale decisione terapeutica sono attualmente in fase di studio. Infine, mentre e’ possibile che vari fattori ne siano responsabili, una chiara indicazione di un migliorato recupero delle funzioni immuni post-trapianto e’ fornita anche dal fatto che le complicanze infettive appaiano al momento attuale in diminuzione. Nonostante i problemi sovraesposti, nei 32 pazienti con LAM, trapiantati tra il 1993 e il 1997, nel corso del primo e secondo studi pilota, si e’ osservata una probabilita’ di sopravvivenza “event-free” a sei anni pari al 33%. Ove si consideri che 14 dei 32 soggetti erano in recidiva al momento del trapianto, e’ evidente come simili risultati non potrebbero essere raggiunti da nessun altra forma di trattamento disponibile al momento attuale. La probabilita’ di sopravvivenza dei pazienti con LAL e’ inferiore, essenzialmente per una piu’ alta incidenza di recidiva, caratteristica di questi pazienti adulti ad altissimo rischio. In conclusione, i risultati in termini di mortalita’ trapianto-relata e di sopravvivenza “event-free” non appaiono dissimili da quelli riportati in pazienti affetti da Leucosi Acuta, in analogo stato di malattia, sottoposti a trapianto convenzionale (o Tdepletato) da donatori geneticamente non correlati. Pertanto il trapianto da donatore familiare aploidentico incompatibile per tre loci deve essere oramai considerato una realta’ clinica, da impiegare nel trattamento dei pazienti con Leucosi ad alto rischio, che non dispongono di un donatore compatibile o che necessitano di un trapianto urgente. Per contro, questa strategia non puo’ essere raccomandata nei pazienti con LAL chemioresistente o nei pazienti con una storia clinica recente di severe infezioni batteriche e/o fungine . Infine, la possibilita’ di prevenire pressocche’ totalmente due importanti complicanze quali la GvHD e il rigetto rappresenta un’importante tappa per future applicazioni del trapianto da familiare incompatibile in pazienti di eta’ avanzata affetti da Leucosi Acute e nel trattamento di affezioni ematologiche non neoplastiche. References. 1. 2. 3. 4. 5. 6. Thomas ED, Marrow transplantation for malignant disease. J Clin Incol 1983; 1:517-31 Kernan NA, Bartsch G, Ash RC, et al. Retrospective analysis of 462 unrelated marrow transplants facilitated bythe National Marrow Donor Program (NMDP) for treatment of acquired and congenital disorders of the lymphohematopoietic system and congenital metabolic disorders. N Engl J Med 1993; 328:593-602 Anasetti C, Etzioni R, Petersdorf EW, et al. Marrow transplantation from unrelated volunteer donors. Ann Rev Med 1995; 46:169-79 Ruggeri L, Capanni M, Casucci M, et al. 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Il protocollo venne presto impiegato anche a Seattle, primo centro a pubblicare dati nell’uomo (Thomas et al, 1972, Storb et al, 1974). Va fatta subito una considerazione: in quel periodo, la ciclofosfamide non veniva impiegata a questi dosaggi, e pertanto la dose di 200mg/kg veniva considerata una dose molto elevata, o addirittura una dose limite. A riprova di questo fatto una dose di CY superiore a 1.55 gr/m^2 produceva una cardiotossicità 25% di pazienti (letale nel 12%) contro un 3% per una dose inferiore (letale in 0%) (Goldberg et al, 1986). Anche nell’animale la cardiotossicità è praticamente assente sino a 200mg/kg, e poi la curva s’impenna rapidamente; per cui a 220mg/kg il 20% degli animali muore della tipica cardiotossicità irreversibile da CY. La dose limite quindi è 200 mg/kg o 6-7 gr/m^2.. Nonostante una parte dei pazienti aplastici (40%) diventasse lungo sopravvivente con ripresa ematologica trilineare, molti pazienti andavano in corso a rigetto del midollo: su 73 pazienti della analisi del 1977, 21 pazienti avevano rigettato (29%) (Storb et al, 1977). Tra questi alcuni rari casi evidenziavano ricostituzione ematologica autologa anche completa (Barrett et al, 1979) Questa fu un’osservazione cruciale per due motivi: 1) dimostrava che la CY alla dose di 200mg/kg, non era mieloablativa, 88 2) in secondo luogo suggeriva il coinvolgimento del sistema immunologico del ricevente nella patogenesi della malattia. TRAPIANTO NON MIELOABLATIVO Il termine di condizionamento non mieloablativo è stato impiegato da Rainer Storb alla fine degli anni ’70 appunto per indicare questo il protocollo usato nell’Anemia Aplastica (AA) ovvero ciclofosfamide 200 mg/kg (CY200) (Storb et al, 1978) Recentemente, sono stati proposti protocolli di condizionamento prevalentemente immunosoppressivi, per eseguire trapianti in pazienti in età avanzata, e superare la barriera della TRM : ci si riferisce a questi trapianti con il termine di minitrapianti o trapianti senza mieloablazione. In realtà l’anemia aplastica ci offre un ottimo modello umano di trapianto non mieloablativo, con esperienza ventennale e identificazione di effetti collaterali a breve e a lungo termine. Lezioni dal TMO non mieloablativo nelle anemie aplastiche 1. Un condizionamento non mieloablativo è in grado di indurre attecchimento persistente delle cellule del donatore (engraftment) in percentuale variabile fino al 100%. 2. L’attecchimento completo si associa spesso, ma non sempre, alla presenza di GvHD cronica 3. L’incremento della intensità del condizionamento per aumentare il grado di attecchimento si associa con un aumento delle complicazioni a breve e a lungo termine 4. Una eccezione a questa regola è l’impiego di una immunosoppressione pre-TMO non tossica: al posto della irradiazione linfonodale per esempio la globulina antilinfocitaria (ALG) 5. L’attecchimento parziale (mixed chimerism) è compatibile con una funzione emopoietica conservata 6. È possibile che in alcuni pazienti si determini una condizione di “dipendenza” dalla terapia immunosoppressiva, in assenza della quale, il trapianto viene perso 7. Non vi è rischio di tumore secondario 8. La tossicità dipende dall’età: tanto piu’ giovane il paziente, tanto inferiore E cosa succederebbe se usassimo il condizionamento CY200 per malattie ematologiche neopastiche? Possiamo anticipare - una riduzione delle complicazioni a breve termine - una riduzione delle complicazioni a lungo termine, inclusi i tumori secondari - una elevata percentuale di ricadute leucemiche Purtroppo mentre quest’ultime sono “trattabili” nelle aplasie, nelle emoblastosi, finirebbero per non modificare il corso naturale della malattia. Per superare questo ostacolo, senza aumentare l’aggressività del condizionamento, sarebbe necessario impiegare dosi midollari enormi, che nell’uomo sono ancora oggi poco praticabili (la dose di 20-40x10^6 cellule midollari impiegata nel topo con condizionamenti non mieloablativi, equivale nell’uomo a 40 volte la dose che comunemente usiamo in clinica, quindi a circa 120x10^8 cellule midollari/kg). Idealmente per eseguire un trapianto senza mieloablazione occorre 89 -forte immunosoppressione pre-TMO -elevatissimo numero di cellule staminali -elevato numero di linfociti (anche se un numero elevato di linfociti espone al rischio di GvHD acuta, e quindi l’impiego di linfociti trasdotti con geni suicidi potrebbe essere utile) -modica immunosoppressione post-TMO, possibilmente di breve durata (per evitare il rischio di dipendenza) Primi risultati clinici dei trapianti senza mieloablazione I primi risultati dei trapianti senza mieloablazione o minitrapianti nelle emoblastosi, confermano queste previsioni: la tossicità è limitata, persistono alcune complicanze come la GvHD specie per la estrema variabilità e intensità dei condizionamenti. Fludarabina- ciclofosfamide (FLU-CY) Il protocollo di Houston fludarabine- ciclofosfamide originariamente sviluppato per la terapia delle leucemie linfatiche croniche resistenti, si è rivelato estremamente immunosoppressivo e capace di indurre chimerismo in un elevato numero di pazienti. A Genova, abbiamo utilizzato questo protocollo in 19 pazienti con varie malattie ematologiche: abbiamo confermato un buon livello di attecchimento, specie nelle malattie croniche e nelle aplasie midollari, ma la recidiva leucemica è un problema che andrà affrontato. La nostra impressione è che nelle leucemie acute, specie se avanzate sia inefficace. In altri Centri hanno impiegato la FLU in associazione con basse dosi di busulfano (Jerusalem, S Slavin), con basse dosi di melphalan (Londra, S McKinnon), basse dosi di tiotepa (Milano, P Corradini), con alte dosi di ciclofosfamide (Bethesda, J Barrett). I risultati sono globalmente incoraggianti ma molto preliminari. Irradiazione total corporea (TBI) 2 Gy Protocollo sviluppato da Rainer Storb a Seattle nel modello canino, ora attivo nell’uomo con profilassi della GvHD ciclosporina e micofenolato mofetil (MMF): nei primi 30 casi si è osservato un buon livello di chimerismo, ed un buon controllo della malattia specie in pazienti con malattie croniche Irradiazione total corporea (TBI) 1 Gy Il gruppo di P Quesenberry sta utilizzando una dose molto piccola di TBI (1 Gy) che nel topo riduce dell’80% il compartimento staminale: i primi due pazienti preparati con TBI 1 Gy e ATG Irradiazione timica e ciclofosfamide. Protocollo di Boston (G Spitzer) con 7 Gy di irradiazione timica e CY 150 mg/kg con ATG. Sembra induca un certo grado di chimerismo e 15 pazienti sono entrati nello studio, in prevalenza linfomi non Hodgkin recidivati. 1. 2. 3. 4. 5. Prime conclusioni Le prime conclusioni in accordo con un recente Workshop sono le seguenti: il termine minitrapianto è improprio e piu’ appropriato sarebbe trapianto con condizionamento di ridotta intensità il minitrapianto è una terapia sperimentale: la tossicità è limitata, ovvero ridotta rispetto ad un trapianto convenzionale, ma non assente non conosciamo la efficacia dei minitrapianti nella cura di malattie neoplastiche il minitrapianto puo’ essere proposto a pazienti altrimenti non elegibili per un trapianto allogenico convenzionale pazienti con leucemia acuta non sono probabilmente buoni candidati 90 6. pazienti con malattie croniche (CLL, CML, linfomi) possono essere trattati 7. è dubbio l’effetto nei tumori solidi, ma dovrebbe essere esplorato 8. sarà necessario seguire attentamente questi pazienti per valutare effetti a breve e lungo termine 9. la grande esperienza acquisita con le aplasie midollari trattate con la ciclofosfamide sola, puo’ dare indicazioni importanti su alcuni di questi effetti a breve e lungo termine. Fra queste il rapporto fra intensità del condizionamento, numero di cellule staminali e di linfociti trapiantati, intensità della immunosoppressione in vivo post-trapianto: queste variabili determinano il grado di attecchimento, del chimerismo e la stabilità della funzione ematopoietica Bibliografia pertinente 1. Barrett AJ. Allogeneic bone marrow transplantation for severe aplastic anaemia-the London experience. Clin Lab Haematol 1 (2): 95-107; 1979. 2. Bortin MM, Gale RP and Rimm AA for the Advisory Committee of the International Bone Marrow Transplant Registry: Allogeneic Bone Marrow Transplantation for 144 patients with Severe Aplastic Anemia. JAMA vol. 245, n°11; 1981. 3. Champlin RE, Ho WG, Nimer SD, et al. Bone Marrow transplantation for severe aplastic anemia. Transplantation 49: 720-724; 1990. 4. 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Cattedra di Immunologia Clinica, Università di Torino, Divisione Universitaria di Immunologia Clinica, Ospedale Muriziano Umberto I; Torino e Laboratorio di Immunologia Oncologica, I.R.C.C. Candiolo (TO). La Leucemia Linfatica Cronica a B cellule (B-LLC) è la leucemia più frequente nel mondo occidentale con un’incidenza di 50 casi/100.000 dopo i 70 anni (1). Non é associata con l’esposizione a sostanze chimiche, né a radiazioni ionizzanti e neppure é più comune in soggetti con sindromi da immunodeficienza. Piuttosto, si evidenzia una suscettibilità genetica. La B-LLC é infatti rara nelle popolazioni dell’est asiatico e nei giapponesi emigrati negli USA, mentre é assai più frequente nelle popolazioni caucasiche e negre. E’ stata anche documentata una tendenza famigliare con il caratteristico fenomeno dell’anticipazione: infatti esistono famiglie in cui la malattia appare nelle generazioni successive ad un’età sempre più precoce. Tre sono le caratteristiche biologiche fondamentali della B-LLC (2): 1) rappresenta il prototipo delle neoplasie caratterizzate da difetti nell’induzione dell’apoptosi; 2) i pazienti sviluppano una severe immunodeficienza, ed in particolare una marcata ipogammaglobulinemia che peggiora con il progredire della malattia; 3) i pazienti hanno un’elevata prevalenza di fenomeni autoimmuni caratterizzati dalla produzione di autoanticorpi (autoAb) che sono policlonali e diretti contro autoantigeni (Ag) espressi unicamente dalle cellule ematiche (3). Questi autoAb sono responsabili di citopenie autoimmuni talora assai severe. L’origine e le caratteristiche della cellula neoplastica. La cellula neoplastica é un piccolo, fragile linfocita maturo le cui caratteristiche fenotipiche sono molto simili a quelle dei B linfociti che si osservano nella zona mantellare (MZ) dei follicoli linfatici secondari (4). La caratteristica distintiva della B-LLC é la coespressione della molecola CD5 con livelli di immunoglobuline di superficie (sIg) molto bassi (e talora non evidenziabili). Si tratta in genere di IgM + IgD e solo eccezionalmente si osservano IgG o IgA. L’ipotesi comunemente accreditata é che la B-LLC derivi dalla trasformazione neoplastica di B linfociti CD5+ anergici e autoreattivi localizzati nei follicoli linfatici degli organi linfatici secondari (4). Quest’ipotesi deriva da una serie di osservazioni: a) le sIg monoclonali espresse sulla membrana dei B linfociti neoplastici hanno un’attività 93 autoanticorpale policlonale generalmente a tipo fattore reumatoide; b) livelli di sIgM bassi come sulla superficie delle cellule di B-LLC si trovano unicamente nei B linfociti normali anergizzati dall’incontro con un autoAg; c) i B linfociti CD5+ normali si trovano nella MZ dei follicoli linfatici secondari e spesso producono autoAb naturali, polireattivi e a bassa affinità codificati dallo stesso repertorio di geni V delle Ig che si osservano nella maggior parte dei casi di B-LLC. In circa la metà dei casi di B-LLC i geni V delle Ig presentano mutazioni somatiche (5-8). Questo significa che, almeno in questi casi, la cellula di origine é un linfocita B memoria che ha incontrato l’Ag nei centri germinativi. I restanti casi non presentano mutazioni somatiche e dunque la cellula di origine é un linfocita B naive che non ha incontrato l’Ag. Inoltre, é stato documentato che le B-LLC non mutate sono anche caratterizzate dall’avere percentuali molto più elevate di B linfociti CD38+ (8). Questa dicotomia ha una rilevante implicazione clinica dal momento che la prognosi delle LLC naive é significativamente più severa di quella delle LLC memoria (7, 8). La quasi totalità delle cellule di LLC é nella fase G0 del ciclo cellulare. Tuttavia, queste cellule resting esprimono sulla superficie una serie di molecole, tra cui CD23 e CD27, che in altre circostanze indicano un’attivazione cellulare. Inoltre, esprimono lo mRNA per la quasi totalità delle citochine testate e producono e secernono numerose citochine (9). Il ruolo di queste citochine nella storia naturale della malattia é tuttavia oscuro. Alcune, quali TGF-β e IFN-γ possono essere responsabile di circuiti autocrini negativi che contribuiscono a ostacolare il processo di apoptosi. Altre, quali TNF-α e CD23 solubile sono state proposte quali possibili fattori di crescita autocrini. Tuttavia, nessuna citochina é individualmente capace di forzare il blocco in G0 e le cellule di B-LLC non sono in grado di rispondere ai mitogeni che causano la proliferazione dei B linfociti normali. In altri termini, le cellule di B-LLC presentano uno stato di attivazione frustrata oltre al quale sono incapaci di procedere. E’ verosimile che un ruolo importante nel determinare questa situazione sia giocato dal B cell receptor (BCR). Il BCR é un complesso multimerico di membrana formato dalle sIg e dall’eterodimero Igα/Igβ (CD79a/CD79b) che traduce lo stimolo recepito dalle sIg nel segnale biochimico che porta all’attivazione e proliferazione cellulare. Il domain extracellulare di CD79b é assente nella maggior parte dei pazienti con B-LLC (10). Una variante troncata di CD79b deriva per un meccanismo di splicing alternativo e manca dell’esone 3 che codifica per la porzione extracellulare della molecola (11). Questa variante di splicing é stata trovata in numerosi linee cellulari B ed in tutti i casi di B-LLC analizzati, suggerendo che il meccanismo di splicing alternativo possa essere implicato nel causare i ridotti livelli di BCR sulla superficie delle cellule di B-LLC (12). E’ ragionevole ritenere che questi ridotti livelli possano essere responsabili della difettiva trasduzione del segnale che é propria delle cellule di B-LLC e le accomuna ai B linfociti anergici. In accordo con questa possibilità anche altre molecole, quale CD22, che sono collegate con il BCR in quanto ne amplificano il segnale, sono assenti o debolmente espresse dalle cellule di B-LLC. E’ sorprendente come una cellula resting ed anergica quale la cellula neoplastica di BLLC abbia un’intrinseca instabilità genetica e presenti numerose aberrazioni genomiche (13-18). Le anormalità predominanti portano o ad una perdita o ad un incremento di materiale genico. Le traslocazioni sono rare e, quando presenti, portano a perdita di materiale genico piuttosto che alla creazione di un gene di fusione o all’iperespressione di 94 un oncogene suggerendo che i geni patogeneticamente rilevanti si comportino come geni oncosoppressori. La fluorescence in situ hybridisation (FISH) rivela la presenza di anomalie citogenetiche in una percentuale di casi che arriva fino all’80% (13-18). Le anomalie più comuni sono delezioni e traslocazioni in 13q e la trisomia del cromosoma 12. E’ interessante osservare che i casi con mutazioni somatiche dei geni delle Ig hanno la delezione 13q14, mentre i casi germ line hanno la trisomia del cromosoma 12. Mutazioni o delezioni di p53 al 17p13.3 sono state riportate nel 15% circa dei pazienti e delezioni nelle bande 11q22-q23 sono presenti nel 20% dei pazienti. Inoltre, il braccio lungo del cromosoma 11 a livello di 11q22q23 ospita il gene mutato nell’atassia-teleangectasia (ATM) (19). I soggetti con AT sono omozigoti per ATM, cioé le mutazioni interessano ambedue gli alleli. Il fatto che questi pazienti abbiano un’aumentata suscettibilità a sviluppare neoplasie linfoidi ha portato ad analizzare ATM nei pazienti con B-LLC dimostrando che numerosi pazienti hanno mutazioni in ATM (19, 20). Dal momento che, in taluni casi, il gene ATM é mutato nella linea germinale si é sviluppata l’ipotesi che i soggetti eterozigoti per ATM possano essere predisposti a sviluppare una LLC (20). Il problema dell’apoptosi La progressione della LLC é influenzata in maniera decisiva da un’apoptosi assente o difettiva (2). Gli studi sulla capacità che le cellule di B-LLC hanno di evitare l’apoptosi sono essenzialmente incentrati sulla famiglia Bcl-2 21-23). Infatti, e pur in assenza della traslocazione t(14;18) tipica del linfoma follicolare, la proteina Bcl-2 cioé il classico antidoto all’apoptosi é iperespressa nelle cellule di B-LLC. Inoltre, le cellule di B-LLC esprimono elevati livelli anche di Bcl-xL e Bax, mentre Bcl-xS é presente soltanto in tracce ed in una ridotta percentuale di casi. Pertanto, il pattern di espressione dei geni della famiglia Bcl-2 é fortemente squilibrato in favore della soppressione dell’apoptosi (2). Un’altra molecola di notevole interesse é Fas (CD95) (24). Le cellule di LLC sono generalmente Fas negative e, quand’anche rese Fas positive da un processo di attivazione in vitro sono generalmente resistenti all’apoptosi mediata da Ab anti-Fas. Peraltro, nei casi in cui si osserva una sensibilità all’azione apoptogena di Ab anti-Fas questa sembra essere indipendente dall’espressione di Bcl-2. Il meccanismo che sottende la iperespressione di Bcl-2 é sconosciuto e, al momento attuale, l’ipotesi più credibile é che l’iperespressione rappresenti la conseguenza di un stimolo fornito dal microambiente sotto forma di citochine, quali IL-4, IFN- e IFN- . Questa possibilità é sottolineata dal fatto che in vivo le cellule di B-LLC si accumulano in maniera progressivamente inarrestabile; al contrario, quando vengono coltivate in vitro vanno rapidamente incontro a morte per apoptosi. Questo paradosso suggerisce che l’accumulo in vivo (conseguenza della difettiva apoptosi) sia da mettere in relazione ad una interrelazione tra la cellula neoplastica ed il microambiente, interrelazione che verrebbe a mancare in vitro. Numerose osservazioni sperimentali (25, 26) sostengono in maniera convincente il ruolo dei T linfociti e delle cellule stromali nell’amplificare un microambiente capace di inibire l’apoptosi dei B linfociti neoplastici. A sua volta, il deficit di apoptosi crea un milieu intracellulare che favorisce la progressione della malattia attraverso una aumentata sopravvivenza, l’incapacità di obbedire ai checkpoints del ciclo cellulare e la induzione della resistenza ai farmaci citostatici ed alla radiazioni. Le interazioni tra clone linfocitario e microambiente sono bidirezionali, sono regolate da molecole di adesione e rese attive dalla produzione di citochine e chemochine. 95 I dati relativi al problema dell’apoptosi nella LLC portano a tre sostanziali conclusioni: 1) la propensione che le cellule di LLC hanno ad andare spontaneamente in apoptosi in vitro rappresenta un problema nell’interpretazione dei tests in vitro utilizzati per valutare l’attività proapoptotica di nuovi farmaci; 2) l’esagerata sopravvivenza ed il progressivo accumulo delle cellule di B-LLC appare essere selettivamente favorita dalla loro interazione con cellule del microambiente; 3) Bcl-2 é certamente rilevante, ma verosimilmente non rappresenta la risposta ultima e definitiva alla domanda su quali molecole e quali geni sono coinvolti nel controllo dell’apoptosi nella B-LLC. Le cellule di B-LLC e la presentazione dell’Ag L’immunodeficenza e l’autoimmunità sono probabilmente due aspetti correlati e riconducibili al possibile ruolo dei B linfociti di B-LLC come Ag-presenting cells (APC) (4). Le stesse cellule neoplastiche che si accumulano paiono rappresentare il maggior ostacolo alla produzione di Ab normali e dunque il fattore che determina la progressiva immunocompetenza (2, 27). Almeno quattro osservazioni sono in favore di questa possibilità: 1) le cellule di B-LLC secernono elevate quantità di TGF- che é un potente inibitore della proliferazione B linfocitaria; 2) esse rilasciano anche alti livelli del recettore solubile del recettore della IL-2 che potrebbe adsorbire la IL-2 circolante e dunque regolare negativamente l’azione dei T linfociti helper; 3) i B linfociti normali attivati sono eccellenti APC, mentre i B linfociti anergici hanno una capacità APC nettamente ridotta che può però essere ripristinata dai segnali forniti dai linfociti T helper. I bassi livelli di sIg, le difettosa espressione di BCR e la mancata espressione delle molecole costimolatorie CD80 e CD86 spiega l’incapacità delle cellule di B-LLC a funzionare come APC; 4) l’accumulo di cellule neoplastiche CD40+ che regolano negativamente l’espressione del CD40 ligando (CD154) sulla superficie dei T linfociti helper interferisce in modo decisivo con l’espletamento di una corretta B/T cognate interaction Ag-specifica (27). Se la B-LLC é caratterizzata dall’accumulo monoclonale di B linfociti CD5+ anergici e autoreattivi capaci di produrre autoAb naturali polireattivi, diventa conseguente domandarsi perché le manifestazioni autoimmuni che occorrono in così alta percentuale sono invece causate da autoAb policlonali e perché gli autoAb patogeni hanno un bersaglio antigenico ristretto alla linea emopoietica, essendo diretti quasi esclusivamente contro Ag propri della membrana eritrocitaria (anemia emolitica autoimmune) o piastrinica (piastrinopenia autoimmune). La policlonalità degli autoAb patogeni di per se stessa garantisce che essi non vengono prodotti dal clone neoplastico. Inoltre, questi autoAb sono di classe IgG, monoreattivi e ad alta affinità (3). Un’interpretazione che consente di mettere insieme i diversi pezzi del puzzle é fornita dalla possibilità che, in un contesto appropriato, le cellule di B-LLC possano fungere da APC capaci di presentare ai B linfociti normali residui Ag selettivamente ristretti (4). In vitro, la stimolazione mediante CD40L del CD40 espresso sulla superficie dei B linfociti di B-LLC regola positivamente l’espressione di CD80 e CD86 e trasforma i B linfociti neoplastici anergici CD80-, CD86- in APC CD80+, CD86+ assai efficienti (27). E’ verosimile che in vivo le cellule di B-LLC possano, nell’appropriato microambiente, essere attivate dal sistema CD40-CD40L a diventare efficienti APC. E’ intuitivo pensare che il microambiente più appropriato a questo tipo di attivazione sia il microambiente splenico. Una delle funzioni fondamentali della milza é quella emocateretica, cioè il sequestro e la rimozione delle cellule ematiche senescenti e/o anormali. Ne consegue che le cellule di B-LLC che si accumulano progressivamente nella milza finiscono per essere incessantemente esposte ad un gran numero di prodotti di degradazione di cellule ematiche anucleate (eritrociti e 96 piastrine) rimosse dal circolo dal sistema reticoloendoteliale splenico. Non é quindi irragionevole ipotizzare (4) che nel microambiente splenico le cellule di B-LLC vengano a contatto con forme solubili di strutture di membrana eritrocitaria e/o piastrinica e, previa attivazione da parte dei T linfociti attraverso il sistema CD40/CD40L, acquisiscano la capacità di presentare questi prodotti di degradazione di membrana (autoAg) ai B linfociti residui normali. Questi potrebbero essere stimolati a produrre autoAb monoreattivi, patogeni, specificamente mirati contro le strutture di membrana self. Questa ipotesi non solo può spiegare la ristretta specificità degli autoAb patogeni della B-LLC, ma, dal momento che le cellule rimosse dalla milza nell’espletamento della funzione emocateretica sono anucleate, può anche spiegare perché gli autoAb che caratterizzano le malattie autoimmuni sistemiche, quali Ab anti nucleo e anti-DNA, siano tipicamente assenti nella B-LLC e perché malattie autoimmuni sistemiche nella B-LLC siano praticamente assenti. Bibliografia 1. Rozman C, Montserrat E. New Engl J Med 333: 1052, 1995 2. Caligaris-Cappio F, Hamblin TJ. J Clin Oncol 17:399, 1999 3. Kipps T, Carson DA. Blood 81:2475, 1993 4. Caligaris-Cappio F. Blood 87:2615, 1996 5. Fais F, Ghiotto F, Hashimoto S, et al. J Clin Invest 102:1515, 1998 6. Schroeder HW, Dighiero G. Immunol Today 15:288, 1994 7. Hamblin TJ, Davis Z, Gardiner A, Oscier DG, Stevenson FK. Blood (in press) 8. Damle RN, Wasill T, Fais F et al. Blood (in press) 9. Pistoia V. Immunol Today 18:343, 1997 10. 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Nonostante ciò la LLC è una malattia estremamente eterogenea, sia per la varietà, alla diagnosi e durante le fasi evolutive, delle espressioni citologiche e immunofenotipiche sia per l’estrema variabilità del decorso clinico, da forme praticamente asintomatiche, in cui la sopravvivenza senza trattamento è simile a quella della popolazione sana di pari età, a forme particolarmente aggressive, in cui l’evolutività e la scarsa risposta terapeutica determinano un andamento ingravescente e infausto a breve termine. Tale eterogeneità ha spinto vari studiosi a ricercare criteri utili nell’orientare le scelte terapeutiche e volti ad individuare gruppi omogenei di pazienti sui quali l’effetto della terapia possa essere giudicato, utilizzando criteri oggettivi per la valutazione delle risposte. Le importanti implicazioni di questo approccio sono la disponibilità fin dall’esordio di criteri diagnostici e di una serie di fattori prognostici di sicura importanza e la necessità, durante il decorso clinico, di definire con precisione che cosa si intenda per malattia attiva o in progressione. Il National Cancer Institute-Sponsored Working Group on CLL ha recentemente pubblicato delle linee guida per la diagnosi e il trattamento della LLC estremamente utili a tale riguardo (2). É poi da sottolineare che la prima decisione terapeutica nella LLC non riguarda le modalità di trattamento, ma se i pazienti debbano essere trattati fin dal momento della diagnosi. Diagnosi, fattori di prognosi e indicazioni per iniziare la terapia I requisiti minimi per la diagnosi di LLC sono stati individuati in una linfocitosi nel sangue periferico (conta linfocitaria assoluta di 5000 per mm3 o superiore) con linfociti di aspetto maturo e immunofenotipo caratterizzato dall’espressione di SIg a bassa intensità monoclonali (più frequentemente IgM o IgM e IgD) e degli antigeni pan-B CD19 e CD20, dell’antigene CD23 e dalla coespressione dell’antigene CD5 (2). Tale impostazione restrittiva nella diagnosi immunofenotipica, oltre a permettere la diagnosi differenziale della LLC rispetto alle altre malattie linfoproliferative croniche in fase leucemica, consente l’inclusione nei trials clinici e negli studi biologici di gruppi di pazienti omogenei, con i conseguenti indiscutibili vantaggi nella interpretazione dei risultati ottenuti. 