2. IL GENE PIG-A - Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

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Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
Facoltà di Scienze e Tecnologie
Dottorato di Ricerca in Meccanismi di Regolazione
Cellulare: Aspetti morfo-funzionali ed evolutivi
XXIII Ciclo
VALUTAZIONE DELLA MORTALITÀ
INDOTTA DALLE RADIAZIONI
IONIZZANTI SU CELLULE CONGELATE
TUTOR
Chiar.mo Prof. Loris Zamai
DOTTORANDA
Dott.ssa Giulia Cugia
Settore scientifico disciplinare BIO/16
ANNO ACCADEMICO 2009/10
Ai miei splendidi genitori, ai miei due fratellini e
a Marco per l’amore di cui sono capaci.
Indice
PARTE PRIMA - Introduzione alla ricerca
1. LE RADIAZIONI IONIZZANTI
1
1.1 Aspetti generali
1
1.2 Il danno biologico radio-indotto: fonti intrinseche ed estrinseche di danno al DNA
4
1.3 Danni al DNA indotti da radiazioni ionizzanti
6
1.3.1 Ipersensibilità e radio-resistenza indotta
8
1.3.2 Risposta adattativa
8
1.3.3 Instabilità genomica
9
1.3.4 Fattori clastogenici indotti da radiazione ed effetto bystander
12
1.3.5 L’influenza dell’organizzazione strutturale della cromatina sulla produzione
di danni al DNA
13
1.4 Attivazione dei meccanismi cellulari in risposta all’insulto radioattivo
15
1.4.1 Trasduzione del segnale dopo irraggiamento e blocco proliferativo in cellule
ciclanti
1.4.2 L’apoptosi
15
19
1.4.3 Meccanismi di riparo del DNA
20
2. IL GENE PIG-A
23
2.1 Impiego di geni reporter per la detection di mutazioni somatiche indotte da agenti
mutageni
23
2.2 Il gene sentinella PIG-A
23
2.3 Proteine di membrana ancorate al glucosilfosfatidilinositolo (GPI)
25
2.4 Potenzialità e limitazioni del saggio PIG-A
28
3. LA CRIOCONSERVAZIONE
29
3.1 Aspetti generali
29
3.2 I crioprotettori
29
3.3 Le procedure di crioconservazione
31
3.3.1 Il congelamento lento
31
3.3.2 Il congelamento rapido
32
3.3.3 La vitrificazione
33
3.4 Le criobanche
33
PARTE SECONDA - Presentazione dei dati
4. SCOPO DEL LAVORO
36
5. MATERIALI E METODI
37
i
5.1 Isolamento delle cellule mononucleate
37
5.2 Congelamento e irraggiamento delle cellule mononucleate
37
5.3 Scongelamento e coltura delle cellule mononucleate
38
5.4 Analisi della mortalità cellulare
39
5.4.1 Analisi monoparametrica del contenuto di DNA cellulare
39
5.4.2 Tecnica del propidio sopravitale
40
5.4.3 Analisi statistica
41
5.5 Analisi delle cellule mutanti mediante il saggio PIG-A
42
5.6 Produzione di embrioni in vitro (IVP)
43
5.6.1 Recupero degli ovociti
43
5.6.2 Maturazione in vitro (IVM)
43
5.6.3 Fertilizzazione in vitro (IVF)
43
5.6.4 Coltura in vitro (IVC)
43
5.6.5 Vitrificazione
44
5.6.6 Irraggiamento degli embrioni
44
5.6.7 Scongelamento e trasferimento embrionale
45
5.6.8 Gravidanze e monitoraggio degli agnelli nati
45
6. RISULTATI
46
6.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare
46
6.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte da radiazioni ionizzanti
55
6.3 Risultati relativi agli embrioni prodotti in vitro
58
6.3.1 Tasso di gravidanza
58
6.3.2 Tasso di natalità
59
6.3.3 Analisi citofluorimetriche
60
PARTE TERZA - Discussioni e considerazioni conlusive
7. DISCUSSIONE
62
7.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare
62
7.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte da radiazioni ionizzanti
65
7.3 Irragiamento degli embrioni prodotti in vitro
66
7.4 Considerazioni conclusive
67
Riferimenti Bibliografici
69
ii
PARTE PRIMA
Introduzione alla ricerca
1. LE RADIAZIONI IONIZZANTI
1.1 Aspetti generali
Tutti gli organismi viventi sono quotidianamente esposti, oltre che ad altri agenti mutageni ambientali, a bassi livelli di dose di radiazioni ionizzanti (RI) derivanti dal cosiddetto “fondo naturale”
del quale fanno parte i raggi cosmici, gli elementi radioattivi terrestri (U, Ac e Th) e gli elementi
radioattivi costituenti gli organismi viventi (C14 e K40). Spesso a questi si aggiungono esposizioni
legate alle attività professionali e a pratiche mediche come la radiodiagnostica, mentre circostanze
particolari possono determinare esposizioni ad alti livelli di dosi di RI come nel caso di alcuni trattamenti terapeutici o incidenti nucleari (Figura 1).
Figura 1 – Contributo dell’uomo al backgraund di radiazioni ionizzanti (BEIR VII 2005).
Nel corso degli ultimi anni, il carattere genotossico delle RI è stato ampiamente studiato ipotizzando tra l’altro un potenziale effetto benefico del fondo naturale in analogia a quanto riscontrato
per altri agenti chimico-fisici genotossici. I dati relativi al carattere carcinogenico delle RI ad oggi
disponibili, provengono per la maggior parte dai sopravvissuti alla tragedia di Hiroshima e Nagasaki e dalla loro progenie. Questi dati sono utilizzati per tracciare le curve di rischio d’insorgenza di
cancro a seguito di esposizione a radiazioni ionizzanti (Figura 2). Per valori di esposizione compresi
tra 0.5 e 2.5 Sv [1 Sievert (Sv) = 1 Grey (Gy) moltiplicato per un fattore specifico per ciascun tipo di
radiazione ed organo], la valutazione del rischio è descritta da un modello lineare, ovvero il rischio
aumenta all’aumentare della dose, mentre per valori di dose superiori ed inferiori sono proposti
vari tipi di andamenti in attesa di evidenze sperimentali.
In particolare in radioprotezione, per esposizioni a basse dosi di RI per via cautelativa, la valutazione del rischio viene effettuata estrapolando i dati dalle alte dosi mediante una relazione lineare
senza soglia (LNT Linear No-Threshold cancer risk model) assumendo che gli organismi viventi
1
Figura 2 – Curve di rischio, in funzione della dose di radiazioni ionizzanti, con indicate le possibili deviazioni dall’andamento lineare estrapolato alle basse e alte dosi (Hall 2006).
rispondano allo stesso modo alle alte e alle basse dosi (IRCP 103 2007, BEIR VII 2005). Questa
assunzione contrasta in realtà con numerose evidenze sperimentali sia in vivo che in vitro, diversi
studi negli ultimi anni hanno evidenziato la presenza di effetti non lineari specifici alle basse dosi e
non riscontrati nelle alte, quali l’ipersensibilità e la radio-resistenza indotta, la risposta adattativa e
gli effetti non targeted quali l’effetto bystander e l’instabilità genomica. Fenomeni di ipersensibilità e radio resistenza in seguito a irragiamenti con basse dosi di raggi X/γ sono stati riscontrati in
più di 40 linee cellulari sia normali che tumorali. In riferimento alla mortalità/sopravvivenza cellulare questi effetti si traducono, per basse dosi (meno di 1 Gy), in una deviazione della curva doserisposta dal convenzionale modello lineare, con una mortalità maggiore alle basse dosi rispetto
alle alte. Per questo motivo recentemente è stato proposto un modello alternativo in cui la pendenza o coefficiente angolare della parte lineare varia al variare della dose (Marples et al. 1993).
Numerose evidenze sperimentali hanno riscontrato sia in vitro che in vivo una risposta adattativa
mostrando che un pre-irragiamento con basse dosi e basso LET (Linear Energy Transfer) è in grado
di aumentare la radio-resistenza e ridurre i danni legati ad un ulteriore esposizione, suggerendo
che basse dosi sono in grado di promuovere l’attivazione dei meccanismi di riparo del DNA (Olivieri
et al. 1984, Joiner et al. 1999, Mothersill et al. 2004, Prise 2006). Dati di radiobiologia accumulati nell’ultimo decennio in vitro e in vivo suggeriscono che a livello cellulare, le RI sono in grado
di indurre effetti biologici rilevanti anche sulla frazione di cellule non direttamente attraversate
dall’energia radiante. Questo fenomeno conosciuto come effetto bystander si propaga mediante
comunicazioni gap-junction presenti fra cellula e cellula, e secrezione di fattori solubili (Mothershill et al. 2001, Hall 2003, Morgan 2003, Price et al. 2003, Morgan and Sowa 2007). È noto che
l’esposizione a RI può determinare un aumento del rateo di alterazioni nel genoma della progenie
di cellule irradiate che non hanno manifestato effetti immediatamente dopo l’irradiazione. Questo
fenomeno che prende il nome di instabilità genomica è stato riscontrato anche nella progenie di
cellule non dirattamente irragiate ma in comunicazione tra loro attraverso gap-junction o terreno
di coltura, con cellule irradiate, evidenziando una possibile correlazione con l’effetto bystander
(Moore et al. 2005b). Questi effetti non-lineari osservabili alle basse dosi di RI sembrerebbero
2
non essere completamente attribuibili nè alla cessione diretta di energia alla macromolecola del
DNA (via diretta), nè ai danni al DNA nucleare dovuti a specie reattive dell’ossigeno derivanti dalla
radiolisi dell’acqua (via indiretta); mentre indicherebbero che la risposta cellulare ai bassi livelli di
dose sia influenzata da meccanismi di comunicazione cellulare ancora da identificare e modulata
in modo complesso da vari fattori tra i quali quelli di natura genetica, metabolica, ambientale oltre
che dal tipo di radiazioni e dal rateo di dose. Numerosi dati sperimentali indicherebbero che le
specie reattive dell'ossigeno (Reactive Oxygen Species-ROS) e le specie reattive dell'azoto (Reactive
Nitrogen Species-RNS), in particolare l’ossido nitrico, siano tra le molecole chiave coinvolte nell’induzione e trasmissione del danno indotto a basse dosi di radiazioni ionizzanti (Lehnert et al. 1997;
Azzam et al. 2002; Shao et al.2002; Han et al. 2007). Infatti utilizzando degli scavenger di tali molecole, quali per esempio il DMSO e il c-PTIO, si è osservata una riduzione del livello di bystander,
ipotizzando che questa possa essere dovuta alla soppressione rispettivamente di radicali (Kashino
et al. 2007) e di ossido nitrico (Shao et al. 2003), che agiscono sul DNA. Una delle più importanti
sorgenti di ROS nelle cellule di mammifero è costituita dai mitocondri, suggerendo che uno dei
bersagli cellulari delle radiazioni ionizzanti a basse dosi sia rappresentato dal DNA mitocondriale
(mtDNA) e che i mitocondri siano coinvolti nella trasmissione di segnale dopo l’irraggiamento,
attraverso la produzione di radicali liberi (Tartier et al. 2007). Le specie reattive dell’ossigeno e
dell’azoto sembrerebbero anche implicate nell’espressione della risposta adattativa, inducendo
direttamente il danno al DNA e attivando poi la risposta adattativa mediante la trascrizione di geni
e proteine che conferiscono radio-resistenza alla cellula (Matsumoto et al. 2004 e 2007). Nonostante l’ipotesi più accreditata al momento correli il fenomeno di ipersensibilità e radio-resistenza
indotta all’attivazione di un checkpoint G2/M, alcuni autori discutono del possibile coinvolgimento
dello stress ossidativo prodotto dai ROS anche nell’induzione di tale fenomeno in cellule non ciclanti come i linfociti (Nasonova et al. 2006). Sulla base di tali evidenze i ROS/RNS sembrerebbero
essere i mediatori di segnale di danno maggiormente coinvolti negli effetti alle basse dosi. Queste
evidenze sperimentali, talvolta in contraddizione tra di loro rendono necessaria un’attenta investigazione sperimentale, nel regime di basse dosi, in funzione della qualità della radiazione (energia,
tipo di radiazione) e per diversi sistemi biologici modello, al fine di poter comprendere i reali meccanismi di base coinvolti negli effetti “targeted” e “non targeted” per la valutazione del rischio.
A questo proposito negli ultimi anni sono stati finanziati alcuni progetti europei appositamente
mirati alla valutazione del rischio di danno a basse dosi, piattaforme anche ventennali per le quali
si possono monitorare i risultati nella sezione EURATOM. Inoltre, di recente, parallelamente alla
valutazione del rischio nell’uomo, l’interesse si è spostato sulla valutazione degli effetti a lungo
termine dell’esposizione alle basse dosi della radiazione del fondo naturale in sistemi biologici crioconservati (esperimento CRIORAD, CSN5-INFN; Bottigli et al. 2008). Considerando che il materiale
biologico crio-preservato rappresenta il futuro per molti tipi di patologie è importante spostare
l’attenzione sugli effetti dell’esposizione alle basse dosi del fondo naturale nei sistemi biologici
crioconservati. Grazie ai progressi nel campo della criopreservazione, sono infatti attualmente disponibili apposite strutture chiamate “Criobanche”, come ad esempio le banche di midollo osseo,
di sangue residuo della placenta e del cordone ombelicale, che consentono il mantenimento di
cellule staminali emopoietiche adulte, utilizzate nella cura di diverse patologie.
3
La criopreservazione è la metodica elettiva che consente di conservare per lunghi periodi il materiale biologico vivente, preservandolo dai danni dell’invecchiamento e garantendo così alte percentuali di vitalità cellulare sebbene non si conoscano le conseguenze dell’esposizione dei sistemi
congelati alla radiazione di fondo. Alle temperature criogeniche i processi biochimici cellulari sono
inibiti e quindi si impedisce la senescenza cellulare e la degradazione del materiale biologico. In
funzione dell’ambiente in cui i sistemi biologici crio-conservati vengono depositati, questi subiranno un irraggiamento protratto spesso per decine di anni, come nel caso delle“banche” di
colture cellulari o delle “banche” di cellule staminali o germinali, a causa del fondo naturale,
costituito in questo caso prevalemtente da radiazioni gamma (essendo le cellule contenute e
protette dentro il dewar). Mancando l’azione antagonista continua dei meccanismi di riparazione, i “danni” prodotti dall’esposizione delle cellule crio-conservate al fondo gamma, andranno
accumulandosi, trasformando l’esposizione da “dose protratta” (a bassissimo rateo di dose del
fondo ambientale) in esposizione a “dose acuta”, al momento dello scongelamento delle cellule.
Dati sperimentali derivanti da studi di criocristallografia a raggi-X, tecnica mediante la quale macromolecole biologiche sono sottoposte all’azione di RI per la determinazione della loro struttura
tridimensionale, indicano che a temperature criogeniche la diffusione dei radicali liberi prodotti
dai raggi-X è fortemente rallentata e che il danno indotto sulle macromolecole è ridotto rispetto
a condizioni analoghe ma a temperatura ambiente (Garman 2003). Recenti risultati sperimentali
ottenuti confrontando la risposta a raggi-γ di diversi sistemi biologici in condizioni criogeniche e a
temperature ambiente, in termini di mortalità cellulare e capacità clonogenica, hanno mostrato un
“effetto protettivo” della crioconservazione rispetto all’azione delle radiazioni ionizzanti (raggi-γ)
(Bottigli et al. 2008). Fra le cellule con riacquistata vitalità e capacità riproduttiva, qualcuna potrà
esprimere mutazioni (primo step di una trasformazione tumorale) a causa del danno indotto dal
fondo naturale. Risulta evidente che un tale evento potrebbe determinare l’insuccesso dell’uso del
materiale crio-conservato (cellule, tessuti o organismi) nelle applicazioni cliniche. A questo punto
diventa importante indagare non solo sulla sopravvivenza cellulare ma anche sulla misura della
frequenza e del rate di mutazione indotte dalle radiazioni ionizzanti, parametri che consentono di
avere importanti informazioni sulla sicurezza e affidabilità del materiale crioconservato utilizzabile
per fini terapeutici.
1.2 Il danno biologico radio-indotto: fonti intrinseche ed estrinseche
di danno al DNA
Il mantenimento dell’integrità genomica è di fondamentale importanza nella vita della cellula. Il
DNA è la molecola carrier dell’informazione genetica negli organismi viventi, ma è anche il principale bersaglio di agenti chimici e fisici mutageni. Con il termine cluster damage ci si riferisce
all’insieme delle alterazioni legate sia alla chimica della molecola di DNA che alla sequenza nelle
basi azotate. Qualsiasi alterazione o danno alla struttura molecolare del DNA può potenzialmente
causare mutazioni o portare alla morte cellulare. Si stima che in una singola cellula vengono prodotti quotidianamente circa un migliaio di danni causati da eventi ossidativi, quali la deaminazione
e la demetilazione del DNA, generati dal metabolismo della cellula e dall’azione di agenti esogeni.
Malgrado l’elevato numero di danni, la stabilità genomica è molto alta, questo perché la cellula è
4
provvista di sistemi in grado di controllare, riconoscere e riparare i vari tipi di alterazioni molecolari
prodotte, evitando inoltre di trasmetterle alla progenie.
Le alterazioni del DNA sono generalmente riconducibili a due fonti di danno definite endogene
o intrinseche e ambientali o estrinseche. Le genotossine endogene includono le specie reattive
dell’ossigeno, anione superossido O2-, radicale idrossile OH ed il perossido d’idrogeno H2O2 derivanti dal metabolismo cellulare, mentre delle genotossine ambientali fanno parte tutti quegli
agenti chimico-fisici mutageni generati al di fuori della cellula (farmaci, mutageni ambientali, radiazioni UV e radiazioni ionizzanti) (Hoeijmakers 2001). Diversi studi condotti in cellule eucariotiche sottoposte a stress genotossico hanno evidenziato che l’ossidazione del DNA causata dai
ROS, derivanti dal normale metabolismo aerobio, costituisce il danno endogeno maggiormente
rilevante. I danni legati all’ossidazione del DNA rappresentano una delle cause per lo sviluppo
nell’uomo del cancro e di patologie neurodegenerative ed è inoltre strettamente legato al processo d’invecchiamento cellulare.
Sebbene le DNA polimerasi garantiscano un’accurata sintesi del DNA, la frequenza di errore si stima sia all’incirca una base ogni 1-10 milioni, che in particolari condizioni quale l’assenza di alcune
proteine accessorie, può aumentare di 100 anche 1000 volte (Kunkel & Bebenek 2000).
Gli agenti mutageni in grado di produrre lesioni al DNA sono molteplici e se si considera che la
lista è in continua espansione, le attuali conoscenze sui tipi di lesioni al DNA risultano limitate.
Tra gli agenti chimici rientrano ad esempio il metil metasulfobnato (MMS), l’N-metil-N’nitro-Nnitrosoguanidina (MNNG) e l’etil metasulfonato (EMS), molecole con un’elevata affinità per i centri nucleofili del DNA. Questi agenti alchilanti possono indurre mutazioni e bloccare la sintesi del
DNA (Friedberg et al. 2006). Altre genotossine come la doxorubicina sono invece inbitori delle
topoisomerasi, frequentemente utilizzate negli studi dei meccanismi di riparo del DNA ed in chemioterapia. Nella categoria degli agenti fisici rientrano le radiazioni UV e le radiazioni ionizzanti. I
tipi di lesioni indotte da radiazioni sono riconducibili a due classi: le modificazioni delle basi azotate e le rotture all’elica del DNA. Le RI possono infatti indurre per via diretta rotture all’elica del
DNA in seguito all’assorbimento dell’energia radiante o in alternativa sfruttando la via indiretta
possono portare alla produzione di specie reattive mediante l’interazione con acqua o con altri tipi
di molecole (Lehnert et al. 1997, Azzam et al. 2002, Shao et al.2002, Friederberg et al. 2006, Han
et al. 2007), (Figura 3).
I meccanismi che portano al danno biologico radio-indotto sono quindi riconducibili a due vie, la
via diretta dalla quale deriva il danno biologico primario e la via indiretta dalla quale segue il danno
biologico secondario.
Il danno biologico primario è causato dall'azione diretta della radiazione sui componenti primari della cellula, primo tra tutti il DNA, causando la ionizzazione o l’eccitazione degli atomi attraverso interazioni di tipo Couloumbiane, che sono fondamentali nella catena di eventi fisici e chimici,
che inducono lesioni biologiche. I principali danni di questo tipo riguardano le lesioni al DNA, le
quali possono portare a mutazioni o morte cellulare.
Il danno biologico secondario è causato dall’azione indiretta delle radiazioni ionizzanti, le quali
interagiscono principalmente con l’acqua cellulare (che rappresenta l’80% della cellula) ed altre
5
molecole, producendo radicali liberi e specie reattive. I radicali liberi sono atomi, molecole o composti altamente instabili (e quindi reattivi), che hanno un elettrone di valenza spaiato, si diffondono all’interno della cellula causando la rottura dei legami chimici e producendo cambiamenti in
grado di pregiudicare la sopravvivenza della cellula.
Figura 3 - Rappresentazione schematica del danno diretto ed indiretto indotto dalle radizioni ionizzanti. La via diretta
determina il danno biologico primario dovuta all’azione diretta della radiazione ionizzante sulle macromolecole biologiche. La via indiretta genera il danno biologico secondario legato all’azione radiolitica sull’acqua cellulare (Morgan &
Sowa 2005).
1.3 Danni al DNA indotti da radiazioni ionizzanti
Il DNA è l’elemento cellulare maggiormente radiosensibile ed è noto che la radiazione produce
una vasta gamma di lesioni tra le quali il danno alle basi nucleotidiche e le rotture del singolo
(Single Strand Breaks, SSBs) e del doppio filamento di DNA (Double Strand Breaks, DSBs). Anche
se i dati disponibili suggeriscono che i diversi tipi di danno alla singola base del DNA da soli, probabilmente giocano un ruolo minore nell’indurre mutagenesi, sembra comunque che alcuni di
questi abbiano una notevole rilevanza biologica. Diversamente i danni alla doppia elica (sia quelli
non riparati che quelli riparati non correttamente, unrepaied and misrepaired DBSs), giocano un
6
ruolo fondamentale nell’indurre anomalie cromosomiche e mutazioni geniche (Goodhead 1994,
Ward 1995). In realtà, come già anticipato, l’insulto al DNA è frutto della combinazione di danni
generati direttamente e indirettamente (provocati dai ROS) dalla radiazione ionizzante che nel
complesso producono un cluster damage (Nikjoo et al. 1999). Questi possono contenere numerose e ravvicinate SSBs e DSBs. Sia la frequenza che la complessità dei clusters damage dipendono
dal trasferimento lineare di energia o LET della radiazione.
