Gentile studente, questo lavoro è basato su appunti di lezione e su schemi elaborati durante lo studio per questo esame, approfondimenti da libri di testo e da articoli di letteratura. La dispensa non ha l’intento di sostituire i numerosi libri esistenti sulla materia, sicuramente più approfonditi e accurati, tuttavia vuole fornire una buona base di partenza per affrontare la preparazione di questo esame, soprattutto seguendo l’impronta delle lezioni tenute durante il corso, inoltre ha la funzione di mettere ordine tra le tante nozioni del programma. Questo elaborato è a disposizione di tutti gli studenti GRATUITAMENTE, se desideri ricevere una copia in pdf scrivi all’indirizzo [email protected] Buono studio! 1. PATOLOGIA MOLECOLARE Pag. 1 1.1 MUTAZIONI Pag. 1 Pag. 2 Pag. 3 Pag. 3 Pag. 3 1.1.1 Mutazioni stabili e dinamiche 1.1.2 Concetto della premutazione 1.1.3 X-fragile 1.1.4 Distrofia miotonica 1.2 MALATTIE MONOGENICHE Pag. 4 Pag. 5 Pag. 6 Pag. 6 Pag. 7 Pag. 8 Pag. 8 Pag. 9 Pag. 10 Pag. 11 Pag. 11 Pag. 12 1.2.1 Errori congeniti del metabolismo 1.2.2 Mancanza del prodotto terminale - Albinismo 1.2.3 Accumulo di prodotto intermedio - Alcaptonuria 1.2.4 Attivazione di vie secondarie - Fenilchetonuria 1.2.5 Omocistinuria 1.2.6 Rimozione dell’inibizione a feedback - Sindrome di Lesch-Nyhan 1.2.7 Errori congeniti del metabolismo degli steroidi - Sindrome surreno-genitale 1.2.8 Errori congeniti del metabolismo dei carboidrati - Galattosemia 1.2.9 Errori congeniti del metabolismo del connettivo - Sindrome di Marfan 1.2.10 Malattie genetiche del citoscheletro - Distrofia muscolare di Duchenne 1.2.11 Malattie genetiche dei canali ionici - Fibrosi cistica 1.3 TESAURISMOSI Pag. 13 Pag. 13 Pag. 14 Pag. 15 Pag. 16 1.3.1 Glicogenosi 1.3.2 Sfingolipidosi 1.3.3 Mucopolisaccaridosi 1.3.4 Fenomeno della complementazione 1.4 MALATTIE LEGATE ALL’EMOGLOBINA Pag. 16 Pag. 16 Pag. 17 Pag. 17 Pag. 19 1.4.1 Varianti emoglobiniche normali 1.4.2 Varianti non fisiologiche 1.4.3 Anemia falciforme 1.4.4 Modello di polimerizzazione della deossi-HbS I 1.4.5 Formazione di geni ibridi 1.4.6 Talassemie 1.4.7 α-talassemie 1.4.8 β-talassemie 1.4.9 Fisiopatologia delle β-talassemie 1.4.10 Confronto tra HPFH (Hereditary Persistence of Fetal Hemoglobin) e δβ-talassemie Pag. 19 Pag. 21 Pag. 21 Pag. 22 Pag. 24 Pag. 24 1.5 MALATTIE INFLUENZATE DA FATTORI GENETICI ED ESTERNI Pag. 25 1.5.1 Deficit di glucosio-6-fosfato deidrogenasi 1.5.2 Emoglobinuria parossistica notturna 1.5.3 Sferocitosi ed ellissocitosi Pag. 25 Pag. 27 Pag. 27 1.6 AGENTI ESTERNI DI MALATTIA Pag. 28 Pag. 29 Pag. 29 Pag. 30 Pag. 31 Pag. 31 Pag. 31 Pag. 31 Pag. 32 Pag. 32 Pag. 33 Pag. 34 Pag. 34 Pag. 34 Pag. 35 Pag. 37 1.6.1 Radiazioni eccitanti 1.6.2 Sistemi di riparazione del danno genetico 1.6.3 Riparazione per escissione - NER (Nucleotide Excision Repair) 1.6.4 Meccanismo della NER 1.6.5 Riparazione post-replicativa 1.6.6 Tipi di radiazioni UV 1.6.7 Radiazioni ionizzanti 1.6.8 Densità di ionizzazione e LET (Linear Energy Transfer) 1.6.9 Radiolisi dell’acqua 1.6.10 Generazione di radicali liberi 1.6.11 Propagazione della reazione radicalica 1.6.12 Perossidazione lipidica 1.6.13 Grandezze e unità di misura 1.6.14 Sensibilità alle radiazioni nelle varie fasi del ciclo cellulare 1.6.15 Effetti della panirradiazione 1.7 TOSSINE BATTERICHE Pag. 37 Pag. 38 Pag. 39 Pag. 39 Pag. 40 Pag. 41 Pag. 41 Pag. 42 1.7.1 Tossina difterica 1.7.2 Tossina A di Pseudomonas aeruginosa 1.7.3 Tossina α di Clostridium perfrigens 1.7.4 Neurotossine 1.7.5 Tossina colerica 1.7.6 Tossine di Escherichia coli 1.7.7 Sindromi carbonchiose 1.8 NOTE Pag. 42 1.9 AUTOVALUTAZIONE Pag. 43 II 2. CITOPATOLOGIA Pag. 44 2.1 DANNO CELLULARE Pag. 44 2.2 DANNO IRREVERSIBILE E MORTE CELLULARE Pag. 45 2.2.1 Necrosi 2.2.2 Apoptosi 2.2.3 Differenze tra necrosi e apoptosi Pag. 45 Pag. 46 Pag. 52 2.3 ADATTAMENTI CELLULARI AL DANNO REVERSIBILE Pag. 52 Pag. 53 Pag. 53 Pag. 53 Pag. 54 Pag. 56 Pag. 63 Pag. 63 2.3.1 Rigenerazione 2.3.2 Iperplasia 2.3.3 Metaplasia 2.3.4 Ipertrofia 2.3.5 Atrofia 2.3.6 Aplasia 2.3.7 Anaplasia 2.4 PATOLOGIE DA ACCUMULO Pag. 63 Pag. 64 Pag. 66 Pag. 66 Pag. 68 2.4.1 Steatosi epatica 2.4.2 Patologie da accumulo di proteine 2.4.3 Amiloidosi 2.4.4 Morbo di Alzheimer 2.5 NOTE Pag. 72 2.6 AUTOVALUTAZIONE Pag. 73 3. INFIAMMAZIONE Pag. 74 3.1 INFIAMMAZIONE ACUTA Pag. 75 Pag. 75 Pag. 75 Pag. 77 Pag. 77 Pag. 78 Pag. 78 Pag. 79 Pag. 81 Pag. 82 3.1.1 Fase vascolare dell’infiammazione 3.1.2 Edema 3.1.3 Permeabilità vascolare 3.1.4 Ruolo e tipi di essudato 3.1.5 Ascesso 3.1.6 Fase cellulare dell’infiammazione acuta 3.1.7 Migrazione dei leucociti 3.1.8 Chemiotassi 3.1.9 Fagocitosi 3.2 CELLULE DELL’INFIAMMAZIONE Pag. 83 3.2.1 Granulociti neutrofili 3.2.2 Monociti/macrofagi Pag. 83 Pag. 83 III 3.2.3 Piastrine 3.2.4 Granulociti eosinofili 3.2.5 Linfociti 3.2.6 Mastociti Pag. 84 Pag. 84 Pag. 84 Pag. 84 3.3 MEDIATORI DELL’INFIAMMAZIONE Pag. 85 Pag. 85 Pag. 86 Pag. 86 Pag. 87 Pag. 88 Pag. 88 Pag. 89 Pag. 89 Pag. 90 Pag. 90 Pag. 91 Pag. 91 Pag. 92 Pag. 93 Pag. 93 3.3.1 Istamina 3.3.2 Serotonina 3.3.3 Ossido nitrico 3.3.4 Mediatori infiammatori peptidici di origine plasmatica 3.3.5 Sistema delle chinine 3.3.6 Mediatori di natura lipidica 3.3.7 Sistema del complemento 3.3.8 Citochine e chemochine 3.3.9 Citochine infiammatorie primarie 3.3.10 Interleuchina 1 3.3.11 Tumor necrosis factor 3.3.12 Interleuchina 6 3.3.13 Chemochine 3.3.14 Platelet-Activating Factor (PAF) 3.3.15 Reazione triplice della cute (di Lewis) 3.4 INFIAMMAZIONE CRONICA Pag. 93 Pag. 95 Pag. 95 Pag. 97 Pag. 97 Pag. 98 Pag. 98 3.4.1 Reazioni granulomatose 3.4.2 Granuloma tubercolare 3.4.3 Tubercolosi primaria 3.4.4 Tubercolosi secondaria 3.4.5 Test della tubercolina (di Mantoux) e test Quantiferon 3.4.6 Ulcere e aderenze 3.5 CONSEGUENZE DEI PROCESSI INFIAMMATORI Pag. 99 Pag. 99 Pag. 100 Pag. 100 Pag. 102 Pag. 102 Pag. 103 Pag. 103 Pag. 103 Pag. 104 Pag. 104 Pag. 104 Pag. 105 Pag. 105 3.5.1 Tappe della guarigione 3.5.2 Modalità di guarigione delle ferite 3.5.3 Processo riparativo per prima intenzione 3.5.4 Guarigione per seconda intenzione 3.5.5 Risultato del processo riparativo 3.5.6 Risposta trascrizionale al’ipossia 3.5.7 Proliferazione di elementi epiteliali 3.5.8 Angiogenesi 3.5.9 VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) 3.5.10 Relazione tra matrice e vasi nell’angiogenesi 3.5.11 Rimodellamento della cicatrice 3.5.12 Fattori che influenzano la guarigione delle ferite 3.5.13 Fibrosi e ruolo del sistema immunitario 3.6 PPR, PAMPs e DAMPs Pag. 106 3.6.1 PPR (Pattern-Recognition Receptors) 3.6.2 PAMPs (Pathogen-Associated Molecular Patterns) Pag. 106 Pag. 106 IV 3.6.3 DAMPs 3.6.4 TLRs (Toll-Like Receptors) 3.6.5 LPS (LipoPoliSaccaride) 3.6.6 Sepsi e shock settico Pag. 107 Pag. 107 Pag. 108 Pag. 109 3.7 EFFETTI SISTEMICI DELL’INFIAMMAZIONE Pag. 109 Pag. 110 Pag. 110 Pag. 111 Pag. 112 3.7.1 Risposta di fase acuta 3.7.2 Leucocitosi 3.7.3 Aumento della VES (Velocità di EritroSedimentazione) 3.7.4 Febbre 3.8 NOTE Pag. 113 3.9 AUTOVALUTAZIONE Pag.113 4. ONCOLOGIA GENERALE Pag. 114 4.1 DEFINIZIONI Pag. 114 4.1.1 Metastasi 4.1.2 Ipertrofia 4.1.3 Iperplasia 4.1.4 Metaplasia 4.1.5 Anaplasia 4.1.6 Carcinoma in situ 4.1.7 Lesione precancerosa 4.1.8 Displasia Pag. 114 Pag. 114 Pag. 114 Pag. 114 Pag. 114 Pag. 115 Pag. 115 Pag. 115 4.2 CLASSIFICAZIONE DEI TUMORI Pag. 115 4.2.1 Stadiazione TNM 4.2.2 Modelli di cancro Pag. 116 Pag. 117 4.3 PROGRAMMA GENETICO E CICLO CELLULARE Pag. 117 4.3.1 Programma genetico di una cellula 4.3.2 Ciclo cellulare Pag. 118 Pag. 118 4.4 CRESCITA DELLA MASSA TUMORALE Pag. 120 Pag. 120 Pag. 121 Pag. 121 Pag. 122 4.4.1 Alterazione del potenziale replicativo - il telomero 4.4.2 Blocco dell’apoptosi 4.4.3 Apporto nutritivo – neoangiogenesi 4.4.4 Curva di crescita Gompertziana 4.5 LA CELLULA NEOPLASTICA Pag. 122 V 4.5.1 Alterazioni morfologiche 4.5.2 Alterazioni cromosomiche 4.5.3 Alterazioni delle interazioni tra cellule Pag. 123 Pag. 123 Pag. 124 4.6 METASTASI Pag. 125 4.6.1 Disseminazione 4.6.2 Dormienza tumorale Pag. 125 Pag. 126 4.7 MULTIFATTORIALITA’ E MULTIFASICITA’ DEL PROCESSO NEOPLASTICO Pag. 126 4.7.1 Oncogeni 4.7.2 Identificazione degli oncogeni 4.7.3 Tipologie di oncogeni 4.7.4 Meccanismi di attivazione degli oncogeni 4.7.5 Oncosoppressori 4.7.6 Identificazione degli oncosoppressori 4.7.7 Alterazioni a carico degli oncosoppressori 4.7.8 Confronto oncogeni - oncosoppressori Pag. 126 Pag. 127 Pag. 127 Pag. 128 Pag. 129 Pag. 130 Pag. 130 Pag. 131 4.8 SINDROMI Pag. 131 Pag. 131 Pag. 131 Pag. 132 Pag. 132 Pag. 132 Pag. 132 Pag. 132 Pag. 132 Pag. 133 Pag. 133 4.8.1 Xeroderma Pigmentosum 4.8.2 Atassia Teleangectasia - ATM 4.8.3 Sindrome di WAGR - WT-1 4.8.4 Adenomatosi poliposica familiare - APC 4.8.5 Poliposi giovanile 4.8.6 Tumori del colon retto a predisposizione familiare non poliposici - MSH2 4.8.7 Sindrome di Von Hippel-Lindau - VHL 4.8.8 Multiple endocrine neoplasia (tipo 1 e 2) 4.8.9 BRCA 1 e 2 4.8.10 Identificazione di una famiglia ad alto rischio 4.9 CANCEROGENI Pag. 133 4.9.1 Cancerogeni chimici 4.9.2 Suscettibilità ai cancerogeni 4.9.3 Test di cancerogenicità 4.9.4 Test di Ames 4.9.5 Sostanze cancerogene 4.9.6 Agenti inizianti e promuoventi 4.9.7 Cancerogeni fisici 4.9.8 Linear Energy Transfer (LET) e Efficacia Biologica Relativa (EBR) 4.9.9 Dose letale - Dose cancerogena 4.9.10 Rischio oncogeno Pag. 133 Pag. 134 Pag. 135 Pag. 135 Pag. 136 Pag. 136 Pag. 136 Pag. 137 Pag. 137 Pag. 137 4.10 AGENTI INFETTIVI CORRELATI A TUMORI NELL’UOMO Pag. 138 Pag. 138 Pag. 138 Pag. 139 Pag. 139 4.10.1 HPV 4.10.2 HBV e HCV 4.10.3 EBV 4.10.4 EBV e linfoma di Burkitt VI 4.10.5 EBV e linfomi di Hodgkin 4.10.6 EBV e trapianti 4.10.7 HTLV 4.10.8 HIV Pag. 139 Pag. 139 Pag. 140 Pag. 140 4.11 miRNA E CANCRO Pag. 140 4.11.1 Modificazioni (epi)genetiche nell’espressione e funzione degli oncomiRs Pag. 141 4.12 TERAPIA DEI TUMORI Pag. 141 4.12.1 Chemioterapia 4.12.2 Farmaci bersaglio-specifici 4.12.3 Anticorpi monoclonali Pag. 141 Pag. 141 Pag. 141 4.13 NOTE Pag. 142 4.14 AUTOVALUTAZIONE Pag. 143 VII 1. PATOLOGIA MOLECOLARE La patologia è la scienza che studia le malattie e i fenomeni ad esse correlate. Per malattia invece si intende la deviazione dall’equilibrio biologico (omeostasi). Il termine sindrome vuole significare un insieme di segni e sintomi (complesso sindromico) di alterata funzione, correlati l’uno con l’altro per mezzo di alcune caratteristiche anatomo-fisiologiche o biochimiche. Si ricordi che il sintomo è un disturbo soggettivo (riferito spesso dal paziente, come ad esempio la dispnea, l’astenia, ecc.), mentre il segno è un disturbo oggettivo (visibile alla semeiotica clinica o strumentale, per esempio febbre, tachicardia, ecc.). Distinguiamo anche la differenza tra: 1) Disposizione, caratteristica particolare di una specie o di un ceppo, rispetto a gruppi filogeneticamente vicini, in funzione per esempio di un dato fattore eziologico, la differenza tra i due gruppi sarà la sensibilità a quella noxa; 2) Predisposizione, caratteristica dipendente dalla storia del soggetto che influenza la probabilità di insorgenza di una determinata patologia (es. il diabete che favorisce eventi cardiovascolari o infezioni gravi). Gli agenti di malattia possono essere esterni o interni. Per quanto riguarda gli esterni si distinguono: 1) Fisici, come le radiazioni (ionizzanti o eccitanti); 2) Biologici, come le tossine batteriche (endo o esotossine, neurotossine). Per quanto riguarda gli agenti interni invece: 1) Mutazioni; 2) Malattie monogeniche a carico di proteine enzimatiche, per esempio: a) Errori congeniti del metabolismo; b) Patologie di accumulo; 3) Malattie monogeniche a carico di proteine non enzimatiche, per esempio: a) Emoglobinopatie; b) Talassemie (α o β); c) Emoglobinuria parossistica notturna. 1.1 MUTAZIONI Esistono tipi diversi di alterazioni a carico del codice genetico, quindi del significato del DNA: 1) Sostituzioni, anche dette mutazioni puntiformi, i cui meccanismi possono essere di tipo: a) Transizione, quando si passa da una pirimidina ad un’altra (C↔T) o da una purina ad un’altra (A↔G); alcuni esempi sono: Deaminazione ossidativa, per la quale una citosina perde il gruppo –NH2 che viene sostituito da un O, in questo modo la citosina originaria diventa deossi-uracile (dU), cambia quindi la complementarietà in quanto l’uracile si appaia all’adenina, quindi se il danno non viene corretto subito, nel giro di due cicli replicativi l’alterazione viene fissata; Il passaggio da C a T può anche essere mediato dall’enzima DNA citosina metilasi, che metila la citosina in posizione 5 dando metil-citosina, dopodiché sarà sufficiente un evento di deaminazione ossidativa che comporterà il passaggio diretto a timina senza l'intermedio deossi-uracile; b) Transversione, quando si passa da una purina ad una pirimidina o viceversa. Per quanto riguarda gli effetti invece si parla di mutazioni: a) Sinonime, nelle quali viene mantenuta la traduzione originaria, cioè l’aminoacido codificato dalla tripletta relativa non cambia (codice genetico degenerato). L’unico problema in questo caso è la quantità 1 di tRNA specifico che può essere maggiore o minore rispetto a quello relativo alla tripletta originale, in questi casi sarà aumentata o diminuita la sintesi del prodotto, ma non la qualità; b) Terminazione, si tenga presente che 16 triplette su 64 (corrispondenti a 9 aminoacidi) con una singola mutazione possono diventare codoni di stop. Nel caso si verifichi una mutazione di questo tipo verrà prodotta una proteina più corta; c) Allungamento, in questo caso è il codone di stop originale a mutare, verrà quindi prodotta una proteina più lunga, la lunghezza dipenderà da dove è situato il successivo codone di stop; d) Sostituzione, grande capitolo che comprende tutte le situazioni in cui a causa di una mutazione missense, un codone codificante per un amminoacido viene sostituito con un codone con un significato diverso; 2) Inserzioni/duplicazioni/delezioni, gli effetti di queste alterazioni dipendono dal numero di nucleotidi inseriti, duplicati o deleti: a) Se il numero è 3 o un multiplo di tre verranno aggiunte o tolte triplette intere e quindi mancheranno o saranno aggiunti aminoacidi senza cambiare il frame di lettura del codice; b) Se il numero è minore o maggiore di 3 o di un suo multiplo, si avrà una frame shift mutation, ossia una mutazione che fa slittare l’ordine di lettura del codice genetico. La tripletta successiva alla sede di mutazione assumerà un significato diverso, anche il codone di stop verrà letto in modo errato e facilmente si verificherà allungamento o terminazione in caso compaia un codone di stop all’interno del gene. 1.1.1 Mutazioni stabili e dinamiche Una mutazione stabile è un’alterazione che viene trasmessa alla progenie: 1) Una mutazione è un cambiamento che causa malattia; 2) Un polimorfismo neutro invece è un cambiamento di sequenze nucleotidiche che non comporta effetti patologici. Esistono tuttavia alterazioni dinamiche, cioè che variano di generazione in generazione. Si pensi al fenomeno di espansione di triplette ripetute, per il quale un certo numero di triplette può essere ripetuto in tandem all’interno del DNA senza avere automaticamente effetti patologici, il riscontro clinico avviene in caso si superi un certo limite fisiologico di ripetizioni. È una forma di polimorfismo variabile all’interno di una stessa famiglia che varia tra una generazione e la successiva. Patologie possono verificarsi: 1) Sia che la ripetizione si verifichi in una zona interna ad un gene, in questo caso sarà espressa una proteina anomala; 2) Sia che la ripetizione si verifichi all’esterno di un gene, in questo caso sarà alterata la regolazione. Alcuni esempi di questo fenomeno sono: 1) SBMA (Spino-Bulbar Muscular Atrophy), atrofia muscolare spino-bulbare, è alterato il recettore per gli androgeni; 2) Corea di Hungtinton, malattia neurodegenerativa in cui è espansa la tripletta CAG (codificante per la glutammina). La patologia si manifesta quando si hanno più di 40 ripetizioni, è detta anche malattia poliQ, da ripetizioni di glutammine; 3) SCA-1, atrofia dei neuroni cerebellari; 4) FRAXA, espansione CGG; 5) Distrofia miotonica, espansione CTG al capo 3’ del gene per la DMPK. 2 1.1.2 Concetto della premutazione Legato al fenomeno dell’espansione delle triplette, è un processo a più stadi secondo il quale si passa da un’espansione a cui corrisponde ancora un fenotipo normale, ad un’espansione più marcata a cui corrisponde invece un fenotipo francamente malato. La premutazione è la situazione intermedia, di passaggio, in cui si ritrova l’espansione senza fenotipo malato in quanto ancora entro limiti non patologici. Pone le condizioni affinché un’ulteriore espansione provochi l’insorgenza della malattia. Un fenomeno collegato è quello dell’anticipazione, nelle generazioni successive, l’amplificazione delle triplette aumenta, e in corrispondenza peggiora il fenotipo: da condizioni lievi nelle prime generazioni, a condizioni gravi nelle generazioni più recenti. È il caso della distrofia miotonica oppure della sindrome dell’X-fragile. Quando si parla di penetranza di una malattia, si intende un fatto qualitativo, un gene è penetrante a seconda che si esprima o meno. L’espressività invece intende quanto quel gene è espresso. 1.1.3 X-fragile Malattia nella quale è riscontrabile un’alterata struttura del cromosoma X, più in particolare del braccio lungo. Con certe colorazioni si ha l’impressione visiva di un’interruzione fisica del cromosoma, quella zona è legata all’espansione della tripletta CGG al capo 5’, all’esterno della regione codificante il gene FMR1 (Fragile Mental Retardation) per la proteina FMRP. L’espansione avviene durante l’oogenesi, la patologia è caratterizzata da: 1) Ritardo mentale, è la causa più comune di ritardo mentale dopo la sindrome di Down e precede la fenilchetonuria (Sdr di Down > X-fragile > fenilchetonuria). Il QI varia tra 20 e 60 (soglia del ritardo mentale <70); 2) Macrorchidismo, con habitus tipico: viso allungato, prognatismo (mandibola pronunciata e in avanti), orecchie grandi e “a sventola”; 3) Istologicamente sono visibili spine dendritiche enormemente lunghe e di aumentata densità. L’incidenza della patologia si attesta a 1:4000 per i maschi e 1:8000 per le femmine. L’espansione è patologica quando supera le 230 ripetizioni, al di sotto delle 46 è fisiologica, la fascia intermedia è quella di premutazione. 1.1.4 Distrofia miotonica Questa patologia è causata dall’espansione della tripletta CTG, nella porzione non codificante al capo 3’ del gene per la DMPK; al di sopra delle 2000 ripetizioni abbiamo la malattia, il limite fisiologico è fino a 30. La malattia si manifesta come debolezza muscolare che compare nella tarda infanzia, tra tutti i tipi di distrofie è l’unico che presenta miotonia, cioè l’incapacità di rilasciare un muscolo dopo una contrazione. Oltre al quadro tipico distrofico, abbiamo un coinvolgimento multi sistemico: 1) Alterazioni della conduzione cardiaca, la maggiore causa di morte di questi pazienti è legata a forme d’aritmia; 2) Alterazioni del sistema endocrino, per esempio: a) ipogonadismo; b) resistenza all’insulina; 3) Cataratta. Per spiegare la varietà di manifestazioni è necessario ricondurre ciascun segno a una causa: 1) La miotonia potrebbe essere causata dall’alterazione di un canale iono-specifico per il Cloro; 3 2) Per quanto riguarda la resistenza all’insulina è stato verificato che in questi soggetti ci sono recettori per l’insulina non correttamente funzionanti; 3) Per la cataratta è stata verificata una possibile alterazione di SIX5, un gene analogo al “sine oculis” della Drosophila, connesso alla morfogenesi dell’occhio. In questo caso ci potrebbe essere un effetto di vicinanza (effetto campo) dell’ espansione della tripletta sul gene limitrofo, essendo il cromosoma 19, piccolo ma con molta informazione genetica. 