E N A D TV AT IO R VRBIN VNIVE ICA RS BL IT PV S S Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Facoltà di Scienze e Tecnologie Dottorato di Ricerca in Meccanismi di Regolazione Cellulare: Aspetti morfo-funzionali ed evolutivi XXIII Ciclo VALUTAZIONE DELLA MORTALITÀ INDOTTA DALLE RADIAZIONI IONIZZANTI SU CELLULE CONGELATE TUTOR Chiar.mo Prof. Loris Zamai DOTTORANDA Dott.ssa Giulia Cugia Settore scientifico disciplinare BIO/16 ANNO ACCADEMICO 2009/10 Ai miei splendidi genitori, ai miei due fratellini e a Marco per l’amore di cui sono capaci. Indice PARTE PRIMA - Introduzione alla ricerca 1. LE RADIAZIONI IONIZZANTI 1 1.1 Aspetti generali 1 1.2 Il danno biologico radio-indotto: fonti intrinseche ed estrinseche di danno al DNA 4 1.3 Danni al DNA indotti da radiazioni ionizzanti 6 1.3.1 Ipersensibilità e radio-resistenza indotta 8 1.3.2 Risposta adattativa 8 1.3.3 Instabilità genomica 9 1.3.4 Fattori clastogenici indotti da radiazione ed effetto bystander 12 1.3.5 L’influenza dell’organizzazione strutturale della cromatina sulla produzione di danni al DNA 13 1.4 Attivazione dei meccanismi cellulari in risposta all’insulto radioattivo 15 1.4.1 Trasduzione del segnale dopo irraggiamento e blocco proliferativo in cellule ciclanti 1.4.2 L’apoptosi 15 19 1.4.3 Meccanismi di riparo del DNA 20 2. IL GENE PIG-A 23 2.1 Impiego di geni reporter per la detection di mutazioni somatiche indotte da agenti mutageni 23 2.2 Il gene sentinella PIG-A 23 2.3 Proteine di membrana ancorate al glucosilfosfatidilinositolo (GPI) 25 2.4 Potenzialità e limitazioni del saggio PIG-A 28 3. LA CRIOCONSERVAZIONE 29 3.1 Aspetti generali 29 3.2 I crioprotettori 29 3.3 Le procedure di crioconservazione 31 3.3.1 Il congelamento lento 31 3.3.2 Il congelamento rapido 32 3.3.3 La vitrificazione 33 3.4 Le criobanche 33 PARTE SECONDA - Presentazione dei dati 4. SCOPO DEL LAVORO 36 5. MATERIALI E METODI 37 i 5.1 Isolamento delle cellule mononucleate 37 5.2 Congelamento e irraggiamento delle cellule mononucleate 37 5.3 Scongelamento e coltura delle cellule mononucleate 38 5.4 Analisi della mortalità cellulare 39 5.4.1 Analisi monoparametrica del contenuto di DNA cellulare 39 5.4.2 Tecnica del propidio sopravitale 40 5.4.3 Analisi statistica 41 5.5 Analisi delle cellule mutanti mediante il saggio PIG-A 42 5.6 Produzione di embrioni in vitro (IVP) 43 5.6.1 Recupero degli ovociti 43 5.6.2 Maturazione in vitro (IVM) 43 5.6.3 Fertilizzazione in vitro (IVF) 43 5.6.4 Coltura in vitro (IVC) 43 5.6.5 Vitrificazione 44 5.6.6 Irraggiamento degli embrioni 44 5.6.7 Scongelamento e trasferimento embrionale 45 5.6.8 Gravidanze e monitoraggio degli agnelli nati 45 6. RISULTATI 46 6.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare 46 6.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte da radiazioni ionizzanti 55 6.3 Risultati relativi agli embrioni prodotti in vitro 58 6.3.1 Tasso di gravidanza 58 6.3.2 Tasso di natalità 59 6.3.3 Analisi citofluorimetriche 60 PARTE TERZA - Discussioni e considerazioni conlusive 7. DISCUSSIONE 62 7.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare 62 7.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte da radiazioni ionizzanti 65 7.3 Irragiamento degli embrioni prodotti in vitro 66 7.4 Considerazioni conclusive 67 Riferimenti Bibliografici 69 ii PARTE PRIMA Introduzione alla ricerca 1. LE RADIAZIONI IONIZZANTI 1.1 Aspetti generali Tutti gli organismi viventi sono quotidianamente esposti, oltre che ad altri agenti mutageni ambientali, a bassi livelli di dose di radiazioni ionizzanti (RI) derivanti dal cosiddetto “fondo naturale” del quale fanno parte i raggi cosmici, gli elementi radioattivi terrestri (U, Ac e Th) e gli elementi radioattivi costituenti gli organismi viventi (C14 e K40). Spesso a questi si aggiungono esposizioni legate alle attività professionali e a pratiche mediche come la radiodiagnostica, mentre circostanze particolari possono determinare esposizioni ad alti livelli di dosi di RI come nel caso di alcuni trattamenti terapeutici o incidenti nucleari (Figura 1). Figura 1 – Contributo dell’uomo al backgraund di radiazioni ionizzanti (BEIR VII 2005). Nel corso degli ultimi anni, il carattere genotossico delle RI è stato ampiamente studiato ipotizzando tra l’altro un potenziale effetto benefico del fondo naturale in analogia a quanto riscontrato per altri agenti chimico-fisici genotossici. I dati relativi al carattere carcinogenico delle RI ad oggi disponibili, provengono per la maggior parte dai sopravvissuti alla tragedia di Hiroshima e Nagasaki e dalla loro progenie. Questi dati sono utilizzati per tracciare le curve di rischio d’insorgenza di cancro a seguito di esposizione a radiazioni ionizzanti (Figura 2). Per valori di esposizione compresi tra 0.5 e 2.5 Sv [1 Sievert (Sv) = 1 Grey (Gy) moltiplicato per un fattore specifico per ciascun tipo di radiazione ed organo], la valutazione del rischio è descritta da un modello lineare, ovvero il rischio aumenta all’aumentare della dose, mentre per valori di dose superiori ed inferiori sono proposti vari tipi di andamenti in attesa di evidenze sperimentali. In particolare in radioprotezione, per esposizioni a basse dosi di RI per via cautelativa, la valutazione del rischio viene effettuata estrapolando i dati dalle alte dosi mediante una relazione lineare senza soglia (LNT Linear No-Threshold cancer risk model) assumendo che gli organismi viventi 1 Figura 2 – Curve di rischio, in funzione della dose di radiazioni ionizzanti, con indicate le possibili deviazioni dall’andamento lineare estrapolato alle basse e alte dosi (Hall 2006). rispondano allo stesso modo alle alte e alle basse dosi (IRCP 103 2007, BEIR VII 2005). Questa assunzione contrasta in realtà con numerose evidenze sperimentali sia in vivo che in vitro, diversi studi negli ultimi anni hanno evidenziato la presenza di effetti non lineari specifici alle basse dosi e non riscontrati nelle alte, quali l’ipersensibilità e la radio-resistenza indotta, la risposta adattativa e gli effetti non targeted quali l’effetto bystander e l’instabilità genomica. Fenomeni di ipersensibilità e radio resistenza in seguito a irragiamenti con basse dosi di raggi X/γ sono stati riscontrati in più di 40 linee cellulari sia normali che tumorali. In riferimento alla mortalità/sopravvivenza cellulare questi effetti si traducono, per basse dosi (meno di 1 Gy), in una deviazione della curva doserisposta dal convenzionale modello lineare, con una mortalità maggiore alle basse dosi rispetto alle alte. Per questo motivo recentemente è stato proposto un modello alternativo in cui la pendenza o coefficiente angolare della parte lineare varia al variare della dose (Marples et al. 1993). Numerose evidenze sperimentali hanno riscontrato sia in vitro che in vivo una risposta adattativa mostrando che un pre-irragiamento con basse dosi e basso LET (Linear Energy Transfer) è in grado di aumentare la radio-resistenza e ridurre i danni legati ad un ulteriore esposizione, suggerendo che basse dosi sono in grado di promuovere l’attivazione dei meccanismi di riparo del DNA (Olivieri et al. 1984, Joiner et al. 1999, Mothersill et al. 2004, Prise 2006). Dati di radiobiologia accumulati nell’ultimo decennio in vitro e in vivo suggeriscono che a livello cellulare, le RI sono in grado di indurre effetti biologici rilevanti anche sulla frazione di cellule non direttamente attraversate dall’energia radiante. Questo fenomeno conosciuto come effetto bystander si propaga mediante comunicazioni gap-junction presenti fra cellula e cellula, e secrezione di fattori solubili (Mothershill et al. 2001, Hall 2003, Morgan 2003, Price et al. 2003, Morgan and Sowa 2007). È noto che l’esposizione a RI può determinare un aumento del rateo di alterazioni nel genoma della progenie di cellule irradiate che non hanno manifestato effetti immediatamente dopo l’irradiazione. Questo fenomeno che prende il nome di instabilità genomica è stato riscontrato anche nella progenie di cellule non dirattamente irragiate ma in comunicazione tra loro attraverso gap-junction o terreno di coltura, con cellule irradiate, evidenziando una possibile correlazione con l’effetto bystander (Moore et al. 2005b). Questi effetti non-lineari osservabili alle basse dosi di RI sembrerebbero 2 non essere completamente attribuibili nè alla cessione diretta di energia alla macromolecola del DNA (via diretta), nè ai danni al DNA nucleare dovuti a specie reattive dell’ossigeno derivanti dalla radiolisi dell’acqua (via indiretta); mentre indicherebbero che la risposta cellulare ai bassi livelli di dose sia influenzata da meccanismi di comunicazione cellulare ancora da identificare e modulata in modo complesso da vari fattori tra i quali quelli di natura genetica, metabolica, ambientale oltre che dal tipo di radiazioni e dal rateo di dose. Numerosi dati sperimentali indicherebbero che le specie reattive dell'ossigeno (Reactive Oxygen Species-ROS) e le specie reattive dell'azoto (Reactive Nitrogen Species-RNS), in particolare l’ossido nitrico, siano tra le molecole chiave coinvolte nell’induzione e trasmissione del danno indotto a basse dosi di radiazioni ionizzanti (Lehnert et al. 1997; Azzam et al. 2002; Shao et al.2002; Han et al. 2007). Infatti utilizzando degli scavenger di tali molecole, quali per esempio il DMSO e il c-PTIO, si è osservata una riduzione del livello di bystander, ipotizzando che questa possa essere dovuta alla soppressione rispettivamente di radicali (Kashino et al. 2007) e di ossido nitrico (Shao et al. 2003), che agiscono sul DNA. Una delle più importanti sorgenti di ROS nelle cellule di mammifero è costituita dai mitocondri, suggerendo che uno dei bersagli cellulari delle radiazioni ionizzanti a basse dosi sia rappresentato dal DNA mitocondriale (mtDNA) e che i mitocondri siano coinvolti nella trasmissione di segnale dopo l’irraggiamento, attraverso la produzione di radicali liberi (Tartier et al. 2007). Le specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto sembrerebbero anche implicate nell’espressione della risposta adattativa, inducendo direttamente il danno al DNA e attivando poi la risposta adattativa mediante la trascrizione di geni e proteine che conferiscono radio-resistenza alla cellula (Matsumoto et al. 2004 e 2007). Nonostante l’ipotesi più accreditata al momento correli il fenomeno di ipersensibilità e radio-resistenza indotta all’attivazione di un checkpoint G2/M, alcuni autori discutono del possibile coinvolgimento dello stress ossidativo prodotto dai ROS anche nell’induzione di tale fenomeno in cellule non ciclanti come i linfociti (Nasonova et al. 2006). Sulla base di tali evidenze i ROS/RNS sembrerebbero essere i mediatori di segnale di danno maggiormente coinvolti negli effetti alle basse dosi. Queste evidenze sperimentali, talvolta in contraddizione tra di loro rendono necessaria un’attenta investigazione sperimentale, nel regime di basse dosi, in funzione della qualità della radiazione (energia, tipo di radiazione) e per diversi sistemi biologici modello, al fine di poter comprendere i reali meccanismi di base coinvolti negli effetti “targeted” e “non targeted” per la valutazione del rischio. A questo proposito negli ultimi anni sono stati finanziati alcuni progetti europei appositamente mirati alla valutazione del rischio di danno a basse dosi, piattaforme anche ventennali per le quali si possono monitorare i risultati nella sezione EURATOM. Inoltre, di recente, parallelamente alla valutazione del rischio nell’uomo, l’interesse si è spostato sulla valutazione degli effetti a lungo termine dell’esposizione alle basse dosi della radiazione del fondo naturale in sistemi biologici crioconservati (esperimento CRIORAD, CSN5-INFN; Bottigli et al. 2008). Considerando che il materiale biologico crio-preservato rappresenta il futuro per molti tipi di patologie è importante spostare l’attenzione sugli effetti dell’esposizione alle basse dosi del fondo naturale nei sistemi biologici crioconservati. Grazie ai progressi nel campo della criopreservazione, sono infatti attualmente disponibili apposite strutture chiamate “Criobanche”, come ad esempio le banche di midollo osseo, di sangue residuo della placenta e del cordone ombelicale, che consentono il mantenimento di cellule staminali emopoietiche adulte, utilizzate nella cura di diverse patologie. 3 La criopreservazione è la metodica elettiva che consente di conservare per lunghi periodi il materiale biologico vivente, preservandolo dai danni dell’invecchiamento e garantendo così alte percentuali di vitalità cellulare sebbene non si conoscano le conseguenze dell’esposizione dei sistemi congelati alla radiazione di fondo. Alle temperature criogeniche i processi biochimici cellulari sono inibiti e quindi si impedisce la senescenza cellulare e la degradazione del materiale biologico. In funzione dell’ambiente in cui i sistemi biologici crio-conservati vengono depositati, questi subiranno un irraggiamento protratto spesso per decine di anni, come nel caso delle“banche” di colture cellulari o delle “banche” di cellule staminali o germinali, a causa del fondo naturale, costituito in questo caso prevalemtente da radiazioni gamma (essendo le cellule contenute e protette dentro il dewar). Mancando l’azione antagonista continua dei meccanismi di riparazione, i “danni” prodotti dall’esposizione delle cellule crio-conservate al fondo gamma, andranno accumulandosi, trasformando l’esposizione da “dose protratta” (a bassissimo rateo di dose del fondo ambientale) in esposizione a “dose acuta”, al momento dello scongelamento delle cellule. Dati sperimentali derivanti da studi di criocristallografia a raggi-X, tecnica mediante la quale macromolecole biologiche sono sottoposte all’azione di RI per la determinazione della loro struttura tridimensionale, indicano che a temperature criogeniche la diffusione dei radicali liberi prodotti dai raggi-X è fortemente rallentata e che il danno indotto sulle macromolecole è ridotto rispetto a condizioni analoghe ma a temperatura ambiente (Garman 2003). Recenti risultati sperimentali ottenuti confrontando la risposta a raggi-γ di diversi sistemi biologici in condizioni criogeniche e a temperature ambiente, in termini di mortalità cellulare e capacità clonogenica, hanno mostrato un “effetto protettivo” della crioconservazione rispetto all’azione delle radiazioni ionizzanti (raggi-γ) (Bottigli et al. 2008). Fra le cellule con riacquistata vitalità e capacità riproduttiva, qualcuna potrà esprimere mutazioni (primo step di una trasformazione tumorale) a causa del danno indotto dal fondo naturale. Risulta evidente che un tale evento potrebbe determinare l’insuccesso dell’uso del materiale crio-conservato (cellule, tessuti o organismi) nelle applicazioni cliniche. A questo punto diventa importante indagare non solo sulla sopravvivenza cellulare ma anche sulla misura della frequenza e del rate di mutazione indotte dalle radiazioni ionizzanti, parametri che consentono di avere importanti informazioni sulla sicurezza e affidabilità del materiale crioconservato utilizzabile per fini terapeutici. 1.2 Il danno biologico radio-indotto: fonti intrinseche ed estrinseche di danno al DNA Il mantenimento dell’integrità genomica è di fondamentale importanza nella vita della cellula. Il DNA è la molecola carrier dell’informazione genetica negli organismi viventi, ma è anche il principale bersaglio di agenti chimici e fisici mutageni. Con il termine cluster damage ci si riferisce all’insieme delle alterazioni legate sia alla chimica della molecola di DNA che alla sequenza nelle basi azotate. Qualsiasi alterazione o danno alla struttura molecolare del DNA può potenzialmente causare mutazioni o portare alla morte cellulare. Si stima che in una singola cellula vengono prodotti quotidianamente circa un migliaio di danni causati da eventi ossidativi, quali la deaminazione e la demetilazione del DNA, generati dal metabolismo della cellula e dall’azione di agenti esogeni. Malgrado l’elevato numero di danni, la stabilità genomica è molto alta, questo perché la cellula è 4 provvista di sistemi in grado di controllare, riconoscere e riparare i vari tipi di alterazioni molecolari prodotte, evitando inoltre di trasmetterle alla progenie. Le alterazioni del DNA sono generalmente riconducibili a due fonti di danno definite endogene o intrinseche e ambientali o estrinseche. Le genotossine endogene includono le specie reattive dell’ossigeno, anione superossido O2-, radicale idrossile OH ed il perossido d’idrogeno H2O2 derivanti dal metabolismo cellulare, mentre delle genotossine ambientali fanno parte tutti quegli agenti chimico-fisici mutageni generati al di fuori della cellula (farmaci, mutageni ambientali, radiazioni UV e radiazioni ionizzanti) (Hoeijmakers 2001). Diversi studi condotti in cellule eucariotiche sottoposte a stress genotossico hanno evidenziato che l’ossidazione del DNA causata dai ROS, derivanti dal normale metabolismo aerobio, costituisce il danno endogeno maggiormente rilevante. I danni legati all’ossidazione del DNA rappresentano una delle cause per lo sviluppo nell’uomo del cancro e di patologie neurodegenerative ed è inoltre strettamente legato al processo d’invecchiamento cellulare. Sebbene le DNA polimerasi garantiscano un’accurata sintesi del DNA, la frequenza di errore si stima sia all’incirca una base ogni 1-10 milioni, che in particolari condizioni quale l’assenza di alcune proteine accessorie, può aumentare di 100 anche 1000 volte (Kunkel & Bebenek 2000). Gli agenti mutageni in grado di produrre lesioni al DNA sono molteplici e se si considera che la lista è in continua espansione, le attuali conoscenze sui tipi di lesioni al DNA risultano limitate. Tra gli agenti chimici rientrano ad esempio il metil metasulfobnato (MMS), l’N-metil-N’nitro-Nnitrosoguanidina (MNNG) e l’etil metasulfonato (EMS), molecole con un’elevata affinità per i centri nucleofili del DNA. Questi agenti alchilanti possono indurre mutazioni e bloccare la sintesi del DNA (Friedberg et al. 2006). Altre genotossine come la doxorubicina sono invece inbitori delle topoisomerasi, frequentemente utilizzate negli studi dei meccanismi di riparo del DNA ed in chemioterapia. Nella categoria degli agenti fisici rientrano le radiazioni UV e le radiazioni ionizzanti. I tipi di lesioni indotte da radiazioni sono riconducibili a due classi: le modificazioni delle basi azotate e le rotture all’elica del DNA. Le RI possono infatti indurre per via diretta rotture all’elica del DNA in seguito all’assorbimento dell’energia radiante o in alternativa sfruttando la via indiretta possono portare alla produzione di specie reattive mediante l’interazione con acqua o con altri tipi di molecole (Lehnert et al. 1997, Azzam et al. 2002, Shao et al.2002, Friederberg et al. 2006, Han et al. 2007), (Figura 3). I meccanismi che portano al danno biologico radio-indotto sono quindi riconducibili a due vie, la via diretta dalla quale deriva il danno biologico primario e la via indiretta dalla quale segue il danno biologico secondario. Il danno biologico primario è causato dall'azione diretta della radiazione sui componenti primari della cellula, primo tra tutti il DNA, causando la ionizzazione o l’eccitazione degli atomi attraverso interazioni di tipo Couloumbiane, che sono fondamentali nella catena di eventi fisici e chimici, che inducono lesioni biologiche. I principali danni di questo tipo riguardano le lesioni al DNA, le quali possono portare a mutazioni o morte cellulare. Il danno biologico secondario è causato dall’azione indiretta delle radiazioni ionizzanti, le quali interagiscono principalmente con l’acqua cellulare (che rappresenta l’80% della cellula) ed altre 5 molecole, producendo radicali liberi e specie reattive. I radicali liberi sono atomi, molecole o composti altamente instabili (e quindi reattivi), che hanno un elettrone di valenza spaiato, si diffondono all’interno della cellula causando la rottura dei legami chimici e producendo cambiamenti in grado di pregiudicare la sopravvivenza della cellula. Figura 3 - Rappresentazione schematica del danno diretto ed indiretto indotto dalle radizioni ionizzanti. La via diretta determina il danno biologico primario dovuta all’azione diretta della radiazione ionizzante sulle macromolecole biologiche. La via indiretta genera il danno biologico secondario legato all’azione radiolitica sull’acqua cellulare (Morgan & Sowa 2005). 