Il LET è usato come parametro approssimato per caratterizzare la “qualità” della radiazione e
quindi la sua efficacia biologica. Le radiazioni a basso LET, dette anche “sparsamente ionizzanti”,
sono ad esempio i raggi X (purché non di energia troppo bassa) e i raggi gamma, e su queste si
sono basati gran parte degli studi radiobiologici tradizionali. Le radiazioni ad alto LET sono invece
le particelle α, protoni e neutroni. Negli ultimi anni vi è stata una considerevole crescita dell’interesse sugli effetti biologici delle particelle cariche dovuta principalmente agli impieghi innovativi
degli adroni in radioterapia e alla necessità di stabilire standard di radioprotezione per le radiazioni
nello spazio. Il passaggio nella materia biologica di particelle pesanti cariche, densamente ionizzanti, produce modificazioni qualitativamente diverse da quelle prodotte dalla radiazione “sparsamente ionizzante” (raggi X e γ). Mentre questi ultimi depositano energia nella materia attraverso
elettroni secondari capaci di percorrere distanze relativamente lunghe, così da distribuire l’energia
su volumi relativamente grandi ed in maniera pressoché omogenea, gli ioni pesanti depositano
energia in volumi ristretti e adiacenti alla traccia degli ioni primari, così da produrre zone con elevata densità locale di ionizzazione.
Utilizzando sofisticati modelli è stato possibile dimostrare che quasi il 30% delle DSBs, indotte da
radiazioni a basso LET, rappresentano forme complesse che coinvolgono due o più DSBs, mentre,
per le radiazioni ad alto LET, questo valore è rappresentato dal 70%. Quando alle rotture vengono
associati danni alla singola base, la proporzione complessiva diventa rispettivamente del 60% e
90% (Nikjoo et al. 1999, 2000, 2001 e 2002) . È plausibile che, con l’aumentare della complessità
del danno, questo venga riparato con maggiore difficoltà, portando inevitabilmente a delle conseguenze biologiche.
Un concetto importante nella valutazione del rischio, in seguito ad esposizione a basse dosi di
RI, è legato alle analogie esistenti fra danno al DNA indotto da radiazione (che produce anche
radicali liberi) e danno endogeno dovuto alla generazione di ROS durante il normale metabolismo
cellulare. Tra il danno generato dai ROS fisiologicamente prodotti, e quello indotto da radiazione,
sembrano esserci similitudini ma anche importanti differenze. Una caratteristica dei DSBs indotti
sia fisiologicamente che dalle RI, che può avere conseguenze nel loro riparo, è legata alla natura
chimica delle estremità terminali prodotte nelle rotture. Le rotture indotte da enzimi di restrizione
possiedono gruppi 3’-idrossile, e 5’-fosfato, una condizione indispensabile per il legame enzimatico, mentre la maggior parte delle rotture generate dai ROS e dalla RI, possiedono estremità
terminali danneggiate, o più frequentemente gruppi finali come 3’-fosfato o 3’-fosfoglicolato
(Ward 1998). Talvolta vengono persino generati gruppi idrossilici all’estremità 5’; tali terminazioni
richiedono successive modificazioni chimiche prima del legame. Frequentemente si assiste anche
all’escissione del nucleotide danneggiato con perdita della base, in corrispondenza della rottura.
Le forme predominanti di danno, indotte da ROS, sono rappresentate dal danno alle singole basi
7
e SSBs, invece la frequenza dei DSB generati dai ROS è in funzione delle specie reattive, ma è in
genere più bassa. In particolare, evidenze sperimentali accumulate negli ultimi 15 anni hanno
mostrato la presenza di effetti “non lineari” specifici alle basse dosi e non riscontrati alle alte dosi
quali l’ipersensibilità e la radioresistenza indotta, la risposta adattativa, l’effetto bystander e l’instabilità genomica.
1.3.1 Ipersensibilità e radioresistenza indotta
L’approccio comunemente utilizzato per stabilire i limiti dell’esposizione umana alle radiazioni
ionizzanti, si basa su un modello che prevede un aumento del rischio in maniera direttamente
proporzionale all’aumento della dose assorbita, con o senza un valore soglia. Tale modello prende
il nome di LNT-Linear No-Threshold introdotto dalla IRCP, la Commissione Internazionale per la
Protezione Radiologica. I fenomeni di ipersensibilità e radioresistenza indotta in seguito ad esposizione a basse dosi di radiazioni X e γ sono stati riscontrati in vitro in più di 40 linee cellulari umane
e di roditore, tumorali e non. In esperimenti di sopravvivenza cellulare questi effetti si traducono
in una deviazione dal convenzionale modello lineare delle curve dose-risposta con una mortalità
maggiore alle basse dosi (inferiore ad 1 Gy) rispetto alle alte dosi. Queste osservazioni hanno
portato ad un acceso dibattito sull’effettiva utilità del modello LNT. Feinendegen ad esempio sostiene l’inaccuratezza di questo metodo concludendo che l’ LNT sia addirittura scientificamente
infondato e che debba essere abbandonato a favore di un modello basato su ipotesi che siano
scientificamente compravate e che causino una minore paura irrazionale per l’esposizione alle
radiazioni (Feinendegen 2005). Altri autori sostengono invece che l’LNT sia un modello biofisico
troppo semplicistico per spiegare l’azione delle radiazioni sul DNA delle cellule viventi e sugli organismi. Esso infatti maschera tutto l’insieme di eventi fisici, fisico-chimici, biochimici e metabolici
che coinvolgono non solo il DNA, ma anche la miriade di molecole piccole e grandi che caratterizzano i vari organelli cellulari. Fondamentalmente il sistema LNT ignora i processi di riparazione,
le reazioni immuni ed il ruolo dell’apoptosi (Jayashree 2001). Per questo motivo al fine di poter
descrivere il comportamento delle curve di sopravvivenza nella regione delle basse dosi sono stati
proposti alcuni modelli alternativi. In particolare in alternativa al modello lineare è stata proposta
un’equazione modificata (Induced Repair Model) in cui il coefficiente angolare della parte lineare
varia con la dose (Marples et al. 2000). Recentemente i fenomeni di ipersensibilità e radioresistenza indotta sono stati osservati anche con radiazioni densamente ionizzanti in cellule di roditore
(Tsoulou et al. 2001, Borhnsen et al. 2002), questi dati risultano però in contrasto con quanto
osservato con neutroni e protoni di alta e bassa energia (Marples et al. 1994, Skarsgard & Wouters
1997, Cherubini et al. 2008).
1.3.2 Risposta adattativa
La risposta adattativa si verifica sia nei procarioti che negli eucarioti e produce, in cellule pre-irradiate con basse dosi di radiazioni ionizzanti, un’aumentata resistenza a successive esposizioni delle
stesse con dosi maggiori di radiazioni (Ballarini & Ottolenghi 2002). Le prime evidenze sperimentali del fenomeno risalgono al 1984 osservando che i linfociti umani in coltura, precedentemente
trattati con timidina triziata, sono meno suscettibili ai danni provocati da dosi elevate di raggi X
8
(Olivieri et al. 1984). Il meccanismo d’azione della risposta adattativa non è stato ancora pienamente compreso, ma si pensa possa essere collegato all’effetto ormetico. Evidenze sperimentali di
risposta adattativa sono state riscontrate sia in vivo che in vitro in termini di vari end-piont biologici
quali aberrazioni cromosomiche e induzione di mutazioni, suggerendo che basse dosi di raggi X/
γ possano promuovere l’attivazione di meccanismi di riparo (Joiner et al. 1999, Mothersill & Seymour 2004, Klokov et al. 2004, Streffer et al. 2004, Prise 2006).
Studi sui procarioti hanno evidenziato che batteri sottoposti a stress ossidativo, hanno in seguito
aumentato la loro resistenza all’azione delle RI. In particolare, una pre-esposizione di cellule di Vibrio Cholerae hai raggi X o al perossido di idrogeno, ha reso tali cellule tre volte più resistenti alle
successive esposizioni ai raggi X. L’induzione della radioresistenza necessita della sintesi proteica e
viene sviluppata solo nel caso in cui le cellule siano di tipo recA+ e lexA+, cosa questa che indica il
coinvolgimento di meccanismi di riparazione del DNA. La dose soglia necessaria all’induzione della
radioresistenza ai raggi X nei procarioti, è stata stimata approssimativamente intorno ad 1 mGy
(Mitchel 2006). Esperimenti analoghi sono stati condotti anche su eucarioti inferiori come i funghi
(Saccharomyces Cerevisiae), dimostrando l’importanza della ricombinazione omologa e quindi la
capacità dei meccanismi di riparazione del DNA di aumentare la resistenza sia alle radiazioni ionizzanti che a vari agenti mutageni. Questo dato assieme all’osservazione dell’assenza di tale risposta
(aumento della radioresistenza) sia in funghi diploidi difettivi per la ricombinazione omologa che in
funghi aploidi, indica la necessità di una copia duplicata del genoma per indurre la radioresistenza.
Inoltre nei funghi è stato osservato un “effetto ossigeno” indicando quest’ultimo come un coadiuvante della risposta adattativa probabilmente andando ad indurre i sistemi enzimatici capaci di
bloccare i ROS. Questi dati concordano con quanto ottenuto da altri autori e suggeriscono che la
risposta adattativa della cellula può dipendere sia dall’induzione di meccanismi di riparazione del
DNA ma anche dall’induzione di sistemi enzimatici in grado di bloccare l’azione dannosa dei ROS.
La dose in grado di proteggere la cellula eucariotica dai danni indotti dalle RI (priming o conditioning dose) è stimata per radiazioni a basso LET nell’intervallo tra 0.01 e 0.2 Gy.
1.3.3 Instabilità genomica
L’instabilità genomica è il termine che si usa per descrivere l’insorgenza di nuove alterazioni genetiche nella progenie di cellule sopravvissute all’irradiazione. Il fenomeno di instabilità genomica
è infatti legato all’incremento della velocità di acquisizione di alterazioni, a carico del genoma,
questo perchè l’instabilità generata dalla radiazione si manifesta talvolta nelle cellule, in ritardo
rispetto al tempo di irraggiamento. Tale evento può manifestarsi con salto generazionale, nella
progenie e in più generazioni dopo l’insulto iniziale. L’instabilità può essere studiata misurando diversi end-point biologici: aberrazioni cromosomiche, cambiamenti nel grado di ploidia, formazioni
di micronuclei, induzione di mutazioni geniche e amplificazioni, mini- e micro-satelliti (short tandem repeat), instabilità e diminuzione del plating efficiency, ossia dell’efficienza di piastramento
(Morgan 2003). Questi effetti osservabili con discreto ritardo, possono persistere a lungo nei cloni
instabili e ricordano alcuni aspetti descritti in cellule tumorali. Si pensa ci siano numerosi meccanismi per l’avvio e il perpetuarsi dell’instabilità genomica (Limoli et al. 1996, Kaplan et al. 1997),
che dipendono dal background delle cellule target o dell’intero organismo e da fattori ambientali
9
(Paquette & Little 1994, Watson et al. 1997, Kadhim 2003). Nella progenie della cellula irradiata
possono verificarsi riarrangiamenti cromosomici, aberrazioni o aperture dei cromosomi, micronuclei, mutazioni, amplificazioni geniche e la mancata separazione dei cromosomi stessi durante
il processo mitotico, generando cellule aneuploidi. Di tutti questi eventi associati all’instabilità
genomica, i cambiamenti cromosomici sono quelli maggiormente documentati. Le aperture o
rotture dei cromosomi non sembrano contribuire all’instabilità a lungo termine mentre maggiore
rilevanza viene data ai riarrangiamenti macroscopici quali le traslocazioni cromosomiali, duplicazioni e trisomie parziali, che sembrano coinvolgere fenomeni di amplificazione e ricombinazione di
vaste regioni mediante meccanismi ancora sconosciuti (Marder & Morgan 1993, Day et al. 1998,
Schwarts et al. 2001, Morgan et al. 2002).
L’instabilità è un evento frequente nelle colonie di cellule sopravvissute. Kadhim et al (1992) riportano anomalie del cariotipo in 40-60% di cellule staminali murine esposte a varie dosi di particelle alfa. Sabatier e colleghi osservarono invece, il tardivo passaggio del fenomeno dell’instabilità
cromosomica in più del 50% di fibroblasti umani in metafase, irradiati con radiazione ad alto-LET
ad ampio range (da 386 a 13.600 keV/ μm), (Sabatier et al. 1992). Allo stesso modo Limoli et al.
(1999 e 2000) hanno osservato il fenomeno mediante il quale i raggi X inducono instabilità cromosomica in circa il 3% dei cloni ibridi uomo-criceto GM10115. Questo aumentava fino a circa
4% Gy-1 dopo esposizione a ioni Ferro ad alto-LET. Pathways critici nell’insorgenza del danno al
DNA e del suo riparo, eventi di replicazioni cromosomiche e alterazioni nell’espressione genica
potrebbero quindi essere responsabili del mantenimento dell’instabilità genomica nel corso del
tempo.
L’elevata frequenza del fenomeno d’instabilità genomica, osservata di recente nei diversi sistemi
cellulari, ha sollevato un importante problema ovvero quello di dare una spiegazione scientifica
a queste osservazioni rendendo così tale fenomeno quantificabile e misurabile. In realtà, nonostante ci siano numerosi lavori che documentano e descrivono l’instabilità nella progenie di cellule
irradiate del midollo osseo umano e murino (khadim et al. 1994 e 1995) e di linfociti umani in
coltura (Holmberg et al. 1998, Bortoletto et al. 2001), i dati sono spesso discordanti, questo anche
a causa del ruolo, ancora poco chiaro, del gene onco-soppressore P-53. Sono stati proposti pathways P-53 dipendenti e P-53 indipendenti (Schwarts et al. 2003, Limoli et al. 2003). Il gruppo di
Moore è stato in grado di dimostrare che l’instabilità genomica può differire sia quantitativamente
che qualitativamente nei due distinti meccanismi per un’alterata espressione di P-53 (Moore et al.
2005b). Inoltre, una caratteristica dell’instabilità genomica radio-indotta, e degli effetti secondari
(quelli non generati direttamente dalla RI), è la mancanza di un profilo dose-risposta ben definito.
Numerosi autori sono a sostegno dell’ipotesi che tali effetti siano indipendenti dalla dose, sebbene
altri osservino un effetto dose-risposta a dosaggi più bassi; si conoscono i fenotipi associati all’instabilità genomica radio-indotta mentre i meccanismi molecolari, biochimici e cellulari, che danno
inizio al perpetuarsi dell’instabilità stessa, sono poco chiari. Visto che attualmente i meccanismi
alla base dell’induzione e persistenza dell’instabilità non sono ben noti, l’induzione di aberrazioni
cromosomiche in vivo, mediante modalità simili all’effetto bystander, potrebbe fornire approfondimenti circa il funzionamento di tali eventi, oltre al legame che persiste fra instabilità ed effetto
bystander. L’instabilità genomica è stata infatti riscontrata anche nella progenie di cellule non di-
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rettamente irragiate, ma in comunicazione attraverso gap-junction o terreno di coltura, con cellule
irradiate, evidenziando una possibile relazione di tale effetto con l’effetto bystander. Numerosi
dati sperimentali indicherebbero che le specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto, in particolare
l’ossido nitrico, siano tra le molecole chiave coinvolte nell’induzione e trasmissione del danno indotto a basse dosi di radiazioni ionizzanti (Lehnert et al. 1997; Azzam et al. 2002; Shao et al.2002;
Han et al. 2007). Infatti utilizzando degli scavenger di tali molecole, quali per esempio il DMSO e
il c-PTIO, si è osservata una riduzione del livello di bystander, ipotizzando che questa possa essere
dovuto alla soppressione rispettivamente di radicali (Kashino et al. 2007) e di ossido nitrico (Shao
et al. 2003), che agiscono sul DNA.
I mitocondri rappresentano, nelle cellule di mammifero la principale fonte di ROS e RNS endogeni.
Analogamente al DNA nucleare, il DNA mitocondriale (mtDNA) rappresenta uno dei principali
bersagli cellulari delle radiazioni ionizzanti. Danni al mitocondrio sembrano essere responsabili
della generazione di ulteriori effetti dopo l’irraggiamento attraverso la produzione di radicali liberi
reattivi (Tartier et al. 2007). Inoltre numerose evidenze sono a favore dell’ipotesi che i mitocondri
siano la principale sorgente cellulare di ROS associati al fenomeno d’instabilità genomica (Kim
et al. 2006). Se dunque da una parte i mitocondri sono i maggiori produttori di radicali liberi,
dall’altra sono anche il principale bersaglio dei loro effetti dannosi. I radicali liberi si formano nelle
cellule sia fisiologicamente in seguito alle loro reazioni metaboliche sia in seguito a stimoli esterni
quali radiazioni ionizzanti, elevata tensione di ossigeno, sostanze chimiche, farmaci e stress di
varia natura. In particolare con l’acronimo ROS (specie reattive dell’ossigeno), vengono designati
tutti i prodotti intermedi parzialmente ridotti del metabolismo dell’ossigeno. Si tratta di molecole
dalla reattività più o meno spiccata, che varia da quella moderata dell’anione superossido e del
perossido di idrogeno sino alla accentuata pericolosità del radicale idrossilico. I radicali liberi intracellulari, molecole a basso peso molecolare con un elettrone spaiato nell’orbitale elettronico
esterno, sono spesso ROS e viceversa, da qui la tendenza ad utilizzare usualmente i due termini
come sinonimi. In particolare i ROS sono specie chimiche con un singolo elettrone spaiato in un
orbitale esterno; l’energia creata da questa configurazione instabile viene liberata durante la reazione con vicine molecole organiche ed inorganiche, come gli acidi nucleici, le proteine e i lipidi e,
queste molecole sono convertite a loro volta in radicali liberi determinando un danno cumulativo.
Questo fenomeno è la conseguenza di una parziale riduzione della molecola di ossigeno, la quale
necessita di quattro elettroni per potersi ridurre ad acqua. Dalla riduzione dell’O2 da parte di un
singolo elettrone si produce il radicale superossido O2-; mentre dalla riduzione da parte di due
elettroni si forma perossido di idrogeno H2O2. La maggiore sorgente dello ione superossido (O2), che produce H2O2 tramite la reazione di dismutazione e le specie idrossiliche (OH) altamente
reattive tramite la reazione di Fenton, è la catena respiratoria, localizzata nella membrana interna
dei mitocondri (Maklashina & Ackrell 2004). Le osservazioni che, nei mitocondri isolati, gli elettroni
possano fuoriuscire dalla catena respiratoria sotto forma di radicali superossidi (O2-) ha portato
all’assunzione che la formazione di O2- è obbligatoria come sottoprodotto della respirazione
(Staniek & Nohl 2000). Durante il passaggio degli elettroni dal complesso I e II fino alla citocromo
ossidasi, si ha una maggiore produzione di ROS quando la velocità di trasporto degli elettroni diminuisce. La formazione dei ROS è tanto maggiore, durante la respirazione, quanto più è imponente
11
la limitazione imposta al flusso di elettroni da parte dell’H+ (Maklashina & Ackrell 2004). Nonostante tutto, il principale sito di produzione del superossido è l’ubichinone e la sua forma ridotta,
l’ubichinolo, che mostra proprietà antiossidanti. Ne deriva che l’instabilità genomica può essere
causata dall’esposizione ad elevati livelli di ROS come effetto del loro potenziale ossido riduttivo e
quindi mutagenico. Il danno al DNA è normalmente rimosso ad opera di sistemi di riparo, ma tale
processo può risultare inefficiente e innescare fenomeni di promozione tumorale. In questa fase
cellule sottoposte ad ulteriori flussi di ROS possono andare incontro a morte cellulare per apoptosi
o iniziare a proliferare rendendo il processo di tumorigenesi irreversibile.
1.3.4 Fattori clastogenici indotti da radiazione ed effetto bystander
Dati di radiobiologia accumulati nell’ultimo decennio in vitro e in vivo suggeriscono che a livello
cellulare, le radiazioni ionizzanti sono in grado di indurre effetti biologici rilevanti, comprese alterazioni cromosomiche e mutazioni geniche, anche sulla frazione di cellule non direttamente attraversate dall’energia radiante. Questo fenomeno conosciuto come effetto bystander si propaga
mediante comunicazioni gap-junction presenti fra cellula e cellula, e secrezione di fattori solubili.
Questi possono includere fattori simili a citochine extracellulari, che sono in grado di aumentare
i livelli di ROS nelle cellule non direttamente irradiate (Lorimore et al. 2003, Morgan et al. 2002,
2003, Sowa & Morgan 2004a). Tale effetto è stato riscontaro, in molte linee cellulari (di roditore,
umane, normali e tumorali), per diversi end-point biologici (scambi di cromatidi fratelli, aberrazioni
cromosomiche, micronuclei, apoptosi, morte clonogenica, trasformazioni oncogeniche e mutazioni), e con diversi approcci sperimentali (irragiamenti con micro fasci di RX o ioni, irragiamenti con
fasci larghi di ioni), in esperimenti con mascheramento di parte della popolazione esposta ed in
altri di trasferimento del terreno di coltura da una popolazione irradiata ad una non irradiata (Mothershill & Seymour 2001, Hall 2003, Morgan 2003, Prise et al. 2003, Morgan & Sowa 2007). Le
prime evidenze sperimentali del fenomeno risalgono agli anni ‘50, con l’osservazione che il midollo osseo di bambini sottoposti a radioterapia a livello della milza quale trattamento per la leucemia
granulocitica cronica, mostrava alterazioni correlabili a radiazioni pur in assenza di esposizione
diretta (Pearson et al. 1954). Studi fatti su modelli animali sperimentali dimostrano che l’iniezione
di plasma derivato da ratti irradiati in ratti non irradiati, determina una maggiore incidenza di
tumori mammari rispetto ad animali di controllo non irradiati a cui era stato iniettato il plasma di
esemplari non irradiati (Souto 1962). Inoltre l’aggiunta di plasma derivato da pazienti sottoposti a
radioterapia creava un aumento significativo della formazione di rotture cromosomiche e cromatidiche in linfociti non irradiati (Hallowell & Littlefield 1967). Prendono il nome di fattori clastogeni
tutti quei fattori in grado di determinare danni cromosomici. In questo ambito, le radiazioni ionizzanti sembrano avere attività clastogenica sia diretta sulle cellule irradiate che indiretta mediante
mezzi o cellule irradiate. I fattori clastogenici non sono quindi classificabili come fautori di effetto
bystander, ma vengono considerati per sostenere il ruolo dei fattori di secrezione e di rilascio negli
effetti delayed, ossia ritardati, associati all’esposizione a radiazione. Più di recente, attività clastogena è stata osservata a livello del plasma prelevato da sopravvissuti ai bombardamenti atomici o
da soggetti residenti nell’area di Chernobil (Emerit et al. 1995).