4) Per quanto riguarda le anomalie cardiache, è stata trovata una alterazione della troponina T cardiaca. La spiegazione per tutte queste alterazioni è un difetto di splicing, quindi di maturazione. Esistono delle forme proteiche premature, che differiscono dalle forme mature proprio in funzione dello splicing alternativo che avviene in fasi diverse dello sviluppo. Il passaggio da forme premature a mature, nella distrofia miotonica non è più ordinata. Esistono varie forme di distrofia miotonica riconoscibili mediante l'esame del DNA: 1) Distrofia miotonica di tipo 1 (DM1); 2) Distrofia miotonica di tipo 2 (DM2). Il 98% circa di tutti i casi di distrofia miotonica rientrano nel tipo 1, ad ogni modo il tipo 2 è caratterizzato da presentazione atipica e fenotipi insoliti, con sintomi diversi dalla forma classica, pertanto verosimilmente la diagnosi è sottostimata. Nella DM1 troviamo: 1) Le alterazioni della troponina T cardiaca, queste sono state spiegate osservando la presenza nei soggetti affetti di una proteina contenente anche l’esone 5 (normalmente escluso nella forma matura) che ne compromette la funzione; 2) Le alterazioni del recettore dell’insulina. In questo caso, al contrario, un esone normalmente presente (11), viene escluso dall’mRNA. Il meccanismo patogenetico comune alla base è quindi un’alterazione della regolazione dello splicing alternativo su base differenziativa. Per spiegare il meccanismo molecolare di questa alterazione regolatoria sono state sviluppate varie ipotesi: 1) Aploinsufficienza, cioè la patologia è dovuta alla diminuita espressione della DMPK; 2) Effetto campo, trovandosi il gene di DMPK sul cromosoma 19 (piccolo ma denso di geni), non è tanto il gene in se a provocare la malattia, quanto l’intera regione in cui si trova, che è interessata nel suo complesso; 3) L’ipotesi più accreditata attualmente prevede invece che le ripetizioni delle triplette vengano trascritte insieme all’mRNA, questo viene poi accumulato in foci all’interno della cellula non essendo traducibile. Gli accumuli di mRNA mutato sequestrano due tipi di proteine leganti RNA: a) CUG-BP (CUG Binding Protein) che lega triplette CUG (non CTG in quanto si parla ora di RNA), nella DM1 infatti si osserva aumentata espressione di queste proteine; b) MBNL (Muscleblind-like proteins). Queste proteine hanno un ruolo di regolazione dello splicing, essendo sequestrate nei foci di mRNA mutato vengono quindi titolate e viene a mancare la loro funzione nel resto della cellula. Nella DM2 troviamo invece l’espansione di una quadrupletta CCTG, non sul cromosoma 19 ma sul 3, all’interno di un introne del gene ZFN9 (che codifica per una proteina legante l’RNA). 1.2 MALATTIE MONOGENICHE Sono malattie causate dal difetto di un solo gene, sono quindi geneticamente determinate e il carattere patologico viene tramandato di generazione in generazione. L’ereditarietà può essere (come per tutti i geni): 4 1) Autosomica dominante; 2) Autosomica recessiva; 3) Legata al cromosoma X. La dominanza e la recessività sono dipendenti dalla dose genica, il gene alterato codificherà per un prodotto anomalo, se per esempio verrà prodotta metà della quantità normale di proteina e questa sarà sufficiente alle cellule si avrà la recessività, e viceversa. Le malattie monogeniche inoltre possono definirsi malattie rare, la loro incidenza varia attorno a 1/20000 e 1/200000. Attenzione che trattandosi di malattie genetiche, è possibile trovare particolari etnie che mostrano un’incidenza spiccatamente più alta della popolazione generale: all’interno di questi gruppi chiusi il carattere si trasmetterà in maniera congenita. L’incidenza nel caso delle patologie a trasmissione recessiva equivarrà al quadrato della frequenza genica, per le malattie dominanti invece i due parametri (incidenza e frequenza genica) coincidono 1.2.1 Errori congeniti del metabolismo Dato un generico schema di una catena metabolica: Le situazioni che possono verificarsi sono: 1) Mancanza del prodotto terminale, il prodotto terminale viene a mancare a causa di un blocco enzimatico e si abbassa quindi la sua concentrazione; 2) Accumulo di substrato iniziale a causa del blocco enzimatico del primo enzima della catena, ne consegue l’aumento di concentrazione di A; 3) Attivazione di vie secondarie che in situazioni normali sono poco o per nulla utilizzate, questa condizione è causata dall’aumento di concentrazione di substrati a monte del blocco enzimatico, e rappresenta un tentativo di smaltimento dell’accumulo; 4) Rimozione dell’inibizione a feedback, può essere causata da una modifica del sito allosterico dell’enzima E1 responsabile della regolazione a feedback negativo, l’enzima diverrà insensibile alla concentrazione di D con conseguente aumento della produzione di D stesso. 5 tirosina 1.2.2 Mancanza del prodotto terminale - Albinismo L’albinismo è una malattia autosomica recessiva caratterizzata da una ipopigmentazione generalizzata data dalla mancanza dell’enzima tirosinasi, componente fondamentale del processo di sintesi della melanina. La pigmentazione della cute dipende dalla presenza di unità melaniniche, queste sono costituite da un melanocita che tramite delle ramificazioni dendritiche contatta circa 30-40 cheratinociti. I melanociti producono melanina e la inviano ai cheratinociti organizzata in melanosomi che andranno poi a disporsi attorno ai nuclei. La melanina è sintetizzata costitutivamente ad un livello base, una certa quota però, può essere prodotta in seguito ad esposizione ai raggi UV. Si tratta di un polimero ad alto peso molecolare di forma granulare, ne esistono diverse forme: 1) Eumelanine, più scure; 2) Feomelanine, presentano molte cisteine all’interno della molecola che favoriscono la formazione di ponti disolfuro. Sono caratteristiche dei fenotipi con capelli rossi e pelle chiara. processamento ad opera della tirosinasi DOPA-chinone idrossi fenilalanina in forma chinolonica indolo 5,6 chinone unità fondamentale del polimero polimerizzazione ossidativa melanina La funzione della melanina è quella di proteggere l’organismo da possibili danni esogeni, hanno infatti un alto grado di scattering della luce, e ne assorbono l’intensità. Inoltre funziona come accettore di elettroni neutralizzando i radicali liberi. I melanosomi si sviluppano in quattro stadi: 1) Formazione di vescicole rotondeggianti; 2) Allungamento delle strutture e comparsa di filamenti longitudinali; 3) Deposizione dei granuli di melanina lungo i filamenti; 4) Melanosoma maturo carico di melanina e contenente tirosinasi. Esistono anche altre alterazioni che causano albinismo, la mancanza dell’enzima tirosinasi provoca una forma di albinismo detto oculo-cutaneo. 1.2.3 Accumulo di prodotto intermedio - Alcaptonuria L’alcaptonuria è una malattia autosomica recessiva provocata dalla mancanza dell’enzima omogentisico (o omogentisinico) ossidasi (componente della via catabolica della fenilalanina), che trasforma l’acido omogentisinico in acido maleilacetoacetico. La malattia è caratterizzata dall’aumento di concentrazione di acido omogentisinico, il quale tende a polimerizzare in alcaptone; questa macromolecola viene poi escreta con le urine e in seguito all’esposizione all’aria si ossida facilmente diventando scuro dando un caratteristico colore all’urina. Clinicamente si manifesta in età tardiva con: 1) artrite vertebrale, l’acido omogentisinico si lega selettivamente al collagene dei tessuti connettivi, articolari (deposizione nelle articolazioni e nella cute) e tendinei dando l’artrite; 2) Pigmentazione bluastra (ocronosi). Acido fumarico Fenilalanina Tirosina Fosfoidrossifenilpiruvato Acido omogentisinico 6 Acido maleilacetoacetico Acido acetoacetico 1.2.4 Attivazione di vie secondarie - Fenilchetonuria La fenilchetonuria classica (PKU) è una malattia autosomica recessiva causata dalla mancanza dell’enzima fenilalanina-4-idrossilasi, che idrossila la Phe in posizione 4 trasformandola in tirosina. Il blocco enzimatico conseguente alla mancanza di questo enzima provoca: 1) Accumulo di prodotto intermedio, la concentrazione ematica di Phe raggiunge livelli tossici (20mg/dl); 2) Mancanza di prodotto terminale, viene a mancare la produzione di Tyr, che diventa quindi un aminoacido essenziale; 3) Attivazione di vie secondarie, la fenilalanina è infatti in equilibrio con altri composti, normalmente è smaltita dall’enzima in questione, in caso di blocco invece l’equilibrio si sposta verso la formazione degli altri composti: a) Acido fenil-piruvico (escreto con le urine); b) Acido fenil-lattico; c) Acido fenil-acetico. Queste molecole vengono anche secrete col sudore determinando il tipico odore “di topo”. Essendo sostanze tossiche, l’aumento della loro concentrazione provoca: 1) Idiozia fenilchetonurica (manifesta a circa 6 mesi dalla nascita), il ritardo mentale è grave (mediamente 20 di QI) ed è dato da: a) Tossicità diretta sul tessuto cerebrale della Phe ad alte concentrazioni; b) Mancanza di substrati per la produzione dei neurotrasmettitori (nor)epinefrina e serotonina (5HT); c) Alterazione complessiva della sintesi proteica, in quanto la Phe in alte concentrazioni impegna per competizione il trasportatore comune a vari aminoacidi presente sulle membrane cellulari viene influenzata la formazione di proteine in genere (fenomeni di demielinizzazione). Siccome la Phe passa la barriera placentare, le alterazioni si possono anche osservare in un feto sano con madre malata. La tossicità diretta della Phe causa il fenomeno chiamato fenocopia, per il quale il feto pur non essendo portatore del difetto genetico è portatore del fenotipo malato; 2) Ipopigmentazione cutanea e pilifera; 3) Eczemi. La concentrazione di fenilalanina è tenuta sotto controllo con diete povere di questo aminoacido, è l’unico approccio terapeutico efficace. Con questo metodo non si raggiungono mai valori normali di Phe nell’organismo, ma se diagnosticata precocemente si limitano gli effetti sul sistema nervoso. Il deficit mentale inoltre, sarà tanto più grave quanto più tardivo sarà l’intervento. 7 Per evidenziare la patologia è possibile usare un metodo colorimetrico che individua il fenilpiruvato nelle urine (test di Guthrie). Esistono anche altri tipi di fenilchetonuria dovute ad alterazioni diverse. L’enzima Phe-4-idrossilasi necessita del cofattore THBT (tetraidrobiopterina) che viene trasformato a DHBT (didrobipoterina) nella reazione di idrossilazione della fenilananina, il cofattore viene poi rigenerato con spesa di un NADPH. Difetti a carico degli enzimi DHBT reduttasi (PKU 2) e sintetasi (PKU 3) bloccano la sintesi di Tyr a partire dalla Phe, causando quindi iperfenilalaninemia. Essendo la THBT un cofattore di altri enzimi il quadro clinico di questi deficit è peggiore. 1.2.5 Omocistinuria Malattia autosomica recessiva dovuta alla mancanza dell’enzima cistationina sintetasi della via della transulfurazione. La patologia interessa diversi tessuti ed è caratterizzata dalla presenza di omocisteina nelle urine. Gli effetti patologici sono dovuti a: 1) Accumulo di omocisteina, che provoca: a) Diminuzione dei legami tra molecole di collagene: Ectopia lentis (dislocazione del cristallino); Deformazioni ossee; Osteoporosi; b) Aumento di adesività delle piastrine e conseguenti eventi trombotici (venosi ed arteriosi): Infarto miocardico; Embolia polmonare; Ipertensione renale; 2) Deficit di cistationina, che causa ritardo mentale. In realtà non è chiarito se il ritardo mentale sia causato da deficit cistationina e dagli eventi trombotici ripetuti che possono provocare ipoperfusione cerebrale e quindi atrofia. L’iperomocisteinemia (>100 μmol) è un grave fattore di rischio per l’aterosclerosi, in quanto causa disfunzione endoteliale favorendo la formazione di radicali liberi, e interferisce con la funzione vasodilatatrice e antitrombotica dell’ossido nitrico. 1.2.6 Rimozione dell’inibizione a feedback - Sindrome di Lesch-Nyhan Malattia a trasmissione X-linked causata da mutazione inattivante dell’enzima ipoxantina-guanina fosforibosil transferasi, una transferasi che sposta l’ipoxantina e la guanina sul substrato di fosforibosil, è un enzima importante soprattutto per il meccanismo di “salvataggio delle purine” che permette il recupero di precursori delle purine. L’inattivazione di questo enzima provoca diminuzione della concentrazione di acido guanilico e conseguente rimozione dell’inibizione a feedback sul primo enzima del catabolismo delle purine (PRPP-glutammina-amino transferasi, HGPRT), l’effetto finale è l’aumento di concentrazione di acido urico (iperuricemia) e la perdita del meccanismo di salvataggio delle purine. 8 Il quadro principale della malattia è: 1) Una sindrome neurologica grave, caratterizzata da movimenti involontari (coreoatetosi) e tendenza all’automutilazione; 2) Inoltre il trattamento dell’iperuricemia con inibitori della sintesi di purine (alopurinolo) non migliora il quadro sintomatico; 3) Alterata attività della dopamina-β-idrossilasi (DBH) e della monoamino-ossidasi (MAO), rende tra le altre cose ragione dei disturbi comportamentali, in quanto l’alterazione di questi enzimi si riflette sulle quantità dei neurotrasmettitori che loro stessi producono. Per comprendere questo fatto si pensi che gli inibitori delle MAO sono usati come antidepressivi; 4) Malattia fatale alla pubertà. Gli eterozigoti sono individuabili con misurazione dell’attività enzimatica in fibroblasti in coltura, nella sindrome di LN l’attività della HGPRT è azzerata. In malattie come la nefrolitiasi da acido urico o nell’artrite gottosa l’attività di questo enzima è labilmente conservata (circa l’1%). 1.2.7 Errori congeniti del metabolismo degli steroidi - Sindrome surreno-genitale La sindrome surreno-genitale (o adreno-genitale o iperplasia surrenalica congenita) è una malattia a trasmissione autosomica recessiva caratterizzata, nella forma più frequente, dal deficit enzimatico della 21-β-idrossilasi. La mancanza di questo enzima provoca un doppio blocco enzimatico nella catena metabolica degli ormoni steroidei. Gli effetti sugli ormoni steroidei sono: 1) Aumento di steroidi sessuali secondario al deficit dell’enzima ha un effetto virilizzante sul soggetto, nel sesso femminile comporta ambiguità delle gonadi, nel sesso maschile invece comporta precocità dello sviluppo puberale; + 2) Riduzione di mineralcorticoidi e conseguente squilibrio dell’omeostasi ionica (ingente perdita di Na ). L’azzeramento della produzione di mineralcorticoidi in caso di deficit completo dell’enzima non è compatibile con la vita, invece se permane una attività anche molto bassa il soggetto può sopravvivere. 9 1.2.8 Errori congeniti del metabolismo dei carboidrati - Galattosemia Malattia autosomica recessiva che comporta aumento dei livelli ematici di galattosio. La patologia esiste in due forme legate a deficit enzimatici diversi: 1) Galattosemia I → deficit di galattosio-1-fosfato uridiltransferasi; 2) Galattosemia II → deficit di galattochinasi. Tipo di malattia Galattosemia I Galattosemia II Segni caratteristici Ritardo mentale Fibrosi epatica con possibile evoluzione in cirrosi Cataratte Inoltre la malattia presenta spesso: 1) Vomito e diarrea; 2) Ittero ed epatomegalia; 3) Coagulopatia; 4) Emolisi; 5) Insufficienza gonadica. Il quadro clinico è molto variabile da soggetto a soggetto. Il trattamento prevede semplicemente la sospensione del latte dalla dieta per almeno 2 anni. A livello fisiopatologico le conseguenze della galattosemia di tipo I sono: 1) Accumulo di galattosio-1-P nel fegato → fibrosi epatica e degenerazione grassa; 2) Accumulo di galattosio-1-P nella corteccia cerebrale → ritardo mentale (≠ idiozia). Per quanto riguarda la galattosemia di tipo II invece l’accumulo di galattosio nel sangue facilita la sua trasformazione a galattitolo, un alcol che penetra nel cristallino richiamando osmoticamente H 2O dando luogo alle tipiche cataratte. 10 1.2.9 Errori congeniti del metabolismo del connettivo - Sindrome di Marfan Malattia autosomica dominante causata da deficit della glicoproteina fibrillina (350 kDa), componente delle microfibrille della matrice extracellulare, le quali formano l’impalcatura per la tropo-elastina delle fibre elastiche. La fibrillina è quindi coinvolta nella formazione delle fibre elastiche, è intuitivo che gli effetti di una sua mancanza vadano a riflettersi soprattutto sui tessuti particolarmente ricchi di questa componente: 1) Aorta, è molto favorita l’insorgenza di aneurismi dissecanti dell’aorta; 2) Zonulae ciliaris del cristallino, si verifica facilmente dislocazione del cristallino; 3) Legamenti e sistema scheletrico, gli individui affetti da questa malattia si presentano visivamente con alcune caratteristiche tipiche: a) Statura elevata; b) Arti allungati; c) Dita affusolate (aracnodattilia); d) Fenomeni di contratture muscolari. La trasmissione è autosomica dominante in quanto vengono prodotte molecole di fibrillina difettose, queste molecole poi entrano a far parte di complessi proteici mal funzionanti nonostante la presenza di molecole regolari (codificate dall’allele sano in soggetti eterozigoti). È un esempio di dominanza negativa. Sono stati identificati due geni responsabili della malattia: 1) FBN 1, gene che presenta più di 500 possibili mutazioni; 2) FBN 2, meno frequente. 1.2.10 Malattie genetiche del citoscheletro - Distrofia muscolare di Duchenne Malattia a trasmissione X-linked dovuta alla mancanza di distrofina, proteina che rappresenta il collegamento tra citoscheletro della cellula muscolare, proteine contrattili sarcoplasmatiche e matrice extracellulare (collegamento tra l’actina filamentosa e il distroglicano). La distrofina è considerata un meccano trasduttore, cioè un meccanismo che consente di trasmettere le modificazioni di tipo meccanico dall’interno all’esterno e viceversa. Il gene della distrofina si trova sul cromosoma X ed è composto da 2400 kb (79 esoni), la proteina matura pesa 400 kDa ed è lunga 3685 aminoacidi. Il gene è preceduto da vari promotori che ne spiegano la tessuto-specificità. Il difetto più frequente a carico del gene è una delezione con frame-shift e produzione di una proteina più corta e non funzionante. 11 Esiste una variante della malattia, detta distrofia di tipo Becker, nella quale la delezione avviene mantenendo però il frame di lettura, la proteina è comunque più corta ma ha una capacità funzionale residua. La manifestazione clinica della malattia risulta quindi meno grave. Altri tipi di distrofie sono causate da alterazioni degli altri componenti del complesso sarcolemmale multi proteico, per esempio i sarcoglicani α, β o μ. 1.2.11 Malattie genetiche dei canali ionici - Fibrosi cistica Malattia autosomica recessiva legata all’alterato funzionamento della proteina CFTR (Cystic Fibrosis Trans-membrane conductance Regulator). Questa proteina non è un semplice canale o pompa ionica, ma ha anche funzioni regolatorie dei flussi trans membrana. Il gene per CFTR si trova sul cromosoma 7 ed è composto da 230 kb (27 esoni). La proteina matura è lunga 1480 aminoacidi e presenta vari domini con funzioni diverse: 1) Due domini MSD con 6 segmenti trans membrana; 2) Due domini NBD (Nucleotide Binding Domain) che legano ATP; 3) Dominio R regolatorio con quattro siti fosforilabili (la mancanza di questi siti comporta attività costitutiva). Tipo di malattia Tipologia di mutazione Effetto I Mutazione del codone d’inizio, assenza di CFTR Deficit di sintesi proteica II Manca la glicosilazione a livello del Golgi ed è alterato il trasporto in membrana (è il difetto prevalente, tra i quali compare anche ΔF508, ossia delezione della tripletta che codifica per la Phe in posizione 508) Elaborazione e trasporto anomalo III Mutazione a carico dei domini regolatori R o NBD Alterata regolazione IV Mutazioni in MSD 1 Diminuita conduttanza, normale quantità di CFTR ma poca attività funzionale residua V Sintesi o traffico ridotto Ridotta quantità di CFTR funzionale VI Ridotta stabilità CFTR funzionale ma instabile I segni caratteristici della malattia sono tutti secondari a fenomeni alterati di secrezione: 1) Infezioni ricorrenti delle vie respiratorie da Pseudomonas aeruginosa, il muco delle vie respiratorie diventa + più viscoso per il mancato efflusso di ioni Cl e riassorbimento di Na sulla superficie dell’epitelio, ne consegue una marcata disidratazione del muco, che diventando appunto più viscoso è più difficilmente eliminabile e ristagna quindi nelle vie (la malattia è anche detta per questo mucoviscidosi). Questo facilita le infezioni; 2) Insufficienza pancreatica e malassorbimento intestinale; 3) Sudore ipertonico; 4) Ileo meconio nei neonati (ostruzione e accumulo fecale intestinale); 12 5) Infertilità. I possibili approcci terapeutici sono: + 1) Utilizzo di amiloride, un diuretico che blocca l’ingresso di Na nell’epitelio respiratorio; 2) ATP e UTP, se applicati direttamente alla superficie dell’epitelio respiratorio fanno aumentare il flusso di Cl lungo un percorso alternativo a quello di CFTR; 3) DNAasi ricombinante, riduce la viscosità del muco dovuta agli acidi nucleici dei batteri intrappolati; 4) Inibitori specifici delle fosfatasi, mantengono la proteina mutata nello stato fosforilato; 5) Terapia genica. 1.3 TESAURISMOSI Le tesaurismosi sono patologie causate dall’accumulo nelle cellule o nei tessuto di materiale anomalo o di materiale fisiologico ma in quantità patologiche (patologie da accumulo). Generalmente si tratta di malattie a trasmissione autosomica recessiva o X-linked. 