1.3 Danni al DNA indotti da radiazioni ionizzanti Il DNA è l’elemento cellulare maggiormente radiosensibile ed è noto che la radiazione produce una vasta gamma di lesioni tra le quali il danno alle basi nucleotidiche e le rotture del singolo (Single Strand Breaks, SSBs) e del doppio filamento di DNA (Double Strand Breaks, DSBs). Anche se i dati disponibili suggeriscono che i diversi tipi di danno alla singola base del DNA da soli, probabilmente giocano un ruolo minore nell’indurre mutagenesi, sembra comunque che alcuni di questi abbiano una notevole rilevanza biologica. Diversamente i danni alla doppia elica (sia quelli non riparati che quelli riparati non correttamente, unrepaied and misrepaired DBSs), giocano un 6 ruolo fondamentale nell’indurre anomalie cromosomiche e mutazioni geniche (Goodhead 1994, Ward 1995). In realtà, come già anticipato, l’insulto al DNA è frutto della combinazione di danni generati direttamente e indirettamente (provocati dai ROS) dalla radiazione ionizzante che nel complesso producono un cluster damage (Nikjoo et al. 1999). Questi possono contenere numerose e ravvicinate SSBs e DSBs. Sia la frequenza che la complessità dei clusters damage dipendono dal trasferimento lineare di energia o LET della radiazione. Il LET è usato come parametro approssimato per caratterizzare la “qualità” della radiazione e quindi la sua efficacia biologica. Le radiazioni a basso LET, dette anche “sparsamente ionizzanti”, sono ad esempio i raggi X (purché non di energia troppo bassa) e i raggi gamma, e su queste si sono basati gran parte degli studi radiobiologici tradizionali. Le radiazioni ad alto LET sono invece le particelle α, protoni e neutroni. Negli ultimi anni vi è stata una considerevole crescita dell’interesse sugli effetti biologici delle particelle cariche dovuta principalmente agli impieghi innovativi degli adroni in radioterapia e alla necessità di stabilire standard di radioprotezione per le radiazioni nello spazio. Il passaggio nella materia biologica di particelle pesanti cariche, densamente ionizzanti, produce modificazioni qualitativamente diverse da quelle prodotte dalla radiazione “sparsamente ionizzante” (raggi X e γ). Mentre questi ultimi depositano energia nella materia attraverso elettroni secondari capaci di percorrere distanze relativamente lunghe, così da distribuire l’energia su volumi relativamente grandi ed in maniera pressoché omogenea, gli ioni pesanti depositano energia in volumi ristretti e adiacenti alla traccia degli ioni primari, così da produrre zone con elevata densità locale di ionizzazione. Utilizzando sofisticati modelli è stato possibile dimostrare che quasi il 30% delle DSBs, indotte da radiazioni a basso LET, rappresentano forme complesse che coinvolgono due o più DSBs, mentre, per le radiazioni ad alto LET, questo valore è rappresentato dal 70%. Quando alle rotture vengono associati danni alla singola base, la proporzione complessiva diventa rispettivamente del 60% e 90% (Nikjoo et al. 1999, 2000, 2001 e 2002) . È plausibile che, con l’aumentare della complessità del danno, questo venga riparato con maggiore difficoltà, portando inevitabilmente a delle conseguenze biologiche. Un concetto importante nella valutazione del rischio, in seguito ad esposizione a basse dosi di RI, è legato alle analogie esistenti fra danno al DNA indotto da radiazione (che produce anche radicali liberi) e danno endogeno dovuto alla generazione di ROS durante il normale metabolismo cellulare. Tra il danno generato dai ROS fisiologicamente prodotti, e quello indotto da radiazione, sembrano esserci similitudini ma anche importanti differenze. Una caratteristica dei DSBs indotti sia fisiologicamente che dalle RI, che può avere conseguenze nel loro riparo, è legata alla natura chimica delle estremità terminali prodotte nelle rotture. Le rotture indotte da enzimi di restrizione possiedono gruppi 3’-idrossile, e 5’-fosfato, una condizione indispensabile per il legame enzimatico, mentre la maggior parte delle rotture generate dai ROS e dalla RI, possiedono estremità terminali danneggiate, o più frequentemente gruppi finali come 3’-fosfato o 3’-fosfoglicolato (Ward 1998). Talvolta vengono persino generati gruppi idrossilici all’estremità 5’; tali terminazioni richiedono successive modificazioni chimiche prima del legame. Frequentemente si assiste anche all’escissione del nucleotide danneggiato con perdita della base, in corrispondenza della rottura. Le forme predominanti di danno, indotte da ROS, sono rappresentate dal danno alle singole basi 7 e SSBs, invece la frequenza dei DSB generati dai ROS è in funzione delle specie reattive, ma è in genere più bassa. In particolare, evidenze sperimentali accumulate negli ultimi 15 anni hanno mostrato la presenza di effetti “non lineari” specifici alle basse dosi e non riscontrati alle alte dosi quali l’ipersensibilità e la radioresistenza indotta, la risposta adattativa, l’effetto bystander e l’instabilità genomica. 1.3.1 Ipersensibilità e radioresistenza indotta L’approccio comunemente utilizzato per stabilire i limiti dell’esposizione umana alle radiazioni ionizzanti, si basa su un modello che prevede un aumento del rischio in maniera direttamente proporzionale all’aumento della dose assorbita, con o senza un valore soglia. Tale modello prende il nome di LNT-Linear No-Threshold introdotto dalla IRCP, la Commissione Internazionale per la Protezione Radiologica. I fenomeni di ipersensibilità e radioresistenza indotta in seguito ad esposizione a basse dosi di radiazioni X e γ sono stati riscontrati in vitro in più di 40 linee cellulari umane e di roditore, tumorali e non. In esperimenti di sopravvivenza cellulare questi effetti si traducono in una deviazione dal convenzionale modello lineare delle curve dose-risposta con una mortalità maggiore alle basse dosi (inferiore ad 1 Gy) rispetto alle alte dosi. Queste osservazioni hanno portato ad un acceso dibattito sull’effettiva utilità del modello LNT. Feinendegen ad esempio sostiene l’inaccuratezza di questo metodo concludendo che l’ LNT sia addirittura scientificamente infondato e che debba essere abbandonato a favore di un modello basato su ipotesi che siano scientificamente compravate e che causino una minore paura irrazionale per l’esposizione alle radiazioni (Feinendegen 2005). Altri autori sostengono invece che l’LNT sia un modello biofisico troppo semplicistico per spiegare l’azione delle radiazioni sul DNA delle cellule viventi e sugli organismi. Esso infatti maschera tutto l’insieme di eventi fisici, fisico-chimici, biochimici e metabolici che coinvolgono non solo il DNA, ma anche la miriade di molecole piccole e grandi che caratterizzano i vari organelli cellulari. Fondamentalmente il sistema LNT ignora i processi di riparazione, le reazioni immuni ed il ruolo dell’apoptosi (Jayashree 2001). Per questo motivo al fine di poter descrivere il comportamento delle curve di sopravvivenza nella regione delle basse dosi sono stati proposti alcuni modelli alternativi. In particolare in alternativa al modello lineare è stata proposta un’equazione modificata (Induced Repair Model) in cui il coefficiente angolare della parte lineare varia con la dose (Marples et al. 2000). Recentemente i fenomeni di ipersensibilità e radioresistenza indotta sono stati osservati anche con radiazioni densamente ionizzanti in cellule di roditore (Tsoulou et al. 2001, Borhnsen et al. 2002), questi dati risultano però in contrasto con quanto osservato con neutroni e protoni di alta e bassa energia (Marples et al. 1994, Skarsgard & Wouters 1997, Cherubini et al. 2008). 1.3.2 Risposta adattativa La risposta adattativa si verifica sia nei procarioti che negli eucarioti e produce, in cellule pre-irradiate con basse dosi di radiazioni ionizzanti, un’aumentata resistenza a successive esposizioni delle stesse con dosi maggiori di radiazioni (Ballarini & Ottolenghi 2002). Le prime evidenze sperimentali del fenomeno risalgono al 1984 osservando che i linfociti umani in coltura, precedentemente trattati con timidina triziata, sono meno suscettibili ai danni provocati da dosi elevate di raggi X 8 (Olivieri et al. 1984). Il meccanismo d’azione della risposta adattativa non è stato ancora pienamente compreso, ma si pensa possa essere collegato all’effetto ormetico. Evidenze sperimentali di risposta adattativa sono state riscontrate sia in vivo che in vitro in termini di vari end-piont biologici quali aberrazioni cromosomiche e induzione di mutazioni, suggerendo che basse dosi di raggi X/ γ possano promuovere l’attivazione di meccanismi di riparo (Joiner et al. 1999, Mothersill & Seymour 2004, Klokov et al. 2004, Streffer et al. 2004, Prise 2006). Studi sui procarioti hanno evidenziato che batteri sottoposti a stress ossidativo, hanno in seguito aumentato la loro resistenza all’azione delle RI. In particolare, una pre-esposizione di cellule di Vibrio Cholerae hai raggi X o al perossido di idrogeno, ha reso tali cellule tre volte più resistenti alle successive esposizioni ai raggi X. L’induzione della radioresistenza necessita della sintesi proteica e viene sviluppata solo nel caso in cui le cellule siano di tipo recA+ e lexA+, cosa questa che indica il coinvolgimento di meccanismi di riparazione del DNA. La dose soglia necessaria all’induzione della radioresistenza ai raggi X nei procarioti, è stata stimata approssimativamente intorno ad 1 mGy (Mitchel 2006). Esperimenti analoghi sono stati condotti anche su eucarioti inferiori come i funghi (Saccharomyces Cerevisiae), dimostrando l’importanza della ricombinazione omologa e quindi la capacità dei meccanismi di riparazione del DNA di aumentare la resistenza sia alle radiazioni ionizzanti che a vari agenti mutageni. Questo dato assieme all’osservazione dell’assenza di tale risposta (aumento della radioresistenza) sia in funghi diploidi difettivi per la ricombinazione omologa che in funghi aploidi, indica la necessità di una copia duplicata del genoma per indurre la radioresistenza. Inoltre nei funghi è stato osservato un “effetto ossigeno” indicando quest’ultimo come un coadiuvante della risposta adattativa probabilmente andando ad indurre i sistemi enzimatici capaci di bloccare i ROS. Questi dati concordano con quanto ottenuto da altri autori e suggeriscono che la risposta adattativa della cellula può dipendere sia dall’induzione di meccanismi di riparazione del DNA ma anche dall’induzione di sistemi enzimatici in grado di bloccare l’azione dannosa dei ROS. La dose in grado di proteggere la cellula eucariotica dai danni indotti dalle RI (priming o conditioning dose) è stimata per radiazioni a basso LET nell’intervallo tra 0.01 e 0.2 Gy. 1.3.3 Instabilità genomica L’instabilità genomica è il termine che si usa per descrivere l’insorgenza di nuove alterazioni genetiche nella progenie di cellule sopravvissute all’irradiazione. Il fenomeno di instabilità genomica è infatti legato all’incremento della velocità di acquisizione di alterazioni, a carico del genoma, questo perchè l’instabilità generata dalla radiazione si manifesta talvolta nelle cellule, in ritardo rispetto al tempo di irraggiamento. Tale evento può manifestarsi con salto generazionale, nella progenie e in più generazioni dopo l’insulto iniziale. L’instabilità può essere studiata misurando diversi end-point biologici: aberrazioni cromosomiche, cambiamenti nel grado di ploidia, formazioni di micronuclei, induzione di mutazioni geniche e amplificazioni, mini- e micro-satelliti (short tandem repeat), instabilità e diminuzione del plating efficiency, ossia dell’efficienza di piastramento (Morgan 2003). Questi effetti osservabili con discreto ritardo, possono persistere a lungo nei cloni instabili e ricordano alcuni aspetti descritti in cellule tumorali. Si pensa ci siano numerosi meccanismi per l’avvio e il perpetuarsi dell’instabilità genomica (Limoli et al. 1996, Kaplan et al. 1997), che dipendono dal background delle cellule target o dell’intero organismo e da fattori ambientali 9 (Paquette & Little 1994, Watson et al. 1997, Kadhim 2003). Nella progenie della cellula irradiata possono verificarsi riarrangiamenti cromosomici, aberrazioni o aperture dei cromosomi, micronuclei, mutazioni, amplificazioni geniche e la mancata separazione dei cromosomi stessi durante il processo mitotico, generando cellule aneuploidi. Di tutti questi eventi associati all’instabilità genomica, i cambiamenti cromosomici sono quelli maggiormente documentati. Le aperture o rotture dei cromosomi non sembrano contribuire all’instabilità a lungo termine mentre maggiore rilevanza viene data ai riarrangiamenti macroscopici quali le traslocazioni cromosomiali, duplicazioni e trisomie parziali, che sembrano coinvolgere fenomeni di amplificazione e ricombinazione di vaste regioni mediante meccanismi ancora sconosciuti (Marder & Morgan 1993, Day et al. 1998, Schwarts et al. 2001, Morgan et al. 2002). L’instabilità è un evento frequente nelle colonie di cellule sopravvissute. Kadhim et al (1992) riportano anomalie del cariotipo in 40-60% di cellule staminali murine esposte a varie dosi di particelle alfa. Sabatier e colleghi osservarono invece, il tardivo passaggio del fenomeno dell’instabilità cromosomica in più del 50% di fibroblasti umani in metafase, irradiati con radiazione ad alto-LET ad ampio range (da 386 a 13.600 keV/ μm), (Sabatier et al. 1992). Allo stesso modo Limoli et al. (1999 e 2000) hanno osservato il fenomeno mediante il quale i raggi X inducono instabilità cromosomica in circa il 3% dei cloni ibridi uomo-criceto GM10115. Questo aumentava fino a circa 4% Gy-1 dopo esposizione a ioni Ferro ad alto-LET. Pathways critici nell’insorgenza del danno al DNA e del suo riparo, eventi di replicazioni cromosomiche e alterazioni nell’espressione genica potrebbero quindi essere responsabili del mantenimento dell’instabilità genomica nel corso del tempo. L’elevata frequenza del fenomeno d’instabilità genomica, osservata di recente nei diversi sistemi cellulari, ha sollevato un importante problema ovvero quello di dare una spiegazione scientifica a queste osservazioni rendendo così tale fenomeno quantificabile e misurabile. In realtà, nonostante ci siano numerosi lavori che documentano e descrivono l’instabilità nella progenie di cellule irradiate del midollo osseo umano e murino (khadim et al. 1994 e 1995) e di linfociti umani in coltura (Holmberg et al. 1998, Bortoletto et al. 2001), i dati sono spesso discordanti, questo anche a causa del ruolo, ancora poco chiaro, del gene onco-soppressore P-53. Sono stati proposti pathways P-53 dipendenti e P-53 indipendenti (Schwarts et al. 2003, Limoli et al. 2003). Il gruppo di Moore è stato in grado di dimostrare che l’instabilità genomica può differire sia quantitativamente che qualitativamente nei due distinti meccanismi per un’alterata espressione di P-53 (Moore et al. 2005b). Inoltre, una caratteristica dell’instabilità genomica radio-indotta, e degli effetti secondari (quelli non generati direttamente dalla RI), è la mancanza di un profilo dose-risposta ben definito. Numerosi autori sono a sostegno dell’ipotesi che tali effetti siano indipendenti dalla dose, sebbene altri osservino un effetto dose-risposta a dosaggi più bassi; si conoscono i fenotipi associati all’instabilità genomica radio-indotta mentre i meccanismi molecolari, biochimici e cellulari, che danno inizio al perpetuarsi dell’instabilità stessa, sono poco chiari. Visto che attualmente i meccanismi alla base dell’induzione e persistenza dell’instabilità non sono ben noti, l’induzione di aberrazioni cromosomiche in vivo, mediante modalità simili all’effetto bystander, potrebbe fornire approfondimenti circa il funzionamento di tali eventi, oltre al legame che persiste fra instabilità ed effetto bystander. L’instabilità genomica è stata infatti riscontrata anche nella progenie di cellule non di- 10 rettamente irragiate, ma in comunicazione attraverso gap-junction o terreno di coltura, con cellule irradiate, evidenziando una possibile relazione di tale effetto con l’effetto bystander. Numerosi dati sperimentali indicherebbero che le specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto, in particolare l’ossido nitrico, siano tra le molecole chiave coinvolte nell’induzione e trasmissione del danno indotto a basse dosi di radiazioni ionizzanti (Lehnert et al. 1997; Azzam et al. 2002; Shao et al.2002; Han et al. 2007). Infatti utilizzando degli scavenger di tali molecole, quali per esempio il DMSO e il c-PTIO, si è osservata una riduzione del livello di bystander, ipotizzando che questa possa essere dovuto alla soppressione rispettivamente di radicali (Kashino et al. 2007) e di ossido nitrico (Shao et al. 2003), che agiscono sul DNA. I mitocondri rappresentano, nelle cellule di mammifero la principale fonte di ROS e RNS endogeni. Analogamente al DNA nucleare, il DNA mitocondriale (mtDNA) rappresenta uno dei principali bersagli cellulari delle radiazioni ionizzanti. Danni al mitocondrio sembrano essere responsabili della generazione di ulteriori effetti dopo l’irraggiamento attraverso la produzione di radicali liberi reattivi (Tartier et al. 2007). Inoltre numerose evidenze sono a favore dell’ipotesi che i mitocondri siano la principale sorgente cellulare di ROS associati al fenomeno d’instabilità genomica (Kim et al. 2006). Se dunque da una parte i mitocondri sono i maggiori produttori di radicali liberi, dall’altra sono anche il principale bersaglio dei loro effetti dannosi. I radicali liberi si formano nelle cellule sia fisiologicamente in seguito alle loro reazioni metaboliche sia in seguito a stimoli esterni quali radiazioni ionizzanti, elevata tensione di ossigeno, sostanze chimiche, farmaci e stress di varia natura. In particolare con l’acronimo ROS (specie reattive dell’ossigeno), vengono designati tutti i prodotti intermedi parzialmente ridotti del metabolismo dell’ossigeno. Si tratta di molecole dalla reattività più o meno spiccata, che varia da quella moderata dell’anione superossido e del perossido di idrogeno sino alla accentuata pericolosità del radicale idrossilico. I radicali liberi intracellulari, molecole a basso peso molecolare con un elettrone spaiato nell’orbitale elettronico esterno, sono spesso ROS e viceversa, da qui la tendenza ad utilizzare usualmente i due termini come sinonimi. In particolare i ROS sono specie chimiche con un singolo elettrone spaiato in un orbitale esterno; l’energia creata da questa configurazione instabile viene liberata durante la reazione con vicine molecole organiche ed inorganiche, come gli acidi nucleici, le proteine e i lipidi e, queste molecole sono convertite a loro volta in radicali liberi determinando un danno cumulativo. Questo fenomeno è la conseguenza di una parziale riduzione della molecola di ossigeno, la quale necessita di quattro elettroni per potersi ridurre ad acqua. Dalla riduzione dell’O2 da parte di un singolo elettrone si produce il radicale superossido O2-; mentre dalla riduzione da parte di due elettroni si forma perossido di idrogeno H2O2. La maggiore sorgente dello ione superossido (O2), che produce H2O2 tramite la reazione di dismutazione e le specie idrossiliche (OH) altamente reattive tramite la reazione di Fenton, è la catena respiratoria, localizzata nella membrana interna dei mitocondri (Maklashina & Ackrell 2004). Le osservazioni che, nei mitocondri isolati, gli elettroni possano fuoriuscire dalla catena respiratoria sotto forma di radicali superossidi (O2-) ha portato all’assunzione che la formazione di O2- è obbligatoria come sottoprodotto della respirazione (Staniek & Nohl 2000). Durante il passaggio degli elettroni dal complesso I e II fino alla citocromo ossidasi, si ha una maggiore produzione di ROS quando la velocità di trasporto degli elettroni diminuisce. La formazione dei ROS è tanto maggiore, durante la respirazione, quanto più è imponente 11 la limitazione imposta al flusso di elettroni da parte dell’H+ (Maklashina & Ackrell 2004). Nonostante tutto, il principale sito di produzione del superossido è l’ubichinone e la sua forma ridotta, l’ubichinolo, che mostra proprietà antiossidanti. Ne deriva che l’instabilità genomica può essere causata dall’esposizione ad elevati livelli di ROS come effetto del loro potenziale ossido riduttivo e quindi mutagenico. Il danno al DNA è normalmente rimosso ad opera di sistemi di riparo, ma tale processo può risultare inefficiente e innescare fenomeni di promozione tumorale. In questa fase cellule sottoposte ad ulteriori flussi di ROS possono andare incontro a morte cellulare per apoptosi o iniziare a proliferare rendendo il processo di tumorigenesi irreversibile. 