98 Oltre allo stadio clinico, definito secondo Rai (3,4) e Binet (5), i fattori prognostici più utili sono i seguenti: 1) il tempo di raddoppiamento linfocitario (<12 mesi, cattiva prognosi); 2) il pattern diffuso di infiltrazione linfocitaria del midollo nella biopsia ossea (cattiva prognosi); 3) il livello sierico di β-2microglobulina (livello elevato, cattiva prognosi); 4) il livello sierico di CD23 solubile (livello elevato, cattiva prognosi). Dighiero e coll. (6) hanno recentemente pubblicato i risultati di due studi randomizzati condotti tra il 1980 e il 1990, dimostrando che iniziare precocemente la terapia con chlorambucil, da solo o in associazione al prednisone, in pazienti affetti da LLC con malattia indolente (stadio A), non prolunga la sopravvivenza. Per tale motivo l’inizio della terapia citotossica va procrastinato fino a quando non compaia almeno una delle seguenti evidenze di malattia attiva o in fase di progressione: 1) presenza di sintomi generali correlati alla malattia (sintomi B, grave astenia); 2) linfoadenomegalie ed epatosplenomegalia in rapida progressione o massive; 3) tempo di raddoppiamento linfocitario inferiore a 12 mesi; 4) stadio III o IV di Rai; 5) anemia o trombocitopenia autoimmuni. Chlorambucil: dall’impiego convenzionale alle alte dosi Il chlorambucil (CLB) è l’agente più frequentemente utilizzato, singolarmente o in associazione al prednisone (PD), nel trattamento della LLC, e resta tuttora il farmaco di riferimento in questa patologia. Impiegato in associazione con PD, al dosaggio convenzionale di 0,08-0,16 mg/kg/die negli schemi di somministrazione continua e di 0,41,2 mg/kg/die ogni 2/4 sett. negli schemi intermittenti, consente di ottenere percentuali di risposta globale del 38-75% e di RC del 10% circa, senza significative differenze di sopravvivenza (7-14). Recentemente, pur confermando l’indicazione alla terapia corticosteroidea per il trattamento delle complicanze, è stata dimostrata l’assenza di significativi vantaggi dell’impiego di PD in associazione con CLB da studi che hanno specificatamente affrontato questo problema (15) e da una recente metanalisi (16). L’impiego di routine del PD non ha quindi motivazioni vista la scarsa attività antineoplastica e le frequenti controindicazioni in una popolazione di età avanzata. Nella LLC in fase avanzata l’uso del CLB a dosi elevate (12-15 mg/die) e con somministrazione giornaliera continua per periodi di 3-4 sett. (8) o fino al raggiungimento della RC o di tossicità di grado 3 o per un periodo massimo di 6 mesi (11) consente di ottenere una dose intensity molto superiore a quella degli schemi convenzionali. Con tale modalità innovativa di impiego del CLB (HD-CLB), seguita da mantenimento con basse dosi per prolungati periodi, Jaksic e coll. hanno riportato in studi multicentrici randomizzati percentuali di risposta e mediane di sopravvivenza significativamente superiori a quelle ottenute sia con CLB+PD a dosi standard secondo lo schema di Sawitsky (11) sia con la polichemioterapia CHOP a basse dosi secondo lo schema del Gruppo Cooperatore Francese (17). Inoltre, nello studio randomizzato di fase II condotto dall’EORTC in pazienti con LLC in fase avanzata non pretrattata attualmente in corso, le percentuali di risposta e la sopravvivenza a 2,5 anni ottenute con HD-CLB non sono risultate inferiori a quelle della fludarabina (18). Nella LLC indolente i risultati di due studi randomizzati condotti dal Gruppo Cooperatore Francese dimostrano che l’inizio precoce di un trattamento con CLB da solo o 99 in combinazione con PD, anche se può ritardare la progressione della malattia, non determina alcun vantaggio in termini di sopravvivenza, rispetto a differire il trattamento al momento della progressione in stadio B o C (6). Polichemioterapia La polichemioterapia è stata impiegata nelle forme avanzate di LLC sia come terapia di salvataggio che come terapia primaria, nel tentativo di dimostrare una superiorità rispetto al CLB, con risultati deludenti (Tab.1). L’associazione COP o CVP (ciclofosfamide, vincristina, prednisone) ha consentito di ottenere un tasso di risposta del 52% in pazienti non pretrattati e del 31% in pazienti pretrattati (19). La superiorità di questa combinazione rispetto all’associazione CLB+PD non è stata dimostrata, nonostante le migliori percentuali di risposta ottenute, in nessuno degli studi prospettici randomizzati condotti in pazienti in stadio avanzato (9,14,15,20). Uno dei risultati più importanti dello studio francese CLL 80 riguardante il confronto tra regime CHOP modificato (mini-CHOP) e regime COP è stata la dimostrazione che l’aggiunta dell’adriamicina a basse dosi (25 mg/m2) porta un effettivo vantaggio terapeutico nello stadio C, con tassi di sopravvivenza a 3 anni di 71% vs 28% e sopravvivenze mediane di 62 vs 22 mesi rispettivamente (21). Va tuttavia ricordato che nello studio ECOG è stata ottenuta negli stadi III e IV di Rai una sopravvivenza mediana di 49 mesi con un regime COP intensificato (20). Recentemente il regime CHOP è stato confrontato in studi randomizzati dai Gruppi Cooperatori Danese (22), Francese (23) e Svedese (24) con l’associazione CLB+PD in pazienti di stadio B e C, ottenendo percentuali di risposta più elevate, ma non vantaggi in termini di sopravvivenza. Il confronto tra HDCLB e mini-CHOP in 228 pazienti con malattia avanzata o in progressione non pretrattata ha evidenziato percentuali di risposta significativamemte migliori (89,5% vs 75%) e una più lunga sopravvivenza mediana (68 mesi vs 47 mesi) con l’HD-CLB (17). Negli studi condotti all’MDACC per verificare l’efficacia delle antracicline le risposte sono state valutate utilizzando sia i parametri clinici e ematologici periferici che la biopsia ossea. Le percentuali di RC ottenute nei pazienti non pretrattati sono state migliori con il CAP (25) rispetto al POACH (26) (ciclofosfamide, adriamicina, vincristina, citosinarabinoside, prednisone) (43% vs 21%) ma la sopravvivenza mediana è risultata identica (5 anni). Con il regime POACH soltanto il 6% dei pazienti pretrattati ha conseguito la RC. Con il protocollo M-2 utilizzato all’MSKCC nella LLC in fase avanzata e basato sull’impiego combinato di più agenti alchilanti (ciclofosfamide, BCNU, melphalan, vincristina, prednisone) sono state per la prima volta dimostrate delle RC midollari immunofenotipiche (27). Le percentuali di RC ottenute nei pazienti non pretrattati e pretrattati sono state 32% e 0% rispettivamente. In uno studio similare condotto in Italia (MINA) basato sul protocollo M-2 ed utilizzante il peptichemio al posto del BCNU è stato riportato il 35% di RC (28). 100 Analoghi delle purine Gli analoghi purinici sono stati introdotti a metà degli anni ’80 nei protocolli di ricerca clinica per la dimostrata attività nella LLC e nei disordini linfoproliferativi indolenti. La fludarabina (FAMP) è stato quello più estensivamente utilizzato. La 2clorodeossiadenosina (2-CDA) solo più recentemente è stata studiata nelle varie modalità di somministrazione, intravenosa, sottocutanea e orale. La 2'-deossicoformicina (DCF o pentostatina) è risultata fin dall’inizio di limitata efficacia nella LLC. L’efficacia della FAMP impiegata come singolo agente nel trattamento della LLC in pazienti in recidiva di malattia e/o refrattari a precedenti terapie con agenti alchilanti è risultata evidente sin dalla prima esperienza terapeutica riportata da Grever e coll. (29) ed è stata confermata dagli studi di fase II condotti su un ampio numero di pazienti all’MDACC (30,31,32), presso altre Istituzioni (33,34,35,36) e da uno studio multicentrico prospettico randomizzato di fase III confrontante FAMP e CAP (14). Nella maggior parte di questi studi la FAMP, alla dose di 20-30 mg/m2/die per 5 gg. ogni 3/4 sett., ha consentito di ottenere risposte globali superiori al 45%. Negli studi più rappresentativi sono state inoltre riportate percentuali di RC (30,31,32,41) del 10-14% e di RC nodulari (30,31,32) del 15-25%, verificate con analisi immunofenotipica in citometria a flusso e del riarrangiamento dei geni delle Ig (37). L’aggiunta di PD non ha migliorato le risposte nè ha modificato la sopravvivenza e ha comportato una maggior incidenza di infezioni opportuniste (31). Con l’impiego di uno schema terapeutico a minor dose intensity (30 mg/m2/die per 3 gg. ogni 4 sett.) sono state ottenute percentuali di RC (10%) e di risposta globale (46%) paragonabili, una sopravvivenza tendenzialmente migliore, una minore incidenza di infezioni e una inferiore riduzione dei linfociti CD4+ nei primi 3 mesi di terapia (32). I fattori prognostici condizionanti sfavorevolmente la risposta e la sopravvivenza sono stati: entità del pretrattamento, refrattarietà a precedente terapia con alchilanti, stadio e età avanzati (38). Il tempo mediano di progressione dei pazienti pretrattati rispondenti è risultato di 21 mesi. La tossicità più importante nei pazienti pretrattati è stata la mielotossicità, più frequente nei pazienti pesantemente trattati o con malattia di stadio avanzato o di età avanzata, e l’ immunodepressione, osservata in tutte le categorie di pazienti, con aumentato rischio di anemia emolitica autoimmune grave (39). L’impiego a dosi standard della FAMP nel trattamento iniziale della LLC sintomatica o in progressione come singolo agente (40) o in associazione con PD (31) ha consentito di ottenere, presso l'MDACC in 174 pazienti, percentuali di RC e di risposta globale del 29% e del 78%, rispettivamente, con un tempo mediano di progressione di 33 mesi (41). Tali risultati hanno aperto la strada a studi comparativi di fase III della FAMP vs terapia convenzionale (CLB o polichemioterapia) con l’intento di rispondere al quesito della terapia di prima linea di elezione nella LLC. I risultati dei due studi prospettici randomizzati recentemente conclusi sono riportati nella Tab. 2. Nello studio del Gruppo Cooperatore Francese 100 pazienti non pretrattati in stadio avanzato hanno ricevuto terapia con FAMP a dosi standard o secondo lo schema CAP per 6 cicli (42); lo studio Intergruppo Nordamericano è stato condotto su 385 pazienti con malattia attiva impiegando la FAMP a dosi standard o il CLB alla dose di 40 mg/m2 ogni 4 sett. (43). In entrambi gli studi sono state ottenute migliori percentuali e durate di risposta con la 101 FAMP rispetto al CLB o al CAP, ma non è stato osservato un prolungamento della sopravvivenza. Lo studio randomizzato FAMP a dosi standard vs CAP vs CHOP del Gruppo Cooperatore Francese condotto su pazienti in stadio B e C non è ancora concluso; all’ultima analisi ad interim sono stati per ora osservati risultati significativamente migliori della FAMP in termini di risposta e di sopravvivenza soprattutto nei confronti del CAP (44). La 2-CDA impiegata in infusione continua alla dose di 0,1 mg/kg/die per 7 gg. in 90 pazienti con malattia in progressione e resistenti al trattamento di prima linea ha consentito di ottenere una risposta globale del 44% con il 4% di RC e una durata mediana di risposta di 4 mesi (45). In uno studio europeo condotto su 52 pazienti, utilizzante criteri per definire la RC diversi da quelli specificati nelle linee guida del NCI (2), sono state riportate una risposta globale del 58% con 31% di RC e una durata mediana attuariale della risposta di 20 mesi (46). In pazienti non pretrattati utilizzando varie modalità di somministrazione, infusione continua (47) o infusione di 2 ore alla dose di 0,12 mg/kg/die per 5 gg. (48,49) o orale alla dose di 10 mg/m2 per 5 gg. ogni 4 sett. (50), sono state ottenute risposte globali del 75-80% con 25-47% di RC e effetti a lungo termine sulla progressione e sulla sopravvivenza ancora da determinare. Le principali tossicità riscontrate sono state la mielodepressione e l’immunodeficienza T-cellulare con il relativo spettro di infezioni. La 2-DCF appare meno efficace. Nella metanalisi relativa a quattro studi di fase II, in 113 pazienti affetti da LLC in stadio avanzato nella grande maggioranza pretrattati, viene riportato un tasso di risposta globale del 25% (range 18-35%), con risposte quasi esclusivamente rappresentate da RP anche nei pazienti non pretrattati (51). Terapie innovative emergenti Associazioni tra analoghi purinici e alchilanti Nonostante l'elevata efficacia della FAMP come agente singolo, la recidiva resta un evento costante. Per tale motivo e per la mancanza di una significativa tossicità extraematologica, vengono attualmente sperimentate combinazioni con altri farmaci, sulla base di evidenze di effetti additivi o sinergici, con l’intento di migliorare le percentuali di risposta, ottenendo un maggior numero di RC. In particolare la potente inibizione esercitata dalla FAMP sui meccanismi di DNA repair costituisce il razionale per la sua associazione con farmaci il cui meccanismo di azione è quello di alterare la struttura del DNA. Questo tipo di approccio comporta tuttavia una maggiore mielotossicità e una riduzione della dose totale degli agenti utilizzati nella combinazione. All’MDACC, in 24 pazienti resistenti sia agli alchilanti che alla FAMP, l’impiego della combinazione di FAMP, alla dose di 30 mg/m2/die per 3 gg., e di ciclofosfamide, alla dose di 300 mg/m2/die per 3 gg., ha consentito di ottenere una risposta globale del 38% con il 4% di RC (53). Un risultato di grande interesse considerato il fatto che, prima dell’introduzione di tale associazione nessun trattamento si era dimostrato efficace in tale categoria di pazienti. Il terzo braccio dello studio Intergruppo Nordamericano, contemplante la combinazione CLB+FAMP in pazienti non pretrattati, è stato chiuso per l'eccessiva mielotossicità e in quanto la percentuale di risposta osservata era risultata sovrapponibile a quella ottenuta con la sola FAMP (52). Il potenziale terapeutico dell’associazione di 102 ciclofosfamide e FAMP in pazienti con LLC non trattata è stato valutato da una serie di studi di fase II prevedenti o l’impiego della ciclofosfamide a dosi ridotte senza (53) e con il supporto di G-CSF (53,54) in combinazione con la FAMP o l’uso sequenziale dei due singoli agenti impiegando la ciclofosfamide ad alte dosi come terapia di consolidamento con l’intento di incrementare le risposte ottenute con la FAMP (55). Con l’impiego in combinazione si è osservata una rapida e importante riduzione della massa tumorale accompagnata da citopenie e infezioni, limitate dall’impiego del G-CSF e dalla profilassi antibatterica e antivirale. Il problema delle infezioni opportuniste si è rivelato particolarmente importante con l’associazione di pentostatina, CLB e PD (56), probabilmente in relazione all’uso del cortisone e alla mancata profilassi antibatterica e antivirale. I risultati preliminari di tali associazioni (Tab. 3) sono promettenti e richiedono di essere verificati in studi di fase III per trarre conclusioni definitive sul loro impiego in prima linea. Anticorpi monoclonali Un nuovo approccio biologico nel trattamento della LLC è costituito dall’impiego di anticorpi monoclonali chimerici diretti verso antigeni espressi dalle cellule leucemiche. Tali anticorpi sono realizzati mediante ingegneria genetica in modo tale da presentare la porzione variabile di origine murina e quella costante di origine umana, hanno una emivita prolungata e sono in grado di determinare la distruzione delle cellule a cui si legano attraverso l’attivazione del complemento, delle cellule citotossiche e dei meccanismi molecolari dell’apoptosi. Due di tali anticorpi, il CAMPATH-1H e l’IDECC2B8 (rituximab), sono attualmente attivamente studiati nella LLC. Il CAMPATH-1H si lega in modo specifico all’antigene CD52, espresso da più del 95% dei linfociti T e B, cellule della LLC-B comprese. I risultati degli studi in cui il CAMPATH-1H è stato impiegato in pazienti non precedentemente trattati o pesantemente pretrattati affetti da LLC sono riassunti nella Tab. 4 (57-62). Nello studio multicentrico europeo condotto su 29 pazienti pretrattati è stata ottenuta una risposta globale del 42% (57). Dai primi studi effettuati è emerso che tale anticorpo agisce preferenzialmente su sangue periferico, midollo osseo e milza, e che è meno efficace nei linfonodi. Le tossicità osservate comprendono, oltre a quella autolimitante correlata all’infusione, neutropenia e immunosoppressione T-cellulare, che può essere particolarmente severa soprattutto in caso di impiego per periodi prolungati, determinando l’insorgenza di infezioni opportuniste. L’impiego del CAMPATH-1H dopo FAMP per un periodo di tempo limitato a 4-6 sett. con lo scopo di eliminare la malattia residua è risultato altamente efficace e privo di complicazioni (58). L’IDEC-C2B8 si lega in modo specifico all’antigene CD20, espresso in modo variabile, ma più frequentemete a bassa intensità, da oltre il 95% dei pazienti affetti da LLC. Si ritiene che, in analogia a quanto riportato nel linfoma linfocitico, l’alto tumor burden e l’espressione dim del CD20 possano avere nella LLC un impatto sfavorevole sulla risposta. I dati disponibili relativi al suo impiego nella LLC sono comunque per ora molto limitati. Nello studio di fase I-II con dose escalation condotto all’MDACC in pazienti recidivati o refrattari è stata ottenuta una risposta globale del 38% (63). Trapianto di cellule staminali emopoietiche La possibilità di ottenere RC con l’impiego della FAMP da sola o in combinazione con altri agenti ha portato a prendere in considerazione anche nella LLC l’approccio trapiantologico, soprattutto nei pazienti giovani con indici prognostici sfavorevoli in cui 103 sia stata ottenuta una buona risposta alla terapia di salvataggio e, più recentemente, come consolidamento della RC dopo terapia di prima linea, con lo scopo di migliorarne l’aspettativa di vita. Diversi studi di fase II hanno dimostrato la fattibilità sia del trapianto allogenico che del trapianto autologo nei pazienti con LLC (64). Le esperienze di trapianto allogenico finora riportate sono ancora limitate e non del tutto incoraggianti, sebbene siano state ottenute RC prolungate verificate anche a livello molecolare in pazienti con LLC recidivata e refrattaria, per l’alta morbilità e mortalità correlate al trapianto. Nella casistica retrospettiva policentrica di 135 pazienti raccolta dall’International and European Bone Marrow Transplantation Registry la mortalità da trapianto è stata del 47% e a 3 anni sono risultate una sopravvivenza del 48% e una sopravvivenza libera da leucemia del 44% (65). Esperienze monoistituzionali hanno tuttavia riportato mortalità da trapianto nettamente inferiori, ipotizzando un possibile effetto del pretrattamento con FAMP nel diminuire la severità della GVHD acuta (66). Più recentemete è stata dimostrata la fattibilità di allotrapianti con l’impiego di regimi non mieloablativi (transplants-lite o minitrapianti) anche nella LLC (67); se l’inferiore tossicità e l’efficacia di tali procedure fosse corroborata da ulteriori studi, le indicazioni al trapianto allogenico potrebbero essere estese ad una più ampia fascia di pazienti. L’introduzione delle tecniche di mobilizzazione di cellule staminali periferiche unitamente alla diffusione di nuove metodiche di purging e di selezione delle cellule CD34+ ha dato un particolare impulso all’impiego del trapianto autologo nella LLC. Inoltre la possibilità che le RC ottenute con terapia ad alte dosi e dimostrate a livello molecolare con tecniche particolarmente sensibili, quali la PCR con oligonucleotidi paziente-specifici, siano correlate ad un miglior andamento clinico, sta creando grandi attese sul possibile effetto di queste procedure nel modificare la storia naturale della LLC (68). Nella casitica retrospettiva policentrica di 97 pazienti raccolta dall’International and European Bone Marrow Transplantation Registry le cellule staminali periferiche sono state utilizzate nel 53% dei pazienti, la mortalità da trapianto è stata del 12% e a 3 anni sono risultate una sopravvivenza dell’80% e una sopravvivenza libera da leucemia del 56% (65). Nonostante oltre 170 pazienti affetti da LLC siano stati sottoposti ad autotrapianto, il suo ruolo nella strategia terapeutica deve essere ancora stabilito (64). Inoltre sono emerse diverse problematiche, quali l’identificazione della soglia minima di contaminazione del trapianto clinicamente significativa, il ruolo del purging e il significato clinico della leucemia minima residua prima e dopo il trapianto, che potranno avere una risposta solo nel contesto di studi clinici randomizzati. Nuovi farmaci Diversi nuovi farmaci potenzialmente utili nel trattamento futuro della LLC stanno entrando in trials clinici di fase I e II (69): - UCN-01: derivato idrossilato della staurosporina, potente inibitore della protein-chinasi C. - Briostatina: prodotto naturale, attivatore della protein-chinasi C. - Flavopiridolo: flavone sintetico, potente inibitore delle chinasi ciclina-dipendenti. - GW 506-U78: profarmaco dell’ara-G. Prospettive di terapia genica In uno studio di terapia genica di fase I (70) è stata utilizzata l’infezione ex vivo delle cellule leucemiche con il vettore adenovirale Ad-CD154 codificante CD40-ligand ricombinante (CD154), per rendere le cellule della LLC piu efficienti nella presentazione 104 dell’antigene, attraverso un’accresciuta espressione di CD54, CD80 (B7-1), CD86 (B7-2), CD54, CD70 e CD95, e indurre la generazione in vitro di linfociti T citotossici autologhi (CTL) anti cellule leucemiche, infette e non infette. La reinfusione di queste cellule nel paziente può pertanto determinare una risposta immune anti-leucemica con potenziale terapeutico. Tale strategia è già stata applicata in 3 pazienti ottenendo risposte cliniche significative e con tossicità accettabile. Conclusioni La fludarabina è l’agente singolo che ha consentito di ottenere il maggior numero di risposte globali e di RC documentate anche a livello molecolare nel trattamento della LLC. Nella pratica clinica tali risultati, sebbene non vi siano ancora evidenze di un significativo miglioramento della durata di sopravvivenza rispetto ad altri tipi di terapia, hanno condizionato l’impiego sempre più indiscriminato della fludarabina come farmaco di prima scelta per il trattamento iniziale della LLC. É meglio tuttavia che la decisione di iniziare la terapia venga presa individualmente, paziente per paziente, scegliendo tra fludarabina e agenti alchilanti, in relazione agli end-points terapeutici e alla tossicità potenziale di ciascun trattamento, valutando la categoria di rischio definita secondo i criteri di Rai modificati (4) e le indicazioni per iniziare il trattamento stabilite dalle linee guida NCI (2). Nella ricerca clinica tali risultati hanno contribuito in modo determinante al superamento del concetto radicato di "contenimento della malattia" rappresentato dall’impiego degli schemi a dosaggio standard di chlorambucil, aprendo la strada all’introduzione di nuovi farmaci e a nuove strategie terapeutiche per aumentare le RC, controllare ed eradicare la malattia residua e vincere i meccanismi intrinseci di resistenza farmacologica, con intenti curativi. Bibliografia 1. 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TTM 228 59 vs 30 89 vs 75 Migliore per HD-CLB (P<.001) CLB=chlorambucil; PD=prednisone; CHOP=ciclofosfamide, adriamicina,vincristina, prednisone; TTM=Total Tumor Mass score system; COP=ciclofosfamide, vincristina, prednisone; HDCLB=chlorambucil ad alte dosi continuo; n.s.=non specificato Tab. 2 – Risultati degli studi comparativi fludarabina verso chemioterapia nella LLC non trattata. Periodo di reclutamento Jhonson et al., 1996 Rai et al., 1996 Maggio 1990 – Giugno 1992 Ottobre 1990 – Dicembre 1994 FAMP CAP N. pazienti 52 RC (%) P P FAMP CLB 48 166 173 23 17 27 3 RP (%) 48 43 43 40 RC+RP (%) 71 60 0,26 70 43 0,0001 2,8+ 0,57 <0,001 2,75 1,4 0,0002 Durata mediana di remissione (anni) 110 Sopravvivenza globale mediana (anni) 5+ 4,35 0,087 5 4,7 0,21 FAMP=fludarabina; CAP=ciclofosfamide, doxorubicina, prednisone; CLB=chlorambucil Tab. 3 – Risultati preliminari della terapia con fludarabina e agenti alchilanti in pazienti con LLC non trattati. Autore Agenti utilizzati N. pazienti RC (%) RC+RP (%) Rai et al., 1995 FAMP+CLB 91 n.s. 34 Weiss et al., 1996 FAMP, HD-CTX sequenziali 18 33 89 O’Brien, 1998 FAMP+ CTX 20 44 94 Flinn et al., 1998 FAMP+CTX+G-CSF 20 50 100 Oken et al., 1998 40 44 87 DCF+CLB+PD FAMP=fludarabina, CLB=chlorambucil, n.s.=non specificato, CTX=ciclofosfamide, HDCTX=ciclofosfamide ad alte dosi, DCF=pentostatina, PD=prednisone Tab. 4 – Riepilogo degli studi con CAMPATH-1H come agente singolo. Autore N. pazienti Via di somm. Rai et al., 1993 13 EV Durata terapia (sett.) Precedent i terapie Profilassi antibiotica e antivirale RC (%) 16 Si No 23 111 RC+R 69 Österborg et al., 1996 9 EV 6-18 No No 33 89 Rawstron et al., 1997 10 EV 6 Si Cotrimoxazolo , fluconazolo 50 70 Österborg et al., 1997 29 EV 6 Si No 4 43 Bowen et al., 1997 6 SC 6-12 Si Cotrimoxazolo , acyclovir 0 50 6 EV, SC 6-18 Mista No 33 83 6 EV 4-6 Si Cotrimoxazolo , acyclovir 83 83 Dyer et al., 1997 EV=endovena, SC=sottocute, CMV=cytomegalovirus, VZV=varicella zoster virus, HSV=herpes simplex virus, PCP=polmonite da Pneumocystis carinii 112 ALTE DOSI E AUTOTRAPIANTO NELLA LEUCEMIA LINFATICA CRONICA Ignazio Majolino, Rosanna Scimè, Stefania Tringali e Alessandra Santoro Divisione di Ematologia e Trapianti di Midollo Osseo, Azienda Ospedaliera V.Cervello, Palermo La leucemia linfatica cronica (LLC), la più diffusa forma di leucemia nei paesi occidentali, è caratterizzata dalla proliferazione clonale e dall’accumulo di B-linfociti che esprimono gli antigeni CD19, CD20, CD5 e, debolmente, Ig di superficie. Da un punto di vista molecolare, il clone neoplastico è contraddistinto da riarrangiamenti genici, specifici di ogni singolo paziente, a carico della catena pesante delle immunoglobuline. L'età media alla diagnosi è di 65 anni. Il 40% dei pazienti ha meno di 60 anni e solo il 10-15% meno di 50.1 Il decorso clinico è variabile con forme indolenti o “smouldering,” che non richiedono trattamento ed in cui la sopravvivenza è sovrapponibile a quella della popolazione generale 1, e forme più aggressive con sopravvivenza inferiore a 3 anni. Lo stadio clinico, che è espressione diretta dell'estensione della malattia, rappresenta il fattore prognostico più rilevante 2, 3. Tuttavia, altri parametri biologici hanno mostrato rilevanza prognostica indipendente: tra questi il tempo di raddoppiamento linfocitario 4, il pattern di infiltrazione midollare 5, la presenza di anomalie cromosomiche 6, 7 e la risposta alla terapia. Dalla terapia convenzionale alle alte dosi La diagnosi di LLC non comporta automaticamente la necessità di un trattamento. Per le forme “attive” le terapie convenzionali, sia con chlorambucil che con associazioni polichemioterapiche (ad esempio ChOP) possono determinare risposte ematologiche e cliniche anche di luinga durata, ma che raramente si traducono in vere remissioni complete 8. 113 L’introduzione della fludarabina ha determinato un significativo incremento del numero di risposte, sia complete che parziali 9, con un vantaggio anche nei confronti di schemi contenenti ciclofosfamide e antracicline 10, 11 . La fludarabina appare capace di produrre e mantenere lunghe remissioni cliniche, ritardando il tempo alla progressione. Ma ciò si traduce solo in un modesto aumento della sopravvivenza 12. Parallelamente all’introduzione della fludarabina è iniziata l’esperienza con alte dosi seguite da trapianto autologo, dapprima solo in pazienti a prognosi sfavorevole ed in stadio avanzato. Il miglioramento delle tecniche trapiantologiche e l’impiego delle cellule staminali circolanti (CSC) ha consentito una riduzione della mortalità e della morbilità legate alla procedura. dell’allogenico, Michallet Confrontando i dati del trapianto autologo con quelli e coll 13 mostrano per quest’ultimo una mortalità trapiantologica particolarmente elevata (50%), che rende poco attraente questa opzione nonostante la bassa probabilità di recidiva. Esperienze di autotrapianto Negli ultimi anni Il registro EBMT ha registrato una crescita rapida del numero di trapianti autologhi per LLC. Infatti, dei 193 autotrapianti riportati nel periodo 1988-1998 solo l’1% è stato effettuato prima del 1990, ed oltre il 50% dopo il 1995 13. Ad oggi sono riportati oltre 170 pazienti con LLC trattati con alte dosi di chemioradioterapia seguite da autotrapianto, la maggior parte nell’ambito di protocolli locali. L’analisi retrospettiva EBMT li comprende quasi tutti 13. Nella tabella 1 abbiamo raccolto i dati relativi alle esperienze più numerose sinora pubblicate, omettendo il lavoro basato sui dati di Registro EBMT. Quasi tutti reclutavano pazienti in stadio avanzato (B o C di Binet), fino a 65 anni di età e con lungo intervallo dalla diagnosi, ma con malattia ancora responsiva al trattamento. Il regime mieloablativo di più frequente impiego era TBIciclofosfamide 14-16, immediatamente seguito da BEAM e da busulfano-melphalan 17, 18. La sorgente di cellule staminali era inizialmente il midollo osseo, ma più recentemente sono state impiegate le CSC. Una forma di purging era applicata nella metà degli studi. La mortalità riportata era ragionevolmente bassa (da 0 a 13%). La probabilità di remissione completa dopo il trapianto oscillava nelle varie casistiche tra il 50-80%. Solo in pochi studi è disponibile un follow-up molecolare, che pur utilizzando metodi di differente sensibilità, mostra indiscutibilmente che è possibile ottenere la negativizzazione molecolare del midollo osseo in più della metà dei casi (Fig 1), un dato che è naturalmente in relazione 114 con la sensibilità del metodo impiegato 18, 19. Nei paragrafi che seguono verranno analizzati aspetti particolari della tecnica di autotrapianto nella LLC. Mobilizzazione e collezione di CSC nella LLC Negli studi di autotrapianto sinora riportati la sorgente di cellule staminali è stata in prevalenza il midollo osseo. Solo recentemente sono state adottate tecniche di mobilizzazione dei progenitori emopoietici con chemioterapia e fattori di crescita. Appare consolidato il dato che la LLC è una condizione in cui la mobilizzazione è più difficile che in altre patologie. Le ragioni possono risiedere nella natura stessa della malattia, che presenta midollo costantemente invaso, nel numero e tipo dei trattamenti precedenti ed infine nella contemporanea raccolta di linfociti neoplastici. Dreger e coll (Dreger P., personal communication) in 53 pazienti con LLC utilizzavano per la mobilizzazione la combinazione Dexa-BEAM impiegata per indurre una risposta clinica. Avevano l’11% di fallimenti. Con 3 leucaferesi ottenevano una mediana di 18 x 106/kg CD34, ma il 90% dei pazienti erano vergini da trattamento. L’intervallo dalla diagnosi era conseguentemente breve. Scimè e coll 20 in un campione di 17 pazienti prevalentemente già trattati, ma con malattia sensibile alla fludarabina o al Dexa-BEAM, mobilizzavano le CSC con ciclofosfamide 4 g/m2 seguita da G-CSF 5 µg/kg. Con un target di >1 x 106/kg CD34 avevano 3 fallimenti, uno dei quali dovuto ad assenza di un picco determinabile di CD34. La mediana di CD34 raccolte era di 2.2 x 106/kg (0.5-4.3 ). Il numero di progenitori era significativamente superiore nella classe di pazienti in remissione completa al momento della mobilizzazione. Meloni et al 17 utilizzavano in 20 pazienti la classica mega-dose di ciclofosfamide (7g/m2) seguita da G-CSF, ed avevano 4 fallimenti nella mobilizzazione. Sulla base di questi dati è pertanto preventivabile una percentuale di fallimenti del 10-20%. E’ probabile che una diversa selezione dei pazienti porti ad un miglioramento dei risultati. Purificazione dei progenitori Sebbene non vi siano dati certi sull’utilità del purging, la LLC è certamente una malattia in cui la contaminazione del campione midollare o periferico è costante. Tutti i ricercatori pertanto vorrebbero poter impiegare una sorgente di progenitori sicura, ma poche esperienze sono ad oggi disponibili in questo campo. Pionieri nella purificazione nella LLC sono i ricercatori del Dana-Farber di Boston 14, 19. Utilizzando midollo osseo autologo ed un cocktail di anticorpi monoclonali (anti-CD20, -CD10), essi ottenevano una negativizzazione PCR in 11 dei 28 campioni processati. I pazienti erano tutti rispondenti, con malattia minima al momento della collezione. Una tecnica diversa, di selezione positiva delle CD34 con anticorpi monoclonali legati a colonna, era impiegata in almeno due studi pubblicati, quello di Paulus e coll 21, e quello di Scimè e coll 20. Nel primo di questi venivano utilizzati in sequenza, con il sistema Isolex , due step di selezione, la prima positiva e la seconda negativa. Gli autori ottenevano un recupero complessivo di 115 CD34+ del 40% con una deplezione di cellule leucemiche di circa 6 log. Nella seconda esperienza il recupero di CD34 era complessivamente deludente (30%), e ciò sembra da attribuire alla cattiva performance del sistema Ceprate in confronto ad Isolex. Complessivamente si otteneva una deplezione di 2.7 log di cellule CD5/CD20+, ma non si otteneva mai una negativizzazione molecolare dei campioni aferetici. Alte dosi, risultati clinici E’ ancora presto per definire l’utilità clinica delle alte dosi con autotrapianto nella LLC. Infatti gli studi sinora pubblicati sono fondati su casistiche limitate, e sono disomogenei per selezione dei pazienti, sorgente delle cellule staminali e loro purificazione, regimi di mobilizzazione e di condizionamento, durata del follow-up ed eventuali terapie successive al trapianto. Tuttavia, l’interesse nel trattamento ad alte dosi ed il suo impiego nella LLC fanno sì che un numero crescente di pazienti sono ormai avviati a questa procedura, che può considerarsi ormai fattibile e sicura (tab.2). Limitatamente ai pazienti in fase avanzata di malattia, e tenendo come criterio quello della chemiosensibilità, si può considerare avviabile al trapianto autologo il 50% circa di essi, 22. Dei pazienti elegibili, il 70% circa ottiene una collezione di PBSC adeguata ad un trapianto sicuro (>1 x 106/kg CD34). Il recupero ematologico, che è sempre in rapporto con i progenitori infusi, è riportato uniformemente rapido con l’impiego di PBSC. Nell’esperienza di Scimè et al 18, utilizzando progenitori periferici purgati, i pazienti recuperavano 0.5 x 109 /l granulociti al giorno +15 e 25 x109 /l piastrine al giorno +20. Attecchimenti più rapidi sono riportati da Meloni e coll 17 che impiegano però CSC non manipolate, 12 e 15 giorni rispettivamente per 0.5 x109 /l granulociti e 25 x 109 /l piastrine. Analizzando le risposte cliniche appare che la probabilità di ottenere la remissione completa con il trapianto è legata prevalentemente alla sensibilità della malattia alla terapia a dosi convenzionali. Nell’esperienza iniziale del Dana Farber , successivamente confermata in una serie più vasta, viene riportato l’ 83% di remissioni complete durature in pazienti con malattia minima 23. Il gruppo di Khouri riporta, in una serie di pazienti resistenti o ricaduti, una quota di remissioni complete del 50% con una DFS del 20% 15. L’intervallo dalla diagnosi al trapianto e l’ottenimento di una risposta molecolare dopo il trapianto, oltre alla chemiosensibilità sembrerebbero influenzare la risposta 15, 16, 