1.3.1 Glicogenosi Sono patologie da accumulo di glicogeno, ne esistono parecchie varianti in base al tipo di alterazione genetica. Classificazione di Cori-Cori Tipo GSD I GSD II GSD III GSD VI GSD V GSD VI GSD VII GSD VIII-IX-X Nome Malattia di Von Gierke (o sindrome epato-renale) Malattia di Pompe (o glicogenosi generalizzata) Malattia di Forbes o Cori (o destrinosi limite) Malattia di Andersen (o amilopectinosi) Malattia di Mc Ardle Malattia di Hers Malattia di Tarui Alterazione Deficit di glucosio-6P-fosfatasi Deficit di maltasi acida Deficit enzima deramificante Deficit di enzima ramificante Deficit di mio fosforilasi Deficit di fosforilasi epatica Deficit di fosfofruttochinasi Deficit di fosforilasi chinasi epatica La malattia di Von Gierke, o sindrome epato-renale (GSD I) (attenzione a non confonderla con la sdr. epato-renale secondaria a cirrosi), è dovuta al deficit dell’enzima glucosio-6-fosfato fosfatasi (che si trova appunto in fegato e rene), enzima fondamentale per il mantenimento della glicemia a livelli fisiologici (è responsabile della mobilizzazione dell’enzima). Ne esistono due sottotipi: 1) Nella Ia manca l’enzima G6P fosfatasi; 2) Nella Ib è difettoso il trasportatore T1, per cui non è possibile l’importazione di G6P nel reticolo endoplasmatico. La malattia è caratterizzata da: 1) Ipoglicemia, la quale non può essere trattata con somministrazioni di glucosio in quanto si andrebbe a favorire l’accumulo di glicogeno nel fegato. La malattia viene affrontata con una dieta a base di pasti piccoli ma frequenti, l’individuo si adatta a vivere con livelli glicemici molto bassi e riesce ad avere una vita abbastanza normale se supera la fase iniziale di convulsioni (col tempo l’organismo si abitua ad utilizzare altre vie metaboliche come la gluconeogenesi); 13 2) Iperpiruvicemia e iperlattacidemia, dovuti all’aumento di attività della via glicolitica; 3) Iperlipidemia e steatosi epatica, dovuti all’aumento del catabolismo degli acidi grassi; 4) Formazione di corpi chetonici e acidosi metabolica, conseguenti alle alterazioni sopra nominate. La malattia di Pompe (GSD II) è la forma più grave di glicogenosi, è caratterizzata dall’accumulo lisosomiale di glicogeno dovuto al deficit dell’enzima maltasi acida, responsabile della degradazione del glicogeno appunto all’interno dei lisosomi. La patologia è fatale entro i due anni di vita a causa dell’accumulo di glicogeno nel cuore (glicogenosi cardiomegalica), sono inoltre riscontrabili epatomegalia e lieve ipotonia muscolare. La malattia di Forbes o di Cori (GSD III) detta anche destrinosi limite, è dovuta al deficit dell’enzima deramificante. L’individuo affetto è in grado di degradare il glicogeno solo fino alla prima ramificazione. Le molecole di glicogeno appaiono molto ramificate e abnormi, simili alla destrina (da cui il nome). Anche questa malattia necessita una dieta a pasti piccoli e frequenti per limitare l’accumulo di glicogeno. La malattia di Andersen (GSD IV), o amilopectinosi, al contrario della precedente, è causata da un deficit di enzima ramificante. Le molecole di glicogeno appaiono molto lunghe, abnormi e poco ramificate (simili all’amilopectina, da cui il nome), e vengono riconosciute come estranee, stimolando una reazione fibroso-connettivale che porta nel giro di pochi anni dalla nascita a cirrosi epatica. L’aspettativa di vita è quindi molto bassa (3-4 anni). La malattia di Mc Ardle (GSD V) è causata dal deficit dell’enzima miofosforilasi. È definita come malattia da intolleranza all’esercizio fisico, infatti in seguito a sforzi fisici blandi è caratterizzata da: 1) Dolori intensi; 2) Crampi muscolari; 3) Rabdomiolisi (rottura delle fibre muscolari); 4) Mioglobinuria; 5) Senza aumento dell’acido lattico. Le altre forme sono ancora più rare e di minore importanza. 1.3.2 Sfingolipidosi Le sfingolipidosi sono malattie dovute all’accumulo di sfingolipidi che causano degenerazione cellulare. 14 Si ricordi che i lipidi complessi sono composti da una molecola di ceramide (sfingosina + una catena alifatica mediolunga) attaccata a: 1) Fosfatidilcolina → sfingomieline; 2) Catene oligosaccaridiche → cerebrosidi; 3) Zuccheri semplici → sulfatidi; 4) Oligosaccaridi con residui di acido sialico → gangliosidi. Alcuni esempi di sfingolipidosi sono: 1) Gangliosidosi generalizzata, causata da un deficit dell’enzima β-galattosidasi. Questo enzima ha il ruolo di liberare il β-galattosio dai gangliosidi composti da ceramide + Glu-N-acetilGal-βGal. Nella via catabolica normale un altro enzima scinde l’N-acetil galattosio e così via. Il deficit enzimatico in questa malattia provoca il blocco all’entrata della via catabolica, causando quindi l’accumulo del ganglioside di partenza ancora integro. Gli effetti saranno soprattutto a carico del tessuto nervoso dove questo ganglioside particolare è molto abbondante; 2) Malattia di Tay-Sachs, causata dal deficit dell’enzima esosamminidasi A. Questo enzima è responsabile della scissione del ganglioside GM2, che non verrà degradato e quindi viene accumulato nei neuroni. La malattia è anche chiamata idiozia amaurotica familiare, in quanto: a) È geneticamente determinata; b) Presenta tipicamente deficit intellettivo grave; c) Comporta una progressiva perdita della vista fino alla cecità (il segno patognomonico è il ritrovamento di uno spot rosso ciliegia sulla macula della retina). Questa patologia è rara ma si ritrova con un’incidenza nettamente più alta tra gli ebrei Askenazi. L’esosamminidasi è un enzima composto da 3 subunità: a) Una subunità di attivazione; b) Un dimero effettore, questo può essere un omodimero β+β (esosamminidasi B) o un eterodimero α+β (esosamminidasi A). A seconda che sia mutata la subunità α o quella β la patologia è diversa: a) Subunità α → malattia di Tay-Sachs, nella quale manca l’esosamminidasi A ma la B è ancora funzionante (vengono degradati tutti i composti meno il GM2); b) Subunità β → malattia di Sandhoff, nella quale il vengono a mancare tutte e due i tipi di esosamminidasi, il che comporta una patologia più grave rispetto alla precedente; c) Un terzo caso è dato dalla mancanza della subunità di attivazione; 3) Malattia di Gaucher, dovuta al deficit dell’enzima glucocerebrosidasi, responsabile della scissione dei glucocerebrosidi in ceramide + glucosio. È una malattia eterogenea, esistono infatti più forme con gravità variabile. Essendo i glucocerebrosidi molto rappresentati nelle membrane eritrocitarie, lo scorretto smaltimento causa difficoltà nell’eritrocateresi. I glucocerebrosidi vengono accumulati nei macrofagi che assumono un aspetto schiumoso; 4) Malattia di Niemann-Pick, dovuta al deficit dell’enzima sfingomielinasi, deputato alla degradazione della sfingomielina. Si ha un accumulo di sfingomielina nei macrofagi che assumono anche in questo caso aspetto schiumoso. 1.3.3 Mucopolisaccaridosi Degenerazioni cellulari dovute all’accumulo di mucopolisaccaridi. I mucopolisaccaridi sono molecole complesse formate da ripetizioni di unità disaccaridiche, per esempio: 1) Dermatansolfato (ds) formato da acido iduronico + acetilgalattosammina-4-solfato; 2) Eparansolfato (es) formato da acido glucuronico + N-acetiglucosammina-solfato. 15 Alcuni esempi di questa famiglia di malattie sono: 1) Mucopolisaccaridosi di tipo I (malattia di Hurler), malattia autosomica recessiva, causata da deficit dell’enzima α-iduronidasi. Nella degradazione dei mucopolisaccaridi viene staccata la galattosammina ma non l’acido iduronico, con conseguente accumulo di mucopolisaccaride. La malattia è caratterizzata da: a) Anomalie fisiche gravi e difetti di crescita; b) Elevato deficit mentale; c) Gargoilismo; d) Dislocazione del cristallino; e) Sordità; f) Ritrovamento di es e ds nelle urine; g) Anomalie cardiache; h) Bassa aspettativa di vita. 2) Mucopolisaccaridosi di tipo II (malattia di Hunter), simile alla precedente ma a trasmissione X-linked e legata al deficit dell’enzima solfoiduronato solfatasi, questo enzima è necessario per rimuovere il gruppo solfato dal solfo-iduronato. È meno grave della malattia di Hurler e presenta una grande variabilità di manifestazione: in alcuni casi può prevalere il deficit intellettivo, in altri l’anomalia fisica. 3) Malattia di Sheie, dovuta sempre al deficit dell’enzima α-iduronidasi ma con un difetto genetico diverso dalla malattia di Hurler. La patologia è clinicamente meno grave, infatti non è presente nessun difetto intellettivo e le anomalie fisiche sono scarse. 4) Malattia di Sanfilippo, ne esistono 4 sottotipi (A-B-C-D) ed è a trasmissione autosomica recessiva. 1.3.4 Fenomeno della complementazione È un fenomeno che si verifica in laboratorio quando vengono messi in coltura fibroblasti di tipo Hurler e Hunter: i due difetti enzimatici si complementano perché gli enzimi prodotti da un tipo di fibroblasti vengono recuperati dagli altri e viceversa. Questo fenomeno è dovuto alla presenza di gruppi M6P (mannosio 6 fosfato) sulle proteine, questi gruppi servono a guidare lo smistamento dei prodotti proteici nel traffico vescicolare. Recettori per questi gruppi sono presenti anche sulle membrane esterne e sono responsabili della captazione degli enzimi prodotti dai fibroblasti dell’altro tipo. 1.4 MALATTIE LEGATE ALL’EMOGLOBINA Si possono schematicamente dividere in: 1) Emoglobinopatie, condizioni patologiche legate a una modificazione della struttura emoglobinica; 2) Talassemie, patologie legate ad alterazione della velocità di sintesi emoglobinica. Tuttavia in alcune condizioni talassemiche troviamo anche alterazioni strutturali dell’emoglobina 1.4.1 Varianti emoglobiniche normali 1) 2) 3) 4) Hb A α2β2 (94-96%); Hb A2 α2δ2 (2-5%); Hb F (fetale) α2γ2 (1% nell’adulto) Hb embrionali: a) Gower 1 (ζ2ε2); b) Gower 2 (α2ε2); c) Portland (ζ2γ2). 16 L’emoglobina è un esempio di polimorfismo proteico in relazione allo sviluppo ontogenetico, cioè le varianti fisiologiche si sono sviluppate nel corso dell’evoluzione per svolgere ruoli sempre più specializzati. 1.4.2 Varianti non fisiologiche Alcuni esempi sono: 1) Hb Hammersmith (α2β2), 42 Phe→Ser sulla catena β (è alterata la tasca idrofobica per l’eme); 2) Hb Torino (α2β2), 43 Phe→Val sulla catena α (alterazione paragonabile alla precedente); 3) Hb Genova (α2β2), 28 Leu→Pro sulla catena β (è alterata la struttura ad α-elica); 4) Hb Gun Hill (α2β2), delezione 93-97 (fenomeni di microprecipitazione = corpi di Heinz); 5) Hb Grady, allungamento della catena α (+ 3); 6) Hb Freiburg, delezione della catena β (-1). Possibili alterazioni Effetti Alcune Hb mutate possono diventare chimicamente instabili in quanto le Sostituzione di basi Instabilità chimica catene α hanno 34 interazioni con la Addizioni Alterata affinità per l’O2 prima catena β e 19 con la seconda, è Delezioni Polimerizzazione o cristallizzazione evidente che facilmente le mutazioni Fusioni geniche (geni ibridi) possono riguardare i siti critici di queste Ricombinazioni Formazione di metaemoglobina interazioni e quindi interferire con la Slittamenti solidità del legame. Invece la presenza di proline sostituite o aggiunte alle catene, può causare la perdita della classica struttura ad α-elica (infatti nelle catene non alterate le proline si trovano quasi tutte ai margini dei segmenti ripiegati ad elica). Le metaemoglobinopatie sono le condizioni in cui si ha riduzione della capacità di trasporto dell’ossigeno ai tessuti (ipossia relativa). La metaemoglobina è l’emoglobina incapace di trasportare ossigeno, questo può verificarsi quando 3+ 2+ l’organismo non riesce più a ripristinare il ferro da Fe a Fe , oppure in caso di mutazioni particolari, per esempio: 1) Sostituzione della His prossimale o distale con Tyr → incapacità di trasporto di O 2 in favore di H2O; 2) Sostituzione Val→Glu nella tasca idrofobica per l’eme. Per quanto riguarda invece le emoglobine con alterata affinità per l’O 2 invece, queste presenteranno una curva di dissociazione dall’ossigeno diversa rispetto a quella di HbA. Alcune di queste sono: 1) Hb Seattle, mantiene l’aspetto sigmoide della curva, ma al 50% di saturazione ha un valore maggiore rispetto alla normale p50O2 (27 mmHg); 2) Hb Ranier, la curva di dissociazione assomiglia a quella della mioglobina a causa della perdita di cooperatività; 3) Hb Kansas, p50O2 elevatissima, la saturazione non raggiunge quasi mai il 100% in quanto l’affinità è gravemente alterata, sul paziente si osserva cianosi. 1.4.3 Anemia falciforme Malattia autosomica recessiva causata da mutazione sul gene della catena β emoglobinica. La mutazione prevede transversione A→T sulla tripletta codificante per l’acido glutammico in posizione 6, che diventa così una valina (GAG→GTG). Questa sostituzione amminoacidica provoca perdita di una carica elettrica sulla proteina, infatti l’acido glutammico (polare) viene sostituito con una valina (neutra). La differenza di carica elettrica è visibile in elettroforesi confrontando i punti isoelettrici di HbA e HbS (emoglobina dell’anemia falciforme). HbS ha un punto isoelettrico maggiore di 0,23 unità di pH rispetto ad HbA, il che corrisponde a una variazione di 2 o 4 cariche elettrostatiche (1 unità di pH equivale a 13 unità elettrostatiche). Il difetto può essere solo di 2 o 4 e non di 3 17 perché sono solo due tipi di subunità, quindi l’alterazione è o su una o sull’altra o su tutte e due. Questo fu il metodo grazie al quale Pauling ipotizzò che l’alterazione alla base della patologia fosse una sostituzione amminoacidica. Si ricordi che il punto isoelettrico di una proteina è quel valore di pH in corrispondenza del quale le cariche positive e negative si equivalgono e la molecola si ferma sul gel elettroforetico. Nell’elettroforesi le proteine migrano secondo la relazione: V = velocità di migrazione E = campo elettrico Z = densità di carica F = coefficiente frizionale (dipendente dalla forma e dalle dimensioni della proteina) Successivamente con analisi di fingerprint si dimostrò che, previa proteolisi parziale di Hb sana e alterata, erano evidenziabili peptidi diversi originati dal taglio di HbA e HbS. Il fingerprint è un’analisi bidimensionale grazie alla quale è possibile separare molecole lungo due dimensioni. Lungo la prima dimensione si sfrutta un campo elettrico (separazione per densità di carica), lungo la seconda dimensione invece si usa una tecnica cromatografica (quindi separazione per peso). Con esperimenti successivi si evidenziò che il difetto era a carico della catena β. La diagnosi di anemia falciforme può essere fatta tramite biologia molecolare. La tecnica si basa sulla caratteristica di enzimi di restrizione che tagliano siti specifici sul DNA. Nel caso specifico è usato l’enzima Mst II che taglia a livello della sequenza CCTGAGG. Nella regione del gene per la catena β dell’emoglobina ci sono tre siti di taglio di Mst II, quello centrale viene eliminato dalla mutazione (CCTGAGG→ CCTGTGG). All’elettroforesi del DNA trattato con Mst II si vedranno: 1) Per l’omozigote sano una banda unica corrispondente a un frammento di 1,1 kb; 2) Per l’omozigote malato una banda unica corrispondente a un frammento di 1,3 kb; 3) Per l’eterozigote due bande corrispondenti sia al frammento da 1,1 kb sia quello da 1,3 kb. Esistono quadri clinici variabili in base al tipo di mutazione: 1) HbS è caratterizzata da sostituzione Glu→Val (GAG→GTG); 2) HbC è caratterizzata da sostituzione Glu→Lys (GAG→AAG), essendo la lisina un aminoacido polare la formazione di cristalli è meno favorita, per la falcemizzazione è richiesta una concentrazione più alta di Hb, quindi la patologia è meno grave. I sintomi dell’anemia falciforme sono abbastanza generici: 1) Alterazione febbrile; 2) Persistente cefalea; 3) Dispnea; 4) Tosse; 5) Forte anemizzazione; 6) Emolisi, perché gli eritrociti vengono rimossi dai sistemi emocateretici. 18 1.4.4 Modello di polimerizzazione della deossi-HbS La sostituzione in posizione 6 della catena β determina la capacità dell’Hb di interagire con altre molecole di Hb. Si determina un fenomeno di nucleazione, per il quale un esiguo numero di HbS interagisce formando il punto di partenza per la polimerizzazione. Si formano più nuclei quindi più fibre in polimerizzazione, e si ha poi un fenomeno di allineamento laterale (pseudocristallizzazione). Questo processo avviene solo in condizioni di bassa pO2, in quanto la HbS deve essere in forma deossigenata per poter cristallizzare, dunque la falcemizzazione avviene nei distretti periferici. La cinetica di formazione delle fibrille segue questa relazione: t = tempo di nucleazione S = solubilità di deossiHbS C = concentrazione di deossiHbS k = costante Questa equazione spiega il differente comportamento tra soggetti omozigoti ed eterozigoti. Gli eterozigoti esprimono il gene patologico tra il 40 e il 50% (codominanza), ma nello striscio di sangue si evidenzia solo l’1% di eritrociti falcemizzati. Questa differenza dipende appunto dalla cinetica di nucleazione: tra omo ed eterozigote infatti non c’è differenza di solubilità di deossiHbs, quello che varia è la concentrazione (doppia nell’omozigote). Il rapporto non è lineare in quanto è elevato di un esponente n che ha un valore di circa 10. Dato che la concentrazione di deossiHbS dell’omozigote è doppia che nell’omozigote, l’inverso del tempo di nucleazione è mille volte superiore, che equivale a dire che il tempo di nucleazione è mille volte inferiore nell’omozigote rispetto all’eterozigote. La polimerizzazione procede con la formazione di due doppie catene con polarità inversa, il fenomeno è reversibile in vivo entro certi limiti (il metabisolfito accelera la falcemizzazione, mentre urea e glucosio la fanno regredire). I polimeri interagiscono con il citoscheletro ma anche con le pompe ioniche di membrana, aumenta l’ingresso di calcio dall’esterno mentre esce potassio e acqua (la deformazione del GR è facilitata dalla disidratazione). La forma a falce è anche chiamata echinoide. 1.4.5 Formazione di geni ibridi Il cluster delle catene emoglobiniche non α si trova sul cromosoma 11: Le catene δ e β sono quelle a più alta omologia di sequenza. Aγ e Gγ rappresentano due geni identici tranne che per un aminoacido, vengono espressi in due fasi diverse dello sviluppo. Durante la meiosi si possono formare sinapsi tra cromosomi omologhi, questo appaiamento è responsabile del fenomeno di crossing over (ricombinazione omologa). Data l’omologia tra le catene δ e β è possibile che si formi un allineamento anomalo e quindi crossing over ineguale, cioè appaiamento tra due geni simili ma comunque diversi. Si formerà un gene ibrido formato nella prima parte che corrisponde al gene di δ e da una seconda parte corrispondente al gene di β e ha questo aspetto sul DNA: Il prodotto dell’assemblaggio con le catene α si chiama emoglobina Lepore α2(δβ)2. Ne esistono molte varianti poiché le regioni di omologia sono lunghe: 1) Hb Hollandia δ22β50; 19 2) Hb Baltimora δ50β82; 3) Hb Boston δ87β116. Sono comunque tutti sottotipi di Hb Lepore. Questa alterazione genetica comporta una sindrome talassemica. In condizioni normali la catena δ è presente in bassa quantità (~1%), in questi soggetti, a seconda della condizione di omo o eterozigosi le percentuali sono intermedie tra quelle normali di catene δ e β. Il gene ibrido sarà controllato dal promotore di δ, che è molto debole, quindi la proteina sarà poco trascritta, tuttavia l’mRNA di questo ibrido sarà più stabile di quello normale di δ a causa della presenza di una porzione dell’mRNA di β, perciò il messaggero risulta più stabile (ha un’emivita più lunga) e verrà tradotto per più tempo. A rigor di logica se esiste un cromosoma che ricombina con queste caratteristiche, deve esisterne un altro fratello che rappresenta l’altro risultato della ricombinazione. Questo tipo di alterazione è stata chiamata emoglobina anti-Lepore, la struttura ibrida sarà βδ anziché δβ, tuttavia sul cluster di geni saranno ancora presenti una copia funzionante sia di δ che di β, quindi i soggetti con questo genotipo non presentano alcuna sindrome associata. Anche di queste ne esistono più varianti: 1) Hb Mryada β12δ22; 2) Hb P(Congo) β22δ87. Il crossing over ineguale può avvenire anche tra Aγ e β, il risultato sarà: 1) Hb Kenya: 2) Hb anti-Kenya (non ancora identificata): La ricombinazione non omologa può avvenire anche tra un gene e un relativo pseudogene. Uno pseudogene è un gene non attivo che ha subito modificazioni nella storia evolutiva e permane però nel genoma nonostante non venga espresso. 