1.3.4 Fattori clastogenici indotti da radiazione ed effetto bystander Dati di radiobiologia accumulati nell’ultimo decennio in vitro e in vivo suggeriscono che a livello cellulare, le radiazioni ionizzanti sono in grado di indurre effetti biologici rilevanti, comprese alterazioni cromosomiche e mutazioni geniche, anche sulla frazione di cellule non direttamente attraversate dall’energia radiante. Questo fenomeno conosciuto come effetto bystander si propaga mediante comunicazioni gap-junction presenti fra cellula e cellula, e secrezione di fattori solubili. Questi possono includere fattori simili a citochine extracellulari, che sono in grado di aumentare i livelli di ROS nelle cellule non direttamente irradiate (Lorimore et al. 2003, Morgan et al. 2002, 2003, Sowa & Morgan 2004a). Tale effetto è stato riscontaro, in molte linee cellulari (di roditore, umane, normali e tumorali), per diversi end-point biologici (scambi di cromatidi fratelli, aberrazioni cromosomiche, micronuclei, apoptosi, morte clonogenica, trasformazioni oncogeniche e mutazioni), e con diversi approcci sperimentali (irragiamenti con micro fasci di RX o ioni, irragiamenti con fasci larghi di ioni), in esperimenti con mascheramento di parte della popolazione esposta ed in altri di trasferimento del terreno di coltura da una popolazione irradiata ad una non irradiata (Mothershill & Seymour 2001, Hall 2003, Morgan 2003, Prise et al. 2003, Morgan & Sowa 2007). Le prime evidenze sperimentali del fenomeno risalgono agli anni ‘50, con l’osservazione che il midollo osseo di bambini sottoposti a radioterapia a livello della milza quale trattamento per la leucemia granulocitica cronica, mostrava alterazioni correlabili a radiazioni pur in assenza di esposizione diretta (Pearson et al. 1954). Studi fatti su modelli animali sperimentali dimostrano che l’iniezione di plasma derivato da ratti irradiati in ratti non irradiati, determina una maggiore incidenza di tumori mammari rispetto ad animali di controllo non irradiati a cui era stato iniettato il plasma di esemplari non irradiati (Souto 1962). Inoltre l’aggiunta di plasma derivato da pazienti sottoposti a radioterapia creava un aumento significativo della formazione di rotture cromosomiche e cromatidiche in linfociti non irradiati (Hallowell & Littlefield 1967). Prendono il nome di fattori clastogeni tutti quei fattori in grado di determinare danni cromosomici. In questo ambito, le radiazioni ionizzanti sembrano avere attività clastogenica sia diretta sulle cellule irradiate che indiretta mediante mezzi o cellule irradiate. I fattori clastogenici non sono quindi classificabili come fautori di effetto bystander, ma vengono considerati per sostenere il ruolo dei fattori di secrezione e di rilascio negli effetti delayed, ossia ritardati, associati all’esposizione a radiazione. Più di recente, attività clastogena è stata osservata a livello del plasma prelevato da sopravvissuti ai bombardamenti atomici o da soggetti residenti nell’area di Chernobil (Emerit et al. 1995). Il meccanismo d’azione dell’effetto bystander è quindi mediato dalla diffusione di uno o più fat- 12 tori dalle cellule irradiate alle cellule circostanti non irradiate, a livello delle quali questi si legano a recettori citoplasmatici e di membrana. La diffusione di tali fattori avviene attraverso il mezzo di coltura e tramite le giunzioni serrate o gap junction. La comunicazione attraverso queste giunzioni è supportata dall’inibizione dell’effetto bystander a seguito del pretrattamento con inibitori delle gap junction. La prevalenza dell’una o dell’altra modalità sembra dipendere dalla densità cellulare: quando quest’ultima è abbastanza elevata da permettere lo stabilirsi di stretti contatti tra le cellule il segnale viene diffuso attraverso questa via ma se al contrario la distanza tra una cellula e l’altra è tale da comportare l’impossibilità di contatti diretti il segnale può diffondere solo attraverso il mezzo. L’evento collegato al passaggio dell’energia radiante nella cellula che innesca la sintesi e la liberazione dei fattori solubili non è noto, ma potenziali candidati sono la sintesi di radicali, la formazione di elettroni idrati (per ionizzazione diretta dell’acqua da parte della radiazione) e la formazione di rotture a singolo e doppio filamento a livello del DNA della cellula colpita (Ward 2002). La persistenza dell’effetto presuppone non tanto la liberazione di uno o più fattori stabili nei liquidi biologici quanto la permanenza di un incrementato livello di sintesi e liberazione di tali fattori da parte delle cellule originariamente esposte in modo diretto alle radiazioni ionizzanti (Rothkamm & Lobrich 2003). Calcio, cAMP ma anche eicosanoidi o prodotti derivati dalla perossidazione lipidica (quali l’aldeide idrossi-2-nonenale) sono stati proposti come potenziali messaggeri in grado di indurre cascate di segnali a livello delle cellule circostanti (Ballarini et al. 2002). Tra i mediatori dell’effetto bystander ci sono i radiacali liberi e le specie molecolari reattive dell’ossigeno e dell’azoto, in sintonia con alcune osservazioni circa l’abolizione dell’effetto a seguito del pretrattamento con agenti bloccanti (scavanger) di radicali liberi quali il DMSO. Un possibile mediatore è l’ossido nitrico il quale svolge importanti ruoli fisiologici, è coinvolto ad esempio nella neurotrasmissione, nella risposta immunologica e nel controllo della pressione arteriosa. Questo può raggiungere nella cellula concentrazioni pari a 1-10 μM ed ha un’emivita inversamente proporzionale alla propria concentrazione. Si ritiene inoltre che l’insieme degli effetti riferibili a un meccanismo di tipo bystander sia probabilmente mediato anche da citochine. A favore di questa posizione sta l’elevatissimo numero di azioni fisiologiche che coinvolgono queste molecole, il fatto che alcune di esse possano essere prodotte da tipi cellulari molto diversi (quali linfociti, fagociti, fibroblasti, cellule di derivazione epiteliale) e la ridondanza dello spettro d’azione biologico. I candidati più promettenti sono costituiti dall’interleuchina 8 (IL-8) (Narayanan et al. 1997) e dal Tumor Necrosis Factor α (TNF-α). La sintesi e la liberazione di citochine, mediatori fondamentali della comunicazione intercellulare, ha inoltre luogo come conseguenza dell’azione di stimoli anche molto differenti tra loro, di natura chimica, fisica e biologica. 1.3.5 L’influenza dell’organizzazione strutturale della cromatina sulla produzione di danni al DNA I recenti sviluppi nel campo dell’epigenetica riguardo l’organizzazione strutturale del genoma eucariotico hanno aperto nuove prospettive di ricerca nel settore della radiobiologia molecolare e cellulare. La cromatina rappresenta un livello di efficiente organizzazione strutturale del DNA all’interno della cellula ed è composta da DNA complessato con proteine. Il nucleosoma è l’unità fondamentale della cromatina ed è costituito da circa 200 coppie di basi di DNA avvolte su un 13 nucleo interno composto da un ottamero di proteine basiche, gli istoni H2A, H2B, H3 e H4; un altro istone, H1, si trova in posizione esterna rispetto all’ottamero ed è presente in una quantità che corrisponde alla metà di quella degli istoni del nucleosoma. Modificazioni nella struttura della cromatina regolano processi come la replicazione del DNA, la trascrizione e la riparazione tramite il controllo dell’accessibilità di molecole e complessi multimerici al loro substrato; queste interazioni, a loro volta, inducono un rimodellamento e un’alterazione dello stato condensato che può estendersi a molte megabasi di distanza dal sito dell’interazione stessa (Escargueil et al. 2008). Vi sono numerose evidenze che sottolineano l’importanza dell’organizzazione strutturale della cromatina nella produzione e distribuzione del danno radio-indotto al DNA cellulare. Esperimenti condotti su sistemi modello, quali polinucleosomi irradiati in vitro, hanno mostrato che le doppie rotture del DNA generate da RI, non sono uniformemente distribuite lungo la molecola ma sono preferibilmente localizzate nelle regioni internucleosomiali, mentre le regioni intranucleosomiali risultano più resistenti. Inoltre il DNA isolato da polinucleosomi e successivamente irradiato è circa quattro volte più sensibile allo stesso tipo di danno. Questa diversa radiosensibilità è determinata dall’associazione del DNA con la componente proteica della cromatina. L’analisi della produzione e riparazione di singole rotture del DNA in una linea cellulare eritroleucemica umana, che può essere indotta a differenziare in vitro, ha mostrato che la cinetica di riparazione del danno è significativamente più lenta in cellule differenziate. Questo comportamento può essere interpretato come una minore accessibilità del genoma agli enzimi di riparo, dovuta alla presenza di regioni maggiormente strutturate nella cromatina di cellule differenziate. Sembra perciò evidente che le regioni più aperte del genoma presentano, da un lato, una maggiore radiosensibilità e, dall’altro, una più rapida riparazione. Pertanto è necessario tener presente che l’organizzazione del genoma e l’impacchettamento della cromatina sono in grado di influenzare sia l’ammontare del danno indotto che l’entità della sua riparazione. L’influenza dell’organizzazione della cromatina sulla produzione e distribuzione di danni al DNA è un tema che suscita particolare interesse negli studi di tossicologia. Le modificazioni maggiormente conosciute e che regolano la struttura della cromatina in risposta a stimoli ambientali sono perlopiù modificazioni covalenti post trascrizionali come l’acetilazione e la metilazione della lisina, la metilazione dell’arginina, la fosforilazione e l’ubiquitinazione. Queste modificazioni assieme all’ausilio dei complessi enzimatici di rimodellamento della cromatina come SWI/SNF contribuiscono a rimodellare la struttura della cromatina rendendola più accessibile sia ai fattori di trascrizione che agli enzimi di riparo del DNA (Kouzarides 2007). In seguito ad esposizione delle cellule ad agenti mutageni le possibili modificazioni della cromatina possono essere riconducibili a due tipi principali. In seguito all’insulto della molecola di DNA cambiamenti strutturali si verificano immediatamente a livello del sito danneggiato mediante l’individuazione della lesione e l’assemblaggio degli enzimi di riparazione. Una risposta più tardiva invece include la formazione di aree di eu ed eterocromatina che consentono l’espressione di un sottoinsieme di geni legati al danno al DNA. Questi geni regolano la progressione del ciclo cellulare e l’apoptosi in funzione della risposta all’insulto radioattivo. In risposta al danneggiamento del DNA l’acetilazione degli istoni è la modificazione istonica maggiormente studiata. Alla base di questa modificazione ci sono le acetiltransferasi istoniche (HAT) e le deacetilasi istoniche (HDAC), questi due complessi proteici svolgono 14 la funzione di mantenere un adeguato grado di acetilazione. Le modificazioni della cromatina e l’acetilazione giocano dunque un ruolo chiave nel riparare il DNA o nell'induzione dell'apoptosi. Ad esempio la fosforilazione della serina 139 carbossi-terminale dell’istone H2AX (variante istonica di H2A nei mammiferi) scatena una serie di eventi a cascata che consentono di localizzare il sito di DNA danneggiato ed iniziarne il riparo (Huang et al. 2006). H2AX, a seconda del tipo cellulare, è presente nella cromatina a livelli che variano tra il 2 e il 25% sul totale di H2A e può essere fosforilato da tre diversi tipi di chinasi: ATM, DNA-PK e ATR. La funzione principale di H2AX sembra essere quella di reclutare e trattenere i fattori proteici di riparazione nel sito di danno. Inoltre dati inerenti al trattamento di cellule con basse dosi di radiazioni ionizzanti che inducono l’aumento della proteina ATM (Ataxia Telangiectasia-Mutated) nel nucleo suggeriscono che anche questo evento sia strettamente correlato alla modificazione della cromatina. 1.4 Attivazione dei meccanismi cellulari in risposta all’insulto radioattivo In seguito ad insulto radioattivo le cellule possono riparare il danno o tollerarlo e continuare a replicarsi, oppure in risposta a livelli critici di danno del DNA possono andare incontro ad apoptosi. Le risposte cellulari al danno del DNA includono quindi diversi meccanismi di riparo del DNA, la gestione dei checkpoints del ciclo cellulare e l’avvio del macchinario apoptotico. Gli ultimi due eventi si sovrappongono in maniera significativa e utilizzano, almeno in parte, le stesse molecolesensore nel riconoscimento del danno e nella trasduzione del segnale. 1.4.1 Trasduzione del segnale dopo irragiamento e blocco proliferativo in cellule ciclanti Le cellule possiedono appropriati meccanismi di controllo i quali consentono l’arresto del ciclo cellulare ogni qualvolta si manifesta un danno, sia di natura esogena che endogena, in grado di alterare la corretta trasmissione del patrimonio genetico alla progenie. Questi meccanismi sentinella sono definiti checkpoints ovvero punti di controllo dell’integrità cellulare. Il blocco del ciclo cellulare nei vari checkpoints consente alla cellula di individuare il danno, trasdurre il segnale e mobilitare le proteine effettrici. In questo modo la cellula attiva i meccanismi di rimozione della lesione, impedendo che questa sia convertita in mutazione; in alternativa se il danno non è riparabile, questa innesca processi apoptotici che conducono a morte cellulare. In seguito ad un danno al DNA, quale un insulto radioattivo, si susseguono una rete di processi noti come risposta al danno (DNA Damage Response o DDR), un meccanismo universale che coinvolge proteine altamente conservate dal lievito fino all’uomo. Questa si svolge grazie all’azione regolata di sensori del danno, trasduttori del segnale ed effettori (le molecole effettrici includono: enzimi di riparazione del DNA, molecole che conducono all’arresto del ciclo cellulare o all’apoptosi) (Figura 4). Il sistema di controllo che regola la progressione del ciclo cellulare svolge diversi compiti garantendo che tutti i processi associati con le diverse fasi siano portati a termine al momento giusto e nella sequenza corretta e assicurando che ogni fase del ciclo sia stata completata correttamente prima di poter iniziare la successiva. 15 Figura 4 - Organizzazione concettuale della trasduzione del segnale in risposta al danno al DNA (Niida & Nakanishi 2006). Nelle cellule sono presenti tre momenti principali a livello dei quali può essere indotto l’arresto temporaneo del ciclo cellulare, tutti e tre sono finemente regolati dai checkpoints del ciclo (Figura 5): • il punto di controllo G1, detto punto di restrizione, che non consente alla cellula di proseguire nella fase S; • il punto di controllo G2, che impedisce alla cellula l’ingresso in fase M (mitosi); • il punto di controllo dell’assemblaggio del fuso, tra la metafase e l’anafase della mitosi. Figura 5 - Punti di controllo del ciclo cellulare (www.mun.ca/biology/desmid/brian/BIOL2060/BIOL2060-19/CB19.html). 16 In seguito ad esposizione a RI le cellule possono rallentare la loro progressione nel ciclo cellulare e fermarsi preferenzialmente in G1 o G2. Queste interruzioni del ciclo consentono alla cellula di attivare i processi di riparo del DNA, limitando il rischio di avere in fase S o M uno stampo alterato che possa essere trasmesso alle generazioni successive. Il primo passaggio nell’attività di controllo dei checkpoints del ciclo cellulare in risposta al danno al DNA è il riconoscimento del danno stesso (Niida & Nakanishi 2006). Le principali molecole di segnalazione di rotture a doppia elica (tipiche lesione indotte dalle radiazioni ionizzanti) appartengono alla famiglia di proteinchinasi correlate alla fosfatidilinositolo-3 chinasi (PI3K) e sono: la proteina mutata ataxia telangectasia (Ataxia Telangectasia Mutated, ATM), la proteina correlata ataxia telangectasia (Ataxia Telangectasia Related, ATR) e la subunità catalitica della proteinchinasi DNA-dipendente (DNA-dependent Protein Kinase catalytic subunit, DNA-PKcs). ATM, in risposta a DSB causate da radiazioni ionizzanti o da composti radiomimetici, si autofosforila a livello della serina in posizione 1981 e passa dalla forma omodimerica inattiva a quella monomerica attiva. Il riconoscimento del complesso MRN (Mre11-Rad50-Nbs1) al sito della doppia rottura stimola ATM inducendone un cambiamento conformazionale, che ne aumenta l’affinità per ulteriori substrati a valle coinvolti in numerosi processi cellulari. Tra questi substrati, che vengono fosforilati dall’attività chinasica di ATM vi sono p53, Chk1 (Checkpoint Kinase 1), Chk2 (Checkpoint Kinase 2), l’istone H2AX, che a loro volta attivano altre proteine che provocano l’arresto del ciclo cellulare e facilitano la riparazione del DNA. ATR è una proteinchinasi che viene richiamata sul sito della rottura tramite RPA (Replication Protein A) ed attivata mediante interazione con i complessi Rad17-RFC e Rad9-Rad1-Hus1. ATR attiva è in grado di fosforilare substrati come Chk1 e Chk2, che inducono l’arresto del ciclo cellulare. La proteinchinasi DNA-dipendente (DNA-PK) è un complesso trimerico composto dalla subunità catalitica (DNA-PKcs) e dall’eterodimero Ku. La subunità catalitica, critica per la riparazione del DNA tramite il meccanismo noto come riparazione per congiunzione delle estremità non omologhe (Non Homologous End Joining, NHEJ), è in grado di fosforilare diversi substrati comuni ad ATM, come l’istone H2AX nel dominio di DNA vicino alla doppia rottura (Alberts et al. 2004). Il punto di controllo in G2 dipende da un meccanismo simile a quello che ritarda l’ingresso in mitosi quando avviene una replicazione incompleta del DNA. Quando le cellule sono esposte a RI, le molecole sensore di danno al DNA attivano proteinchinasi trasduttori di segnale che fosforilano ed inattivano la fosfatasi cdc25. Questo enzima normalmente attiva il complesso M-Cdk (complesso ciclina-chinasi ciclina dipendente di attivazione della fase M) tramite rimozione di gruppi fosfato; quindi, l’inattivazione di cdc25 inibisce a sua volta il complesso M-Cdk, impedendo l’ingresso della cellula in mitosi. Quando il danno è stato riparato, il segnale di inibizione della progressione del ciclo cellulare viene rimosso e il ciclo riprende. Il punto di controllo in G1 impedisce la progressione nella fase S inibendo i complessi ciclina G1/SCdk e ciclina S-Cdk. Il DNA danneggiato genera segnali che attivano la proteinchinasi ATM, che fosforila p53 sulla serina 15 (Banin et al. 1998; Canman et al. 1998) attivandola e determinando la sua separazione dalla proteina Mdm2 con cui è complessata (Mdm2 ha la funzione di ubiquitina ligasi ed indirizza p53 ai proteasomi, dove viene degradata; questo meccanismo consente di mantenere bassi i livelli citoplasmatici di p53 in mancanza di danni al DNA). La proteina p53 attiva 17 trasloca nel nucleo, dove può svolgere la sua attività trascrizionale attivando o inibendo diversi geni bersaglio coinvolti nell’arresto del ciclo cellulare e nei meccanismi di riparazione. Questo porta ad una forma ipofosforilata della proteina pRB (proteina del retinoblastoma), che non essendo in grado di rilasciare il fattore di trascrizione E2F, inibisce la trascrizione di geni i cui prodotti sono necessari per la transizione G1-S. Se il danno al DNA non viene riparato p53 attiva geni che inducono la morte cellulare tramite apoptosi (Figura 6). Figura 6 - Pathway di segnalazione della risposta al danno al DNA (DDR, DNA-Damage Response; Dai & Grant 2010). La capacità di indurre l’arresto del ciclo e/o la morte cellulare ha valso alla proteina p53 l’appellativo di “guardiano del genoma”, in quanto impedisce il propagarsi di cloni di cellule mutate (Alberts et al. 2004). I danni al DNA prodotti dalle radiazioni ionizzanti possono produrre degli effetti permanenti a livello cellulare. I cambiamenti permanenti nella sequenza del DNA possono interessare una o poche basi, e quindi un solo gene, o tratti estesi dei cromosomi, e quindi più geni, visibili citologicamente come aberrazioni cromosomiche (aneuploidie, delezioni, traslocazioni). Le aberrazioni cromosomiche sono spesso il risultato del persistere di rotture della doppia elica del DNA. Gli effetti biologici di cambiamenti permanenti nella sequenza del DNA delle cellule somatiche sono principalmente tumori ed invecchiamento precoce, mentre cambiamenti del genoma in cellule della linea germinale possono non avere alcuna conseguenza per l’individuo, ma hanno effetti anche gravi se l’informazione genetica alterata dovesse venir trasmessa alla progenie (Migliore 2004). Quando il danno non è riparabile, in alternativa ai meccanismi di rimozione della lesione, la cellula attiva meccanismi apoptotici che la conducono alla morte. 18 1.4.2 L’apoptosi La morte cellulare programmata (Programmed Cell Death, PCD) o apoptosi è un processo fisiologico che si verifica negli organismi multicellulari e rappresenta il meccanismo chiave mediante la quale viene mantenuta inalterata l’omeostasi cellulare contrastando la crescita tumorale (Hanahan & Weinberg 2000). Agenti mutageni come le radiazioni ionizzanti, che provocano danni a carico del DNA, inducono l’arresto del ciclo cellulare, l’attivazione dei meccanismi di riparazione del DNA e, in caso di danni irreparabili, l’induzione dell’apoptosi (Yoshida & Miki 2010). Una volta attivato il macchinario apoptotico vengono innescati una serie di eventi a cascata ben distinguibili sia morfologicamente che biochimicamente della durata di alcune ore fino alla completa rimozione dei corpi apoptotici entro 24 dall’induzione, senza però provocare una risposta infiammatoria a differenza di quanto si verifica nella morte cellulare mediante necrosi. Esistono due principali pathway apoptotici: la via estrinseca o mediata dai recettori di morte (Ashkenazi & Dixit 1998) e la via intrinseca o mitocondriale (Green & Reed 1998). Un ruolo centrale nella risposta al danno al DNA e nel processo apoptotico è svolto dal gene oncosoppressore p53, che è in grado di attivare sia il pathway estrinseco che intrinseco (Lowe et al. 2004). In risposta al danno al DNA, la chinasi ATM fosforila rapidamente p53 a livello della serina 15, mentre la chinasi Chk2, che agisce a valle di ATM, la fosforila a livello della serina 20. Questi due siti fosforilati nella regione N-terminale determinano la stabilizzazione di p53, che, non essendo più sottoposta a degradazione mediante proteasoma (Appella & Anderson 2001), è in grado di svolgere la sua attività di repressore o attivatore trascrizionale. Un esempio, è dato dalla capacità di p53 di attivare diversi geni pro-apoptotici, che sono cruciali per l’esecuzione della via intrinseca, quali Bax, Noxa, Puma e Apaf-1 (Nakano & Vousden 2001). Inoltre, p53 reprime i geni che codificano proteine repressori dell’apoptosi, che neutralizzano l’azione pro-apoptotica di Puma e Bad (Li et al. 2008). p53 può anche promuovere il rilascio di citocromo C attraverso l’espressione del gene oncosoppressore OKL38, il cui prodotto si localizza nella membrana mitocondriale, aumentandone la permeabilità e conseguentemente l’uscita dallo spazio intermembrana del citocromo C stesso. Quest'ultimo rilasciato si lega nel citoplasma ad Apaf-1 ed alla caspasi iniziatrice 9 (apoptosoma), che si attiva determinando a sua volta l’attivazione delle caspasi esecutrici. È stata anche dimostrata la capacità di p53 di interagire con le proteine anti-apoptotiche bcl-2, bcl-XL e mcl-1 a livello della membrana mitocondriale. Figura 7 – Grafico della differente radiosensibilità dei linfociti del sangue periferico. Delle cellule natural killer (più radioresistenti), ai linfociti T CD4, ai monociti/ macrofagi (MAC), ai linfociti T CD8 e infine ai linfociti B (più radiosensibili) (Immagine modificata da Harrington et al. 1997). 