Il meccanismo d’azione dell’effetto bystander è quindi mediato dalla diffusione di uno o più fat-
12
tori dalle cellule irradiate alle cellule circostanti non irradiate, a livello delle quali questi si legano
a recettori citoplasmatici e di membrana. La diffusione di tali fattori avviene attraverso il mezzo di
coltura e tramite le giunzioni serrate o gap junction. La comunicazione attraverso queste giunzioni
è supportata dall’inibizione dell’effetto bystander a seguito del pretrattamento con inibitori delle
gap junction. La prevalenza dell’una o dell’altra modalità sembra dipendere dalla densità cellulare:
quando quest’ultima è abbastanza elevata da permettere lo stabilirsi di stretti contatti tra le cellule
il segnale viene diffuso attraverso questa via ma se al contrario la distanza tra una cellula e l’altra
è tale da comportare l’impossibilità di contatti diretti il segnale può diffondere solo attraverso il
mezzo. L’evento collegato al passaggio dell’energia radiante nella cellula che innesca la sintesi e
la liberazione dei fattori solubili non è noto, ma potenziali candidati sono la sintesi di radicali, la
formazione di elettroni idrati (per ionizzazione diretta dell’acqua da parte della radiazione) e la
formazione di rotture a singolo e doppio filamento a livello del DNA della cellula colpita (Ward
2002). La persistenza dell’effetto presuppone non tanto la liberazione di uno o più fattori stabili
nei liquidi biologici quanto la permanenza di un incrementato livello di sintesi e liberazione di tali
fattori da parte delle cellule originariamente esposte in modo diretto alle radiazioni ionizzanti
(Rothkamm & Lobrich 2003). Calcio, cAMP ma anche eicosanoidi o prodotti derivati dalla perossidazione lipidica (quali l’aldeide idrossi-2-nonenale) sono stati proposti come potenziali messaggeri
in grado di indurre cascate di segnali a livello delle cellule circostanti (Ballarini et al. 2002). Tra i
mediatori dell’effetto bystander ci sono i radiacali liberi e le specie molecolari reattive dell’ossigeno
e dell’azoto, in sintonia con alcune osservazioni circa l’abolizione dell’effetto a seguito del pretrattamento con agenti bloccanti (scavanger) di radicali liberi quali il DMSO. Un possibile mediatore
è l’ossido nitrico il quale svolge importanti ruoli fisiologici, è coinvolto ad esempio nella neurotrasmissione, nella risposta immunologica e nel controllo della pressione arteriosa. Questo può raggiungere nella cellula concentrazioni pari a 1-10 μM ed ha un’emivita inversamente proporzionale
alla propria concentrazione. Si ritiene inoltre che l’insieme degli effetti riferibili a un meccanismo
di tipo bystander sia probabilmente mediato anche da citochine. A favore di questa posizione sta
l’elevatissimo numero di azioni fisiologiche che coinvolgono queste molecole, il fatto che alcune
di esse possano essere prodotte da tipi cellulari molto diversi (quali linfociti, fagociti, fibroblasti,
cellule di derivazione epiteliale) e la ridondanza dello spettro d’azione biologico. I candidati più
promettenti sono costituiti dall’interleuchina 8 (IL-8) (Narayanan et al. 1997) e dal Tumor Necrosis
Factor α (TNF-α). La sintesi e la liberazione di citochine, mediatori fondamentali della comunicazione intercellulare, ha inoltre luogo come conseguenza dell’azione di stimoli anche molto differenti
tra loro, di natura chimica, fisica e biologica.
1.3.5 L’influenza dell’organizzazione strutturale della cromatina sulla produzione di danni al DNA
I recenti sviluppi nel campo dell’epigenetica riguardo l’organizzazione strutturale del genoma eucariotico hanno aperto nuove prospettive di ricerca nel settore della radiobiologia molecolare
e cellulare. La cromatina rappresenta un livello di efficiente organizzazione strutturale del DNA
all’interno della cellula ed è composta da DNA complessato con proteine. Il nucleosoma è l’unità
fondamentale della cromatina ed è costituito da circa 200 coppie di basi di DNA avvolte su un
13
nucleo interno composto da un ottamero di proteine basiche, gli istoni H2A, H2B, H3 e H4; un
altro istone, H1, si trova in posizione esterna rispetto all’ottamero ed è presente in una quantità
che corrisponde alla metà di quella degli istoni del nucleosoma. Modificazioni nella struttura della
cromatina regolano processi come la replicazione del DNA, la trascrizione e la riparazione tramite il
controllo dell’accessibilità di molecole e complessi multimerici al loro substrato; queste interazioni,
a loro volta, inducono un rimodellamento e un’alterazione dello stato condensato che può estendersi a molte megabasi di distanza dal sito dell’interazione stessa (Escargueil et al. 2008).
Vi sono numerose evidenze che sottolineano l’importanza dell’organizzazione strutturale della
cromatina nella produzione e distribuzione del danno radio-indotto al DNA cellulare. Esperimenti
condotti su sistemi modello, quali polinucleosomi irradiati in vitro, hanno mostrato che le doppie
rotture del DNA generate da RI, non sono uniformemente distribuite lungo la molecola ma sono
preferibilmente localizzate nelle regioni internucleosomiali, mentre le regioni intranucleosomiali
risultano più resistenti. Inoltre il DNA isolato da polinucleosomi e successivamente irradiato è circa
quattro volte più sensibile allo stesso tipo di danno. Questa diversa radiosensibilità è determinata
dall’associazione del DNA con la componente proteica della cromatina. L’analisi della produzione
e riparazione di singole rotture del DNA in una linea cellulare eritroleucemica umana, che può
essere indotta a differenziare in vitro, ha mostrato che la cinetica di riparazione del danno è significativamente più lenta in cellule differenziate. Questo comportamento può essere interpretato
come una minore accessibilità del genoma agli enzimi di riparo, dovuta alla presenza di regioni
maggiormente strutturate nella cromatina di cellule differenziate. Sembra perciò evidente che le
regioni più aperte del genoma presentano, da un lato, una maggiore radiosensibilità e, dall’altro,
una più rapida riparazione. Pertanto è necessario tener presente che l’organizzazione del genoma
e l’impacchettamento della cromatina sono in grado di influenzare sia l’ammontare del danno
indotto che l’entità della sua riparazione.
L’influenza dell’organizzazione della cromatina sulla produzione e distribuzione di danni al DNA
è un tema che suscita particolare interesse negli studi di tossicologia. Le modificazioni maggiormente conosciute e che regolano la struttura della cromatina in risposta a stimoli ambientali sono
perlopiù modificazioni covalenti post trascrizionali come l’acetilazione e la metilazione della lisina,
la metilazione dell’arginina, la fosforilazione e l’ubiquitinazione. Queste modificazioni assieme
all’ausilio dei complessi enzimatici di rimodellamento della cromatina come SWI/SNF contribuiscono a rimodellare la struttura della cromatina rendendola più accessibile sia ai fattori di trascrizione
che agli enzimi di riparo del DNA (Kouzarides 2007). In seguito ad esposizione delle cellule ad
agenti mutageni le possibili modificazioni della cromatina possono essere riconducibili a due tipi
principali. In seguito all’insulto della molecola di DNA cambiamenti strutturali si verificano immediatamente a livello del sito danneggiato mediante l’individuazione della lesione e l’assemblaggio
degli enzimi di riparazione. Una risposta più tardiva invece include la formazione di aree di eu ed
eterocromatina che consentono l’espressione di un sottoinsieme di geni legati al danno al DNA.
Questi geni regolano la progressione del ciclo cellulare e l’apoptosi in funzione della risposta
all’insulto radioattivo. In risposta al danneggiamento del DNA l’acetilazione degli istoni è la modificazione istonica maggiormente studiata. Alla base di questa modificazione ci sono le acetiltransferasi istoniche (HAT) e le deacetilasi istoniche (HDAC), questi due complessi proteici svolgono
14
la funzione di mantenere un adeguato grado di acetilazione. Le modificazioni della cromatina e
l’acetilazione giocano dunque un ruolo chiave nel riparare il DNA o nell'induzione dell'apoptosi.
Ad esempio la fosforilazione della serina 139 carbossi-terminale dell’istone H2AX (variante istonica di H2A nei mammiferi) scatena una serie di eventi a cascata che consentono di localizzare il sito
di DNA danneggiato ed iniziarne il riparo (Huang et al. 2006). H2AX, a seconda del tipo cellulare,
è presente nella cromatina a livelli che variano tra il 2 e il 25% sul totale di H2A e può essere fosforilato da tre diversi tipi di chinasi: ATM, DNA-PK e ATR. La funzione principale di H2AX sembra
essere quella di reclutare e trattenere i fattori proteici di riparazione nel sito di danno. Inoltre dati
inerenti al trattamento di cellule con basse dosi di radiazioni ionizzanti che inducono l’aumento
della proteina ATM (Ataxia Telangiectasia-Mutated) nel nucleo suggeriscono che anche questo
evento sia strettamente correlato alla modificazione della cromatina. 1.4 Attivazione dei meccanismi cellulari in risposta all’insulto radioattivo
In seguito ad insulto radioattivo le cellule possono riparare il danno o tollerarlo e continuare a replicarsi, oppure in risposta a livelli critici di danno del DNA possono andare incontro ad apoptosi.
Le risposte cellulari al danno del DNA includono quindi diversi meccanismi di riparo del DNA, la
gestione dei checkpoints del ciclo cellulare e l’avvio del macchinario apoptotico. Gli ultimi due
eventi si sovrappongono in maniera significativa e utilizzano, almeno in parte, le stesse molecolesensore nel riconoscimento del danno e nella trasduzione del segnale.
1.4.1 Trasduzione del segnale dopo irragiamento e blocco proliferativo in cellule
ciclanti
Le cellule possiedono appropriati meccanismi di controllo i quali consentono l’arresto del ciclo
cellulare ogni qualvolta si manifesta un danno, sia di natura esogena che endogena, in grado di
alterare la corretta trasmissione del patrimonio genetico alla progenie. Questi meccanismi sentinella sono definiti checkpoints ovvero punti di controllo dell’integrità cellulare. Il blocco del ciclo
cellulare nei vari checkpoints consente alla cellula di individuare il danno, trasdurre il segnale e
mobilitare le proteine effettrici. In questo modo la cellula attiva i meccanismi di rimozione della
lesione, impedendo che questa sia convertita in mutazione; in alternativa se il danno non è riparabile, questa innesca processi apoptotici che conducono a morte cellulare. In seguito ad un danno
al DNA, quale un insulto radioattivo, si susseguono una rete di processi noti come risposta al danno (DNA Damage Response o DDR), un meccanismo universale che coinvolge proteine altamente
conservate dal lievito fino all’uomo. Questa si svolge grazie all’azione regolata di sensori del danno, trasduttori del segnale ed effettori (le molecole effettrici includono: enzimi di riparazione del
DNA, molecole che conducono all’arresto del ciclo cellulare o all’apoptosi) (Figura 4). Il sistema di
controllo che regola la progressione del ciclo cellulare svolge diversi compiti garantendo che tutti
i processi associati con le diverse fasi siano portati a termine al momento giusto e nella sequenza
corretta e assicurando che ogni fase del ciclo sia stata completata correttamente prima di poter
iniziare la successiva.
15
Figura 4 - Organizzazione concettuale della trasduzione del segnale in risposta al danno al DNA (Niida
& Nakanishi 2006).
Nelle cellule sono presenti tre momenti principali a livello dei quali può essere indotto l’arresto
temporaneo del ciclo cellulare, tutti e tre sono finemente regolati dai checkpoints del ciclo (Figura
5):
• il punto di controllo G1, detto punto di restrizione, che non consente alla cellula di proseguire nella fase S;
• il punto di controllo G2, che impedisce alla cellula l’ingresso in fase M (mitosi);
• il punto di controllo dell’assemblaggio del fuso, tra la metafase e l’anafase della mitosi.
Figura 5 - Punti di controllo del ciclo cellulare (www.mun.ca/biology/desmid/brian/BIOL2060/BIOL2060-19/CB19.html).
16
In seguito ad esposizione a RI le cellule possono rallentare la loro progressione nel ciclo cellulare
e fermarsi preferenzialmente in G1 o G2. Queste interruzioni del ciclo consentono alla cellula di
attivare i processi di riparo del DNA, limitando il rischio di avere in fase S o M uno stampo alterato
che possa essere trasmesso alle generazioni successive. Il primo passaggio nell’attività di controllo
dei checkpoints del ciclo cellulare in risposta al danno al DNA è il riconoscimento del danno stesso
(Niida & Nakanishi 2006). Le principali molecole di segnalazione di rotture a doppia elica (tipiche
lesione indotte dalle radiazioni ionizzanti) appartengono alla famiglia di proteinchinasi correlate
alla fosfatidilinositolo-3 chinasi (PI3K) e sono: la proteina mutata ataxia telangectasia (Ataxia Telangectasia Mutated, ATM), la proteina correlata ataxia telangectasia (Ataxia Telangectasia Related, ATR) e la subunità catalitica della proteinchinasi DNA-dipendente (DNA-dependent Protein
Kinase catalytic subunit, DNA-PKcs). ATM, in risposta a DSB causate da radiazioni ionizzanti o
da composti radiomimetici, si autofosforila a livello della serina in posizione 1981 e passa dalla
forma omodimerica inattiva a quella monomerica attiva. Il riconoscimento del complesso MRN
(Mre11-Rad50-Nbs1) al sito della doppia rottura stimola ATM inducendone un cambiamento conformazionale, che ne aumenta l’affinità per ulteriori substrati a valle coinvolti in numerosi processi
cellulari.
Tra questi substrati, che vengono fosforilati dall’attività chinasica di ATM vi sono p53, Chk1
(Checkpoint Kinase 1), Chk2 (Checkpoint Kinase 2), l’istone H2AX, che a loro volta attivano altre
proteine che provocano l’arresto del ciclo cellulare e facilitano la riparazione del DNA. ATR è una
proteinchinasi che viene richiamata sul sito della rottura tramite RPA (Replication Protein A) ed
attivata mediante interazione con i complessi Rad17-RFC e Rad9-Rad1-Hus1. ATR attiva è in grado
di fosforilare substrati come Chk1 e Chk2, che inducono l’arresto del ciclo cellulare.
La proteinchinasi DNA-dipendente (DNA-PK) è un complesso trimerico composto dalla subunità
catalitica (DNA-PKcs) e dall’eterodimero Ku. La subunità catalitica, critica per la riparazione del
DNA tramite il meccanismo noto come riparazione per congiunzione delle estremità non omologhe (Non Homologous End Joining, NHEJ), è in grado di fosforilare diversi substrati comuni ad
ATM, come l’istone H2AX nel dominio di DNA vicino alla doppia rottura (Alberts et al. 2004).
Il punto di controllo in G2 dipende da un meccanismo simile a quello che ritarda l’ingresso in mitosi quando avviene una replicazione incompleta del DNA. Quando le cellule sono esposte a RI, le
molecole sensore di danno al DNA attivano proteinchinasi trasduttori di segnale che fosforilano ed
inattivano la fosfatasi cdc25. Questo enzima normalmente attiva il complesso M-Cdk (complesso
ciclina-chinasi ciclina dipendente di attivazione della fase M) tramite rimozione di gruppi fosfato;
quindi, l’inattivazione di cdc25 inibisce a sua volta il complesso M-Cdk, impedendo l’ingresso della
cellula in mitosi. Quando il danno è stato riparato, il segnale di inibizione della progressione del
ciclo cellulare viene rimosso e il ciclo riprende.
Il punto di controllo in G1 impedisce la progressione nella fase S inibendo i complessi ciclina G1/SCdk e ciclina S-Cdk. Il DNA danneggiato genera segnali che attivano la proteinchinasi ATM, che
fosforila p53 sulla serina 15 (Banin et al. 1998; Canman et al. 1998) attivandola e determinando
la sua separazione dalla proteina Mdm2 con cui è complessata (Mdm2 ha la funzione di ubiquitina ligasi ed indirizza p53 ai proteasomi, dove viene degradata; questo meccanismo consente di
mantenere bassi i livelli citoplasmatici di p53 in mancanza di danni al DNA). La proteina p53 attiva
17
trasloca nel nucleo, dove può svolgere la sua attività trascrizionale attivando o inibendo diversi
geni bersaglio coinvolti nell’arresto del ciclo cellulare e nei meccanismi di riparazione. Questo porta ad una forma ipofosforilata della proteina pRB (proteina del retinoblastoma), che non essendo
in grado di rilasciare il fattore di trascrizione E2F, inibisce la trascrizione di geni i cui prodotti sono
necessari per la transizione G1-S. Se il danno al DNA non viene riparato p53 attiva geni che inducono la morte cellulare tramite apoptosi (Figura 6).
Figura 6 - Pathway di segnalazione della risposta al danno al DNA (DDR, DNA-Damage Response; Dai & Grant 2010).
La capacità di indurre l’arresto del ciclo e/o la morte cellulare ha valso alla proteina p53 l’appellativo di “guardiano del genoma”, in quanto impedisce il propagarsi di cloni di cellule mutate (Alberts
et al. 2004).
I danni al DNA prodotti dalle radiazioni ionizzanti possono produrre degli effetti permanenti a
livello cellulare. I cambiamenti permanenti nella sequenza del DNA possono interessare una o
poche basi, e quindi un solo gene, o tratti estesi dei cromosomi, e quindi più geni, visibili citologicamente come aberrazioni cromosomiche (aneuploidie, delezioni, traslocazioni). Le aberrazioni
cromosomiche sono spesso il risultato del persistere di rotture della doppia elica del DNA. Gli
effetti biologici di cambiamenti permanenti nella sequenza del DNA delle cellule somatiche sono
principalmente tumori ed invecchiamento precoce, mentre cambiamenti del genoma in cellule
della linea germinale possono non avere alcuna conseguenza per l’individuo, ma hanno effetti
anche gravi se l’informazione genetica alterata dovesse venir trasmessa alla progenie (Migliore
2004). Quando il danno non è riparabile, in alternativa ai meccanismi di rimozione della lesione,
la cellula attiva meccanismi apoptotici che la conducono alla morte.
18
1.4.2 L’apoptosi
La morte cellulare programmata (Programmed Cell Death, PCD) o apoptosi è un processo fisiologico che si verifica negli organismi multicellulari e rappresenta il meccanismo chiave mediante la
quale viene mantenuta inalterata l’omeostasi cellulare contrastando la crescita tumorale (Hanahan
& Weinberg 2000). Agenti mutageni come le radiazioni ionizzanti, che provocano danni a carico
del DNA, inducono l’arresto del ciclo cellulare, l’attivazione dei meccanismi di riparazione del DNA
e, in caso di danni irreparabili, l’induzione dell’apoptosi (Yoshida & Miki 2010). Una volta attivato il macchinario apoptotico vengono innescati una serie di eventi a cascata ben distinguibili sia
morfologicamente che biochimicamente della durata di alcune ore fino alla completa rimozione
dei corpi apoptotici entro 24 dall’induzione, senza però provocare una risposta infiammatoria a
differenza di quanto si verifica nella morte cellulare mediante necrosi.
Esistono due principali pathway apoptotici: la via estrinseca o mediata dai recettori di morte
(Ashkenazi & Dixit 1998) e la via intrinseca o mitocondriale (Green & Reed 1998).
Un ruolo centrale nella risposta al danno al DNA e nel processo apoptotico è svolto dal gene oncosoppressore p53, che è in grado di attivare sia il pathway estrinseco che intrinseco (Lowe et al.
2004). In risposta al danno al DNA, la chinasi ATM fosforila rapidamente p53 a livello della serina
15, mentre la chinasi Chk2, che agisce a valle di ATM, la fosforila a livello della serina 20. Questi
due siti fosforilati nella regione N-terminale determinano la stabilizzazione di p53, che, non essendo più sottoposta a degradazione mediante proteasoma (Appella & Anderson 2001), è in grado di
svolgere la sua attività di repressore o attivatore trascrizionale. Un esempio, è dato dalla capacità
di p53 di attivare diversi geni pro-apoptotici, che sono cruciali per l’esecuzione della via intrinseca,
quali Bax, Noxa, Puma e Apaf-1 (Nakano & Vousden 2001). Inoltre, p53 reprime i geni che codificano proteine repressori dell’apoptosi, che neutralizzano l’azione pro-apoptotica di Puma e Bad
(Li et al. 2008). p53 può anche promuovere il rilascio di citocromo C attraverso l’espressione del
gene oncosoppressore OKL38, il cui prodotto si localizza nella membrana mitocondriale, aumentandone la permeabilità e conseguentemente l’uscita dallo spazio intermembrana del citocromo C
stesso. Quest'ultimo rilasciato si lega nel citoplasma ad Apaf-1 ed alla caspasi iniziatrice 9 (apoptosoma), che si attiva determinando a sua volta l’attivazione delle caspasi esecutrici. È stata anche
dimostrata la capacità di p53 di interagire con le proteine anti-apoptotiche bcl-2, bcl-XL e mcl-1 a
livello della membrana mitocondriale.
Figura 7 – Grafico della differente radiosensibilità dei linfociti del sangue periferico. Delle
cellule natural killer (più radioresistenti), ai linfociti T CD4, ai monociti/ macrofagi (MAC), ai
linfociti T CD8 e infine ai linfociti B (più radiosensibili) (Immagine modificata da Harrington
et al. 1997).
19
Quando queste proteine legano p53, viene compromessa la loro capacità di stabilizzare la membrana mitocondriale, con successiva variazione della permeabilità mitocondriale e rilascio di citocromo C (Wolff et al. 2008).
È importante sottolineare che i differenti tipi cellulari sono più o meno sensibili agli effetti indotti
dalle radiazioni ionizzanti. Ad esempio in Figura 7 è possibile vedere che in termini di radio resistenza le natural killer siano più resistenti dei linfociti T CD4, seguono i monociti/macrofagi (MAC),
i linfociti T CD8 e per ultimi i linfociti B.
1.4.3 Meccanismi di riparo del DNA
Il DNA è l’elemento cellulare maggiormente radiosensibile, per questo motivo è dotato di meccanismi di riparo finemente regolati in grado di ripristinare la corretta sequenza del DNA senza
introdurre errori (error-free). L’ampia varietà e la fine regolazione assicurano la riparazione di
tutte le lesioni che si possono originare sulla molecola di DNA. Altri sistemi, definiti meccanismi
di tolleranza, non rimuovono il danno ma assicurano la sopravvivenza cellulare anche se possono
determinare errori (error-prone).