1) Il gene GDA per la glucocerebrosidasi (enzima deficitario nella malattia di Gaucher), presenta uno pseudogene inattivo ad alta omologia. Se durante la meiosi avviene la ricombinazione con lo pseudogene invece che con il gene normale omologo si forma un gene ibrido che da un prodotto non funzionante; 2) Sul cromosoma 6, nel locus della 21-β-idrossilasi (enzima deficitario nella sindrome surrenogenitale) esistono 2 regioni chiamate RCCX affiancate, una lunga e una corta. Il nome è l’acronimo dei geni contenuti in quella regione: a) R = che codifica per la protein chinasi RP1; b) C = che codifica per il componente C4 del complemento; c) C = che sta per CYP, ovvero il gene della 21-β-idrossilasi, che fa parte della famiglia degli enzimi dipendenti dal citocromo P450; d) X = che codifica per la tenascina, una molecola di adesione che interagisce con la fibronectina ed è importante nei fenomeni di adesione all’endotelio. Nella regione cosiddetta lunga troviamo il reale gene per la 21-β-idrossilasi, nella regione corta invece si trova uno pseudogene. 20 In fase di replicazione, può accadere che si formi un appaiamento anomalo tra due cromosomi, tra una regione lunga e una corta, tramite i geni della tenascina. Il risultato sarà che in uno dei due cromosomi si ritroverà trasferito il solo pseudogene del CYP21; in questo modo scompare la forma funzionale a vantaggio della non funzionale, dunque l’attività enzimatica corrispondente viene persa completamente. 1.4.6 Talassemie Le talassemie sono una serie di sindromi caratterizzate da: 1) Anemia emolitica cronica; 2) Eritrociti ipocromici, la scarsa colorazione è data dal basso contenuto di Hb; 3) Microcitemia, ridotta dimensione dei GR; 4) Alterazione della stechiometria, cioè alterato rapporto tra i vari tipi di subunità emoglobiniche, possono formarsi aggregati chimicamente instabili. La classificazione delle talassemie individua: 1) α-talassemie, difetto a carico della catena α; 2) β-talassemie, difetto a carico della catena β; 3) δβ-talassemie, difetto a carico sia di δ che di β; 4) altre condizioni complesse che comportano sindromi simil-talassemiche. 1.4.7 α-talassemie Prima di descrivere le α-talassemie è opportuno introdurre la teoria dei 4 geni: è stato dimostrato che su ogni cromosoma sono presenti due geni per catene α, in totale fanno quattro geni per cellula. Questo spiega la presenza in alcuni soggetti di più di due tipi di catena α. Questo fenomeno è stato osservato storicamente in una famiglia ungherese (variante α Buda e variante Pest) e in nel soggetto in cui per la prima volta è CS stata identificata la variante α constant spring (α ). L’emoglobina constant spring è frutto di una mutazione puntiforme nel codone di stop della catena α (UAA→CAA), il prodotto sarà una proteina più lunga di 31 aminoacidi. Tuttavia il codone di stop successivo cade all’interno della sequenza penta nucleotidica AAUAA fondamentale per la formazione della coda poliA. La stabilità dell’mRNA è drasticamente ridotta e la quantità di catena α prodotta sarà molto bassa. Le α-talassemie sono dovute a delezioni: 1) Possono riguardare per intero uno dei due geni e parzialmente l’altro; 2) A seconda dei casi possono riguardare solo uno dei due geni; 3) Può verificarsi un’estesa delezione che oltrepassa i due geni. Genotipi e fenotipi delle α-talassemie Genotipo Fenotipo αα/αα αα/ααα/-α-/αα-/---/-CS αα/αα CS -α/αα CS --/αα Normale (sano) α-talassemia 2 (portatore silente) α-talassemia 1 α-talassemia 1 Malattia da HbH Sindrome della idrope-ascite fetale (Hb di Bart) Simil α-talassemia 2 Simil α-talassemia 1 Simil malattia da HbH 21 Tratto αtalassemico / + α 0 α 0 α / / + ~α 0 ~α / + 0 Il tratto α-talassemico α intende 1 gene deleto su 4, mentre l’α corrisponde a 2 geni deleti su 4. Nel caso di una α-talassemia 2 è deleto un solo gene su quattro, la condizione non è particolarmente grave tanto che l’individuo è chiamato portatore silente (non c’è un fenotipo evidentemente alterato). In caso invece di α-talassemia 1 mancano due geni su 4, è comunque una condizione piuttosto benigna e compatibile con la vita, ma meno della precedente. Può verificarsi in due sottotipi: 1) Con genotipo (αα/--), entrambi i geni mancanti sono quelli di un unico cromosoma; 2) Con genotipo (α-/α-), i due geni mancanti si trovano uno su un cromosoma e l’altro su quello omologo, ogni cromosoma dunque mantiene una certa quota di produzione di catene α. Nella malattia da HbH sono deleti 3 geni su 4. L’emoglobina H corrisponde a un tetramero di subunità β, questa situazione si verifica in quanto il rapporto stechiometrico tra le catene α e β è stravolto. Le β sono nettamente in numero maggiore, infatti la produzione di quest’ultima procede normalmente, mentre le catene α sono prodotte pochissimo. Il tetramero β4 lega l’ossigeno con alta affinità, quindi non è efficace ai fini del suo rilascio nei tessuti periferici. Inoltre HbH può andare in contro a fenomeni di ossidazione e precipitare, aggravando così il quadro. Nella sindrome della idrope-ascite fetale sono deleti tutti e 4 i geni e quindi la produzione di catene α è completamente azzerata. È una condizione molto grave che chiaramente si verifica precocemente alla nascita o addirittura provoca morte intrauterina. In questa malattia si ritrova la cosiddetta emoglobina di Bart, composta da un tetramero di catene γ, questo complesso ha affinità per l’ossigeno ancora superiore a β4, quindi assolutamente incompatibile con la vita, il neonato infatti va in contro in poche ore a una gravissima ipossia. Si forma il tetramero γ semplicemente perché in questa fase dello sviluppo è la catena più rappresentata, infatti la subunità β viene espressa dopo la nascita, in realtà l’emoglobina di Bart è il corrispettivo dell’HbH dell’adulto. CS Si può verificare malattia da HbH anche in individui con genotipo --/αα , i riscontri clinici non saranno molto diversi dalla patologia tradizionale. L’importanza di questa condizione è semplicemente a livello storico in quanto gli studi su un individuo con questo genotipo hanno permesso la dimostrazione della teoria dei 4 geni. 1.4.8 β-talassemie Questa famiglia di patologie è dovuta a una serie di possibili alterazioni genetiche sul gene della catena β (cromosoma 11), prevalgono le mutazioni puntiformi rispetto alle delezioni, più caratteristiche delle α-talassemie: 1) Delezioni, possono riguardare l’intero gene (poco frequente) o essere puntiformi; 2) Mutazioni al promotore; 3) Anomalie dello splicing, possono interessare sia introni che esoni; 4) Mutazioni che interferiscono con la poliadenilazione, incidono sulla stabilità dell’mRNA; 5) Alterazioni del codone d’inizio; 6) Alterazioni del codone di stop; 7) Sintesi di globine instabili, fenomeni di precipitazione e aggregazione. L’analisi degli RFLP (Restiction Fragment Lenght Polimorfism) dei vari tipi di β-talassemie in rapporto al soggetto normale, individua 9 aplotipi differenti. Gli aplotipi raccolgono i vari tipi di mutazioni e difetti in categorie dipendenti dalle modifiche intervenute sugli RFLP, cioè ad un difetto non corrisponde un aplotipo in senso biunivoco (più difetti sono raccolti in un aplotipo). Alcuni aplotipi sono più prevalenti di altri, la distribuzione rispecchia anche la geo-genetica delle popolazioni (cioè la loro origine geografica, storica e genetica). 22 Il tipo di talassemia dipende dalla quantità residua funzionale di globine β presenti: 0 1) β se la sintesi è completamente abolita; + 2) β se nonostante il difetto sussiste comunque una quota di sintesi. Si analizzano ora in particolare le alterazioni che possono verificarsi (per una più agevole comprensione si consiglia di rivedere l’argomento dello splicing spiegato nel corso di Biologia Molecolare, oppure consultare il testo J.D.Watson et al. Biologia Molecolare del Gene. Zanchelli): 1) Mutazioni al promotore, le mutazioni intervengono a carico della regione a -100 dal primo esone (TATA box). Trans versioni C→G o A→C possono comportare il blocco o il rallentamento della trascrizione perché la + polimerasi non riconosce correttamente il promotore. La sintesi sarà anomala e parziale (β talassemia); 2) Anomalie dello splicing (sono la causa più frequente), possono riguardare sia gli introni sia gli esoni: a) Mutazioni possono alterare le normali giunzioni in modo tale che non avvenga nessuno splicing, l’mRNA 0 non sottoposto a splicing viene degradato e non tradotto (β talassemia); b) Mutazioni a carico del sito donatore GT (transversione G→A) attivano siti criptici (nascosti) in grado di riconoscere lo spliceosoma ed effettuare uno splicing alternativo. Normalmente questi siti sono mascherati dalla presenza di quelli fisiologici più efficienti, questo tipo di alterazione provoca 0 l’azzeramento della sintesi di globine (β talassemia); c) Mutazioni in regioni vicine al sito donatore cambiano la sequenza consenso incidendo sull’efficienza dello spliceosoma, che sarà sottoposto alla competizione tra fisiologici e criptici. La sintesi di mRNA + corretto è ridotta ma non azzerata (β talassemia); d) Mutazioni che creano siti “ectopici” anomali di splicing (cioè che prima non esistevano), per esempio all’interno di un introne. Permanendo i siti fisiologici si avrà produzione sia di mRNA normale, sia di mRNA anomalo. Gli mRNA scorretti conterranno degli pseudo esoni, cioè porzioni di introni che vengono mantenute nel trascritto maturo per la presenza di un sito di splicing ectopico. Come nel caso precedente + si avrà contemporaneamente produzione di catene normali e alterate (β talassemia); e) Se vengono creati siti di splicing all’interno di esoni vengono invece prodotte proteine più corte non 0 funzionali (β talassemia). Per comprendere meglio le alterazioni dello splicing è necessario ricordare la regola di Chambon: questa prevede che l’introne presenti all’inizio una coppia GT e alla fine una coppia AG necessari per il riconoscimento e l’escissione da parte dello spliceosoma, inoltre però questi nucleotidi particolari sono inseriti in una sequenza consenso che aiuta il contatto con il macchinario. In caso di mutazioni che creino nuovi siti di splicing ma che non aboliscano del tutto quelli fisiologici, si instaura una competizione tra i due tipi di sito. Generalmente prevale per il 90% la sintesi relativa alla nuova sequenza, mentre il 10% residuo procede normalmente. In questi casi la catena β seppur presente sarà estremamente deficitaria, prevarrà la catena α che può andare a formare tetrameri α 4 altamente instabili. Questi complessi precipitano facilmente e danneggiano la membrana eritrocita ria causando un’anemia emolitica cronica. 3) Difetti di traduzione, in caso di tagli prematuri di introni a causa dei quali sequenze introni che procedano fino alla traduzione (pseudo esoni), si possono verificare due situazioni distinte, a seconda che: a) Non si alteri il frame di lettura (ci sarà quindi un semplice allungamento della proteina); b) Venga modificato il registro di lettura (frame shift), sarà molto probabile la formazione di catene β inattive. Mutazioni all’interno degli esoni possono causare comparsa di codoni di stop anomali e quindi terminazioni premature. In base al sito dove cade la mutazione, la perdita di funzione sarà più o meno grave. 23 1.4.9 Fisiopatologia delle β-talassemie Classificazione delle β-talassemie: + + + 0 0 0 1) Talassemia major (o morbo di Cooley): omozigosi β (β β ) o β (β β ); 0 + + + 2) Talassemia intermedia: β β oppure varianti più lievi di β β ; + 0 3) Talassemia minor: eterozigosi ββ o ββ , è pressoché asintomatica. Il tratto talassemico può conferire una relativa resistenza al Plasmodium falciparum della malaria. Nel caso del morbo di Cooley si osserva un quadro clinico di questo tipo: 1) Breve aspettativa di vita; 2) Morte cellulare della linea eritroide durante la maturazione nel midollo osseo e conseguente diminuzione dei GR circolanti. Il rene tenta di compensare la situazione producendo eritropoietina instaurando però un circolo vizioso che porta a iperplasia del midollo (continua a produrre GR che muoiono subito). Questo fenomeno comporta due conseguenze: a) Splenomegalia per l’aumentato numero di GR da degradare; b) Caratteristico “cranio a spazzola” (turricefalia) data dall’iperplasia del midollo osseo. Aumenta lo spazio della diploe (parte produttiva del midollo) e si formano spicole ben visibili alle radiografie del cranio; 3) Necessità di continue trasfusioni con conseguente accumulo di ferro nei tessuti che provoca danno tissutale (emosiderosi o emocromatosi secondaria da trasfusioni) a carico del fegato e altri organi; 4) Condizione di ipossia relativa; 5) Tentativo di compenso da parte di HbF. 1.4.10 Confronto tra HPFH (Hereditary Persistence of Fetal Hemoglobin) e δβ-talassemie Sono entrambe patologie legate a delezioni abbastanza ampie dei geni di δ e β, tuttavia la persistenza dell’emoglobina fetale nell’adulto (HPFH) è una forma più benigna delle δβ-talassemie (anche nel confronto omo/eterozigosi). 1) La persistenza ereditaria dell’emoglobina fetale è una condizione caratterizzata da concentrazioni di HbF superiori alla norma anche nell’adulto; 2) Le δβ-talassemie invece sono malattie causate da delezioni di vario tipo a carico della regione compresa tra i due geni. Eterozigote Nella HPFH c’è una sintesi di catene γ molto più alta che nelle δβ-talassemie, per spiegare questo fenomeno è necessario andare ad analizzare il locus genico delle catene non α. In linea di massima si può assumere che: 1) La delezione minore rappresenta la forma più grave (δβ-talassemia); 2) La delezione maggiore rappresenta la forma meno grave (HPFH). 25% HbF HPFH δβ-talassemie Omozigote 100% HbF β γ α Tratto talassemico Anemia blanda 5-20% HbF 100% HbF β γ α Anemia blanda Anemia grave Probabilmente questo si verifica perché la delezione più ampia nella HPFH interessa anche le 2 sequenze Alu nella porzione intergenica tra γ e β. Si è ipotizzato che queste sequenze Alu intervengano nella regolazione genica che controlla la transizione tra espressione della catena γ ed espressione della β durante lo sviluppo intrauterino, con un qualche tipo di inibizione che insorge quando devono essere represse le prime in favore delle seconde. 9La rimozione di entrambe le sequenze Alu provocherebbe la rimozione dell’inibizione e aumento di sintesi delle catene γ, creando così una sorta di compenso alla mancanza di δ e β mitigando gli effetti della patologia. Nella δβ- 24 talassemia al contrario avendo una delezione di minor entità, viene risparmiata una delle due sequenze Alu, quindi in teoria l’inibizione dell’espressione di γ è mantenuta. Tuttavia non è credibile che le sequenze Alu rappresentino l’unico sistema di controllo della transizione tra γ e β. 1.5 MALATTIE INFLUENZATE DA FATTORI GENETICI ED ESTERNI Sono patologie geneticamente determinate ma le cui manifestazioni cliniche spesso sono legate ad un intervento esterno: 1) Deficit di glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PD); 2) Emoglobinuria parossistica notturna. 1.5.1 Deficit di glucosio-6-fosfato deidrogenasi Deficit enzimatico geneticamente determinato da mutazioni puntiformi che inducono una sostituzione amminoacidica. La sostituzione influisce negativamente sulla stabilità dell’enzima e sulla sua emivita. Le mutazioni colpiscono siti allosterici o regolatori, ma non il sito catalitico, in questo modo non è quindi inficiata la funzione dell’enzima, ma soltanto la stabilità e quindi l’emivita. Questo fatto spiega inoltre come l’anemia sia acuta e non cronica (se il difetto fosse localizzato nel sito catalitico la perdita di funzione sarebbe uguale in tutti i casi e indipendente da fattori esterni). La glucosio-6-fosfato deidrogenasi è il primo enzima della via dei pentoso fosfati, questa via metabolica è l’unico processo biochimico attraverso il quale l’organismo è in grado di recuperare il NADPH consumato in altre vie o sfruttato per la riduzione del glutatione ossidato, molecola che interviene nei meccanismi di protezione dallo stress ossidativo. Questa alterazione genetica causa una malattia emolitica acuta in seguito a stress ossidativi per scarsa attività dei sistemi di protezione dai radicali dell’ossigeno. A subire maggiormente le conseguenze di questa carenza sono i globuli rossi, in quanto: 1) Sono trasportatori dell’ossigeno e quindi sono particolarmente esposti ai danni ossidativi; 2) Inoltre non avendo produzione di proteine (sono privi di nucleo) non possono ristabilire l’enzima instabile che viene degradato, quindi durante la vita (120 giorni) il GR perde man mano un enzima fondamentale per la protezione dallo stress ossidativo. La G6PD ha due siti : 1) Uno per il glucosio-6-fosfato (sito catalitico effettore); + 2) E uno allosterico per il NADPH (o NADP ). + I substrati sono in competizione per i relativi siti di legame: in generale il glucosio-6-P e il NADP sono in basse concentrazioni, mentre il NADPH è alto e occupa il sito. In caso di stress ossidativo il NADPH viene consumato rapidamente e il sito allosterico viene liberato favorendo l’attività dell’enzima. Nei soggetti con deficit di G6PD in condizioni normali (cioè in assenza di particolari stress ossidativi) non sono visibili manifestazioni cliniche, tuttavia già a livello lo stress ossidativo (che è comunque presente fisiologicamente), è tamponato da sistemi di compenso che lavorano al massimo delle loro possibilità. 25 Se interviene un fattore dall’esterno che perturba questo equilibrio precario aumentando il carico ossidativo, non c’è NADPH sufficiente a ripristinare tutte le molecole di glutatione ossidato e i radicali reattivi dell’ossigeno non vengono neutralizzati in tempo. In questo modo si accumuleranno danni alle membrane dei GR, i quali saranno alterati e verranno rimossi dai sistemi emocateretici. Gli eritrociti assumeranno il tipico aspetto a morso degli eritrociti nello striscio di sangue periferico, questa caratteristica è dovuta alla precipitazione della G6PD nei corpi di Heinz, i quali vengono riconosciuti come estranei dai macrofagi. I fagociti letteralmente mordono i GR strappando la porzione con il corpo estraneo. Il decorso della malattia è facilmente riassumibile tramite il grafico proposto a lato: 1) L’ematocrito precipita subito dopo la somministrazione del farmaco, in questo caso la Primachina, ma vale per qualsiasi farmaco che abbia la capacità di dare stress ossidativo. In seguito l’Hc tende a risalire pur mantenendo la somministrazione del farmaco, in quanto viene stimolata l’eritropoiesi; 2) I reticolociti aumentano appunto in seguito allo stimolo proliferativo successivo alla massiva emolisi. Questi precursori immaturi, normalmente non presenti in circolo, rappresentano il marker dell’avvenuta eritropoiesi; 3) In corrispondenza del calo di ematocrito si manifesta emoglobinuria, che persiste finché si verifica emolisi. L’emolisi non persiste nonostante la continuativa somministrazione di farmaco in quanto i GR neoformati hanno un corredo enzimatico sufficiente (almeno in fase iniziale) a fronteggiare lo stress ossidativo. Il fattore scatenate può essere l’assunzione di una qualsiasi sostanza con potere ossidante, per esempio certi farmaci (primachina, sulfonamide e altri antibiotici) ma anche alcuni cibi. Gli effetti sono vere e proprie crisi emolitiche che terminano solo eliminando il fattore scatenante. La gravità degli effetti è determinata dal tipo di mutazione, ne esistono alcune varianti, alcune non patologiche e frutto semplicemente dell’evoluzione (come la forma B, più ancestrale, e la forma A, derivante appunto dalla B); altre invece patologiche, le più comuni sono: 1) Variante A (diffuso nella popolazione di colore); 2) Variante mediterranea, provoca una forma di malattia più grave in quanto l’enzima ha un’emivita ancora più corta (la malattia è anche chiamata favismo per la suscettibilità all’assunzione di fave), gli effetti della carenza enzimatica emergono inoltre anche in altre cellule. Il gene che codifica per la G6PD è soggetto a molteplici possibili mutazioni (circa 400 varianti descritte), ma di queste solo poche influenzano il sito catalitico e determinano una malattia cronica indipendente da fattori esterni. La maggior parte delle varianti causa uno scorretto ripiegamento e quindi instabilità chimica dell’enzima che viene eliminato. Le varianti di maggior interesse originano filogeneticamente da una proteina ancestrale che nel corso dell’evoluzione ha poi subito varie mutazioni, prima diventando variante A (la più diffusa), poi subendo altre mutazioni causa della patologia. 