19 Quando queste proteine legano p53, viene compromessa la loro capacità di stabilizzare la membrana mitocondriale, con successiva variazione della permeabilità mitocondriale e rilascio di citocromo C (Wolff et al. 2008). È importante sottolineare che i differenti tipi cellulari sono più o meno sensibili agli effetti indotti dalle radiazioni ionizzanti. Ad esempio in Figura 7 è possibile vedere che in termini di radio resistenza le natural killer siano più resistenti dei linfociti T CD4, seguono i monociti/macrofagi (MAC), i linfociti T CD8 e per ultimi i linfociti B. 1.4.3 Meccanismi di riparo del DNA Il DNA è l’elemento cellulare maggiormente radiosensibile, per questo motivo è dotato di meccanismi di riparo finemente regolati in grado di ripristinare la corretta sequenza del DNA senza introdurre errori (error-free). L’ampia varietà e la fine regolazione assicurano la riparazione di tutte le lesioni che si possono originare sulla molecola di DNA. Altri sistemi, definiti meccanismi di tolleranza, non rimuovono il danno ma assicurano la sopravvivenza cellulare anche se possono determinare errori (error-prone). I principali sistemi cellulari di riparo del DNA comprendono: • Il Riparo diretto del danno ad opera di enzimi quali ad esempio la O6-MetilGuaninaMetilTransferasi (MGMT) che rimuove specificamente gruppi metilici dalla posizione O6 della guanina. Per questo tipo di riparo non è richiesto nessun filamento di DNA come stampo. • I meccanismi di riparo per escissione, che rimuovono il nucleotide danneggiato sostituendolo con un nucleotide intatto complementare a quello presente nel DNA non danneggiato. I meccanismi di riparo per escissione, che riguardano i danni al singolo filamento di DNA sono a loro volta distinti in (Figura 8): AA Il Base Excision Repair (BER) o riparo per escissione di base: è un processo multifase che ripara il danno che coinvolge lesioni al DNA non ingombranti, causate da ossidazione, alchilazione, idrolisi, oppure deaminazione. Queste modificazioni possono verificarsi a partire da processi endogeni legati al normale metabolismo cellulare o in seguito ad esposizione a cancerogeni ambientali o farmaci chemioterapici. Il meccanismo BER possiede due vie di segnalazione; entrambe queste vie iniziano con l’attivazione di una N-MetilPurina DNA-Glicosilasi (MPG) che riconosce la base alterata e rompe il legame N-glicosidico tra la base danneggiata e lo zucchero fosfato della struttura del DNA. Questo taglio genera un sito apurinico/apirimidinico nel DNA ed una endonucleasi specifica elimina la base azotata, lasciando il fosfato e il deossiribosio. Una liasi elimina il fosfato e lo zucchero in modo tale che una DNA-polimerasi leghi il nuovo nucleotide al 3’finale del taglio e la ligasi lo incorpori nel filamento. Il BER quindi può riparare la deaminazione della citosina in uracile o la trasformazione della guanina in 8-oxo-guanina. La riparazione di una base danneggiata con un singolo nuovo nucleotide si riferisce all’attività del BER short patch che rappresenta 20 approssimativamente l’80-90 % di tutta l’attività del sistema di riparo. Il percorso alternativo del BER, definito long patch, è utilizzato quando è presente nel DNA una base modificata che è resistente all’attività liasica della DNA-polimerasi (Mol et al. 1999). Questo secondo tipo di sistema ripara dai 2 ai 10 nucleotidi compresa la base danneggiata e richiede molti degli stessi fattori utilizzati nello short patch. BB Il Nucleotide Excision Repair (NER) o riparazione per escissione di nucleotidi, che ripara un danno che coinvolge filamenti lunghi da 2 a 30 nucleotidi. Questi includono danni che provocano una notevole distorsione dell’elica, quali i dimeri di timina causati da luce UV, come pure le rotture di un singolo filamento. Il processo di riparo NER richiede l’azione di più di 30 proteine che includono il riconoscimento del danno, l’apertura locale della doppia elica del DNA vicino alla lesione, una doppia incisione della doppia elica con il danno, la riparazione delle lacune e la “ricucitura” della doppia elica di DNA. CC Il MisMatch Repair (MMR), che corregge errori di replicazione e di ricombinazione genetica o loops di inserzioni/delezioni (IDL), che determinano la formazione di nucleotidi male appaiati in seguito alla replicazione del DNA. Ulteriori substrati del MMR sono le anse extra-elica, che si formano in regioni ricche di nucleotidi ripetuti per scivolamento del filamento neosintetizzato o di quello che funge da stampo. Per ottenere una riparazione fedele del DNA, è necessario che il MMR riconosca e processi il filamento di nuova sintesi contenente l’errore o le anse extra-elica e lasci intatto il filamento parentale. In Escherichia Coli il riconoscimento delle basi appaiate erroneamente viene eseguito dalla proteina MutS in forma omodimerica. Il legame di MutS al substrato è stimolato in maniera ATP-dipendente da un secondo omodimero, MutL, la cui funzione è probabilmente quella di accoppiare il riconoscimento del danno da parte di MutS con la tappa successiva in cui interviene l’endonucleasi MutH. Il riconoscimento del filamento di nuova sintesi da quello parentale si basa sullo stato di metilazione; infatti, l’enzima adenina metilasi inserisce un gruppo metilico in posizione N6 dell’adenina presente nelle sequenze 5’-GATC-3’ neosintetizzate dopo un intervallo di tempo breve, ma sufficiente per consentire al complesso riparativo di riconoscere ed incidere il filamento contenente l’errore. Poiché queste sequenze di quattro basi sono presenti approssimativamente ogni 250 coppie di basi, una è sempre presente nei pressi dell’errore. A partire dal punto di incisione, che si trova di fronte alla sequenza 5’-GATC-3’ metilata e a monte dell’errore, l’elica di DNA viene srotolata dalla DNA elicasi II fino al punto in cui è situato il mismatch e degradata da esonucleasi 5’-3’ a singolo filamento. Infine, l’oloenzima DNA polimerasi III, con l’aiuto della proteina legante il singolo filamento (Single Strand Binding Protein), riempie gli spazi vuoti e la DNA ligasi salda la rimanente rottura a singolo filamento. La presenza di proteine omologhe in Saccharomyces Cerevisiae e in cellule umane indica che il MMR è un processo ampiamente conservato nel corso dell’evoluzione (Buerme- 21 yer et al. 1999). Tuttavia, il meccanismo di riparazione degli appaiamenti errati negli eucarioti non è ancora ben compreso come quello in Escherichia Coli, in quanto il gene che codifica la proteina di riconoscimento del filamento contenete l’errore non è stato trovato; quindi gli eucarioti sembrano non utilizzare la metilazione del DNA come meccanismo di discriminazione tra filamento parentale e di nuova sintesi, ma tale passaggio è ancora oggetto di studi (Herendeen & Kelly 1996). Figura 8 – Rappresentazione schematica dell’induzione dei meccanismi di riparo in seguito a danno al DNA (Hoeijmakers 2001). Un tipo particolarmente pericoloso di danno al DNA per le cellule in divisione è la rottura di entrambi i filamenti della doppia elica. Esistono due meccanismi capaci di riparare questo danno (Delacôte & Bernard 2008): • Non-Homologous End-Joining (NHEJ): riunisce le due estremità della rottura in assenza di una sequenza che possa fungere da stampo. Tuttavia può esserci una perdita di sequenza durante questo processo e quindi tale riparo può essere mutagenico. Il NHEJ può verificarsi a tutti gli stadi del ciclo cellulare, ma nelle cellule di mammifero è il principale meccanismo fino a quando la replicazione del DNA non rende possibile la riparazione per ricombinazione con impiego del cromatide fratello come stampo. • Homologous Ricombination (HR): si attiva in maniera predominante durante le fasi del ciclo cellulare in cui il DNA è in replicazione, oppure non appena ha portato a termine la propria duplicazione. La riparazione per ricombinazione richiede la presenza di una sequenza identica che possa essere usata come stampo per la riparazione di una rottura. Il cromosoma danneggiato è riparato con l’impiego, come stampo, di un cromatide fratello neosintetizzato. Il macchinario enzimatico responsabile per questo processo è praticamente identico al macchinario responsabile del crossingover nelle cellule germinali durante la meiosi. 22 2. IL GENE PIG-A 2.1 Impiego di geni reporter per la detection di mutazioni somatiche indotte da agenti mutageni Le mutazioni rappresentano un inevitabile rischio correlato alla duplicazione cellulare. Sebbene queste siano la chiave dell’evoluzione biologica, l’accumulo di mutazioni in cellule somatiche è responsabile dello sviluppo del cancro. Per questo motivo la misura della frequenza e del rate di mutazione è in grado di fornire importanti informazioni sul rischio di oncogenesi e sui rischi di esposizioni ad agenti mutageni. La frequenza di mutazione (f) è definita come la frazione di cellule portatrici di una data mutazione genica, mentre il rate di mutazione (μ) è la probabilità di una nuova mutazione espressa per divisione cellulare. A condizione che la mutazione non interferisca con la crescita i due parametri sono correlati da una semplice relazione f = μ x d, dove d indica il numero di divisioni cellulari (Peruzzi et al. 2010). Per misurare f e μ sono state messe a punto metodiche che utilizzano le peculiari caratteristiche di geni noti come geni reporter o sentinella. Un gene sentinella ideale per la detection di mutazioni somatiche deve avere tre requisiti fondamentali: • l’effetto della mutazione deve essere facilmente detectabile; • la mutazione non deve compromettere la vitalità cellulare; • la mutazione non deve interferire nella crescita e nella divisione della cellula. Un gene reporter ampiamente utilizzato è il locus HPRT (hypoxanthine–guanine phosphoribosyl transferase). La detection si basa sul concetto che solo le cellule mutate a livello del locus HPRT sono in grado di sopravvivere alla somministrazione della 6-tioguanina (Albertini et al. 1982). Questo gene come altri geni reporter presenta delle importanti limitazioni, in particolare il saggio HPRT è molto laborioso e basandosi sull’esclusiva conta al microscopio dei cloni sopravvissuti è facile che l’operatore possa compiere errori di conta dei cloni. Esistono delle varianti citometriche, ma anche queste risultano molto laboriose per l’operatore poiché richiedono la denaturazione del DNA e l’uso di bromodessosiuridina (Katova & Grawéb 2002). Il gene PIG-A (fosfatidilinositolo-glicano gruppo A) è un gene housekeeping localizzato nel braccio corto del cromosoma X. Il prodotto di questo gene, lungo circa 17 Kb, gioca un ruolo critico nella biosintesi del sistema di ancoraggio del glicosilfosfatidilinositolo (GPI) che lega molte proteine alla superficie cellulare (Iida et al. 1994). La distruzione di questo gene determina la mancata espressione di tali proteine sulla superficie cellulare, caratteristica fenotipica che può essere sfruttata per l’analisi citofluorimetrica. Mutazioni somatiche del gene PIG-A sono inoltre associate all’Emoglobinuria Parossistica Notturna (EPN), (Norris et al. 1994, Risitano et al. 2008). 2.2 Il gene sentinella PIG-A L’Emoglobinuria Parossistica Notturna è una malattia ematologica acquisita estremamente rara, l’età media dei soggetti in cui viene diagnosticata tale patologia si aggira intorno ai 35-40 anni; 23 rari casi sono stati descritti nei bambini e nei soggetti con età superiore ai 50 anni. Dal punto di vista clinico l’EPN può essere definita un’anemia emolitica cronica con esacerbazioni notturne associate a neutropenia e/o trombocitopenia (Rotoli et al. 1989, Hillmen et al. 1995). Sebbene sia frequente il coinvolgimento di tutte le cellule del lineage mieloide la manifestazione maggiore è rappresentata dall’emolisi intravascolare dei globuli rossi che diventano più sensibili alla lisi mediata dal complemento. Caratteristica della patologia è la proliferazione clonale di una cellula staminale emopoietica, che presenta una mutazione somatica nel gene PIG-A (Takeda et al. 1993, Bessler et al. 1994) da cui deriva l’assenza sulla membrana cellulare di tutte le molecole legate attraverso l’ancora glicofosfatidilinositolica (Figura 9). Figura 9 – Rappresentazione schematica della mutazione che conferisce il fenotipo EPN (Young et al. 2000). Tale gene localizzato nel cromosoma X (p22.1), è presente funzionalmente in singola copia in ogni cellula (gli uomini sono emizigoti e le donne, in seguito al fenomeno dell’inattivazione di un cromosoma X o “lyonizzazione” hanno un solo cromosoma X attivo); ciò spiega perché una sola mutazione determina l’acquisizione del difetto. In condizioni normali il primo step per la biosintesi del glicosilfosfatidilinositolo, che ha luogo nel versante citoplasmatico del reticolo endoplasmatico cellulare, trasferisce l’N-acetil-glucosammina ad un fosfolipide di membrana chiamato fosfatidilinositolo (PI). Dopo ulteriore aggiunta di mo24 nosaccaridi (soprattutto residui di mannosio) al PI, il GPI appena formato viene rilasciato verso il lume dell’organello. In questa sede, la sua coda idrofilica, formata da fosfoetanolammina, si lega covalentemente all’estremità carbossilica della proteina. Quest’ultima viene trasferita alla superfice cellulare e rimane legata ad essa mediante la struttura GPI. Nell’EPN si verifica un blocco di questa via metabolica: tale blocco è causato da una grave deficienza dell’enzima acetilglucosammiltransferasi, che catalizza la prima reazione (infatti una subunità di esso è codificata dal gene PIG-A). Numerose sono le mutazioni che possono causare l’alterazione: piccole delezioni, inserzioni, combinazioni di delezioni ed inserzioni all’interno della sequenza codificante del gene, tutti difetti che causano un frameshift, ovvero uno slittamento nella lettura del messaggio codificato dal gene; ne consegue l’inserimento prematuro di un codone stop, che anticipa la fine della traduzione dell’informazione genetica con produzione di una proteina solitamente non funzionante (Bessler et al. 1994). Per tale motivo sulle cellule EPN risultano ridotti o assenti diverse molecole che sono legate alla membrana mediante la struttura GPI. Tali molecole esercitano, nelle cellule normali, un ruolo di protezione dalla lisi del complemento (Wilcox et al. 1991). 2.3 Proteine di membrana ancorate al glucosil fosfatidilinositolo (GPI) Molte proteine delle cellule eucariotiche sono ancorate alla membrana attraverso un legame covalente al glicosil-fosfatidilinositolo (Figura 10). Tali proteine non hanno né dominio transmembrana né code citoplasmatiche e sono, pertanto, localizzate esclusivamente sul lato extra-cellulare della membrana plasmatica. Le proteine ancorate al GPI costituiscono una famiglia di molecole diverse fra loro che includono enzimi associati alla membrana, molecole di adesione, antigeni di attivazione, markers di differenziazione e altre glicoproteine (Tabella 1). Tutte queste proteine vengono inizialmente sintetizzate con un’ancora transmembrana, ma in seguito alla traslocazione attraverso la membrana del reticolo endoplasmatico, l’ecto-domain della proteina viene clivato e legato covalentemente all’ancora GPI preformata mediante l’enzima transamidasi. Il motivo per il quale molte proteine vengono dotate di ancora GPI rimane ancora poco chiaro infatti per molte di esse non conferisce alcuna caratteristica funzionale. In generale questo evento rappresenta: • un forte apical targeting signal nelle cellule epiteliali polarizzate; • le proteine ancorate al GPI non sono raggruppate in clusters e avvolte da clatrina ma vengono invece concentrate in domini lipidici specializzati; • le GPI-anchored proteins possono agire come antigeni di attivazione nel sistema immunitario; • quando l’ancora GPI viene clivata può essere generato un secondo messaggero per il segnale di trasduzione; 25 • la GPI-anchor può modulare la presentazione dell’antigene attraverso molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) ( Low 1989, Cross 1990). Figura 10 - Rappresentazione schematica della struttura dell’ ancora GPI (www.sigmaaldrich.com/life-science/proteomics/post-translationalanalysis/glycosylation/structuressymbols/gpi-anchor-structure.html). Ciò che è fondamentale è che nelle cellule EPN risultano ridotte o addirittura assenti specifiche molecole legate alla membrana mediante la struttura GPI, quali il DAF (Decay Accelerating Factor o CD55, 70 kD), l’HFR (Homologous Restriction Factor, 80 kD) e il MIRL (Membrane Inhibitor of Reactive Lysis o CD59). Tali molecole esercitano, nelle cellule normali, un ruolo di protezione dalla lisi del complemento (Wilcox et al. 1991). Le cellule EPN inoltre, in dipendenza dal lineage cui appartengono sono deficitarie di CD48 (linfociti), CD66b e CD67 (granulociti), CD14 (monociti), CD16 (neutrofili e linfociti NK), CD24 (cellule B e sui granulociti) e CDw52 (linfociti, monociti e macrofagi). Questa caratteristica può venire facilmente sfruttata in citofluorimetria consentendo di avere un’accurata stima della frequenza di cellule mutate e mutanti. 26 ANTIGENI FUNZIONE DISTRIBUZIONE CELLULARE CD14 Recettore endotossine Forte espressione su monociti; debolmente espressi su granulociti CD16 Recettore lipopolisaccaride. Bassa affinità recettore Fc per IgG immune complexes FcγRIII Neutrofili (legati al GPI mediante polimorfismi) CD24 Sconosciuta Cellule B e granulociti CD28 Possibile receptor/ligand binding con CD2 Linfociti e monociti CD52 (CAMPATH) Sconosciuta Linfociti e monociti CD55 (DAF) CD58 (LFA-3) Regolazione del complemento; Limita la formazione di C3’convertasi Tutte le cellule ematopoietiche Adesione, segnale costimolatorio nelle risposte immuni Tutte le cellule ematopoietiche Inibisce la formazione di complessi attaccati alla membrana e protegge la cellula dalla lisi mediata dal complemento Tutte le cellule ematopoietiche; debolmente espresse su cellule non ematopoietiche CD66b, CD66c, CD66e Adesione omofilica/eterofilica; attivazione cellulare Granulociti, cellule epiteliali CD73 (ecto-5-nucleotidasi) Immunoregolatoria Subset di cellule B e T CD87 (uPAR) Conversione del plasminogeno in plasmina Cellule T, NK, monociti, neutrofili e cellule non ematopoietiche CD90 (Thy-1) Sconosciuta Subset di cellule staminali, subset di cellule T CD108 (JMH blood group Antigen) Possibile ruolo nell’adesione Eritrociti, bassi livelli su linfociti CD109 Sconosciuta Cellule T attivate, piastrine, megacariociti e subset di progenitori di cellule staminali CD34+ Ecto-enzyme; ADP ribose hydrase cyclase Cellule stromali del midollo osseo, monociti e granulociti CD59 (membrane inhibitor of reactive lysis: MIRL) CD157 Tabella 1 - Espressione delle proteine ancorate al GPI su cellule ematopoietiche. (Tabella modificata da Richards et al. 2000). 27 2.4 Potenzialità e limitazioni del saggio PIG-A Un agente mutageno è un agente in grado di causare un significativo aumento del tasso di mutazione rispetto al range di mutazioni spontanee. Ne consegue che un saggio di mutagenicità ideale dovrebbe essere in grado di detectare ogni singola mutazione. Infatti usando il gene reporter PIG-A è possibile identificare qualunque mutazione che comporta la totale perdita di attività del prodotto genico (Peruzzi et al. 2010). Dagli studi condotti sui pazienti EPN sappiamo che le mutazioni a livello del gene PIG-A che portano ad una completa perdita delle proteine GPI-linked sono principalmente piccole delezioni ed inserzioni che causano frameshifts, ma anche mutazioni non senso e missenso. Altri tipi di danno possono non compromettere totalmente la funzionalità enzimatica, è necessario perciò tenere ben presente questo aspetto che potrebbe portare ad una sottostima della frequenza di mutazione. Inoltre un’altra limitazione è legata al fatto che le mutazioni sono un evento raro, nei granulociti ad esempio il PIG-A, lungo circa 17 Kb, ha una frequenza di mutazione di circa 20 cellule su un milione (range 10-50 cellule/milione) (Araten et al. 1999) per cui per la detection citofluorimetrica è necessario ricorrere all’aquisizione di milioni di eventi. Queste limitazioni sono superate dal grosso vantaggio legato al fattore tempo. Saggi come l’HPRT richiedono infatti alcune settimane mentre per la detection citofluorimetrica della frequenza di mutazione mediante il saggio PIG-A è sufficiente meno di un giorno. 28 3. LA CRIOCONSERVAZIONE 3.1 Aspetti generali La crioconservazione è la tecnica che consente la preservazione per lunghi periodi di cellule e tessuti sfruttando l’azione delle temperature criogeniche sul metabolismo cellulare. Temperature di -196°C consentite dall’uso dell’azoto liquido, permettono infatti il blocco delle attività metaboliche, garantendo una buona funzionalità cellulare al momento dello scongelamento. Grazie ai recenti progressi in campo biotecnologico riguardo le tecniche di criopreservazione, è oggi possibile congelare molti lineage cellulari sia per fini di ricerca che terapeutici. Per questo motivo sono nate apposite strutture dette “criobanche”, importanti centri di raccolta del materiale biologico criopreservato. Queste criobanche, utilizzate in particolare modo per la conservazione di cellule staminali, ma anche per la criopreservazione di oociti e spermatozoi impiegati per tecniche di fecondazione in vitro, se da una parte rappresentano una grande risorsa dall’altra aprono le porte ad un grosso quesito, ovvero la garanzia che il materiale stoccato per lunghi periodi al momento dello scongelamento sia sicuro. Durante lo stato di criopreservazione, individuare i meccanismi responsabili del danno cellulare è estremamente difficile, sia a causa delle complesse caratteristiche della cellula ma anche per l’incapacità di discriminare gli effetti dei diversi fattori coinvolti. La formazione di ghiaccio extracellulare gioca un ruolo sicuramente rilevante nella dinamica dei danni biofisici arrecati dal processo di congelamento. Questo fenomeno altera infatti, le caratteristiche chimico-fisiche e porta alla formazione di ghiaccio all’interno della cellula stessa. All’aumentare della quota di acqua libera cristallizzata la soluzione extracellulare diventa sempre più concentrata in soluti, ne deriva un potenziale squilibrio chimico tra il citosol e la soluzione esterna non congelata. Questo si traduce in un aumento della pressione osmotica extracellulare con conseguente disidratazione della cellula. L’acqua intracellulare, raffreddata durante il congelamento, può raggiungere l’equilibrio termodinamico in due modi: fuoriuscendo dalla cellula e formando ghiaccio extracellulare, o in alternativa, formando ghiaccio all’interno della cellula. Durante il processo di congelamento, il destino dell’acqua cellulare dipende dalla velocità di diffusione transmembrana e da quella di formazione dei nuclei di cristallizzazione. Quando le cellule sono congelate lentamente, il tasso di efflusso dell’acqua è sufficientemente elevato da prevenire livelli eccessivi di congelamento, in questo modo, la disidratazione cellulare precede la formazione di ghiaccio intracellulare. Viceversa, a velocità rapide di congelamento, l’esosmosi di acqua è lenta e la formazione di ghiaccio intracellulare prevale. Si ritiene che il danno cellulare derivi da forze meccaniche prodotte dal ghiaccio intracellulare e che i siti maggiormente danneggiati siano la membrana plasmatica e quella degli organelli intracellulari. Allo scopo di contrastare tali modificazioni risulta, quindi, necessario l’ausilio dei crioprotettori (Jain & Paulson 2006, Koutlaki et al. 2006, Vajta & Nagy 2006, Vajta & Kuwayama 2006). 