24. Tab.1 Esperienze di autotrapianto nella leucemia linfatica cronica Autori N. Età Stadio Status Dx-TMO (mesi) Fonte di staminali 116 Rabinowe, 1993 12 50 (27-54) Khouri, 1994 11 59 (37-66) Dreger, 1999 Meloni, 1999 38 20 51 (29-61) 46 (21-58) Scimè, 1999 17 54 (34-63) I/II =7 Mal. III=3 Min. IV=2 0=5 Ricaduti I/II=3 / III=3 Resist. NA Mal. Min Avanzato RC BI=1 BII=13 CIV=2 11 RC 6 RP 28 (12-115 MO° 48 (15-198) MO° NR NR CSC°° PCSC 27 (7-94) CSC ^ Legenda: NR = non riportato; MO= midollo osseo; Mal. Min. = malattia minima; CSC = cellule staminali circolanti; * = Purging nel 37% dei casi con selezione negativa,13% selezione positiva; ° = purging nel 100% dei casi con ab monoclonali, ab monoclonali + complemento; °° = purging nel 100% dei casi con doppia selezione; ^ = purging nel 100% dei casi con selezione positiva. La malattia residua Lo studio della malattia minima residua (MMR) ha assunto un ruolo crescente nel monitoraggio biologico dei pazienti in remissione completa e nel valutare l’efficacia delle alte dosi. Pertanto sono state sviluppate tecniche molecolari in grado di aumentare notevolmente la sensibilità dell’indagine. Nella LLC il metodo più sensibile per lo studio della MRD consiste nell’analisi del riarrangiamento dei geni che codificano per la regione variabile (VDJ) della catena pesante delle immunoglobuline (IgH). Si tratta di un marcatore molecolare di “lineage” clone-specifico, utilizzabile in più del 90% dei pazienti 25. La costruzione di primers o sonde paziente-specifiche , disegnate in accordo alla sequenza dei CDR3 del clone neoplastico d’esordio, rende più sensibile la rilevazione delle cellule tumorali e può essere utilizzato successivamente per lo studio della MRD dopo alte dosi 26. Questo approccio metodologico è schematizzato nella Fig 1. L’amplificazione di VDJ con il primer corrispondente alla regione FR3 può fallire a causa della presenza di mutazioni che non permettono un corretto “annealing”. Un’alternativa si basa sull’amplificazione di un segmento di DNA più grande utilizzando il primer FR1 corrispondente alle 7 famiglie di geni VH. Utilizzando questo schema, Catania et al 27 hanno ottenuto una sequenza informativa in oltre il 90% di pazienti inseriti in un programma di alte dosi. 117 Tab.2 Risultati clinici dell’autotrapianto nella leucemia linfatica cronica Autori Condiz ANC >0.5 (gg) Rabinowe, 1993 TBI+CY ^ 21 (18-30) Khouri, 1994 TBI+CY 21 (10-28) Dreger, 1999 TBI +CY 9 (8-13) Meloni, 1999 BEAM° 12 (9-24) Scimè, 1999 BU 12 (9-15) /MPH° Plt > 25 (gg) RC % TRM % OS % DFS % 29 (16-69) 35 (14-59) 11 (7-214) 15 (10-115) 20 (16-68) 83 50 NR NR 66 7 18 5 5 11 NA NA 95 85 77 71 27 86 54 70 Risposta Molec. (%) 77* 55 NR* 62 63* Legenda: ^= irradiazione corporea + ciclofosfamide; ° = BCNU, Etoposide, Aracytin, Melphalan; ° = Busulfano, Melphalan; NR= dato non riportato; * IgH-PCR con oligo-paziente- specifico (sensibilità 10 –4 10-6 ). Conclusioni e prospettive Le esperienze sinora condotte hanno dimostrato la fattibilità e la tollerabilità della procedura di autotrapianto nella LLC come documentano le basse percentuali di TRM uniformemente riportate. L’altro dato che emerge è la possibilità di ottenere un numero elevato di risposte complete anche molecolari in una quota di pazienti a prognosi sfavorevole. La risposta molecolare emerge come il fattore prognosticamente più rilevante per la probabilità di recidiva. I candidati ideali sono i pazienti responsivi al trattamento convenzionale. Il trapianto andrebbe collocato precocemente nel corso della malattia, soprattutto in relazione alla possibilità di ottenere una buona mobilizzazione di PBSC. I dati presentati in questa rassegna sono stati la base per l’avvio di uno studio randomizzato di fase III, che si propone di determinare il ruolo del’autotrapianto nella terapia della LLC attraverso un confronto con la sola fludarabina. Lo studio si svolge in ambito GIMEMAGITMO. Tuttavia, nonostante il numero elevato di remissioni complete, i pazienti continuano a recidivare dopo l’autotrapianto. Questa consapevolezza ha stimolato la ricerca in altri settori. Si va dallo studio delle alterazioni del ciclo cellulare attraverso lo studio della p53 e della p27 28, all’impiego di nuovi farmaci inducenti l’apoptosi come i flavopiridoli 29, alla terapia con anticorpi monoclonali. In particolare il Campath 1-H sta producendo incoraggianti risultati in pazienti refrattari alla fludarabina 30 Infine, al confine tra immunoterapia e regimi ad alte dosi appare promettente la strategia del gruppo dell’MD-Anderson che, utilizzando regimi di condizionamento non mieloablativi in trapianti allogenici, riduce significativamente la tossicità e la mortalità per sfruttare meglio l’effetto GVL di successive infusioni di linfociti del donatore 31. Per queste e per altre linee di ricerca è possibile intravedere un sostanziale cambiamento nel modo di considerare la terapia di una malattia, la leucemia linfatica cronica, sinora ritenuta incurabile. 118 Bibliografia 1. Lee J, Dixson D, Kantarjian H, Keating M, Talpaz M. Prognosis of chronic lymphocytic leukemia: a multivariate regression analysis of 325 untreated patients. Blood 1987; 69:1929-36. 2. Binet JL, Auquier A, Dighiero G, et al. A new prognostic classification of chronic lymphocytic leukemia. Cancer 1981; 48:198-206. 3. Rai KR, Sawitsky A, Cronkite EP, Chanana AD, Levy RN, Pasternack BS. Clinical staging of chronic lymphocytic leukemia. Blood 1975; 46:219-234. 4. Molica S, Alberti A. Prognostic value of the lymphocyte doubling time in chronic lymphocytic leukemia. Cancer 1987; 60:2712-16. 5. Montserrat E, Gomis F, Vallespi T, et al. Presenting features and prognosis of chronic lymphocytic leukemia. Blood 1991; 78:1545-1551. 6. Cuneo A, Bigoni R, Castoldi G. 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Multicenter study of Campath- 1H in patients with chronic lymphocytic leukemia (B-CLL) refractory to fludarabine. Haematologica 1999; 84 (EHA-4 Abstract Book):259. 31. Champlin R. Immunotherapy using non myeloablative regimens for allogeneic hematopoietic transplantation. Haematologica 1999; 84 (EHA-4 Abstract Book):127. 120 Figura 1: Studio della malattia minima residua nella LLC con l’im riarrangiamento IgH delle immunoglobuline. Primers paziente-speci collaborativo italiano (Scimè et al, 1999) LP CR DB CR SV CR LMG CR Patients PCR PCR VF CR/E BC CR PD CR CC CR DA REL/E LSG PD/E I 1 3 6 9 1 1 2 Months after 121 Fig.2 Studio del riarrangiamento IgH nella LLC . Es Gruppo collaborativo italiano rappresentata come diag IL MONITORAGGIO DELLA MALATTIA RESIDUA MINIMA NELLA per mostrare la metodologia impiegata e le probabili LEUCEMIA sequenze informative(Catania et al, 1998 LINFOBLASTICA ACUTA (LLA): QUANDO E PERCHÉ USARLA. A.Biondi Clinica Pediatrica Università di Milano-Bicocca; Centro di Ricerca "M.Tettamanti" Ospedale S.Gerardo, Monza. Pazienti N=28 Introduzione PCR con FR3 Nonostante leucemia i significativi linfoblastica acuta VDJ monoclonale problema della sospensione rilevanti. LAL Circa terapia 30% stessa. persistono leucemie la terapia ancora più malattia. di di e conseguenza il è infatti ancora durante la fase di diversi monitorare la malattia differiscono la in un della noto dei della metà " dopo challenge" degli recidiva è leucemico per la natura leucemica midollo durante remissione recidiva adulti della loro metodi VDJ non in alla residua delle la fase residue di terapia. le cellule malattia, sono minima sensibilità della rappresentare che e con malattia tempo della possa più PCR con FR1 "resistente" quanto la probabilmente monitoraggio per il VDJ non informativo 5/2 alla comprensione della"storia" biologica primer tumore specifico 26/28 (93%) I acute bambino, precocemente uno clone rilevante. per nel della VDJ monoclonale un clinicamente proposti terapia modo o La precoce discriminare riscontrate della nella particolar determinazione vantaggio ora Non in bambini persistenza contribuire leucemiche la dei e ottenuti 23/28 (82%) durante Sequenza convenzionale malattia (LLA), rappresenta recidiva della potrebbe ad stessa il presenta espressione se recidiva della progressi un stati fino (MRM) nelle specificità cellule Con né nel blastiche le tecniche 122 convenzionali cellule di citomorfologia leucemiche in una aumenta in modo sensibilità vengono applicate tecniche anticorpi diretti contro mieloide e precoci dell'ontogenesi transferasi linfoide -Tdt- ed nelle è possibile popolazione antigeni enzimi (ad LLA) di significativo immunologiche di (si cellule (fino di a doppia l'1-5% normali 10-2/10-3) marcatura differenziazione selettivamente es. identificare espressi . La quando utilizzando delle negli di serie stadi più l'enzima terminal deoxinucleotidil veda Ref.1per una la revisione sull'argomento). I geni delle Immunoglobuline (Igs) e dei Recettori T per l'antigene (TcR): targets universali per lo studio della MRM nelle LAL I geni delle Igs e TcR condividono un medesimo motivo strutturale caratterizzato dalla presenza di numerosi segmenti multipli e separati di DNA che codificano per le porzioni V,J,D e C delle catene pesanti e leggere delle Igs e delle catene dei recettori T per l'antigene (TcR). Durante l'ontogenesi dei B e T linfociti, i geni delle Igs e dei TcR vengono assemblati mediante un processo di riarrangiamento somatico. I segmenti genici separati codificanti le regioni V,D, J vengono riuniti per formare un unico esone codificante la regione variabile. Lo studio del riarrangiamento dei geni delle catene pesanti e leggere delle immunoglobuline (Igs) e delle catene alfa, beta, gamma e delta dei TcR è divenuto il metodo più sensibile per valutare la clonalità di un'espansione linfoide e ha trovato diffuso impiego nella diagnostica immunoematologica. Lo studio genotipico delle malattie linfoproliferative ha sostanzialmente modificato negli ultimi anni la nostra comprensione e classificazione di tali patologie. Molte delle conoscenze acquisite sul riarrangiamento dei geni delle Igs e dei TcR (ricombinazione, "gerarchia" del riarrangiamento) e su altri meccanismi che amplificano il repertorio di specificità che possono essere generate da un linfocita B o T, sono state ottenute dallo studio delle malattie linfoproliferative. I contributi di tali ricerche di base hanno di ritorno fornito gli strumenti per una caratterizzazione molecolare (clonalità, stadio di differenziazione, stipite di appartenenza) di 123 leucemie e linfomi. Lo studio genotipico è stato utilizzato per valutare la MRM durante la fase di remissione di pazienti affetti da leucemie e linfomi e per identificare precocemente la recidiva. Evidenze di riarrangiamento monoclonale sono state occasionalmente rilevate in pazienti durante la fase apparente di remissione ematologica e tale reperto ha preceduto l'evidente recidiva. Un limite all'applicazione di tale approccio risulta dalla sensibilità dell'analisi genotipica (1-5%) mediante Southern blot. Più di recente la disponibilità dell'amplificazione genica mediante PCR ha suggerito la possibilità di sviluppare strategie che, utilizzando tale marcatore di clonalità, possano essere utilizzate nella maggior parte dei casi di LLA. Come precedentemente indicato, l'ampia variabilità del repertorio antigenico è prodotta dalla ricombinazione casuale e stocastica dei diversi segmenti e dalla variabilità giunzionale determinata dall'aggiunta di extranucleotidi a livello delle giunzione VDJ. Come mostrato nella Fig.1, utilizzando una strategia che preveda l'amplificazione del riarrangiamento del clone leucemico all'esordio mediante primers per V e J è possibile identificare la sequenza nucleotidica della giunzione N (sia per i geni delle Igs che per i TcR). Un oligonucleotide complementare alla regione di giunzione rappresenta una sonda specifica del clone leucemico utilizzabile successivamente o come primer di una reazione di amplificazione ("allele specific-PCR-ASO) oppure come sonda da utilizzare per l'ibridazione di prodotti di PCR dopo dot-blot (2). L'analisi mediante Southern del tipo di riarrangiamento presente all'esordio della malattia può essere sostituita dalla diretta amplificazione delle più comuni ricombinazioni dei geni TcR g e d e della delezione di Igk, osservabili nelle "B-cell precursor" LLA, come indicato nella Tab.1. Il prodotto di amplificazione viene successivamente separato mediante gel di poliacrilamide per confermare la natura monoclonale del campione in esame e per ottenere mediante escissione della banda, un materiale direttamente analizzabile per ottenere la sequenza di giunzione (3). Numerose sono le variabili che si sono dimostrate rilevanti al fine della sensibilità del metodo: tra queste, il numero di cellule analizzabili e la qualità del campione da cui viene estratto il DNA. La sensibilità non può essere superiore al reciproco del numero di cellule del campione. In una reazione di PCR la massima quantità utilizzabile è pari a 1-2 ug di DNA che corrispondono a circa 1.6-3.2 x 105 cellule. Il numero di copie di genoma analizzabili può essere pertanto incrementato solo eseguendo diverse singole reazioni di PCR. Nel caso delle LLA, non è possibile utilizzare il sangue periferico per valutare la MRM durante le fasi di remissione, poiché il normale background dei linfociti T o B che utilizzano gli stessi segmenti di ricombinazione a quelli dimostrati nel clone leucemico, riducono significativamente la sensibilità della sonda clone-specifica. La valutazione dei risultati di MRM è nella maggior parte dei casi 124 eseguita mediante analisi semiquantitativa. L'intensità del campione in esame viene confrontata con il segnale di intensità ottenuto in campioni di progressive diluizioni del DNA estratto alla diagnosi della malattia con DNA estratto da cellule mononucletate isolate da un pool di donatori sani. Più di recente, metodi più accurati sono stati proposti per ridurre al minimo la variabilità dei risultati e favorirne la comparabilità. L'utilizzo di uno standard interno di amplificazione di un segmento di DNA , clonato in un plasmide, corrispondente ad una determinata ricmbinazione VJ o VDJ, di peso molecolare differente a quelli normalmente osservabili, incluso in ogni reazione di PCR, può permettere un confronto più accurato dell'intensità della banda ottenuta dall'amplificazione del campione leucemico e di conseguenza una stima quantitativa della MRM. Più di recente si è resa disponibile una nuova tecnologia per la valutazione quantitativa dei prodotti di PCR, denominata “real-time-quantitativePCR” (RQ-PCR) (4). Con questo approccio è possibile utilizzare l’attività esonucleasica della Taq polimerasi nella sua direzione 5’-3’ per la determinazione e quantificazione di un prodotto specifico di PCR durante la reazione stessa di amplificazione. Mentre procede la reazione di PCR, una sonda che riconosce una sequenza interna al prodotto di amplificazione viene degradata con la conseguente emissione ed accumulo di un segnale fluorescente. Grazie alla determinazione in tempo reale dei singoli prodotti di amplificazione, il metodo è particolarmente rapido ed accurato nella determinazione di diluizioni seriali durante il monitoraggio della malattia. La RQ-PCR sembra essere particolarmente utile per la valutazione quantitativa della MRM, come già riportato nel monitoraggio di alcune traslocazioni cromosomiche come la t(9;22), t(14;18) e t(8;21). Più di recente dati preliminari sono stati riportati anche per i geni delle Ig e TcR quando utilizzati come target per la valutazione della MRM. Nella Fig.2 sono riportati schematicamente i risultati comparativi dei due approcci relativi ad un caso esemplificativo. Quale LLA? impatto dello studio della MRM nell' approccio al paziente con La maggior parte dei dati fino ad ora pubblicati sono relativi alle LLA del bambino. In tale contesto i dati inizialmente prodotti da diversi gruppi sulla correlazione tra MRM ed evoluzione clinica sono risultati contradditori (si veda ref.1). Sebbene in alcune serie di pazienti sia stata osservata una buona correlazione tra persistenza di malattia , valutata come MRM, e la successiva recidiva (5,6), in altre casistiche l'osservazione di MRM anche a 1-2 anni dalla diagnosi, in pazienti rimasti in remissione completa , ha sollevato qualche dubbio sul suo reale significato (7). I risultati ottenuti più recentemente su casistiche più ampie e più omogenee per trattamento hanno permesso di cominciare a delineare un pattern di comportamento della MRM nelle LLA 125 del bambino più omogeneo anche utilizzando strategie diverse. I dati indipendenti di numerosi gruppi hanno indicato che la persistenza di malattia al termine della prima fase di induzione (come misura della citoriduzione e di conseguenza indirettamente di sensibilità al trattamento) ben correla con la probabilità di successive ricadute (8,10). Altri studi hanno invece indicato nella persistenza di malattia specie al termine della fase di consolidamento, l'elemento di maggiore significatività più che la positività rilevata ad un determinato momento della terapia (10). In tale contesto si collocano i dati ottenuti nell'ambito del gruppo cooperativo "I-Berlin-Frankfurt-Munster" (I-BFM) che comprende centri dei seguenti paesi europei: Germania, Italia, Olanda ed Austria. Lo studio condotto su 240 bambini affetti dal LAL, si è proposto di valutare il valore predittivo della MRM mediante amplificazione della regione di giunzione dei geni TcRd , TcRg, Igk e TAL-1. La negatività della MRM ai diversi tempi del trattamento è risultata significativamente associata ad una bassa incidenza di recidive (3-15% a tre anni), e al contrario un incremento di 5-10 volte degli eventi (39-86% a tre anni) si è osservato nei casi di MRM positiva. Il dato della MRM è risultato essere un fattore prognosticamente indipendente da altri parametri clinici e biologici della malattia all’esordio, in particolar modo quando valutata alla fine dell’induzione e prima del consolidamento. A questi tempi di trattamento, la presenza di un livello di MRM *10-2 è risultato associato ad un’incidenza di almeno tre volte superiore di recidive a confronto con i casi con MRM *10-3. L’analisi della MRM a tempi più tardivi dalla diagnosi è risultata ancora più significativa nell’identificare i pazienti con successiva recidiva. In base ai dati di MRM relativi ai tempi precoci è stato possibile stratificare i pazienti in funzione del rischio relativo di ricaduta , fornendo le basi per un futuro suo utilizzo in protocolli clinici. Conclusioni L'approccio molecolare allo studio della malattia residua in pazienti affetti da leucemia acuta conferma lo straordinario impatto che le tecniche di biologia molecolare hanno avuto in campo emato-oncologico. Ciò che diventa ovviamente rilevante, considerando il sempre più rapido affinamento e semplificazione delle tecniche di analisi molecolare, è la possibilità di dimostrare dal punto di vista sperimentale il significato di una remissione " molecolare" in rapporto alla risposta terapeutica, alla prognosi e in ultima analisi alla sopravvivenza dei pazienti affetti da leucemia acuta. Bibliografia 1. Campana D and Pui CH. Detection of minimal residual disease in acute leukemia: methodologic advances and clinical significance. Blood 126 85:1416,1995 2. 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Lancet 352:1731,1998 127 TERAPIA CONVENZIONALE DELLA LEUCEMIA ACUTA LINFOBLASTICA Giuseppe Todeschini, Giovanni Pizzolo Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Sezione di Ematologia, Università degli Studi di Verona, Policlinico G.B. Rossi, 37134 VERONA Un lungo cammino La storia della terapia delle leucemie acute linfoblastiche (LAL) inizia nei bambini alla fine degli anni '50 con le prime remissioni complete (RC) di breve durata ottenute con la somministrazione di steroidi. A partire dagli anni '60, l'aggiunta nelle fasi iniziali del trattamento del Methotrexate (MTX) e della Vincristina (VCR) e, più tardivamente, dell'Asparaginasi (ASI) incrementano la percentuale delle RC e ne allungano la durata. Si documenta inoltre l'utilità della terapia di mantenimento con 6-mercaptopurina (6-MP) e MTX. I trattamenti diventano via via più complessi e articolati e si integrano con altri farmaci come la Ciclofosfamide (CTX) e le Antracicline. Il prolungamento delle RC che ne deriva rende palese il problema del frequente coinvolgimento leucemico del sistema nervoso centrale (SNC) per il quale vengono via via perfezionate misure profilattiche basate inizialmente sull'irradiazione (RT) del cranio (±nevrasse) e sulla introduzione intratecale di MTX. La progressiva intensificazioni e articolazione terapeutica, l'affinamento delle tecniche diagnostiche, l'adattamento della strategia terapeutica sulla base dell'identificazione di gruppi di rischio (differenziati in base alla presentazione clinica, alle caratteristiche immunofenotipiche, citogenetiche e molecolari), il miglioramento della terapia di supporto, le indicazioni emerse da grandi studi randomizzati multicentrici hanno portato le percentuali complessive di guarigione nei bambini a oltre il 70% (circa 85% nei bassi rischi, 70% nei rischi standard, intorno al 50% negli alti rischi) (1). Il trattamento delle LAL dell'adulto, in gran parte derivato da quelli adottati con successo nei bambini, ha ottenuto e ottiene risultati di gran lunga inferiori, non tanto in termini di conseguimento della RC ma della sua durata e quindi di possibilità di cura della malattia. Infatti, l'event free survival (EFS) complessivo nelle LAL dell'adulto (escluse le LAL-B mature, corrispondenti alle forme FAB L3, in cui i moderni trattamenti ottengono risultati di gran lunga migliori) (2) è compresa tra il 25% e il 40% dei casi trattati (3). Risultati così modesti, se confrontati con quelli dei pazienti in età pediatrica, dipendono 128 sia dalla maggiore aggressività biologica della malattia [tra cui la maggior frequenza di anomalie citogenetiche "sfavorevoli", in particolare la t(9;22)], sia dalla minore tolleranza ai trattamenti e dalla maggiore morbilità e mortalità ad essi associate nei soggetti adulti. Di fatto, tutte le LAL dell'adulto sono da considerare ad alto rischio e molte di esse ad altissimo rischio. Saranno qui sinteticamente riportate le strategie terapeutiche convenzionali, i risultati e le principali problematiche del trattamento delle LAL dell'adulto. Fasi terapeutiche Il trattamento convenzionale delle LAL dell'adulto, tranne che nelle poco frequenti forme B mature nelle quali la strategia terapeutica (quanto mai efficace) è del tutto diversificata (vedi oltre), si articola in varie fasi. Induzione della RC Il conseguimento, nel più breve tempo possibile, di una RC che ristabilisca la normale funzione emopoietica e riduca quanto più possibile la quota leucemica residua rappresenta la prima e obbligatoria tappa per il raggiungimento dell'obiettivo finale costituito dalla guarigione. La ricerca della massima efficacia terapeutica deve peraltro evitare una eccessiva tossicità che deve comunque essere controllabile con la terapia di supporto. La fase di induzione della RC prevede, nella maggior parte degli schemi utilizzati per le forme non B-mature, l'uso di Prednisone (PRN), VCR, Antracicline o Mitoxantrone (MITX), spesso anche di ASI e talora di CTX e Citarabina (Ara-C) (3). Mentre è definitivamente accertato il ruolo di PRN, VCR e Antracicline (o MITX) nel conseguimento della RC, meno evidente appare quello degli altri farmaci. Le varie Antracicline [Daunomicina (DNM), Doxorubicina (DOXO) Idarubicina (IDA)] o il MITX sembrano ugualmente efficaci (4,5). Il PRN è somministrato giornalmente per circa un mese, la VCR settimanalmente per 4-5 volte, le Antracicline a cicli (da 1 a 3) di 1-3 giorni. Sono state sviluppate anche terapie di induzione con associazioni chemioterapiche diverse da quelle usuali. Per esempio, alte dosi di Ara-C e MITX senza VCR e PRN (6) o un regime "myeloid-like" in cui i classici farmaci in uso nelle LAL venivano usati in una seconda fase dell'induzione, dopo un trattamento iniziale da leucemia mieloide acuta (7). Tali regimi "diversi" sono stati peraltro applicati solo a studi pilota, non essendo emersi sostanziali vantaggi dal loro impiego. Consolidamento/intensificazione Segue al completamento della fase di induzione. Si articola in combinazioni variabili di farmaci, a dosaggi spesso elevati, usualmente comprendenti Ara-C, 129 Epipodofillotossine, MTX, CTX e altri farmaci (3). L'impatto del consolidamento/intensificazione e delle sue varie modalità nel migliorare i risultati in termini di guarigione delle LAL, ancorchè fortemente suggerito da alcuni studi, non è definitivamente chiarito (3). Profilassi delle localizzazioni al SNC Ha lo scopo di ridurre al minimo l'incidenza delle ricadute al SNC che nella storia naturale delle LAL, in assenza di un trattamento profilattico efficace, è assai elevata (fino al 50%) specie nelle LAL-B mature, ma anche nelle altre forme soprattutto in presenza di elevata conta leucemica circolante. Un tempo prevalentemente basata sulla RT dell'encefalo al termine del trattamento di induzione e di consolidamento e sulla somministrazione intratecale di MTX, si è via via arricchita di diverse modalità e schemi comprendenti, in varie combinazioni, la RT (dosaggi compresi tra 18 e 24 Gy), somministrazioni intratecali di MTX, ± Ara-C, ± steroide, e trattamenti per via sistemica ad alte dosi con MTX e Ara-C (in grado di superare la barriera ematoencefalica e di raggiungere adeguati livelli nel liquor). Tali approcci hanno ridotto l'incidenza delle localizzazioni leucemiche al SNC a percentuali mediamente inferiori al 10% (3,8,9). Va tenuto presente che la profilassi con alte dosi di MTX e/o Ara-C può provocare tossicità neurologica rilevante, specialmente nei soggetti anziani. Terapia di mantenimento prolungata Di dimostrata efficacia nelle LAL del bambini, è stata trasferita con modalità simili nelle forme dell'adulto (con esclusione delle LAL-B mature). Si basa sulla somministrazione giornaliera per os di 6-MP e settimanale per via intramuscolare di MTX. Il tutto per un periodo prolungato, di solito di 2 o 3 anni. Il ruolo di un tale trattamento e della sua durata nelle LAL dell'adulto non è definitivamente accertato, ma dati indiretti sembrano confermarne la validità. In particolare, negli studi con breve o assente terapia di mantenimento, l'incidenza di ricadute appare più elevata (3,10,11). Risultati I più recenti trattamenti di induzione ottengono, nelle LAL non B-mature dell'adulto, percentuali di RC variabili tra il 70 e il 90% (3). Gli studi monocentrici mostrano più elevate % di RC rispetto ai multicentrici. I motivi del mancato conseguimento della RC nella totalità dei casi sono da ricondurre alla mortalità/morbilità tossica e/o alla resistenza al trattamento di induzione. Tali evenienze si verificano soprattutto nei pazienti più anziani (> 60 anni), a causa dell'alta incidenza di forme prognosticamente sfavorevoli (vedi oltre), della tossicità ematologica e d'organo in 130 soggetti spesso con patologie associate e in condizioni generali compromesse, della elevata frequenza di complicanze infettive gravi, solo in parte ridotte dall'uso dei fattori di crescita. Mentre risulta abbastanza agevole valutare l'efficacia di una determinata strategia di induzione nel conseguimento della RC, risulta più difficile identificare con certezza il ruolo specifico dei vari farmaci e delle loro modalità di somministrazione (tempi, dosaggi, frazionamenti, ecc) nelle varie fasi terapeutiche (induzione, consolidamento/intensificazione, mantenimento) per il conseguimento dei migliori risultati. Appare comunque certa l'utilità dell'impiego in induzione delle Antracicline con forti evidenze a favore di dosaggi più elevati (12-14). Un'ampia recente revisione dei principali studi (>100 pazienti) fornisce una utile sintesi degli attuali risultati nel trattamento della LAL (non B-mature) dell'adulto (3). Vi sono complessivamente considerati oltre 2200 pazienti, con età mediana compresa tra i 25 e i 35 anni, inseriti in 8 studi (9,11,15-20). La terapia ha in comune l'impiego di VCR, steroide e Antracicline (nella maggioranza dei casi DNM), a dosi variabili. l'ASI è compresa in 4/8 studi, il CTX in 5/8. Tutti gli studi si articolano in una terapia di consolidamento complessa, a più farmaci. L'Ara-C figura in tutti gli schemi di consolidamento a dosi standard/intermedie, e in uno studio ad alte dosi. In 4 studi è previsto il MTX, nello studio GIMEMA alla dose di 1g/m2. In tutti meno uno (11) la terapia di mantenimento è prolungata. I dati principali emersi da questi studi possono essere così riassunti: percentuali medie di RC attorno al 70% (range 58-88%); durata mediana della RC compresa tra 17 e 29 mesi (in 3 degli 8 studi non è valutabile), disease free survival (DFS) compresa tra 17 e 46%; EFS (desunta dai dati di RC e di DFS) (21), e quindi proporzione di pazienti potenzialmente guariti, compresa tra 20 e 39%. L'unico studio senza mantenimento (11) è caratterizzato dai peggiori risultati in termini di DFS e EFS. L'esperienza del gruppo ematologico veronese nel trattamento delle LAL non Bmature dell'adulto riguarda 156 pazienti consecutivi trattati con due protocolli successivi (Verona ALL/74 e Verona ALL/589) (12,13) con fase di induzione basata sull'impiego di VCR, PRN, DNM e ASI, profilassi delle localizzazioni al SNC (combinazione di RT e MTX intratecale), reinduzioni periodiche con DNM, PRN ±CTX e mantenimento per 3 anni con 6-MP e MTX. Le principali differenze tra i due protocolli riguardavano l'incremento della DNM in induzione e l'inserimento di una terapia di intensificazione precoce comprendente VP-16 e alte dosi di Ara-C nello studio più recente. L'incremento della DNM in induzione nello studio ALL/589 derivava dall'osservazione che nello studio precedente i pazienti trattati con dosi più elevate di DNM (dosaggio complessivo in induzione >175 mg/m2) avevano una sopravvivenza ed una DFS significativamente migliori (a 120 mesi, 50% vs 23%, p <0.05). Nello studio ALL/589 il dosaggio complessivo di DNM in induzione veniva quindi portato a 270 mg/m2 (dose mediana effettiva 258 131 mg/m2). In assenza di sostanziali differenze di composizione tra le due serie di pazienti (a parte una maggiore % di LAL-T nel secondo studio) le RC aumentavano dal 79 al 93%, le ricadute sistemiche si riducevano dal 57 al 34% e le ricadute al SNC, pari al 3% nel primo studio, si azzeravano nel secondo. A risultati ormai consolidati (dieci anni dall'inizio dello studio, follow-up mediano di 57 mesi) la durata mediana della RC è di 55 mesi. 33/60 (55%) dei pazienti entrati nello studio sono vivi e liberi da eventi, con un plateau che inizia a 48 mesi. Tali dati confermano l'importanza delle alte dosi di DNM in induzione, sia nel rapido ottenimento della RC (fattore prognostico importante) sia nel ridurre significativamente le ricadute. I dati incoraggianti ottenuti dallo studio Verona ALL/589 hanno suggerito l'opportunità di una sua validazione a livello multicentrico nell'ambito del gruppo GIMEMA. Tale studio (GIMEMA LAL 0496) è attualmente in corso e ha già reclutato più di 300 pazienti. Il periodo di osservazione è ancora troppo breve per trarre delle conclusioni. L'analisi dei risultati emersi dai vari studi ha evidenziato come i risultati negativi in termini sia di conseguimento di RC ma, soprattutto, di DFS dipendono dalla presenza di alcuni fattori prognostici negativi. L'identificazione di tali fattori si è modificata nel tempo con l'uso di trattamenti più efficaci. I principali fattori prognostici considerati oggi sfavorevoli sono costituiti da talune alterazioni citogenetiche [in particolare t(9;22) e t(4;11)], dal fenotipo pre-pre-B (spesso associato a t(4;11) e pro-T, dall'alta conta leucemica alla diagnosi (>50.000 o >100.000 a seconda degli studi), dall'età >50 anni, dalla scarsa o tardiva risposta alla terapia di induzione, dall'interessamento del SNC, dalla persistenza di malattia residua minima al completamento delle fasi di induzione e consolidamento. La traslocazione t(9;22) (Ph'+) (e/o la presenza del corrispettivo gene di fusione bcr/abl) rappresenta il singolo più importante fattore prognostico sfavorevole nelle LAL (22,23). Si riscontra all'incirca nel 25-30 % delle LAL dell'adulto, pressoché esclusivamente nelle forme di