26 Il gene si trova sul cromosoma X (q28) vicino alla regione in cui si trova il gene per l’ipoxantina-guanina-fosforibosil transferasi (sindrome di Lesch-Nyhan) e quello per l’X-fragile. Data la trasmissione X-linked la distribuzione dell’attività enzimatica varia in base al sesso (esperimento su un campione di popolazione nigeriana): 1) Per i maschi la distribuzione è bimodale, cioè i soggetti possono avere attività alta (normale) o bassa in quanto sono portatori di un solo cromosoma X che può essere sano o alterato; 2) Per le femmine la distribuzione è uniformemente graduale da valori alti a valori bassi a causa del fenomeno del mosaicismo, dipendente dall’inattivazione (Lyonizzazione) casuale di uno dei due cromosomi X. La differenza tra maschi e femmine si nota anche a livello del genotipo, i maschi possono presentare solo tre diverse situazioni, le femmine invece ci possono essere 6 condizioni (visibili alla corsa elettroforetica delle proteine purficate). 1.5.2 Emoglobinuria parossistica notturna Alterazione acquisita di un clone di cellule staminali totipotenti, la mutazione quindi è somatica (non trasmessa ereditariamente) e riguarda tutte le linee cellulari derivate da quel clone, ma si manifesta diversamente in ciascuna di esse. La malattia è caratterizzata da maggior sensibilità alla lisi da complemento, il quale a valori più bassi di pH (cosa che si verifica normalmente di notte) è più attivo, questo favorisce l’insorgere di episodi parossistici di emolisi intravascolare e conseguente emoglobinuria (urine color rosso-marrone). In realtà gli eventi notturni si verificano solo nel 25% dei soggetti affetti da questa patologia, mentre gli altri possono avere altre manifestazioni. Il difetto è una mutazione somatica sul cromosoma X a carico del gene PIG-A, che codifica per la glicosil transferasi, un enzima necessario alla sintesi del GPI (glicosil fosfatidil inositolo). Se non viene sintetizzato il GPI la cellula non riuscirà ad ancorare le GPI anchored protein che normalmente risiedono in membrana. Tra queste proteine ci sono importanti fattori di regolazione della cascata del complemento: 1) DAF (Decay Accelerating Factor); 2) CD59; 3) MCP (Membrane Cofactor Protein). Queste proteine sono responsabili dell’inattivazione della C3 convertasi sulle membrane delle cellule self, che in questo modo vengono protette dall’errata attivazione del complemento. 1.5.3 Sferocitosi ed ellissocitosi Queste sono due malattie geneticamente determinate e molto eterogenee. Tutti gli eritrociti assumono forme particolari (a sfera o ellisse). Fanno parte delle malattie emoliche croniche. 27 Non si tratta di un difetto genetico fisso, ma può essere a carico di uno qualsiasi dei componenti del citoscheletro: 1) Il 75% è trasmesso in modo autosomico dominante; 2) Il restante 25% è a trasmissione autosomica recessiva (sono le forme più gravi). Il citoscheletro è composto da proteine deputate: 1) Alle interazioni verticali tra struttura citoscheletrica e membrana: a) Actina; b) Anchirina; c) Banda 4.1; 2) Alle interazioni orizzontali, rappresentate soprattutto dalla spectrina. Nella sferocitosi la maggior frequenza di alterazioni è a carico delle proteine che intervengono nelle interazioni verticali (soprattutto l’anchirina). Queste alterazioni causano la formazione di blob (frammenti di membrana) che vengono poi rimossi e allontanati. La perdita di sostanza induce il globulo rosso ad assumere la forma sferica. Alcune caratteristiche della malattia sono: 1) Anisocitosi, cioè forti anomalie morfologiche; 2) Ipercromia, per il maggior contenuto di Hb rispetto al volume; 3) Assenza della tipica area pallida centrale da disco biconcavo. Nella ellissocitosi le cellule assumono aspetto ovale, il difetto più diffuso è legato alle interazioni orizzontali (quindi α o β spectrina). A livello dei sinusoidi splenici della milza, i GR che non presentano elasticità o che hanno assunto forme anomale, non riescono a passare attraverso il lume stretto, il loro rallentamento è il segnale che induce i macrofagi a rimuoverli ed eliminarli 1.6 AGENTI ESTERNI DI MALATTIA Gli agenti esterni possono essere fisici, chimici e biologici. Per quanto riguarda quelli fisici si parla soprattutto di radiazioni. Una radiazione è una propagazione di energia che segue determinati percorsi, lungo i quali si possono trovare cellule e materiale organico con i quali interagisce. 28 La nocività delle radiazioni rispecchia la loro energia, e la quota effettiva che viene trasferita alle cellule dell’organismo attraversato. L’unità fondamentale dell’energia è rappresentata dalla formula: h = costante di Planck ν = frequenza della radiazione ε = quanto di energia (fotone) L’energia che può essere assorbita da una mole di sostanza si calcola con la formula: N = numero di Avogadro ν = frequenza della radiazione h = costante di Planck Si può calcolare l’energia associata ai vari tipi di onde utilizzando 2 possibili unità di misura (in funzione della lunghezza d’onda). Radiazione Infrarosso Visibile UV Ionizzanti λ in millimicron (mμ) > 770 Tra 770 e 390 Tra 390 e 100 < 100 Kcal/mole eV/mole ≤ 40 ~ 70 Tra 300 e 70 > 300 ~ 1,7 ~3 Tra 3 e 12 > 12 1) Radiazioni eccitanti: l’eccitazione molecolare corrisponde all’energia in grado di far saltare elettroni da un orbitale ad un altro più energetico, l’elettrone si troverà in una condizione instabile e tenderà a tornare allo stato fondamentale riemettendo l’energia assorbita in precedenza; 2) Radiazioni ionizzanti: sono in grado di strappare elettroni da un atomo, questi elettroni scalzati possono essere poi catturati da un atomo diverso da quello originario, questo è il meccanismo di formazione di coppie ioniche. 1.6.1 Radiazioni eccitanti L’ultravioletto ha un intervallo di energie tra 70 e 300 Kcal/mole, l’energia di legame tra ossigeno e idrogeno nell’acqua è pari a 110, nonostante ciò una radiazione UV non è in grado di scindere i legami della molecola. Va considerata infatti la quota di energia effettivamente assorbita. Per i raggi UV analizzando gli spettri di assorbimento da parte di un estratto cellulare si osservano due picchi massimi: 1) A 260 nm che corrisponde agli acidi nucleici; 2) A 280 nm che corrisponde alle proteine. Sono i bersagli più sensibili alle radiazione. In questo caso l’energia degli UV non è sufficiente a rompere i legami chimici, ma è abbastanza altra da crearne di nuovi. Questa capacità non rappresenta un grosso problema per le proteine, sottoposte a continuo turn-over, mentre gli acidi nucleici possono subire danni che poi vengono tramandati. 1.6.2 Sistemi di riparazione del danno genetico Alcuni danni che si possono verificare a carico del DNA sono: 1) Dimerizzazione; 2) Delezioni; 3) Deaminazioni; 4) Alchilazioni; 5) Distorsione della doppia elica; 6) Rotture. Il trasferimento alchilico consiste 29 nella rimozione di un gruppo alchilico dalla posizione 6 della guanina. Questo meccanismo di riparazione è mediato dalla cosiddetta proteina suicida (gene ADA), codificata dal gene ADA, questa è in grado di trasferire su se stessa il gruppo alchile togliendolo dal DNA, dopodiché viene degradata. 1.6.3 Riparazione per escissione - NER (Nucleotide Excision Repair) La formazione di dimeri pirimidinici (TT o CC) tra due pirimidine adiacenti, provoca un avvicinamento non fisiologico delle due basi, che determina un’alterazione della forma del DNA. Questa sorta di “gibbosità” è avvertita da dei sistemi enzimatici che scandagliano il DNA alla ricerca di alterazioni. Quando il macchinario trova una deformazione della doppia elica procede all’incisione del filamento interessato a monte e a valle del danno e alla rimozione del tratto. Dopodiché una polimerasi stampa una copia del filamento complementare chiudendo il buco e una ligasi lega il filamento di nuova sintesi. La riparazione per escissione è il principale sistema di riparazione delle cellule, è composto da molti componenti che possono subire alterazioni genetiche inattivanti. Ci sono tre condizioni patologiche distinte collegate a questo gruppo di geni: 1) Xeroderma pigmentosum, caratterizzato da: a) Fotosensibilità; b) Pigmentazione cutanea anomala; c) Predisposizione ai tumori della pelle; d) Difetti neurologici; 2) Sindrome di Cockayne, caratterizzata da: a) Ritardo mentale; b) Ritardo nell’accrescimento; c) Aterosclerosi accelerata e ad esordio precoce; d) Alterazioni retiniche; 3) Tricotiodistrofia, caratterizzata da: a) Perdita dei capelli dovuta a carenza di proteine solforate (essenzialmente cisteina) nei capelli; b) Difetti di sviluppo; c) Anomalie neurologiche; d) Ittiosi, sono una famiglia di genodermatosi ossia disordini genetici della pelle, caratterizzati da pelle secca, ispessita e squamosa. La XP è la più grave, in quanto le mutazioni interferiscono con la funzionalità del macchinario, mentre le altre due patologie sono più che altro legate a mutazioni che alterano le proporzioni delle proteine del macchinario (difetti di trascrizione). Le proteine che compongono il macchinario sono denominate XP (dalla malattia in cui sono alterate) seguito da una lettera dell’alfabeto (A-B-C-D-E-F-G). Anche in questa patologia, a livello di laboratorio è visibile il fenomeno della complementazione, facendo infatti agglutinare fibroblasti con alterazioni XP diverse si ottengono cellule ibride che riparano normalmente il DNA. 30 1.6.4 Meccanismo della NER 1) La lesione viene riconosciuta da XPA (insieme alla proteina RPA e forse a XPE), che grazie a 4 motivi zinc finger riconosce le alterazioni sul DNA. Questa proteina è presente in gran quantità nel SNC, ciò potrebbe spiegare i difetti neurologici associati alla sua carenza; 2) Una volta riconosciuto il danno viene reclutato il complesso TFIIH (fattore di trascrizione umano di tipo II), il quale tra i vari componenti vede XPB e XPD, queste sono elicasi che hanno la funzione di srotolare il DNA attorno alla regione della lesione; 3) Quindi vengono reclutate due endonucleasi specifiche che tagliano a 7-8 nucleotidi in direzione 5’ (XPF/ERCC 1) e poi in direzione 3’ (XPG) rispetto alla lesione; 4) Dopo la rimozione del filamento appena tagliato, una DNApolimerasi ε sintetizza la porzione mancante usando il filamento complementare come stampo; 5) Una ligasi infine chiude la doppia catena ristabilendo la situazione iniziale. Perché avvenga la riparazione con questo meccanismo è necessario che la cromatina venga decondensata. 1.6.5 Riparazione post-replicativa Se la riparazione non avviene prontamente, può avviarsi la replicazione della cellula nonostante la presenza di un danno. Nel caso dei dimeri pirimidinici la DNApolimerasi salterà semplicemente il sito alterato lasciando un buco sul filamento di nuova sintesi. Questo problema viene risolto sfruttando l’altro duplex che si sta formando dalla replicazione dell’altro filamento d’origine il quale non dovrebbe contenere l’alterazione. Le proteine Rec favoriscono la ricombinazione con la regione omologa generando una sorta di mosaico, nel senso che una parte dell’altro duplex verrà trasferita in quello danneggiato per fornire uno stampo utile a coprire il buco. Questo sistema non risolve il danno ma permette al sistema NER di intervenire come fosse un normale danno. Non è un meccanismo molto fedele ma salva la cellula accettando un certo margine di rischio d’errore. 1.6.6 Tipi di radiazioni UV L’atmosfera assorbe una parte di radiazioni, fino a 240 nm, dall’interazione di queste radiazioni con l’atmosfera si forma O3 (ozono), che contribuisce a sua volta ad assorbire un’altra quota di radiazioni (fino a 300 nm). Quello che passa è la quota di radiazioni che arriva a noi e determina gli eventuali danni, ma non solo quello, infatti ha anche funzioni positive, come la formazione di vitamina D attiva nella pelle. 1.6.7 Radiazioni ionizzanti Radiazioni con energia molto elevata, hanno un impatto non solo sugli acidi nucleici, ma anche sulle proteine. La radioattività è la capacità di un atomo di emettere radiazioni, queste si distinguono in corpuscolate (α e β) ed elettromagnetiche (γ). È dovuta a radionuclidi o radioisotopi che per la loro instabilità chimico-fisica emettono energia sottoforma di radiazioni: 1) Radiazioni α, consistono di due protoni e due neutroni (nucleo di He); 2) Radiazioni β, sono elettroni (o positroni); 3) Radiazioni γ, onde elettromagnetiche ad alta energia. 31 UVA UVB UVC La legge del decadimento radioattivo descrive il processo di decadimento dei radionuclidi, cioè il tempo che impiegano a trasformarsi in forme più stabili. Il tempo di dimezzamento valuta il tempo necessario affinché il 50% dei radionuclidi di partenza decada, è specifico per ogni diverso radionuclide. + 1) Decadimento β : un protone si trasforma in neutrone con emissione di un neutrino e di un positrone (elettrone positivo); 2) Decadimento β : un neutrone si trasforma in protone con emissione di un neutrino e di un elettrone. 1.6.8 Densità di ionizzazione e LET (Linear Energy Transfer) La densità di ionizzazione rappresenta il rapporto tra numero di eventi ionizzanti che stiamo analizzando e numero di eventi totali. Quindi alta densità corrisponde ad alta concentrazione di eventi di disintegrazione in una limitata e viceversa. Si ha aumento di densità quando: 1) Diminuisce la velocità della radiazione; 2) Aumenta la carica (essendo Z elevato al quadrato si ha un fenomeno di amplificazione). 1) ΔE = quota di energia assorbita 2) D = spessore che viene attraversato dalla radiazione (in micron) Il LET esprime la quota di energia trasferita al tessuto attraversato (nocività della radiazione). Le radiazioni corpuscolate hanno elevata densità di ionizzazione, mentre limitata velocità e capacità di penetrazione. La densità di ionizzazione è elevata perché sono lente e hanno carica doppia (2+), tuttavia vengono frenate anche da piccoli spessori. Le radiazioni non corpuscolate sono invece più penetranti ma molto più veloci, hanno quindi un LET più basso. 1.6.9 Radiolisi dell’acqua Nelle cellule è presente una grossa quantità d’acqua, questo la rende un facile bersaglio delle radiazioni. In assenza di ossigeno si possono verificare queste condizioni: 1) Una radiazione elettromagnetica colpisce una molecola di H2O, questa espelle un elettrone assumendo carica positiva; 2) Una radiazione β colpisce una molecola d’acqua, trattandosi di elettroni, questi possono essere catturati dalla molecola di H2O che assume questa volta carica negativa; + - H2O e H2O sono molecole altamente instabili e vanno rapidamente in contro a queste reazioni: 1) 2) Quindi in definitiva vengono create specie reattive ossidanti. Altrimenti in presenza di ossigeno si verificano queste condizioni: 1) Una radiazione β colpisce una molecola di ossigeno formandone una di anione superossido, il quale reagisce facilmente con acqua dando HO2•; 2) HO2• si forma anche dalla reazione di un radicale dell’idrogeno (H•) con una molecola di ossigeno; 32 3) Due radicali HO2• possono reagire per formare perossido di idrogeno, l’acqua ossigenata è più stabile ma può comunque favorire la formazione di radicali; 4) Una molecola di acqua con una di radicale ossigeno, in presenza di una radiazione elettromagnetica, possono dar luogo a due radicali ossidrili; La presenza di ossigeno molecolare amplifica RH + HO2• l’azione delle radiazioni ionizzanti sull’organismo, quindi è in qualche modo uno svantaggio per le cellule. In radioterapia si sfruttano i danni ossidativi e per ossidativi per distruggere un tessuto bersaglio R• + OH• + H2O (tumorale), tuttavia in condizioni normali il tessuto tumorale è potenzialmente più protetto di quello sano perché (almeno nelle regioni più centrali delle masse neoplastiche) è meno perfuso e ossigenato. Il principio è quello di invertire questo tipo di situazione iperossigenando il tumore e sottoponendolo poi a radiazioni. Un altro problema però è dato dal fatto che l’efficacia delle radiazioni è massima solo in certe fasi del ciclo cellulare, siccome è praticamente impossibile che le cellule si trovino tutte in una data fase (soprattutto in un tumore), si avrà una grande variabilità di radiosensibilità all’interno del tessuto stesso. 1.6.10 Generazione di radicali liberi Può avvenire per: 1) Assorbimento di energia radiante; 2) Attivazione metabolica; 3) Reazioni redox dei processi metabolici; 4) Azione dei metalli di transizione; 5) Azione del ossido nitrico (NO); 6) Infiammazione; 7) Composti chimici esogeni; 8) Lesione da riperfusione, tessuti sottoposti a ischemia/ipossia nei quali venga ristabilita l’irrorazione possono subire danni ossidativi. L’ossigeno è trasformato in acqua (per la produzione di ATP) tramite varie reazioni in sequenza che producono specie reattive dell’ossigeno intermedie. I radicali liberi devono essere eliminati in quanto la loro presenza può causare danni alle strutture cellulari. Il processo di eliminazione può avvenire per: 1) Decadimento spontaneo, data la loro intrinseca instabilità chimica; 2) Azione degli antiossidanti (o scavenger) come le vitamine A-E-C o il glutatione; 3) Azione di enzimi specifici: 33 R• + H2O2 OH• + H2O H2O2 + RH R H2O a) Catalasi responsabile della riduzione dell’acqua ossigenata; b) Superossidodismutasi (SOD), opera una dismutazione (quando una stessa sostanza si trasforma in due composti con stato di ossidazione diverso) su due molecole di anione superossido ottenendo una molecola di perossido di idrogeno e una di ossigeno molecolare. Questa reazione è sfruttata per la trasformazione del Fe da ferrico a ferroso (reazione di Fenton); c) Glutatione perossidasi. 1.6.11 Propagazione della reazione radicalica Il ciclo dipendente dal citocromo P450 è un sistema enzimatico deputato alla detossificazione di alcune sostanze chimiche presenti nell’organismo. Si tratta di una reazione monossigenasica in cui entra un composto RH che subisce una serie di passaggi e viene poi trasformato in ROH. RH rappresenta una qualsiasi sostanza (per esempio potrebbe essere un acido grasso). Durante le reazioni del ciclo possono formarsi specie altamente reattive. 1.6.12 Perossidazione lipidica Da una catena alifatica di partenza (soprattutto acidi grassi polinsaturi) si può realizzare la formazione di un radicale libero dell’acido grasso. Si vengono a formare due specie radicaliche e una molecola di malonildialdeide. La misurazione di quest’ultima molecola fornisce un indice del grado di per ossidazione di membrana. Il danno perossidativo può portare a rottura della stessa. 1) Catena idrocarboniosa di un acido grasso polinsaturo; 2) Radicale libero dell’acido grasso. Riarrangiamento interno della molecola per risonanza, con spostamento del doppio legame e dell’elettrone libero; 3) Radicale libero dell’acido grasso con doppi legami coniugati; 4) Radicale perossidico dell’acido grasso; 5) Idroperossido dell’acido grasso; 6) Ciclizzazione interna; 8) Rottura della molecola. 1.6.13 Grandezze e unità di misura Il Gray misura la dose di radiazioni assorbita. La dose assorbita è la quantità di energia che le radiazioni ionizzanti cedono alla materia per l'unità di massa della sostanza irradiata, cioè il rapporto tra l'energia delle radiazioni assorbita dalla materia e la massa di materia interessata. Tutto questo indipendentemente dal tipo di radiazione ionizzante: In passato era usato il rad, che equivale a 0,01 Gray (1 Gy = 100 rad). La dose biologica efficace, espressa in rem, è data dal prodotto della dose assorbita in rad per il valore (numerico) della efficacia biologica relativa. Oggi si usa il Sievert come unità di misura (Sievert = 100 Rem) 34 L’efficacia biologica relativa corrisponde al rapporto tra una dose in rad di raggi X standard, presa come riferimento, e la dose in rad delle radiazioni ionizzanti considerate che produce lo stesso effetto biologico. Si tratta di un parametro molto importante che mette a confronto gli effetti di radiazioni diverse a parità di condizioni. 1) I raggi X, i gamma, gli elettroni e i raggi beta di qualsiasi energia hanno un valore EBR uguale a 1; 2) I protoni e i raggi alfa hanno un valore EBR uguale a 10; 3) I nuclei pesanti hanno un valore EBR uguale a 20; 4) I neutroni hanno un valore EBR che varia da 2 a 10,5 a seconda dell'energia posseduta. Mettendo l’EBR in relazione al LET si nota che ad un aumento dell’uno segue un aumento anche dell’altro. L’emivita effettiva rappresenta il tempo reale necessario ad un radionuclide per decadere all’interno di un organismo (legge degli inversi): 1) Ef = emivita fisica (tempo di dimezzamento) 2) Eb = emivita biologica (permanenza nell’organismo) 1.6.14 Sensibilità alle radiazioni nelle varie fasi del ciclo cellulare 1) Tessuti a cellule labili: vanno in contro a moltiplicazione rapida e quindi le cellule che li compongono si trovano spesso in fase re plicativa (la più sensibile al danno da radiazioni ionizzanti), per esempio gli epiteli delle mucose; 2) Tessuti a cellule stabili: presentano un indice mitotico più basso ma conservano comunque la capacità di attivare la replicazione generalmente in seguito ad uno stimolo (es. epatociti); 3) Tessuti a cellule perenni: non presentano fenomeni rigenerativi (se non in condizioni particolari) e sono quindi meno sensibili ai danni da radiazioni ionizzanti. Grafico 1: Curva generale di sopravvivenza. Andamento inizialmente a “spalla” e seguito poi da un andamento lineare, ma lineare in grafico semilogaritmico, quindi a una variazione fissa di dose corrisponde una variazione fissa della frazione sopravvivente. Grafico 2: Curva di sopravvivenza. Il grafico mostra il comportamento di cellule (sincronizzate nella stessa fase del ciclo cellulare) trattate con radiazioni differenti: 1) La fase iniziale di spalla rappresenta la condizione in cui le cellule riescono a rispondere al danno con i sistemi di riparazione; 2) La fase di linearità invece significa che vi è la stessa quota percentuale di cellule che muoiono a parità di dose impartita. 