3.2 I crioprotettori Il termine “crioprotettori” accomuna sostanze diverse ma tutte capaci di proteggere la cellula dai danni indotti dal congelamento. Nella messa a punto di un protocollo di criopreservazione la scelta del crioprotettore e della sua concentrazione rappresenta un punto cruciale. Parametri quali ve- 29 locità di diffusione e la tossicità variano sensibilmente in funzione del tipo cellulare e della specie. Risulta importante che la scelta porti ad un giusto equilibrio tra tossicità e protezione, in questo modo la cellula è protetta dai danni indotti dalle basse temperature ma contemporaneamente è anche in grado di tollerare la tossicità dell’agente crioprotettivo scelto. La tossicità è in funzione delle caratteristiche chimico fisiche del crioprottetore, quali ad esempio, la capacità di denaturare gli enzimi, il tempo di esposizione e la temperatura alla quale è sottoposto il sistema. In base alla capacità di oltrepassare o meno la membrana plasmatica, i crioprotettori possono essere classificati in: • Permaneneti (CPA: Cryoprotective Permeating Agents): si tratta di molecole di piccole dimensioni che, diffondendo attraverso la membrana plasmatica e, superando la differenza di pressione osmotica esistente tra i due lati della membrana, consentono di abbassare la temperatura alla quale si formano i cristalli di ghiaccio riducendone la formazione. Le sostanze più comunemente usate sono: il dimetilsulfossido (DMSO), il glicerolo (Gly), il propilenglicole (PG) e l’etilenglicole (EG). • Non Permanenti: sono molecole che non penetrando attraverso la membrana plasmatica producono una condizione di disidratazione cellulare con conseguente riduzione della formazione di ghiaccio durante il congelamento. I più comuni sono glucosio, saccarosio, polivinilpirrolidone (PVP), trealosio, ecc. Gli zuccheri sono agenti crioprottetivi non permanenti, queste sono molecole molto grandi, con elevato peso molecolare, che favoriscono la disidratazione cellulare durante il raffreddamento. Hanno diverse funzioni: contribuiscono all’osmolarità e forniscono energia allo spermatozoo. Prima di procedere al congelamento, è necessario esporre le cellule al tipo crioprotettore scelto per un tempo variabile; questa fase è detta di “equilibrio” o “adattamento”. Durante tale periodo il crioprotettore si scambia o sottrae l’acqua intracellulare con una velocità variabile in funzione di parametri quali: temperatura, specie, tipo cellulare, concentrazione, tipo di crioprotettore e tempo di esposizione. Questi parametri risultano fortemente interdipendenti. La temperatura di esposizione condiziona sensibilmente la permeabilità ai diversi crioprotettori e da quest’ultima dipenderà la loro tossicità. Sulla base di tale assunto è possibile ottenere una riduzione della tossicità mediante riduzione della temperatura di esposizione del campione. Il tempo di esposizione deve essere calibrato in maniera ottimale poiché, se troppo breve, non consente un’adeguata penetrazione del crioprotettore, ma se troppo lungo, produce danno cellulare. Le membrane della maggior parte delle cellule, ovociti compresi, sono più permeabili all’acqua che ai CPA; perciò, quando si congelano ovociti o embrioni inizialmente questi tendono a raggrinzire perché l’acqua fuoriesce più rapidamente rispetto al crioprotettore, in seguito si rigonfiano col penetrare nella cellula del CPA fino al raggiungimento di un punto di equilibrio. Per la stessa ragione, al momento dello scongelamento, quando l’agente crioprottetivo viene rimosso completamente dal comparto intracellulare, le cellule si rigonfiano per ritornare al loro volume iniziale. I cambiamenti volumetrici causati dall’aggiunta e dalla rimozione del crioprotettore possono essere dannosi se oltrepassano i limiti di tolleranza osmotica della cellula. Nella pratica, questi cambiamenti vengono minimizzati 30 mediante aggiunta o rimozione del CPA in passaggi graduali oppure mediante la presenza di un crioprotettore non permeante, come il saccarosio. La presenza di questi composti in una soluzione acquosa riduce il fenomeno della cristallizzazione e abbassa il Δt crioscopico. Alte concentrazioni di tali sostanze possono, inoltre, generare un cambiamento di stato della soluzione quando sottoposta a basse temperature da liquido a vitreo, (da cui vitrificazione), senza consentire la cristallizzazione e, quindi, la formazione di ghiaccio che le conferirebbe un colore opalescente. Molti composti sono eccessivamente tossici per essere efficientemente utilizzati in criobiologia, soprattutto se si deve ricorrere ad alte concentrazioni. Le sostanze maggiormente impiegate sono alcuni glicoli (etilenglicole, propandiolo, glicerolo) e il DMSO. Tali sostanze sono dotate di elevata volatilità, condizione che rende le soluzioni congelanti non stabili ed il loro impiego limitato nel tempo. La scelta del crioprotettore è anche in funzione del tipo di cellula che si deve congelare. Per molte cellule il glicerolo viene preferito al DMSO perché è meno tossico, mentre quest’ultimo ha un potere penetrante più elevato del glicerolo ed è scelto per cellule grandi e complesse. Il glicerolo ed il DMSO vengono generalmente utilizzati ad una concentrazione del 5-10% v/v, e non sono mai usati insieme nella stessa sospensione. Risulta perciò di fondamentale importanza valutare attentamente la composizione della soluzione, i tempi di equilibrio e la temperatura, tutto in funzione delle caratteristiche di permeabilità e sensibilità del tipo di cellula in esame. 3.3 Le procedure di crioconservazione Lo scopo della crioconservazione è quello di mantenere in vita le cellule superando i problemi provocati dal passaggio di stato dell’acqua garantendo al momento dello scongelamento la ripresa degli scambi molecolari senza che si verfichino danni cellulari. Ci sono due approcci di base per la criopreservazione di cellule e tessuti: le procedure di congelamento/scongelamento e la vitrificazione. Le tecniche di congelamento/scongelamento comportano la formazione di ghiaccio nella soluzione extracellulare, mentre, in condizioni operative opportune, viene resa minima la probabilità che si formi ghiaccio intracellulare. Le procedure di vitrificazione, invece, escludono la formazione di ghiaccio in ogni parte del campione. Le tecniche di congelamento prevedono il ricorso a fasi di equilibrio (congelamento lento) o di non equilibrio (congelamento rapido), con curve di discesa termica variabili tra 0.3 e 1°C per minuto (nel range che va da -6 a -35°C) e di circa 10°C al minuto (fino a -196°C) per quello lento, mentre per quello rapido si utilizzano curve di discesa termica molto rapide (Jain & Paulson 2006, Koutlaki et al. 2006, Vajta & Nagy 2006, Vajta & Kuwayama 2006). 3.3.1 Il congelamento lento Le procedure di congelamento lento e rapido differiscono nelle concentrazioni di crioprotettori usati, nelle curve di discesa termica applicate, nella modalità e nella tempistica delle metodiche utilizzate. Per il congelamento lento vengono generalmente impiegate soluzioni contenenti crioprotettori a concentrazioni di 1-2 mol/L che sono in grado di ridurre la probabilità di formazione del ghiaccio intracellulare con un abbassamento del Δt crioscopico a temperature comprese tra 31 -6 e -7°C. La velocità di congelamento adottata condiziona la dinamica di sviluppo del ghiaccio extracellulare. La curva di discesa termica generalmente applicata per ovociti ed embrioni (tra 0.3 e 1°C/min) dipende dalle caratteristiche fisiche, soprattutto dimensioni e permeabilità delle cellule, ed è sensibilmente più lenta di quella utilizzata per cellule somatiche e spermatozoi (da 1 a >100°C/min). I principali svantaggi del congelamento lento sono rappresentati dal costo elevato di acquisto e mantenimento dell’attrezzatura (congelatore automatizzato) e dal lungo tempo (più di 1 ora) necessario per lo svolgimento di tali procedure. 3.3.2 Il congelamento rapido Le procedure di congelamento rapido si sono sviluppate intorno agli anni ‘70 e sono definite procedure di non equilibrio poiché non viene raggiunto un equilibrio con la soluzione congelante, contrariamente a quanto avviene per il congelamento lento. Generalmente, i protocolli di congelamento rapido differiscono da quelli lenti per una maggiore disidratazione, per una più alta concentrazione dei crioprotettori nonchè per un singolo step con cui è attuato il raffreddamento, che abbatte la temperatura del campione portandola da alcuni gradi sopra lo zero fino a parecchi gradi al di sotto (< -130°C). Tali procedure non richiedono attrezzature specifiche, comportano un ridotto dispendio di azoto liquido, ed, infine, si effettuano in minor tempo. Queste sono, quindi, più economiche e facili da organizzare, ma, allo stesso tempo, richiedono particolari accorgimenti in funzione del materiale biologico utilizzato. Le tecniche comunemente utilizzate prevedono il raffreddamento del campione “a secco” (nella fase gassosa dell’azoto liquido) o nell’azoto liquido stesso, generando, così, una curva di discesa termica molto rapida e diversa in funzione del contenitore adottato. I supporti descritti in letteratura sono vari: • paillette (straw); • griglia per microscopio elettronico (copper grid); • superficie solida (solid surface) costituita da un blocco di acciaio parzialmente immerso in azoto liquido su cui vengono poste le microgocce di soluzione da congelare; • foglio di alluminio galleggiante in azoto liquido, sopra cui sono poste le microgocce di soluzione da congelare; • OPS (Open Pulled Straw), paillette allungata con le caratteristiche di un capillare; • cryoloop, una sorta di micro-cappio con al centro un film di soluzione (modello: stick per bolle di sapone) il cui volume è ancora più ridotto di quello usato nei precedenti supporti, consentendo così un raffreddamento più veloce; • cryotop, una sorta di micro-spatolina all’estremità di una bacchetta che può essere chiusa all’interno di un cryovial. Questi ultimi due supporti sono stati concepiti allo scopo di fornire migliori garanzie igieniche. 32 Negli ultimi anni, la tecnologia di congelamento rapido ha assunto un enorme interesse in campo umano per la necessità di crioconservazione degli oociti. 3.3.3 La vitrificazione Le procedure di vitrificazione prevedono l’utilizzo degli stessi supporti descritti precedentemente, ma con concentrazioni di crioprotettore così elevate da rendere le soluzioni, sottoposte a temperature criogeniche, simili al vetro, senza formazione di cristalli di ghiaccio durante la fase di raffreddamento, conservazione e riscaldamento. L’elevata tossicità delle soluzioni vitrificanti richiede tempi di esposizione molto ridotti ed elevate velocità di discesa termica. Quest’ultima condizione viene raggiunta, in genere, riducendo il volume del campione. Un’alternativa è offerta dalla riduzione della temperatura dell’azoto liquido mediante procedure fisiche. Una soluzione vitrificante può dar luogo alla formazione di cristalli di ghiaccio al variare delle condizioni operative. Cristalli possono, così, svilupparsi durante la fase di riscaldamento (devitrificazione) o anche durante il raffreddamento. A causa delle interazioni fra la formazione di ghiaccio e le condizioni di raffreddamento e riscaldamento, è possibile avere, contemporaneamente nella stessa soluzione, regioni vitrificate e ghiacciate. Rispetto alle soluzioni adottate per il congelamento lento, che si espandono durante la fase di discesa termica, perché il ghiaccio occupa un volume maggiore dell’acqua, le soluzioni vitrificanti presentano lo stesso volume della soluzione di partenza o, addirittura, minore. In assenza di ghiaccio, inoltre, non c’è nessun movimento di solventi e soluti durante il raffreddamento. Queste caratteristiche dovrebbero rendere la soluzione capace di rimanere allo stato vitreo per tutta la durata del raffreddamento e riscaldamento, con danni minori per le cellule rispetto alle procedure di congelamento. Risulta inoltre importante che il tempo di esposizione alla soluzione finale di vitrificazione sia ridotto. Un’esposizione troppo breve, tuttavia, non consente una sufficiente penetrazione del crioprotettore consentendo la formazione del ghiaccio intracellulare anche in assenza di quello extracellulare. Con il congelamento convenzionale più del 50% degli embrioni possono subire danni inficiando la resa al momento dello scongelamento, mentre con la procedura di vitrificazione l’incidenza di danno è considerevolmente ridotta. 3.4 Le criobanche Le criobanche sono apposite strutture e importanti centri di raccolta che consentono la conservazione del materiale biologico congelato. Ne esistono di differenti tipi sia per la conservazione di linee cellulari, tumorali e non, che per la conservazione di ovociti, spermatozoi ed embrioni ma attualmente quelle che suscitano maggiore interesse sono quelle dedicate al congelamento di cellule staminali. Una delle prime criobanche europee è la Swiss Stem Cell Bank, nata nel 2004, questa struttura svizzera offre un servizio di conservazione privato delle cellule staminali ed inoltre è impegnata da anni nella ricerca sull’utilizzo di cellule staminali a fini terapeutici. I grossi passi avanti fatti dalla ricerca sull’impiego delle cellule staminali nella cura di molteplici patologie altrimenti non curabili ha fatto si che negli ultimi anni siano nate una cospicuo numero di criobanche. Le cellule staminali mesenchimali ad esempio rappresentano una promessa nel campo della rigenerazione tissutale, il sangue del cordone ombelicale e del midollo osseo contiene invece una grande quantità di cellule staminali emopoietiche da tempo utilizzate a scopo terapeutico per 33 la cura di diverse malattie ematologiche come le leucemie e i linfomi. Il prelievo di midollo osseo è sicuramente una pratica invasiva a differenza del prelievo di sangue cordonale che è invece una procedura semplice che non comporta rischi ne per la madre ne per il bambino. Oggi anche in Italia si può decidere al momento del parto di congelare le cellule staminali del cordone ombelicale e donarlo alla ricerca oppure sfruttando l’appoggio delle criobanche si può, in alternativa, decidere di criopreservare le cellule staminali cordonali del nascituro. Il fine della criopreservazione di queste cellule è quello di garantire al bambino la conservazione di un’importante fonte di staminali da utilizzare in futuro per fini terapeutici se questo si renderà necessario. Per poter offrire questo tipo di servizio è necessario che la criobanca sia in grado di garantire un elevato livello di affidabilità tecnica mantenendo alti gli standard per quanto riguarda le metodiche di congelamento e di stoccaggio delle cellule. Il materiale crioconservato può essere infatti soggetto a rischi, quali contaminazioni virali e batteriologiche ma anche variazioni della temperatura, che ne possono alterare l’integrità. Per questo motivo vengono adottati standard di qualità che garantiscono procedure di controllo, processamento e mantenimento dei campioni di elevatissima affidabilità. In realtà un altro potenziale rischio potrebbe essere legato agli effetti delle radiazioni ionizzanti derivanti dal fondo naturale. Infatti queste cellule conservate per lunghi periodi al momento dello scongelamento potrebbero manifestare il fenotipo tipico delle cellule irradiate riportando arresto del ciclo cellulare, apoptosi e cancerogenesi. Questo indicherebbe la necessità di adottare un ulteriore accorgimento ovvero quello di utilizzare dewars e contenitori che consentano una completa schermatura dalle radiazioni esterne. Esiste anche una componente di radiazione interna costituita dal C14 e dal K40, ed anche se questa sembra avere un ruolo minore nel determinare il fondo naturale di radiazioni, sarebbe opportuno considerare gli eventuali danni derivanti da questa componente durante lo stoccaggio per lunghi periodi. 34 PARTE SECONDA Presentazione dei dati 35 4. SCOPO DEL LAVORO Questo lavoro fa parte del progetto EXCALIBUR, svolto in collaborazione con L’INFN “Istituto Nazionale di Fisica Nucleare”, che ha lo scopo di studiare gli effetti biologici indotti in sistemi in vitro e in vivo a seguito di esposizione a basse dosi di radiazioni ionizzanti, in funzione della qualità della radiazione, della dose e del microambiente, con particolare riguardo agli effetti “non lineari” (ipersensibilità, radioresistenza indotta, risposta adattativa, effetti di bystander) per contribuire ad una più realistica valutazione di rischio per esposizioni alle basse dosi di RI. Lo scopo di questo progetto parte dal presupposto che è possibile sfruttare l’irradiazione artificiale per mimare gli effetti delle basse dosi di radiazioni derivanti dal fondo naturale. Un anno di radiazione di fondo corrisponde ad una dose media di circa 2 mGy, una dose di 0.1 Gy corrisponde quindi a circa 50 anni di esposizione al fondo naturale. In particolare, anche sulla base di evidenze sperimentali derivanti dai precedenti esperimenti CRIORAD e SHEILA, approvati e finanziati dalla CSN5-INFN negli anni precedenti, il presente progetto si propone in vitro: • di valutare, mediante citometria a flusso, la mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti in cellule mononucleate congelate; • di quantificare la frequenza di cellule mutanti in cellule mononucleate congelate sfruttando in citofluorimetria le peculiari caratteristiche del gene reporter PIG-A. Inoltre grazie alla collaborazione con l’ente regionale AGRIS-Sardegna è stato possibile determinare l’effetto di basse dosi di radiazioni ionizzanti in vivo. Per questi esperimenti sono stati infatti utilizzati embrioni di pecora congelati mediante vitrificazione, irradiati e reimpiantati, in pecore riceventi sincronizzate, mediante la tecnica di embryo transfer. L’analisi degli effetti dell’esposizione a RI, in funzione della dose, è stata effettuata in termini di nati sani. 36 5. MATERIALI E METODI 5.1 Isolamento delle cellule mononucleate Le cellule mononucleate (MNC), provenienti da buffy coat, sono state isolate mediante centrifugazione in gradiente di densità (Ficoll/Histopaque-1077). Il sangue periferico prima di essere stratificato sulla soluzione Histopaque-1077 (Sigma-Aldrich) è stato diluito con PBS (1:5, v/v) ed adeguatamente risospeso. L’Histopaque è una soluzione a base di polisaccarosio e diatrizoato di sodio corretti ad una densità di 1.077+/- 0.001 g/ml, si tratta di un mezzo che assicura un recupero rapido delle MNC vitali da volumi ridotti di sangue. I campioni sono stati quindi centrifugati a 2800 rpm per 30 minuti ad una temperatura compresa tra i 16 ed i 20°C. Durante la procedura di centrifugazione il polisaccarosio favorisce l’aggregazione degli eritrociti e dei granulociti e la loro successiva sedimentazione rapida sul fondo della provetta, mentre i linfociti e le altre cellule mononucleari sono trattenute all’interfaccia tra la soluzione Histopaque ed il plasma, generando un anello contenente le cellule mononucleate. Il surnatante è stato poi allontanato facendo molta attenzione a non alterare l’anello delle MNC. Le cellule presenti all’interfaccia tra il plasma e la soluzione Histopaque sono state raccolte e risospese in PBS per l’esecuzione dei lavaggi. Il campione è stato successivamente centrifugato a 1800 rpm per 15 minuti e dopo l’eliminazione del surnatante, il pellet è stato nuovamente risospeso in PBS per un secondo lavaggio. Terminato il seguente lavaggio, nel caso di un’eccessiva contaminazione da eritrociti è stata effettuata la lisi mediante una soluzione tampone a base di cloruro d’ammonio (Pharm Lyse; BD), agitando delicatamente ed incubando il campione al buio ed a temperatura ambiente per 10-15 minuti. Al termine dell’incubazione è stato eseguito un lavaggio in centrifuga a 1500 rpm per 15 minuti con PBS addizionato con l’1% di siero fetale bovino (FBS), passaggio fondamentale per bloccare la lisi cellulare. Successivamente è stato eliminato il surnatante e sono stati effettuati 1 o 2 lavaggi con PBS a 1200 rpm per 15 minuti. Per validare il saggio utilizzato e verificare un’eventuale selezione a sfavore delle cellule mutate durante la proliferazione, sono state utilizzate cellule mononucleate isolate da soggetti affetti da Emoglobinuria Parossistica Notturna (EPN). Per la separazione delle MNC dei soggetti EPN, gentilmente fornite dal Dott. A.M. Risitano della Divisione di Ematologia Università Federico II di Napoli, è stato utilizzato lo stesso protocollo di separazione in gradiente di densità. 5.2 Congelamento e irraggiamento delle cellule mononucleate Le cellule mononucleate, precedentemente isolate mediante centrifugazione in gradiente di densità, sono state congelate ad una concentrazione di 5/10x106 per criotubo (vial), utilizzando una miscela di congelamento costituita da: • 40% di siero fetale bovino (Biochrom); • 40% di terreno di coltura (RPMI 1640 Gibco); • 20% di dimetilsulfossido (DMSO Sigma-Aldrich). 