derivazione B. Poiché queste ultime costituiscono circa il 70% delle LAL dell'adulto, ne deriva che poco meno della metà delle LAL-B sono Ph+/bcr/abl+. Mentre le percentuali di RC non si differenziano sostanzialmente nelle forme Ph+ rispetto alle Ph-, la durata della RC è breve e la ricaduta è pressoché inevitabile e precoce. I vari trattamenti chemioterapici si sono dimostrati inefficaci nel prevenire le ricadute nei casi Ph+/bcr/abl+. Questi dati scoraggianti giustificano senz'altro approcci terapeutici alternativi di cui il trapianto allogenico di midollo osseo rappresenta una modalità, peraltro ancora non soddisfacente (24). L'età avanzata (>60 anni) rappresenta un altro importante fattore prognostico negativo che connota circa un terzo dei pazienti adulti con LAL. I dati della letteratura sono piuttosto scarsi, perché i pazienti anziani spesso non entrano nei protocolli e prevale un atteggiamento palliativo o rinunciatario, anche a causa del fatto che spesso si tratta di pazienti Ph+. Su 128 pazienti di età superiore a 60 anni riportati complessivamente in 5 studi (3,25-28) trattati con intento curativo le RC erano il 75%, la sopravvivenza mediana 132 era di breve durata (range 1-10 mesi) e compresa tra <10 e 21% la percentuale di pazienti sopravviventi a 3 anni. Nell'esperienza italiana non si osservavano differenze significative tra un approccio di induzione intensivo e palliativo, né in termini di CR né in termini di sopravvivenza (28). La principale causa di fallimento della terapia delle LAL dell'adulto è la ricaduta. E' noto infatti che dopo la ricaduta le possibilità di ottenere remissioni e sopravvivenze prolungate sono molto modeste. Una ricaduta si verifica nella metà o più dei pazienti andati in RC, in misura minore nei pazienti trattati con terapie più intensive. La maggioranza delle ricadute avviene entro il primo anno, più raramente dopo i due, ma sono possibili anche ricadute tardive, specialmente nelle forme B. La sede principale di ricaduta è il midollo osseo (>80%). Anche le recidive extramidollari (soprattutto neurologiche e testicolari) preludono comunque alla ricaduta midollare. Sono stati impiegati schemi terapeutici molto eterogenei per il trattamento della ricaduta, con risultati contrastanti. I vari schemi prevedono per lo più l'impiego di Ara-C ad alte dosi associato a MITX o IDA o Epipodofillotossine, o una ripetizione degli schemi iniziali in particolare se la ricaduta è tardiva. Le percentuali di RC variano, a seconda dei vari studi, tra il 35% e l'75% (3). I risultati a medio termine sono comunque del tutto insoddisfacenti e impongono, specie nei pazienti più giovani, un approccio terapeutico integrato possibilmente imperniato sul trapianto allogenico di midollo osseo. Leucemia Linfoblastica a fenotipo B maturo Costituisce <5% delle LAL dell'adulto. E' caratterizzata da anomalie citogenetiche peculiari [t(8;14), talora t(8;22) e t(2;8)], da morfologia FAB L3, da un profilo immunofenotipico da cellule B mature (espressione di Ig di membrana), da elevatissima cinetica proliferativa, da frequente interessamento del SNC alla diagnosi, da importante organomegalia. Un tempo considerata la forma più aggressiva di leucemia e praticamente incurabile è oggi la leucemia acuta dell'adulto dove si ottengono i migliori risultati. Ciò grazie all'applicazione di protocolli chemioterapici del tutto diversi da quelli usati nelle altre forme, derivati dall'esperienza pediatrica, basati sull'impiego di MTX e Ara-C ad alte dosi, alternati a CTX ad alte dosi somministrata in modo frazionato, una articolata e intensiva chemioprofilassi delle localizzazioni al SNC, assenza di terapia di mantenimento. Con tali terapie si ottengono nell'adulto percentuali di RC >80% e guarigione nel 60-70% dei pazienti (2,3,29,30). Prospettive future della chemioterapia 133 I risultati degli approcci chemioterapici attuali nelle LAL dell'adulto, nonostante i notevoli progressi rispetto al passato, sono ancora insoddisfacenti. Il contribuito al miglioramento dei risultati del trapianto allogenico, ancorché significativo per una minoranza di pazienti, è destinato a rimanere limitato da vari fattori: età e/o condizioni generali del paziente, assenza del donatore, regimi di condizionamento non sempre efficaci nell'eradicare la malattia, morbilità e mortalità ancora elevate della procedura. Il possibile contributo di altre strategie terapeutiche innovative (inibitori delle tirosinchinasi, modulazione delle Multi-Drug Resistance, immunoterapia con anticorpi monoclonali, ecc) è al momento tutto da verificare. Resta quindi un ampio spazio di miglioramento per l'approccio chemioterapico. Tale miglioramento deriverà verosimilmente da studi multicentrici disegnati per identificare (sulla base di evidenze biologiche, immunofenotipiche e molecolari) gruppi a rischio diversificato per i quali sviluppare approcci terapeutici (farmaci e loro combinazioni, dosaggi, "timing") dedicati. E' questa l'ottica ispiratrice dello studio biologico centralizzato associato al protocollo GIMEMA LAL 496 (31). Si intravedono diversi spazi futuri di miglioramento per la chemioterapia, tra i quali: - incremento della "dose-intensity" per terapie di induzione più efficaci; - migliore utilizzo di farmaci noti, a dosi elevate e in combinazioni ad effetto sinergico; - identificazione degli spazi di utilizzo di nuovi chemioterapici (ad es Ara-G, DNM liposomiale, ecc); - migliore impiego dei fattori di crescita e ulteriori miglioramenti delle terapie di supporto; - nuove strategie per il trattamento delle ricadute; - maggiore attenzione al problema delle leucemie dell'anziano. Bibliografia 1. 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Definizioni, classe di rischio e strategia di trattamento Per terapia ad alte dosi (TAD) intendiamo l’impiego di chemio(radio)terapia sistemica a dosaggi tali da causare una aplasia midollare apparentemente irreversibile, per cui si renda necessario un supporto con cellule emopoietiche staminali. Sono quindi esclusi i trattamenti non mieloablativi con singoli farmaci ad alte dosi. A seconda della tipologia di TAD, parleremo di autotrapianto (AUTO) o allotrapianto (ALLO), di MUD (“marrow unrelated donor”, se il donatore è non correlato), e di BMT (“bone marrow transplant”, trapianto di midollo osseo) oppure BCT (“blood cell transplant”, trapianto da sangue periferico con progenitori emopoietici CD34+). La leucemia acuta linfoblastica (LAL) è prognosticamente eterogenea. Si identificano diverse classi di rischio (diverso “event-free survival”/EFS a 3-5 anni dalla remissione completa/RC, a parità di trattamento). La classe di rischio è determinata dalla combinazione di caratteristiche non modificabili e da variabili modificabili legate al trattamento. Con chemioterapia convenzionale/intensiva, i casi ad alto rischio (“HR”=EFS <25%) hanno LAL pro-T, pro-B t(4;11)+ (possibile miglioramento con nuovi protocolli GMALL), t(9;22)+ (in questo caso con EFS vicino a zero), e pre-B con iperleucocitosi ed età avanzata (livelli variabili). Gli altri casi costituiscono le categorie di rischio intermedio (IR=EFS 25-40%) oppure standard (SR=EFS >40% e fino al 60% in alcuni sottogruppi (1). Un esempio di stratificazione prognostica per gruppi di rischio è illustrato nella Figura 1a. Gli stessi pazienti, analizzati in multivariata per le variabili correlate al trattamento, mostrano differenze statisticamente significative 138 per applicazione di TAD (AUTO+ALLO, Figura 1b) e protocolli a forte componente antraciclinica (Figura 1c) (2). L’impiego di TAD può notoriamente associarsi a tossicità severa. I costi di assistenza sono elevati e le aspettative del paziente sono talora disattese da una ricaduta o da un evento letale. A causa del diverso recupero ematologico, dell’incidenza di complicanze e di malattia da trapianto-contro-ospite (“graft-versus-host disease”, GVHD) severa, AUTO-BCT, AUTO-BMT, ALLO-BMT e ALLO-BMT-MUD presentano rischi crescenti, abbastanza elevati negli ultimi due casi (mortalità stimabile intorno al 10-30%). E’ chiaro che scelta, modalità e applicazione di TAD devono essere accuratamente predefinite nei diversi gruppi di rischio. ALLO: studi retrospettivi/fase II Uno studio retrospettivo IBMTR ha comparato i risultati di EFS dopo chemioterapia (484 pazienti, schema GMALL in 44 centri tedeschi) e ALLO-BMT (234 pazienti, 98 centri IBMTR) (3). I risultati a lungo termine sono stati sovrapponibili, senza differenze significative tra i gruppi di rischio (criteri GMALL): EFS globale con chemioterapia 31% e con ALLO-BMT 33%, a causa della maggiore mortalità da ALLO-BMT (53% contro 5%) e dell’incidenza di recidive nel gruppo chemioterapia (66% contro 30%). Studi su casistiche più limitate (15-116 pazienti) hanno fornito dati di EFS tra 21% e 71% (mediamente 5060%) (4). Da notare, in molti di questi studi, una età mediana piuttosto bassa ed una certa carenza nei dati relativi alla classe di rischio. Globalmente, l’esperienza retrospettiva indica una possibilità di EFS del 40-60% ed una frequenza di recidiva intorno al 30%, con tendenza al peggioramento dei risultati nei gruppi HR. AUTO: studi retrospettivi/fase II Una analisi relativamente recente (5) dell’esperienza EBMTG ha mostrato un EFS del 4042% (HR/SR) a 8 anni dopo AUTO-BMT. Ma solo il 35% dei 465 casi esaminati aveva età >20 anni. Informazioni utili si ricavano da esperienze istituzionali, in cui AUTO-BMT veniva deliberatamente incluso in schemi chemioterapici ben definiti. Il protocollo di condizionamento è stato generalmente di intensità contenuta rispetto ad un ipotetico 139 standard di riferimento (chemioterapia più “total body irradiation”/TBI), allo scopo di minimizzare la tossicità e ritrattare i pazienti dopo AUTO-BMT. Nel primo di questi studi (6), infatti, si è prevista una fase AUTO-BMT (condizionamento con ciclofosfamide, BCNU, etoposide) seguita da ulteriore chemioterapia, secondo l’idea di ri-sterilizzare il paziente dopo una possibile reinfusione di cellule leucemiche. Per problemi vari (età, tossicità, recidiva, stato socioeconomico), solo il 28% dei pazienti ha ricevuto AUTO-BMT, con risultati simili ai casi non autotrapiantiati ed EFS globale a lungo termine del 26% (7). Lo studio Royal Marsden Hospital (8,9), ha riportato un EFS del 50% circa in pazienti autotrapiantati (condizionamento con melphalan, più TBI in alcuni casi) e successivamente trattati con mantenimento a basso dosaggio. Poichè tutti i casi hanno eseguito AUTOBMT, è probabile che la casistica sia stata selezionata positivamente. Nello studio IVAP (10), ancora con chemioterapia aggiuntiva post AUTO-BMT, la proporzione dei pazienti autotrapiantati (condizionamento con BCNU, melphalan, etoposide) è stata del 69% con percentuale di EFS a 5 anni del 36%, senza risultati apprezzabili nei pazienti HR (blasti >25.000/mmc, fenotipo B/T, t(9;22)+), mentre nei casi IR/SR l’applicazione di AUTO-BMT è parsa ridondante. L’esperienza con AUTO-BCT è più limitata. Uno studio di fase II successivo ad IVAP, con mantenimento a basso dosaggio dopo AUTO-BCT (condizionamento con ciclofosfamide, melphalan, etoposide), ha prodotto solo un certo incremento di EFS nella B-LAL/L3, confermando una rapida ripresa dell’emopoiesi (11). Nello studio Royal Marsden Hospital i risultati sono stati molto buoni (condizionamento con melphalan, più TBI in qualche caso). La strategia di questi autori è stata di usare inizialmente AUTO-BCT (con mantenimento) e di riservare la procedura ALLO (nei pazienti con donatore) alla fase di recidiva, ottenendosi un EFS a 3 anni del 65% con una frequenza di recidiva del 35% (12). Tuttavia la casistica è composta da soli 21 casi, nessuno dei quali con qualifica HR per positività t(9;22), remissione tardiva, B-LAL, oppure LAL con interessamento meningeo. ALLO vs AUTO vs chemioterapia: studi clinici randomizzati 140 Sono noti i risultati preliminari o definitivi di 5 studi randomizzati prospettici (Tabella 1). In realtà, la randomizzazione ad ALLO-BMT è una assegnazione diretta al trattamento sulla base delle compatibilità HLA/DR (“randomizzazione genetica”). Inoltre i diversi studi non sono tra loro comparabili a causa dei difformi criteri di eleggibilità e degli schemi di trattamento. Un ampio studio collaborativo intergruppo (INT-0132: ECOGMRC) potrà fornire informazioni di rilievo data la stratificazione per fattori di rischio, la randomizzazione pre-intensificazione (analisi secondo “treatment-intention”), e l’unificazione di tutti i trattamenti TAD e non TAD (4). Lo studio PV-TO-GE (13) si caratterizza per un basso rateo di attuazione del programma (20 casi sottoposti a TAD); pertanto i risultati sono statisticamente poco affidabili. La conclusione degli autori, basata sulla efficacia di ALLO-BMT in alcuni casi HR, è di riservare tala metodica a questa categoria di rischio. Lo studio BGMT (14) si caratterizza per buona fattibilità (trapiantati 105/120 eleggibili) del programma ALLO (condizionamento con ciclofosfamide e TBI) od AUTO (stesso condizionamento, no “purging” in vitro) e per la netta superiorità del braccio ALLO-BMT (p<0.001). Non è invece possibile ricostruire il rischio di recidiva dopo TAD per le diverse categorie prognostiche. Lo studio FGTAALL risulta il più importante per entità della casistica, follow-up a lungo termine, e analisi per gruppo di rischio (15,16). Il risultato da ALLO-BMT (condizionamento con ciclofosfamide e TBI) è stato lievemente superiore a quello da AUTO-BMT (stesso condizionamento, “purging” in vitro con anticorpi monoclonali anti-B/T oppure mafosfamide) o chemioterapia, ma le differenze tra i due ultimi trattamenti sono minime. L’aggiornamento a 10 anni indica un discreto vantaggio per il braccio ALLO-BMT (p=0.04), con EFS del 37% verso 15% nella categoria HR (p=0.01), ma scarsi effetti nella categoria SR (46% contro 42%). Nel confronto diretto tra AUTO-BMT e chemioterapia, viene confermato un trend non significativo a favore di AUTO-BMT (EFS 31% verso 26%), ma non si identificano sottogruppi sensibili ad AUTOBMT. Lo studio dimostrerebbe la relativa efficacia di ALLO-BMT nella categoria HR (criteri GMALL), una conclusione notevolmente diversa dallo studio retrospettivo IBMTR precedentemente citato (4). Lo studio West Coast (17) mostra, con un follow-up breve, buoni valori di EFS sia per ALLO-BMT che per il braccio di chemioterapia ciclica 141 intensiva, senza differenze significative. Lo studio PETHEMA (18), ristretto a casi HR anche pediatrici, soffre di un modesto input di pazienti e non evidenzia differenze di rilievo tra ALLO-BMT, AUTO-BMT, e chemioterapia. Da notare il basso rateo di EFS nel gruppo ALLO-BMT, probabilmente in rapporto alla selezione di soli pazienti HR (similmente ai dati FGTAALL). Problemi rilevanti 1. E’ importante la terapia pre TAD ? Il tipo e l’intensità dei trattamenti pre TAD sono stati estremamente variabili. I risultati dei bracci AUTO-BMT degli studi BGMT e FGTAALL, con fase pre TAD di maggiore intensità nello studio FGTAALL ma identico schema di condizionamento per AUTO, sono stati lievemente migliori nell’ ultimo studio. Per confrontare realisticamente i risultati potrebbe essere necessario un monitoraggio della malattia residua minima durante le diverse fasi pre TAD e TAD. In campo AUTO, la presenza di malattia residua midollare al di sopra di una data soglia ha comportato una significativa riduzione della probabilità di EFS (19,20). 2. Vi sono indicazioni relative ad un programma di condizionamento ottimale? Non è stata notata alcuna differenza importante tra ciclofosfamide-TBI e ciclofosfamidebusulfano, a parte un effetto positivo legato alla TBI nell’AUTO-BMT in fase avanzata (21). L’impiego di dosaggi elevati di TBI potrebbe indurre un miglioramento dei risultati in situazioni HR come LAL t(9;22) (22), in linea con le nozioni di radiobiologia dei linfociti, totalmente inibiti da dosaggi intorno a 15 Gy (23). Bisogna tuttavia ricordare l’esistenza di subset di malattia radioresistenti (24,25). Infatti, se alcune evidenze teoriche e pratiche suggeriscono l’utilità della TBI frazionata con dosi superiori a 12 Gy (13.2-15 Gy), non tutti riportano un miglioramento dei risultati nei subset HR (26). Un modo alternativo di incrementare la forza citoriduttiva dei regimi di condizionamento è l’uso di farmaci diversi dalla ciclofosfamide, il cui potenziale ablativo è scarso. L’uso di etoposide (più TBI 13.2 Gy) si è associato ad un EFS del 65% (pre 1992) e 81% (post 1992) in un gruppo 142 eterogeneo (età 3-56 anni, 24 ALLO in prima RC, 36 ALLO in fase avanzata, 15 ALLOMUD) di 75 pazienti con LAL t(9;22)+ (22). In un altro studio con ciclofosfamideetoposide-TBI, la frequenza di EFS a 3 anni per 15 pazienti con LAL t(9;22)+ in prima RC è stata del 46% (27). Questi risultati sembrano superiori a quanto ottenuto con condizionamento tradizionale: EFS 24% nello studio EBMTG (28). L’introduzione di altri farmaci (citarabina, melphalan) ha prodotto risultati interessanti in termini di controllo delle recidive, ma con notevole aumento di tossicità soprattutto in corso di ALLO-BMT (29,30). La fattibilità di questi schemi intensificati potrebbe essere migliore nelle procedure AUTO, gravate da minore tossicità complessiva. Infine, per i pazienti ad alto rischio di tossicità, si potrebbero sviluppare regimi de-intensificati, associati ad ALLO-BMT/BCT (“mini”-ALLO). Questa tecnica è stata preliminarmente usata in alcuni casi ad altissimo rischio con discreto successo (31). 3. Esiste un ruolo per la chemioterapia o immunoterapia post TAD ? Il contributo terapeutico di un ulteriore trattamento dopo TAD è ignoto. Mentre non si dispone di dati dopo ALLO (si presume che la GVHD cronica eserciti automaticamente un effetto immunoterapico), gli studi di chemioterapia post AUTO (6,8-10,12) non hanno fornito informazioni univoche. L’immunostimolazione con IL-2 dopo AUTO-BMT non ha prodotto alcun beneficio nello studio randomizzato BGMT (14). Poiché l’immunocompetenza dei pazienti con LAL dopo induzione-consolidamento-TAD è molto scarsa, potrebbero essere necessari approcci innovativi di “restoring” e stimolazione (cellule dendritiche, vaccinazione anti-LAL, cellule NK/LAK). In ambito ALLO, va chiarito l’eventuale ruolo di infusioni di linfociti da donatore (“DLI”) dopo trapianto. 4. Vi sono evidenze cliniche a favore delle procedure di ”purging” in vitro? L’eliminazione di cellule leucemiche residue dai prodotti per autotrapianto è concettualmente un obiettivo razionale sostenuto da robusti dati preclinici. Ma che ciò sia realmente fattibile e clinicamente utile resta da dimostrare, visto il ruolo determinante della malattia residua in vivo (19,20). La questione ha generato notevoli controversie, con punti di vista diametralmente opposti (32,33). Il “purging” con anticorpi monoclonali consente una deplezione sub-totale delle cellule di linea B o T, con impatto clinico su larga 143 scala in apparenza modesto e comunque non quantificabile (15,16). Metodi più recenti, in grado di negativizzare il segnale di malattia in metodica PCR, sono stati impiegati nella LAL t(9;22)+ (34). I risultati clinici sono stati scarsi, mentre un miglioramento apparente di EFS (con follow-up breve) pare sia possibile solo nei casi divenuti PCR negativi in vivo (35). Il metodo basato sulla mafosfamide ha fornito risultati promettenti in una casistica unicentrica (35 pazienti, EFS 56%), ma l’interpretazione è incerta dato che questi pazienti sono già stati inclusi nello studio nazionale FGTAALL, non è noto il loro profilo di rischio, l’intervallo RC-AUTO è molto variabile (44-523 giorni), e non sono riportati a confronto i dati degli altri centri FGTAALL (36). 5. La tossicità da ALLO è riducibile senza compromissione dell’effetto GVL ? La mortalità da ALLO-BMT è in via di riduzione, e ciò comporta un generale miglioramento dei risultati (22). In uno studio l’incidenza di mortalità è passata dal 35% al 10% nel quinquennio 1992-1997 (37). Ciò grazie al migliore controllo di GVHD acuta e complicanze infettive. Al contempo, si tende a confermare l’impatto prognostico positivo esercitato dalla GVHD cronica (37,38), sotto forma di effetto GVL (“graft-versusleukemia”). Poichè mortalità e tossicità da GVHD acuta e cronica permangono elevate, sono necessarie ulteriori ricerche per migliorare questo aspetto senza sacrificare l’effetto GVL. La strada del “mini”-ALLO potrebbe ridurre la tossicità complessiva da TAD (31). 6. Qual’è la fonte ideale del supporto per TAD: BMT o BCT? Sul piano meramente pratico, la rapidità di ripresa dell’emopoiesi e dell’immunocompetenza garantita dal BCT riduce le complicanze da pancitopenia ed è quindi preferibile al BMT. Tuttavia vi sono aspetti non marginali da considerare: nel caso di ALLO, come caratterizzare e modulare gli effettori della risposta GVHD, certamente presenti in numero enormemente maggiore rispetto al BMT? Nel caso di AUTO, la contaminazione da malattia residua potrebbe essere maggiore rispetto al BMT? Se così, come bilanciare questi rischi con i benefici clinici immediati e come adattare le attuali tecniche di “purging” al BCT? Alcuni studi hanno documentato una minore o uguale contaminazione residua di malattia nel BCT rispetto a BMT, anche in situazioni HR come LAL t(9;22)+ (39-41). 144 6. Quali sono le possibilità offerte dai trapianti MUD? La procedura ALLO-MUD aumenta notevolmente la tossicità e mortalità da trapianto, ma può essere convenientemente offerta ad alcuni pazienti con caratteristiche di rischio elevatissime, come la LAL t(9;22)+. I dati EBMTG recenti riportano una mortalità precoce del 33%, incidenza di recidiva del 26%, ed EFS del 46% (42). I dati NMPD riporatano una sopravvivenza del 42% in pazienti HR, sempre con elevata mortalità peritrapiantologica (43). Poichè i risultati sono progressivamente peggiori nelle fasi avanzate di malattia, tale procedura dovrebbe essere considerata molto precocemente nei casi eleggibili (entro 3-6 mesi nella LAL t(9;22)+). Epicrisi AUTO. 1. I pazienti sottoposti ad AUTO-BMT/BCT non hanno una prognosi inferiore a quelli trattati con chemioterapia, ma nemmeno dichiaratamente superiore, anche con adozione post-AUTO di ulteriore terapia. Non sono emerse chiare indicazioni al riguardo di specifiche classi prognostiche. 2. Le revisioni periodiche dei registri internazionali ai quali affluiscono i dati di pazienti selezionati e trattati eterogeneamente indicano che alcuni sottogruppi (relativamente alla selezione operata) potrebbero trarne un qualche beneficio, ma ciò si discosta notevolmente dalle esperienze istituzionali in gruppi di pazienti consecutivi non selezionati. E’ indispensabile unificare i criteri interpretativi. 3. L’intera problematica del “purging” in vitro resta da chiarire. ALLO. 1. Per quanto riguarda l’indicazione ad ALLO-BMT/BCT, il problema è tutt’altro che semplice, poichè alcuni studi riportano nella LAT-T e nella LAL pre-B SR risultati di tipo ALLO-BMT (EFS uguale o superiore al 50%), mentre l’influsso prognostico dovuto ai fattori di rischio non si annulla o si accompagna ad effetti paradossali. Si ricorda l’esperienza FGTAALL (15,16), dove con ALLO-BMT si è ottenuto un discreto vantaggio nella categoria HR ma non in quella SR. Anche per la categoria HR, tuttavia, permangono 145 seri problemi. A titolo esemplificativo, riportiamo le curve di EFS di una casistica prevalentemente HR, con suddivisione per sottotipo di malattia (Figura 2). Nella LAL t(9;22)+ il risultato è del tutto insoddisfacente. L’esperienza del gruppo EBMGT è analoga (28). Negli altri casi, il risultato può essere ritenuto solo modestamente superiore o addirittura sovrapponibile alle migliori prestazioni della chemioterapia standard, tranne che nel caso della LAL pro-B t(4;11)+, dove peraltro i pochi casi condizionano fortemente le conclusioni. E’ possibile che la LAL t(4;11)+ sia molto sensibile anche in assenza di GVHD (44). 2. Probabilmente, con le informazioni a nostra disposizione, l’approccio più sensato consiste nel considerare un ALLO-BMT/BCT solo nei casi HR, così definiti dalla esperienza istituzionale o dal protocollo di trattamento in corso. Per quelli a rischio elevatissimo, come la LAL t(9;22)+, può essere indicata la ricerca di un donatore e l’esecuzione in tempi brevi (3-6 mesi) di un ALLO-MUD. Nuovi studi Naturalmente è augurabile che lo studio ECOG-MRC fornisca risposte definitive ad almeno alcune delle principali domande (4). Dati i divari non eccessivi ipotizzabili tra i vari gruppi di trattamento, lo studio dovrà includere una quantità enorme di pazienti, essere di lunga durata, ed assegnare a TAD pazienti con caratteristiche SR, il che può generare qualche problema etico. Altri studi innovativi di fase II potrebbero sviluppare alcuni punti critici. In generale, l’intero campo della immunoterapia/immunomodulazione dopo TAD deve essere rivisitato. L’esperienza più recente ha chiarito che la procedura AUTO-BCT è poco tossica, comporta un rapido recupero clinico-ematologico, ed è applicabile alla gran parte dei pazienti in RC. Estrapolando ed unificando questi concetti, sembrerebbe possibile somministrare TAD con metodo cumulativo, mediante cicli successivi sub-ablativi supportati da BCT (“mini”AUTO-BCT?). Con alcuni innegabili vantaggi: ricoveri brevi, effetti collaterali limitati, ridotta incidenza di complicanze, incremento della intensità di dose, possibilità di concatenamento di farmaci non crossresistenti. Come esempio di studio innovativo pilota 146 forniamo alcuni dettagli sul programma 08-96 per LAL HR di linea B cellulare. Lo studio si propone di valutare la fattibilità e l’efficacia terapeutica di un programma di brecve durata ad alte dosi (blocchi con ciclofosfamide, citarabina, methotrexate), con fase finale AUTOBCT (condizionamento melphalan e TBI; BCT purificato mediante deplezione immunomagnetica a due stadi, con una sensibilità del rilevamento PCR di 10-6) (45,46). Lo schema è risultato fattibile e può indurre RC prolungata totalmente “off-therapy”, con risultati apprezzabili nella LAL t(9;22)- (13 pazienti, 5 recidive). Per la LAL t(9;22)+ (6 pazienti, 5 recidive), è attualmente al vaglio un incremento dell’intensità di trattamento, da conseguirsi con un doppio AUTO-BCT (il primo con busulfano) e con l’ aumento della dose di melphalan. Conclusioni Sottoporre a TAD un paziente con LAL in prima RC significa affidare quasi irrevocabilmente ad una procedura ad alta intensità e di breve durata le sorti di tale individuo. Le probabilità di cura possono essere elevate, ma l’induzione di tossicità importante è certa, indipendentemente dalla classe di rischio e quindi dalla curabilità con schemi convenzionali. La TAD con supporto ALLO è proponibile a circa il 30% dei pazienti, e ciò limita fortemente l’impatto globale del trattamento nonchè la nostra comprensione dei suoi reali effetti terapeutici a lungo termine e nelle diverse classi prognostiche. Per motivi parzialmente sovrapponibili è altrettanto illusorio ritenere che la TAD con AUTO sia esente da critiche e controindicazioni. Ma poichè sia ALLO che AUTO hanno espresso forti potenzialità terapeutiche, la ricerca delle soluzioni ai problemi elencati può fortunatamente continuare. Ringraziamenti Hanno partecipato agli studi istituzionali citati (1972-1999): T.A. Lister, A.Z.S. Rohatiner (Londra); E. Di Bona, R. Battista, A. D’Emilio, F. Rodeghiero, E. Dini (Vicenza); E. Pogliani, G. Corneo (Monza); G. Rossi, T. Izzi (Brescia); G. Lambertenghi-Deliliers (Milano); P. 147 Fabris, P. Coser (Bolzano); A. Porcellini, S. Morandi (Cremona); P. Casula, G. Broccia (Cagliari); M. Vespignani, T. Chisesi (Venezia). Referenze 1. Hoelzer D. In: Freireich et al.’s Medical management of hematological malignant diseases, Marcel Dekker; 1998. pp.19-58. 2. Bassan R, et al. Ann Hematol 1999; 78 (suppl 2): S9 (abstract). 3. Zhang M-J, et al. Ann Intern Med 1995; 123: 428-431. 4. Rowe JM. Leukemia 1997; 11 (suppl 4):S12-S14. 5. Labopin M, Gorin NC. Leukemia 1992; 6 (suppl 4): 95-99. 6. Kantarajian HM, et al. J Clin Oncol 1990; 8: 994-1004. 7. Kantarjian H, et al. Blood 1995; 86 (Suppl. 1): 173a (abstract). 8. Tiley C, et al. Bone Marrow Transplant 1993; 12: 449-455. 9. Powles R, et al. Bone Marrow Transplant 1995; 16: 241-247. 10. Bassan R, et al. Br J Haematol 1999; 104: 755-762. 11. Lerede T, et al. Haematologica 1996; 81: 442-449. 12. Singhal S, et al. Blood 1997; 90 (Suppl 1): 235a (abstract). 13. Bernasconi C, et al. Leukemia 1992; 6 (suppl 2): 204-208. 14. Attal M, et al. Blood 1995; 86: 1619-28. 15. Fière D, et al. J Clin Oncol 1993; 11: 1990-2001. 16. Fière D. Ann Hematol 1999; 78 (suppl 2): S8 (abstract). 17. Forman SJ, et al. Blood 1995; 86 (suppl 1): 616a (abstract). 18. Ribera JM, et al. Bone Marrow Transplant 1999; 23 (suppl 1): S8 (abstract). 19. Uckun FM, et al. New Engl J Med 1993; 329: 1296-1301. 20. Miller CB, et al. Blood 1991; 78: 1125-1131. 21. Ringden O, et al. Br J Haematol 1996; 93: 637-645. 22. Snyder DS, et al. Ann Hematol 1999: 78 (suppl2): S9 (abstract). 23. Shank B. In: Forman et al.’s, Bone marrow transplantation.Blackwell Scientific Publications, 1994. p. 96-113. 148 24. Uckun FM, Song CW. Blood 1993; 81: 1323-1332. 25. Uckun FM, et al. Blood 1991; 78: 2945-2955. 26. Arnold R, et al. Blood 1996; 88 (suppl 1): 614a (abstract). 27. Kröger, et al. Bone Marrow Transplant 1998; 22: 1029-1033. 28. Laporte M, et al. Bone Marrow Transplant 1998; 21 (Suppl. 1): S12 (abstract). 29. Weyman C, et al. Bone Marrow Transplant 1993; 11: 43-50. 30. Deconinck E, et al. Bone Marrow Transplant 1997; 20: 731-735. 31. Deane M, et al. Bone Marrow Transplant 1998; 22:1137-1143. 32. Gilmore MJM, et al. Bone Marrow Transplant 1991; 8: 19-26. 33. Janossy G, et al. Leukemia 1998; 2: 485-495. 34. Martin H, et al. In: Hiddeman et al.’s Acute Leukemias VII, Springer-Verlag, 1998. pp. 771-778. 35. Stryckmans P, et al. Blood 1998; 90 (Suppl. 1): 183a (abstract). 36. Laporte JP, et al. Blood 1994; 84: 3810-3818. 37. Zikos P, et al. Haematologica 1998; 83: 896-903. 38. Copelan EA, et al. J Clin Oncol 1992; 10: 237-242. 39. Nagafuji K, et al.Br J Haematol 1993; 85: 578-583. 40. van Rhee F, et al. Leukemia 1995; 9: 329-335. 41. Seriu T, et al. Leukemia 1995; 9: 615-623. 42. Finke J, et al. Bone Marrow Transplant 1999; 23 (suppl 1): S14 (abstract). 43. Cornelissen JJ, et al. Blood 1998; 92 (suppl 1): 144a (abstract). 44. D’Sa, et al. Bone Marrow Transplant 1999; 23: 695-696. 45. Bassan R, et al. Ann Hematol 1999; 78 (suppl 2): S38 (abstract). 46. Rambaldi A, et al. Blood 1998; 91: 2189-2196. 149 Tabella 1. Risultati principali degli studi randomizzati TAD nella LAL dell’adulto in prima RC. ___________________________________________________________________________________________ Studio N. casi Random N. randomizzati, EFS randomizzati, N. trattati EFS trattati (a >3 anni) ___________________________________________________________________________________________ PV-TO-GE BGMT FGTAALL West Coast PETHEMA 96 135 572 117 118 ALLO vs AUTO 16 vs 14 vs 15, 48% vs 45% vs 38%, vs CHEMIO 11 vs 9 vs 15 65% vs NR ALLO vs AUTO 43 vs 77, 68% vs 26%, 41 vs 64 71% vs 30% ALLO vs AUTO 116 vs 95 vs 96 44% vs 39% vs 32%, vs CHEMIO 98 vs 63 vs 96 47% vs 51% vs 32% ALLO vs CHEMIO 39 vs 66, NR, 37 vs 66 66% vs 55% (a 2 anni) ALLO vs AUTO 42 vs 25 vs 24, 32% vs 42% vs 24%, vs CHEMIO NR NR ___________________________________________________________________________________________ NR, non riportato 150 VACCINOTERAPIA NEI DISORDINI LINFOPROLIFERATIVI M. Massaia, A. Pileri Divisione di Ematologia dell’Universita’ di Torino, Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista, Torino, Italy 151 Razionale e premesse Le basi dell’immunita’ adottiva sono la diversita’ recettoriale, la memoria immunologica e la capacita’ di discriminare il «self» dal «non-self». La vaccinazione profilattica contro gli agenti infettivi sfrutta queste proprieta’ e rappresenta il classico esempio di manipolazione efficace del sistema immunitario. La vaccinazione a scopo protettivo contro le cellule tumorali cerca di sfruttare le stesse proprieta’ dell’immunita’ adottiva, ma i progressi finora non sono stati altrettanto rapidi. La definizione molecolare degli antigeni tumore-specifici, la conoscenza dei meccanismi che regolano l’attivazione dei linfociti T e dei meccanismi di escape tumorale hanno consentito negli ultimi anni la messa a punto di strategie vacciniche piu’ razionali. Gli scopi specifici di tali strategie sono quelli di rompere la tolleranza immunologica, che protegge nell’ospite le cellule tumorali, ed attivare in modo specifico i meccanismi effettori dell’immunita’ adottiva. Il risultato finale dovrebbe essere quello di generare una risposta immune tumore-specifica, protettiva e di lunga durata. 