I principali sistemi cellulari di riparo del DNA comprendono:
• Il Riparo diretto del danno ad opera di enzimi quali ad esempio la O6-MetilGuaninaMetilTransferasi (MGMT) che rimuove specificamente gruppi metilici dalla posizione O6
della guanina. Per questo tipo di riparo non è richiesto nessun filamento di DNA come
stampo.
• I meccanismi di riparo per escissione, che rimuovono il nucleotide danneggiato sostituendolo con un nucleotide intatto complementare a quello presente nel DNA non
danneggiato. I meccanismi di riparo per escissione, che riguardano i danni al singolo
filamento di DNA sono a loro volta distinti in (Figura 8):
AA Il Base Excision Repair (BER) o riparo per escissione di base: è un processo multifase
che ripara il danno che coinvolge lesioni al DNA non ingombranti, causate da ossidazione, alchilazione, idrolisi, oppure deaminazione. Queste modificazioni possono
verificarsi a partire da processi endogeni legati al normale metabolismo cellulare o in
seguito ad esposizione a cancerogeni ambientali o farmaci chemioterapici. Il meccanismo BER possiede due vie di segnalazione; entrambe queste vie iniziano con l’attivazione di una N-MetilPurina DNA-Glicosilasi (MPG) che riconosce la base alterata
e rompe il legame N-glicosidico tra la base danneggiata e lo zucchero fosfato della
struttura del DNA. Questo taglio genera un sito apurinico/apirimidinico nel DNA ed
una endonucleasi specifica elimina la base azotata, lasciando il fosfato e il deossiribosio. Una liasi elimina il fosfato e lo zucchero in modo tale che una DNA-polimerasi
leghi il nuovo nucleotide al 3’finale del taglio e la ligasi lo incorpori nel filamento. Il
BER quindi può riparare la deaminazione della citosina in uracile o la trasformazione della guanina in 8-oxo-guanina. La riparazione di una base danneggiata con un
singolo nuovo nucleotide si riferisce all’attività del BER short patch che rappresenta
20
approssimativamente l’80-90 % di tutta l’attività del sistema di riparo. Il percorso
alternativo del BER, definito long patch, è utilizzato quando è presente nel DNA una
base modificata che è resistente all’attività liasica della DNA-polimerasi (Mol et al.
1999). Questo secondo tipo di sistema ripara dai 2 ai 10 nucleotidi compresa la base
danneggiata e richiede molti degli stessi fattori utilizzati nello short patch.
BB Il Nucleotide Excision Repair (NER) o riparazione per escissione di nucleotidi, che
ripara un danno che coinvolge filamenti lunghi da 2 a 30 nucleotidi. Questi includono danni che provocano una notevole distorsione dell’elica, quali i dimeri di timina
causati da luce UV, come pure le rotture di un singolo filamento. Il processo di riparo
NER richiede l’azione di più di 30 proteine che includono il riconoscimento del danno,
l’apertura locale della doppia elica del DNA vicino alla lesione, una doppia incisione
della doppia elica con il danno, la riparazione delle lacune e la “ricucitura” della doppia elica di DNA.
CC Il MisMatch Repair (MMR), che corregge errori di replicazione e di ricombinazione
genetica o loops di inserzioni/delezioni (IDL), che determinano la formazione di nucleotidi male appaiati in seguito alla replicazione del DNA. Ulteriori substrati del MMR
sono le anse extra-elica, che si formano in regioni ricche di nucleotidi ripetuti per
scivolamento del filamento neosintetizzato o di quello che funge da stampo. Per ottenere una riparazione fedele del DNA, è necessario che il MMR riconosca e processi
il filamento di nuova sintesi contenente l’errore o le anse extra-elica e lasci intatto il
filamento parentale. In Escherichia Coli il riconoscimento delle basi appaiate erroneamente viene eseguito dalla proteina MutS in forma omodimerica. Il legame di MutS al
substrato è stimolato in maniera ATP-dipendente da un secondo omodimero, MutL,
la cui funzione è probabilmente quella di accoppiare il riconoscimento del danno
da parte di MutS con la tappa successiva in cui interviene l’endonucleasi MutH. Il
riconoscimento del filamento di nuova sintesi da quello parentale si basa sullo stato
di metilazione; infatti, l’enzima adenina metilasi inserisce un gruppo metilico in posizione N6 dell’adenina presente nelle sequenze 5’-GATC-3’ neosintetizzate dopo
un intervallo di tempo breve, ma sufficiente per consentire al complesso riparativo
di riconoscere ed incidere il filamento contenente l’errore. Poiché queste sequenze
di quattro basi sono presenti approssimativamente ogni 250 coppie di basi, una è
sempre presente nei pressi dell’errore. A partire dal punto di incisione, che si trova di
fronte alla sequenza 5’-GATC-3’ metilata e a monte dell’errore, l’elica di DNA viene
srotolata dalla DNA elicasi II fino al punto in cui è situato il mismatch e degradata
da esonucleasi 5’-3’ a singolo filamento. Infine, l’oloenzima DNA polimerasi III, con
l’aiuto della proteina legante il singolo filamento (Single Strand Binding Protein), riempie gli spazi vuoti e la DNA ligasi salda la rimanente rottura a singolo filamento. La
presenza di proteine omologhe in Saccharomyces Cerevisiae e in cellule umane indica
che il MMR è un processo ampiamente conservato nel corso dell’evoluzione (Buerme-
21
yer et al. 1999). Tuttavia, il meccanismo di riparazione degli appaiamenti errati negli
eucarioti non è ancora ben compreso come quello in Escherichia Coli, in quanto il
gene che codifica la proteina di riconoscimento del filamento contenete l’errore non
è stato trovato; quindi gli eucarioti sembrano non utilizzare la metilazione del DNA
come meccanismo di discriminazione tra filamento parentale e di nuova sintesi, ma
tale passaggio è ancora oggetto di studi (Herendeen & Kelly 1996).
Figura 8 – Rappresentazione schematica dell’induzione dei meccanismi di riparo in seguito a danno al DNA (Hoeijmakers
2001).
Un tipo particolarmente pericoloso di danno al DNA per le cellule in divisione è la rottura di entrambi i filamenti della doppia elica. Esistono due meccanismi capaci di riparare questo danno
(Delacôte & Bernard 2008):
• Non-Homologous End-Joining (NHEJ): riunisce le due estremità della rottura in assenza di una sequenza che possa fungere da stampo. Tuttavia può esserci una perdita di sequenza durante questo processo e quindi tale riparo può essere mutagenico. Il NHEJ può
verificarsi a tutti gli stadi del ciclo cellulare, ma nelle cellule di mammifero è il principale
meccanismo fino a quando la replicazione del DNA non rende possibile la riparazione
per ricombinazione con impiego del cromatide fratello come stampo.
• Homologous Ricombination (HR): si attiva in maniera predominante durante le fasi
del ciclo cellulare in cui il DNA è in replicazione, oppure non appena ha portato a termine la propria duplicazione. La riparazione per ricombinazione richiede la presenza di una
sequenza identica che possa essere usata come stampo per la riparazione di una rottura. Il cromosoma danneggiato è riparato con l’impiego, come stampo, di un cromatide
fratello neosintetizzato. Il macchinario enzimatico responsabile per questo processo è
praticamente identico al macchinario responsabile del crossingover nelle cellule germinali durante la meiosi.
22
2. IL GENE PIG-A
2.1 Impiego di geni reporter per la detection di mutazioni somatiche
indotte da agenti mutageni
Le mutazioni rappresentano un inevitabile rischio correlato alla duplicazione cellulare. Sebbene
queste siano la chiave dell’evoluzione biologica, l’accumulo di mutazioni in cellule somatiche è
responsabile dello sviluppo del cancro. Per questo motivo la misura della frequenza e del rate di
mutazione è in grado di fornire importanti informazioni sul rischio di oncogenesi e sui rischi di
esposizioni ad agenti mutageni. La frequenza di mutazione (f) è definita come la frazione di cellule
portatrici di una data mutazione genica, mentre il rate di mutazione (μ) è la probabilità di una
nuova mutazione espressa per divisione cellulare. A condizione che la mutazione non interferisca
con la crescita i due parametri sono correlati da una semplice relazione f = μ x d, dove d indica
il numero di divisioni cellulari (Peruzzi et al. 2010). Per misurare f e μ sono state messe a punto
metodiche che utilizzano le peculiari caratteristiche di geni noti come geni reporter o sentinella.
Un gene sentinella ideale per la detection di mutazioni somatiche deve avere tre requisiti fondamentali:
• l’effetto della mutazione deve essere facilmente detectabile;
• la mutazione non deve compromettere la vitalità cellulare;
• la mutazione non deve interferire nella crescita e nella divisione della cellula.
Un gene reporter ampiamente utilizzato è il locus HPRT (hypoxanthine–guanine phosphoribosyl
transferase). La detection si basa sul concetto che solo le cellule mutate a livello del locus HPRT
sono in grado di sopravvivere alla somministrazione della 6-tioguanina (Albertini et al. 1982). Questo gene come altri geni reporter presenta delle importanti limitazioni, in particolare il saggio HPRT
è molto laborioso e basandosi sull’esclusiva conta al microscopio dei cloni sopravvissuti è facile che
l’operatore possa compiere errori di conta dei cloni. Esistono delle varianti citometriche, ma anche
queste risultano molto laboriose per l’operatore poiché richiedono la denaturazione del DNA e
l’uso di bromodessosiuridina (Katova & Grawéb 2002). Il gene PIG-A (fosfatidilinositolo-glicano
gruppo A) è un gene housekeeping localizzato nel braccio corto del cromosoma X. Il prodotto di
questo gene, lungo circa 17 Kb, gioca un ruolo critico nella biosintesi del sistema di ancoraggio
del glicosilfosfatidilinositolo (GPI) che lega molte proteine alla superficie cellulare (Iida et al. 1994).
La distruzione di questo gene determina la mancata espressione di tali proteine sulla superficie
cellulare, caratteristica fenotipica che può essere sfruttata per l’analisi citofluorimetrica. Mutazioni
somatiche del gene PIG-A sono inoltre associate all’Emoglobinuria Parossistica Notturna (EPN),
(Norris et al. 1994, Risitano et al. 2008).
2.2 Il gene sentinella PIG-A
L’Emoglobinuria Parossistica Notturna è una malattia ematologica acquisita estremamente rara,
l’età media dei soggetti in cui viene diagnosticata tale patologia si aggira intorno ai 35-40 anni;
23
rari casi sono stati descritti nei bambini e nei soggetti con età superiore ai 50 anni. Dal punto di
vista clinico l’EPN può essere definita un’anemia emolitica cronica con esacerbazioni notturne
associate a neutropenia e/o trombocitopenia (Rotoli et al. 1989, Hillmen et al. 1995). Sebbene
sia frequente il coinvolgimento di tutte le cellule del lineage mieloide la manifestazione maggiore è rappresentata dall’emolisi intravascolare dei globuli rossi che diventano più sensibili alla lisi
mediata dal complemento. Caratteristica della patologia è la proliferazione clonale di una cellula
staminale emopoietica, che presenta una mutazione somatica nel gene PIG-A (Takeda et al. 1993,
Bessler et al. 1994) da cui deriva l’assenza sulla membrana cellulare di tutte le molecole legate
attraverso l’ancora glicofosfatidilinositolica (Figura 9).
Figura 9 – Rappresentazione schematica della mutazione che conferisce il fenotipo EPN (Young et al. 2000).
Tale gene localizzato nel cromosoma X (p22.1), è presente funzionalmente in singola copia in
ogni cellula (gli uomini sono emizigoti e le donne, in seguito al fenomeno dell’inattivazione di un
cromosoma X o “lyonizzazione” hanno un solo cromosoma X attivo); ciò spiega perché una sola
mutazione determina l’acquisizione del difetto.
In condizioni normali il primo step per la biosintesi del glicosilfosfatidilinositolo, che ha luogo nel
versante citoplasmatico del reticolo endoplasmatico cellulare, trasferisce l’N-acetil-glucosammina
ad un fosfolipide di membrana chiamato fosfatidilinositolo (PI). Dopo ulteriore aggiunta di mo24
nosaccaridi (soprattutto residui di mannosio) al PI, il GPI appena formato viene rilasciato verso il
lume dell’organello. In questa sede, la sua coda idrofilica, formata da fosfoetanolammina, si lega
covalentemente all’estremità carbossilica della proteina. Quest’ultima viene trasferita alla superfice cellulare e rimane legata ad essa mediante la struttura GPI.
Nell’EPN si verifica un blocco di questa via metabolica: tale blocco è causato da una grave deficienza dell’enzima acetilglucosammiltransferasi, che catalizza la prima reazione (infatti una subunità di
esso è codificata dal gene PIG-A). Numerose sono le mutazioni che possono causare l’alterazione:
piccole delezioni, inserzioni, combinazioni di delezioni ed inserzioni all’interno della sequenza
codificante del gene, tutti difetti che causano un frameshift, ovvero uno slittamento nella lettura
del messaggio codificato dal gene; ne consegue l’inserimento prematuro di un codone stop, che
anticipa la fine della traduzione dell’informazione genetica con produzione di una proteina solitamente non funzionante (Bessler et al. 1994).
Per tale motivo sulle cellule EPN risultano ridotti o assenti diverse molecole che sono legate alla
membrana mediante la struttura GPI. Tali molecole esercitano, nelle cellule normali, un ruolo di
protezione dalla lisi del complemento (Wilcox et al. 1991).
2.3 Proteine di membrana ancorate al glucosil fosfatidilinositolo
(GPI)
Molte proteine delle cellule eucariotiche sono ancorate alla membrana attraverso un legame
covalente al glicosil-fosfatidilinositolo (Figura 10). Tali proteine non hanno né dominio transmembrana né code citoplasmatiche e sono, pertanto, localizzate esclusivamente sul lato
extra-cellulare della membrana plasmatica. Le proteine ancorate al GPI costituiscono una famiglia di molecole diverse fra loro che includono enzimi associati alla membrana, molecole di
adesione, antigeni di attivazione, markers di differenziazione e altre glicoproteine (Tabella 1).
Tutte queste proteine vengono inizialmente sintetizzate con un’ancora transmembrana, ma in
seguito alla traslocazione attraverso la membrana del reticolo endoplasmatico, l’ecto-domain della
proteina viene clivato e legato covalentemente all’ancora GPI preformata mediante l’enzima transamidasi. Il motivo per il quale molte proteine vengono dotate di ancora GPI rimane ancora poco
chiaro infatti per molte di esse non conferisce alcuna caratteristica funzionale. In generale questo
evento rappresenta:
• un forte apical targeting signal nelle cellule epiteliali polarizzate;
• le proteine ancorate al GPI non sono raggruppate in clusters e avvolte da clatrina ma
vengono invece concentrate in domini lipidici specializzati;
• le GPI-anchored proteins possono agire come antigeni di attivazione nel sistema immunitario;
• quando l’ancora GPI viene clivata può essere generato un secondo messaggero per il
segnale di trasduzione;
25
• la GPI-anchor può modulare la presentazione dell’antigene attraverso molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) ( Low 1989, Cross 1990).
Figura 10 - Rappresentazione schematica della struttura
dell’ ancora GPI (www.sigmaaldrich.com/life-science/proteomics/post-translationalanalysis/glycosylation/structuressymbols/gpi-anchor-structure.html).
Ciò che è fondamentale è che nelle cellule EPN risultano ridotte o addirittura assenti specifiche
molecole legate alla membrana mediante la struttura GPI, quali il DAF (Decay Accelerating Factor
o CD55, 70 kD), l’HFR (Homologous Restriction Factor, 80 kD) e il MIRL (Membrane Inhibitor of
Reactive Lysis o CD59). Tali molecole esercitano, nelle cellule normali, un ruolo di protezione dalla
lisi del complemento (Wilcox et al. 1991). Le cellule EPN inoltre, in dipendenza dal lineage cui
appartengono sono deficitarie di CD48 (linfociti), CD66b e CD67 (granulociti), CD14 (monociti),
CD16 (neutrofili e linfociti NK), CD24 (cellule B e sui granulociti) e CDw52 (linfociti, monociti e
macrofagi). Questa caratteristica può venire facilmente sfruttata in citofluorimetria consentendo
di avere un’accurata stima della frequenza di cellule mutate e mutanti.
26
ANTIGENI
FUNZIONE
DISTRIBUZIONE CELLULARE
CD14
Recettore endotossine
Forte espressione su monociti;
debolmente espressi su granulociti
CD16
Recettore lipopolisaccaride.
Bassa affinità recettore Fc per
IgG immune complexes FcγRIII
Neutrofili (legati al GPI mediante
polimorfismi)
CD24
Sconosciuta
Cellule B e granulociti
CD28
Possibile receptor/ligand binding
con CD2
Linfociti e monociti
CD52 (CAMPATH)
Sconosciuta
Linfociti e monociti
CD55 (DAF)
CD58 (LFA-3)
Regolazione del complemento;
Limita la formazione di C3’convertasi
Tutte le cellule ematopoietiche
Adesione, segnale costimolatorio nelle risposte immuni
Tutte le cellule ematopoietiche
Inibisce la formazione di complessi attaccati alla membrana
e protegge la cellula dalla lisi
mediata dal complemento
Tutte le cellule ematopoietiche;
debolmente espresse su cellule
non ematopoietiche
CD66b, CD66c, CD66e
Adesione omofilica/eterofilica;
attivazione cellulare
Granulociti, cellule epiteliali
CD73 (ecto-5-nucleotidasi)
Immunoregolatoria
Subset di cellule B e T
CD87 (uPAR)
Conversione del plasminogeno
in plasmina
Cellule T, NK, monociti, neutrofili e cellule non ematopoietiche
CD90 (Thy-1)
Sconosciuta
Subset di cellule staminali, subset di cellule T
CD108 (JMH blood group Antigen)
Possibile ruolo nell’adesione
Eritrociti, bassi livelli su linfociti
CD109
Sconosciuta
Cellule T attivate, piastrine, megacariociti e subset di progenitori di cellule staminali CD34+
Ecto-enzyme; ADP ribose hydrase
cyclase
Cellule stromali del midollo
osseo, monociti e granulociti
CD59 (membrane inhibitor of
reactive lysis: MIRL)
CD157
Tabella 1 - Espressione delle proteine ancorate al GPI su cellule ematopoietiche. (Tabella modificata da Richards et al. 2000).
27
2.4 Potenzialità e limitazioni del saggio PIG-A
Un agente mutageno è un agente in grado di causare un significativo aumento del tasso di mutazione rispetto al range di mutazioni spontanee. Ne consegue che un saggio di mutagenicità
ideale dovrebbe essere in grado di detectare ogni singola mutazione. Infatti usando il gene reporter PIG-A è possibile identificare qualunque mutazione che comporta la totale perdita di attività
del prodotto genico (Peruzzi et al. 2010). Dagli studi condotti sui pazienti EPN sappiamo che le
mutazioni a livello del gene PIG-A che portano ad una completa perdita delle proteine GPI-linked
sono principalmente piccole delezioni ed inserzioni che causano frameshifts, ma anche mutazioni
non senso e missenso. Altri tipi di danno possono non compromettere totalmente la funzionalità
enzimatica, è necessario perciò tenere ben presente questo aspetto che potrebbe portare ad una
sottostima della frequenza di mutazione. Inoltre un’altra limitazione è legata al fatto che le mutazioni sono un evento raro, nei granulociti ad esempio il PIG-A, lungo circa 17 Kb, ha una frequenza di mutazione di circa 20 cellule su un milione (range 10-50 cellule/milione) (Araten et al. 1999)
per cui per la detection citofluorimetrica è necessario ricorrere all’aquisizione di milioni di eventi.
Queste limitazioni sono superate dal grosso vantaggio legato al fattore tempo. Saggi come l’HPRT
richiedono infatti alcune settimane mentre per la detection citofluorimetrica della frequenza di
mutazione mediante il saggio PIG-A è sufficiente meno di un giorno.
28
3. LA CRIOCONSERVAZIONE
3.1 Aspetti generali
La crioconservazione è la tecnica che consente la preservazione per lunghi periodi di cellule e
tessuti sfruttando l’azione delle temperature criogeniche sul metabolismo cellulare. Temperature
di -196°C consentite dall’uso dell’azoto liquido, permettono infatti il blocco delle attività metaboliche, garantendo una buona funzionalità cellulare al momento dello scongelamento. Grazie ai
recenti progressi in campo biotecnologico riguardo le tecniche di criopreservazione, è oggi possibile congelare molti lineage cellulari sia per fini di ricerca che terapeutici. Per questo motivo sono
nate apposite strutture dette “criobanche”, importanti centri di raccolta del materiale biologico
criopreservato. Queste criobanche, utilizzate in particolare modo per la conservazione di cellule
staminali, ma anche per la criopreservazione di oociti e spermatozoi impiegati per tecniche di fecondazione in vitro, se da una parte rappresentano una grande risorsa dall’altra aprono le porte
ad un grosso quesito, ovvero la garanzia che il materiale stoccato per lunghi periodi al momento
dello scongelamento sia sicuro.
Durante lo stato di criopreservazione, individuare i meccanismi responsabili del danno cellulare
è estremamente difficile, sia a causa delle complesse caratteristiche della cellula ma anche per
l’incapacità di discriminare gli effetti dei diversi fattori coinvolti. La formazione di ghiaccio extracellulare gioca un ruolo sicuramente rilevante nella dinamica dei danni biofisici arrecati dal processo
di congelamento. Questo fenomeno altera infatti, le caratteristiche chimico-fisiche e porta alla
formazione di ghiaccio all’interno della cellula stessa. All’aumentare della quota di acqua libera
cristallizzata la soluzione extracellulare diventa sempre più concentrata in soluti, ne deriva un potenziale squilibrio chimico tra il citosol e la soluzione esterna non congelata. Questo si traduce in
un aumento della pressione osmotica extracellulare con conseguente disidratazione della cellula.
L’acqua intracellulare, raffreddata durante il congelamento, può raggiungere l’equilibrio termodinamico in due modi: fuoriuscendo dalla cellula e formando ghiaccio extracellulare, o in alternativa,
formando ghiaccio all’interno della cellula. Durante il processo di congelamento, il destino dell’acqua cellulare dipende dalla velocità di diffusione transmembrana e da quella di formazione dei nuclei di cristallizzazione. Quando le cellule sono congelate lentamente, il tasso di efflusso dell’acqua
è sufficientemente elevato da prevenire livelli eccessivi di congelamento, in questo modo, la disidratazione cellulare precede la formazione di ghiaccio intracellulare. Viceversa, a velocità rapide
di congelamento, l’esosmosi di acqua è lenta e la formazione di ghiaccio intracellulare prevale. Si
ritiene che il danno cellulare derivi da forze meccaniche prodotte dal ghiaccio intracellulare e che i
siti maggiormente danneggiati siano la membrana plasmatica e quella degli organelli intracellulari. Allo scopo di contrastare tali modificazioni risulta, quindi, necessario l’ausilio dei crioprotettori
(Jain & Paulson 2006, Koutlaki et al. 2006, Vajta & Nagy 2006, Vajta & Kuwayama 2006).