35 Grafico 3: Comportamento delle cellule in base al loro stato di ossigenazione al momento dell’esposizione alle radiazioni. Grafico 4: Comportamento delle cellule in base alla velocità di somministrazione della dose di radiazioni. 1) In a vengono date rapidamente; 2) In c lentamente; 3) In b intermedio. Si nota come man mano che le radiazioni vengono date più lentamente le cellule abbiano il tempo di riparare i danni subiti. Grafico 5: Comportamento delle cellule se la somministrazione di radiazioni viene sospesa per un certo periodo di tempo e ripresa in seguito. Si osserva una seconda fase di spalla con evidente processo di riparazione dei danni subiti durante l’esposizione. Grafico 6: Comportamento delle cellule in base al momento del ciclo cellulare durante il quale sono state esposte alle radiazioni. Le conseguenze del danno genotossico sono chiaramente l’arresto del ciclo cellulare nei punti di checkpoint (nel passaggio da G1 a S o da G2 a M), dopodiché la cellula: 1) In caso di danno grave andrà in apoptosi; 2) In caso di danno riparabile rientrerà nel ciclo dopo aver corretto le alterazioni. I difetti della riparazione del DNA caratterizzati da ipersensibilità agli agenti genotossici caratterizzano alcune patologie: 1) Atassia telangectasia, deficit di ATM (vedi oncologia); 2) Sindrome di Bloom, alterazione della elicasi BLM che provoca difetti di sviluppo; 3) Anemia di Fanconi, dovuta ad alterazione del complesso di Fanconi, responsabile del meccanismo di riparazione del DNA per ricombinazione omologa. Provoca difetti ematici. 36 Un’eccezione alla regola della radiosensibilità differente per fase del ciclo è quella per: 1) Ovociti; 2) Spermatogoni; 3) Linfociti. Questi tipi di cellule infatti hanno un indice mitotico basso ma subiscono facilmente danni da radiazioni. 1.6.15 Effetti della panirradiazione In caso si verifichi irradiazione totale dell’organismo gli effetti saranno sistemici e dipenderanno dalla dose. Dose Effetti < 0,5 Gy Si verificano mutazioni in molte cellule dell’organismo, se interessano la linea germinale possono essere trasmesse alla prole. In generale questo tipo di esposizione non ha nessun effetto clinico evidente. 0,5 - 2 Gy Male da raggi: segni riscontrabili di carattere ematico, stato letargico, nausea, anoressia, diminuzione transitoria di neutrofili e linfociti (leucopenia). Questa condizione non è mortale. 2 - 6 Gy Sindrome emopoietica: ipoplasia del midollo osseo associata a leucopenia e trombocitopenia, più tardivamente insorge anche anemia. La morte può sopraggiungere per complicanze infettive (50% dei casi). Si osserva inoltre caduta dei capelli, gli annessi cutanei infatti sono molto sensibili alle radiazioni. 3 - 10 Gy Sindrome gastrointestinale: segni iniziali simili alla sidrome precedente ma ad evoluzione più rapida. Si verifica la necrosi dell’epitelio intestinale, nausea e diarrea. Entro poche ore dall’esposizione il soggetto colpito va in shock ipovolemico ed in emoconcentrazione. I casi più gravi possono portare a morte. > 10 Gy Sindrome cerebrale: si verifica necrosi cerebrale emorragica, la morte sopraggiunge dopo poche ore dall’esposizione con manifestazioni neurologiche, convulsioni, delirio e coma. L’organismo può andare in contro a contaminazione interna, cioè può assumere la fonte di radiazioni. Un radionuclide o radioisotopo entra nell’organismo e segue un destino metabolico legato generalmente alle proprietà chimiche del gruppo della tavola periodica di cui fa parte. Alcuni esempi sono: 90 1) Ingestione, è il caso dello Stronzio , appartenente al II gruppo della tavola periodica come il calcio. Le sue caratteristiche chimiche portano al suo deposito e accumulo nelle ossa, questa localizzazione gli conferisce una lunga emivita biologica, siccome il tempo di decadimento fisico è paragonabile alla durata di una vita umana, questo radionuclide avrà tutto il tempo di irradiare l’organismo provocando preferenzialmente osteosarcomi; 2) Ingestione di iodio radioattivo, si deposita nei follicoli tiroidei danneggiandoli, lo iodio radioattivo è molto usato in terapia per distruggere non chiurgicamente la tiroide; 99m 3) Ingestione di Tecnezio , anche questo va ad accumularsi nella tiroide permettendo l’acquisizione di immagini scintigrafiche; 4) Inalazione, come nel caso del Polonio, un radionuclide poco solubile che permane nel polmone per lunghissimo tempo provocando molti danni. 1.7 TOSSINE BATTERICHE Alcune malattie infettive sono legate più alla produzione da parte del patogeno di tossine, piuttosto che alla proliferazione dello stesso. Si possono distinguere: 1) Endotossine, che generalmente sono componenti della parete batterica del patogeno. Sono normalmente meno tossiche delle esotossine, e il grado di tossicità varia da specie a specie, questa è data inoltre dal 37 riconoscimento della tossina da parte del sistema immunitario, ma non hanno specificità di bersaglio. Un esempio molto importante è quello dell’LPS (vedi anche capitolo Infiammazione); 2) Esotossine, sono proteine prodotte e secrete da svariati ceppi batterici. Hanno tutte un meccanismo di danno particolare che non dipende dal sistema immunitario del soggetto. In base al tropismo cellulare che esprimono si possono classificare in: a) Pancitotossine, sono tossiche indistintamente per tutte le cellule dell’organismo; b) Neurotossine; c) Enterotossine. La dose letale minima che porta a morte il 50% degli animali test (LD50) esprime la tossicità relativa di una tossina (si può esprimere anche in mg di tossina/Kg). Le endotossine hanno LD50 molto alto e quindi non hanno effetti tossici elevatissimi, mentre le esotossine sono molto più tossiche. Le esotossine prodotte da alcuni batteri rappresentano un meccanismo d’invasione. Alcuni esempi sono: 1) La tossina difterica pancitotossica del Corynebacterium diptheriae che provoca la difterite; 2) La neurotossina tetanica del Clostridium tetani che provoca il tetano; 3) La neurotossina botulinica del Clostridium botulinum che provoca il botulismo; 4) Il fattore edemigeno e letale (antrace) del Bacillus anthracis che provoca le sindromi carbonchiose; 5) L’enterotossina colerica del Vibrio cholerae che causa il colera. 1.7.1 Tossina difterica Il Corynebacterium diptheriae è un batterio Gram+ e rappresenta l’agente eziologico della difterite. Il suo effetto patogeno è legato alla secrezione della pancitotossina difterica, questa è una proteina composta da tre domini: 1) CTD è una porzione idrofilica che si posiziona verso l’esterno; 2) La porzione intermedia è idrofobica; 3) NTD. In seguito a proteolisi parziale con tripsina si formano due frammenti (A e B) che rimangono uniti solamente tramite un ponte disolfuro: 1) Il frammento A (active) di 20 kDa, rappresenta la porzione che media gli effetti patologici intracellulari della tossina (ovvero il blocco della sintesi proteica); 2) Il frammento B (binding) di 40 kDa, è responsabile del legame con la cellula bersaglio, il dominio CTD si lega inizialmente alla cellula, questo legame viene poi stabilizzato. Un legame saldo con il target è necessario all’entrata della tossina nel citoplasma. La tossina non è in grado di interagire con la cellula se manca il frammento B, mentre non espleta alcuna attività tossica se manca il frammento A. La tossina originariamente non appartiene al materiale genetico del batterio, bensì è trasportata dal virus batteriofago β (gene tox). Quando questo fago infetta il batterio e instaura un ciclo liso genico, il DNA virale si integra nel DNA batterico, in questo modo il batterio acquisisce la capacità di produrre la tossina. A questo si aggiunge il fatto che il batterio codifica per un repressore del gene tox, questo repressore proteico (o 2+ aporepressore) funziona solo in presenza di Fe . Quindi il batterio produce la tossina solo in caso di basse concentrazioni di ferro. Il meccanismo d’azione: 1) La tossina si lega alla membrana della cellula tramite il frammento B che contatta un recettore glicoproteico; 38 2) Si verifica fagocitosi mediata da recettore, il complesso viene internalizzato dalla cellula in vescicole ricoperte da clatrina; 3) Le vescicole si fondono con gli endosomi e il pH si abbassa permettendo al frammento A di staccarsi ed entrare nel citoplasma; 4) La tossina blocca il processo di elongazione delle proteine. Per fare ciò modifica il fattore di elongazione EFII impedendogli di idrolizzare il GTP (viene inibita la traslocazione del peptidil-tRNA dal sito A al sito P). Il frammento A della tossina difterica è una ADP-ribosil transferasi, cioè è un enzima che trasferisce molecole di ADP+ ribosio sul suo target. L’ADP-ribosio è ottenuto dalla scissione della molecola di NAD . L’EFII viene ADP ribosi lato in un sito specifico, cioè su una istidina modificata chiamata diftamide che si trova praticamente sol su questa proteina. Quindi è un processo altamente specifico. Essendo la tossina difterica un enzima, il suo potere tossico è elevatissimo, perché una sola molecola di tossina può modificare fino a 1 milione di EFII. Se il batterio colonizza un distretto favorevole (generalmente le vie aeree) si verifica: 1) Infiammazione ed emorragia; 2) Essudato necrotico-fibrino-emorragico, la necrosi è determinata dal blocco della sintesi proteica causata dalla tossina, il danno vascolare dovuto a questo fenomeno provoca quindi la fuoriuscita di sangue. Col sangue esce dunque molto fibrinogeno che da l’aspetto fibrinoso all’essudato; 3) Formazione di pseudomembrane, queste strutture aderiscono fortemente alle pareti delle vie aeree, possono creare una sorta di calco delle stesse fino ad arrivare ad ostruirle per intero (fenomeno più frequente nel bambino che va quindi in contro ad ipossia). La tossina difterica ha inoltre delle azioni a distanza (o post-difteriche): 1) Blocca il trasferimento degli acidi grassi all’interno del mitocondrio in quanto tra le proteine che non vengono più prodotte c’è il trasportatore mitocondriale di AG (carnitina-palmitil transferasi). Viene così bloccata la β-ossidazione degli acidi grassi che verranno invece accumulati nel citoplasma. Si sviluppa quindi steatosi, soprattutto a livello cardiaco (cor tigratum); 2) Azione sulla basilalanina nelle cellule di Schwann, altera la conduzione del segnale nervoso provocando le cosiddette paralisi postdifteriche. 1.7.2 Tossina A di Pseudomonas aeruginosa Un’altra tossina pancitotossica è tossina A di Pseudomonas aeruginosa, patogeno che riveste un ruolo importante nelle infezioni opportunistiche (sopratutto nosocomiali). Questa infezione infatti interessa maggiormente pazienti defedati, allettati e o con forme di immunodeficienza acquisita o congenita, un’altra categoria molto colpita da questa infezione è la popolazione affetta da fibrosi cistica. Vi è una buona omologia strutturale con la tossina difterica, la differenza sostanziale risiede nel fatto che la porzione attiva è nella parte carbossi-terminale e non ammino-terminale, ed inoltre cambia il tropismo del batterio. Il meccanismo d'azione è lo stesso, una ADP-ribosilazione di EFII. 1.7.3 Tossina α di Clostridium perfrigens Un terzo esempio è quello della lecitinasi (o tossina α) del Clostridium perfringens. Si tratta di una fosfolipasi C che 2+ agisce in presenza di Ca sulla fosfatidilcolina (o lecitina), scindendola in digliceride + fosforilcolina. Il meccanismo di danno, esteso a tutte le cellule, è appunto la distruzione della lecitina, un importante componente delle membrane. Questo comporta un effetto necrotizzante generalizzato a cui si aggiunge una grave anemia emolitica perché sono colpiti i componenti della membrana eritrocitaria. 39 Nelle forme di infezione più gravi si arriva ad una gangrena gassosa. Essendo il clostridio un anaerobio obbligato, ha bisogno di basse tensioni di O2 per sopravvivere, questa condizione si ottiene in caso di necrosi tissutale: quando c'è necrosi infatti la tensione di O2 è decisamente bassa. In caso di gangrena gassosa i muscoli e tessuti si riempiono di gas ed essudato. Questa gangrena è causata da un'infezione di germi anaerobi; essendo questi capaci di produrre grandi quantità di anidride carbonica, è più facile la dissociazione dei tessuti e viene quindi facilitata la diffusione del processo, mediata dalle tossine. Il C. perfringens ha anche altre tossine ed è l'azione combinata di queste tossine (e anche l'azione combinata tra Clostridi diversi), che porta ad una situazione di miosite anaerobica, tra le azioni combinate ci sono: 1) Processi collagenasici e proteasici che comportano il danneggiamento di endomisio e perimisio. Ciò favorisce l'accesso e la propagazione dell'infezione. 2) L'ischemia da compressione data dal gas nei confronti dei tessuti vicini. Questa combinazione di eventi può portare fino alla vera e propria putrefazione (gangrena), instaurando così un circolo vizioso, la nuova necrosi infatti favorisce la proliferazione e viceversa. 1.7.4 Neurotossine Sono la tossina tetanica e quella botulinica. I batteri clostridi sono batteri sporigeni anaerobi, quindi si sviluppano in assenza di ossigeno. Il Clostridium tetani colonizza tipicamente l’intestino degli animali ruminanti e viene escreto con le loro feci, è facile ritrovarlo sul terreno. 1) Il patogeno riesce ad entrare nell’ospite attraverso ferite lacero-contuse in cui sia presente necrosi (favorevole per il basso tenore di ossigeno); 2) La tossina viene rilasciata e viaggia in senso retrogrado lungo gli assoni dei nervi arrivando ai corni anteriori del midollo spinale, oppure può essere drenata dal sistema linfatico e arrivare ai nervi per via ematica; 3) Per entrare nei neuroni si lega ad alcuni gangliosidi. Il trasporto retrogrado lungo gli assoni è stato dimostrato da Price utilizzando tossine radio marcate e bloccando l’assone a metà percorso, si osservò in questo modo un accumulo di radioattività a monte dell’ostruzione. La tossina tetanica induce paralisi spastica in quanto blocca il rilascio di glicina da parte dei neuroni di Renshaw eliminando quindi l’inibizione dei muscoli antagonisti. Le manifestazioni cliniche visibili sono: 1) Tetano discendente, parte dalle zone innervate da neuroni più corti (viso-collo) raggiungendo man mano quelle più distali; 2) Riso sardonico, per lo spasmo dei muscoli del viso; 3) Opistotono, il soggetto si tende ad arco per lo spasmo dei muscoli spinali; 4) Paralisi progressiva dei muscoli respiratori fino a morte per asfissia. Il Clostridium botulinum è un batterio Gram+, sporigeno, è molto mobile e la tossina che secerne causa una grave intossicazione alimentare (botulismo). La tossina viene assorbita per via alimentare all’interno di carni crude o poco cotte. Nel canale digerente non viene praticamente proteolizzata ma viene assorbita intera, addirittura la scarsa proteolisi che subisce attiva la tossina. È composta da due subunità: 1) Subunità H (ad alto peso molecolare) 100 kDa; 2) Subunità L (a basso peso molecolare) 50 kDa che rappresenta la parte enzimaticamente attiva. 40 La tossina botulinica agisce sulla neurotrasmissione, ma a differenza della precedente inibisce il rilascio di acetilcolina bloccando la propagazione del segnale, provoca quindi una paralisi flaccida. La tossina tetanica (TeTX) e botulinica (BoTX) sono endopeptidasi Zn-dipendenti che operano tagli sulle proteine che controllano la fusione delle vescicole contenenti neurotrasmettitori con le membrane presinaptiche: 1) Sinaptobrevina (vSNARE) sul versante vescicolare; 2) Sintaxina (tSNARE) sul versante della membrana. 1.7.5 Tossina colerica La tossina colerica è un’enterotossina composta da sei componenti: 1) Una subunità A (active), la più grande e quella che possiede l’attività tossigena; 2) E 5 subunità B (binding), che si dispongono attorno alla A. Il gene per la tossina (indicata come CTx), proviene anch’esso originariamente da un fago filamentoso liso genico (CtxΦ), quando il genoma di questo batteriofago si integra in quello del batterio porta l’informazione sia per la tossina stessa sia il gene TCP (Toxin Co-regulated Pilus), un importante fattore di virulenza necessario per la colonizzazione. La compresenza di questi due fattori (CTx e TCP) rende possibile l’infezione e ne determina la gravità. Il meccanismo d’azione: 1) La tossina entra negli enterociti attraverso l’interazione delle subunità B con dei gangliosidi di membrana particolari (GM1), una volta legate in membrana cambiano conformazione permettendo ad A di entrare; 2) La subunità A una volta nel citoplasma viene scissa in due porzioni A 1 e A2; 3) La porzione A1 è quella attiva, si lega alla proteina Arf e tramite ADP-ribosilazione della proteina Gs (che non riuscirà più a idrolizzare il GTP) stimola l’adenilatociclasi che produrrà quindi AMPc costitutivamente; 4) L’aumento di AMPc provoca: + a) Nei villi intestinali il blocco dell’ingresso di Na e di Cl e di conseguenza blocco dell’assorbimento idrico; + b) Nelle cripte intestinali facilità l’estrusione di Na , Cl , acqua e bicarbonato; 5) L’effetto finale sarà la perdita ingente di liquidi per diarrea profusa (feci ad acqua di riso) e infine shock ipovolemico. L’unico modo realmente efficace per fronteggiare l’infezione è correggere l’ipovolemia somministrando liquidi per via parenterale, aspettando che l’infezione si risolva, oppure coadiuvando la terapia idroelettrolitica con antibiotici. La morte in ogni caso non sopravviene per le conseguenze infettive dirette (il batterio non è invasivo e non distrugge le cellule, infatti la diarrea non è emorragica, in caso contrario si parlerebbe di dissenteria), ma appunto a causa della perdita di liquidi, è generalmente sufficiente quindi reintegrare quelli persi. 1.7.6 Tossine di Escherichia coli Il batterio E. coli produce due tipi di enterotossine: 1) LT, o tossina termolabile, la cui azione comporta un aumento del cAMP all’interno delle cellule bersaglio. Si tratta di una tossina molto simile a quella colerica, a parte il fatto che in LT manca il frammento A2. Questa tossina rappresenta per i vari ceppi di E. coli un carattere acquisibile, può essere infatti trasferito da un batterio all’altro tramite plasmidi; 2) ST, o tossina termostabile, la cui azione invece comporta un aumento del cGMP. Anche questa tossina può trasferirsi come informazione genica tramite plasmidi. Comporta l’inibizione del trasporto di NaCl ma la sindrome diarroica conseguente è più limitata rispetto a quella colerica. I nomi delle tossine dipendono dal comportamento nei confronti dell’esposizione al calore in vitro. 41 L’E. coli rappresenta il primo agente eziologico della diarrea del viaggiatore, una categoria di infezioni a varia eziologia, accomunate dal fatto che interessano soggetti in viaggio, che vengono quindi esposti a patogeni a cui tendenzialmente non sono immunizzati (ma che non rappresentano una grossa minaccia per la popolazione autoctona, cronicamente esposta). Inoltre questo batterio riveste un ruolo importante nelle diarree infantili. 