152 Il mieloma multiplo (MM) e’ tuttora una neoplasia ad esito fatale con una sopravvivenza mediana inferiore ai 4 anni (1,2). La chemioterapia ad alte dosi seguita dal trapianto autologo con cellule midollari o progenitori emopoietici circolanti (PBPC) ha sicuramente aumentato la percentuale di remissioni complete (CR) e la durata della remissione stessa (3-5). Ciononostante, la presenza di cellule tumorali residue e’ invariabilmente documentata nella fase di remissione, anche dopo procedure ripetute di autotrapianto (6). La conseguenza e’ che tutti i pazienti con MM sono destinati progressivamente a ricadere e la sopravvivenza globale e’ finora solo lievemente migliorata. Un problema analogo e’ incontrato nel trattamento dei linfomi, dal momento che le terapie convenzionali non sono in grado di curare una percentuale rilevante di pazienti. In particolare, e’ tuttora problematico il trattamento ottimale dei linfomi a basso grado di malignita’ dove sono stati tentati approcci sia conservativi che aggressivi (7,8). La maggior parte delle terapie sistemiche sono effettivamente in grado di indurre un’elevata percentuale di CR e cicli piu’ intensivi, quando applicati a categorie selezionate di pazienti ad alto rischio, hanno migliorato la durata della remissione libera da malattia. Rimane il problema della ricaduta che indica come spesso non ci sia stata eradicazione della malattia. Sono quindi state applicate le procedure trapiantologiche anche ai linfomi a basso grado. La chemioterapia ad alte dosi seguita dall’infusione di PBPC e’ in grado di indurre una remissione molecolare in circa il 70% dei pazienti con linfoma follicolare ed il 12% dei linfomi mantellari (9). Tuttavia, anche in questo caso non e’ stato possibile identificare una fase di plateau 153 nella curva di sopravvivenza libera da malattia e rimane da essere formalmente provato, in studi randomizzati, la superiorita’ di tali strategie sulla sopravvivenza globale a lungo termine. Infine, c’e’ da tenere conto che una quota rilevante di pazienti con linfoma a basso grado non ottiene la remissione molecolare anche dopo autotrapianto. La persistenza di malattia minima residua, identificata a livello molecolare con metodiche di PCR, e’ correlata con una prognosi peggiore perche’ la ricaduta e’ piu’ probabile, piu’ precoce ed i trattamenti di salvataggio meno efficaci. Una possibilita’ per cercare di migliorare le prospettive cliniche dei pazienti con MM e linfoma a basso grado potrebbe essere quella di prolungare la durata della fase di remissione inducendo una risposta immune specifica contro le cellule tumorali residue. I vaccini tumorali hanno effettvamente questa potenzialita’, soprattutto in fase di malattia minima residua, quando un’ulteriore intensificazione della terapia non e’ generalmente di alcun beneficio al paziente, sia per lo sviluppo di farmacoresistenza, sia per gli effetti tossici collaterali. Il MM ed i linfomi B sono costituiti da espansione clonali di cellule linfoidi che hanno riarrangiato i geni delle immunoglobuline. Ogni immunoglobulina contiene degli epitopi (che coincidono generalmente con le sequenze di massima variabilita’ deputate al riconoscimento antigenico) che possono essere riconosciuti dal sistema immunitario dell’ospite e che sono definiti singolarmente idiotopi e collettivamenti idiotipo. L’idiotipo e’ espresso in modo cosi’ specifico da ogni linfocita B che e’ ritrovabile solo ed esclusivamente nella sua progenie. In questo senso, l’idiotipo 154 espresso da linfociti B tumorali puo’ essere considerato come un marker tumorespecifico ed utilizzato come bersaglio di una risposta immune tumore-specifica. Modelli animali hanno dimostrato che l’uso di apteni, come la KLH, e di adiuvanti o citochine, come GM-CSF e IL-2, aumentano notevolmente l’immunogenicita’ dell’idiotipo che diventa in grado di generare una risposta immune capace di proteggere l’animale dall’esposizione successiva a cellule tumorali esprimenti quel dato idiotipo (11). Sulla base di questi dati sperimentali, i vaccini idiotipici sono stati introdotti nella clinica e sono stati utilizzati nei pazienti con linfoma a basso grado e nei pazienti con MM. La vaccinazione idiotipica nei linfomi Il primo studio di vaccinazione idiotipica e’ stato condotto in 9 pazienti che si trovavano in CR o in remissione parziale. Essi sono stati immunizzati mediante somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo coniugato alla KLH ed emulsionato in un adiuvante immunologico (12). E’ stata documentata la generazione di una risposta immune (umorale e/o cellulare) anti-idiotipo in 7/9 pazienti. Due pazienti che presentavano delle localizzazioni clinicamente evidenti prima della vaccinazione hanno mostrato una riduzione delle localizzazioni stesse. Questi risultati sono stati confermati in uno studio successivo che ha coinvolto 41 pazienti, inizialmente trattati con chemioterapia convenzionale (13). Questi pazienti sono stati trattati con somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo coniugato alla KLH ed emulsionato 155 in un adiuvante immunologico. Circa il 50% dei pazienti ha generato una risposta immune idiotipo-specifica. La durata mediana della sopravvivenza libera da malattia e’ risultata significativamente aumentata rispetto ad un gruppo storico di controllo e cio’ si e’ tradotto in un vantaggio in termini di sopravvivenza. Questo e’ il primo studio che dimostra come la vaccinazione idiotipica sia in grado di produrre un beneficio clinico nei linfomi a basso grado, anche se sono necessari studi prospettici randomizzati per una dimostrazione formale. Non e’ stato possibile valutare in modo adeguato l’effetto citoriduttivo sulla massa tumorale, in quanto la maggior parte dei pazienti si trovava gia’ in remissione. Inoltre, il monitoraggio immunologico non era specificatamente diretto a valutare la generazione di una risposta citotossica tumore-specifica. E’ attualmente in corso uno studio, condotto dal Dr. L. Kwak presso il NCI di Bethesda, il cui scopo e’ appunto quello di valutare la capacita’ dei vaccini idiotipici di indurre dei linfociti T citotossici in grado di lisare le cellule tumorali autologhe ed ottenere l’eradicazione della malattia in vivo. Risultati preliminari dimostrano che la somministrazione sottocutanea di idiotipo autologo, coniugato a KLH in presenza di GM-CSF come immunoadiuvante, e’ effettivamente in grado di indurre dei linfociti citotossici tumore-specific e di eliminare dal sangue periferico le cellule tumorali residue. Questo studio e’ condotto in pazienti con linfoma follicolare che si trovano in remissione dopo chemioterapia intensiva e la malattia minima residua e’ monitorata mediante PCR. 156 Lo sviluppo di strategie immunoterapiche nei linfomi ha anche preso in considerazione l’uso delle cellule dendritiche (DC), nella convinzione che le APC piu’ efficienti siano anche quelle in grado di indurre le risposte anti-tumorali piu’ efficienti. Modelli sperimentali murini hanno dimostrato che e’ possibile indurre un’immunita’ specifica anti-idiotipo immunizzando gli animali con DC pulsate con l’idiotipo (14). La fattibilita’ ed efficacia di tale approccio e’ stata quindi valutata nei pazienti con linfoma (15). Sono stati studiati 4 pazienti affetti da linfoma follicolare che presentavano malattia residua dopo chemioterapia convenzionale. Essi sono stati sottoposti a 3 infusioni di DC autologhe, purificate direttamente dal sangue periferico, le quali sono state pulsate con l’idiotipo autologo e quindi reinfuse endovena. All’infusione di DC sono quindi seguite 5 somministrazioni sottocutanee di coniugato Id/KLH. Tutti i pazienti hanno sviluppato una risposta T idiotipo-specifica ed in tutti i casi e’ stata osservata una riduzione della massa tumorale. Vaccinazione idiotipica nel MM In uno studio pilota sono stati studiati 5 pazienti con MM i quali sono stati ripetutamente sottoposti a somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo precipitato in una sospensione di fosfato di alluminio come adiuvante (16). Quattro pazienti non erano mai stati trattati in precedenza, mentre il quinto si trovava in una fase di remissione parziale stabile dopo chemioterapia convenzionale. Il monitoraggio immunologico ha dimostrato che 3/5 pazienti hanno generato rispose umorali e 157 cellulari idiotipo-specifiche, anche se di intensita’ modesta e di durata breve. Lo stesso gruppo svedese ha quindi cercato di perfezionare la formulazione vaccinica nell’intento di indurre una risposta cellulare anti-idiotipo piu’ efficace e duratura. Il protocollo e’ stato quindi applicato ai MM in fase iniziale, perche’ nel sangue periferico di questi pazienti e’ presente una quota di linfociti T idiotipo-reattivi potenzialmente in grado di essere reclutati dal vaccino (17). La maggior parte di questi linfociti producono citochine Th1 a seguito della stimolazione in vitro con l’idiotipo autologo, mentre nei MM in stadio avanzato prevalgono i linfociti Th2. Si e’ quindi ritenuto opportuno vaccinare nel momento in cui la frequenza di linfociti T in grado di sviluppare una risposta citotossica idiotipo-specifica fosse piu’ alta. In questo studio, i pazienti hanno ricevuto una serie di somministrazioni sottocutanee di idiotipo autologo precipitato in fosfato di alluminio associato a GM-CSF ed e’ stata dimostrato che tutti i pazienti hanno generato delle risposte cellulari idiotipo-specifiche ben documentabili e di lunga durata. In un caso, e’ stata anche osservata una diminuzione della componente monoclonale sierica a seguito della vaccinazione (18). Anche presso la nostra Istituzione e’ stata messo a punto un protocollo di vaccinazione basato sull’uso di idiotipo autologo coniugato a KLH che viene somministrato per via sottocutanea in presenza di GM-CSF o IL-2 come immunoadiuvanti. Sono stati inizialmente trattati 8 pazienti in recidiva o con malattia resistente ed abbiamo confermato che il trattamento e’ ben tollerato e puo’ essere 158 somministrato in regime ambulatoriale. Abbiamo osservato un risultato interessante in 2 pazienti nei quali la malattia e’ rimasta stabile per 20 mesi in assenza di altri trattamenti. Abbiamo quindi deciso di valutare l’uso della vaccinazione idiotipica come terapia di mantenimento dopo chemioterapia ad alte dosi e infusione di PBPC (19). Esistono numerose evidenze sperimentali che sottolineano come sia piu’ importante la fase della malattia in cui il vaccino e’ somministrato rispetto al numero di somministrazioni o alla durata del trattamento vaccinico. Nel caso del MM, molte delle anomalie fenotipiche e funzionali che caratterizzano i linfociti T sono regredite in fase di malattia minima residua. Inoltre, a questo punto si e’ creato un rapporto tra cellule effettrici e cellule target molto favorevole nei confronti dell’ospite. Infine, la presentazione dell’idiotipo in forma immunogena durante la ricapitolazione dell’omeostasi T linfocitaria che avviene dopo l’autotrapianto potrebbe facilitare la rottura della tolleranza nei confronti dell’idiotipo stesso. Sono stati inseriti 12 pazienti in questo protocollo, dall’Agosto 1995 al Gennaio 1998. Undici pazienti hanno completato il trattamento, mentre 1 paziente non e’ riuscito a terminarlo a causa della progressione della malattia. Degli 11 pazienti che hanno completato il trattamento, 5 sono rimasti in remissione per un periodo compreso tra 12 e 35 mesi (dati aggiornati a fine Maggio1999), mentre 6 pazienti sono ricaduti in un periodo compreso tra i 9 ed i 36 mesi. La durata della remissione e’ stata calcolata a partire dall’inizio del vaccino. E’ stata osservata la generazione di risposte proliferative specifiche all’idiotipo in 2/12 pazienti, mentre e’ stata documentata in 8/10 pazienti una risposta positiva alla 159 reazione di ipersensibilita’ ritardata (DTH) all’idiotipo autologo. In un caso, abbiamo potuto dimostrare la specificita’ della DTH utilizzando dei peptidi sintetici derivati dalla regione variabile della catena pesante prodotta dalle cellule tumorali. In nessun caso, i pazienti hanno generato risposte solubili contro l’idiotipo (a differenza di quanto osservato nei linfomi), mentre abbiamo osservato che le risposte nei confronti della KLH sono state frequenti sia in termini di produzione di anticorpi (100% dei vaccinati), sia in termini di risposta proliferativa (80% dei vaccinati). Questi dati hanno dimostrato che: 1) il sistema immunitario dei pazienti con MM e’ in grado di generare risposte immuni contro l’idiotipo anche dopo autotrapianto; 2) le DTH rappresentano un test di semplice esecuzione ed affidabile per dimostrare che il vaccino e’ stato efficace nell’indurre in vivo una risposta immune anti-idiotipo; 3) l’immunita’ anti-idiotipo, per quanto specifica e duratura, non e’ in grado di esercitare un effetto citoriduttivo sulle cellule tumorali, anche in presenza di malattia minima residua. E’ quindi possibile che questo protocollo abbia indotto un’immunita’ anti-idiotipo in grado di esercitare un effetto regolatorio sulle cellule tumorali piuttosto che citotossico. Rimane da verificare se una risposta immune di questo tipo sia capace di migliorare la durata della remissione rispetto alle terapie di mantenimento che non hanno effetto immunomodulante. Uno studio recente ha anche esaminato la possibilita’ di utilizzare DC pulsate con l’idiotipo autologo come terapia di mantenimento dopo autotrapianto con PBPC (20). Come nello studio precedentemente riportato nei linfomi, sono state purificate dal 160 sangue periferico le DC mature circolanti, le quali sono state pulsate con l’idiotipo autologo e quindi infuse 2 volte per via endovenosa in un periodo compreso tra i 3 ed i 7 mesi dopo l’autotrapianto. Le infusioni di DC sono quindi state seguite da 5 somministrazioni sottocutanee di idiotipo coniugato a KLH. I risultati ottenuti sono molto simili a quelli osservati nel nostro protocollo. In particolare, solo 2/12 pazienti hanno sviluppato una risposta proliferativa all’idiotipo autologo, ma e’ stato dimostrato in un paziente su 3 che il vaccino ha indotto linfociti T citotossici in grado di riconoscere selettivamente e lisare un bersaglio costituito da fibroblasti autologhi trasdotti con l’idiotipo. Infine, anche in questo studio, la maggior parte dei pazienti ha generato una risposta proliferativa alla KLH, confermando quindi che lo stato di immunocompetenza dei MM dopo autotrapianto non e’ definitivamente compromesso. Prospettive future Le cellule deputate a presentare l’antigene (APC) hanno un ruolo centrale nello sviluppo dei vaccini per i disordini linfoproliferativi. Le uniche esperienze finora pubblicate riguardano le DC mature isolate dal sangue periferico. Il numero di queste cellule, tuttavia, e’ molto basso (circa l’0.1% delle cellule monucleate circolanti) e quindi e’ molto difficile e laborioso isolarle in quantita’ e purezza adeguate. Le DC sono tuttavia una popolazione cellulare molto eterogenea e DC molto efficienti possono essere ottenute anche da altri tipi di cellule quali: cellule mononucleate del midollo, progenitori CD34+ del midollo, progenitori CD34+ del sangue periferico mobilizzati 161 con fattori di crescita dopo chemioterapia, progenitori CD34+ isolati dal sangue di cordone ombelicale ed monociti isolati dal sangue periferico (21). La possibilita’ di generare ex-vivo le DC, utilizzando le citochine ed i fattori di crescita piu’ appropriati, consente anche di modulare e potenziare le loro proprieta’ funzionali e forzare la risposta T linfocitaria in senso Th1 piuttosto che Th2. Al momento non e’ ancora chiaro quale sia l’immunogeno migliore per pulsare le DC ex-vivo; possono essere utilizzati lisati ottenuti da cellule tumorali intere, idiotipo purificato, peptidi sintetici corrispondenti alle regioni ipervariabili dell’idiotipo, cosi’ come potrebbero essere utilizzati antigeni tumorali diversi dall’idiotipo stesso. E’ chiaro che il polimorfismo delle molecole HLA condiziona la messa a punto dei vaccini che prevedono una risposta T cellulare mediata dalle DC. Certamente l’uso di lisati cellulari o di molecole intere come l’idiotipo ha il vantaggio di offrire l’intera gamma di sequenze peptidiche potenzialmente immunogeniche e quindi c’e un minore rischio di restrizione da parte delle molecole HLA. Gli inconvenienti di tale approccio sono che i peptidi tumorespecifici potrebbero non raggiungere una concentrazione sufficiente per attivare una risposta tumore-specifica, perche’ fortemente diluiti in una quantita’ molto maggiore di peptidi non immunogenici o non tumore-specifici. Una conseguenza potrebbe essere quella di indurre risposte autoimmuni anziche’ antitumorali. Inoltre, non e’ detto che peptidi differenti, derivati dallo stesso antigene tumorale, possano stimolare con la stessa efficacia in associazione agli alleli HLA specifici di ciascun individuo. L’uso di peptidi sintetici offre alcuni vantaggi, ma anche alcuni inconvenienti come la maggiore 162 restrizione HLA, il rischio di indurre tolleranza e favorire l’emergenza di cloni tumorali che non esprimono quel determinato peptide. Dati recenti dimostrano pero’ che l’uso di DC puo’ evitare il rischio di indurre tolleranza quando si utilizzano vaccini peptidici (22), perche’ la presentazione di un peptide da parte della DC e’ fisiologica, mentre non lo e’ quando avviene tramite cellule che non sono APC professionali. I B linfociti neoplastici possono diventare essi stessi delle APC efficienti e presentare in modo appropriato i peptidi derivati dai propri antigeni tumorali. Sono attualmente in corso alcune sperimentazioni precliniche e cliniche con questo obiettivo. Una prima possibilita’ e’ quella di fondere le cellule di mieloma con le DC. Il prodotto di fusione avra’ cosi’ le caratteristiche funzionali della DC, ma anche la possibilita’ di processare direttamente e presentare l’intero repertorio antigenico della cellula mielomatosa. Gli ibridi ottenuti dalla fusione di DC e cellule mielomatose sono gia’ stati utilizzati con successo come immunogeni in un modello sperimentale murino (23). Come alternativa, i linfociti B neoplastici possono essere trasformati in APC efficienti mediante la stimolazione della molecola di superficie CD40 con il suo ligando naturale CD40L (CD154). E’ stato infatti dimostrato che la stimolazione del CD40 rappresenta lo stimolo piu’ efficace per indurre o aumentare nei linfociti B l’espressione di molecole di adesione, costimolatrici o del sistema MHC. Il risultato di tali modulazioni fenotipiche e’ che sia i linfociti B normali che quelli neoplastici aumentano la loro capacita’ di processare l’antigene e diventano delle APC efficienti (24). 163 L’ingegnerizzazione genetica e’ un altro approccio capace di trasformare i linfociti B neoplastici in potenti APC. La transfezione con sequenze di DNA che codificano per citochine o molecole stimolatrici aumenta notevolmente la capacita’ dei B linfociti neoplastici di generare una risposta immune anti-tumorale. Questo approccio e’ stato recentemente utilizzato nel MM, sfruttando il fatto che le cellule mielomatose esprimono selettivamente dei recettori funzionali per gli adenovirus (23). Le cellule neoplastiche sono state transdotte con vettori adenovirali che contenevano i geni per l’IL-2, l’IL-12 o il CD80. E’ attualmente in corso un protocollo sperimentale di fase I nel quale pazienti con MM in remissione dopo chemioterapia ad alte dosi sono immunizzati con cellule mielomatose autologhe trasdotte con vettori adenovirali che codificano per l’IL-2. Infine, l’ingegneria genetica ha consentito lo sviluppo di una nuova generazione di immunogeni, rappresentati dai vaccini a DNA. Sono state assemblate le sequenze relative alla regione variabile della catena pesante e della catena leggera dell’immunoglobulina tumore-specifica e questi costrutti sono stati utilizzati per produrre proteine ricombinanti in batteri o come vaccini plasmidici (25). L’efficacia immunizzante e’ risulta migliore quando sono state inserite, come adiuvanti genici, delle sequenze specifiche per proteine xenogeniche. Sono anche in corso di messa a punto delle strategie che prevedono l’inserimento delle sequenze che codificano per la regione variabile dell’idiotipo nelle DC, utilizzando vettori retrovirali o adenovirali. Le DC cosi’ trasdotte possono essere utilizzate come immunogeni. Infine, un altro 164 approccio di terapia genica consiste nell’uso di gene-gun piuttosto che virus o plasmidi per inserire sequenze di DNA nelle cellule tumorali. Questo approccio e’ gia’ stato utilizzato con successo in un modello murino di mieloma (26). Ringraziamenti Questo lavoro e’ stato realizzato in parte con il contributo dell’AIRC (Milano) e della Compagnia San Paolo di Torino (Torino). References 1) Alexanian R, Dimopoulos M: The treatment of multiple myeloma. 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Le cellule dendritiche (DC) sono cellule professionali presentanti l’ antigene (APC) e come tali sono specializzate nella “cattura” e nella processazione di antigeni (Ag) in frammenti peptidici che sono successivamente complessati con le molecole del sistema MHC e presentati alle cellule T per iniziare la risposta immunitaria. Le DC sono le cellule più potenti nell’ indurre una risposta T-linfocitaria ed hanno la peculiare capacità di stimolare non solo cellule T-memoria ma soprattutto T-linfociti naive. Quindi, le DC hanno un ruolo centrale (“adiuvanti naturali”) per l’ induzione di una risposta immune Ag-specifica. Evidenze recenti in modelli sperimentali e nell’ uomo hanno mostrato il potenziale ruolo delle DC in strategie di immunizzazione dirette a stimolare un’ immunità specifica antitumorale. Caratterizzazione biologica delle DC Le DC sono cellule distribuite ubiquitariamente nel corpo umano, particolarmente nei tessuti che fungono da barriera con l’ambiente circostante ( per esempio, le cellule di Langerhans nella cute e a livello delle mucose) e negli organi linfoidi ( DC interdigitate), dove agiscono come “sentinelle” nei confronti degli agenti patogeni con cui l’organismo entra in contatto.Stimoli infiammatori, come TNF-α e IL-1β, batteri, prodotti batterici (LPS) e virus, inducono la migrazione delle cellule dendritiche, che hanno “caricato” l’antigene, dai tessuti periferici agli organi linfoidi secondari. Durante la migrazione, le DC subiscono 171 un processo di maturazione, che le porta ad incrementare enormemente la propria capacità di attivare le cellule T. Questo processo consiste nell’aumentata espressione di membrana di alcune molecole chiave nell’interazione tra APC e linfocita: molecole di adesione, molecole del sistema HLA e molecole di costimolazione (1-6). L’attività funzionale delle DC deriva da una serie di caratteristiche peculiari di queste cellule. La loro forma, caratterizzata da numerose estroflessioni citoplasmatiche e l’elevata espressione di membrana di alcune molecole di adesione ed integrine (LFA-3, ICAM-1, ICAM-3) estendono l’area di contatto con le cellule effettrici del sistema immunitario. Le DC esprimono intensamente gli antigeni HLA di classe II (HLA-RD, -DQ,-DP) e le molecole di costimolazione (CD80,CD86,CD40), le quali interagendo con il proprio ligando presente sui linfociti T (CD28, CTLA-4, CD40L), forniscono il “secondo segnale”, indispensabile per indurre al momento del riconoscimento antigenico una risposta proliferativa e non anergia (1). Inoltre, le DC producono un vasto numero di citochine, tra cui IL-12, che ha la funzione di promuovere una risposta immunitaria di tipo citotossico attraverso la differenziazione delle cellule TH0 in cellule TH1, producenti interferon (IFN)γ e IL-2 (7, 8). Recentemente è stato dimostrato che durante il riconoscimento antigenico, i linfociti T-helper attivano le DC mediante l’interazione CD40-CD40L e le DC così attivate sono capaci di stimolare una risposta T-killer (9-11). Le DC si trovano nei tessuti periferici in uno “stato immaturo” e sono incapaci di attivare i linfociti T perchè mancano di tutti i segnali di membrana necessari per la loro attivazione. A questo livello di differenziazione, tuttavia, sono estremamente efficienti nel catturare antigeni solubili, antigeni particolati e microorganismi mediante fagocitosi, macropinocitosi e attraverso il recettore macrofagico del mannosio ed i recettori Fcγ e Fcε (1). La cattura dell’antigene induce le DC a maturare e ad esprimere più intensamente 172 sulla membrana cellulare le molecole MHC e quelle di costimolazione, nonché gli antigeni associati al differenziamento in senso dendritico (CD83 e p55). Nel contempo, viene progressivamente perduta la capacità di catturare e processare l’antigene. Tuttavia, la completa attivazione delle DC dipende dal contatto con le cellule T attraverso l’interazione CD40-CD40L, che induce la produzione di IL-12. Pertanto, le funzioni principali delle DC (cattura dell’antigene, attivazione dei linfociti T) sono rigidamente associate a stadi successivi di differenziamento. A questo proposito, è interessante notare come IL-10 (12) e il vascular endothelial growth factor (VEGF), secreto dalle cellule neoplastiche (13) ostacolano la maturazione delle DC, inibendo l’efficace attivazione delle cellule T. Generazione ex-vivo di DC I monociti CD14+ circolanti, incubati con citochine specifiche, quali GM-CSF, IL-4 e TNF-α (14, 15) rappresentano la fonte più facilmente disponibile per la generazione ex-vivo di DC. Inoltre, sono stati individuati precursori delle DC nell’ambito della frazione cellulare CD34+ del midollo osseo (BM), del cordone ombelicale (CB) e del sangue periferico (PB) sia in condizione di steady-state che dopo mobilizzazione (16-22). Anche in questo caso il differenziamento delle cellule CD34+ a DC completamente funzionanti è rigidamente condizionato dalla stimolazione con alcune citochine ben determinate, quali GM-CSF, TNF-α, SCF, FLT-3L e IL-4. GM-CSF e IL-4 inducono il differenziamento di monociti CD14+ non proliferanti in DC immature, non aderenti, che esprimono a bassi livelli gli antigeni CD83 e p55 e sono scarsamente capaci di attivare linfociti T naive. Queste DC immature non sono completamente differenziate a regrediscono ad uno stato di cellule aderenti monocitoidi se le citochine impiegate vengono rimosse dal mezzo di coltura. L’aggiunta di citochine infiammatorie quali TNF-α, IL-1β, LPS o PGE2 per 1-2 giorni al 173 mezzo di coltura contenente GM-CSF e IL-4 determina la maturazione delle DC ed aumenta notevolmente la loro capacità di stimolare le cellule T. Complessivamente, queste osservazioni portano alla conclusione che DC immature, generate da cellule CD14+ in presenza di GM-CSF e di IL-4 si trovano in una condizione che le rende estremamente efficienti nel catturare e nel processare antigeni solubili, tra cui anche gli antigeni associati ai tumori (TAA). Tuttavia, tali cellule richiedono un ulteriore stimolo maturativo (TNF-α, CD40L, LPS) per diventare capaci di attivare le cellule T. Le DC immature sono il bersaglio ideale per la manipolazione genetica basata sull’impiego di vettori virali o batterici, infettanti cellule non replicanti. In questo caso, gli agenti patogeni trasformati sono di per sè capaci di indurre la completa maturazione delle DC. In alternativa, si possono studiare protocolli di vaccinazione basati sull’utilizzo di DC mature, che sono in grado di attivare una risposta T linfocitaria specifica per un determinato peptide associato con un tumore, anche senza averlo precedentemente catturato e processato, ma semplicemente complessandolo ab extrinseco alle numerose molecole HLA presenti sulla propria membrana cellulare (23). Come accennato in precedenza, le cellule CD34+ possono essere indotte a differenziare in DC funzionalmente competenti, aventi caratteristiche che le fanno assomigliare alle cellule di Langerhans della cute. Molto recentemente le caratteristiche fenotipiche e funzionali delle DC di derivazione da precursori CD34+ mobilizzati nel sangue periferico e della loro controparte derivante da cellule CD34+ midollari sono state oggetto di una comparazione (19). I risultati pubblicati dimostrano che il G-CSF, usato come regime di mobilizzazione, determina un incremento sia numerico che in termini di capacità proliferativa dei precursori delle DC (CFU-DC) rispetto alla loro controparte midollare. Questo si traduce nella generazione in coltura liquida di un più elevato numero di DC mature. Nonostante il 174 pretrattamento con G-CSF, queste cellule mantengono la stessa capacità di attivazione su linfociti T allogenici che caratterizza le DC di derivazione da precursori midollari. Le DC derivanti da cellule CD34+ sono, inoltre, capaci di processare e presentare antigeni solubili a linfociti T autologhi sia come risposta immunitaria primaria che secondaria. L’utilità del siero autologo al posto di FCS in una prospettiva di applicazione clinica è stata confermata anche in questo studio. Inoltre, IL-4 si è dimostrata capace di modulare il differenziamento dendritico dalle cellule CD34+ bipotenti, durante le ultime fasi della coltura, come osservato per le DC di derivazione dai monociti. Pertanto, per l’immunoterapia dei tumori le cellule CD34+ mobilizzate nel sangue periferico potrebbero rappresentare un’ottima sorgente per la generazione di DC. Inoltre, dati recenti dimostrano la mobilizzazione di un grande numero di precursori di DC mediante GMCSF (24) e FLT-3L (25). In particolare, il FLT-3L somministrato in-vivo a topi ha mostrato la capacità di stimolare la proliferazione ed il differenziamento di tutti i subsets di DC (mieloidi, linfoidi) (26) e di indurre una risposta immunitaria DC-mediata anti-tumorale (27). Delivery system di antigeni associati a tumori Sono stati descritti numerosi metodi utilizzati dalle DC per “caricare” gli antigeni tumorali o tumor associated antigens (TAA). Il razionale è basato sull’osservazione che le cellule tumorali sono scarsamente immunogeniche a causa di una deficiente capacità di essere riconosciute dai linfociti T e di una ridotta espressione di membrana di molecole di attivazione e di costimolazione, tipiche delle APC. In questa ottica, Gong et al. (28) hanno costituito un ibrido, rappresentato dalla fusione di DC murine e cellule di una linea di carcinoma della mammella (MC38) al fine di fornire alle cellule tumorali le caratteristiche 175 funzionali delle DC. Le cellule derivanti da questa fusione mostrano tutte le peculiarità fenotipiche delle DC e si sono dimostrate capaci di prevenire la crescita tumorale quando i topi sono stati esposti alle cellule della linea. Inoltre, il trattamento con le cellule di fusione ha indotto una regressione di alcune metastasi polmonari. Recentemente sono stati individuati numerosi peptidi tumorali che sono presentati ai linfociti T in associazione con le molecole HLA di classe I e si sono dimostrati utili nell’induzione di una risposta CTL autologa sia in vitro che in vivo. Tuttavia, stimolare le DC con peptidi potrebbe non essere il sistema ideale per un’applicazione clinica a causa della rigida restrizione MHC della risposta immunitaria e della loro limitata stabilità. Inoltre, il “pulsing” con i peptidi potrebbe non essere in grado di indurre una risposta T-cellulare diretta contro le cellule tumorali che esprimono l’antigene vero e proprio. Sebbene le DC possano essere “caricate” con un cocktail di peptidi derivanti da diversi antigeni, tutti appartenenti allo stesso tumore, questo approccio alla vaccinazione è limitativo in quanto rende necessaria una selezione dei pazienti sulla base del fenotipo HLA. Un’alternativa affascinante è rappresentata dall’impiego, quando possibile, di proteine non frazionate di derivazione tumorale, di cellule apoptotiche (29), o lisati tumorali. Nell’ultimo caso l’ovvio svantaggio è costituito dalla possibilità di indurre una risposta immunitaria contro antigeni self, espressi su tessuti diversi dalle cellule tumorali. Una ulteriore possibilità è rappresentata dalla trasduzione delle DC con