37 La miscela di congelamento così costituita è stata aggiunta v\v alla sospensione cellulare, mantenendo i criotubi in ghiaccio, in seguito, i campioni sono stati velocemente trasportati al sistema di congelamento (Nicool Plus PC Air Liquid, Marne-la-Vallée, Francia). Quest’ultimo è un congelatore biologico a velocità di raffreddamento programmabile e può organizzare la discesa della temperatura da +30°C a -150°C utilizzando l’azoto liquido come sorgente di freddo. La cella di raffreddamento è dotata di una turbina che assicura un’ottimale distribuzione della bassa temperatura al suo interno, ed il raffreddamento è ottenuto per polverizzazione dell’azoto liquido. Il congelamento delle MNC è stato effettuato mediante discesa controllata della temperatura (1°C/ min) e compensazione della fase di passaggio di stato. Una parte delle provette congelate è stata utilizzata come campione di controllo mentre le altre sono state irradiate a diverse dosi di radiazioni X/γ (0.1, 0.3, 0.9, 3, 10, 18.6/20 e 40 Gy) mediante un’unica somministrazione. Inoltre per escludere la variabile legata al congelamento e poter fare dei paragoni tra gli effetti delle RI sul materiale congelato e non, alcune vials sono state irradiate a temperature ambiente e successivamente congelate. Per l’irradiazione dei campioni sono stati utilizzati l’irradiatore Gammacell 2000 e l’acceleratore lineare di particelle (LINAC) entrambi in dotazione presso l’Ospedale San Salvatore di Pesaro. L’irradiatore Gammacell 2000 è uno strumento che utilizza come sorgente il Cesio 137 (662 keV del 137 Cs) ed è impiegato per l’irradiazione di sacche di sangue e piastrine impiegate per fini terapeutici nei pazienti trapiantati. L’acceleratore lineare LINAC è un apparecchio che utilizza invece, onde elettromagnetiche ad alta frequenza per accelerare particelle cariche come gli elettroni ad alte energie attraverso un tubo lineare. Il fascio di elettroni di alta energia così ottenuto può essere (dopo aver interagito con un opportuno filtro diffusore) utilizzato per trattare tumori superficiali, o può essere inviato sopra un target opportuno al fine di produrre raggi X di frenamento per il trattamento di tumori profondi. Questo acceleratore consente un accurato irraggiamento dei campioni alla dose richiesta mediante radiazioni X aventi uno spettro continuo di energie fino a 6MV. 5.3 Scongelamento e coltura delle cellule mononucleate Le vials, contenenti le MNC relative alle diverse condizioni sperimentali, sono state trasportate in ghiaccio secco e scongelate a 37°C in bagnetto termostatato, in modo da garantire uno scongelamento rapido e limitare i danni da DMSO. In seguito la sospensione cellulare è stata centrifugata a 1200 rpm per 10 minuti, è stato allontanato il surnatante ed il pellet cellulare risospeso in terreno di coltura completo (RPMI 1640 addizionato di glutammina, antibiotici e siero umano-HS), per un ulteriore lavaggio, garantendo così il completo allontanamento del DMSO. L’analisi della vitalità cellulare è stata condotta sia su campioni in fase G0/G1, quindi non stimolati, che dopo la classica stimolazione con il mitogeno PHA e la citochina IL-2. Successivamente, nei campioni in cui abbiamo valutato la frequenza di cellule mutanti, per migliorare la vitalità e la capacità clonogenica dei campioni si è reso necessario testare differenti sistemi di stimolazione. I tre sistemi paragonati sono stati: • il mitogeno Phytoemoagglutinina (PHA Invitrogen-Gibco) ed la citochina Interleuchina-2 (IL-2 Peprotech 20ng/mL), 38 • il feeder layer costituito da cellule linfoblastoidi TK6 irradiate con dose di 40 Gy e la citochina IL-2 (20ng/mL), • il sistema di stimolazione T Cell Activation/Expansion kit (Miltenyi Biotech) e la citochina IL-2 (20ng/mL). Il kit della Miltenyi è caratterizzato dall’utilizzo di biglie di stimolazione coniugate con specifici anticorpi umani biotinilati (CD2, CD3 e CD28), che stimolano la proliferazione dei linfociti T mimando le cellule presentanti l’antigene (APC). Il rapporto ottimale in grado di garantire l’attivazione e la successiva espansione delle cellule T è di 1:2, una biglia ogni due cellule. Inoltre queste biglie non sono fluorescenti per cui non interferiscono con l’analisi citoflurimetrica. 5.4 Analisi della mortalità cellulare Per l’analisi della mortalità/sopravvivenza cellulare sono state utilizzate due metodiche citofluorimetriche, l’analisi monoparametrica del contenuto di DNA cellulare o analisi del ciclo cellulare e la tecnica del propidio sopravitale (Zamai et al. 2001). Inoltre la sopravvivenza cellulare è stata monitorata attraverso la conta citofluorimetrica dei campioni mediante l’utilizzo di biglie di conta a titolo noto. Le cellule, precedentemente suddivise in piastre da 96 pozzetti ognuno contenente 5x105 cellule, stimolate e non stimolate, sono state analizzate a vari giorni dopo lo scongelamento (24, 48, 72 e 96h). 5.4.1 Analisi monoparametrica del contenuto di Dna cellulare La citometria a flusso è in grado di misurare i parametri cinetici del ciclo cellulare e la loro perturbazione in seguito all’esposizione a farmaci o ad agenti fisici come le radiazioni ionizzanti. I metodi utilizzati per valutare il ciclo cellulare si basano sull’utilizzo di coloranti intercalanti del DNA come lo ioduro di propidio (PI). Questo colorante fluorescente si lega in maniera stechiometrica alla doppia elica del DNA, e quindi è in grado di indicare in che fase del ciclo si trova ogni singola cellula del campione in esame sulla base del contenuto di DNA (G0/G1, S, G2/M). La colorazione mediante ioduro di propidio permette inoltre la valutazione della percentuale di cellule apoptotiche che si posizionano nel così detto “picco ipodiploide”, questo perché parte del DNA frammentato della cellula apoptotica viene perso durante la metodica grazie all’uso del buffer citrato, producendo una riduzione del contenuto di DNA nelle cellule apoptotiche (Figura 11). (a) (b) Figura 11 – Analisi monoparametrica del contenuto di DNA cellulare. Nell’istogramma Apo = picco ipodiploide, G1 = picco delle cellule in fase G0/G1. (a) Controllo. (b) Campione irradiato con dose di 0.9 Gy dopo 72h di incubazione. 39 Per l’analisi del ciclo cellulare nei diversi punti stabiliti ed ai diversi tempi d’incubazione, con o senza stimolazione mitogenica (PHA ed IL-2), le cellule sono state raccolte da ciascun pozzetto e centrifugate a 1200 rpm per 10 minuti. Dopo aver allontanato il surnatante, le MNC sono state fissate in etanolo al 70% freddo e mantenute a -20°C per 1-7 giorni. Successivamente le cellule fissate sono state ricentrifugate a 1200 rpm per 10 minuti ed in seguito sono stati effettuati 2 lavaggi in PBS addizionato con l’1% di FBS, per garantire il completo allontanamento dell’etanolo. Eliminato l’etanolo le cellule sono state risospese e colorate mediante una soluzione (DNA staining solution) così costituita: • 400 μL di buffer citrato; • 10 μL di ioduro di propidio (1mg|mL) (Sigma Aldrich); • 50 μL di RNAsi I from bovine pancreas (Sigma Aldrich). Prima della lettura al citometro le cellule sono state incubate per 30 minuti a 37°C in bagnetto termostatato. L’acquisizione dei campioni è stata fatta utilizzando il citofluorimetro FACScalibur (Becton Dickinson, USA) equipaggiato di laser ad Argon raffreddato ad aria (488 nm e 15mV di potenza). Durante l’acquisizione la positività al colorante PI è stata valutata nel canale di fluorescenza FL2 in scala lineare. La successiva analisi dei dati è stata effettuata utilizzando il software Cell Quest Pro, BD. I risultati ottenuti derivano dall’analisi in citometria a flusso di almeno 50.000 cellule e sono indicati come: • percentuale di apoptosi/morte specifica (ApSpec), calcolata sottraendo alla percentuale di apoptosi/morte del campione irradiato (ApSperimentale), l’apoptosi/morte spontanea del campione non irradiato (ApSpont), e dividendo per (100 – ApSpont), secondo la formula: ApSpec = (ApSperimentale – ApSpont) / (100 – ApSpont) x 100; • percentuale di fase S specifica, calcolata all’interno della popolazione di cellule vive considerando la percentuale in fase S del controllo non irradiato pari a 100. 5.4.2 Tecnica del propidio sopravitale La metodica del propidio sopravitale, impiegata per individuare lo stato apoptotico delle cellule, si basa sull’utilizzo di ioduro di propidio ad alta concentrazione (50 μg/mL) per tempi relativamente lunghi (30 minuti). Le parziali modificazioni della permeabilità della membrana plasmatica che si presentano durante le prime fasi del processo apoptotico consentono al PI (grossa molecola carica positivamente) di penetrare, per diffusione passiva, solo parzialmente all’interno delle cellule in apoptosi precoce. Nelle cellule necrotiche o in necrosi secondaria l’entrata del PI è invece totale ed in relazione alla quantità di DNA presente nella cellula. Utilizzando questa metodica, le cellule vitali non presentano nessuna fluorescenza e sono quindi negative al PI, quelle negli stadi iniziali 40 di apoptosi mostrano una debole fluorescenza rosso-arancio (PIdim) e quelle in necrosi o in stadi tardivi di apoptosi (o necrosi secondaria) emettono una forte fluorescenza rosso-arancio (PIbright). L’esposizione sopravitale al PI permette quindi l’analisi simultanea delle cellule vive, apoptotiche e necrotiche (Figura 12). (a) (b) Figura 12 – Tecnica del propidio sopravitale. (a) Controllo. (b) Campione irradiato con dose di 0.9 Gy dopo 72h di incubazione. Per l’analisi al citometro mediante la tecnica del propidio sopravitale, dopo un’attenta osservazione al microscopio rovesciato, le cellule sono state prese da ciascun pozzetto ed ogni campione è stato colorato con 50 µg/mL di PI. Dopo incubazione di 30 min a 37°C e 5% di CO2, l’acquisizione dei campioni è stata eseguita utilizzando il citofluorimetro FACScalibur. Durante l’acquisizione la positività al colorante PI è stata valutata nei canali di fluorescenza FL2 ed FL3 in scala logaritmica. Inoltre a questi campioni sono state aggiunte biglie a titolo noto (Cyto Count DAKO) per avere una stima ancora più precisa delle cellule sopravvissute. La successiva analisi dei dati è stata effettuata utilizzando il software Cell Quest Pro, BD. I risultati ottenuti derivano dall’analisi in citometria a flusso di almeno 50.000 cellule e sono indicati utilizzando come per i cicli la formula per il calcolo dell’apoptosi/morte specifica. Mentre per il calcolo delle cellule morte mediante l’uso delle biglie a titolo noto è stata utilizzata la seguente formula: • percentuale di apoptosi/morte specifica (ApSpec), calcolata sottraendo al numero di cellule del campione non irradiato (N.Cont) il numero di cellule del campione irradiato (N. Sperimentale), e dividendo in seguito per il numero di cellule del campione non irradiato (N.Cont), secondo la formula: ApSpec = (N.Cont –N.Sperimentale) / (N.Cont) x 100 5.4.3 Analisi statistica Per l’analisi statistica dei dati è stato utilizzato il test-t di Student a due code, sono stati considerati significativi i valori con P <0.05. 41 5.5 Analisi delle cellule mutanti mediante il saggio PIG-A Per l’analisi delle cellule mutanti è stato utilizzando il saggio PIG-A in accordo con il protocollo citometrico descritto da Peruzzi et al. 2010 (Figura 13). Figura 13 - FSC vs CD48, CD55 e CD59 dopo 7 giorni di stimolazione: (a) Controllo non irradiato (CTRL). (b) Irradiato con dose di 3 Gy. (c) Paziente con EPN. Le cellule impiegate per questo saggio sono state irradiate in azoto liquido con le dosi di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy da raggi X. Per la marcatura al t0 sono state utilizzate circa 2x106 cellule per punto, ed è stato utilizzato un pannello di anticorpi costituito in prima fluorescenza - FL1, da anti-CD2 FITC (Becton-Dickinson), anti-CD3 FITC (Ancell) e anti-CD5 FITC (Becton-Dickinson) che hanno consentito di individuare la percentuale di mutanti al t0 relativa alla popolazione di linfociti T, mentre in seconda fluorescenza – FL2 da anti-CD48 PE (e-Bioscence), anti-CD55 PE (e-Bioscence) ed antiCD59 PE (Immunological Science), molecole specifiche per individuare le proteine GPI-linked. La valutazione della vitalità cellulare è stata eseguita mediante l’aggiunta di 7-AminoActinomicina D (7AAD Molecular Probes) in terza fluorescenza – FL3. In seguito, la percentuale di cellule mutanti è stata valutata a diversi giorni di stimolazione utilizzando 2-5x106 cellule per punto. Per le cellule stimolate utilizzando il T Cell Activation/Expansion Kit (5x106 per punto in piastre da 24 pozzetti o 0,75x106 per punto in piastre da 96 pozzetti), è stato utilizzato in FL1 un differente pannello di anticorpi rispetto al t0, in particolare sono stati impiegati gli anticorpi anti-CD11a FITC (Ancell) e anti-CD45 FITC (Becton-Dickinson), in quanto questo tipo di sistema espande solo le cellule T. Oltre agli anticorpi specifici per le proteine GPI-linked e la 7AAD sono state utilizzate biglie di conta (Cyto Count, DAKO) che hanno permesso la conta esatta dei linfociti T espansi in vitro dopo irradiazione alle varie dosi. Per verificare che nel nostro sistema di stimolazione/proliferazione, le cellule mutate avessero le stesse capacità proliferative delle cellule non mutate (quindi non ci fossero condizioni di selezione), alle MNC di soggetti EPN (ricche di cellule mutate) sono state applicate le stesse procedure precedentemente descritte. Per l’acquisizione dei campioni è stato impiegato il citofluorimetro FACScalibur. Durante l’acquisizione, il segnale in prima fluorescenza FL1 è stato utilizzato per la discriminazione dei doppietti. La stategia di gating utilizzata per l’analisi delle cellule mutanti prevedeva un primo gate morfologico FSC vs SSC per escludere detriti e cellule morte, un secondo gate FL1 vs FL3 per selezionare la sola popolazione di linfociti T vivi negativi per la 7AAD, un gate FL1 vs FL1-Width per escludere i doppietti e infine sommando questi tre gate nel dot plot FSC vs FL2 venivano selezionate le cellule 42 negative per gli anticorpi diretti contro le proteine GPI linked utilizzando una soglia pari al 4% della media geometrica della popolazione di cellule positive. La successiva analisi dei dati è stata effettuata utilizzando il software Cell Quest Pro, BD. 5.6 Produzione di embrioni in vitro (IVP) I reagenti impiegati per la produzione di embrioni in vitro, eccetto per quelli in cui è specificatamente indicato, sono della Sigma Aldrich. 5.6.1 Recupero degli ovociti Gli ovociti sono stati reperiti da ovaie di pecore adulte di razza sarda regolarmente macellate in mattatoi sardi. Per il trasporto in laboratorio, entro 2-3 ore dalla macellazione, le ovaie sono state immerse in soluzione fisiologica alla temperatura di 36°C. Gli ovociti sono stati successivamente recuperati mediante tagliuzzamento (cutting) delle ovaie. Per la maturazione sono stati selezionati solo quelli circondati da almeno due strati di cellule della granulosa e con citoplasma omogeneo. Gli ovociti sono stati successivamente lavati in Hepes-buffered TCM199 (H-TCM199) arricchito con 4 mg/ml di BSA (Bovine Serum Albumin) e 2 mM di glutamina. A questo punto si è proseguito con i tre steps principali della IVP: maturazione, fertilizzazione e coltura. 5.6.2 Maturazione in vitro (IVM) Per la maturazione in vitro è stata allestita una piastra con 4 pozzetti (Nunc, Nunclon Denmark) in ciascuno dei quali è stato messo il medium di maturazione ricoperto da olio minerale. Il medium di maturazione è composto da buffer-bicarbonato TCM199, con l’aggiunta di 4 mg/ml BSA, 100 μM di cisteamina, 2 mM di glutamina, 0.3 mM di sodio piruvato, 1 μg/ml di 17β-estradiolo, 0.1 u.i./ml di FSH (ormone follicolo stimolante) e 0.1 u.i./ml di LH (ormone luteinizzante) con un pH a 7.2/7.4 e osmolarità a 275 mOsm. In ogni pozzetto sono stati messi circa 20-30 ovociti che sono stati incubati per 22 ore a 39°C in atmosfera controllata (5% di CO2 e 20% di O2). 5.6.3 Fertilizzazione in vitro (IVF) Dopo la maturazione gli ovociti sono stati parzialmente denudati dalla granulosa in un medium H-TCM199 contenente 300 u.i./ml di ialuronidasi al fine di facilitare la penetrazione degli spermatozoi all’interno dell’ovocita. In seguito sono stati fatti 3 lavaggi in H-TCM199 con BSA per rimuovere i residui di ialuronidasi. Per la fertilizzazione in vitro è stato utilizzato seme fresco di ariete di provata fertilità, raccolto mediante vagina artificiale, esaminato al microscopio ottico e mantenuto a temperatura ambiente per 2 ore, al fine di capacitare gli spermatozoi. Successivamente è stato lavato in SOF (Synthetic Oviduct Fluid), centrifugato a 200 g x 5 min e eliminato il surnatante è stato risospeso nel medium di fertilizzazione. Il medium di fertilizzazione è composto da SOF (Tervit et al. 1972) arricchito con 20% di siero inattivato di pecora in estro. Gli ovociti, 10 per goccia, sono stati fertilizzati e incubati per 20 ore a 39°C in atmosfera umidificata al 5% di CO2. 5.6.4 Coltura in vitro (IVC) Il giorno dopo la fertilizzazione, i presunti zigoti sono stati lavati in SOF per eliminare gli sperma43 tozoi in eccesso. In seguito sono stati messi in piastra di coltura (5-6 per goccia) con un medium costituito da SOF arricchito con l’ 1% (v/v) di aminoacidi essenziali (Basal Medium Eagle-BME), l’1% (v/v) di aminoacidi non essenziali (Minimum Essential Medium–MEM), 1 mM di glutamina e 8 mg/ml di BSA. Gli embrioni venivano così incubati a 39°C in atmosfera umidificata al 7% di O2, 5% di CO2, 88% di N2. La coltura veniva fatta proseguire fino al 6°-7° giorno fino allo stadio di blastocisti (Figura 14). Figura 14 - Blastocisti ovine 5.6.5 Vitrificazione Le blastocisti così ottenute sono state congelate, mediante vitrificazione, in due passaggi secondo il protocollo di Dattena et al. (2004). Il primo step prevedeva il passaggio delle blastocisti in un medium contenente PBS arricchito con il 20% di siero fetale bovino, più l’aggiunta di 10% di glicol etilenico (EG) e 10% di DMSO per 4-5 minuti; seguiva un secondo passaggio in PBS (20% FBS) + 20% di EG + 20% di DMSO + 0.5 M di saccarosio per meno di 30”, infine venivano conservate due blastocisti per OPS (open pulled straws) e immerse immediatamente in azoto liquido. 5.6.6 Irraggiamento degli embrioni Gli embrioni prodotti in vitro e crioconservati a 196°C in azoto liquido sono stati esposti a differenti dosi di radiazioni (137Cs γ-rays, 50mGy/sec o 75mGy/sec): 0.3, 2.4, 19.2 Gy utilizzando il GammaCell 1000 Elite della Nordion (Figura 15) in dotazione presso l’azienda ospedaliera di Nuoro. Figura 15 - GammaCell 1000 Elite-Nordion 44 5.6.7 Scongelamento e trasferimento embrionale Le OPS contenenti gli embrioni irradiati sono state scongelate tenendole per 6 secondi in aria e poi immergendole in H-TCM199 più 20% di FBS più 0.5 M di saccarosio all’interno di una provetta posta in bagnetto termostatato a 37°C per 15 secondi. In seguito è stato eseguito il trasferimento embrionale, 2 embrioni per pecora, che venivano trasferiti chirurgicamente mediante una minilaparatomia inguinale. Sono stati trasferiti in totale 60 embrioni: 8, 18, 24, 10 per i gruppi 0, 0.3, 2.4, 19.2 Gy rispettivamente (Tabella 2). Gy N° embrioni 0.3 18 2.4 24 19.2 10 Controllo 8 Tabella 2 - Dose di radiazioni gamma e numero di embrioni da trasferire. 5.6.8 Gravidanze e monitoraggio degli agnelli nati Le gravidanze sono state monitorate mediante ultrasonografia addominale a 40 giorni, seguita da 5 successivi controlli a 55, 70, 85, 105 e 120 giorni. Entro 6 ore dalla nascita gli agnelli venivano pesati ed identificati sessualmente. La crescita e lo stato di salute degli agnelli sono stati valutati mediante analisi citofluorimetriche dei valori ematici del sangue. I prelievi sono stati eseguiti dopo un mese dalla nascita e ripetuti mensilmente fino agli 8 mesi di età. 45 6. RISULTATI È noto che le RI di fondo sono in grado di provocare danni al DNA cellulare e poiché queste alterazioni non possono essere riparate in condizioni di congelamento, le cellule crio-preservate tendono ad accumulare nel tempo dei danni. Diventa perciò di fondamentale importanza per la qualità delle cellule congelate non solo la modalità di congelamento, ma anche la scelta di un ambiente che protegga dalla radiazione di fondo naturale e consenta un miglior mantenimento delle cellule conservate in azoto liquido per lunghi periodi. Per ottenere dei dati teorici sugli effetti della radiazione di fondo sono stati eseguiti esperimenti di irradiazione di cellule congelate mediante sorgenti radioattive che simulano il fondo naturale (γ/X). Lo scopo principale di questo lavoro è stato quello di studiare gli effetti delle radiazioni ionizzanti sul materiale biologico crio-preservato. Per questo motivo, dopo scongelamento sono state investigate in cellule mononucleate irradiate in stato di congelamento, la mortalità/sopravvivenza cellulare e la percentuale di cellule mutanti mediante tecniche citometriche. È stato inoltre utilizzato un modello di studio in vivo, in questo caso sono stati monitorati il tasso di gravidanza, di natalità e di crescita di embrioni prodotti in vitro, irradiati in stato di congelamento e reimpiantati nell’utero di pecore riceventi. 6.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare L’irradiazione dei campioni utilizzati per l’analisi della mortalità e della sopravvivenza cellulare è stata eseguita utilizzando il Gammacell 2000 (662 keV del 137Cs). L’analisi è stata condotta sia su campioni stimolati col mitogeno PHA e l’aggiunta della citochina IL-2, che non stimolati. I dati ottenuti indicano che a dosi relativamente basse di RI la valutazione quantitativa dell’apoptosi cellulare, tipico meccanismo di morte indotto dalle radiazioni ionizzanti, sia dopo fissazione in etanolo e colorazione con ioduro di propidio (valutata mediante picco ipodiploide) che mediante la colorazione con PI sopravitale (valutata dalle cellule positive al PI sia in apoptosi precoce che in necrosi secondaria), è risultata idonea allo scopo in quanto nei campioni non stimolati è stata osservata una buona correlazione dose-risposta (Figure 16 e 17). Le due tecniche danno infatti risultati sovrapponibili. È interessante osservare che l’apoptosi specifica aumenta con l’aumentare del tempo probabilmente perché le cellule non muoiono in maniera sincrona. 46 Figura 16 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate, non stimolate, ed irradiate con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy calcolata mediante determinazione del picco ipodiploide. Si riscontra una buona correlazione dose risposta. Rispetto al controllo l’apoptosi specifica è significativamente (p<0.05) più alta nelle cellule irradiate a 0.3 Gy dopo 72h di incubazione ed a 0.9 Gy. Figura 17 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate, non stimolate, ed irradiate con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy calcolata mediante tecnica del propidio sopravitale. Si riscontra una buona correlazione dose risposta. Rispetto al controllo l’apoptosi specifica è significativamente (p<0.05) più alta nelle cellule irradiate a 0.9 Gy dopo 72h di incubazione. Contrariamente a quanto atteso il mitogeno PHA è risultato poco efficace nell’esaltare la mortalità indotta dalle basse dosi di radiazione (Figure 18 e 19). L’induzione della proliferazione sembra infatti proteggere la cellula dai danni indotti dalla radiazione. 