1.7.7 Sindromi carbonchiose Il Bacillus anthracis è un batterio Gram+, anaerobio non obbligato, sporigeno. Il passaggio all’uomo avviene per contatto con animali o parte di essi che sono stati esposti a terreni contaminati. Il carbonchio (o sindrome carbonchiosa) si divide in: 1) Cutaneo (95%), caratterizzato dalla formazione di una papula che progredisce a vescicola ripiena di liquido e circondata da edema. Quando la vescicola si rompe si forma un’ulcera con fondo nero; 2) Da inalazione, i fagociti trasportano le spore ai linfonodi dove queste germinano e rilasciano la tossina provocando una mediastinite emorragica; 3) Intestinale, provoca una diarrea sanguinolenta severa. Il meccanismo d’azione si basa sull’interazione tra più tossine: 1) La subunità B, o antigene protettivo (chiamato così poiché se un individuo possiede anticorpi anti-antigene protettivo è immune alla sindrome), è una proteina composta da due domini che interagisce con un recettore sulla superficie delle cellule; 2) Dopo aver legato il recettore viene clivato da una proteasi che lascia una parte a maggior peso molecolare attaccata in membrana; 3) I frammenti residui si associano formando un eptamero; 4) Si crea una fossetta rivestita di clatrina sulla superficie cellulare; 5) A questo eptamero si legano tre subunità A. il batterio ha due possibili subunità A alternative: 2+ a) Il fattore edemigeno che una volta entrato interagisce con la Ca -calmodulina costituendo una sorta di adenilatociclasi, l’aumento conseguente di AMPc provoca squilibrio degli equilibri ionici e quindi edema, inoltre l’iperproduzione di cAMP sregola molte altre funzioni cellulare, alcune delle quali, all’interno dei macrofagi per esempio, sono importanti per la funzione del sistema immunitario, che viene represso localmente permettendo la diffusione dell’infezione; b) Il fattore letale va a bloccare un’importante via di signaling, quella delle MAPKKs (cioè le chinasi delle MAP chinasi), questa via regolatoria controlla una delle cascate più importanti per la vita e lo sviluppo della cellula. L’intervento di questa tossina provoca morte cellulare. Questi due fattori tossigeni per entrare si legano all’eptamero e vengono endocitati, dopodiché si forma un endosoma dentro al quale si abbassa il pH. Questo provoca la formazione di un canale da parte dell’eptamero con conseguente ingresso nel citoplasma delle tossine. 1.8 NOTE 42 1.9 AUTOVALUTAZIONE 1) Quali tra le seguenti radiazioni ha densità di ionizzazione maggiore? Sapresti motivare la risposta? a) Raggi α b) Raggi β c) Raggi γ 2) Descrivi la struttura molecolare e il meccanismo d’azione della tossina difterica. 3) Descrivi la struttura molecolare e il meccanismo d’azione della tossina tetanica e botulinica. 4) Descrivi la struttura molecolare e il meccanismo d’azione della tossina colerica. 0 5) Sta peggio un soggetto eterozigote HbS/β o un soggetto omozigote HbS/HbS? Motiva la risposta. 6) Descrivi le differenze e le analogie tra la HPFH e la δβ-talassemia. 7) Riguardo alla sferocitosi ereditaria, quale tra le seguenti risposte è ERRATA? Motiva la risposta. a) Negli eritrociti può essere mutata la spectrina b) C’è una mutazione nel gene dell’anchirina nella maggior parte dei casi c) La crisi emolitica è una complicanza occasionale d) La crisi aplastica è una complicanza occasionale e) La splenectomia è invariabilmente terapeutica 8) Si analizzi lo splicing alterato come meccanismo patogenetico. 9) Mettere in ordine decrescente di radiosensibilità le seguenti cellule (motiva la risposta): a) Epatociti b) GR c) Enterociti d) Neuroni e) Spermatogoni e Oociti 10) Si mettano in relazione le seguenti caratteristiche con le relative patologie: alcaptonuria (A), fenilchetonuria (B), entrambe (C), nessuna (D). a) Ridotta sopravvivenza prima dei 20 anni ( ) b) Ritardo mentale alla nascita ( ) c) Oocronosi e alterazioni articolari ( ) d) Alterato metabolismo della tirosina ( ) e) Tendenza all’automutilazione ( ) 43 2. CITOPATOLOGIA 2.1 DANNO CELLULARE Il danno è definito come qualsiasi stimolo che la cellula riceve e che altera la sua omeostasi. L’omeostasi è uno stato stazionario di equilibrio della cellula o di un tessuto. E’ uno stato che una cellula normale ha e cerca di mantenere utilizzando energia. Distingueremo tra tipo di danno: 1) Reversibile, cioè quando la cellula riesce a recuperare l’omeostasi in seguito al danno e quindi ripristinare le condizioni di partenza; 2) Irreversibile, cioè quando il danno è cosi esteso che la cellula non è più in grado di ritornare alla condizione precedente all’insulto e va incontro a una situazione irreversibile di morte cellulare. Quando una cellula subisce un danno si verificano classicamente alcuni processi: 1) Swelling, ossia il rigonfiamento della cellula; 2) Formazione di blebs sulla membrana plasmatica (bolle); 3) Rigonfiamento degli organelli intracellulari; 4) Leggera condensazione della cromatina (clumping), visibile con il microscopio elettronico. Fino ad un certo stadio la cellula può recuperare, con un procedimento inverso, morfologia e funzione. Se il danno non è transitorio, o è troppo intenso, la cellula semplicemente muore. Non è chiaro quale sia il punto di non ritorno, cioè quel livello oltre il quale il danno non può più essere recuperato. Ciò che però si può intuire è che si tratti di un unico processo, la condizione di irreversibilità è la naturale conseguenza di un danno, pur inizialmente reversibile, sufficiente per tempo o gravità tale da far procedere la cellula lungo il percorso della necrosi o dell’apoptosi. Per determinare questo punto di non ritorno sono state sviluppate alcune teorie: 1) Teoria lisosomiale, prevede che il punto di non ritorno coincida con la rottura dei lisosomi e il rilascio del loro contenuto di enzimi digestivi nel citosol; 2) Teoria mitocondriale, connessa con il concetto della caduta dell’ATP, in questo caso il punto di non ritorno sarebbe dato dalla deplezione irreversibile delle riserve energetiche cellulari; 3) Teoria della denaturazione proteica, per la quale l’irreversibilità si otterrebbe nel momento in cui, indipendentemente dalla causa, le proteine perdono la loro struttura quaternaria e terziaria, cioè appunto si denaturano; 4) Caduta di ATP; 5) Inibizione della sintesi proteica; 6) Perdita dell’omeostasi Na/K; 7) Perossidazione lipidica; 8) Aumento di permeabilità della membrana; 9) Ione calcio; 44 La risposta cellulare agli stimoli lesivi dipende da molti fattori: 1) Tipo di danno (durata, intensità); 2) Stato funzionale della cellula, dipende se la cellula è in uno stato fisiologico o in uno già alterato per altre cause; 3) Capacità di adattamento della cellula, cioè quanto quel tipo di cellula che è colpita è in grado di rispondere ad alterazioni; 4) Target colpito dal danno, il tipo e la gravità del danno dipendono da che bersaglio funzionale esso avrà, cioè cosa viene alterato all’interno della cellula. 2.2 DANNO IRREVERSIBILE E MORTE CELLULARE Quando uno stimolo è di intensità, e di durata cosi importante da superare i meccanismi di recupero normali della cellula. La cellula va in contro a morte cellulare, che può avvenire con due meccanismi alternativi: 1) Necrosi; 2) Apoptosi. 2.2.1 Necrosi Morte cellulare dovuta a importante alterazione dell’ambiente intracellulare. Mentre l’apoptosi può interessare singole cellule, la necrosi è un fenomeno che coinvolge sempre una regione di cellule (quando una cellula esplode rilascia il suo contenuto litico enzimatico all’esterno danneggiando le cellule vicine → focus necrotico), la necrosi risulta quindi sempre morfologicamente evidente e si tratta di un processo sempre patologico. Alterazioni morfologiche: 1) Rigonfiamento cellulare; 2) Il citoplasma diventa molto eosinofilo; 3) Alterazione del nucleo: a) Picnosi: condensazione della cromatina; b) Carioressi: frammentazione del nucleo; c) Cariolisi: scomparsa dell’elemento nucleare per la sua digestione enzimatica; 4) Organuli cellulari visibilmente alterati: a) Rigonfiamento dei mitocondri con depositi di materiale amorfo; b) Rigonfiamento del reticolo endoplasmatico con distacco dei ribosomi; 5) Iniziale formazione di “blebs” (rigonfiamenti) sulla membrana plasmatica e successiva rottura totale. Il processo di necrosi è suddivisibili in diverse fasi: 1) Crisi bioenergetica dovuta al calo della produzione di ATP fondamentalmente per danno a carico dei mitocondri; 2) Perdita dell’omeostasi ionica e volumetrica secondario al calo di ATP disponibile per le pompe ATPasiche + deputate alla regolazione dei flussi ionici transmembrana, aumenta l’Na intracellulare che causa richiamo osmotico di acqua con conseguente rigonfiamento della cellula e degli organelli; 3) Tentativo di adattamento della cellula che cerca di utilizzare tutti i meccanismi omeostatici che possiede per ripristinare i normali livelli di ATP (per es. aumenta la glicolisi, si attiva la heat shock response); 4) Se il danno persiste si ha alterazione dell’omeostasi del calcio citosolico; 2+ 5) Conseguente aumento del Ca citosolico e attivazione delle fosfolipasi calcio-dipendenti, questo provoca rottura e disorganizzazione della membrana plasmatica e rilascio di acidi grassi tossici; 2+ 6) La rottura della membrana causa ancora maggiore ingresso di Ca che va ad attivare anche proteasi calciodipendenti (come la Calpaina) che tagliano proteine strutturali citoscheletriche o del genoma, ed endonucleasi che tagliano il DNA; 45 7) L’aumento della glicolisi anaerobia causa una diminuzione del pH che porta a denaturazione proteica (soprattutto nella necrosi coagulativa). Tutti questi eventi portano alla morte cellulare con riversamento del contenuto citoplasmatico nel tessuto circostante. TIPI DI NECROSI: COAGULATIVA Si osserva denaturazione proteica Il tessuto diventa duro e biancastro La struttura dell’organo rimane ben distinta e compatta Dal punto di vista istologico il tessuto rimane denso e opaco Si verifica spesso in condizioni di ipossia Tipica del cuore e del rene in seguito ad ischemia COLLIQUATIVA Si ha autodigestione del tessuto da parte degli stessi enzimi delle cellule Prevale la lisi lisosomiale Si ha liquefazione del tessuto che diventa viscoso e liquido finendo per disintegrarsi Tipica del tessuto cerebrale Sono individuabili alcuni markers indicativi del tipo specifico di necrosi: Ipereosinofilia: i foci necrotici si colorano fortemente con coloranti eosinofili; Coagulazione delle proteine intracellulari Perdita dei nuclei (cariolisi); Degenerazione idropica: presenza di grossi vacuoli (reversibili) dati dall’edema cellulare. Masse viscose e liquide rispetto al tessuto normale; Autolisi: digestione enzimatica massiccia che provoca distruzione dell’architettura del tessuto; Possibile reazione infiammatoria e pus: infiltrato leucocitario (neutrofili e linfociti morti); Possibile infiltrazione batterica. Altri tipi di necrosi che si possono osservare sono: 1) Caseosa: è un sottotipo di necrosi coagulativa (spesso si ritrova nel polmone in seguito ad infezione da Mycobacterium tubercolosis), il nome si deve al fatto che l’aspetto richiama la consistenza del formaggio; 2) Grassa: avviene tipicamente nel fegato e dipende dalla digestione dei lipidi, assume aspetto opaco e untuoso. È visibile anche nella pancreatite acuta, nella quale si ha rilascio di lipasi che danneggiano il tessuto pancreatico stesso, gli acidi grassi liberati dall’azione di questi enzimi reagiscono con ioni calcio dando saponificazione dei grassi. 2.2.2 Apoptosi L'apoptosi non è solo patologica come la necrosi ma interviene anche nella fisiologia dell'organismo; è detta anche morte cellulare programmata, è un processo attivo che richiede dispendio di energia per essere attuato ed è 46 finemente regolato, i suoi componenti molecolari sono molto conservati (quando si trova una proteina che viene conservata nell’evoluzione significa che svolge un ruolo cruciale per la sopravvivenza di un organismo). Condizioni fisiologiche in cui interviene l’apoptosi: 1) Regolazione del numero esatto di cellule in un tessuto (turn-over tissutale); 2) Embriogenesi, per esempio le membrane interdigitali; 3) Sfaldamento dell’endometrio; 4) Protezione dell’organismo mediante distruzione di cellule dannose: a) Cellule infettate da virus; b) Cellule tumorali; c) Cloni di linfociti T autoreattivi; d) Cellule con DNA danneggiato (sistema di controllo → p53) Eventi caratteristici dell’apoptosi: 1) Contrazione del citoplasma (proteolisi dei filamenti di actina); 2) Perdita di acqua e raggrinzimento → insolubilizzazione delle proteine citosliche; 3) Picnosi poco evidenti; 4) Frammentazione della cromatina in maniera regolare (laddering DNA) ad opera di DNAasi che tagliano a livello del DNA linker che collega due nucleosomi (aspetto a scala a pioli alla corsa elettroforetica); 5) La cellula continua a contrarsi fino a rompersi con formazione di corpi apoptotici (non c’è riversamento del contenuto); 6) Segnale “eat me” che facilita la fagocitosi dei corpi apoptotici: l’attivazione delle flippasi porta all’esposizione della fosfatidilserina sul versante extracellulare della membrana plasmatica, mentre normalmente è presente solo dal lato citosolico; 7) Formazione dei “blebs” (estroflessioni, rigonfiamenti) sulla membrana plasmatica che favoriscono anch’essi la fagocitosi. Il programma apoptotico è portato avanti attivamente dalla cellula, quindi con dispendio di energia, ed è stimolato da induttori specifici, mentre esistono inibitori che lo bloccano. Le cellule che muoiono per apoptosi lo fanno in maniera controllata, questo fenomeno può interessare singole cellule all’interno di un tessuto senza interferire con quelle adiacenti e quindi senza innesco di processi infiammatori (al contrario della necrosi che comporta sempre flogosi). La sensibilità delle cellule ai vari stimoli apoptotici dipende da: 1) Severità dello stimolo; 2) Equilibrio fra proteine cellulari pro- e antiapoptotiche (a parità di stimolo l’equilibrio tra questi fattori determina o meno l’avvio del programma di morte); 3) Fase del ciclo cellulare in cui si trova la cellula. Si possono individuare due tipologie di induttori dell’apoptosi, divisibili in base al meccanismo d’azione: 1) Stimoli estrinseci, ossia segnali che arrivano dall’esterno della cellula e vengono trasmessi all’interno grazie a recettori di morte posti sulla membrana plasmatica. Esistono tre tipi di recettori che riconoscono altrettanti ligandi specifici: a) TNF-α, lega il TNF receptor-1; b) TRAIL (TNF-Related Apoptosis Inducing Ligand), lega i recettori DR4 e DR5; c) FasL (Ligando di Fas), lega Fas detto anche CD95; Questo tipo di segnale può arrivare anche ad una cellula completamente sana, non danneggiata, ma che per qualche motivo è necessario che venga eliminata (si pensi per esempio alla soppressione delle cellule T autoreattive che vengono scartate nel timo, oppure alle cellule dell’immunità al termine di un processo infiammatorio che essendo in largo eccesso vanno eliminate); 47 2) Stimoli intrinseci, all’origine dei quali c’è un fattore di danno extracellulare ma che interviene su strutture di componenti intracellulari: a) Danni al DNA (da agenti ossidanti, UV, raggi X, chemioterapici); b) Alterazioni dei flussi ionici attraverso la membrana plasmatica; c) Depositi amiloidi extracellulari (per es. β-amiloide nella malattia di Alzheimer); d) Inibizione della sintesi proteica; e) Danno all’integrità di membrana; f) Alterazione del citoscheletro; g) Alterazione della trasmissione intracellulare di segnali; h) Privazione dei fattori di crescita. Il meccanismo d’azione dell’apoptosi si snoda attorno all’attivazione di un gruppo di proteasi cellulari chiamate caspasi. Le caspasi sono delle Cisteina-proteasi che tagliano le proteine bersaglio a livello di acido aspartico: C-Asp-asi 1) C- sta per cisteina, significa che queste proteasi hanno sul loro sito attivo una cisteina che è fondamentale ai fini dell’attività proteolitica (cioè se è mancante/mutata l’enzima non è più funzionante); 2) -Asp- sta per aspartato, questo residuo amminoacidico deve essere necessariamente presente nel sito di taglio dell’enzima, quindi sul substrato della caspasi, pena l’insensibilità al taglio (struttura del sito di taglio: Asp-X-X-X, cioè un aspartato seguito da tre a.a. generici); 3) -Asi sta per proteasi. I substrati di queste proteasi sono: 1) Altre caspasi; 2) Proteine di altra natura che vengono attivate o distrutte dal taglio: a) Proteine del citoscheletro (il taglio delle quali spiega il raggrinzimento della cellula apoptotica); b) CAD (Caspase Activated DNase) che vengono attivate dal clivaggio da parte delle caspasi e che andranno a tagliare il DNA linker dando l’aspetto caratteristico a scala a pioli all’elettroforesi del DNA (laddering DNA); c) I-CAD (inibitori delle CAD) che venendo tagliati non saranno più in grado di inibire le CAD; d) Proteine strutturali del nucleo (cariolisi e carioressi); e) Flippasi. Le caspasi si dividono in: 1) Caspasi iniziatrici (2-8-9-10), che vengono attivate da proteine adattatrici e/o da auto clivaggio secondario a stimoli a monte, servono ad attivare per clivaggio le caspasi effettrici; 2) Caspasi effettrici (3-6-7), vengono attivate dalle precedenti e servono a tagliare i bersagli a valle; 3) Esistono inoltre altre caspasi non coinvolte nell’apoptosi ma nell’infiammazione, in quanto sono responsabili dell’attivazione di citochine, caspasi 1 o ICE-like protein (Interleukin-1β Converting Enzyme). L’interleuchina 1 viene prodotta in forma inattiva, preproinsulina, l’attivazione delle cellule dell’infiammazione che secernono citochine tramite TLR (Toll-Like Receptor) provoca il clivaggio a prointerleuchina (l’ulteriore taglio a interleuchina attiva avviene via NOD-like receptor, argomento affrontato in Fisiopatologia generale a proposito della febbre mediterranea familiare); Le caspasi sono prodotte in forma di zimogeni, per essere attivate devono subire: 1) Rimozione del dominio inibitorio; 2) Taglio proteolitico in due frammenti (uno ad alto peso molecolare, 20 kDa, e uno a basso peso molecolare, 10 kDa); 48 3) Formazione di un tetramero con due frammenti ad altro peso molecolare e due a basso peso. La cascata apoptotica può seguire due vie a seconda che lo stimolo sia intrinseco o estrinseco: 1) Via intrinseca: è attivata appunto da stimoli intriseci di danno/alterazione, il mitocondrio svolge un ruolo centrale in questo meccanismo, in quanto in particolari condizioni rilascia il citocromo c e altri fattori proapoptotici, il processo passa attraverso l’attivazione della (pro)caspasi 9. 2) Via estrinseca: è mediata dai recettori di morte, la cellula reagisce in maniera diversa in base all’intensità del segnale: a) In caso vengano ingaggiati molti death receptors lo stimolo sarà abbastanza potente da attivare sufficienti caspasi da sostenere la cascata; b) In caso invece che lo stimolo non sia così accentuato, oltre alla via diretta si attiverà parallelamente quella mediata dai mitocondri; Il processo passa attraverso l’attivazione della (pro)caspasi 8. La via intrinseca si basa sull’equilibrio tra fattori pro e anti apoptotici, sono tutte proteine regolatorie che possiedono almeno un dominio BH (da BH1 a BH4) omologo a Bcl-2, uno tra i primi fattori di regolazione dell’apoptosi ad essere stato scoperto grazie all’omologia con CED-9 di C. Elegans (vedi dopo), e un dominio transmembrana che gli permette di inserirsi nella membrana mitocondriale. Queste proteine agiscono eterodimerizzandosi, si legano tra di loro tramite i domini BH, questa eterodimerizzazione funziona come mutua neutralizzazione delle proteine pro- ed anti-apoptosi, significa che la stechiometria di questi fattori all’interno della cellula influisce sull’attivazione o meno della cascata apoptotica: 1) Una cellula che contiene più proteine pro apoptotiche sarà più sensibile al programma di morte; 2) Una cellula che invece contiene più membri anti apoptotici sarà resistente a questo processo. I membri proapoptotici sono: 1) BH3 only (cioè contengono solo domini BH3), funzionano come sensori di danno e risiedono normalmente nel citosol, sono: a) BAD; b) BID; possono trasferirsi sulla membrana mitocondriale in seguito a una serie di stimoli; 2) Multi dominio (cioè hanno anche altri domini BH), stanno nella membrana mitocondriale con lo scopo di creare “megacanali” per far passare il citocromo c e altri fattori, sono: a) BAK; b) BAX. I membri antiapoptotici stanno sempre nella membrana mitocondriale e funzionano inibendo i membri proapoptotici, sono: 1) Bcl-2; 2) Bcl-XL. La sensibilità all’apoptosi può essere influenzata sia modificando la localizzazione dei fattori di regolazione, sia la loro trascrizione genica. Per esempio p53, che controlla la stabilità genetica, in caso di danno al DNA di una certa entità, si attiva e, tra le altre azioni, funziona come regolatore dell’espressione di BAX legandosi a sequenze specifiche sul gene relativo, upregolandone la trascrizione. L’aumento di mRNA codificante per BAX comporta chiaramente anche l’aumento della traduzione e quindi squilibrio della “bilancia” pro-anti apoptosi in direzione della morte cellulare. Se il danno al genoma non viene rapidamente riparato, questa aumentata sensibilità all’apoptosi causerà la morte della cellula. 