vettori genici codificanti per TAA. Le DC possono essere ingegnerizzate in diversi modi, che si distinguono tra di loro per la capacità di applicarsi a cellule quiescenti, per la stabilità dell’integrazione genomica, per l’efficienza di trasfezione e per la capacità di stimolare il sistema immune. Le DC transdotte con retrovirus esprimono in modo costitutivo la sequenza genica codificante per l’antigene tumorale e stimolano efficacemente una 176 risposta T-cellulare specifica (30). Tuttavia, i vettori retrovirali sono caratterizzati da una bassa efficienza di trasfezione, sono in grado di infettare esclusivamente cellule attivamente replicantesi e possiedono il rischio teorico di una trasformazione oncogenica delle cellule bersaglio. Al contrario, gli adenovirus infettano sia cellule quiescenti che proliferanti e non si integrano nel DNA (31). Inoltre, sovranatanti con un alto titolo virale si possono facilmente ottenere. Recentemente, le DC sono state ingegnerizzate con adenovirus combinati con particelle liposomiali cationiche, ottenendo una efficienza di infezione che si avvicinava al 100% (32). La principale limitazione all’uso clinico degli adenovirus è rappresentata dalla loro alta immunogenicità che induce la produzione di anticorpi neutralizzanti ed il rapido sviluppo di CTL diretti contro le cellule infettate. Vettori allestiti utilizzando vaccinia virus non inducono trasformazione neoplastica, non si integrano nel genoma e possono essere manipolati al fine di veicolare grandi frammenti di DNA eterologo (33). Tuttavia, questi virus sono tossici per le cellule bersaglio e la vitalità delle DC si approssima al 50%. Più recentemente, l’infezione delle DC con vettori batterici si è dimostrata capace di indurre la loro maturazione, in termini di nuova sintesi, traslocazione e stabilizzazione delle molecole MHC sulla superficie cellulare ed inoltre di attivare una risposta T-cellulare sia CD4 che CD8 (34). Di conseguenza, un antigene modello (ovoalbumina) espresso sulla superficie di una variante ricombinante di Streptococco Gordonii è processato dalle DC e presentato sulle molecole MHC di classe I con una efficienza 106 volte maggiore rispetto alla proteina solubile di ovoalbumina. Pertanto, i vettori batterici sono potenzialmente utili per veicolare antigeni esogeni all’interno delle DC al fine di stimolare una risposta CTL tumore specifica. Molto recentemente, batteri trasformati sono stati somministrati per os nel topo per indurre una specifica risposta anti-tumorale in-vivo ed il meccanismo di azione si è visto essere 177 mediato dalle DC (35). Un approccio differente è stato seguito da Boczkowsky et al (36), che hanno transfettato le DC con l’RNA totale estratto dalle cellule tumorali e combinato con lipidi cationici al fine di amplificare l’efficienza di infezione. Analogamente all’uso dei lisati tumorali, questa strategia può essere applicata a quei casi in cui manca un marker antigenico tumore specifico, anche se esiste il rischio di indurre una risposta di tipo autoimmune. Impiego delle DC nell’immunoterapia cellulare Il ruolo centrale delle DC nell’induzione di una risposta immunitaria tumore-specifica è stato ampiamente dimostrato sia in vitro che in modelli animali (30, 36-41). Mentre le DC murine “pulsate” con proteine o peptidi tumorali oppure ingegnerizzate con geni codificanti per TAA si sono dimostrate capaci di indurre un rigetto di cellule tumorali impiantate artificialmente e la regressione di carcinomi preformati, rimane da stabilire quale delle numerose strategie di immunoterapia cellulare proposte risulti essere quella più efficace. Non è da escludere che differenti tipi di tumore possano richiedere differenti approcci. Nell’uomo, studi preliminari sono stati realizzati in pazienti affetti da melanoma utilizzando le DC “pulsate” con il peptide MAGE (42, 43). L’iniezione delle DC veicolanti il peptide induceva la migrazione di CTL MAGE-specifici nel sito di iniezione ed aumentava il numero di CTL tumore specifici circolanti. Più recentemente, Nestle et al. (44) hanno sottoposto pazienti, affetti da melanoma in stadio avanzato e tipizzati per quanto riguarda il profilo HLA, ad iniezioni intranodali di DC “pulsate” con peptidi o lisati tumorali. Gli autori hanno riportato l’induzione di una risposta T-cellulare peptidespecifica in tutti i casi. Inoltre, in 5 pazienti su 16 si è verificata una risposta clinica 178 obiettiva. In questo studio, le DC erano state generate ex-vivo a partire da monociti in presenza di IL-4 e GM-CSF ed iniettate direttamente in un linfonodo inguinale al fine di raggiungere le aree T-dipendenti. Peptidi tumorali (frammenti dell’antigene specifico della prostata, PSA) sono stati impiegati per stimolare le DC in pazienti con carcinoma della prostata resistenti alla terapia ormonale (45). Sette su 51 pazienti hanno mostrato una parziale risposta mentre nessuno dei pazienti del gruppo di controllo, cui era stato iniettato il peptide da solo, ha evidenziato alcuna risposta. Nelle neoplasie della linea B, la sequenza genica pazientespecifica dell’idiotipo (Id) e la proteina codificata rappresentano il target ottimale per strategie di vaccinazione, come dimostrato in precedenza in modelli murini e nell’uomo. Hsu et al hanno riportato il caso di 4 pazienti affetti da linfoma non-Hodgkin (NHL) a basso grado resistenti alla chemioterapia convenzionale o ricaduti e trattati con DC “ pulsate” con l’idiotipo come antigene solubile (46). Una risposta T-cellulare tumore specifica è stata osservata in tutti i casi, associata in un caso ad una regressione della massa tumorale. A tutt’oggi, sono stati trattati 16 pazienti ed una risposta cellulare tumore specifica è stata osservata in 8 pazienti (R. Levy, comunicazione personale). La stessa strategia basata sull’idiotipo è stata proposta dallo stesso gruppo per indurre una risposta immunitaria T-cellulare in pazienti con mieloma multiplo (47). Peraltro, in quest’ ultimo caso si è avuta una risposta Id-specifica solo in 2/12 pazienti. Contrariamente a Nestle, in questi studi preliminari le DC sono state isolate direttamente dal sangue periferico attraverso cicli successivi di arricchimento e sono state poi reinfuse per via endovenosa. Sebbene un numero nettamente superiore di DC siano state somministrate nei pazienti con NHL rispetto ai pazienti affetti da melanoma (3-20 × 106 DC vs 1×106), questo approccio presenta alcuni interrogativi sia per quanto riguarda la capacità di DC isolate direttamente 179 dal sangue periferico di stimolare efficacemente le cellule T sia la capacità delle APC veicolanti l’idiotipo di raggiungere gli organi linfatici secondari, superando l’intrappolamento da parte del filtro polmonare. In conclusione, i pochi dati clinici disponibili tendono a dimostrare che cellule dendritiche autologhe, generate ex-vivo e reinfuse in pazienti affetti da neoplasie, sono efficaci nell’indurre una risposta immune anti-tumorale. Questo è il risultato di una complessa rete di relazioni tra diverse popolazioni cellulari, coinvolte nell’immunità dei tumori. Peraltro, l’immunoterapia cellulare basata sulle DC deve essere ancora standardizzata. Allo stadio attuale e sulla base principalmente di studi su modelli animali, possiamo dire che l’immunoterapia dei tumori basata sulle DC potrebbe essere lo strumento per esercitare nell’uomo un potente effetto anti-tumore. 180 BIBLIOGRAFIA 1) Bancherau J, Steinman, RM. Dendritic cells and the control of immunity. Nature 1998; 392: 245-52. 2) Guery JC, Adorini L. Dendritic cells are the most efficient in presenting endogenous naturally processed self-epitopes to class II-restricted T cells. 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Le “cellule staminali mesenchimali” (MSCs), dotate di capacità di automantenimento e di pleiotropica capacità differenziativa in senso osteoblastico, condrocitario, adipocitario, mioblastico e fibroblastico sono anche denominate “cellule stromali midollari”, data la loro capacità di generare le cellule del microambiente midollare (3,4). Le cellule stromali del microambiente midollare sono fortemente eterogenee essendo costituite oltre che dalla progenie delle MSCs anche da cellule endoteliali e macrofagi (questi ultimi benchè generati dalla HSC vengono considerati componenti funzionali dello stroma) (5,6). Dal punto di vista funzionale, le cellule mesenchimali e non-mesenchimali del microambiente midollare e i loro prodotti biosintetici giocano un ruolo fondamentale nella regolazione della proliferazione e differenziazione emopoietica. Le cellule stromali sintetizzano fattori di crescita e citochine regolatrici, esprimono molecole adesive e producono proteine della matrice extracellulare che compartimentalizzano le molecole regolatrici (7,8). Benchè citochine e fattori di crescita svolgano un ruolo cruciale nella regolazione della proliferazione e differenziazione emopoietica, appare improbabile che l’emopoiesi sia regolata da una miscela casuale di fattori di crescita e cellule target (9). E’ verosimile che molecole regolatorie e fenomeni di localizzazione a livello dello stroma midollare siano essenziali per regolare l’emopoiesi. Benchè le conoscenze circa i fattori stromali in grado di modulare lo sviluppo di cellule emopoietiche lungo le varie filiere differenziative siano relativamente limitate, appare evidente che le cellule del microambiente midollare sono coinvolte non solo nella regolazione della proliferazione e differenziazione mieloide ma anche in quella T e B linfoide attraverso tre modalità operative: (i) interazioni cellulacellula; (ii) interazioni tra cellule emopoietiche e molecole della matrice extracellulare; (iii) interazioni tra cellule emopoietiche e citochine regolatrici (5). Il ruolo esatto che le cellule del microambiente, le molecole adesive e le proteine della matrice extracellulare svolgono nella localizzazione e organizzazione spaziale delle cellule emopoietiche e nella regolazione della ricostituzione mieloide e linfoide dopo trapianto di cellule staminali emopoietiche (SCT) rimane oggetto di ipotesi (10). Studi nel topo hanno dimostrato che cellule staminali e progenitrici emopoietiche hanno una peculiare 188 distribuzione lungo la cavità midollare del femore suggerendo una suddivisione del microambiente midollare in aree funzionalmente distinte (“microambiente primario” e “microambiente secondario”) che condizionano distinte modalità differenziative delle cellule staminali emopoietiche (11). L’esistenza di aree microambientali primarie e secondarie è supportata dagli esperimenti di Schofield (12) che dimostrano un ruolo delle cellule microambientali nel mantenere la cellula staminale emopoietica in condizioni quiescenti e suggeriscono l’esistenza della “nicchia della cellula staminale”. Un altro meccanismo che supporta il concetto di aree specializzate del microambiente è rappresentato dalla produzione compartimentalizzata di fattori di crescita (9). Fattori di crescita prodotti localmente dalle cellule stromali si legano a strutture della matrice extracellulare e vengono presentati alle cellule target che riconoscono ciascun fattore attraverso specifici recettori (9). Questo meccanismo consente di localizzare in aree specifiche del microambiente elevate concentrazioni di specifici fattori di crescita. Allo stato attuale, poco si conosce circa i fattori stromali in grado di modulare la differenziazione emopoietica. Un crescente numero di evidenze suggerisce che la stroma midollare è implicato non solo nella regolazione della proliferazione delle cellule mieloidi ma anche nello sviluppo T e B linfocitario (13-16). Specifiche molecole di adesione e citochine sono in grado di regolare la B e T linfopoiesi stroma-dipendente (17,18) suggerendo che lo stroma midollare possa funzionare come sede extra-timica di T e B linfopoiesi. L’esistenza della MSC in grado di auto-mantenersi è supportata da molti dati in vivo e in vitro (19). A livello funzionale, le MSCs che risiedono nel microambiente midollare sono in grado di generare uno stroma midollare complesso sia in vivo che in vitro e hanno capacità differenziativa multilineare essendo infatti capaci di generare progenitori con potenziale differenziativo ristretto alla filiera fibroblastica, osteoblastica, adipocitaria, condrocitaria e mioblastica (20-22). In assenza di un sistema di coltura in grado di quantificare la MSC, l’unica classe di progenitori mesenchimali attualmente saggiabile in vitro è rappresentata dalle CFU-F (fibroblastic colony-forming cells) (23). Le CFU-F generano in vitro colonie di differente taglia e potenziale proliferativo morfologicamente costituite da cellule di tipo fibroblastico le quali sono in grado, in presenza di appropriati stimoli, di differenziare in senso adipocitario (22) o osteoblastico (24) e sono in grado di 189 generare uno spettro completo di cellule mesenchimali se trapiantate sotto la capsula renale di un ricevente singenico (“stromal stem cell hypothesis”) (20,25-28). Un saggio non clonogenico per lo stroma midollare è rappresentato dalle colture a lungo termine tipo Dexter che generano uno stroma complesso costituito dai diversi tipi di cellule mesenchimali che compongono il microambiente midollare. Prerequisito per l’uso clinico di cellule mesenchimali è la possibilità di isolare progenitori mesenchimali e di espanderli ex vivo in condizioni di coltura standardizzate. L’isolamento e l’espansione ex vivo di progenitori mesenchimali risiede nella disponibilità di anticorpi (es., STRO-1, SH-2) non cross-reattivi con l’antigene CD34 e capaci di riconoscere una sottopopolazione di cellule midollari in grado di generare in vitro stromi midollari completi e funzionalmente attivi (29,30). Nessuno degli anticorpi attualmente disponibili è specifico per le MSCs. L’importante ruolo delle cellule mesenchimali nella regolazione del sistema emopoietico è dimostrato da molteplici evidenze cliniche e sperimentali. Nel modello di trapianto in utero (IUT) nella pecora, è stato dimostrato che la reinfusione combinata di cellule staminali emopoietiche e cellule stromali midollari aumenta significativamente i livelli di attecchimento di cellule del donatore (31). Nel modello di IUT nel topo NOD/SCID, il potenziale di attecchimento delle cellule staminali fetali viene abrogato se il ricevente viene irradiato prima del trapianto suggerendo che il microambiente midollare esercita un ruolo cruciale nell’attecchimento mielo- linfo-poietico (32). Nell’uomo, un tipico modello di alterazione del microambiente midollare che condiziona una ridotta elasticità funzionale dell’emopoiesi si realizza dopo trapianto di cellule staminali emopoietiche. In questa condizione, oltre ad una significativa riduzione della frequenza di progenitori emopoietici primitivi e orientati, si osserva una marcata riduzione della capacità delle cellule mesenchimali di supportare l’emopoiesi allogenica o autologa (33-36). Il ruolo dello stroma midollare nella regolazione emopoietica e le peculiari caratteristiche funzionali delle cellule mesenchimali consentono di ipotizzare numerose applicazioni cliniche dei progenitori mesenchimali generati ex vivo (Tabella 1). Le MSCs potrebbero essere utilizzate in associazione o meno a cellule staminali emopoietiche allo scopo di 190 ‘rigenerare’ il microambiente midollare danneggiato dalla chemio-radioterapia o per migliorare la ricostituzione mieloide e linfoide dopo trapianto di cellule staminali. Inoltre, le caratteristiche funzionali delle MSCs (quiescenza, radio-resistenza, attività metabolica, capacità di compartimentalizzare la produzione di citochine e di interagire in modo selettivo con le cellule emopoietiche) le rendono un target di rilevante interesse in strategie di terapia genica (es., in pazienti affetti da deficit enzimatici o proteici) (37). Dati recenti dimostrano che le MSCs sono in grado di modulare la risposta proliferativa di linfociti T allogenici in vitro e suggeriscono un ruolo per le cellule stromali nella modulazione del rigetto e nella prevenzione della malattia da trapianto verso l’ospite (38). Un numero molto limitato di studi clinici ha sinora esplorato l’uso in vivo delle MSCs. L’unico studio di fase I al momento pubblicato ha dimostrato che la reinfusione di MSCs è ben tollerata (39). Occorre sottolineare che a causa della limitata conoscenza della biologia delle MSCs, le applicazioni cliniche delle MSCs rimangono oggetto di ipotesi che vanno attentamente testate mediante appropriati studi preclinici e programmi clinici. Prerequisiti essenziali per l’uso clinico di cellule mesenchimali sono: (i) la possibilità di isolare progenitori mesenchimali e di espanderli ex vivo in condizioni di coltura standardizzate (40) e (ii) la dimostrazione della trapiantabilità delle MSCs. Benchè molteplici studi nel topo e nel cane abbiano dimostrato la trapiantabilità e la persistente attività funzionale delle cellule stromali (41-45), nell’uomo la trapiantabilità delle MSCs rimane controversa (46,47). La maggior parte dei dati generati sino a questo momento in riceventi di trapianto di midollo HLA identico hanno evidenziato che le cellule stromali non sono trapiantabili (46). Poichè nel modello murino la trapiantabilità dello stroma è strettamente legata al numero di cellule mesenchimali reinfuse, è possibile ipotizzare che lo stroma sia trapiantabile anche nell’uomo posto che un adeguato numero di progenitori mesenchimali venga reinfuso. I progressi e le sostanziali modifiche alla metodologia del trapianto di cellule staminali emopoietiche compiuti nell’ultima decade, suggeriscono la necessità di rivalutare il problema della trapiantabilità delle MSCs. Uno studio recentemente condotto in riceventi trapianto allogenico T-depleto reinfusi con cellule midollari e cellule da sangue periferico ha dimostrato la trapiantabilità di progenitori stromali la cui progenie è stata studiata mediante i polimorfismi del gene 191 HUMARA e mediante ibridizzazione in situ in fluorescenza per il cromosoma Y (CarloStella C & Tabilio A, manoscritto in preparazione). In conclusione, lo studio della biologia delle MSC appare ancora ad uno stadio iniziale e molti aspetti devono essere adeguatamente esplorati prima che si possa procedere, in condizioni cliniche appropriate, a valutare l’impatto terapeutico delle MSC nel contesto di strategie di terapia cellulare e terapia genica. 192 BIBLIOGRAFIA 1. Prockop DJ. Marrow stromal cells as stem cells for nonhematopoietic tissues. Science 1997; 276:71-74 2. Petersen, B. E.; Bowen, W. C.; Patrene, K. D.; Mars, W. M.; Sullivan, A. K.; Murase, N.; Boggs, S. S.; Greenberger, J. S.; Goff, J. 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Il valore di tale approccio è tuttavia limitato da due ordini di fattori: la estesa compromissione del sistema immune indotta dal condizionamento chemio-radioterapico e il rischio di indurre la malattia del trapianto contro l’ospite (graft-versus-host disease, GVHD). Nonostante cio’, entrambe queste complicazioni sono intimamente associate ad effetti utili. L’immunodeficienza è infatti necessaria ad instaurare lo stato di tolleranza dell’ospite verso il trapianto, mentre la GVHD è strettamente associata ad un effetto anti-leucemico definito come graft-versus-leukaemia (GVL). Pertanto, dopo il trapianto di midollo osseo allogenico, l’infusione di linfociti del donatore originario di midollo nel ricevente (donor lymphocyte infusion, DLI) puo’ essere impiegata per generare una risposta immune contro il tumore e/o per restaurare lo stato di immunocompetenza. Infatti, i linfociti del donatore non sono sottoposti a terapie immunosoppressive e non sono stati inattivati dai meccanismi di evasione tumorale che hanno facilitato la ricaduta nel paziente. Uso della DLI nelle ricadute di neoplasia dopo trapianto allogenico Leucemia mieloide cronica. Nel 1990 Kolb e coll. osservarono per primi che il trasferimento adottivo di linfociti ottenuti dal donatore originario di midollo consentivano di ripristinare la remissione completa in pazienti con leucemia mieloide cronica (LMC) in ricaduta dopo trapianto di midollo allogenico [1]. L’efficacia della DLI in questi pazienti è stata da allora ampiamente confermata e studiata in dettaglio da numerosi gruppi [2-4]. Una vasta percentuale di pazienti (dal 60 al 73%) ottengono una remissione completa e la possibilità di rilevare la ricaduta in fase precoce mediante l’analisi PCR dei trascritti di 198 BCR-ABL [5] consente di incrementare la percentuale di successi fino alla quasi totalità dei casi. Infatti, è stato dimostrato che l’unico fattore in grado di predire la risposta è lo stadio di malattia al momento della DLI. I pazienti la cui ricaduta è identificata soltanto a livello molecolare o citogentico rispondono in misura maggiore rispetto ai pazienti nei quali la terapia viene cominciata quando la malattia è in fase ematologica [2]. Inoltre, tra le ricadute ematologiche, i pazienti in fase avanzata hanno scarse possibilità di rispondere [34]. Nessuna correlazione è stata osservata tra efficacia e tipo di donatore impiegato per la DLI. Il tasso di risposta ottenuto con la trasfusione di cellule da donatori consanguinei non sembra differire da quello ottenuto impiegando cellule da donatori volontari HLAcompatibili [6]. Tuttavia, dati preliminari sembrano indicare che la dose di cellule necassaria alla remissione completa sia inferiore per questi ultimi rispetto ai primi [7]. Due distinte cinetiche di risposta sono state identificate. In alcuni pazienti la riduzione dei livelli di dei trascritti di BCR-ABL è piuttosto rapido (meno di 6 mesi dopo la DLI); in altri pazienti la PCR risulta negativa soltanto dopo diversi mesi (di solito >12) [8]. Non è chiaro se queste diverse cinetiche siano il risultato di una diversa sensibilità delle cellule leucemiche o dipendano dall’efficienza dei linfociti del donatore. Leucemia acute. Nonostante i successi nella LMC abbiano portato a sperare uguali rislutati nelle leucemie acute, le prime esperienze hanno rapidamente convinto del contrario. Anche se il numero di pazienti trattati non è stato elevato, gli studi multicentrici europeo e nord-americano hanno riportato una bassa percentuale di risposte nelle leucemia acute sia di origine linfoide (0 to 18%) 199 che mieloide (15 to 29%) [3-4]. Inoltre, i pochi pazienti con LMA che rispondono alla DLI spesso ricadono a livello extra-midollare. È verosimile che lo scarso effetto dell’immunoterapia nelle leucemie acute sia da imputarsi all’elevata attività proliferativa e quindi al numero di cellule leucemiche che impedirebbero un efficace stimolazione dei linfociti allogenici. Mieloma multiplo e linfomi. Un possibile ruolo della DLI nel trattamento del mieloma multiplo (MM) è stato di recente confermato da Lokhorst e coll. [9]. Di 13 pazienti ricaduti per MM dopo trapianto allogenico, 8 (61%) hanno risposto anche se soltanto 4 hanno ottenuto una remissione completa. Il problema maggiore è che questi pazienti hanno richiesto dosi piuttosto elevate di DLI (>108 T cellule/Kg) inducendo pertanto una elevata incidenza di GVHD severa. Un’ulteriore limite all’impiego della DLI è che, nonostante essa possa essere utile nel ripristinare la remissione a livello midollare, sembra inefficace sulle lesioni osteolitiche e non è in grado di prevenire successive ricadute extramidollari. L’uso dell’immunoterapia adottiva con i linfociti del donatore nel trattamento dei linfomi rimane ancora limitata a casi sporadici, ma un effectto “graft-versus-lymphoma” è stato documentato di recente anche con l’impiego di tecniche molecolari [10]. Tumori non ematologici. L’esistenza di un effetto analogo alla GVL nei tumori solidi è ancora da dimostrarsi, principalmente perchè il trapianto di midollo osseo allogenico è praticato in mirusa aneddotica in questi casi. Alcuni risultati incoraggianti sono emersi nel trattamento del tumore della mammella [11]. 200 Questioni irrisolte nel trattamento delle leucemia con DLI Durata della risposta alla DLI. Sebbene rimangano pochi dubbi sull’efficacia della DLI, la sua capacità di indurre remissioni durature è ancora oggetto di studio. Infatti, il breve followup dei pazienti trattati non consente per ora di trarre conclusioni definitive. Esistono tuttavia dati preliminari che suggeriscono tale possibilità. Un recente studio dell’Hammersmith Transplant Group ha osservato che nessuno di 66 pazienti in remissione molecolare dopo DLI sono ricaduti dopo un follow-up di 4-77 mesi [12]. Effetti indesiderati. Il trattamento con DLI non è privo di complicazioni. Il più frequente e grave è la GVHD acuta e cronica che si verifica in un 40-60% dei pazienti [3-4], prevalentemente in quelli che ricevono le cellule da donatori volontari [6]. Tuttavia, lo Sloan-Kettering transplant group ha riportato che l’incidenza di GVHD puo’ essere significativamente ridotta se i linfociti vengono trasfusi in dosi a scalare fino a quando si ottiene la remissione [13]. Tale approccio consente di evitare la somministrazione di dosaggi non necessari. Un recente studio su una larga popolazione di pazienti sembra confermare la superiorità di questa strategia [14]. Approcci alternativi per ridurre la GVHD, basati sulla manipolazione ex vivo delle cellule da trasfondere, sono stati proposti ma non ancora formalmente testati in clinica. La deplezione dai linfociti del donatore delle cellule CD8+ [15] o dei linfociti alloreattivi [16], sembrerebbe ridurre significativamente il numero delle cellule effettrici della GVHD. Inoltre, una strategia molto elegante per modulare la GVHD si basa sull’introduzione, nei linfociti del donatore, di un gene (HSV-tk) che li rende suscettibili all’azione del 201 ganciclovir [17]. Tuttavia, questa tecnica non risparmia i mediatori dell’effetto GVL e potrebbe invalidare l’efficacia dell’immunoterapia. L’altra relativemente frequente complicazione della DLI è l’insufficienza midollare. Caratterizzata da una pancitopenia di grado variabile, nei casi irreversibili puo’ essere trattata con successo mediante l’infusione di cellule staminali emopoietiche del donatore [6]. La pancitopenia è causata dall’effetto GVH sull’emopoiesi del recipiente [18]. Insuccesso del trattamento. Gli insuccessi della DLI possono essere classificati in tre principali categorie: 1. malattie tipicamente refrattarie all’effetto GVL (leucemie acute e fase blastica di LMC). 2. selezione di cloni leucemici resistenti (ricadute extramidollari) 3. risposte parziali e/o transitorie [19]. In questi casi, la somministrazione di interleuchina-2 (IL2) insieme ai linfociti sembra contribuire a migliorare l’entità della risposta nei pazienti convenzionalmente resistenti [20] e anche nei pazienti con risposte parziali alla DLI [21]. Trattamento con DLI per le complicazioni non tumorali del trapianto allogenico La ricaduta del tumore non è la sola complicazione del trapianto di midollo allogenico, suscettibile di trattamento con linfociti del donatore. I linfociti del donatore consentono di migliorare l’attecchimento midollare delle cellule emopoietiche del donatore inibendo la reazione di rigetto [22] e di ricostituire lo stato di immunodeficienza post-trapianto. Numerosi studi hanno dimostrato l’utilità di linfociti T del donatore generati in vitro 202 contro specifici antigeni virali nel trattare e/o prevenire quelle malattie virali che sono la causa più frequente della mortalità correlata al trapianto. In particolare, tale approccio è stato praticato nelle infezioni da cytomegalovirus (CMV) [23] e nelle malattie linfoproliferative indotte dal virus di Epstein-Barr (EBV) [24]. Di grande interesse è la recente dimostrazione che anche l’infusione di piccole dosi di linfociti del donatore senza alcuna previa manipolazione possono rapidamente ripristinare il numero e la funzione delle cellule T dopo il trapianto e trattare le malattie indotte da CMV e EBD con trascurabile incidenza di GVHD [25]. Conclusioni La comprensione dei meccanismi responsabili dell'efficacia del trapianto di midollo osseo allogenico ha dimostrato il ruolo chiave del sistema immune nella eradicazione delle cellule neoplastiche. Anche se l'impiego di terapie basate sul trasferimento adottivo di linfociti del donatore non è procedura priva di rischi, è verosimile che la identificazione di antigeni tumore-specifici permetterà lo sviluppo di strategie sicure e ancor più efficaci. 203 REFERENCES 1. Kolb HJ, Mittermuller J, Clemm Ch, Holler E, Ledderose G, Brehm G, Heim M, Wilmanns W: Donor leukocyte transfusions for treatment of recurrent chronic myelogeneous leukemia in marrow transplant patients. Blood 1990, 76:2462-2465. 2. Van Rhee F, Lin F, Cullis JO, Spencer A, Cross NCP, Chase A, Garicochea B, Bungey J, Barrett J, Goldman JM: Relapse of chronic myeloid leukemia after allogeneic bone marrow transplant: the case for giving donor leukocyte transfusions before the onset of hematologic relapse. 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Sergio Romagnani Direttore Malattie Sezione di dell'Apparato Medicina Interna, Respiratorio, Immunoallergologia Dipartimento di e Medicina Interna, Università degli Studi di Firenze 1. Introduzione Con il termine di tolleranza immunologica si intende la perdita della capacità del sistema immunitario a rispondere ad un determinato antigene, indotta da un precedente incontro con lo stesso antigene. Gli antigeni capaci di indurre uno stato di tolleranza sono chiamati antigenitollerogenici o tollerogeni, per distinguerli da quelli capaci di generare una risposta immune (immunogeni). Uno dei principali aspetti dellatolleranza immunologica é quella che si verifica normalmente nei confronti degli antigeni autologhi ("self"), designata tolleranza al "self". Quando il sistema immunitario di un organismo reagisce nei confronti di antigeni autologhi, può verificarsi un danno tessutale, riconosciuto fin dall'inizio del secolo, per il quale fu coniato il termine decisamente suggestivo di horror autoxicus, successivamente modificato in quello ancora attualmente in uso di autoimmunità. Circa cinquanta anni dopo, con la formulazione dell'ipotesi della selezione clonale, al fine di spiegare il meccanismo attraverso il quale l'organismo é generalmente in grado di evitare l'evenienza di reazioni autoimmuni, venne suggerita la possibilità che i cloni linfocitari reattivi nei confronti degli autoantigeni venissero eliminati (delezione) durante il processo di sviluppo del sistema immunitario. Questa ipotesi appare ancora sostanzialmente corretta, anche se gli studi degli ultimi anni hanno permesso di modificarla e di ampliarla notevolmente. In questa trattazione saranno sommariamente descritti i meccanismi che sono attualmente considerati responsabili del processo di tolleranza immunologica, nonché le principali modalità attraverso le quali l'assenza o la perdita della tolleranza immunologica nei confronti degli autoantigeni può provocare una risposta immunitaria nei confronti del "self" e quindi la possibile insorgenza di una malattia autoimmune. 2. Modalità di sviluppo della tolleranza immunologica Quando i linfociti incontrano l'antigene specifico si possono verificare tre condizioni: (1) il linfocita viene attivato e ciò determina la risposta immune specifica; (2) il linfocita viene inattivato od eliminato e ciò determina la tolleranza nei confronti di quell'antigene; (3) l'antigene non induce alcuna risposta, né di tipo positivo, né di tipo negativo (ignoranza). Esistono due principali modalità di induzione della tolleranza immunologica, la tolleranza centrale e la tolleranza periferica. 