3.2 I crioprotettori
Il termine “crioprotettori” accomuna sostanze diverse ma tutte capaci di proteggere la cellula dai
danni indotti dal congelamento. Nella messa a punto di un protocollo di criopreservazione la scelta
del crioprotettore e della sua concentrazione rappresenta un punto cruciale. Parametri quali ve-
29
locità di diffusione e la tossicità variano sensibilmente in funzione del tipo cellulare e della specie.
Risulta importante che la scelta porti ad un giusto equilibrio tra tossicità e protezione, in questo
modo la cellula è protetta dai danni indotti dalle basse temperature ma contemporaneamente è
anche in grado di tollerare la tossicità dell’agente crioprotettivo scelto. La tossicità è in funzione
delle caratteristiche chimico fisiche del crioprottetore, quali ad esempio, la capacità di denaturare
gli enzimi, il tempo di esposizione e la temperatura alla quale è sottoposto il sistema. In base alla
capacità di oltrepassare o meno la membrana plasmatica, i crioprotettori possono essere classificati in:
• Permaneneti (CPA: Cryoprotective Permeating Agents): si tratta di molecole di piccole dimensioni che, diffondendo attraverso la membrana plasmatica e, superando la
differenza di pressione osmotica esistente tra i due lati della membrana, consentono
di abbassare la temperatura alla quale si formano i cristalli di ghiaccio riducendone la
formazione. Le sostanze più comunemente usate sono: il dimetilsulfossido (DMSO), il
glicerolo (Gly), il propilenglicole (PG) e l’etilenglicole (EG).
• Non Permanenti: sono molecole che non penetrando attraverso la membrana plasmatica producono una condizione di disidratazione cellulare con conseguente riduzione
della formazione di ghiaccio durante il congelamento. I più comuni sono glucosio, saccarosio, polivinilpirrolidone (PVP), trealosio, ecc. Gli zuccheri sono agenti crioprottetivi
non permanenti, queste sono molecole molto grandi, con elevato peso molecolare, che
favoriscono la disidratazione cellulare durante il raffreddamento. Hanno diverse funzioni: contribuiscono all’osmolarità e forniscono energia allo spermatozoo.
Prima di procedere al congelamento, è necessario esporre le cellule al tipo crioprotettore scelto
per un tempo variabile; questa fase è detta di “equilibrio” o “adattamento”. Durante tale periodo
il crioprotettore si scambia o sottrae l’acqua intracellulare con una velocità variabile in funzione
di parametri quali: temperatura, specie, tipo cellulare, concentrazione, tipo di crioprotettore e
tempo di esposizione. Questi parametri risultano fortemente interdipendenti. La temperatura di
esposizione condiziona sensibilmente la permeabilità ai diversi crioprotettori e da quest’ultima
dipenderà la loro tossicità. Sulla base di tale assunto è possibile ottenere una riduzione della tossicità mediante riduzione della temperatura di esposizione del campione. Il tempo di esposizione
deve essere calibrato in maniera ottimale poiché, se troppo breve, non consente un’adeguata
penetrazione del crioprotettore, ma se troppo lungo, produce danno cellulare. Le membrane della
maggior parte delle cellule, ovociti compresi, sono più permeabili all’acqua che ai CPA; perciò,
quando si congelano ovociti o embrioni inizialmente questi tendono a raggrinzire perché l’acqua
fuoriesce più rapidamente rispetto al crioprotettore, in seguito si rigonfiano col penetrare nella
cellula del CPA fino al raggiungimento di un punto di equilibrio. Per la stessa ragione, al momento
dello scongelamento, quando l’agente crioprottetivo viene rimosso completamente dal comparto
intracellulare, le cellule si rigonfiano per ritornare al loro volume iniziale. I cambiamenti volumetrici
causati dall’aggiunta e dalla rimozione del crioprotettore possono essere dannosi se oltrepassano
i limiti di tolleranza osmotica della cellula. Nella pratica, questi cambiamenti vengono minimizzati
30
mediante aggiunta o rimozione del CPA in passaggi graduali oppure mediante la presenza di un
crioprotettore non permeante, come il saccarosio. La presenza di questi composti in una soluzione
acquosa riduce il fenomeno della cristallizzazione e abbassa il Δt crioscopico. Alte concentrazioni
di tali sostanze possono, inoltre, generare un cambiamento di stato della soluzione quando sottoposta a basse temperature da liquido a vitreo, (da cui vitrificazione), senza consentire la cristallizzazione e, quindi, la formazione di ghiaccio che le conferirebbe un colore opalescente.
Molti composti sono eccessivamente tossici per essere efficientemente utilizzati in criobiologia,
soprattutto se si deve ricorrere ad alte concentrazioni. Le sostanze maggiormente impiegate sono
alcuni glicoli (etilenglicole, propandiolo, glicerolo) e il DMSO. Tali sostanze sono dotate di elevata
volatilità, condizione che rende le soluzioni congelanti non stabili ed il loro impiego limitato nel
tempo.
La scelta del crioprotettore è anche in funzione del tipo di cellula che si deve congelare. Per molte
cellule il glicerolo viene preferito al DMSO perché è meno tossico, mentre quest’ultimo ha un potere penetrante più elevato del glicerolo ed è scelto per cellule grandi e complesse. Il glicerolo ed
il DMSO vengono generalmente utilizzati ad una concentrazione del 5-10% v/v, e non sono mai
usati insieme nella stessa sospensione.
Risulta perciò di fondamentale importanza valutare attentamente la composizione della soluzione,
i tempi di equilibrio e la temperatura, tutto in funzione delle caratteristiche di permeabilità e sensibilità del tipo di cellula in esame.
3.3 Le procedure di crioconservazione
Lo scopo della crioconservazione è quello di mantenere in vita le cellule superando i problemi
provocati dal passaggio di stato dell’acqua garantendo al momento dello scongelamento la ripresa degli scambi molecolari senza che si verfichino danni cellulari. Ci sono due approcci di base
per la criopreservazione di cellule e tessuti: le procedure di congelamento/scongelamento e la
vitrificazione. Le tecniche di congelamento/scongelamento comportano la formazione di ghiaccio
nella soluzione extracellulare, mentre, in condizioni operative opportune, viene resa minima la
probabilità che si formi ghiaccio intracellulare. Le procedure di vitrificazione, invece, escludono
la formazione di ghiaccio in ogni parte del campione. Le tecniche di congelamento prevedono il
ricorso a fasi di equilibrio (congelamento lento) o di non equilibrio (congelamento rapido), con
curve di discesa termica variabili tra 0.3 e 1°C per minuto (nel range che va da -6 a -35°C) e di
circa 10°C al minuto (fino a -196°C) per quello lento, mentre per quello rapido si utilizzano curve
di discesa termica molto rapide (Jain & Paulson 2006, Koutlaki et al. 2006, Vajta & Nagy 2006,
Vajta & Kuwayama 2006).
3.3.1 Il congelamento lento
Le procedure di congelamento lento e rapido differiscono nelle concentrazioni di crioprotettori
usati, nelle curve di discesa termica applicate, nella modalità e nella tempistica delle metodiche
utilizzate. Per il congelamento lento vengono generalmente impiegate soluzioni contenenti crioprotettori a concentrazioni di 1-2 mol/L che sono in grado di ridurre la probabilità di formazione
del ghiaccio intracellulare con un abbassamento del Δt crioscopico a temperature comprese tra
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-6 e -7°C. La velocità di congelamento adottata condiziona la dinamica di sviluppo del ghiaccio
extracellulare. La curva di discesa termica generalmente applicata per ovociti ed embrioni (tra 0.3
e 1°C/min) dipende dalle caratteristiche fisiche, soprattutto dimensioni e permeabilità delle cellule, ed è sensibilmente più lenta di quella utilizzata per cellule somatiche e spermatozoi (da 1 a
>100°C/min). I principali svantaggi del congelamento lento sono rappresentati dal costo elevato
di acquisto e mantenimento dell’attrezzatura (congelatore automatizzato) e dal lungo tempo (più
di 1 ora) necessario per lo svolgimento di tali procedure.
3.3.2 Il congelamento rapido
Le procedure di congelamento rapido si sono sviluppate intorno agli anni ‘70 e sono definite procedure di non equilibrio poiché non viene raggiunto un equilibrio con la soluzione congelante,
contrariamente a quanto avviene per il congelamento lento. Generalmente, i protocolli di congelamento rapido differiscono da quelli lenti per una maggiore disidratazione, per una più alta
concentrazione dei crioprotettori nonchè per un singolo step con cui è attuato il raffreddamento,
che abbatte la temperatura del campione portandola da alcuni gradi sopra lo zero fino a parecchi
gradi al di sotto (< -130°C). Tali procedure non richiedono attrezzature specifiche, comportano un
ridotto dispendio di azoto liquido, ed, infine, si effettuano in minor tempo. Queste sono, quindi,
più economiche e facili da organizzare, ma, allo stesso tempo, richiedono particolari accorgimenti
in funzione del materiale biologico utilizzato. Le tecniche comunemente utilizzate prevedono il
raffreddamento del campione “a secco” (nella fase gassosa dell’azoto liquido) o nell’azoto liquido
stesso, generando, così, una curva di discesa termica molto rapida e diversa in funzione del contenitore adottato. I supporti descritti in letteratura sono vari:
• paillette (straw);
• griglia per microscopio elettronico (copper grid);
• superficie solida (solid surface) costituita da un blocco di acciaio parzialmente immerso
in azoto liquido su cui vengono poste le microgocce di soluzione da congelare;
• foglio di alluminio galleggiante in azoto liquido, sopra cui sono poste le microgocce di
soluzione da congelare;
• OPS (Open Pulled Straw), paillette allungata con le caratteristiche di un capillare;
• cryoloop, una sorta di micro-cappio con al centro un film di soluzione (modello: stick per
bolle di sapone) il cui volume è ancora più ridotto di quello usato nei precedenti supporti, consentendo così un raffreddamento più veloce;
• cryotop, una sorta di micro-spatolina all’estremità di una bacchetta che può essere chiusa all’interno di un cryovial.
Questi ultimi due supporti sono stati concepiti allo scopo di fornire migliori garanzie igieniche.
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Negli ultimi anni, la tecnologia di congelamento rapido ha assunto un enorme interesse in campo
umano per la necessità di crioconservazione degli oociti.
3.3.3 La vitrificazione
Le procedure di vitrificazione prevedono l’utilizzo degli stessi supporti descritti precedentemente,
ma con concentrazioni di crioprotettore così elevate da rendere le soluzioni, sottoposte a temperature criogeniche, simili al vetro, senza formazione di cristalli di ghiaccio durante la fase di raffreddamento, conservazione e riscaldamento. L’elevata tossicità delle soluzioni vitrificanti richiede
tempi di esposizione molto ridotti ed elevate velocità di discesa termica. Quest’ultima condizione
viene raggiunta, in genere, riducendo il volume del campione. Un’alternativa è offerta dalla riduzione della temperatura dell’azoto liquido mediante procedure fisiche. Una soluzione vitrificante
può dar luogo alla formazione di cristalli di ghiaccio al variare delle condizioni operative. Cristalli
possono, così, svilupparsi durante la fase di riscaldamento (devitrificazione) o anche durante il
raffreddamento. A causa delle interazioni fra la formazione di ghiaccio e le condizioni di raffreddamento e riscaldamento, è possibile avere, contemporaneamente nella stessa soluzione, regioni
vitrificate e ghiacciate. Rispetto alle soluzioni adottate per il congelamento lento, che si espandono durante la fase di discesa termica, perché il ghiaccio occupa un volume maggiore dell’acqua, le
soluzioni vitrificanti presentano lo stesso volume della soluzione di partenza o, addirittura, minore.
In assenza di ghiaccio, inoltre, non c’è nessun movimento di solventi e soluti durante il raffreddamento. Queste caratteristiche dovrebbero rendere la soluzione capace di rimanere allo stato vitreo
per tutta la durata del raffreddamento e riscaldamento, con danni minori per le cellule rispetto
alle procedure di congelamento. Risulta inoltre importante che il tempo di esposizione alla soluzione finale di vitrificazione sia ridotto. Un’esposizione troppo breve, tuttavia, non consente una
sufficiente penetrazione del crioprotettore consentendo la formazione del ghiaccio intracellulare
anche in assenza di quello extracellulare. Con il congelamento convenzionale più del 50% degli
embrioni possono subire danni inficiando la resa al momento dello scongelamento, mentre con la
procedura di vitrificazione l’incidenza di danno è considerevolmente ridotta.
3.4 Le criobanche
Le criobanche sono apposite strutture e importanti centri di raccolta che consentono la conservazione del materiale biologico congelato. Ne esistono di differenti tipi sia per la conservazione
di linee cellulari, tumorali e non, che per la conservazione di ovociti, spermatozoi ed embrioni ma
attualmente quelle che suscitano maggiore interesse sono quelle dedicate al congelamento di
cellule staminali. Una delle prime criobanche europee è la Swiss Stem Cell Bank, nata nel 2004,
questa struttura svizzera offre un servizio di conservazione privato delle cellule staminali ed inoltre
è impegnata da anni nella ricerca sull’utilizzo di cellule staminali a fini terapeutici.
I grossi passi avanti fatti dalla ricerca sull’impiego delle cellule staminali nella cura di molteplici patologie altrimenti non curabili ha fatto si che negli ultimi anni siano nate una cospicuo numero di
criobanche. Le cellule staminali mesenchimali ad esempio rappresentano una promessa nel campo
della rigenerazione tissutale, il sangue del cordone ombelicale e del midollo osseo contiene invece
una grande quantità di cellule staminali emopoietiche da tempo utilizzate a scopo terapeutico per
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la cura di diverse malattie ematologiche come le leucemie e i linfomi. Il prelievo di midollo osseo
è sicuramente una pratica invasiva a differenza del prelievo di sangue cordonale che è invece una
procedura semplice che non comporta rischi ne per la madre ne per il bambino. Oggi anche in Italia si può decidere al momento del parto di congelare le cellule staminali del cordone ombelicale e
donarlo alla ricerca oppure sfruttando l’appoggio delle criobanche si può, in alternativa, decidere
di criopreservare le cellule staminali cordonali del nascituro. Il fine della criopreservazione di queste cellule è quello di garantire al bambino la conservazione di un’importante fonte di staminali
da utilizzare in futuro per fini terapeutici se questo si renderà necessario. Per poter offrire questo
tipo di servizio è necessario che la criobanca sia in grado di garantire un elevato livello di affidabilità tecnica mantenendo alti gli standard per quanto riguarda le metodiche di congelamento e di
stoccaggio delle cellule. Il materiale crioconservato può essere infatti soggetto a rischi, quali contaminazioni virali e batteriologiche ma anche variazioni della temperatura, che ne possono alterare
l’integrità. Per questo motivo vengono adottati standard di qualità che garantiscono procedure di
controllo, processamento e mantenimento dei campioni di elevatissima affidabilità.
In realtà un altro potenziale rischio potrebbe essere legato agli effetti delle radiazioni ionizzanti
derivanti dal fondo naturale. Infatti queste cellule conservate per lunghi periodi al momento dello
scongelamento potrebbero manifestare il fenotipo tipico delle cellule irradiate riportando arresto
del ciclo cellulare, apoptosi e cancerogenesi. Questo indicherebbe la necessità di adottare un ulteriore accorgimento ovvero quello di utilizzare dewars e contenitori che consentano una completa
schermatura dalle radiazioni esterne. Esiste anche una componente di radiazione interna costituita
dal C14 e dal K40, ed anche se questa sembra avere un ruolo minore nel determinare il fondo naturale di radiazioni, sarebbe opportuno considerare gli eventuali danni derivanti da questa componente durante lo stoccaggio per lunghi periodi.
34
PARTE SECONDA
Presentazione dei dati
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4. SCOPO DEL LAVORO
Questo lavoro fa parte del progetto EXCALIBUR, svolto in collaborazione con L’INFN “Istituto Nazionale di Fisica Nucleare”, che ha lo scopo di studiare gli effetti biologici indotti in sistemi in vitro
e in vivo a seguito di esposizione a basse dosi di radiazioni ionizzanti, in funzione della qualità
della radiazione, della dose e del microambiente, con particolare riguardo agli effetti “non lineari”
(ipersensibilità, radioresistenza indotta, risposta adattativa, effetti di bystander) per contribuire ad
una più realistica valutazione di rischio per esposizioni alle basse dosi di RI. Lo scopo di questo
progetto parte dal presupposto che è possibile sfruttare l’irradiazione artificiale per mimare gli
effetti delle basse dosi di radiazioni derivanti dal fondo naturale. Un anno di radiazione di fondo
corrisponde ad una dose media di circa 2 mGy, una dose di 0.1 Gy corrisponde quindi a circa 50
anni di esposizione al fondo naturale.
In particolare, anche sulla base di evidenze sperimentali derivanti dai precedenti esperimenti CRIORAD e SHEILA, approvati e finanziati dalla CSN5-INFN negli anni precedenti, il presente progetto
si propone in vitro:
• di valutare, mediante citometria a flusso, la mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti in cellule mononucleate congelate;
• di quantificare la frequenza di cellule mutanti in cellule mononucleate congelate sfruttando in citofluorimetria le peculiari caratteristiche del gene reporter PIG-A.
Inoltre grazie alla collaborazione con l’ente regionale AGRIS-Sardegna è stato possibile determinare l’effetto di basse dosi di radiazioni ionizzanti in vivo. Per questi esperimenti sono stati infatti
utilizzati embrioni di pecora congelati mediante vitrificazione, irradiati e reimpiantati, in pecore
riceventi sincronizzate, mediante la tecnica di embryo transfer. L’analisi degli effetti dell’esposizione a RI, in funzione della dose, è stata effettuata in termini di nati sani.
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5. MATERIALI E METODI
5.1 Isolamento delle cellule mononucleate
Le cellule mononucleate (MNC), provenienti da buffy coat, sono state isolate mediante centrifugazione in gradiente di densità (Ficoll/Histopaque-1077). Il sangue periferico prima di essere
stratificato sulla soluzione Histopaque-1077 (Sigma-Aldrich) è stato diluito con PBS (1:5, v/v) ed
adeguatamente risospeso. L’Histopaque è una soluzione a base di polisaccarosio e diatrizoato di
sodio corretti ad una densità di 1.077+/- 0.001 g/ml, si tratta di un mezzo che assicura un recupero rapido delle MNC vitali da volumi ridotti di sangue. I campioni sono stati quindi centrifugati
a 2800 rpm per 30 minuti ad una temperatura compresa tra i 16 ed i 20°C. Durante la procedura
di centrifugazione il polisaccarosio favorisce l’aggregazione degli eritrociti e dei granulociti e la
loro successiva sedimentazione rapida sul fondo della provetta, mentre i linfociti e le altre cellule
mononucleari sono trattenute all’interfaccia tra la soluzione Histopaque ed il plasma, generando
un anello contenente le cellule mononucleate.
Il surnatante è stato poi allontanato facendo molta attenzione a non alterare l’anello delle MNC.
Le cellule presenti all’interfaccia tra il plasma e la soluzione Histopaque sono state raccolte e risospese in PBS per l’esecuzione dei lavaggi. Il campione è stato successivamente centrifugato a 1800
rpm per 15 minuti e dopo l’eliminazione del surnatante, il pellet è stato nuovamente risospeso in
PBS per un secondo lavaggio.
Terminato il seguente lavaggio, nel caso di un’eccessiva contaminazione da eritrociti è stata effettuata la lisi mediante una soluzione tampone a base di cloruro d’ammonio (Pharm Lyse; BD),
agitando delicatamente ed incubando il campione al buio ed a temperatura ambiente per 10-15
minuti. Al termine dell’incubazione è stato eseguito un lavaggio in centrifuga a 1500 rpm per 15
minuti con PBS addizionato con l’1% di siero fetale bovino (FBS), passaggio fondamentale per
bloccare la lisi cellulare. Successivamente è stato eliminato il surnatante e sono stati effettuati 1 o
2 lavaggi con PBS a 1200 rpm per 15 minuti.
Per validare il saggio utilizzato e verificare un’eventuale selezione a sfavore delle cellule mutate
durante la proliferazione, sono state utilizzate cellule mononucleate isolate da soggetti affetti da
Emoglobinuria Parossistica Notturna (EPN). Per la separazione delle MNC dei soggetti EPN, gentilmente fornite dal Dott. A.M. Risitano della Divisione di Ematologia Università Federico II di Napoli,
è stato utilizzato lo stesso protocollo di separazione in gradiente di densità.
5.2 Congelamento e irraggiamento delle cellule mononucleate
Le cellule mononucleate, precedentemente isolate mediante centrifugazione in gradiente di densità, sono state congelate ad una concentrazione di 5/10x106 per criotubo (vial), utilizzando una
miscela di congelamento costituita da:
• 40% di siero fetale bovino (Biochrom);
• 40% di terreno di coltura (RPMI 1640 Gibco);
• 20% di dimetilsulfossido (DMSO Sigma-Aldrich).
37
La miscela di congelamento così costituita è stata aggiunta v\v alla sospensione cellulare, mantenendo i criotubi in ghiaccio, in seguito, i campioni sono stati velocemente trasportati al sistema
di congelamento (Nicool Plus PC Air Liquid, Marne-la-Vallée, Francia). Quest’ultimo è un congelatore biologico a velocità di raffreddamento programmabile e può organizzare la discesa della
temperatura da +30°C a -150°C utilizzando l’azoto liquido come sorgente di freddo. La cella di
raffreddamento è dotata di una turbina che assicura un’ottimale distribuzione della bassa temperatura al suo interno, ed il raffreddamento è ottenuto per polverizzazione dell’azoto liquido. Il
congelamento delle MNC è stato effettuato mediante discesa controllata della temperatura (1°C/
min) e compensazione della fase di passaggio di stato.