47 Figura 18 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate ed irradiate con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy dopo stimolazione mitogenica e calcolata mediante determinazione del picco ipodiploide. Non si riscontra una correlazione dose risposta. Figura 19 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate ed irradiate con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy dopo stimolazione mitogenica e calcolata mediante tecnica del propidio sopravitale. Non si riscontra una correlazione dose risposta. Anche il blocco proliferativo è risultato poco indicativo dell’azione della radiazione ionizzante con una relazione dose-risposta scarsa o assente (Figura 20). Questo risultato è confermato dalle conte assolute citometriche. Infatti come è possibile osservare in Figura 21 nei campioni di cellule mononucleate stimolate con PHA e IL-2 si ha, dopo 96 h di incubazione, un numero di cellule sopravissute simile al controllo (pari a 100) per tutte le dosi di 48 Figura 20 – Percentuale di fase S specifica in cellule mononucleate congelate ed irradiate con dose di 0.1,0.3,0.9 e 3 Gy dopo stimolazione mitogenica. Non si riscontra una correlazione dose risposta. radiazione somministrate. Nei campioni non stimolati invece viene mantenuta la correlazione dose risposta. In linea con i dati ottenuti, la determinazione del picco ipodiploide in cellule non stimolate risulta essere una valida metodica per la valutazione dell’apoptosi in questi modelli. Questa tecnica molto versatile consente inoltre, grazie alla fissazione dei campioni, di acquisirli ed analizzarli simul- Figura 21 – Grafico delle conte assolute citometriche dopo 96h di incubazione in campioni stimolati e non e irradiati con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy posto il controllo pari a 100. taneamente alla fine di ogni esperimento; anche per questo motivo è stata scelta come metodica per confrontare i dati sulla mortalità cellulare relativi ai campioni irradiati a temperatura ambiente e a -196°C. Alle basse dosi di radiazione testate, nei campioni non stimolati, la mortalità cellulare specifica tende a scomparire al di sotto di 0.3 Gy (Figure 16 e 17). Inoltre la percentuale di mor49 talità cellulare nelle cellule irradiate con 0.9 Gy è significativamente (p<0.05) più alta rispetto ai campioni di controllo. Considerando questi dati, nel range delle basse dosi (tra 0.1 e 0.9 Gy), la dose di 0.9 Gy è stata utilizzata per valutare le differenze nell’induzione del danno tra i campioni irradiati a temperatura ambiente e quelli irradiati in stato di congelamento. Come è possibile osservare in Figura 22 e 23 la frequenza di cellule apoptotiche è ridotta in maniera rilevante nelle cellule irradiate congelate rispetto a quelle irradiate a temperatura ambiente suggerendo che il congelamento svolge un azione protettiva dagli effetti della RI. Figura 22 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate irradiate a temperatura ambiente o a -196°C con la dose di 0.9 Gy. A parità di dose di radiazione si riscontra una inibizione della mortalità in cellule congelate rispetto alle cellule irradiate a temperatura ambiente (Cugia et al. 2010). Figura 23 – Percentuale di morte cellulare specifica in cellule mononucleate congelate considerando l’irradiato a temperatura ambiente pari a 100 (Cugia et al. 2010). 50 Infine per poter valutare il fenomeno di ipersensibilità alle basse dosi nel sistema congelato, le cellule mononucleate sono state irradiate sia con dosi basse, che intermedie ed alte. In questo modo è stato possibile tracciare una curva rappresentativa che ha permesso di descrivere il fenomeno. A dosi basse ed intermedie la determinazione del picco ipodiploide è risultata una valida tecnica, contrariamente a quanto si è verificato per le alte dosi di radiazione. Infatti nei campioni non stimolati ad alte dosi la correlazione dose risposta viene persa (Figura 24). Tale fenomeno è probabilmente legato al fatto che le apoptosi presenti nei tempi iniziali (è stato infatti già descritto che le cellule non muoiono in maniera sincrona) successivamente si disintegrano e vengono perse dalla valutazione con questo tipo di metodica. Figura 24 – Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide, di cellule mononucleate non stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3, 0.9, 3, 10, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di incubazione. Analogamente alla determinazione delle cellule in apoptosi mediante la valutazione del picco ipodiploide, anche la colorazione con ioduro di propidio sopravitale è risultata poco sensibile nei campioni non stimolati irradiati con alte dosi, infatti non è stata riscontrata una rilevante correlazione dose risposta (Figura 25). Questo suggerisce che entrambe le metodiche utilizzate non sono adeguate a valutare la mortalità indotta dalle alte dosi di radiazione ionizzante. 51 Figura 25 – Curve di sopravvivenza, ottenute mediante colorazione con propidio sopravitale, di cellule mononucleate non stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3, 0.9, 10, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di incubazione. Malgrado ciò, nei campioni stimolati con PHA ed IL-2 lo stimolo a proliferare sembra proteggere dalla mortalità cellulare indotta dalle RI, infatti rispetto ai campioni non stimolati è stata osservata una percentuale tendenzialmente più alta di sopravvivenza cellulare (Figure 24, 25, 26 e 27). Figura 26 - Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide, di cellule mononucleate stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9, 3, 10, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di incubazione. 52 Figura 27 - Curve di sopravvivenza, ottenute mediante colorazione con ioduro di propidio sopravitale, di cellule mononucleate stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di incubazione. Inoltre a dosi alte è stata osservata l’inibizione dell’entrata in fase S correlata alla dose, in particolar modo è stato osservato un blocco temporaneo a 48h dalla stimolazione (Figura 28). Figura 28 - Percentuale di fase S specifica, considerando il controllo non irradiato pari al 100%, in cellule mononucleate congelate ed irradiate con dose di 0.1, 0.3, 0.9, 3, 10, 18.6 e 40 Gy dopo stimolazione mitogenica (PHA) ed IL-2. Si riscontra, anche se transitorio, una correlazione dose risposta alle alte dosi. 53 Visto che le due metodiche citometriche utilizzate per valutare la mortalità non sono risultate adeguate per alte dosi di radiazione ionizzante, è stata valutata la sopravvivenza cellulare alle varie dosi di radiazione ionizzante mediante la conta del numero di cellule sopravissute in citofluorimetria a flusso. Per alte dosi di radiazione la conta assoluta citofluorimetrica è risultata la tecnica maggiormente affidabile se paragonata alla determinazione del picco ipodiploide e alla colorazione con ioduro di propidio sopravitale, sia nei campioni non stimolati (Figura 29) che stimolati (Figura 30). Figura 29 – Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide (CELL CICLE), colorazione con ioduro sopravitale (PI) e mediante conta assoluta citometrica (CELL COUNT), di cellule mononucleate non stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9, 3, 18.6 e 40 Gy dopo 96h di incubazione. Figura 30 - Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide (CELL CICLE), colorazione con ioduro sopravitale (PI) e mediante conta assoluta citometrica di cellule mononucleate non stimolate (CELL COUNT NO STIMULATION) e stimolate (CELL COUNT) , irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9, 3, 18.6 e 40 Gy dopo 96h di incubazione. 54 L’andamento delle curve nei grafici in Figura 29 e 30 sembrano indicare il verificarsi del fenomeno di ipersensibilità alle basse dosi (ed una radioresistenza alle alte) nel sistema congelato. È stato confermato, anche con la conta assoluta delle cellule sopravissute (metodica affidabile a tutte le dosi somministrate), che la stimolazione mitogenica protegge dalla mortalità cellulare indotta dalle RI, infatti rispetto ai campioni non stimolati è stata osservata una percentuale più alta di sopravvivenza cellulare a tutti i tempi e le dosi testate (Figure 30). Questo è un dato che sorprende se si pensa che le RI inducono sia morte cellulare (su cellule stimolate e non) che blocco proliferativo (solo nelle cellule stimolate) e per questo motivo ci si aspettava un numero minore di cellule vitali nei campioni stimolati rispetto ai non stimolati. Questi dati suggeriscono che la stimolazione mitogenica è in grado di favorire la sopravvivenza delle cellule danneggiate, che se non stimolate sarebbero morte, favorendo probabilmente la generazione di cellule mutanti. 6.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte dalle radiazioni ionizzanti Per gli esperimenti di valutazione del numero di cellule mutanti indotte dalle RI, i campioni di cellule mononucleate congelate sono stati irradiati con l’acceleratore lineare di particelle LINAC (a raggi X) sia per la maggior precisione di misura di somministrazione sia per la rottura dell’irradiatore Gammacell 2000. Per indurre un’adeguata stimolazione dei linfociti T è stato scelto come sistema di induzione alla proliferazione, il T cell Activation/Expansion KIT della Miltenyi, che è risultato essere il migliore ai fini dello scopo di questo lavoro se paragonato ai sistemi classici di stimolazione sia come induttore di proliferazione e sopravvivenza cellulare che come riproducibilità della stimolazione. Questo sistema di stimolazione dei linfociti T che utilizza delle biglie ricoperte di anticorpi a funzione stimolatoria, diversamente dalla PHA, limita inoltre l’aggregazione cellulare tipica dei cloni migliorando quindi anche l’affidabilità dei dati ottenuti. In una prima serie di esperimenti sono stati utilizzati campioni di controllo congelati e non irradiati e campioni irradiati con la dose di 0.9 Gy (la dose più bassa in grado di indurre una mortalità cellulare significativamente più alta del controllo in cellule mononucleate congelate). Da questi primi esperimenti fatti a diversi giorni di stimolazione non è stato possibile osservare un aumento rilevante della frequenza di mutazione nei campioni irradiati rispetto ai campioni di controllo, inoltre la frequenza di mutazione del gene PIG-A tendeva a diminuire nel tempo come se nel sistema di stimolazione adottato le cellule mutanti proliferassero di meno rispetto alle cellule normali (Figura 31). 55 Figura 31 – Grafico della frequenza di cellule T mutanti ogni milione di linfociti T, non irradiati (CTRL) e irradiati con la dose di 0.9 Gy calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione. Non si osserva un aumento rilevante della frequenza di mutazione nei campioni irradiati rispetto al controllo. Per verificare l’assenza di un fenomeno di selezione durante la proliferazione a favore delle cellule sane è stato valutato l’andamento della frequenza di mutazione in soggetti affetti da emoglobinuria parossistica notturna (EPN), caratterizzati da un’alta frequenza di cellule mutanti nel locus PIGA. Come è possibile osservare in Figura 32 la frequenza di mutazione è rimasta sufficientemente costante nel tempo, ciò consente di affermare che in questo sistema di stimolazione le cellule mutate hanno una probabilità di proliferazione simile alle non mutate, indicando che il saggio è in grado di fornire risultati attendibili. Figura 32 - Grafico della frequenza di cellule T mutanti ogni milione di linfociti T di un paziente con EPN calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione. È possibile osservare come la frequenza di mutazione rimane abbastanza costante nel tempo. 56 Figura 33 - Grafico della frequenza di cellule T mutanti ogni milione di linfociti T, non irradiati (CTRL) e irradiati con le dosi di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione. Risulta evidente un aumento della frequenza di mutazione alla dose di 3 Gy, in particolare a tempi lunghi. Il saggio è stato in seguito eseguito su campioni irradiati con differenti dosi di radiazioni X (0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy). Al di sotto di 0.9 Gy non sono state riscontrate differenze rilevanti rispetto al controllo mentre sembra evidente l’aumento della frequenza di cellule mutanti alla dose di 3 Gy, in particolare a tempi lunghi (Figura 33). Figura 34 – Grafico delle conte assolute calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione nel controllo pari a 100 e nei campioni irradiati con le dosi di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy. 57 Su questi stessi campioni è stato analizzato l’andamento della proliferazione e sopravvivenza cellulare mediante conta assoluta citofluorimetrica del numero di cellule vitali. È noto infatti che le RI inducono sia morte cellulare che blocco proliferativo per questo motivo ci si aspettava un numero minore di cellule vitali nei campioni irradiati. Come è possibile osservare in Figura 34 i campioni mostrano una crescita paragonabile al controllo, una leggera riduzione del numero di cellule vitali è osservabile in seguito alla somministrazione di 3 Gy. 6.3 Risultati relativi agli embrioni prodotti in vitro 6.3.1 Tasso di gravidanza Dopo 40 giorni dal trasferimento embrionale (due embrioni per pecora) è stata eseguita la prima diagnosi di gravidanza. Il gruppo di controllo, costituito da embrioni non irradiati, ha mostrato un tasso di gravidanza del 75% (3/4), per il “gruppo 0.3 Gy” si è ottenuto un tasso del 55% (5/9), per il “gruppo 2.4 Gy” un tasso del 42% (5/12), mentre non è stata diagnosticata alcuna gravidanza per il gruppo di embrioni irradiati con la dose di 19.2 Gy (Tabella 3). Gy Pecore Riceventi (n°) Embrioni Trasferiti Tasso di gravidanza 0.3 9 18 55% (5/9) 2.4 12 24 42% (5/12) 19.2 5 10 0% (0/5) Controllo 4 8 75% (3/4) Tabella 3 - Tasso di gravidanza (a 40 giorni) di embrioni prodotti in vitro irradiati a diverse dosi di radiazioni gamma e trasferiti dopo scongelamento in pecore riceventi. 58 6.3.2 Tasso di natalità Gli agnelli nati dagli embrioni irradiati con 0.3 Gy sono stati il 28% (5/18) con nessuna mortalità post-parto, dei cinque agnelli nati tre erano maschi e due le femmine. Mentre gli agnelli nati da embrioni irradiati con 2.4 Gy sono stati il 21% (5/24) e precisamente tre maschi e due femmine. Tra i cinque agnelli nati uno ha mostrato una lieve malformazione degli arti (Figure 35). (b) (a) Figura 35 – Agnelli nati da embrioni irradiati con 2,4 Gy. (a) Agnello nato sano, (b) Agnello con arti malformati. Nei due agnelli nati morti (Tabella 4), l’autopsia ha rilevato dei difetti nei seguenti organi: cuore, idropericardio con liquido giallo paglierino limpido, conseguente a fatto infiammatorio, stasi circolatoria e/o insufficienza respiratoria (Figura 36a), il ventricolo sinistro presentava petecchie endocardiche pre-agoniche. Erano visibili soffusioni emorragiche sub-epicardiche; fegato, soffusioni emorragiche superficiali su entrambe le facce, epatosi con rammollimento tissutale (Figura 36b); polmone, polmonite interstiziale acuta apicale-bilaterale (Figura 36c). Prova Docimasica negativa. Enfisema tracheo-bronchiale; il rene presentava un’area delimitata di nefrite interstiziale acuta. (a) (b) (c) Figura 36 – (a) Idropericardio, (b) Epatosi, (c) Polmonite. 59 Dagli embrioni irradiati con 19.2 Gy non è nato nessun agnello. Mentre il gruppo di controllo ha dato un tasso di natalità pari al 50% (4/8), esattamente un maschio e tre femmine (Tabella 4). Gy Pecore Riceventi (n°) natalità% Sex ratio Maschi % Femmine % 0.3 9 18 28% (5/18) M 60% (3/5) F 40% (2/5) 2.4 12 24 21% (5/24) * M 60% (3/5) F 40% (2/5) 19.2 5 10 0% (0/10) Controllo 4 8 50% (4/8) Embrioni Trasferiti Tasso di M 25% (1/4) F 75% (3/4) Tabella 4 - Tasso di natalità di embrioni prodotti in vitro, irradiati a diverse dosi di radiazioni gamma e trasferiti dopo scongelamento in pecore riceventi. * 2 agnelli morti dopo la nascita. 6.3.3 Analisi citofluorimetriche Le analisi citofluorimetriche del sangue prelevato mensilmente da tutti gli agnelli nati hanno mostrato valori ematici nella norma. 60 PARTE TERZA Discussioni e considerazioni conclusive 61 7. DISCUSSIONE 7.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare Le radiazioni ionizzanti del fondo naturale rappresentano un fattore ambientale coinvolto nell’evoluzione biologica, nel fenomeno d’invecchiamento cellulare e nella generazione di tumori (Joseph et al. 2000, Ohnishi et al. 1999). Studi recenti hanno messo in luce il ruolo delle RI nell’induzione di rotture alla molecola di DNA, mutazioni cromosomiche, perossidazione lipidica, secrezione di citochine, inibizione della proliferazione, del differenziamento cellulare e delle interazioni cellulacellula, nonché riduzione dell’attività citotossica mediata dal sistema immunitario (Morrison 1994, Dousset et al. 1996, Ohnishi et al. 2001, George et al. 2001). Le RI possono inoltre indurre l’espressione di p53 che, bloccando la transizione G1/S del ciclo cellulare e/o causando apoptosi, salvaguarda la stabilità del genoma e quindi protegge dalla formazione di tumori (Ohnishi et al. 1999). I danni generati a livello del DNA restano comunque i principali responsabili degli effetti (evolutivi, di invecchiamento e di cancerogenesi) indotti dalla radiazione su cellule e organismi (Onhishi et al. 2001, Kadhim et al. 2004), questo ha permesso che durante il corso della selezione naturale gli organismi viventi sviluppassero diversi meccanismi di riparazione del DNA. Sebbene il congelamento sia un prezioso espediente in grado di rallentare il processo di invecchiamento cellulare, il materiale biologico crio-preservato è soggetto all’azione delle RI ed inoltre non può riparare gli eventuali danni radio-indotti a causa del blocco metabolico prodotto dalle basse temperature. È perciò possibile che le cellule crio-preservate per lunghi periodi dopo scongelamento possano presentare, a causa dei danni accumulati, il tipico aspetto di cellule irradiate: arresto del ciclo cellulare, apoptosi, mutagenesi e cancerogenesi. Considerando che il materiale biologico congelato rappresenta una promessa futura nella guarigione di molte patologie attualmente incurabili e vista la nascita di numerose criobanche per la conservazione cellulare a fini terapeutici, la conoscenza di questi fenomeni è fondamentale. Mediante l’irradiazione artificiale è infatti possibile mimare l’esposizione al fondo naturale per un certo intervallo di tempo. Si stima che un anno di radiazione di fondo corrisponda a 2 mGy per cui 0.1 Gy corrispondono a circa 50 anni di esposizione al fondo naturale. Dalla prima serie di esperimenti condotti utilizzando basse dosi di radiazioni ionizzanti è risultato chiaro che i campioni di cellule mononucleate non stimolate rappresentano un valido modello per la valutazione della mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti, più affidabile di quello con cellule stimolate, infatti solo in questi campioni è stata osservata una buona correlazione dose risposta. La proliferazione sembra invece svolgere un ruolo di protezione dai danni radio-indotti non consentendo una chiara valutazione della mortalità cellulare. Inoltre sia la colorazione con ioduro di propidio sopravitale che la detection del picco ipodiploide (Zamai et al. 1993, 1996 e 2001) si sono dimostrate valide tecniche per lo studio della mortalità cellulare in questi modelli. Infatti nel range delle basse dosi testate, sia la detection del picco ipodiploide che la colorazione con ioduro di propidio sopravitale nei campioni non stimolati, hanno consentito di avere una buona correlazione dose risposta. Le conte assolute citofluorimetriche fatte dopo 96h di incubazione sono risultate una validissima tecnica d’indagine rimarcando che i campioni non stimolati sono sicuramente il modello più sensibile al fine di valutare gli effetti delle basse dosi di radiazione ionizzante sulla mortalità di cellule irradiate congelate. È inoltre interessante osservare 62 che l’apoptosi indotta dalle RI aumenta con l’aumentare del tempo e questo dato è probabilmente legato al fatto che le cellule non muoiono in maniera sincrona e la mortalità va sommandosi nel tempo. È noto che le RI provocano sia danni diretti generati dall’azione diretta dell’irraggiamento di macromolecole biologiche che danni secondari o indiretti causati dalla diffusione di radicali liberi e specie reattive prodotte in maniera prevalente dall’interazione della radiazione con le molecole di acqua cellulare. Dai dati ottenuti utilizzando la dose di radiazione di 0.9 Gy (la dose più bassa osservata, in grado di generare un significativo aumento della mortalità rispetto al controllo) è risultato evidente che le cellule irradiate in stato di congelamento se paragonate a quelle irradiate a parità di dose ma a temperatura ambiente mostrano una percentuale di sopravvivenza notevolmente maggiore. Questi dati sono in accordo con quanto ottenuto da Ashwood-Smith et al. (1977 e 1979) sui fibroblasti di hamster cinese. Questi autori riportano un fattore di riduzione del danno indotto da radiazioni X, legato alle basse temperature e all’utilizzo di DMSO, pari a 3.5. Ciò significa che per ottenere la stessa percentuale di mortalità del campione irradiato a temperature ambiente, per le cellule congelate occorre usare una dose di raggi X, 3.5 volte più alta. Dati presenti in letteratura (Garman 2003 e Yasui 2004) suggeriscono che l’inibizione della mortalità cellulare indotta dal congelamento possa essere legata alla riduzione del danno secondario in quanto alle basse temperature (<-90°C), i radicali liberi hanno meno mobilità essendo imprigionati nel sistema