207 2.1 Tolleranza centrale La tolleranza centrale si verifica quando i linfociti incontrano il rispettivo antigene durante il loro processo maturativo a livello degli organi linfatici centrali (midollo osseo per i linfociti B, timo per i linfociti T). In tal caso, essi non vengono attivati, ma divengono tolleranti nei confronti di quell'antigene. In genere, gli antigeni esistenti ad alte concentrazioni a livello degli organi linfatici primari sono gli autoantigeni, in quanto gli antigeni provenienti dall'ambiente esterno vengono generalmente catturati dalle cellule dell'immunità naturale e trasportati verso gli organi linfatici secondari (milza, linfonodi, tessuti linfoidi delle mucose). I linfociti immaturi, dotati di recettori ad alta affinità nei confronti degli autoantigeni incontrati a livello degli organi linfatici primari durante il loro sviluppo, vengono eliminati. Questo processo di delezione consente di eliminare la grande maggioranza dei cloni linfocitari reattivi nei confronti degli autoantigeni ubiquitari. Dal momento che l'incontro tra un linfocita immaturo con il rispettivo antigene risulta nella sua delezione o comunque in un suo arresto funzionale, mentre l'incontro tra un linfocita maturo e l'antigene dà luogo ad attivazione, proliferazione e differenziazione funzionale, é verosimile che il riconoscimento dell'antigene determini segnali funzionali diversi nel linfocita immaturo rispetto a quello maturo. Tali differenze rimangono tuttavia ancora sconosciute, anche se é molto probabile che esse siano riferibili, almeno in parte, all' assenza o alla presenza di segnali co-stimolatori forniti ai linfociti maturi a livello degli organi linfatici secondari dalle cellule dell'immunità naturale. 2.1.1 Tolleranza centrale verso i linfociti B La tolleranza centrale nei confronti dei linfociti B autoreattivi avviene nel midollo osseo e si verifica attraverso una delezione dei linfociti B immaturi dotati di recettori ad elevata affinità per autoantigeni presenti nel microambiente midollare. Questo processo si verifica più frequentemente con antigeni multivalenti, quali le molecole di superficie o le molecole polimeriche come il DNA a doppia elica, che interreagiscono con più recettori immunoglobulinici sulla stessa cellula B, determinando un segnale molto potente. Il principale meccanismo di eliminazione dei linfociti B immaturi autoreattivi é la morte apoptotica. In taluni casi, tuttavia, i linfoiciti B immaturi dopo il loro incontro con l'autoantigene, anziché essere deleti, rispondono riattivando i loro geni RAG-1 e RAG-2 ed esprimendo una nuova catena leggera immunoglobulinica e di conseguenza una nuova specificità antigenica. Questo processo é stato definito revisione recettoriale ("receptor editing"). 2.1.2 Tolleranza centrale verso i linfociti T (selezione negativa) La tolleranza centrale nei confronti dei linfociti T autoreattivi si verifica nel timo ed é classicamente conosciuta con il termine di selezione negativa. La selezione negativa é determinata principalmente dalla concentrazione dell'autoantigene a livello timico e dal grado di affinità per tale antigene del recettore linfocitario T (T cell receptor - TCR). I peptidi autoantigenici sono presentati in associazione con le molecole del complesso maggiore di istocompatibilità ("Major Histocompatibility Complex" - MHC-) ed i linfociti T immaturi doppio-positivi (CD4+CD8+) con TCR ad elevata affinità per il complesso peptide-MHC vanno incontro ad un processo di morte programmata o 208 apoptotica, designata delezione clonale. Tale processo interessa sia le cellule T ristrette per MHC di classe I o di classe II e quindi risulta in uno stato di tolleranza sia dei linfociti CD4+ che CD8+. Come conseguenza, tra i linfociti T CD4+ o CD8+ maturi che lasciano il timo non vi sono più cellule capaci di riconoscere gli autoantigeni presenti a livello timico. I meccanismi molecolari e la stessa sede timica dove ha luogo la selezione negativa sono ancora oggetto di studi e di controversie. Negli ultimi anni tuttavia sta emergendo con vigore l'ipotesi che la selezione negativa si verifichi a livello delle aree midollari del timo e che in essa giochino un ruolo prevalente le cellule epiteliali della midollare. Tra le molecole coinvolte nel processo apoptotico non sembrano svolgere un ruolo di primo piano il Fas ed il suo ligando (Fas-L), che sono invece importanti nei processi apoptotici della tolleranza periferica (vedi sotto). Nella selezione negativa timica sembra invece giocare un ruolo il CD30, un'altra molecola della famiglia dei recettori del TNF. Infatti, i topi deficienti in CD30 mostrano un'alterazione della selezione negativa; inoltre i timociti di topi transgenici per CD30 vanno incontro ad apoptosi in seguito a "cross-linking" del CD30 ed il fenomeno viene esaltato dal "cross-linking" del loro TCR. Noi stessi abbiamo dimostrato la presenza costitutiva del CD30 in una piccola famiglia di timociti midollari umani, nonché una espressione particolarmente intensa del ligando del CD30 (CD30L) sia nelle cellule epiteliali della midollare, sia nello strato esterno dei corpuscoli di Hassal. In questo processo giocano anche un ruolo fondamentale chemochine prodotte dalle cellule dendritiche, dai macrofagi e soprattutto dalle cellule epiteliali timiche, quali SDF-1, IP10, MDC, TARC, ELC e TECK. Tali chemochine probabilmente attraggono i diversi tipi di timociti a secondo della fase del loro processo maturativo, favorendone la progressione dalle aree più esterne della corticale fino alla midollare ed infine ai vasi che immettono i timociti maturi sfuggiti ai processi selettivi nel torrente circolatorio. Ad esempio, abbiamo recentemente dimostrato che MDC é prodotto in grandi quantità dalle cellule epiteliali della midollare attrae verso quest'ultima i linfociti corticali dotati del recettore cemochinico CCR4, che hanno subito la selezione positiva, ma non ancora quella negativa. Per contro, ELC, prodotto dalle cellule epiteliali prevalentemente disposte in sede perivasale, sembra coinvolto nella attrazione dei timociti sfuggiti alla selezione negativa ed ormai maturi, i quali esprimono il recettore chemochinico CCR7, al fine di favorire la loro immissione nel torrente circolatorio. 2.2. Tolleranza periferica La tolleranza periferica é più importante di quella centrale per mantenere la tolleranza confronti di quegli autoantigeni che non sono rappresentati a livello timico o midollare, ma sono invece espressi nei tessuti periferici. Esistono infatti numerosi cloni di linfociti maturi i quali sfuggono al processo di selezione negativa per mancanza di contatto con gli autoantigeni e che sono quindi potenzialmente autoreattivi. Ciò nonostante, quando questi cloni incontrano il rispettivo autoantigene a livello periferico la loro risposta é impedita o fortemente regolata, suggerendo in tal modo l'esistenza di meccanismi che consentono il mantenimento della tolleranza al "self" anche nei confronti degli autoantigeni presenti solo in periferia. La tolleranza periferica nei confronti dei linfociti B si verifica essenzialmente quando i linfociti B maturi incontrano l'autoantigene specifico nei tessuti periferici in assenza del linfocita T "helper" specifico. In tale condizione ambientale, i linfociti B autoreattivi divengono funzionalmente incapaci di rispondere all'antigene, oppure sono addirittura esclusi dai follicoli linfatici. Il meccanismo di esclusione follicolare può essere rappresentato dalla perdita dei recettori per le chemochine, che normalmente attraggono i linfociti B maturi all'interno dei follicoli. A differenza della tolleranza periferica nei confronti dei linfociti B, la tolleranza periferica nei confronti dei linfociti T autoreattivi può verificarsi attaverso tre meccanismi principali. Tali meccanismi sono: l'anergia, la delezione, la soppressione. 209 2.2.1. Anergia clonale L'anergia clonale si verifica quando il linfocita T maturo incontra il peptide specifico nella nicchia del complesso MHC di una cellula presentante ("antigen-presenting cell" - APC), la quale sia priva delle molecole co-stimolatorie, in particolare di B7-1 e B7-2. È infatti accertato che l'attivazione linfocitaria avviene solamente in seguito ad un doppio segnale, rapresentato dall'interazione tra recettore linfocitario e antigene (primo segnale) e dalla interazione della molecola CD28 con le molecole co-stimolatorie B7 (secondo segnale). Il ricevimento del primo segnale, ma non del secondo, determina nel linfocita uno stato di non responsività funzionale, anziché uno stato di attivazione. Un'altra possibilità é che il linfocita T utilizzi nell'interazione con le molecole co-stimolatorie dell'APC una molecola inibitoria (CTLA-4), come dimostrato dall'osservazione che i topi deficienti di questo gene sviluppano un' attivazione linfocitaria incontrollata ed una forma di autoimmunità sistemica. Questi rilievi suggeriscono l'importanza della natura delle APC nel determinismo dello sviluppo della tolleranza e, per converso, dell'autoimmunità. Infatti le APC che risiedono negli organi linfoidi periferici e nei tessuti non linfoidi sono in fase di riposo e non esprimono molecole co-stimolatorie, per cui la presentazione dell'antigene da parte di tali cellule può provocare l'anergia clonale del linfocita T. Tuttavia, non é noto quali autoantigeni siano in grado di indurre anergia nei linfociti T, né quale sia il destino delle cellule T anergiche. Anche i meccanismi biochimici che sottintendono lo sviluppo dell'anergia sono poco conosciuti. Un altro meccanismo di anergia é rappresentato dall'incontro del linfocita T maturo con una APC dotata di molecole co-stimolatorie, ma che presenta un peptide con residui aminoacidici alterati nella zona di contatto con il TCR. Questi antigeni mutati sono chiamati antagonisti peptidici ed appartengono alla categoria dei ligandi peptidici alterati. In questa evenienza la cellula T riceve un secondo segnale normale, ma il primo segnale é anormale. Anche i meccanismi biochimici coinvolti in questa forma di anergia sono poco noti e non é ancora chiaro se essa si verifichi nell'organismo in condizioni fisiologiche, cioé a prescindere da manipolazioni sperimentali. 2.2.2 Delezione clonale La delezione clonale dei linfociti T maturi si verifica in genere in seguito alla persistente stimolazione da parte dell'antigene, che risulta in un processo noto come morte cellulare indotta dall'attivazione ("activation-induced cell death" - AICD-). La AICD é una forma di apoptosi indotta da segnali che originano da recettori "di morte" presenti sulla membrana, il più importante dei quali é Fas. Il ligando del Fas (FasL), interreagendo con Fas, attiva nella cellula una serie di cistino-proteasi intracellulari, chiamate caspasi, che determinano la morte apoptotica della cellula. Le cellule in apoptosi vengono rapidamente rimosse dai fagociti e quindi non inducono fenomeni infiammatori. L'effetto finale é una delezione dei linfociti T specifici per l'antigene che ha provocato la loro stimolazione ripetuta. La AICD mediata dalla interazione Fas/FasL é infatti potenziata dalla presenza di elevate concentrazioni di IL-2, il principale fattore di crescita dei linfociti T. A conferma di quanto sopra, va rilevato che sia i topi deficienti in Fas o con mutazioni a livello di Fas-L, sia quelli deficienti in IL-2, sviluppano spontaneamente malattie autoimmuni. È verosimile dunque che la tolleranza immunologica basata sulla AICD si esplichi prevalentemente nei confronti di autoantigeni periferici che, a causa della loro abbondanza, attivano frequentemente i linfociti T. 210 2.2.3 Soppressione da linfociti T Alcune risposte immunitarie verso autoantigeni sono inibite da linfociti che producono citochine capaci di bloccare l'attivazione e le funzioni dei linfociti T effettori. Questi linfociti inibitori sono anche chiamati linfociti T soppressori. Mentre originalmente si era ritenuto che tali linfociti appartenessero ad una popolazione cellulare distinta sia dai linfociti T "helper", sia dai linfociti T citotossici, l'orientamento attuale é che tale funzione possa essere svolta da popolazioni linfocitarie diverse, anziché da un'unica popolazione specializzata. Le citochine soppressive più importanti sono il TGF-b, che inibisce sia la proliferazione dei linfociti T che dei linfociti B, la IL-10 che inibisce l'attivazione dei macrofagi, la IL-4 che antagonizza l'azione dell'IFN-g. La IL-4 e la IL-10 sono prodotte principalmente dai linfociti Th2; i linfociti T che oltre alla IL-4 e alla IL-10 producono anche TGF-b sono stati designati Th3. La conversione di una risposta linfocitaria T associata con un determinato "set" di citochine, per esempio di tipo Th1, ad un tipo di risposta caratterizzato dalla produzione di citochine diverse, quali quelle Th2 o Th3, é stata denominata deviazione immune. 2.3 Ignoranza clonale L'ignoranza clonale rappresenta una terza modalità di mantenimento della tolleranza basata sulla incapacità di linfociti autoreattivi di rispondere ad autoantigeni, senza andare incontro a morte apoptotica e senza divenire anergici. Questa modalità si estrinseca di solito nei confronti degli autoantigeni presenti in siti anatomici inaccessibili (occhio, sistema nervoso centrale), ma può verificarsi anche nei confronti di autoantigeni apparentemente accessibili ai linfociti. Il motivo per cui alcuni linfociti T maturi incontrando l'antigene specifico diventano anergici, mentre altri linfociti T tendono semplicemente ad ignorarlo, é tuttora sconosciuto. Una possibile spiegazione é che gli antigeni presenti ad alta concentrazione inducano anergia clonale, mentre quelli presenti a concentrazioni molto ridotte in assenza del secondo segnale vengano ignorati. 3. Meccanismi di autoimmunizzazione Sulla base delle considerazioni sopra esposte, appare chiaro che sia la deficienza che l' alterazione dei meccanismi normalmente responsabili del mantenimento della tolleranza possono determinare una risposta del sistema immunitario nei confronti del "self" e quindi provocare l'insorgenza di fenomeni di autoimmunizzazione. Tale potenzialità esiste in tutti gli individui in quanto i linfociti di tutti gli individui esprimono recettori specifici per autoantigeni ed in quanto molti autoantigeni sono facilmente accessibili alle cellule del sistema immunitario. Poiché i meccanismi fondamentali per lo sviluppo e il mantenimento della tolleranza al "self" sono rappresentati dalla eliminazione dei linfociti immaturi che incontrano gli autoantigeni durante il loro processo di sviluppo (selezione negativa) e dalla delezione o inattivazione funzionale dei linfociti maturi che incontrano autoantigeni nel corso della vita, la perdita della tolleranza nei confronti degli autoantigeni può essere la conseguenza sia di una selezione anomala dei linfociti autoreattivi, cioé di un difetto della tolleranza centrale, sia di alterazioni della presentazione degli autoantigeni alle cellule del sistema immunitario, cioé di un'anomalia della tolleranza periferica. 211 L'autoimmunità può ovviamente risultare da anomalie dei linfociti B, dei linfociti T o di entrambe le popolazioni linfocitarie. Tuttavia, le anomalie dei linfociti T sono certamente più importanti in quanto i linfociti T non solamente rappresentano le cellule centrali di tutte le risposte immuni nei confronti degli antigeni proteici, sia con riferimento alle reazioni cellulo-mediate che alla produzione di autoanticorpi, ma soprattutto perché molte malattie autoimmuni sono legate geneticamente a MHC, la cui principale funzione é quella di presentare i peptidi ai linfociti T. 3.1 Deficit dei meccanismi di tolleranza centrale Potenzialmente un difetto nei meccanismi di tolleranza centrale rappresenta un modello ideale per spiegare la persistenza di cloni T autoreattivi e quindi l'insorgenza di un processo di autoimmunizzazione. Non esistono tuttavia prove formali sull'importanza di un tale deficit, in quanto é possibile che i meccanismi responsabili della tolleranza periferica sono in ogni caso sufficienti ad evitare la responsività del sistema immunitario nei confronti degli autoantigeni. 3. 2 Deficit dei meccanismi di tolleranza periferica Esistono numerosi dati sperimentali che suffragano il possibile ruolo di difetti dei meccanismi di tolleranza periferica nello sviluppo delle malattie autoimmuni. 3.2.1 Espressione aberrante di molecole co-stimolatorie La rottura della tolleranza periferica può avvenire a causa di processi infiammatori capaci di attivare le APC in fase di riposo presenti a livello tessutale inducendo su tali cellule l'espressione aberrante delle molecole co-stimolatorie necessarie alla presentazione di autoantigeni. Sia sufficiente ricordare al riguardo la possibilità di indurre una encefalomielite autoimmune ed una tiroidite autoimmune negli animali da esperimento mediante somministrazione di autoantigeni organo-specifici in associazione con adiuvante completo di Freund, oppure provocare la comparsa del diabete mellito di tipo I mediante la contemporanea espressione transgenica sulle cellule beta delle insule pancreatiche di un antigene virale e della molecola co-stimolatoria B7-1. 3.2.2 Difetto di molecole inibitorie dei processi di co-stimolazione Una seconda possibilità di rottura della tolleranza periferica può essere legata al verificarsi di un difetto di espressione o di funzione delle molecole normalmente devolute alla inattivazione dei processi di co-stimolazione. Abbiamo gié ricordato come topi resi deficienti del gene CTLA-4 vadano incontro ad una forte attivazione dei linfociti T e ad una forma fatale di autoimmunità. 3.2.3 Mutazioni interferenti con l'apotosi dei linfociti T maturi La perdita della tolleranza periferica e quindi il manifestarsi di una patologia autoimmune può essere la conseguenza di mutazioni che interferiscono con la morte apoptotica dei linfociti maturi. Topi geneticamente deficienti in Fas (lpr/lpr) o in FasL (gld/gld ) vanno incontro ad una malattia autoimmune sistemica spontanea e di recente sono stati descritti alcuni casi di bambini affetti da una forma fenotipicamente simile di malattia nei quali era riscontrabile una mutazione a livello di fas o di geni coinvolti nel modello di apoptosi Fas-mediata. 3.2.4 Difetto della soppressione mediata dai linfociti T 212 L'autoimmunità può insorgere infine a causa di un difetto nei meccanismi di soppressione mediati dai linfociti T, in particolare di quelli capaci di produrre citochine regolatorie. Tale evenienza é suffragata dagli esperimenti che hanno dimostrato la possibilità di prevenire mediante trasferimento contemporaneo di linfociti T attivati, un' autoimmunità sistemica indotta dal trasferimento di linfociti T "naive". 4. Considerazioni conclusive Da quanto sopra esposto, appare chiaro che l'autoimmunità rappresenta una evenienza fondamentalmente legata ad anomalie dei processi fisiologici di induzione e di mantenimento della tolleranza da parte del sistema immunitario nei confronti del "self". Tali processi sono molteplici e possono essere alterati sia a causa di anomalie genetiche, sia soprattutto in seguito ad eventi che si verificano nel corso della vita in seguito al complesso gioco di interazioni tra sistema immunitario ed i numerosi agenti biologici che continuativamente tale sistema é chiamato a controbattere ed a neutralizzare al fine di salvaguardare l'omeostasi dell'organismo. Un tale concetto é peraltro anche suffragato dall' osservazione che i geni più frequentemente associati con le malattie autoimmuni sono i geni del MHC ed in particolare quelli di classe II, cioé gli stessi geni coinvolti nella presentazione degli antigeni ai linfociti. È pertanto altamente verosimile che risposte del sistema immunitario verso agenti infettivi di vario tipo possano determinare la rottura della tolleranza immunologica verso gli autoantigeni e quindi dare inizio al processo di autoimmunizzazione, nonostante che non sia possibile mettere in evidenza la presenza di microrganismi non solamente a livello delle sedi di lesione, ma neppure negli individui nei quali la malattia autoimmune si sviluppa. Tuttavia le infezioni possono scatenare il processo di autoimmunizzazione sia attivando nelle aree infiammatorie l'espressione delle molecole co-stimolatorie nelle APC tessutali altrimenti in fase di riposo, sia favorendo la trasformazione di autoantigeni in neo-antigeni parzialmente "cross"-reattivi, sia provocando la liberazione di autoantigeni normalmente "sequestrati" ed inaccessibili per il sistema immunitario. Quest'ultimo processo può anche verificarsi talora in seguito a danneggiamenti tessutali conseguenti a traumi, come avviene ad esempio nella uveite post-traumatica e nell'orchite secondaria a vasectomia. Infine, alcuni agenti infettivi possono condividere antigeni "cross"-reattivi con autoantigeni, tali cioé da indurre una risposta immune che interessa anche il "self" ("molecular mimicry"). L'esempio più classico di quest'ultima possibilità é rappresentato dalla febbre reumatica, che si sviluppa dopo una infezione streptococcica ed é causata dalla produzione di anticorpi anti-streptococcici i quali, "cross"-reagendo con proteine miocardiche, possono determinare un processo miocarditico. In conclusione, l' autoimmunità appare tuttora come uno degli enigmi clinici e scientifici di maggiore interesse. Tuttavia l'applicazione delle nuove biotecnologie e il grande progresso delle conoscenze sui meccanismi responsabili della tolleranza immunologica fa sperare che presto anche in questo settore della biomedicina sarà possibile raggiungere ulteriori certezze e ciò renderà certamente meno empirico anche l'approccio del clinico nella terapia delle malattie autoimmuni. 213 CITOPENIE AUTOIMMUNI Pierluigi Rossi Ferrini e Alessandro Maria Vannucchi Cattedra di Ematologia della Università di Firenze Il mantenimento del normale numero di elementi figurati del sangue periferico è il risultato di un equilibrio dinamico “entrate-uscite” che si stabilisce fra il compartimento proliferativo-maturativo, rappresentato dai progenitori midollari, e i processi che regolano il consumo delle cellule mature, legati alla loro senescenza, utilizzazione o distruzione. L'alterazione di uno di questi momenti di equilibrio può essere responsabile di emocitopenie, nell’ambito delle quali si riconoscono, com’è ben noto, forme da ridotta produzione, da aumentata distruzione, o da alterata distribuzione. Le emocitopenie provocate con meccanismo autoimmune possono essere distinte in forme da eccesso di distruzione periferica o conseguenti ad un difetto della emopoiesi. Con questo termine si intendono solo quelle condizioni nelle quali l’azione lesiva (anticorpale o più raramente cellulare) si svolge in modo diretto ed immediato sulle cellule del sangue e degli organi emopoietici. Non vengono perciò incluse altre situazioni nelle quali la emopoiesi viene coinvolta secondariamente, come si verifica ad esempio nella anemia perniciosa, in cui le alterazioni ematologiche sono provocate dalla carenza di Vit. B12 per interessamento delle cellule parietali gastriche, oppure nelle eritroblastopenie pure quando queste siano secondarie alla presenza di anticorpi anti-eritropoietina. Non si terrà conto neppure della sindrome da anticorpi 214 antifosfolipidi nel suo complesso, dal momento che, nonostante la peculiarità clinica della sindrome, la piastrinopenia non sembra discostarsi sul piano patogenetico da quella propria della porpora trombocitopenica idiopatica cronica (1). Il paradigma delle citopenie autoimmuni a patogenesi periferica è rappresentato dalle anemie emolitiche autoimmuni, e rimandiamo per una loro esauriente trattazione ad alcune recenti rassegne (2,3). Fanno parte di questo gruppo anche le neutropenie autoimmuni, e la porpora trombocitopenica cronica idiopatica, propriamente Porpora Trombocitopenica Autoimmune, che costituisce circa l’80% delle piastrinopenie immunomediate primitive dell’adulto, e per la quale rimandiamo ad una recente rassegna (4). Il meccanismo patogenetico più comune in queste forme è rappresentato dalla distruzione degli elementi cellulari maturi circolanti, operata dalle molecole del complemento adese alla membrana rivestita dagli autoanticorpi o mediata dalle cellule del sistema reticoloendoteliale tramite i recettori per il frammento Fc delle immunoglobuline. Accanto a questi quadri di citopenie periferiche in senso stretto, si è aggiunto il capitolo delle mielopatie autoimmuni, ampiamente trattato da Marmont, a cui dobbiamo il concetto stesso ed il raggruppamento nosografico di queste condizioni (5,6). Queste si caratterizzano per il fatto che i progenitori midollari, sia nelle fasi più precoci del commissionamento linea-specifico che in quelle maturative più avanzate, possono essere coinvolti da un processo autoimmunitario (6). Quindi, da un lato dobbiamo considerare la forma globale di sofferenza emopoietica, a patogenesi certamente complessa, rappresentata dalla aplasia midollare primitiva, dall’altra quadri ad espressione più selettiva, come la eritroblastopenia pura cronica acquisita dell’adulto (PRCA), e le più rare forme di neutropenia midollare pura autoimmune (PWCA) e di porpora amegacariocitica acquisita. Una serie di osservazioni recenti inducono però a considerare un nuovo capitolo, cioè quello delle emocitopenie autoimmuni a patogenesi periferica e midollare insieme, che sono appunto caratterizzate dal contemporaneo interessamento delle cellule circolanti e delle cellule emopoietiche. In questa ottica, la distinzione schematica tra emocitopenie autoimmuni periferiche e mielopatie autoimmuni conserva la sua utilità didattica di inquadramento nosografico, ma perde parte del suo significato clinico e fisopatologico, tradizionalmente antitetico, dal momento che tra le due situazioni possono ritrovarsi elementi comuni. Le neutropenie autoimmuni possono presentarsi come entità clinica isolata ad eziologia sconosciuta (forme idiopatiche), oppure in associazione ad altri disordini su base immunitaria (LES), a infezioni virali, a neoplasie, ad assunzione di farmaci (forme secondarie) (7). Nel siero dei pazienti con neutropenia autoimmune sono presenti anticorpi che reagiscono con antigeni della membrana dei neutrofili, come il CD11b/CD18 o il recettore Fc tipo III, e che ne determinano la rimozione dal circolo attraverso il sistema istiocito-macrofagico. Tuttavia, la maggior parte dei pazienti presenta anche aspetti midollari caratterizzati da un evidente blocco delle fasi maturative terminali, piuttosto che dalla attesa iperplasia globale della linea mieloide. Ciò ha suggerito l'ipotesi che alcuni anticorpi possano inibire la proliferazione e maturazione dei progenitori mieloidi (6), ed in effetti in un ampio studio di Hartman e coll, che hanno esaminato 148 pazienti, anticorpi rivolti esclusivamente contro i neutrofili maturi erano presenti in 53 casi, mentre in 64 pazienti gli anticorpi reagivano anche con antigeni espressi sui precursori mieloidi immaturi, ed infine in 25 gli anticorpi erano rivolti soltanto contro le cellule immature (8). 215 Questa ultima condizione sul piano clinico appariva tendenzialmente più grave rispetto alle altre forme di neutropenia a patogenesi esclusivamente periferica o periferica e midollare insieme. Nell'ambito delle neutropenie autoimmuni esistono quindi quadri caratterizzati dal contemporaneo interessamento dei progenitori midollari e delle cellule mature terminali, a differenza della neutropenia midollare pura autoimmune (9,10) nella quale la completa scomparsa della linea granulopoietica dal midollo è il risultato dell'aggressione, anticorpale o più raramente cellulo-mediata, di un progenitore mieloide molto immaturo. La Porpora Trombocitopenica Autoimmune (Idiopatic Thrombocytopenic Purpura – ITP ) appare oggi il più completo paradigma di come una citopenia periferica possa integrarsi e complicarsi con un meccanismo iporigenerativo, sempre a patogenesi autoimmune. Molto efficacemente, Nieuwenhuis & Sixma hanno parlato di "Thrombocytopenia and the neglected megakaryocyte" proprio per richiamare l’attenzione sul possibile coinvolgimento dei progenitori megacariocitari nella patogenesi delle piastrinopenie immunomediate (11). Gli studi di cinetica in vivo di piastrine radiomarcate prima, e l’analisi in vitro delle caratteristiche di crescita dei progenitori megacariocitari negli anni più recenti, hanno effettivamente messo in discussione il paradigma che la piastrinopenia immunomediata sia provocata esclusivamente dalla distruzione delle piastrine circolanti ad opera degli autoanticorpi, e che tale fenomeno si accompagni sempre ad un efficace incremento della loro produzione per compensarne la ridotta sopravvivenza. La prima segnalazione dell'esistenza di una difettosa produzione piastrinica in corso di Porpora Trombocitopenica Autoimmune deve essere ascritta al nostro gruppo (12). In base ai risultati degli studi di cinetica di piastrine radiomarcate con 51Cr, era stata individuata una coorte di pazienti con ridotta sopravvivenza piastrinica che non presentava l'atteso incremento della produzione midollare (espressa come “turnover piastrinico”). Pertanto, i 26 soggetti con porpora trombocitopenica autoimmune esaminati in questo studio erano stati suddivisi in due gruppi: in uno di questi, il turnover piastrinico era superiore alla norma, quale espressione della adeguata risposta midollare compensatoria alla riduzione della sopravvivenza piastrinica, mentre nei restanti 11 casi esso risultava inaspettatamente basso. Poiché in questo ultimo gruppo --caratterizzato inoltre da piastrinopenia più grave, modesta riduzione della sopravvivenza media delle piastrine, e presenza di piastrine circolanti di piccole dimensioni-- non erano state evidenziate alterazioni significative del numero dei megacariociti midollari, fu avanzata l'ipotesi che si verificasse una alterazione dei meccanismi di maturazione megacariocitaria e/o del rilascio di piastrine. Queste osservazioni sono state poi confermate ed ampliate da altri gruppi (13-16), e si è dimostrato che in circa il 30% dei casi di ITP si verifica una difettosa produzione piastrinica, la quale concorre alla piastrinopenia conseguente alla distruzione epatosplenica anticorpo-mediata. Al riguardo, infatti, Siegel et al. (17) hanno osservato che la risposta alla splenectomia risultava significativamente migliore nei pazienti con elevato turnover (pur con durata di vita media piastrinica molto ridotta) rispetto a quelli con turnover ridotto e che presentavano anche solo una modesta riduzione della sopravvivenza piastrinica. Inoltre, è stato dimostrato che il miglioramento della conta piastrinica che segue alla terapia steroidea deve essere attribuito principalmente all'aumento della produzione midollare di piastrine, mentre la loro sopravvivenza in circolo risulta quasi immodificata (18). 