Una parte delle provette congelate è stata utilizzata come campione di controllo mentre le altre
sono state irradiate a diverse dosi di radiazioni X/γ (0.1, 0.3, 0.9, 3, 10, 18.6/20 e 40 Gy) mediante
un’unica somministrazione. Inoltre per escludere la variabile legata al congelamento e poter fare
dei paragoni tra gli effetti delle RI sul materiale congelato e non, alcune vials sono state irradiate
a temperature ambiente e successivamente congelate. Per l’irradiazione dei campioni sono stati
utilizzati l’irradiatore Gammacell 2000 e l’acceleratore lineare di particelle (LINAC) entrambi in dotazione presso l’Ospedale San Salvatore di Pesaro. L’irradiatore Gammacell 2000 è uno strumento
che utilizza come sorgente il Cesio 137 (662 keV del
137
Cs) ed è impiegato per l’irradiazione di
sacche di sangue e piastrine impiegate per fini terapeutici nei pazienti trapiantati. L’acceleratore
lineare LINAC è un apparecchio che utilizza invece, onde elettromagnetiche ad alta frequenza per
accelerare particelle cariche come gli elettroni ad alte energie attraverso un tubo lineare. Il fascio
di elettroni di alta energia così ottenuto può essere (dopo aver interagito con un opportuno filtro
diffusore) utilizzato per trattare tumori superficiali, o può essere inviato sopra un target opportuno
al fine di produrre raggi X di frenamento per il trattamento di tumori profondi. Questo acceleratore consente un accurato irraggiamento dei campioni alla dose richiesta mediante radiazioni X
aventi uno spettro continuo di energie fino a 6MV.
5.3 Scongelamento e coltura delle cellule mononucleate
Le vials, contenenti le MNC relative alle diverse condizioni sperimentali, sono state trasportate in
ghiaccio secco e scongelate a 37°C in bagnetto termostatato, in modo da garantire uno scongelamento rapido e limitare i danni da DMSO. In seguito la sospensione cellulare è stata centrifugata a
1200 rpm per 10 minuti, è stato allontanato il surnatante ed il pellet cellulare risospeso in terreno
di coltura completo (RPMI 1640 addizionato di glutammina, antibiotici e siero umano-HS), per un
ulteriore lavaggio, garantendo così il completo allontanamento del DMSO.
L’analisi della vitalità cellulare è stata condotta sia su campioni in fase G0/G1, quindi non stimolati,
che dopo la classica stimolazione con il mitogeno PHA e la citochina IL-2. Successivamente, nei
campioni in cui abbiamo valutato la frequenza di cellule mutanti, per migliorare la vitalità e la
capacità clonogenica dei campioni si è reso necessario testare differenti sistemi di stimolazione. I
tre sistemi paragonati sono stati:
• il mitogeno Phytoemoagglutinina (PHA Invitrogen-Gibco) ed la citochina Interleuchina-2
(IL-2 Peprotech 20ng/mL),
38
• il feeder layer costituito da cellule linfoblastoidi TK6 irradiate con dose di 40 Gy e la
citochina IL-2 (20ng/mL),
• il sistema di stimolazione T Cell Activation/Expansion kit (Miltenyi Biotech) e la citochina
IL-2 (20ng/mL).
Il kit della Miltenyi è caratterizzato dall’utilizzo di biglie di stimolazione coniugate con specifici anticorpi umani biotinilati (CD2, CD3 e CD28), che stimolano la proliferazione dei linfociti T mimando le cellule presentanti l’antigene (APC). Il rapporto ottimale in grado di garantire l’attivazione e
la successiva espansione delle cellule T è di 1:2, una biglia ogni due cellule. Inoltre queste biglie
non sono fluorescenti per cui non interferiscono con l’analisi citoflurimetrica.
5.4 Analisi della mortalità cellulare
Per l’analisi della mortalità/sopravvivenza cellulare sono state utilizzate due metodiche citofluorimetriche, l’analisi monoparametrica del contenuto di DNA cellulare o analisi del ciclo cellulare
e la tecnica del propidio sopravitale (Zamai et al. 2001). Inoltre la sopravvivenza cellulare è stata
monitorata attraverso la conta citofluorimetrica dei campioni mediante l’utilizzo di biglie di conta
a titolo noto. Le cellule, precedentemente suddivise in piastre da 96 pozzetti ognuno contenente
5x105 cellule, stimolate e non stimolate, sono state analizzate a vari giorni dopo lo scongelamento
(24, 48, 72 e 96h).
5.4.1 Analisi monoparametrica del contenuto di Dna cellulare
La citometria a flusso è in grado di misurare i parametri cinetici del ciclo cellulare e la loro perturbazione in seguito all’esposizione a farmaci o ad agenti fisici come le radiazioni ionizzanti.
I metodi utilizzati per valutare il ciclo cellulare si basano sull’utilizzo di coloranti intercalanti del
DNA come lo ioduro di propidio (PI). Questo colorante fluorescente si lega in maniera stechiometrica alla doppia elica del DNA, e quindi è in grado di indicare in che fase del ciclo si trova ogni
singola cellula del campione in esame sulla base del contenuto di DNA (G0/G1, S, G2/M). La colorazione mediante ioduro di propidio permette inoltre la valutazione della percentuale di cellule
apoptotiche che si posizionano nel così detto “picco ipodiploide”, questo perché parte del DNA
frammentato della cellula apoptotica viene perso durante la metodica grazie all’uso del buffer
citrato, producendo una riduzione del contenuto di DNA nelle cellule apoptotiche (Figura 11).
(a)
(b)
Figura 11 – Analisi
monoparametrica del
contenuto di DNA
cellulare.
Nell’istogramma Apo = picco ipodiploide, G1 =
picco delle cellule in
fase G0/G1. (a) Controllo. (b) Campione
irradiato con dose di
0.9 Gy dopo 72h di
incubazione.
39
Per l’analisi del ciclo cellulare nei diversi punti stabiliti ed ai diversi tempi d’incubazione, con o
senza stimolazione mitogenica (PHA ed IL-2), le cellule sono state raccolte da ciascun pozzetto e
centrifugate a 1200 rpm per 10 minuti. Dopo aver allontanato il surnatante, le MNC sono state
fissate in etanolo al 70% freddo e mantenute a -20°C per 1-7 giorni. Successivamente le cellule
fissate sono state ricentrifugate a 1200 rpm per 10 minuti ed in seguito sono stati effettuati 2
lavaggi in PBS addizionato con l’1% di FBS, per garantire il completo allontanamento dell’etanolo.
Eliminato l’etanolo le cellule sono state risospese e colorate mediante una soluzione (DNA staining
solution) così costituita:
• 400 μL di buffer citrato;
• 10 μL di ioduro di propidio (1mg|mL) (Sigma Aldrich);
• 50 μL di RNAsi I from bovine pancreas (Sigma Aldrich).
Prima della lettura al citometro le cellule sono state incubate per 30 minuti a 37°C in bagnetto
termostatato. L’acquisizione dei campioni è stata fatta utilizzando il citofluorimetro FACScalibur
(Becton Dickinson, USA) equipaggiato di laser ad Argon raffreddato ad aria (488 nm e 15mV di
potenza). Durante l’acquisizione la positività al colorante PI è stata valutata nel canale di fluorescenza FL2 in scala lineare. La successiva analisi dei dati è stata effettuata utilizzando il software
Cell Quest Pro, BD.
I risultati ottenuti derivano dall’analisi in citometria a flusso di almeno 50.000 cellule e sono indicati come:
• percentuale di apoptosi/morte specifica (ApSpec), calcolata sottraendo alla percentuale
di apoptosi/morte del campione irradiato (ApSperimentale), l’apoptosi/morte spontanea
del campione non irradiato (ApSpont), e dividendo per (100 – ApSpont), secondo la
formula:
ApSpec = (ApSperimentale – ApSpont) / (100 – ApSpont) x 100;
• percentuale di fase S specifica, calcolata all’interno della popolazione di cellule vive considerando la percentuale in fase S del controllo non irradiato pari a 100.
5.4.2 Tecnica del propidio sopravitale
La metodica del propidio sopravitale, impiegata per individuare lo stato apoptotico delle cellule, si
basa sull’utilizzo di ioduro di propidio ad alta concentrazione (50 μg/mL) per tempi relativamente
lunghi (30 minuti). Le parziali modificazioni della permeabilità della membrana plasmatica che si
presentano durante le prime fasi del processo apoptotico consentono al PI (grossa molecola carica
positivamente) di penetrare, per diffusione passiva, solo parzialmente all’interno delle cellule in
apoptosi precoce. Nelle cellule necrotiche o in necrosi secondaria l’entrata del PI è invece totale
ed in relazione alla quantità di DNA presente nella cellula. Utilizzando questa metodica, le cellule
vitali non presentano nessuna fluorescenza e sono quindi negative al PI, quelle negli stadi iniziali
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di apoptosi mostrano una debole fluorescenza rosso-arancio (PIdim) e quelle in necrosi o in stadi
tardivi di apoptosi (o necrosi secondaria) emettono una forte fluorescenza rosso-arancio (PIbright).
L’esposizione sopravitale al PI permette quindi l’analisi simultanea delle cellule vive, apoptotiche e
necrotiche (Figura 12).
(a)
(b)
Figura 12 – Tecnica del propidio sopravitale. (a) Controllo. (b) Campione irradiato con dose di 0.9 Gy dopo 72h di incubazione.
Per l’analisi al citometro mediante la tecnica del propidio sopravitale, dopo un’attenta osservazione al microscopio rovesciato, le cellule sono state prese da ciascun pozzetto ed ogni campione è
stato colorato con 50 µg/mL di PI. Dopo incubazione di 30 min a 37°C e 5% di CO2, l’acquisizione
dei campioni è stata eseguita utilizzando il citofluorimetro FACScalibur. Durante l’acquisizione la
positività al colorante PI è stata valutata nei canali di fluorescenza FL2 ed FL3 in scala logaritmica.
Inoltre a questi campioni sono state aggiunte biglie a titolo noto (Cyto Count DAKO) per avere
una stima ancora più precisa delle cellule sopravvissute. La successiva analisi dei dati è stata effettuata utilizzando il software Cell Quest Pro, BD. I risultati ottenuti derivano dall’analisi in citometria
a flusso di almeno 50.000 cellule e sono indicati utilizzando come per i cicli la formula per il calcolo
dell’apoptosi/morte specifica. Mentre per il calcolo delle cellule morte mediante l’uso delle biglie
a titolo noto è stata utilizzata la seguente formula:
• percentuale di apoptosi/morte specifica (ApSpec), calcolata sottraendo al numero di cellule del campione non irradiato (N.Cont) il numero di cellule del campione irradiato (N.
Sperimentale), e dividendo in seguito per il numero di cellule del campione non irradiato
(N.Cont), secondo la formula:
ApSpec = (N.Cont –N.Sperimentale) / (N.Cont) x 100
5.4.3 Analisi statistica
Per l’analisi statistica dei dati è stato utilizzato il test-t di Student a due code, sono stati considerati
significativi i valori con P <0.05.
41
5.5 Analisi delle cellule mutanti mediante il saggio PIG-A
Per l’analisi delle cellule mutanti è stato utilizzando il saggio PIG-A in accordo con il protocollo
citometrico descritto da Peruzzi et al. 2010 (Figura 13).
Figura 13 - FSC vs CD48, CD55 e CD59 dopo 7 giorni di stimolazione: (a) Controllo non irradiato (CTRL). (b) Irradiato
con dose di 3 Gy. (c) Paziente con EPN.
Le cellule impiegate per questo saggio sono state irradiate in azoto liquido con le dosi di 0.1, 0.3,
0.9 e 3 Gy da raggi X. Per la marcatura al t0 sono state utilizzate circa 2x106 cellule per punto, ed
è stato utilizzato un pannello di anticorpi costituito in prima fluorescenza - FL1, da anti-CD2 FITC
(Becton-Dickinson), anti-CD3 FITC (Ancell) e anti-CD5 FITC (Becton-Dickinson) che hanno consentito di individuare la percentuale di mutanti al t0 relativa alla popolazione di linfociti T, mentre in
seconda fluorescenza – FL2 da anti-CD48 PE (e-Bioscence), anti-CD55 PE (e-Bioscence) ed antiCD59 PE (Immunological Science), molecole specifiche per individuare le proteine GPI-linked. La
valutazione della vitalità cellulare è stata eseguita mediante l’aggiunta di 7-AminoActinomicina D
(7AAD Molecular Probes) in terza fluorescenza – FL3. In seguito, la percentuale di cellule mutanti
è stata valutata a diversi giorni di stimolazione utilizzando 2-5x106 cellule per punto. Per le cellule
stimolate utilizzando il T Cell Activation/Expansion Kit (5x106 per punto in piastre da 24 pozzetti
o 0,75x106 per punto in piastre da 96 pozzetti), è stato utilizzato in FL1 un differente pannello
di anticorpi rispetto al t0, in particolare sono stati impiegati gli anticorpi anti-CD11a FITC (Ancell)
e anti-CD45 FITC (Becton-Dickinson), in quanto questo tipo di sistema espande solo le cellule T.
Oltre agli anticorpi specifici per le proteine GPI-linked e la 7AAD sono state utilizzate biglie di
conta (Cyto Count, DAKO) che hanno permesso la conta esatta dei linfociti T espansi in vitro dopo
irradiazione alle varie dosi.
Per verificare che nel nostro sistema di stimolazione/proliferazione, le cellule mutate avessero le
stesse capacità proliferative delle cellule non mutate (quindi non ci fossero condizioni di selezione), alle MNC di soggetti EPN (ricche di cellule mutate) sono state applicate le stesse procedure
precedentemente descritte.
Per l’acquisizione dei campioni è stato impiegato il citofluorimetro FACScalibur. Durante l’acquisizione, il segnale in prima fluorescenza FL1 è stato utilizzato per la discriminazione dei doppietti. La
stategia di gating utilizzata per l’analisi delle cellule mutanti prevedeva un primo gate morfologico
FSC vs SSC per escludere detriti e cellule morte, un secondo gate FL1 vs FL3 per selezionare la
sola popolazione di linfociti T vivi negativi per la 7AAD, un gate FL1 vs FL1-Width per escludere i
doppietti e infine sommando questi tre gate nel dot plot FSC vs FL2 venivano selezionate le cellule
42
negative per gli anticorpi diretti contro le proteine GPI linked utilizzando una soglia pari al 4%
della media geometrica della popolazione di cellule positive.
La successiva analisi dei dati è stata effettuata utilizzando il software Cell Quest Pro, BD.
5.6 Produzione di embrioni in vitro (IVP)
I reagenti impiegati per la produzione di embrioni in vitro, eccetto per quelli in cui è specificatamente indicato, sono della Sigma Aldrich.
5.6.1 Recupero degli ovociti
Gli ovociti sono stati reperiti da ovaie di pecore adulte di razza sarda regolarmente macellate in
mattatoi sardi. Per il trasporto in laboratorio, entro 2-3 ore dalla macellazione, le ovaie sono state
immerse in soluzione fisiologica alla temperatura di 36°C. Gli ovociti sono stati successivamente
recuperati mediante tagliuzzamento (cutting) delle ovaie. Per la maturazione sono stati selezionati
solo quelli circondati da almeno due strati di cellule della granulosa e con citoplasma omogeneo.
Gli ovociti sono stati successivamente lavati in Hepes-buffered TCM199 (H-TCM199) arricchito
con 4 mg/ml di BSA (Bovine Serum Albumin) e 2 mM di glutamina. A questo punto si è proseguito
con i tre steps principali della IVP: maturazione, fertilizzazione e coltura.
5.6.2 Maturazione in vitro (IVM)
Per la maturazione in vitro è stata allestita una piastra con 4 pozzetti (Nunc, Nunclon Denmark) in
ciascuno dei quali è stato messo il medium di maturazione ricoperto da olio minerale. Il medium
di maturazione è composto da buffer-bicarbonato TCM199, con l’aggiunta di 4 mg/ml BSA, 100
μM di cisteamina, 2 mM di glutamina, 0.3 mM di sodio piruvato, 1 μg/ml di 17β-estradiolo, 0.1
u.i./ml di FSH (ormone follicolo stimolante) e 0.1 u.i./ml di LH (ormone luteinizzante) con un pH a
7.2/7.4 e osmolarità a 275 mOsm. In ogni pozzetto sono stati messi circa 20-30 ovociti che sono
stati incubati per 22 ore a 39°C in atmosfera controllata (5% di CO2 e 20% di O2).
5.6.3 Fertilizzazione in vitro (IVF)
Dopo la maturazione gli ovociti sono stati parzialmente denudati dalla granulosa in un medium
H-TCM199 contenente 300 u.i./ml di ialuronidasi al fine di facilitare la penetrazione degli spermatozoi all’interno dell’ovocita. In seguito sono stati fatti 3 lavaggi in H-TCM199 con BSA per rimuovere i residui di ialuronidasi. Per la fertilizzazione in vitro è stato utilizzato seme fresco di ariete di
provata fertilità, raccolto mediante vagina artificiale, esaminato al microscopio ottico e mantenuto
a temperatura ambiente per 2 ore, al fine di capacitare gli spermatozoi. Successivamente è stato
lavato in SOF (Synthetic Oviduct Fluid), centrifugato a 200 g x 5 min e eliminato il surnatante è stato risospeso nel medium di fertilizzazione. Il medium di fertilizzazione è composto da SOF (Tervit et
al. 1972) arricchito con 20% di siero inattivato di pecora in estro. Gli ovociti, 10 per goccia, sono
stati fertilizzati e incubati per 20 ore a 39°C in atmosfera umidificata al 5% di CO2.
5.6.4 Coltura in vitro (IVC)
Il giorno dopo la fertilizzazione, i presunti zigoti sono stati lavati in SOF per eliminare gli sperma43
tozoi in eccesso. In seguito sono stati messi in piastra di coltura (5-6 per goccia) con un medium
costituito da SOF arricchito con l’ 1% (v/v) di aminoacidi essenziali (Basal Medium Eagle-BME),
l’1% (v/v) di aminoacidi non essenziali (Minimum Essential Medium–MEM), 1 mM di glutamina e
8 mg/ml di BSA. Gli embrioni venivano così incubati a 39°C in atmosfera umidificata al 7% di O2,
5% di CO2, 88% di N2. La coltura veniva fatta proseguire fino al 6°-7° giorno fino allo stadio di
blastocisti (Figura 14).
Figura 14 - Blastocisti ovine
5.6.5 Vitrificazione
Le blastocisti così ottenute sono state congelate, mediante vitrificazione, in due passaggi secondo
il protocollo di Dattena et al. (2004). Il primo step prevedeva il passaggio delle blastocisti in un medium contenente PBS arricchito con il 20% di siero fetale bovino, più l’aggiunta di 10% di glicol
etilenico (EG) e 10% di DMSO per 4-5 minuti; seguiva un secondo passaggio in PBS (20% FBS) +
20% di EG + 20% di DMSO + 0.5 M di saccarosio per meno di 30”, infine venivano conservate
due blastocisti per OPS (open pulled straws) e immerse immediatamente in azoto liquido.
5.6.6 Irraggiamento degli embrioni
Gli embrioni prodotti in vitro e crioconservati a 196°C in azoto liquido sono stati esposti a differenti dosi di radiazioni (137Cs γ-rays, 50mGy/sec o 75mGy/sec): 0.3, 2.4, 19.2 Gy utilizzando il GammaCell 1000 Elite della Nordion (Figura 15) in dotazione presso l’azienda ospedaliera di Nuoro.
Figura 15 - GammaCell 1000 Elite-Nordion
44
5.6.7 Scongelamento e trasferimento embrionale
Le OPS contenenti gli embrioni irradiati sono state scongelate tenendole per 6 secondi in aria e poi
immergendole in H-TCM199 più 20% di FBS più 0.5 M di saccarosio all’interno di una provetta
posta in bagnetto termostatato a 37°C per 15 secondi. In seguito è stato eseguito il trasferimento
embrionale, 2 embrioni per pecora, che venivano trasferiti chirurgicamente mediante una minilaparatomia inguinale.
Sono stati trasferiti in totale 60 embrioni: 8, 18, 24, 10 per i gruppi 0, 0.3, 2.4, 19.2 Gy rispettivamente (Tabella 2).
Gy
N° embrioni
0.3
18
2.4
24
19.2
10
Controllo
8
Tabella 2 - Dose di radiazioni gamma e numero di embrioni da
trasferire.
5.6.8 Gravidanze e monitoraggio degli agnelli nati
Le gravidanze sono state monitorate mediante ultrasonografia addominale a 40 giorni, seguita da
5 successivi controlli a 55, 70, 85, 105 e 120 giorni. Entro 6 ore dalla nascita gli agnelli venivano
pesati ed identificati sessualmente.
La crescita e lo stato di salute degli agnelli sono stati valutati mediante analisi citofluorimetriche
dei valori ematici del sangue. I prelievi sono stati eseguiti dopo un mese dalla nascita e ripetuti
mensilmente fino agli 8 mesi di età.
45
6. RISULTATI
È noto che le RI di fondo sono in grado di provocare danni al DNA cellulare e poiché queste alterazioni non possono essere riparate in condizioni di congelamento, le cellule crio-preservate
tendono ad accumulare nel tempo dei danni. Diventa perciò di fondamentale importanza per la
qualità delle cellule congelate non solo la modalità di congelamento, ma anche la scelta di un ambiente che protegga dalla radiazione di fondo naturale e consenta un miglior mantenimento delle
cellule conservate in azoto liquido per lunghi periodi. Per ottenere dei dati teorici sugli effetti della
radiazione di fondo sono stati eseguiti esperimenti di irradiazione di cellule congelate mediante
sorgenti radioattive che simulano il fondo naturale (γ/X). Lo scopo principale di questo lavoro è
stato quello di studiare gli effetti delle radiazioni ionizzanti sul materiale biologico crio-preservato.
Per questo motivo, dopo scongelamento sono state investigate in cellule mononucleate irradiate
in stato di congelamento, la mortalità/sopravvivenza cellulare e la percentuale di cellule mutanti
mediante tecniche citometriche. È stato inoltre utilizzato un modello di studio in vivo, in questo
caso sono stati monitorati il tasso di gravidanza, di natalità e di crescita di embrioni prodotti in
vitro, irradiati in stato di congelamento e reimpiantati nell’utero di pecore riceventi.
6.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare
L’irradiazione dei campioni utilizzati per l’analisi della mortalità e della sopravvivenza cellulare è
stata eseguita utilizzando il Gammacell 2000 (662 keV del 137Cs). L’analisi è stata condotta sia su
campioni stimolati col mitogeno PHA e l’aggiunta della citochina IL-2, che non stimolati. I dati
ottenuti indicano che a dosi relativamente basse di RI la valutazione quantitativa dell’apoptosi
cellulare, tipico meccanismo di morte indotto dalle radiazioni ionizzanti, sia dopo fissazione in
etanolo e colorazione con ioduro di propidio (valutata mediante picco ipodiploide) che mediante
la colorazione con PI sopravitale (valutata dalle cellule positive al PI sia in apoptosi precoce che
in necrosi secondaria), è risultata idonea allo scopo in quanto nei campioni non stimolati è stata
osservata una buona correlazione dose-risposta (Figure 16 e 17). Le due tecniche danno infatti
risultati sovrapponibili. È interessante osservare che l’apoptosi specifica aumenta con l’aumentare
del tempo probabilmente perché le cellule non muoiono in maniera sincrona.