congelato. Gli studi di crio-cristallografia (tecnica con la quale macromolecole biologiche sono sottoposte all’azione di raggi X per la determinazione della loro struttura tridimensionale), condotti da Garman, suggeriscono che i campioni tenuti a temperature di -170°C, rallentando la diffusione dei radicali liberi prodotti dalle radiazioni incidenti, riducono notevolmente i danni indotti dalla radiazione sulle macromolecole. I dati di Yasui (2004) supportano queste considerazioni infatti in questo lavoro il numero di foci γH2AX (marker di rottura di entrambe le eliche del DNA) indotti da raggi gamma (1 Gy) è notevolmente ridotto nei campioni irradiati a -90°C rispetto a quelli irradiati a temperatura ambiente. Queste informazioni sono in accordo con quanto ottenuto confrontando le cellule MNC irradiate a -196°C e a temperatura ambiente, suggerendo che il congelamento salvaguarda la vitalità cellulare. In questa azione protettiva del sistema congelato non è comunque da escludere anche un coinvolgimento del DMSO (capace di bloccare i radicali liberi prodotti) e di un deficit del segnale di induzione apoptotica (processo attivo che richiede temperature ottimali per il suo espletamento). Al fine di valutare la curva dose-risposta nel sistema congelato ed un eventuale fenomeno di ipersensibilità alle basse dosi e radioresistenza alle alte dosi, tipico di molte cellule irradiate a temperatura ambiente, ai campioni crio-preservati sono state somministrate dosi di radiazioni gamma più elevate (sino a 40 Gy). Somministrando dosi così alte ci si è resi conto che le metodiche considerate affidabili per la determinazione dell’apoptosi cellulare in campioni non stimolati ed irradiati con dosi basse, non sono altrettanto valide per dosi alte ed intermedie. Tale fenomeno è probabilmente legato al fatto che le alte dosi di radiazioni, creando un maggior numero di danni, accelerano il fenomeno apoptotico e la disintegrazione della cellula con perdita delle cellule morte durante l’analisi dei tempi più lunghi. Un fenomeno simile può essere ipotizzato anche nel caso in cui alla radiazione viene abbinato uno stimolo mitogenico. È stato osservato che le cellule non muoiono in 63 maniera sincrona per cui è possibile che le cellule apoptotiche presenti nei tempi iniziali successivamente si disintegrino e vengano perse dalla valutazione. Questo è risultato evidente in particolar modo per la determinazione del picco ipodiploide nei campioni fissati in etanolo (Figura 24). La procedura di preparazione dei campioni comporta la necessità di eseguire due lavaggi e l’utilizzo di buffer citrato che favorisce la disintegrazione in detriti delle cellule in necrosi secondaria. In questo modo vengono perse parte delle cellule morte compromettendo l’affidabilità della procedura. Sebbene in misura minore anche la colorazione con ioduro di propidio sopravitale non è risultata utile ai fini della valutazione dell’apoptosi in seguito a somministrazione di alte dosi di radiazioni, in quanto anche questa tecnica tende a sottostimare la percentuale di cellule morte. La conta assoluta citofluorimetrica delle cellule vive è risultata ancora una volta la metodica più sensibile. Infatti come è possibile vedere in Figura 29 i dati forniti dalla determinazione del picco ipodiploide e della colorazione con PI sopravitale sottostimano la percentuale di cellule morte se paragonati alla conta assoluta. Inoltre come è possibile vedere nelle Figure 24, 25, 26 e 27 anche per le alte dosi l’impiego delle cellule non stimolate è risultato il sistema più sensibile ai fini della valutazione della mortalità indotta dalle RI su cellule congelate. Infatti l’induzione alla proliferazione sembra proteggere dai danni indotti dalle RI a tutti i tempi e le dosi somministrate (Figura 28). Risulta interessante osservare che nei campioni stimolati si è riscontrato un blocco temporaneo (transitorio) dell’entrata in fase S relativo alle 48h di incubazione. La pendenza delle curve nelle Figure 29 e 30 sembra suggerire il verificarsi nelle MNC congelate del fenomeno di ipersensibilità alle basse dosi, fenomeno che in termini di mortalità e sopravvivenza cellulare si traduce in una deviazione della curva dose-risposta dal convenzionale modello lineare, con una mortalità relativamente maggiore alle basse dosi rispetto alle alte. Questo effetto è uno dei fenomeni non lineari legati alle RI (specifici alle basse dosi e non riscontrati nelle alte) quali, la risposta adattativa e gli effetti non targeted come l’effetto bystander e l’instabilità genomica (Hall 2006). Questo fenomeno è noto in letteratura in cellule irradiate a temperature ambiente, mentre sembra non essere presente nei campioni congelati (Ashwood-Smith et al. 1977 e 1979). In realtà è plausibile che la differente radiosensibilità delle cellule facenti parte del pool delle mononucleate giustifichi l’andamento delle curve ottenute. Come riportato da Harrington (1997) all’interno della popolazione delle cellule mononucleate, le cellule natural killer sono quelle maggiormente radioresistenti, seguono i linfociti T CD4, i monociti ed i macrofagi, i linfociti T CD8 ed infine i linfociti B. Questo dato potrebbe giustificare le curve ottenute (sia nel sistema stimolato che non) ed il loro disaccordo con la curva riportata in letteratura da Ashwood-Smith et al. (1977 e 1979) in una linea cellulare congelata ed irradiata. Dai dati ottenuti sulla mortalità/sopravvivenza cellulare indagata per alte e basse dosi di radiazioni ionizzanti emerge che il congelamento salvaguarda la sopravvivenza cellulare, probabilmente inibendo sia il processo attivo dell’apoptosi (che richiede temperature ottimali) che il danno secondario prodotto dai radicali liberi. I radicali liberi e le specie reattive dell’ossigeno sarebbero inoltre i principali responsabili di rotture singole del DNA e delle conseguenti mutazioni geniche riscontrabili su linfociti irradiati a basse dosi di radiazione gamma (Mognato et al. 2001, Nasonova et al. 2006). Anche il fenomeno della instabilità genomica sembrerebbe in parte legato ad una persistenza di elevati livelli di radicali liberi prodotti da disfunzioni mitocondriali indotte dalle radiazioni 64 ionizzanti (Kim et al. 2006). Come si evince dai dati delle conte assolute, è interessante notare che anche la stimolazione mitogenica come il congelamento protegge dalla mortalità cellulare indotta dalle RI (Figure 30). Questo è un dato sorprendente se si pensa che le cellule proliferanti sono soggette oltre che alla morte cellulare anche al blocco proliferativo indotto dalle RI. Nel loro complesso questi risultati suggeriscono che nel sistema congelato scelto, in particolare dopo la stimolazione mitogenica, possa essere favorita la sopravvivenza di cellule danneggiate e quindi la probabilità che si generino cellule mutanti. Va inoltre considerato che le cellule potrebbero non essere in grado di riparare adeguatamente eventuali danni subiti durante il congelamento a causa delle basse temperature alle quali gli enzimi di riparo del DNA verrebbero a trovarsi, al momento dello scongelamento ovvero quando le rotture del DNA sono libere di manifestarsi. Per questo motivo l’analisi della frequenza di cellule mutanti in questi campioni potrebbe fornirci informazioni aggiuntive circa lo stato e la sicurezza del materiale biologico congelato e stoccato per lunghi periodi. 7.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte dalle radiazioni ionizzanti Per l’analisi delle cellule mutanti indotte dalle RI, i campioni di cellule mononucleate sono stati irradiati con raggi X utilizzando l’acceleratore lineare di particelle LINAC che consente una maggiore precisione nella somministrazione della dose di radiazione. Una elevata attività proliferativa del sistema cellulare scelto è fondamentale per poter determinare la frequenza di cellule mutanti indotta dalle RI. Per questo motivo, in accordo con quanto osservato da Gabdoulkhakova et al. (2006), è stato scelto come sistema di induzione alla proliferazione il T cell Activation/Expansion KIT, un sistema di stimolazione con anti-CD2, anti-CD3 e anti-CD28 che ha dato migliori risultati rispetto al sistema classico che utilizza il mitogeno PHA e la citochina IL-2. Nella prima serie di esperimenti condotti per la messa a punto del saggio non è stata osservata una differenza rilevante nella frequenza di cellule mutanti tra la dose di 0.9 Gy ed il controllo non irradiato (Figura 31). Per poter ritenere il saggio affidabile è importante che il sistema proliferativo scelto non produca una selezione nè a favore delle cellule normali nè di quelle mutate durante i diversi giorni di coltura. L’utilizzo di cellule mononucleate provenienti da soggetti affetti da emoglobinuria parassostica notturna ha permesso di escludere l’ipotesi che le cellule mutate potessero proliferare di meno rispetto alle cellule normali, infatti in Figura 32 la frequenza di cellule mutate risulta sufficientemente costante nel tempo, indicando che in questo sistema di espansione in vitro le cellule mutate nel gene PIG-A hanno una capacità di proliferazione paragonabile a quella delle cellule normali. A questo punto è stata calcolata la frequenza di cellule mutanti a seguito della somministrazione di 0.1, 0.3, 0.9, e 3 Gy, utilizzando un protocollo messo a punto da Peruzzi et al. (2010). In accordo con quanto riportato in letteratura per i granulociti (Araten et al. 1999), nei campioni di linfociti T analizzati appena dopo scongelamento (t0) è stato riscontrato un range di cellule mutate (tasso di mutazione spontanea) compreso tra 10 e 40 cellule per milione. Nei diversi giorni testati al di sotto di 0.9 Gy non sono state riscontrate differenze rilevanti rispetto al controllo mentre in Figura 33 è evidente l’aumento della frequenza di mutazione alla dose di 3 Gy in modo particolare a tempi lunghi, arrivando a superare mediamente 100 cellule su un milione. 65 Contestualmente è stato possibile valutare la proliferazione/sopravvivenza alle varie dosi nei diversi tempi (Figura 34). Questa informazione è importante perché parte delle cellule potenzialmente mutanti potrebbero essere escluse dall’analisi perché contenute nella frazione delle cellule morte. Come si vede dalla Figura 34, a parte una leggera inibizione della proliferazione/sopravvivenza osservabile dopo la somministrazione di 3 Gy, il resto dei campioni mostra una crescita/vitalità paragonabile al controllo. L’aumento della frequenza di cellule mutanti alla dose di 3 Gy riscontrabile dopo due settimane di coltura potrebbe essere riconducibile al fenomeno d’instabilità genomica (Bortoletto et al. 2001, Lambert et al. 1998, Kadhim et al. 1994, Little et al. 1997, Holmberg et al. 1998). In particolare nel lavoro di Little et al., nuove mutazioni a livello del locus genico HPRT sono state riscontrate per diverse settimane nelle colonie di cellule di hamster cinese derivanti da quelle direttamente irradiate mediante raggi X o particelle α. In aggiunta le mutazioni riscontrate sembravano di tipo differente rispetto a quelle analizzate nelle cellule direttamente irraggiate. Sia Lambert et al. che Bortoletto et al. hanno invece osservato la presenza di nuove aberrazioni cromosomiche in un modello analogo a quello studiato ovvero linfociti T proliferanti e precedentemente irradiati. In accordo con altri autori (Luzzato et al. 2006, Bryce et al. 2008, Miura et al. 2008 e Peruzzi et al. 2010), i dati ottenuti confermano la validità del saggio nella valutazione della frequenza di cellule mutate a livello del locus PIG-A. In particolare i dati ottenuti indicano che questo saggio è valido anche al fine della valutazione della frequenza di cellule mutanti indotte da radiazioni ionizzanti. Per aumentare la sensibilità del saggio nel proseguo delle indagini saranno utilizzati sistemi con una minore frequenza di mutazione spontanea quale ad esempio il sangue di cordone ombelicale. 7.3 Irraggiamento degli embrioni prodotti in vitro I dati ottenuti dall’irradiazione degli embrioni di pecora vitrificati e successivamente reimpiantati nell’utero di pecore riceventi supportano quanto ottenuto dall’analisi della mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti ovvero che il congelamento è in grado di salvaguardare la vitalità (cellulare e degli organismi). Infatti una rilevante parte degli embrioni irradiati anche con dosi relativamente alte di raggi gamma (2.4 Gy) sono stati in grado di impiantarsi nell’utero delle pecore riceventi dando successivamente dei buoni tassi di natalità. Queste osservazioni sono in accordo con quanto riscontato da Glenister et al. (1984) e Glenister e Lyon (1986) negli embrioni di topo. In questi esperimenti Glenister et al. hanno sottoposto ad irradiazioni di 0.1, 0.5, 1 e 2 Gy embrioni di topo costituiti complessivamente da otto cellule. Dopo scongelamento questi embrioni sono stati analizzati sia in base alla morfologia sia in base alla capacità di generare dopo 24h di coltura morule e blastule. Gli embrioni sono stati successivamente impiantati nell’utero di madri riceventi soppresse dopo 14 giorni di gravidanza. Non sono state riscontrate in seguito ad irradiazione anomalie nella morfologia cellulare, nella capacità di sviluppare morule e blastule, nella capacità di impiantarsi e nella vitalità del feto. Se ne deduce che a -196°C e fino a 2 Gy la vitalità dell’embrione non risulta essere ridotta in maniera rilevante, per cui il background di radiazioni ionizzanti che normalmente è di 1-2 mGy/anno sembrerebbe non inficiare la vitalità degli embrioni criopreservati anche per lunghi periodi. Questi dati concordano con quanto ottenuto con gli embrioni 66 di pecora, dove solo la dose di 19.2 Gy è risultata letale per gli embrioni irradiati, nessun embrione è stato infatti in grado di impiantarsi nell’utero della pecora ricevente mentre le dosi di 0.3 e 2.4 Gy hanno consentito un rilevante tasso di attecchimento in utero e di nascita rispetto al controllo non irradiato (Tabelle 3 e 4). Dagli embrioni irradiati con dose di 2.4 Gy due agnelli sono nati morti (uno per aver eseguito il parto cesareo troppo precocemente) ed uno ha presento alla nascita malformazione delle anche, disturbo che si è risolto durante la crescita dell’animale. Questi fenomeni non sono esclusivamente riconducibili all’effetto della radiazione e per questo motivo un tasso di nascita del 21% è da considerarsi soddisfacente se paragonato al controllo (50%), visto anche il numero limitato di embrioni impiantati. Inoltre il monitoraggio di questi animali durante tutta la fase di crescita con continui prelievi del sangue ha consentito di escludere patologie linfoproliferative. È stata inoltre testata la fertilità di questi esemplari in vivo ed in vitro, in particolare il seme degli agnelli maschi ha mostrato un’adeguata capacità di fecondare in vitro. 7.4 Considerazioni conclusive In questo lavoro, svolto in collaborazione con i Laboratori Nazionali del Gran Sasso e con l’Agris Sardegna, sono state indagate la mortalità/sopravvivenza cellulare, la frequenza di mutazione in cellule mononucleate e la vitalità in vivo di embrioni di pecora vitrificati e irradiati con diverse dosi di raggi γ ed X al fine di poter valutare gli effetti delle radiazioni ionizzanti sul materiale biologico criopreservato, materiale che durante il tempo di congelamento è costantemente soggetto al background naturale delle radiazioni ionizzanti. I principali risultati ottenuti da questo lavoro possono essere così sintetizzati. • A basse dosi di RI la determinazione del picco ipodiplide e la colorazione con ioduro di propidio sopravitale nei campioni di cellule mononucleate non stimolate, assieme alla conta assoluta citofluorimetrica delle cellule vive, sono risultate delle valide metodiche per la valutazione della morte cellulare indotta da raggi γ. Ad alte dosi di radiazione queste due metodiche non sono altrettanto affidabili, la conta assoluta citofluorimetrica delle cellule vive resta il test più sensibile ai fini di questo scopo. • Da questi esperimenti si evince che il congelamento salvaguarda la vitalità cellulare infatti a parità di dose i campioni irradiati in stato di congelamento hanno mostrato una percentuale di mortalità cellulare ridotta rispetto ai campioni irradiati a temperatura ambiente. È inoltre evidente che anche la stimolazione mitogenica come il congelamento protegge dalla mortalità cellulare indotta dalle RI. • Il saggio PIG-A è risultato essere un valido test al fine della valutazione della frequenza di cellule mutanti nei campioni congelati ed irradiati con basse dosi di radiazioni X. In particolare è stato osservato un aumento del numero di cellule mutanti, dopo due settimane di stimolazione, nei campioni irradiati a -196°C con la dose di 3 Gy, ma non a dosi più basse. 67 • I dati relativi agli embrioni irradiati a -196°C concordano con quelli ottenuti dallo studio in vitro sulla mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti in cellule mononucleate congelate. Una rilevante parte degli embrioni irradiati a dosi basse ed intermedie sono stati infatti in grado di attecchire nell’utero delle pecore riceventi e proseguire la gravidanza sino alla nascita. Inoltre durante il monitoraggio della crescita degli animali nati vivi non sono state riscontrate patologie quali tumori o infertilità. Questi dati permettono di far luce sullo stato di conservazione di numerose sacche, provette ed embrioni conservati congelati per lunghi periodi. L’attualità di questi studi è legata alla recente nascita delle banche per la conservazione di cellule staminali, ovociti, spermatozoi, embrioni, linee tumorali, tessuti etc. Per poter utilizzare cellule staminali in protocolli terapeutici è necessario avere la certezza che il materiale reintrodotto nel paziente sia sicuro e non costituisca fonte di pericolo per il soggetto trapiantato. Per questo motivo è importante proseguire questo tipo di indagini andando a valutare più in dettaglio la frequenza di mutazione nel materiale biologico stoccato per tempi lunghi a -196°C. Nel proseguo dello studio per aumentare la sensibilità del saggio PIG-A sarà introdotto un sistema con una minore frequenza di mutazione spontanea quale il sangue di cordone ombelicale. Inoltre un altro obiettivo previsto sarà quello di confrontare questi dati con quelli ottenuti mediante l’utilizzo di un altro saggio per la determinazione in vitro di cellule mutanti che è il saggio HPRT. Questo saggio sebbene sia più complesso nella realizzazione sfrutta un gene (HPRT) che ha una dimensione maggiore (circa 40 Kb) rispetto alle 17 kb del gene PIG-A e quindi ha una maggiore probabilità di interazione con le RI, in altri termini è potenzialmente più sensibile. 68 Riferimenti bibliografici Albertini RJ, Castlet KL and Borcherdingo WR. Tcell cloning to detect the mutant 6-thioguanine-resistant lymphocytes present in human peripheral blood. (1982) PNAS 79 (21): 6617-6621. Alberts B, Lewis J, Roberts K, Bray D, Raff M and Watson JD. Biologia molecolare della cellula. 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Un sentito ringraziamento: al Prof Loris Zamai per i preziosi consigli durante la stesura di questo lavoro ed in particolar modo per avermi dato la possibilità di svolgere questa ricerca; ad Alessandra e a tutte le mie carissime colleghe del laboratorio per l’aiuto durante tutto il periodo del dottorato ma soprattutto per l’amicizia ed il grande affetto dimostratomi; al Dott. Filippo Centis e al Dott. Massimo Valentini del Laboratorio Di Patologia Clinica dell’Ospedale San Salvatore di Pesaro e al Dott. Francesco Picardi del Servizio di Medicina Trasfusionale dell’Ospedale San Salvatore di Pesaro per la loro disponibilità e per il congelamento dei campioni di cellule mononucleate; al SOC Fisica Medica dell’Ospedale San Salvatore di Pesaro per l’irraggiamento delle cellule mononucleate; al Dott. Roberto Cherubini dell’INFN- Laboratori Nazionali di Legnaro per la collaborazione e per la disponibilità e la cortesia dimostratami; al Dott. Antonio Maria Risitano della Divisione di Ematologia, Università Federico II di Napoli per averci fornito i campioni EPN; alla Dott.ssa Maria Dattena e tutti i colleghi dell’Agris Sardegna (DIRPA) settore di Riproduzione, in particolare a Daniela, per la produzione ed il trasferimento di embrioni, il controllo degli agnelli nati, i prelievi periodici di sangue e per avermi sempre supportato durante il percorso di formazione sin dalla mia laurea; al Centro Trasfusionale Presidio Ospedaliero San Francesco di Nuoro per l’irradiazione degli embrioni; all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sardegna, Sassari per l’analisi citofluorimetriche del sangue. Un grazie particolare: ai miei genitori perché tutto questo è frutto di quanto mi hanno sempre insegnato, a mia mamma che con la sua grinta mi ha insegnato a lottare e ad andare avanti affrontando con coraggio ogni situazione e a mio padre perché il suo modo di essere così speciale e i suoi affettuosi consigli mi hanno permesso e mi permettono di affrontare con sicurezza ogni decisione; ai miei due fratelli Domenico e Marco perché sono da sempre dei punti di riferimento della mia vita a cui voglio infinitamente bene; a Barbara perché anche se lontane con il suo affetto mi è stata sempre vicino; a Michele perché in lui ho trovato un amico insostituibile; a Fred e Mario per l’amicizia e la disponibilità che mi hanno sempre dimostrato dall’inizio del dottorato; alle mie amiche del liceo e dell’università sempre presenti nella mia vita; e un grazie a tutta la mia famiglia, i miei tanti zii e cugini e a quanti mi hanno aiutato durante questa esperienza. Un grazie anche alla famiglia di Marco, in particolare ai suoi tre nipotini Alessia, Filippo e Giulia a cui mi sono profondamente affezionata, perchè mi sono stati sempre vicini durante questi anni lontana da casa. Un grazie veramente speciale a Marco perché senza la sua presenza il suo infinito affetto e la sua forza non avrei affrontato con così tanto entusiasmo e gioia ogni giorno di questa esperienza.