216 I dati desunti dagli studi di cinetica hanno permesso di riconciliare anche precedenti acquisizioni sperimentali, come il fatto che le IgG prodotte in vitro da linfociti splenici di pazienti con ITP erano capaci di legarsi ai megacariociti midollari oltre che alle piastrine (19), e che in ratti resi piastrinopenici mediante iniezione di siero antipiastrine l'indice di marcatura con 3H-timidina dei megacariociti risultava significativamente inferiore rispetto ad animali nei quali la piastrinopenia era ottenuta con ripetute piastrinoaferesi (20). I meccanismi con cui gli anticorpi possono determinare una riduzione della produzione piastrinica sono stati oggetto di diversi studi in vitro, nei quali è stata valutata principalmente la capacità dei progenitori megacariocitari (CFU-Mk) di formare colonie. Questi studi hanno fornito in parte risultati contrastanti; una ridotta formazione di colonie megacariocitarie è stata osservata da alcuni autori (21), mentre altri hanno riportato un aumento della frequenza delle CFU-Mk (22), analogamente a quanto risultava da modelli animali con piastrinopenia indotta mediante antisieri policlonali (23,24). Inoltre, le CFUMk nell'ITP presentano un'accelerazione del ciclo cellulare (14), ed è ben noto che il numero dei megacariociti negli strisci di sangue midollare è aumentato, in alcuni casi in maniera significativa. Nel complesso, pertanto, questi studi sembrano escludere l'ipotesi di una lesione a carico del compartimento proliferativo dei megacariociti, sebbene in rari casi gli anticorpi possano presentare attività citotossica (25) La possibilità che il punto d’azione degli anticorpi sia a carico delle fasi maturative più avanzate è stato oggetto di un recentissimo studio di Takahasi e coll. (26), i quali hanno valutato gli effetti di tre diversi anticorpi monoclonali (anti-GpIb, anti-Gp-IIb, antiGp-IIIa) sia sulla crescita di CFU-Mk che sulla formazione di propaggini citoplasmatiche da parte di megacariociti maturi (le cosiddette “proplatelets”, che sono considerate espressione del processo di rilascio piastrinico in sistemi in vitro). È stato osservato che gli anticorpi diretti contro epitopi della GpIb inibivano marcatamente sia la formazione di colonie megacariocitarie (come osservato anche da Hasegawa e coll.; 27) sia ancor più la formazione di propaggini citoplasmatiche dai megacariociti maturi; al contrario, gli anticorpi anti-GpIIb avevano una modesta azione inibente sulla formazione dei processi citoplasmatici ma non sulle CFU-Mk, mentre gli anticorpi anti-GpIIIa non avevano effetti di rilievo su entrambi i processi in coltura. Appare quindi verosimile che la ridotta produzione piastrinica osservata in vivo debba essere attribuita prevalentemente ad una mortificazione delle fasi terminali della maturazione megacariocitaria, e più raramente ad un effetto antiproliferativo. Un altro punto importante sollevato dai risultati di questo studio è che la patogenesi della piastrinopenia (prevalente periferica o con associata componente centrale) può dipendere anche dal tipo di anticorpo e quindi dal target antigenico. In effetti, le forme di ITP con anticorpi anti-GpIb sono caratterizzate da una piastrinopenia più grave rispetto a quelle con anticorpi anti-GpIIIa (28,29). In altre condizioni assai più rare, le Porpore Piastrinopeniche Amegacariocitiche Acquisite, la cellula bersaglio del processo autoimmunitario (sia esso anticorpo- o cellulomediato (30,31) è rappresentata esclusivamente dai progenitori megacariocitari più immaturi, tanto è vero che la sopravvivenza delle poche piastrine rilasciate dal midollo è normale (32). Nell'ambito delle anemie a patogenesi autoimmune, la distinzione classica tra quadri da diminuita produzione e aumentata distruzione periferica si esemplifica nelle aplasie eritroidi pure (PRCA) e nelle anemie emolitiche, rispettivamente. Nel primo caso, si assiste ad una selettiva eritroblastopenia, senza compromissione della serie megacariocitaria o mieloide, dovuta ad autoanticorpi della classe IgG rivolti contro 217 antigeni espressi sui progenitori eritroidi commissionati (BFU-E e CFU-E) e sugli eritroblasti (33); alcune forme idiopatiche, e quelle associate a LLC, possono risconoscere anche un meccanismo T-cellulo-mediato (34). Nelle anemie emolitiche autoimmuni (2,3), il bersaglio degli anticorpi reagenti a caldo è rappresentato da indefiniti antigeni della membrana degli eritrociti, mentre antigeni del sistema I/i e P costituiscono il bersaglio degli anticorpi "freddi" e della emolisina bifasica di Donath-Landsteiner, rispettivamente. In queste situazioni, l'importante reticolocitosi e la intensa iperplasia eritroblastica midollare, spesso con caratteristiche di megaloblastosi, depongono per una adeguatezza del compenso eritropoietico midollare all’entità della distruzione periferica. La possibilità di un coinvolgimento midollare nelle anemie emolitiche ha ricevuto meno interesse rispetto alle porpore autoimmuni, in gran parte per la relativa semplicità diagnostica e la stessa tumultuosità delle crisi emolitiche. Sono però state descritte forme di anemia emolitica accompagnate da reticolocitopenia, pur in presenza di midollo iperplastico eritroide, che sono probabilmente dovute ad anticorpi reattivi con un antigene "maturazione-dipendente" che viene espresso anche sui reticolociti (35,36). Inoltre, Mangan et al. (37) ha accuratamente documentato un caso di eritroblastopenia in corso di anemia emolitica autoimmune con anticorpi contro l'antigene e del sistema Rh, che era insorta per la comparsa di un secondo anticorpo reagente con le BFU-E e CFU-E, ma non con le CFU-GM. Infine, in un paziente con anemia emolitica in corso di infezione da virus dell’epatite A è stata osservata una eritroblastopenia, risoltasi con la terapia steroidea (38). Deve essere ragionevolmente esclusa la possibilità che le “crisi eritroblastopeniche” che talora accompagnano l’anemia emolitica siano dovute ad una concomitante infezione da parvovirus-B19 (39). I quadri di citopenia autoimmune finora descritti si caratterizzano tutti per la selettività del "bersaglio" cellulare, nel senso che l’azione degli anticorpi provoca una citopenia specifica, sia nelle forme a patogenesi periferica che quelle a patogenesi centrale o combinate. Ma, accanto a queste situazioni, selettive per una determinata tipologia cellulare, deve essere presa in considerazione anche la possibilità di forme miste, in cui si verifica un contemporaneo coinvolgimento di cellule mature e di cellule emopoietiche appartenenti a linee diverse. Il paradigma di questa autoimmunità diretta contemporaneamente contro cellule diverse è costituito dalla Sindrome di Evans (40), in cui l’anemia emolitica autoimmune si combina con una piastrinopenia anch’essa a patogenesi autoimmune. Sono note forme sia idiopatiche che associate ad altre malattie, soprattutto a patogenesi autoimmunitaria, ed anche dopo trapianto di midollo osseo (41-43). Alla sindrome di Evans a patogenesi esclusivamente periferica, quale espressione di anticorpi diretti contro i globuli rossi e contro le piastrine, potrebbe fare pendant, secondo quanto si è detto a proposito delle mielopatie autoimmuni, l’interessamento di una cellula emopoietica bipotente, commissionata sia per la linea eritroide che per quella megacariocitica. Ciò trova riscontro nella normale emopoiesi, in quanto è nota l'esistenza di progenitori cellulari bipotenti, che rappresentano una tappa evolutiva intermedia nel corso del definitivo commissionamento linea-specifico (44). La condizione meglio definita è rappresentata dai progenitori bipotenti della serie eritroide e megacariocitaria (E/M), la cui esistenza è stata ipotizzata in base a numerose evidenze sperimentali, che comprendono: l'espressione degli stessi fattori di trascrizione nucleare in cellule eritroidi e in megacariociti (45); il fatto che la maggior parte delle linee eritro-leucemiche umane esprime contemporaneamente caratteri megacariocitari (46); la dimostrazione che anche un modello eritroide "puro", quale le cellule infettate dal virus di Friend, sono inducibili 218 sia verso la maturazione eritroide che megacariocitaria (47); le note analogie molecolari e funzionali tra eritropoietina e trombopoietina (48). Infine, cellule con caratteri misti E/M sono state identificate nel midollo umano (49,50). Del tutto recentemente il nostro gruppo ha descritto l'isolamento e la purificazione del progenitore bipotente E/M nel sistema murino (51; submitted). Questa cellula, che esprime contemporaneamente antigeni maturativi delle serie eritroide e megacariocitaria, è presente nel midollo di animali normali, aumenta grandemente, sia nel midollo che nella milza, in seguito alla induzione di una anemia emolitica, e rappresenta una tappa obbligatoria nell'emopoiesi fetale (osservazioni personali non pubblicate); i progenitori bipotenti, isolati dalla milza di animali anemici, sono inducibili in coltura al differenziamento eritroide e megacariocitario in presenza di eritropoietina e trombopoietina. La possibilità che progenitori bipotenti possano divenire bersaglio di una reazione autoimmune non è stata ancora esplorata, ma è certamente suggestivo ipotizzarne il coinvolgimento in alcune situazioni cliniche, configurando il quadro di una mielopatia autoimmune esclusiva, oppure contemporanea ad una citopenia periferica. L'ipotesi che nella stessa Sindrome di Evans si possa verificare un danno a carico del progenitore bipotente E/M non è affatto inconciliabile con alcune osservazioni che suggeriscono in questa condizione la presenza di due anticorpi distinti, non cross-reattivi tra eritrociti e piastrine mature (52), ma che potrebbero riconoscere gli antigeni espressi entrambi transitoriamente sulla membrana del progenitore bipotente. Anche l'osservazione clinica che la sindrome di Evans è scarsamente responsiva alla terapia può far supporre, almeno in alcuni casi, un meccanismo diverso, o almeno aggiuntivo, rispetto a quello della citolisi periferica isolata, in maniera analoga a quanto è stato osservato per le piastrinopenie con ridotta produzione midollare. 219 BIBLIOGRAFIA 1. Galli M, Finazzi G, Barbui T. Thrombocytopenia in the antiphospholipid syndrome. Brit J Haematol 1996; 93: 1-5. 2. Winkelstein A, Kiss JE. Immunohematological disorders. JAMA 1997; 278:1982-92. 3. 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Marmont Dipartimento di Ematologia (DEMA) Ospedale S.Martino, Genova Introduzione La terapia delle malattie autoimmuni gravi (MAI) è stata recentemente rivitalizzata dall’introduzione di procedure di immunosoppressione intensa ad intento immunoablativo, seguite da vero e proprio trapianto di CSE allogeniche, da rescue autostaminale, oppure senza “soccorso” ematopoietico alcuno. Tali nuovi indirizzi sono nati da una serie di brillanti risultati ottenuti in patologia sperimentale, e da alcune proposte cliniche (1,2). Da allora l’esperienza clinica si è enormemente sviluppata, e per quanto riguarda l’autotrapianto è sorto un Working Party dell’EBMT coordinato da Tyndall che include studi clinici in fase I/II. Numerosi altri studi sono in corso, ed esiste ormai un grande numero di piccole casistiche od anche di casi singoli. Poiché qui non si potrà che dare un profilo generale della situazione, si rimanda alle riviste sintetiche più recenti, sia sperimentali (3,4) che cliniche (5-13). La prevalenza delle MAI è stimata dal 3 al 6-7% della popolazione dei Paesi occidentali. La complessità dei rapporti fra eziologia intrinseca, su base genetica (“autogeni”), ed estrinseca è ulteriormente complicata dalle diversità fra le singole MAI, e persino anche fra i subtipi di una determinata malattia. La questione se la reazione anticorpale nelle MAI sistemiche sia antigene-diretta, per cui un sistema immune “normale” reagisce a proteine “self” divenute autoantigeniche (14), o se siano MAI sostenute da una disfunzione primitiva del sistema immunologico (15), è tuttora irrisolta (12,13). E’ fondamentale rendersi conto che entrambe tali ipotesi non sono mutuamente esclusive. La maggioranza delle MAI è controllata, più o meno soddisfacentemente, dalle manipolazioni consuete del sistema immune, ma esiste uno zoccolo duro di MAI refrattarie/ricadenti per le quali è stata proposta la definizione pienamente appropriata, di “autoimmunità maligna” (16). Come osservano recentemente Mackay e Rose (17) il Santo Graal del trattamento dovrebbe consistere in una terapia mirata in grado di distruggere specificamente (ed esclusivamente) i cloni immunocitari patogeni responsabili della MAI. Ma anche se ciò fosse possibile –e l’argomento di questa relazione investe solidamente questo tema- il secondo e non meno importante obiettivo consiste nell’evitare una riautoimmunizzazione, ossia il conseguimento dell’autotolleranza specifica. Ricerche in modelli animali Sostanzialmente esistono due tipi di MAI animali: nel primo tipo la malattia insorge spontaneamente a causa di combinazioni genetiche specifiche, mentre nel secondo la 224 stimolazione antigenica è fondamentale. Si parla pertanto di forma ereditarie o indotte. Nel 1974 Morton e Siegel trasferirono il LES murino in topi BALB / C H-2d compatibili irradiati trapiantando midollo intiero da topi affetti (18). Tale trasferimento adottivo fu poi riprodotto in altre forme di LES murino, sindrome antifosfolipidica, diabete mellito insulino-dipendente (IDDM), encefalomielite autoimmune sperimentale (EAE) ed artrite da adiuvante, considerate entrambe modelli sperimentali della sclerosi multipla (MS) e dell’artrite reumatoide (AA) umane. I particolari di tali sperimentazioni sono riportati altrove (19,12). L’identità degli elementi cellulari veicolanti l’informazione autoimmune è discussa: sicuramente linfociti di pazienti autoimmuni sono in grado di riprodurre la malattia nei topi NOD/SCID (20), ma nella sperimentazione fra animali hanno assunto importanza fondamentale le CSE (lett. In 19,3,5,6). In una estesa serie di ricerche Ikehara e coll. hanno trovato che le MAI possono essere trasferite con CSE purificate, che queste sono capaci di proliferare anche in microambienti MHC-mismatched, e che le cellule stromatiche “le abbracciano come madri con i loro bambini” (4,21). Ikehara ha pertanto definito le MAI (sperimentali) quali “malattie policlonali delle CSE”. In via bidirezionale le stesse MAI sperimentali che si sono dimostrate trasferibili con il trapianto sono state guarite mediante trapianti da congeneri sani. Si poté dimostrare che MAI anche avanzate potevano essere curate a seguito di irradiazione e trapianto di CSE (2-4). Altre ricerche sperimentali hanno dimostrato non solo un effetto del tipo Graftversus-Autoimmunity nei topi NOD, ma anche un effetto terapeutico del chimerismo misto, nonostante la persistenza delle cellule T endogene (lett. In 22). Tale ultimo aspetto mette in discussione fenomeni di soppressione e/o di veto (23), e sta alla base dell’impiego di procedure nonmieloablative anche nel campo delle MAI (22). Infine la dimostrazione dell’effetto terapeutico del trapianto autologo/pseudoautologo nell’artrite da adiuvante e parzialmente anche nell’EAE (24,25) ha contribuito in maniera fondamentale all’attuale estesa sperimentazione clinica. Esperienza clinica Autoimmunità post-trapiantologica. Il termine di “autoimmunità adottiva” fu proposto da me nel 1992 per indicare il trasferimento di una MAI da un donatore di CSE ad un ricevente (26). Se è dimostrabile un trasferimento diretto o di linfociti patogeni o di CSE in grado di generarli la patogenesi è chiara. Ma ci sono anche casi in cui, anche senza tale dimostrazione, l’ipotesi di autoimmunità adottiva non può essere né criticata né respinta, come nei casi di trasmissione post-trapiantologica di morbo celiaco (27) che di psoriasi pustolosa palmoplantare con simultanea guarigione di AML del ricevente (28). Tuttavia altri casi possono essere attribuiti allo squilibrio immunologico che si verifica dopo allotrapianto: è la teoria del “caos immunologico” di Sherer e Shoenfeld (29). Tale interpretazione è rafforzata dall’emergenza di anticorpi autoreattivi e da una sequela di complicazioni autoimmuni multiple che tennero dietro ad autotrapianti (30,31). Le casistiche più importanti di autoimmunità adottiva sono state osservate a carico della tiroide, con frequente ipotiroidismo ma anche con 8 casi di ipertiroidismo pubblicati (32), diabete mellito insulino-dipendente IDDM e miastenia grave, una situazione molto particolare. Tali aspetti sono approfonditi altrove (6,13,26). Ma deve essere ricordato che non vi fu trasmissione di malattia in 2 pazienti leucemici trapiantati da donatori affetti da RA e LES (33) 225 Risoluzione di MAI pre-esistenti a seguito di trapianto allogenico. Si tratta di situazioni morbose cosiddette coincidenziali, largamente discusse altrove (6,13). La casistica più numerosa è quella di RA trapiantati a causa di anemia aplastica severa (SAA) iatrogena (6,13,35,36,37). La perplessità maggiore deriva dalle ricadute nonostante un chimerismo completo (36,37). Sei casi con malattia di Crohn e leucemia ricevettero trapianti allogenici a Seattle (38). Dei 5 pazienti valutabili 4 non ebbero segni di malattia anche a 15 anni post-trapianto. La sindrome di Evans è una emopatia grave (39). Un bambino di 5 anni tenacemente refrattario andò in remissione completa dopo trapianto cordonale (40). Un altro caso adulto è in remissione completa dopo trapianto allogenico (R.K. Burt, comunicazione personale). Trapianti autologhi. Il trapianto di CSE autologhe, da midollo ma sempre più frequentemente dal sangue, viene impiegato molto più estesamente per due motivi fondamentali: gli incoraggianti risultati di Rotterdam (41,42) e la maggiore sicurezza del procedimento autologo (6,26,35,43). Tuttavia nello studio europeo la TRM a 2 anni fu accertata a 8±6%, mortalità che viene paragonata a quella corrispondente per i linfomi non-Hodgkin. E’ questione di sensibilità giudicare se tale paragone sia incoraggiante o meno, come sarà discusso più oltre. La MS è diventata l’indicazione clinica principale grazie alle ricerche cliniche pionieristiche di A.Fassas (44) e di altri (45). Uno studio controllato collaborativo neurologico-GITMO sta trattando pazienti affetti da MS primaria e secondaria progressiva con valutazione clinica, biologica e di RMN. La mobilizzazione delle CSE viene compiuta con CY 4g/mg + G-CSF, ed il condizionamento con il protocollo BEAM di Fassas (44), ormai impiegato a livello europeo. In tutta questa vasta casistica si è costantemente verificato un significativo miglioramento clinico, che non è possibile analizzare qui. Ma uno dei risultati più interessanti (ed incoraggianti) è stata la regressione, spesso completa, delle lesioni neurologiche già dopo la mobilizzazione con CY, dimostrando così la capacità dei metaboliti oxazaforinici di penetrare nelle lesioni, forse anche grazie all’alterazione della barriera emato-encefalica operata dalla malattia. Nelle aree delle malattie reumatiche 10 pazienti con RA hanno ricevuto autotrapianti a Sidney senza particolare tossicità (36). Tuttavia in uno studio prolungato su 4 pazienti le remissioni furono seguite da ricadute dopo 8-24 mesi, così che si è già pensato al duplice autotrapianto (46). Nell’artrite reumatoide giovanile (JCA) grave e refrattaria sono stati pubblicati 4 casi (47), ma altri 6 sono già stati effettuati (N. Wulfraat, comunicazione personale). Il regime di condizionamento fu molto intenso (ATG, CY 200 mg/kg, TBI 46y), le remissioni furono buone, ma ci furono 2 casi di TRM tardiva. L’aggressività della JCA fu anche dimostrata dal fatto che nella stessa si verificarono le ricadute più precoci (48). Come preconizzato nel 1993 (49), il LES refrattario/ricorrente sta divenendo un’indicazione maggiore per IS ad alte dosi e rescue con CSE autologhe. Una discussione approfondita dell’argomento è stata pubblicata molto recentemente (50), e si rimanda alla stessa per maggiori particolari. In 4 casi di LES e neoplasia (NHL, CML) si ebbero risultati variabili, con talora una ricaduta del LES più precoce di quella del NHL. Per quanto riguarda il LES isolato, ci sono 7 casi pubblicati di pazienti trattati con autotrapianti. Nel primo caso si è verificata una ottima remissione parziale (51), ma dopo 40 mesi dal trapianto si è accertata una modica risalita degli ANA. Una donna con LES grave 226 complicato da glomerulonefrite proliferativa focale è in remissione completa corticoindipendente un anno dopo il trapianto (52). Un caso complicato da sindrome di Evans (ES) è anche in remissione completa (53). Quattro casi sono stati autotrapiantati a Chicago, e con un FU mediano di 17 mesi sono in remissione completa corticoindipendente (54). La sclerosi sistemica (SSc) può essere una malattia gravissima, in cui la fibrosi polmonare interstiziale è la più frequente causa di morte. Oltre a casi sporadici discussi altrove (6,13) ed alla casistica del Registro dell’EBMT, sono da ricordare 5 casi trattati a Seattle con CY 120mg/kg, TBI 8 6y ed ATG 90mg/kg, seguiti da CD34+ autologhe selezionate (55). Un certo grado di miglioramento, con arresto di progressione di malattia, fu ottenuto in tutti. Ma il risultato più brillante è quello che si è ottenuto recentemente in una paziente di 13 anni con coinvolgimento polmonare grave e progressivo, che ricevette CD34+ selezionate dopo mobilizzazione con CY 4g/mg e C-CSF e fu condizionata ancora con CY, 200mg/kg. Due anni dopo il trapianto le immagini polmonari a vetro smerigliato sono scomparse, la paziente è corticoindiendente, ed è stata accertata una normalizzazione della crescita (56). In contrasto, il titolo degli ANA e degli anti-Scl-70 è rimasto sostanzialmente invariato. Quattro casi di trombocitopenia autoimmune (AITP) refrattaria anche dopo splenectomia sono stati trattati con IS intensa seguita da CSE autologhe. Nei primi 2 casi si ebbero remissioni piastriniche complete corticoindipendenti (57), ma successivamente si verificarono ricadute (S. Lim, comunicazione personale). In altri 2 casi vi fu una totale refrattarietà (58,59). Un commento più esteso è stato pubblicato altrove (39). Immunosoppressione intensa senza rescue di CSE. Il trattamento con dosi elevate di CY (200mg/kg) è stato impiegato presso il Johns Hopkins di Baltimore alcuni anni fa per la SAA (60), ed è stato recentemente esteso ad uno spettro di MAI gravi, includenti la sindome di Felty, l’AITP e la ES (61). La ricostituzione ematologica non si diversificò da quella che si verifica dopo autotrapianto. Ciò fu attribuito al fatto che le CSE molto immature esprimono livelli elevati di aldeide deidrogenasi, un enzima considerato responsabile per la resistenza cellulare alla CY (62). Nella messa a punto più recente sono stati così trattati 27 pazienti con una varietà di MAI (12 LES, 5 neutropenia autoimmune, 3 polineuropatia, 2 miastenia grave, 2 AIHA, 1 AITP, 1 ES, 1 pemfigo). Tredici pazienti sono in remissione completa, clinica e sierologica, con un FU mediano di 9 mesi (63). Le dosi elevate di CY producono chiaramente remissioni a lungo termine, come è stato anche osservato in un caso di LES avente ricevuto per errore una dose unica di 5g di CY (64). T deplezione. Nelle MAI attive i pazienti non sono mai in remissione completa prima dell’autotrapianto, per cui una deplezione dei T linfociti autoreattivi contenuti nella massa dei T linfociti è considerata “obbligatoria” da van Bekkum (9). La maggioranza delle MAI è T mediata, e nelle B-mediate (20) esiste una preminente dipendenza T, talchèla deplezione può essere focalizzata sui linfociti T. Questa può essere ottenuta mediante selezione positiva delle CD34+, mediante TCD immunologica, e mediante la combinazione di entrambi i procedimenti. Inoltre si ottiene una TCD in vivo somministrando ATG ai riceventi (44,45,54). Si è generalmente impiegata una deplezione di 3 log, ma questo livello è stato superato per un caso di LES (52). E’ peraltro noto che una TCD eccessivamente spinta può essere poi seguita da complicazioni virali e fungine, nonché da malattie linfoproliferative. E’ palese che non si può confidare nelle DLI nel setting autologo. Come 227 è stato detto recentemente, non ha molto senso curare una MAI solo per sostituirla con una IS profonda e permanente (65). La ricostituzione immunologica. La ricostituzione del sistema immune è stata studiata estesamente sia dopo trapianto allogenico che autologo. La letteratura è profusa, e si rimanda a due ottime riviste sintetiche recenti (66,67). La caratteristica più significativa consiste nella depressione profonda e prolungata del subset CD34+ (50,51,66,67). Uno studio dopo autotrapianto di CD34+ FACS-selezionate ha suggerito una predominante produzione di CD8+ in siti extratimici che favoriscono le CD8+ sulle CD4+ (68). Il prolungato fenotipo immunosoppresso, che si trova dopo trapianto allogenico/autologo tanto per malattie neoplastiche che autoimmuni, è caratterizzato dall’inversione del rapporto CD4+/ CD8+, e dal predominio iniziale di linfociti memoria CD45RO, seguito dopo molti mesi ed anche anni dalla ricomparsa di linfociti naive CD45RA. Il marker di attivazione T CD69, che era altamente espresso in pazienti di LES prima dell’autotrapianto, declinò significativamente dopo lo stesso, con una deviazione della produzione di citochine come da un fenotipo Th1/Th2 più vicino alla normalità (54). Discussione E’ noto che l’autoimmunità è multifattoriale (69,70): fattori genetici, immuni, ormonici ed ambientali concorrono tutti nell’uomo, a differenza di molti modelli animali, nel determinismo delle singole autoimmunopatie (13). Le concezioni predominanti sull’autoimmunità predicono che guarigioni stabili sono in via teorica ottenibile a tre condizioni: 1. Eradicazione delle cellule immunocompetenti del paziente. 2. Loro sostituzione da parte di cellule istocompatibili sane. 3. Non suscettibilità delle stesse a “whatever breaks tolerance”, come concisamente ma competentemente scritto da van Bekkum (9). Dei tre approcci che sono stati discussi, e cioè 1) il trapianto di CSE allogeniche, 2) il rescue con CSE autologhe dopo immunosoppressione intensa, e 3) IS intensa da sola non c’è dubbio che il primo approccio si presenti come il più promettente. Come si è visto, i trapianti allogenici sono stati generalmente seguiti da remissioni prolungate, anche se non possiamo (ancora?) parlare di guarigioni. Tuttavia un primo svantaggio è la TRM, che pur decrescendo costantemente negli ultimi anni nelle leucemie (71), è tuttora inaccettabile nelle MAI. Inoltre la fiducia nell’allotrapianto non può non essere scossa dai casi di RA ricaduti nonostante la ricostituzione immunologica del donatore (35,36). La ricaduta leucemica nelle cellule del donatore è un evento conosciuto, ma segnalato sempre meno recentemente; tuttavia nel caso delle MAI è difficile non ipotizzare come causa più probabile una risensibilizzazione, tanto più che si tratta nella grande maggioranza di patologie antigene-dirette (14), e che l’istotipo HLA del donatore è nella grande maggioranza identico a quello del ricevente. Se si dovessero riscontrare altri casi del genere nel futuro, il gradiente di vantaggio bioimmunologico della procedura allogenica nei confronti dell’autologa ne sarebbe considerevolmente indebolito (72). Di fronte a tali considerazioni negative sorge peraltro la recente acquisizione dei nuovi 228 regimi di condizionamento non mieloablativi (73,74,75), noti anche come “transplantlite” (74) e trapianti “metakinici” (76). Se si confermasse l’esistenza di un effetto GVA anche in clinica, così come è stato osservato negli esperimenti sui topi NOD ( ), esso potrebbe forse ovviare al problema della ricapitolazione non solo dell’immunità ma, quello che più conta, dell’autoimmunità. E’ vero che il chimerismo misto può avere ragione di sindromi disimmuni quali la linfocitosi emofagocitica familiare (77), e che è stato postulato che possa essere efficace anche nelle MAI (75),ma questa è per ora solo una speranza. Nei rari casi di gemelli identici nonconcordanti per malattia si potrebbero prendere in considerazione anche i trapianti singenici. Nel caso del LES, ad esempio, solo il 23% di 66 gemelli monozigoti fu trovato concordante per la malattia (78), anche se sono state segnalate concordanze più elevate (79). Anche l’utilizzazione di sangue cordonale è suscettibile di divenire un’opzione interessante per pazienti pediatrici, come è stato effettuato nel caso di ES già ricordato (40). Attualmente, comunque, il trapianto autologo viene prospettato come una soluzione possibile per MAI gravi e refrattarie alle terapie convenzionali soprattutto in considerazione della minore TRM e della maggiore fattibilità (5-8,13,35,43,80). Nel Registro dell’EBMT la probabilità di sopravvivenza globale (±95CI) a 2 anni fa 89±7%, ed il rischio di TRM 8±6%, che è paragonabile a quello per malattie maligne (48). Nonostante tale equivalenza, che è stata definita “incoraggiante”, essa non è poi tanto soddisfacente, ed è legittimamente prevedibile che non possa essere ulteriormente ridotta mediante una più accurata selezione dei pazienti ed una migliore interazione fra i vari specialisti. Le CSE periferiche sono ormai preferite a quelle midollari in pressochè tutte le condizioni morbose (81), ma dosi eccessivamente elevate di CY per la mobilizzazione, come quelle utilizzate nelle emoblastosi, vanno decisamente scoraggiate. Non si ripeterà mai a sufficienza ai trapiantisti che i pazienti affetti da MAI sono quasi sempre più fragili e con maggiori danni d’organo diffusi degli emopatici. Il dosaggio di 4g/mg (con G-CSF) assicura una buona mobilizzazione e di per sé esercita un effetto terapeutico preliminare, come abbiamo chiaramente dimostrato nella MS. Ma l’essenza del problema risiede nel fatto se l’IS intensa seguita da ASCT sia veramente in grado di indurre l’autotolleranza, o, se vogliamo, l’eradicazione dell’autoimmunità. Si è visto che ciò è stato ottenuto in patologia sperimentale, ma in clinica questo ambizioso obiettivo (“reprogramming the immune system”, Waldmann 82) è ancora lontano. Ben più probabile appare una riduzione anche prolungata del potenziale autoimmune: un caso paradigmatico è quello del primo caso di LES autotrapiantato a Genova (51), nel quale solo dopo 40 mesi si assiste ad un graduale simultaneo incremento degli ANA e dei CD4+. Ma se l’effetto principale è indotto dalla IS intensa, allora la metodica del Johns Hopkins (60,61) appare la più razionale, anche perché elimina totalmente la reinfusione di linfociti autoreattivi. Tuttavia la criopreservazione delle CSE è un procedimento di sicurezza che sembra irrinunciabile. Non si può trascurare il problema dell’oncogenicità tardiva, come in particolare nei bambini affetti da JCA, che ricevono una combinazione di TBI (4 6y) e di CY (200mg/kg). E’ noto che il rischio oncogeno, sia di tumori solidi che di emoblastosi (leucemie e mielodisplasie) è più elevato dopo terapie con modalità combinate (83). E’ importante che si cerchi con ogni mezzo di prevenire o diminuire il rischio dell’oncogenicità tardiva. Infine sono necessari studi comparativi, possibilmente per mezzo di studi prospettici randomizzati. Si possono già proporre alcuni orientamenti. Per quanto 229 riguarda la RA, i risultati estremamente incoraggianti che vengono riportati con l’Etanercept (una proteina di fusione umana coinvolgente il ricettore per il TNF; 84) possono essere confrontati con quelli delle procedure immunosoppressive intense. Per la JCA, oltre all’Etanercept, il paragone può essere effettuato con la procedura, in realtà consimile, di CY a boli prolungata nel tempo (85). Ma è anche possibile modificare gli algoritmi e, per fare un esempio, programmare un mantenimento con IFN-ß (86) dopo aver ottenuto la remissione con l’IS intensa nei pazienti con sclerosi multipla Anche se l’ASCT non è stato in grado di riprodurre risultati sovrapponibili a quelli così brillanti dell’immunopatologia sperimentale, alcuni benefici significativi sono stati e si vanno ottenendo, ed una più intelligente ed approfondita collaborazione interdisciplinare ne è già un risultato importante (6,9). CONCLUSIONI RIASSUNTIVE La terapia immunosoppressiva ad alta intensità ha modificato significativamente in meglio il decorso clinico delle malattie autoimmuni gravi, costantemente recidivanti e refrattarie. Riassumendo la considerevole mole di lavoro che è stata effettuata negli ultimi anni, si può affermare che le procedure sono essenzialmente tre, cioè immunosoppressione intensa seguita da trapianto allogenico, da trapianto autologo e senza rescue staminale di qualsiasi genere. La procedura allogenica, sinora impiegata esclusivamente per malattie coincidenziali, potrà forse trovare un’applicazione più vasta utilizzando le tecnologie nonmieloablative. Il problema reale è il conseguimento della tolleranza, talora negato dall’evenienza dell’autosensibilizzazione agli autoantigeni. Il trapianto autologo trova attualmente una larga diffusione internazionale. I risultati migliori sono stati conseguiti sinora nella sclerosi multipla, ma anche molte malattie autoimmuni “reumatiche” ne hanno tratto giovamento. E’ più verosimile che si tratti di remissioni, talora anche a lungo termine, che non di guarigioni autentiche; tuttavia ciò non significa che si tratti di risultati non importanti. L’immunosoppressione con dosi elevate (200mg/kg) di ciclofosfamide senza supporto staminale di sorta sta fornendo risultati incoraggianti presso il Johns Hopkins di Baltimore, USA. Una conclusione generale è che molte malattie autoimmuni gravi si giovano di indirizzi terapeutici non sospettati alcuni anni fa. Inoltre l’impiego sempre più esteso di tali metodiche promuove un’intesa fra specialisti su comuni basi biologiche che non può non essere fruttifera per le scienze biomediche e per i pazienti. 230 BIBLIOGRAFIA 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16 17 18 19 Marmont AM. Perspective: Immune ablation with stem cell rescue: a possible cure for systemic lupus erythematosus; Lupus 1993; 2: 151-6 Slavin S. 1993. Treatment of life-threatening autoimmune diseases with myeloablative doses of immunodepressive agents: experimental background and rationale for ABMT. Bone Marrow Transplant; 1993;12: 201-10 Van Bekkum DW. Review: BMT in experimental autoimmune diseases. Bone Marrow Transplant 1993; 11: 183-7 Ikehara S. Bone marrow transplantation for autoimmune diseases. Acta Haematol. 1998; 99: 116-132 Snowden JA, Brooks PM, Biggs JC. 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