46
Figura 16 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate, non stimolate, ed irradiate
con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy calcolata mediante determinazione del picco ipodiploide. Si riscontra una
buona correlazione dose risposta. Rispetto al controllo l’apoptosi specifica è significativamente (p<0.05)
più alta nelle cellule irradiate a 0.3 Gy dopo 72h di incubazione ed a 0.9 Gy.
Figura 17 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate, non stimolate, ed irradiate
con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy calcolata mediante tecnica del propidio sopravitale. Si riscontra una buona
correlazione dose risposta. Rispetto al controllo l’apoptosi specifica è significativamente (p<0.05) più alta
nelle cellule irradiate a 0.9 Gy dopo 72h di incubazione.
Contrariamente a quanto atteso il mitogeno PHA è risultato poco efficace nell’esaltare la mortalità indotta dalle basse dosi di radiazione (Figure 18 e 19). L’induzione della proliferazione sembra
infatti proteggere la cellula dai danni indotti dalla radiazione.
47
Figura 18 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate ed irradiate con dose di
0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy dopo stimolazione mitogenica e calcolata mediante determinazione del picco ipodiploide. Non si riscontra una correlazione dose risposta.
Figura 19 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate congelate ed irradiate con dose di
0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy dopo stimolazione mitogenica e calcolata mediante tecnica del propidio sopravitale.
Non si riscontra una correlazione dose risposta.
Anche il blocco proliferativo è risultato poco indicativo dell’azione della radiazione ionizzante con
una relazione dose-risposta scarsa o assente (Figura 20).
Questo risultato è confermato dalle conte assolute citometriche. Infatti come è possibile osservare
in Figura 21 nei campioni di cellule mononucleate stimolate con PHA e IL-2 si ha, dopo 96 h di
incubazione, un numero di cellule sopravissute simile al controllo (pari a 100) per tutte le dosi di
48
Figura 20 – Percentuale di fase S specifica in cellule mononucleate congelate ed irradiate con dose di
0.1,0.3,0.9 e 3 Gy dopo stimolazione mitogenica. Non si riscontra una correlazione dose risposta.
radiazione somministrate. Nei campioni non stimolati invece viene mantenuta la correlazione dose
risposta.
In linea con i dati ottenuti, la determinazione del picco ipodiploide in cellule non stimolate risulta
essere una valida metodica per la valutazione dell’apoptosi in questi modelli. Questa tecnica molto versatile consente inoltre, grazie alla fissazione dei campioni, di acquisirli ed analizzarli simul-
Figura 21 – Grafico delle conte assolute citometriche dopo 96h di incubazione in campioni stimolati e non
e irradiati con dose di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy posto il controllo pari a 100.
taneamente alla fine di ogni esperimento; anche per questo motivo è stata scelta come metodica
per confrontare i dati sulla mortalità cellulare relativi ai campioni irradiati a temperatura ambiente
e a -196°C. Alle basse dosi di radiazione testate, nei campioni non stimolati, la mortalità cellulare
specifica tende a scomparire al di sotto di 0.3 Gy (Figure 16 e 17). Inoltre la percentuale di mor49
talità cellulare nelle cellule irradiate con 0.9 Gy è significativamente (p<0.05) più alta rispetto ai
campioni di controllo. Considerando questi dati, nel range delle basse dosi (tra 0.1 e 0.9 Gy), la
dose di 0.9 Gy è stata utilizzata per valutare le differenze nell’induzione del danno tra i campioni irradiati a temperatura ambiente e quelli irradiati in stato di congelamento. Come è possibile
osservare in Figura 22 e 23 la frequenza di cellule apoptotiche è ridotta in maniera rilevante nelle
cellule irradiate congelate rispetto a quelle irradiate a temperatura ambiente suggerendo che il
congelamento svolge un azione protettiva dagli effetti della RI.
Figura 22 – Percentuale di apoptosi specifica in cellule mononucleate irradiate a temperatura ambiente o
a -196°C con la dose di 0.9 Gy. A parità di dose di radiazione si riscontra una inibizione della mortalità in
cellule congelate rispetto alle cellule irradiate a temperatura ambiente (Cugia et al. 2010).
Figura 23 – Percentuale di morte cellulare specifica in cellule mononucleate congelate considerando l’irradiato a temperatura ambiente pari a 100 (Cugia et al. 2010).
50
Infine per poter valutare il fenomeno di ipersensibilità alle basse dosi nel sistema congelato, le cellule mononucleate sono state irradiate sia con dosi basse, che intermedie ed alte. In questo modo
è stato possibile tracciare una curva rappresentativa che ha permesso di descrivere il fenomeno.
A dosi basse ed intermedie la determinazione del picco ipodiploide è risultata una valida tecnica,
contrariamente a quanto si è verificato per le alte dosi di radiazione. Infatti nei campioni non stimolati ad alte dosi la correlazione dose risposta viene persa (Figura 24). Tale fenomeno è probabilmente legato al fatto che le apoptosi presenti nei tempi iniziali (è stato infatti già descritto che le
cellule non muoiono in maniera sincrona) successivamente si disintegrano e vengono perse dalla
valutazione con questo tipo di metodica.
Figura 24 – Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide, di cellule
mononucleate non stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3, 0.9, 3, 10, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di
incubazione.
Analogamente alla determinazione delle cellule in apoptosi mediante la valutazione del picco
ipodiploide, anche la colorazione con ioduro di propidio sopravitale è risultata poco sensibile nei
campioni non stimolati irradiati con alte dosi, infatti non è stata riscontrata una rilevante correlazione dose risposta (Figura 25). Questo suggerisce che entrambe le metodiche utilizzate non sono
adeguate a valutare la mortalità indotta dalle alte dosi di radiazione ionizzante.
51
Figura 25 – Curve di sopravvivenza, ottenute mediante colorazione con propidio sopravitale, di cellule
mononucleate non stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3, 0.9, 10, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di incubazione.
Malgrado ciò, nei campioni stimolati con PHA ed IL-2 lo stimolo a proliferare sembra proteggere
dalla mortalità cellulare indotta dalle RI, infatti rispetto ai campioni non stimolati è stata osservata
una percentuale tendenzialmente più alta di sopravvivenza cellulare (Figure 24, 25, 26 e 27).
Figura 26 - Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide, di cellule
mononucleate stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9, 3, 10, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di incubazione.
52
Figura 27 - Curve di sopravvivenza, ottenute mediante colorazione con ioduro di propidio sopravitale, di
cellule mononucleate stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9, 18.6 e 40 Gy dopo 24-96h di incubazione.
Inoltre a dosi alte è stata osservata l’inibizione dell’entrata in fase S correlata alla dose, in particolar
modo è stato osservato un blocco temporaneo a 48h dalla stimolazione (Figura 28).
Figura 28 - Percentuale di fase S specifica, considerando il controllo non irradiato pari al 100%, in cellule
mononucleate congelate ed irradiate con dose di 0.1, 0.3, 0.9, 3, 10, 18.6 e 40 Gy dopo stimolazione
mitogenica (PHA) ed IL-2. Si riscontra, anche se transitorio, una correlazione dose risposta alle alte dosi.
53
Visto che le due metodiche citometriche utilizzate per valutare la mortalità non sono risultate
adeguate per alte dosi di radiazione ionizzante, è stata valutata la sopravvivenza cellulare alle varie
dosi di radiazione ionizzante mediante la conta del numero di cellule sopravissute in citofluorimetria a flusso. Per alte dosi di radiazione la conta assoluta citofluorimetrica è risultata la tecnica
maggiormente affidabile se paragonata alla determinazione del picco ipodiploide e alla colorazione con ioduro di propidio sopravitale, sia nei campioni non stimolati (Figura 29) che stimolati
(Figura 30).
Figura 29 – Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide (CELL CICLE),
colorazione con ioduro sopravitale (PI) e mediante conta assoluta citometrica (CELL COUNT), di cellule mononucleate non stimolate e irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9, 3, 18.6 e 40 Gy dopo 96h di incubazione.
Figura 30 - Curve di sopravvivenza, ottenute mediante determinazione del picco ipodiploide (CELL CICLE),
colorazione con ioduro sopravitale (PI) e mediante conta assoluta citometrica di cellule mononucleate non
stimolate (CELL COUNT NO STIMULATION) e stimolate (CELL COUNT) , irradiate con dosi di 0.1, 0.3 , 0.9,
3, 18.6 e 40 Gy dopo 96h di incubazione.
54
L’andamento delle curve nei grafici in Figura 29 e 30 sembrano indicare il verificarsi del fenomeno
di ipersensibilità alle basse dosi (ed una radioresistenza alle alte) nel sistema congelato.
È stato confermato, anche con la conta assoluta delle cellule sopravissute (metodica affidabile
a tutte le dosi somministrate), che la stimolazione mitogenica protegge dalla mortalità cellulare
indotta dalle RI, infatti rispetto ai campioni non stimolati è stata osservata una percentuale più
alta di sopravvivenza cellulare a tutti i tempi e le dosi testate (Figure 30). Questo è un dato che
sorprende se si pensa che le RI inducono sia morte cellulare (su cellule stimolate e non) che blocco
proliferativo (solo nelle cellule stimolate) e per questo motivo ci si aspettava un numero minore di
cellule vitali nei campioni stimolati rispetto ai non stimolati. Questi dati suggeriscono che la stimolazione mitogenica è in grado di favorire la sopravvivenza delle cellule danneggiate, che se non
stimolate sarebbero morte, favorendo probabilmente la generazione di cellule mutanti.
6.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte dalle radiazioni ionizzanti
Per gli esperimenti di valutazione del numero di cellule mutanti indotte dalle RI, i campioni di cellule mononucleate congelate sono stati irradiati con l’acceleratore lineare di particelle LINAC (a raggi
X) sia per la maggior precisione di misura di somministrazione sia per la rottura dell’irradiatore
Gammacell 2000. Per indurre un’adeguata stimolazione dei linfociti T è stato scelto come sistema
di induzione alla proliferazione, il T cell Activation/Expansion KIT della Miltenyi, che è risultato essere il migliore ai fini dello scopo di questo lavoro se paragonato ai sistemi classici di stimolazione
sia come induttore di proliferazione e sopravvivenza cellulare che come riproducibilità della stimolazione. Questo sistema di stimolazione dei linfociti T che utilizza delle biglie ricoperte di anticorpi
a funzione stimolatoria, diversamente dalla PHA, limita inoltre l’aggregazione cellulare tipica dei
cloni migliorando quindi anche l’affidabilità dei dati ottenuti.
In una prima serie di esperimenti sono stati utilizzati campioni di controllo congelati e non irradiati
e campioni irradiati con la dose di 0.9 Gy (la dose più bassa in grado di indurre una mortalità cellulare significativamente più alta del controllo in cellule mononucleate congelate). Da questi primi
esperimenti fatti a diversi giorni di stimolazione non è stato possibile osservare un aumento rilevante della frequenza di mutazione nei campioni irradiati rispetto ai campioni di controllo, inoltre
la frequenza di mutazione del gene PIG-A tendeva a diminuire nel tempo come se nel sistema di
stimolazione adottato le cellule mutanti proliferassero di meno rispetto alle cellule normali (Figura
31).
55
Figura 31 – Grafico della frequenza di cellule T mutanti ogni milione di linfociti T, non irradiati (CTRL) e
irradiati con la dose di 0.9 Gy calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione. Non si osserva un aumento
rilevante della frequenza di mutazione nei campioni irradiati rispetto al controllo.
Per verificare l’assenza di un fenomeno di selezione durante la proliferazione a favore delle cellule
sane è stato valutato l’andamento della frequenza di mutazione in soggetti affetti da emoglobinuria parossistica notturna (EPN), caratterizzati da un’alta frequenza di cellule mutanti nel locus PIGA. Come è possibile osservare in Figura 32 la frequenza di mutazione è rimasta sufficientemente
costante nel tempo, ciò consente di affermare che in questo sistema di stimolazione le cellule
mutate hanno una probabilità di proliferazione simile alle non mutate, indicando che il saggio è in
grado di fornire risultati attendibili.
Figura 32 - Grafico della frequenza di cellule T mutanti ogni milione di linfociti T di un paziente con EPN
calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione. È possibile osservare come la frequenza di mutazione
rimane abbastanza costante nel tempo.
56
Figura 33 - Grafico della frequenza di cellule T mutanti ogni milione di linfociti T, non irradiati (CTRL) e
irradiati con le dosi di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione. Risulta evidente
un aumento della frequenza di mutazione alla dose di 3 Gy, in particolare a tempi lunghi.
Il saggio è stato in seguito eseguito su campioni irradiati con differenti dosi di radiazioni X (0.1,
0.3, 0.9 e 3 Gy). Al di sotto di 0.9 Gy non sono state riscontrate differenze rilevanti rispetto al
controllo mentre sembra evidente l’aumento della frequenza di cellule mutanti alla dose di 3 Gy,
in particolare a tempi lunghi (Figura 33).
Figura 34 – Grafico delle conte assolute calcolato al t0 e dopo vari giorni di stimolazione nel controllo pari
a 100 e nei campioni irradiati con le dosi di 0.1, 0.3, 0.9 e 3 Gy.
57
Su questi stessi campioni è stato analizzato l’andamento della proliferazione e sopravvivenza cellulare mediante conta assoluta citofluorimetrica del numero di cellule vitali. È noto infatti che le RI
inducono sia morte cellulare che blocco proliferativo per questo motivo ci si aspettava un numero
minore di cellule vitali nei campioni irradiati. Come è possibile osservare in Figura 34 i campioni
mostrano una crescita paragonabile al controllo, una leggera riduzione del numero di cellule vitali
è osservabile in seguito alla somministrazione di 3 Gy.
6.3 Risultati relativi agli embrioni prodotti in vitro
6.3.1 Tasso di gravidanza
Dopo 40 giorni dal trasferimento embrionale (due embrioni per pecora) è stata eseguita la prima
diagnosi di gravidanza. Il gruppo di controllo, costituito da embrioni non irradiati, ha mostrato un
tasso di gravidanza del 75% (3/4), per il “gruppo 0.3 Gy” si è ottenuto un tasso del 55% (5/9), per
il “gruppo 2.4 Gy” un tasso del 42% (5/12), mentre non è stata diagnosticata alcuna gravidanza
per il gruppo di embrioni irradiati con la dose di 19.2 Gy (Tabella 3).
Gy
Pecore Riceventi
(n°)
Embrioni Trasferiti
Tasso di gravidanza
0.3
9
18
55%
(5/9)
2.4
12
24
42%
(5/12)
19.2
5
10
0%
(0/5)
Controllo
4
8
75%
(3/4)
Tabella 3 - Tasso di gravidanza (a 40 giorni) di embrioni prodotti in vitro irradiati a diverse dosi di radiazioni
gamma e trasferiti dopo scongelamento in pecore riceventi.
58
6.3.2 Tasso di natalità
Gli agnelli nati dagli embrioni irradiati con 0.3 Gy sono stati il 28% (5/18) con nessuna mortalità
post-parto, dei cinque agnelli nati tre erano maschi e due le femmine. Mentre gli agnelli nati da
embrioni irradiati con 2.4 Gy sono stati il 21% (5/24) e precisamente tre maschi e due femmine.
Tra i cinque agnelli nati uno ha mostrato una lieve malformazione degli arti (Figure 35).
(b)
(a)
Figura 35 – Agnelli nati da embrioni irradiati con 2,4 Gy. (a) Agnello nato sano, (b) Agnello con arti malformati.
Nei due agnelli nati morti (Tabella 4), l’autopsia ha rilevato dei difetti nei seguenti organi: cuore,
idropericardio con liquido giallo paglierino limpido, conseguente a fatto infiammatorio, stasi circolatoria e/o insufficienza respiratoria (Figura 36a), il ventricolo sinistro presentava petecchie endocardiche pre-agoniche. Erano visibili soffusioni emorragiche sub-epicardiche; fegato, soffusioni
emorragiche superficiali su entrambe le facce, epatosi con rammollimento tissutale (Figura 36b);
polmone, polmonite interstiziale acuta apicale-bilaterale (Figura 36c). Prova Docimasica negativa.
Enfisema tracheo-bronchiale; il rene presentava un’area delimitata di nefrite interstiziale acuta.
(a)
(b)
(c)
Figura 36 – (a) Idropericardio, (b) Epatosi, (c) Polmonite.
59
Dagli embrioni irradiati con 19.2 Gy non è nato nessun agnello. Mentre il gruppo di controllo ha
dato un tasso di natalità pari al 50% (4/8), esattamente un maschio e tre femmine (Tabella 4).
Gy
Pecore Riceventi
(n°)
natalità%
Sex ratio
Maschi %
Femmine %
0.3
9
18
28%
(5/18)
M 60% (3/5)
F 40% (2/5)
2.4
12
24
21%
(5/24) *
M 60% (3/5)
F 40% (2/5)
19.2
5
10
0%
(0/10)
Controllo
4
8
50%
(4/8)
Embrioni
Trasferiti
Tasso di
M 25% (1/4)
F 75% (3/4)
Tabella 4 - Tasso di natalità di embrioni prodotti in vitro, irradiati a diverse dosi di radiazioni gamma e trasferiti dopo
scongelamento in pecore riceventi. * 2 agnelli morti dopo la nascita.
6.3.3 Analisi citofluorimetriche
Le analisi citofluorimetriche del sangue prelevato mensilmente da tutti gli agnelli nati hanno mostrato valori ematici nella norma.
60
PARTE TERZA
Discussioni e considerazioni conclusive
61
7. DISCUSSIONE
7.1 Analisi della mortalità e sopravvivenza cellulare
Le radiazioni ionizzanti del fondo naturale rappresentano un fattore ambientale coinvolto nell’evoluzione biologica, nel fenomeno d’invecchiamento cellulare e nella generazione di tumori (Joseph
et al. 2000, Ohnishi et al. 1999). Studi recenti hanno messo in luce il ruolo delle RI nell’induzione
di rotture alla molecola di DNA, mutazioni cromosomiche, perossidazione lipidica, secrezione di
citochine, inibizione della proliferazione, del differenziamento cellulare e delle interazioni cellulacellula, nonché riduzione dell’attività citotossica mediata dal sistema immunitario (Morrison 1994,
Dousset et al. 1996, Ohnishi et al. 2001, George et al. 2001). Le RI possono inoltre indurre
l’espressione di p53 che, bloccando la transizione G1/S del ciclo cellulare e/o causando apoptosi,
salvaguarda la stabilità del genoma e quindi protegge dalla formazione di tumori (Ohnishi et al.
1999). I danni generati a livello del DNA restano comunque i principali responsabili degli effetti
(evolutivi, di invecchiamento e di cancerogenesi) indotti dalla radiazione su cellule e organismi
(Onhishi et al. 2001, Kadhim et al. 2004), questo ha permesso che durante il corso della selezione
naturale gli organismi viventi sviluppassero diversi meccanismi di riparazione del DNA. Sebbene
il congelamento sia un prezioso espediente in grado di rallentare il processo di invecchiamento
cellulare, il materiale biologico crio-preservato è soggetto all’azione delle RI ed inoltre non può
riparare gli eventuali danni radio-indotti a causa del blocco metabolico prodotto dalle basse temperature. È perciò possibile che le cellule crio-preservate per lunghi periodi dopo scongelamento
possano presentare, a causa dei danni accumulati, il tipico aspetto di cellule irradiate: arresto del
ciclo cellulare, apoptosi, mutagenesi e cancerogenesi. Considerando che il materiale biologico
congelato rappresenta una promessa futura nella guarigione di molte patologie attualmente incurabili e vista la nascita di numerose criobanche per la conservazione cellulare a fini terapeutici, la
conoscenza di questi fenomeni è fondamentale. Mediante l’irradiazione artificiale è infatti possibile mimare l’esposizione al fondo naturale per un certo intervallo di tempo. Si stima che un anno di
radiazione di fondo corrisponda a 2 mGy per cui 0.1 Gy corrispondono a circa 50 anni di esposizione al fondo naturale. Dalla prima serie di esperimenti condotti utilizzando basse dosi di radiazioni
ionizzanti è risultato chiaro che i campioni di cellule mononucleate non stimolate rappresentano
un valido modello per la valutazione della mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti, più
affidabile di quello con cellule stimolate, infatti solo in questi campioni è stata osservata una buona correlazione dose risposta. La proliferazione sembra invece svolgere un ruolo di protezione dai
danni radio-indotti non consentendo una chiara valutazione della mortalità cellulare. Inoltre sia
la colorazione con ioduro di propidio sopravitale che la detection del picco ipodiploide (Zamai et
al. 1993, 1996 e 2001) si sono dimostrate valide tecniche per lo studio della mortalità cellulare in
questi modelli. Infatti nel range delle basse dosi testate, sia la detection del picco ipodiploide che
la colorazione con ioduro di propidio sopravitale nei campioni non stimolati, hanno consentito di
avere una buona correlazione dose risposta. Le conte assolute citofluorimetriche fatte dopo 96h
di incubazione sono risultate una validissima tecnica d’indagine rimarcando che i campioni non
stimolati sono sicuramente il modello più sensibile al fine di valutare gli effetti delle basse dosi di
radiazione ionizzante sulla mortalità di cellule irradiate congelate. È inoltre interessante osservare
62
che l’apoptosi indotta dalle RI aumenta con l’aumentare del tempo e questo dato è probabilmente
legato al fatto che le cellule non muoiono in maniera sincrona e la mortalità va sommandosi nel
tempo.
È noto che le RI provocano sia danni diretti generati dall’azione diretta dell’irraggiamento di macromolecole biologiche che danni secondari o indiretti causati dalla diffusione di radicali liberi e
specie reattive prodotte in maniera prevalente dall’interazione della radiazione con le molecole
di acqua cellulare. Dai dati ottenuti utilizzando la dose di radiazione di 0.9 Gy (la dose più bassa
osservata, in grado di generare un significativo aumento della mortalità rispetto al controllo) è
risultato evidente che le cellule irradiate in stato di congelamento se paragonate a quelle irradiate
a parità di dose ma a temperatura ambiente mostrano una percentuale di sopravvivenza notevolmente maggiore. Questi dati sono in accordo con quanto ottenuto da Ashwood-Smith et al.
(1977 e 1979) sui fibroblasti di hamster cinese. Questi autori riportano un fattore di riduzione del
danno indotto da radiazioni X, legato alle basse temperature e all’utilizzo di DMSO, pari a 3.5. Ciò
significa che per ottenere la stessa percentuale di mortalità del campione irradiato a temperature
ambiente, per le cellule congelate occorre usare una dose di raggi X, 3.5 volte più alta. Dati presenti in letteratura (Garman 2003 e Yasui 2004) suggeriscono che l’inibizione della mortalità cellulare indotta dal congelamento possa essere legata alla riduzione del danno secondario in quanto
alle basse temperature (<-90°C), i radicali liberi hanno meno mobilità essendo imprigionati nel
sistema congelato. Gli studi di crio-cristallografia (tecnica con la quale macromolecole biologiche
sono sottoposte all’azione di raggi X per la determinazione della loro struttura tridimensionale),
condotti da Garman, suggeriscono che i campioni tenuti a temperature di -170°C, rallentando la
diffusione dei radicali liberi prodotti dalle radiazioni incidenti, riducono notevolmente i danni indotti dalla radiazione sulle macromolecole. I dati di Yasui (2004) supportano queste considerazioni
infatti in questo lavoro il numero di foci γH2AX (marker di rottura di entrambe le eliche del DNA)
indotti da raggi gamma (1 Gy) è notevolmente ridotto nei campioni irradiati a -90°C rispetto a
quelli irradiati a temperatura ambiente. Queste informazioni sono in accordo con quanto ottenuto confrontando le cellule MNC irradiate a -196°C e a temperatura ambiente, suggerendo che il
congelamento salvaguarda la vitalità cellulare. In questa azione protettiva del sistema congelato
non è comunque da escludere anche un coinvolgimento del DMSO (capace di bloccare i radicali
liberi prodotti) e di un deficit del segnale di induzione apoptotica (processo attivo che richiede
temperature ottimali per il suo espletamento).
Al fine di valutare la curva dose-risposta nel sistema congelato ed un eventuale fenomeno di ipersensibilità alle basse dosi e radioresistenza alle alte dosi, tipico di molte cellule irradiate a temperatura ambiente, ai campioni crio-preservati sono state somministrate dosi di radiazioni gamma più
elevate (sino a 40 Gy). Somministrando dosi così alte ci si è resi conto che le metodiche considerate
affidabili per la determinazione dell’apoptosi cellulare in campioni non stimolati ed irradiati con
dosi basse, non sono altrettanto valide per dosi alte ed intermedie. Tale fenomeno è probabilmente legato al fatto che le alte dosi di radiazioni, creando un maggior numero di danni, accelerano
il fenomeno apoptotico e la disintegrazione della cellula con perdita delle cellule morte durante
l’analisi dei tempi più lunghi. Un fenomeno simile può essere ipotizzato anche nel caso in cui alla
radiazione viene abbinato uno stimolo mitogenico. È stato osservato che le cellule non muoiono in
63
maniera sincrona per cui è possibile che le cellule apoptotiche presenti nei tempi iniziali successivamente si disintegrino e vengano perse dalla valutazione. Questo è risultato evidente in particolar
modo per la determinazione del picco ipodiploide nei campioni fissati in etanolo (Figura 24). La
procedura di preparazione dei campioni comporta la necessità di eseguire due lavaggi e l’utilizzo
di buffer citrato che favorisce la disintegrazione in detriti delle cellule in necrosi secondaria. In questo modo vengono perse parte delle cellule morte compromettendo l’affidabilità della procedura.
Sebbene in misura minore anche la colorazione con ioduro di propidio sopravitale non è risultata
utile ai fini della valutazione dell’apoptosi in seguito a somministrazione di alte dosi di radiazioni,
in quanto anche questa tecnica tende a sottostimare la percentuale di cellule morte. La conta
assoluta citofluorimetrica delle cellule vive è risultata ancora una volta la metodica più sensibile.
Infatti come è possibile vedere in Figura 29 i dati forniti dalla determinazione del picco ipodiploide
e della colorazione con PI sopravitale sottostimano la percentuale di cellule morte se paragonati
alla conta assoluta. Inoltre come è possibile vedere nelle Figure 24, 25, 26 e 27 anche per le alte
dosi l’impiego delle cellule non stimolate è risultato il sistema più sensibile ai fini della valutazione
della mortalità indotta dalle RI su cellule congelate. Infatti l’induzione alla proliferazione sembra
proteggere dai danni indotti dalle RI a tutti i tempi e le dosi somministrate (Figura 28). Risulta interessante osservare che nei campioni stimolati si è riscontrato un blocco temporaneo (transitorio)
dell’entrata in fase S relativo alle 48h di incubazione.
La pendenza delle curve nelle Figure 29 e 30 sembra suggerire il verificarsi nelle MNC congelate del
fenomeno di ipersensibilità alle basse dosi, fenomeno che in termini di mortalità e sopravvivenza
cellulare si traduce in una deviazione della curva dose-risposta dal convenzionale modello lineare,
con una mortalità relativamente maggiore alle basse dosi rispetto alle alte. Questo effetto è uno
dei fenomeni non lineari legati alle RI (specifici alle basse dosi e non riscontrati nelle alte) quali, la
risposta adattativa e gli effetti non targeted come l’effetto bystander e l’instabilità genomica (Hall
2006). Questo fenomeno è noto in letteratura in cellule irradiate a temperature ambiente, mentre
sembra non essere presente nei campioni congelati (Ashwood-Smith et al. 1977 e 1979). In realtà
è plausibile che la differente radiosensibilità delle cellule facenti parte del pool delle mononucleate
giustifichi l’andamento delle curve ottenute. Come riportato da Harrington (1997) all’interno della
popolazione delle cellule mononucleate, le cellule natural killer sono quelle maggiormente radioresistenti, seguono i linfociti T CD4, i monociti ed i macrofagi, i linfociti T CD8 ed infine i linfociti
B. Questo dato potrebbe giustificare le curve ottenute (sia nel sistema stimolato che non) ed il loro
disaccordo con la curva riportata in letteratura da Ashwood-Smith et al. (1977 e 1979) in una linea
cellulare congelata ed irradiata.
Dai dati ottenuti sulla mortalità/sopravvivenza cellulare indagata per alte e basse dosi di radiazioni
ionizzanti emerge che il congelamento salvaguarda la sopravvivenza cellulare, probabilmente inibendo sia il processo attivo dell’apoptosi (che richiede temperature ottimali) che il danno secondario prodotto dai radicali liberi. I radicali liberi e le specie reattive dell’ossigeno sarebbero inoltre
i principali responsabili di rotture singole del DNA e delle conseguenti mutazioni geniche riscontrabili su linfociti irradiati a basse dosi di radiazione gamma (Mognato et al. 2001, Nasonova et al.
2006). Anche il fenomeno della instabilità genomica sembrerebbe in parte legato ad una persistenza di elevati livelli di radicali liberi prodotti da disfunzioni mitocondriali indotte dalle radiazioni
64
ionizzanti (Kim et al. 2006). Come si evince dai dati delle conte assolute, è interessante notare
che anche la stimolazione mitogenica come il congelamento protegge dalla mortalità cellulare
indotta dalle RI (Figure 30). Questo è un dato sorprendente se si pensa che le cellule proliferanti
sono soggette oltre che alla morte cellulare anche al blocco proliferativo indotto dalle RI. Nel loro
complesso questi risultati suggeriscono che nel sistema congelato scelto, in particolare dopo la
stimolazione mitogenica, possa essere favorita la sopravvivenza di cellule danneggiate e quindi la
probabilità che si generino cellule mutanti. Va inoltre considerato che le cellule potrebbero non
essere in grado di riparare adeguatamente eventuali danni subiti durante il congelamento a causa
delle basse temperature alle quali gli enzimi di riparo del DNA verrebbero a trovarsi, al momento
dello scongelamento ovvero quando le rotture del DNA sono libere di manifestarsi.
Per questo motivo l’analisi della frequenza di cellule mutanti in questi campioni potrebbe fornirci
informazioni aggiuntive circa lo stato e la sicurezza del materiale biologico congelato e stoccato
per lunghi periodi.
7.2 Analisi delle cellule mutanti nel gene PIG-A indotte dalle radiazioni ionizzanti
Per l’analisi delle cellule mutanti indotte dalle RI, i campioni di cellule mononucleate sono stati
irradiati con raggi X utilizzando l’acceleratore lineare di particelle LINAC che consente una maggiore precisione nella somministrazione della dose di radiazione. Una elevata attività proliferativa
del sistema cellulare scelto è fondamentale per poter determinare la frequenza di cellule mutanti
indotta dalle RI. Per questo motivo, in accordo con quanto osservato da Gabdoulkhakova et al.
(2006), è stato scelto come sistema di induzione alla proliferazione il T cell Activation/Expansion
KIT, un sistema di stimolazione con anti-CD2, anti-CD3 e anti-CD28 che ha dato migliori risultati
rispetto al sistema classico che utilizza il mitogeno PHA e la citochina IL-2.
Nella prima serie di esperimenti condotti per la messa a punto del saggio non è stata osservata
una differenza rilevante nella frequenza di cellule mutanti tra la dose di 0.9 Gy ed il controllo non
irradiato (Figura 31). Per poter ritenere il saggio affidabile è importante che il sistema proliferativo
scelto non produca una selezione nè a favore delle cellule normali nè di quelle mutate durante i
diversi giorni di coltura. L’utilizzo di cellule mononucleate provenienti da soggetti affetti da emoglobinuria parassostica notturna ha permesso di escludere l’ipotesi che le cellule mutate potessero
proliferare di meno rispetto alle cellule normali, infatti in Figura 32 la frequenza di cellule mutate
risulta sufficientemente costante nel tempo, indicando che in questo sistema di espansione in
vitro le cellule mutate nel gene PIG-A hanno una capacità di proliferazione paragonabile a quella
delle cellule normali. A questo punto è stata calcolata la frequenza di cellule mutanti a seguito
della somministrazione di 0.1, 0.3, 0.9, e 3 Gy, utilizzando un protocollo messo a punto da Peruzzi
et al. (2010). In accordo con quanto riportato in letteratura per i granulociti (Araten et al. 1999),
nei campioni di linfociti T analizzati appena dopo scongelamento (t0) è stato riscontrato un range
di cellule mutate (tasso di mutazione spontanea) compreso tra 10 e 40 cellule per milione. Nei
diversi giorni testati al di sotto di 0.9 Gy non sono state riscontrate differenze rilevanti rispetto al
controllo mentre in Figura 33 è evidente l’aumento della frequenza di mutazione alla dose di 3 Gy
in modo particolare a tempi lunghi, arrivando a superare mediamente 100 cellule su un milione.
65
Contestualmente è stato possibile valutare la proliferazione/sopravvivenza alle varie dosi nei diversi
tempi (Figura 34). Questa informazione è importante perché parte delle cellule potenzialmente
mutanti potrebbero essere escluse dall’analisi perché contenute nella frazione delle cellule morte.
Come si vede dalla Figura 34, a parte una leggera inibizione della proliferazione/sopravvivenza
osservabile dopo la somministrazione di 3 Gy, il resto dei campioni mostra una crescita/vitalità paragonabile al controllo. L’aumento della frequenza di cellule mutanti alla dose di 3 Gy riscontrabile
dopo due settimane di coltura potrebbe essere riconducibile al fenomeno d’instabilità genomica
(Bortoletto et al. 2001, Lambert et al. 1998, Kadhim et al. 1994, Little et al. 1997, Holmberg et
al. 1998). In particolare nel lavoro di Little et al., nuove mutazioni a livello del locus genico HPRT
sono state riscontrate per diverse settimane nelle colonie di cellule di hamster cinese derivanti da
quelle direttamente irradiate mediante raggi X o particelle α. In aggiunta le mutazioni riscontrate
sembravano di tipo differente rispetto a quelle analizzate nelle cellule direttamente irraggiate.
Sia Lambert et al. che Bortoletto et al. hanno invece osservato la presenza di nuove aberrazioni
cromosomiche in un modello analogo a quello studiato ovvero linfociti T proliferanti e precedentemente irradiati.
In accordo con altri autori (Luzzato et al. 2006, Bryce et al. 2008, Miura et al. 2008 e Peruzzi et al.
2010), i dati ottenuti confermano la validità del saggio nella valutazione della frequenza di cellule
mutate a livello del locus PIG-A. In particolare i dati ottenuti indicano che questo saggio è valido
anche al fine della valutazione della frequenza di cellule mutanti indotte da radiazioni ionizzanti.
Per aumentare la sensibilità del saggio nel proseguo delle indagini saranno utilizzati sistemi con
una minore frequenza di mutazione spontanea quale ad esempio il sangue di cordone ombelicale.
7.3 Irraggiamento degli embrioni prodotti in vitro
I dati ottenuti dall’irradiazione degli embrioni di pecora vitrificati e successivamente reimpiantati
nell’utero di pecore riceventi supportano quanto ottenuto dall’analisi della mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti ovvero che il congelamento è in grado di salvaguardare la vitalità
(cellulare e degli organismi). Infatti una rilevante parte degli embrioni irradiati anche con dosi relativamente alte di raggi gamma (2.4 Gy) sono stati in grado di impiantarsi nell’utero delle pecore
riceventi dando successivamente dei buoni tassi di natalità. Queste osservazioni sono in accordo
con quanto riscontato da Glenister et al. (1984) e Glenister e Lyon (1986) negli embrioni di topo.
In questi esperimenti Glenister et al. hanno sottoposto ad irradiazioni di 0.1, 0.5, 1 e 2 Gy embrioni di topo costituiti complessivamente da otto cellule. Dopo scongelamento questi embrioni sono
stati analizzati sia in base alla morfologia sia in base alla capacità di generare dopo 24h di coltura
morule e blastule. Gli embrioni sono stati successivamente impiantati nell’utero di madri riceventi
soppresse dopo 14 giorni di gravidanza. Non sono state riscontrate in seguito ad irradiazione
anomalie nella morfologia cellulare, nella capacità di sviluppare morule e blastule, nella capacità
di impiantarsi e nella vitalità del feto. Se ne deduce che a -196°C e fino a 2 Gy la vitalità dell’embrione non risulta essere ridotta in maniera rilevante, per cui il background di radiazioni ionizzanti
che normalmente è di 1-2 mGy/anno sembrerebbe non inficiare la vitalità degli embrioni criopreservati anche per lunghi periodi. Questi dati concordano con quanto ottenuto con gli embrioni
66
di pecora, dove solo la dose di 19.2 Gy è risultata letale per gli embrioni irradiati, nessun embrione
è stato infatti in grado di impiantarsi nell’utero della pecora ricevente mentre le dosi di 0.3 e 2.4
Gy hanno consentito un rilevante tasso di attecchimento in utero e di nascita rispetto al controllo
non irradiato (Tabelle 3 e 4). Dagli embrioni irradiati con dose di 2.4 Gy due agnelli sono nati morti
(uno per aver eseguito il parto cesareo troppo precocemente) ed uno ha presento alla nascita malformazione delle anche, disturbo che si è risolto durante la crescita dell’animale. Questi fenomeni
non sono esclusivamente riconducibili all’effetto della radiazione e per questo motivo un tasso di
nascita del 21% è da considerarsi soddisfacente se paragonato al controllo (50%), visto anche il
numero limitato di embrioni impiantati. Inoltre il monitoraggio di questi animali durante tutta la
fase di crescita con continui prelievi del sangue ha consentito di escludere patologie linfoproliferative. È stata inoltre testata la fertilità di questi esemplari in vivo ed in vitro, in particolare il seme
degli agnelli maschi ha mostrato un’adeguata capacità di fecondare in vitro.
7.4 Considerazioni conclusive
In questo lavoro, svolto in collaborazione con i Laboratori Nazionali del Gran Sasso e con l’Agris
Sardegna, sono state indagate la mortalità/sopravvivenza cellulare, la frequenza di mutazione in
cellule mononucleate e la vitalità in vivo di embrioni di pecora vitrificati e irradiati con diverse dosi
di raggi γ ed X al fine di poter valutare gli effetti delle radiazioni ionizzanti sul materiale biologico criopreservato, materiale che durante il tempo di congelamento è costantemente soggetto
al background naturale delle radiazioni ionizzanti. I principali risultati ottenuti da questo lavoro
possono essere così sintetizzati.
• A basse dosi di RI la determinazione del picco ipodiplide e la colorazione con ioduro di
propidio sopravitale nei campioni di cellule mononucleate non stimolate, assieme alla
conta assoluta citofluorimetrica delle cellule vive, sono risultate delle valide metodiche
per la valutazione della morte cellulare indotta da raggi γ. Ad alte dosi di radiazione
queste due metodiche non sono altrettanto affidabili, la conta assoluta citofluorimetrica
delle cellule vive resta il test più sensibile ai fini di questo scopo.
• Da questi esperimenti si evince che il congelamento salvaguarda la vitalità cellulare infatti a parità di dose i campioni irradiati in stato di congelamento hanno mostrato una
percentuale di mortalità cellulare ridotta rispetto ai campioni irradiati a temperatura ambiente. È inoltre evidente che anche la stimolazione mitogenica come il congelamento
protegge dalla mortalità cellulare indotta dalle RI.
• Il saggio PIG-A è risultato essere un valido test al fine della valutazione della frequenza
di cellule mutanti nei campioni congelati ed irradiati con basse dosi di radiazioni X. In
particolare è stato osservato un aumento del numero di cellule mutanti, dopo due settimane di stimolazione, nei campioni irradiati a -196°C con la dose di 3 Gy, ma non a
dosi più basse.
67
• I dati relativi agli embrioni irradiati a -196°C concordano con quelli ottenuti dallo studio
in vitro sulla mortalità cellulare indotta da radiazioni ionizzanti in cellule mononucleate
congelate. Una rilevante parte degli embrioni irradiati a dosi basse ed intermedie sono
stati infatti in grado di attecchire nell’utero delle pecore riceventi e proseguire la gravidanza sino alla nascita. Inoltre durante il monitoraggio della crescita degli animali nati
vivi non sono state riscontrate patologie quali tumori o infertilità.
Questi dati permettono di far luce sullo stato di conservazione di numerose sacche, provette ed
embrioni conservati congelati per lunghi periodi. L’attualità di questi studi è legata alla recente
nascita delle banche per la conservazione di cellule staminali, ovociti, spermatozoi, embrioni, linee
tumorali, tessuti etc. Per poter utilizzare cellule staminali in protocolli terapeutici è necessario avere la certezza che il materiale reintrodotto nel paziente sia sicuro e non costituisca fonte di pericolo
per il soggetto trapiantato. Per questo motivo è importante proseguire questo tipo di indagini
andando a valutare più in dettaglio la frequenza di mutazione nel materiale biologico stoccato per
tempi lunghi a -196°C. Nel proseguo dello studio per aumentare la sensibilità del saggio PIG-A
sarà introdotto un sistema con una minore frequenza di mutazione spontanea quale il sangue di
cordone ombelicale. Inoltre un altro obiettivo previsto sarà quello di confrontare questi dati con
quelli ottenuti mediante l’utilizzo di un altro saggio per la determinazione in vitro di cellule mutanti che è il saggio HPRT. Questo saggio sebbene sia più complesso nella realizzazione sfrutta un
gene (HPRT) che ha una dimensione maggiore (circa 40 Kb) rispetto alle 17 kb del gene PIG-A e
quindi ha una maggiore probabilità di interazione con le RI, in altri termini è potenzialmente più
sensibile.
68
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“…Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere…”
Galileo Galilei
Questo lavoro è frutto della collaborazione di tante persone che mi hanno sostenuto non solo dal
punto di vista lavorativo ma soprattutto dal punto di vista umano. Un sentito ringraziamento:
al Prof Loris Zamai per i preziosi consigli durante la stesura di questo lavoro ed in particolar modo
per avermi dato la possibilità di svolgere questa ricerca;
ad Alessandra e a tutte le mie carissime colleghe del laboratorio per l’aiuto durante tutto il periodo
del dottorato ma soprattutto per l’amicizia ed il grande affetto dimostratomi;
al Dott. Filippo Centis e al Dott. Massimo Valentini del Laboratorio Di Patologia Clinica dell’Ospedale
San Salvatore di Pesaro e al Dott. Francesco Picardi del Servizio di Medicina Trasfusionale
dell’Ospedale San Salvatore di Pesaro per la loro disponibilità e per il congelamento dei campioni
di cellule mononucleate;
al SOC Fisica Medica dell’Ospedale San Salvatore di Pesaro per l’irraggiamento delle cellule
mononucleate;
al Dott. Roberto Cherubini dell’INFN- Laboratori Nazionali di Legnaro per la collaborazione e per la
disponibilità e la cortesia dimostratami;
al Dott. Antonio Maria Risitano della Divisione di Ematologia, Università Federico II di Napoli per
averci fornito i campioni EPN;
alla Dott.ssa Maria Dattena e tutti i colleghi dell’Agris Sardegna (DIRPA) settore di Riproduzione,
in particolare a Daniela, per la produzione ed il trasferimento di embrioni, il controllo degli agnelli
nati, i prelievi periodici di sangue e per avermi sempre supportato durante il percorso di formazione
sin dalla mia laurea;
al Centro Trasfusionale Presidio Ospedaliero San Francesco di Nuoro per l’irradiazione degli
embrioni;
all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sardegna, Sassari per l’analisi citofluorimetriche del
sangue.
Un grazie particolare:
ai miei genitori perché tutto questo è frutto di quanto mi hanno sempre insegnato, a mia mamma
che con la sua grinta mi ha insegnato a lottare e ad andare avanti affrontando con coraggio ogni
situazione e a mio padre perché il suo modo di essere così speciale e i suoi affettuosi consigli mi
hanno permesso e mi permettono di affrontare con sicurezza ogni decisione;
ai miei due fratelli Domenico e Marco perché sono da sempre dei punti di riferimento della mia
vita a cui voglio infinitamente bene;
a Barbara perché anche se lontane con il suo affetto mi è stata sempre vicino;
a Michele perché in lui ho trovato un amico insostituibile;
a Fred e Mario per l’amicizia e la disponibilità che mi hanno sempre dimostrato dall’inizio del
dottorato;
alle mie amiche del liceo e dell’università sempre presenti nella mia vita;
e un grazie a tutta la mia famiglia, i miei tanti zii e cugini e a quanti mi hanno aiutato durante
questa esperienza.
Un grazie anche alla famiglia di Marco, in particolare ai suoi tre nipotini Alessia, Filippo e Giulia a
cui mi sono profondamente affezionata, perchè mi sono stati sempre vicini durante questi anni
lontana da casa.
Un grazie veramente speciale a Marco perché senza la sua presenza il suo infinito affetto e la sua
forza non avrei affrontato con così tanto entusiasmo e gioia ogni giorno di questa esperienza.