49 Nel caso in cui prevalgano i fattori proapoptotici, sulla membrana mitocondriale si apriranno questi megacanali, e il citocromo c sarà libero di diffondere nel citosol. Questo evento è determinante in quanto il Cyt c è necessario alla formazione dell’apoptosoma. L’apoptosoma è un complesso multi proteico che media l’attivazione delle caspasi iniziatrici, si forma nel citoplasma a partire da due componenti: 1) Il citocromo c; 2) Apaf-1 (Apoptotic Protease Activated Factor 1), è una proteina multidominio da 130 kDa omologa al CED-4 di C. Elegans, ha tre domini caratteristici: a) Dominio CARD (CAspase Recruitment Domain), recluta le procaspasi da attivare; b) Dominio omologo a CED-4; c) 2 WD40 repeats (o intramolecular inhibitors of apoptosome formation), sono i domini proteici che contengono il sito di legame per il cyt. Apaf-1 è sempre presente nel citosol delle cellule, normalmente i due domini WD40 bloccano il dominio CARD (per questo sono detti inibitori della formazione dell'apoptosoma). In seguito al rilascio del citocromo c dal mitocondrio, questi domini lo legano e la proteina cambia conformazione, rendendo libero CARD, a questo punto Apaf-1 polimerizza con altri Apaf-1 creando un anello centrale di domini CARD dove è in grado di legarsi la procaspasi 9 (la prima caspasi iniziatrice), questo è il vero e proprio apoptosoma: 1) 7 Apaf-1 polimerizzati ad anello; 2) Il citocromo c; 3) La procaspasi 9. L'assemblaggio dell'apoptosoma induce una modifica conformazionale alla procaspasi 9 che si autoattiva (l’autoclivaggio avviene solo se è legata nell'apoptosoma). La procaspasi 9 così attivata recluta la procaspasi 3 e la taglia attivandola a caspasi 3, questa è la caspasi effettrice principale che taglierà i bersagli finali. Un altro evento importante che avviene quando si aprono i megacanali è l’uscita nel citosol di altri fattori pro apoptotici (Smac-DIABLO) che vanno ad inibire le IAPs (Inhibitor Apoptotic Proteins), queste sono delle proteine normalmente libere nel citoplasma che sequestrando le caspasi evitano, in situazioni di normalità, un processo apoptotico non necessario. Oltre ai fattori anti apoptotici già nominati ne esistono altri patologici: 1) Proteina c-FLIP, presente normalmente ma overespressa in certe cellule neoplastiche. Funziona come esca avendo un DD come quello dei recettori di morte o di FADD, ma non ha alcun dominio effettore, quindi compete con le FADD per i recettori bloccando la via; 2) Proteina CrmA del virus del vaiolo, è in grado di inibire la caspasi 1 (ICE). I fattori di regolazione dell’apoptosi sono stati scoperti originariamente grazie agli studi di mutagenesi sul nematode C. Elegans, questo verme è un organismo molto semplice, durante lo sviluppo embrionale è formato da poco più di 1000 cellule somatiche, di queste un numero preciso andrà incontro ad apoptosi (131) mentre le altre andranno a formare i vari tessuti. Dopo introduzione random di mutazioni tramite irradiazione nel genoma di questi vermi, i ricercatori individuarono delle varianti: 1) alcuni rimanevano normali (wild type); 2) alcuni presentavano più cellule del normale (more cells); 3) alcuni ne presentavano meno (less cells). 50 Questi ultimi due sono stati chiamati CED mutants (CElls Death abnormality). I ricercatori sequenziarono dunque il genoma delle varianti mutate confrontandolo con quello wild type evidenziando sempre le stesse mutazioni: 1) nei vermi con blocco dell’apoptosi era sempre mutato CED-3, che quindi aveva funzione pro apoptotica; 2) nei vermi con meno cellule era sempre mutato CED-9, che quindi aveva funzione anti apoptotica. Ulteriori studi hanno permesso di comprendere che CED-9 funziona inibendo CED-3, il quale invece induce apoptosi. Grazie a studi comparativi tra sequenze genomiche del nematode e umane è stata trovata omologia di sequenza con geni specifici: 1) CED-9 è omologo a Bcl-2, evidenziato la prima volta nel B cells lymphoma dove viene sovra espresso; 2) CED-3 nei vertebrati ha una controparte che appartiene alla famiglia delle caspasi. La via estrinseca è mediata dall’attivazione di recettori di morte sulla membrana plasmatica che ricevono segnali dall’esterno della cellula. Prendendo come esempio paradigmatico il recettore Fas, questo è formato da: 1) Un dominio trans membrana; 2) Un dominio extracellulare che lega il FasL; 3) Un dominio intracellulare detto Death Domain (DD). In seguito al legame con FasL il recettore subisce un cambiamento conformazionale che gli permette di trimerizzare, ossia di legarsi con altri due recettori attivati tramite i domini DD. La trimerizzazione permette il reclutamento di proteine citosoliche particolari che possiedono domini DD che permettono l’interazione con il recettore trimerico e domini DED (Death Effector Domain) che permettono la trasmissione del segnale. Nel caso di Fas questa proteina si chiama FADD (Fas Associated DED Domain), questa si lega al recettore attivato tramite il dominio DD, mentre recluta la procaspasi 8 tramite il dominio DED, questa interazione induce la caspasi ad autoclivarsi attivandosi e avviando la cascata apoptotica. Il complesso FADD + recettore trimerico di Fas è anche chiamato DISC (Death-Induced Signalling Complex). Fas interviene in molte situazioni: 1) Cellule infettate da virus esprimono più Fas in membrana venendo quindi riconosciute ed eliminate dai CTL e dalle NK; 51 2) Le cellule effettrici del sistema immunitario esprimono Fas in modo da essere eliminate dopo aver espletato le loro funzioni alla fine di una risposta immunitaria; 3) Certi tumori solidi evadono il sistema immunitario down-regolando l’espressione di Fas e attivando quella di FasL in modo da eliminare i CTL che cercano di attaccare il tumore; 4) È la via principale di eliminazione dei cloni T self-reattivi, mutazioni a carico di Fas o FasL possono determinare l’insorgenza di sindromi autoimmuni linfoproliferative. Come accennato in precedenza, le cellule che ricevono un segnale potente vanno in apoptosi direttamente via caspasi 8 → caspasi 3, mentre le cellule che non ricevono uno stimolo molto forte necessitano di un circuito di amplificazione che passa attraverso la via intrinseca. Questo processo è detto cross talk tra via estrinseca ed intrinseca: la caspasi 8 taglia il fattore pro apoptotico citoplasmatico BID che diventa t-BID, questo può inserirsi nella membrana mitocondriale favorendo l’apertura dei canali e la fuoriuscita del Cyt c e quindi la formazione dell’apoptosoma. Eventi nucleari nell’apoptosi: 1) Le caspasi effettrici tagliano le proteine della lamina nucleare alterando la barriera nucleo-citosol; 2) Le caspasi attivano le CAD e inattivano le I-CAD; 3) Le caspasi tagliano anche PARP (Poli-ADP Ribosio Polimerasi), un enzima di correzione del DNA; 4) Viene alterata l’attività delle topoisomerasi. 2.2.3 Differenze tra necrosi e apoptosi CARATTERISTICHE NECROSI APOPTOSI Dimensione cellule Nucleo Membrana plasmatica Organelli Contenuto cellulare Infiammazione Fisiologico/patologico Volume aumentato Picnosi, cariolisi, carioressi Distrutta Volume aumentato Digestione cellulare Frequente Patologica Volume ridotto Picnosi, carioressi Intatta Intatti Intatto Assente Fisiologica/patologica 2.3 ADATTAMENTI CELLULARI AL DANNO REVERSIBILE I tipi elementari di danno reversibile inducono nella cellula: 1) Risposte immediate: risposta cellulare allo stress del reticolo endoplasmatico, cioè attivazione di diverse vie di segnalazione intracellulare volte a ripristinare la situazione di partenza (unfolded protein response - UPR); 2) Adattamenti, che si instaurano più lentamente in risposta a un danno meno importante ma protratto nel tempo: a) Rigenerazione, cioè la proliferazione per rimpiazzare le perdite; b) Iperplasia, cioè l’aumento di numero delle cellule; c) Ipertrofia, cioè l’aumento di dimensioni delle cellule; d) Atrofia, cioè la diminuzione di dimensioni delle cellule; e) Metaplasia, cioè la sostituzione con un altro tipo cellulare. Aplasia e anaplasia non sono adattamenti cellulari ma fenomeni sempre patologici e di altra natura, verranno trattati per chiarirne il significato e le differenze rispetto ai processi sopra nominati. 52 2.3.1 Rigenerazione Per rigenerazione si intende la sostituzione di cellule che sono andate perse con cellule dello stesso tipo, chiaramente può avvenire anche in situazioni normali e non solo come risposta ad un danno (per esempio la proliferazione delle cellule midollari che serve a sostituire i globuli rossi e bianchi più vecchi). Le cellule si possono classificare in base alla capacità rigenerativa che possiedono, questa suddivisione fu proposta da Bizzozero ancora nell’800: 1) Cellule perenni (non proliferanti) non possono più replicarsi, tipo neuroni, adipociti, muscolo striato, podociti; 2) Cellule stabili (quiescenti) normalmente hanno bassa attività proliferativa ma in seguito a stimolo possono riprendere a dividersi, per esempio epatociti, fibroblasti, endotelio, muscolo liscio; 3) Cellule labili (in continua divisione) continuano a replicarsi per tutta la vita dell’organismo, come la maggior parte degli epiteli, il midollo osseo. La rigenerazione è un fenomeno che richiede tempo, non si esaurisce alla semplice replicazione e sostituzione delle cellule perse, infatti le cellule rigenerate devono acquisire il corredo enzimatico e proteico finale specifico del tessuto. Questo processo è soprattutto mediato da uno stimolo positivo, principalmente fattori di crescita proteici come l’NGF (Nerve Growth Factor), FGF (Fibroblast Growth Factor), HGF (Hepatocytes Growth Factor), EGF (Epidermal Growth Factor), ma anche la stimolazione nervosa può rappresentare uno stimolo trofico (nel caso della rigenerazione muscolare). Inoltre non è un processo illimitato, la capacità rigenerativa dipende dal tipo cellulare preso in considerazione, ed è in diretta dipendenza della lunghezza dei telomeri (vedi capitolo di Oncologia). 2.3.2 Iperplasia Per iperplasia si intende un aumento del numero delle cellule di un organo o tessuto oltre i limiti della norma (oltre il limite del normale turn-over), è molto spesso il risultato di un’aumentata richiesta funzionale. È un fenomeno reversibile, ovvero alla sospensione dello stimolo il tessuto torna allo stato di partenza, e solitamente associato anche a ipertrofia (come l’utero in gravidanza). Si riconoscono due tipi di iperplasia: 1) Compensatoria (dovuta a maggior carico di lavoro), un esempio è la risposta ad un’epatectomia parziale, subito dopo l’asportazione si ha rilascio di IL-6 o TNF che danno un “priming” agli epatociti rimasti, questi infatti vengono predisposti al rientro nel ciclo cellulare, la proliferazione avverrà successivamente grazie al rilascio di HGF (non è rigenerazione perché il tessuto iperplastico non sostituisce quello asportato ma la parte rimasta cresce per ovviare alla mancanza); 2) Ormonale (maggior stimolo ormonale), per esempio l’utero e l’epitelio delle ghiandole mammarie per quanto riguarda situazioni fisiologiche, un esempio patologico è l’iperplasia della prostata secondaria a iperproduzione di androgeni o l’iperplasia tiroidea nel morbo di Graves. Si ricordi che il morbo di Graves è quella patologia tiroidea autoimmune in cui gli autoanticorpi prodotti hanno la capacità di stimolare il recettore del TSH svincolando quindi la funzione della ghiandola dal controllo ipotalamo-ipofisario. L’iperplasia va controllata perché può evolvere in metaplasia e alla lunga in neoplasia. 2.3.3 Metaplasia È la modificazione di un tessuto differenziato in un altro tessuto sempre differenziato, si tratta di un cambio di destino (committment) delle cellule in risposta a certi tipi di stress, non riguarda le cellule mature ma è un processo che avviene a livello delle cellule che mantengono il tessuto (staminali) che vengono riprogrammate. Può verificarsi solo in tessuti e cellule ancora in grado di replicarsi. 53 Esistono due grandi classi di metaplasie: 1) Epiteliale, per esempio il passaggio da epitelio cilindrico ciliato a squamoso stratificato dei bronchi in seguito a stimoli irritativi cronici prolungati (fumo di sigaretta). Un caso particolare è la metaplasia inversa nell’esofago di Barrett, questa condizione è causata tipicamente da reflusso gastro-esofageo, il contenuto acido refluo dello stomaco trasforma l’epitelio squamoso dell’esofago in epitelio cilindrico muco-secernente; 2) Connettivale, quando le cellule di un tessuto connettivo si trasformano in osteoblasti e iniziano a deporre matrice ossea, può avvenire in caso di fratture, di cicatrici o di tonsille cronicamente infiammate. Anche la metaplasia rappresenta un processo reversibile ma può anche essere il passo iniziale verso una trasformazione neoplastica. 2.3.4 Ipertrofia Per ipertrofia si intende l’aumento delle dimensioni di un organo o di un tessuto dovuto all’aumento delle dimensioni delle cellule che lo costituiscono. Il rapporto DNA/peso del tessuto diminuisce in quanto aumenta solo il volume delle cellule e non il loro numero (al contrario dell’iperplasia). L’ipertrofia può essere: 1) Fisiologica, per esempio i muscoli durante l’allenamento, oppure l’utero e la mammella durante la gravidanza, in minor proporzione è visibile ipertrofia cardiaca negli atleti molto allenati; 2) Patologica, per esempio l’ipertrofia cardiaca nell’ipertensione. L’ipertrofia cardiaca è l’aumento di volume e massa del cuore dovuta al fatto che il miocardio rispondendo a certi stimoli intrinseci e/o estrinseci viene sottoposto ad un aumento dello stress biomeccanico. Si osserva aumento della massa muscolare, disorganizzazione dei cardiomiociti e talvolta fibrosi e nella gran parte dei casi è la condizione che precede l’insufficienza cardiaca. Anche per quanto riguarda il cuore esistono situazioni fisiologiche e patologiche: 1) Ipertrofia cardiaca fisiologica, si tratta di ipertrofia eccentrica (crescita omogenea e simmetrica) che si instaura negli atleti allenati, in cui aumenta la richiesta funzionale: a) La crescita è modesta (lo spessore della parete aumenta di poco); b) Vengono aggiunti sarcomeri in serie e in parallelo; c) Non si riscontra fibrosi; d) L’ECG appare normale; e) Non si ha riespressione di geni embrionali; f) È rapidamente reversibile; g) Non viene attivata la calcineurina; 2) Ipertrofia cardiaca patologica, può essere di due tipi diversi: 54 a) Concentrica, i cardiomiociti aumentano la loro massa soprattutto in spessore e non in lunghezza, la parete ventricolare e il setto si ispessiscono (aggiunta di sarcomeri in parallelo) e c’è diminuzione netta del volume delle camere cardiache; b) Eccentrica dilatativa, i cardiomiociti aumentano di dimensione soprattutto in lunghezza e non in spessore (aggiunta di sarcomeri in serie). Gli stimoli iniziali che possono favorire la crescita dei cardiomiociti possono essere di due tipi: 1) Biomeccanici, eccessivo stiramento della membrana (stretch-sensitive) che viene percepito dalla cellula tramite delle integrine che interagiscono con proteine della matrice extracellulare (per es. la laminina), nel versante citoplasmatico lo stiramento delle integrine provoca l’attivazione della cascata delle chinasi che converge su Akt, la quale a sua volta attiva dei fattori di trascrizione; 2) Neuroumorali, tipo fattori di crescita, chemochine, citochine e stimoli extracellulari specifici. Il segnale viene trasmesso tramite recettori 7TM (a sette domini trans membrana) e termina con: a) Attivazione di MAP chinasi; b) Aumento del calcio citoplasmatico, il calcio si lega alla calmodulina, che in questa forma legata interagisce con la calcineurina, questa è una serin-treonin fosfatasi che regola la traslocazione nel nucleo di NFAT, un importante fattore di trascrizione. Quando la calcineurina è attiva defosforila i NFAT che è così libero di entrare nel nucleo e svolgere la sua funzione. L’evento finale è l’attivazione di fattori trascrizionali che attivano una serie di geni codificanti proteine sarcomeriche oppure geni embrionali: 1) Early genes, i primi ad essere attivati sono proteine che associandosi formano ulteriori fattori di trascrizione (c-jun, c-fos, egr-1); 2) Late genes, i precedenti attivano altri geni a valle, tra cui: a) Geni embionali, tra cui: Fattore natriuretico atriale, normalmente prodotto solo dalle cellule atriali, durante le fasi precoci dello sviluppo è prodotto anche nel ventricolo, in caso di ipertrofia cardiaca riprende la produzione da parte delle cellule ventricolari; Catena pesante della β-miosina embrionale, meno performante della controparte dell’adulto; α-actina scheletrica; b) Geni che favoriscono la sintesi proteica e stimolano la produzione di elementi strutturali del cardiomiocita. L’ipertrofia determina difetti nella vascolarizzazione poiché l’aumento di dimensioni del tessuto non è accompagnato da aumento del letto vascolare dell’organo, questo determina ischemia e quindi necrosi e apoptosi. La morte cellulare provoca rimodellamento tissutale (tissue remodelling) e deposizione di tessuto fibroso. Fattori trascrizionali coinvolti nell’ipertrofia cardiaca: 1) GATA 4, fattore di trascrizione con domini a zinc fingers, regola lo sviluppo del cuore durante la sua organogenesi, viene riespresso in situazioni di stress; 2) MEF 2, fattore di trascrizione contenente un motivo MAD-box che lega i promotori della maggior parte dei geni per proteine strutturali del muscolo scheletrico e cardiaco; 3) NFkB (Nuclear Factor K-light-chain-enhancer of activated B cells), identificato nei linfociti B attivati, risulta implicato nell’attivazione dell’espressione della catena K (leggera) delle immunoglobuline. Inoltre è stato evidenziato che regoli la trascrizione di geni coinvolti nell’ipertrofia cardiaca. Normalmente è citosolico, legato ad un inibitore specifico (INFkB), quando la relativa cascata chinasica di attivazione è avviata, quest’ultimo viene fosforilato e ciò permette il rilascio del fattore che migra nel nucleo dove esplica la sua funzione; 55 4) NFAT (Nuclear Factor of Activated T cells), la sua attività è regolata dalla calcineurina, promuove la trascrizione di geni importanti per nell’ipertrofia cardiaca. Ulteriori dettagli riguardanti l’ipertrofia cardiaca verranno esposti durante il corso di Fisiopatologia Generale Esistono delle forme di ipertrofia cardiaca su base genetica, i difetti genetici che stanno all’origine sono solitamente trasmessi in maniera autosomica dominante (ma possono anche essere mutazioni de novo), generalmente si tratta di mutazioni missense. Sono state identificate molteplici mutazioni a carico di geni che codificano per proteine dell’apparato contrattile: 1) Troponina C, I, T; 2) Catena pesante della miosina Le proteine mutate si incorporano nei complessi mescolandosi anche alle wild-type (quando c’è eterozigosi) causando alterazione della funzionalità contrattile. 2.3.5 Atrofia Per atrofia si intende la perdita (sempre reversibile) di parte della cellula, o meglio del citoplasma della cellula. Le cellule risulteranno quindi più piccole e il rapporto DNA/peso del tessuto sarà aumentato. L’atrofia rappresenta il tentativo delle cellule di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente che le circonda riducendo i consumi attraverso la riduzione della dimensione e quindi delle funzioni. Le cause di atrofia possono essere: 1) Ridotta attività funzionale, tipo atrofia da disuso del muscolo (in caso di fratture ingessate); 2) Ridotto apporto ematico, per esempio l’atrofia cerebrale tipica dei pazienti con aterosclerosi delle carotidi; 3) Ridotto apporto nutritizio, nei casi di malnutrizione si ha atrofia generalizzata di tutti gli organi (ma non del cervello); 4) Perdita dell’innervazione, simile all’atrofia da disuso, lo stimolo elettrico è trofico per il muscolo quindi in caso di denervazione questo va in atrofia; 5) Perdita della stimolazione da parte di ormoni o fattori di crescita; 6) Pressione, un tessuto sottoposto per molto tempo a pressioni dall’esterno (potrebbe essere un altro tessuto circostante in forte crescita); Condizione debilitante Condizione d'inattività Immobilità Denervazione Condizioni patologiche Pressione Cachessia neoplastica Diabete AIDS Sepsi Insufficienza renale Il volume delle cellule dipende dall’equilibrio tra degradazione e sintesi proteica, in caso di atrofia aumenta il fenomeno di degradazione delle proteine in modo da utilizzare meno energie. Tutte queste condizioni portano all’attivazione dei sistemi intracellulari di proteolisi: 1) Sistema ubiquitina-proteasoma; 2) Autofagia. 56 Sistema ubiquitina-proteasoma Il sistema ubiquitina-proteasoma interviene normalmente nel controllo qualità delle proteine, nella regolazione della loro emivita (turn-over) oppure nell’unfolded protein response. È un processo attivo che richiede energia e che si svolge in vari passaggi: 1) Riconoscimento della proteina da eliminare e attacco di molecole di ubiquitina, questa è una piccola proteina compatta altamente conservata, viene attaccata al substrato tramite il suo dominio C-terminale in posizione ε di una lisina della proteina bersaglio. Il processo è mediato da tre enzimi: a) E1: enzima attivante l’ubiquitina, viene caricato con l’ubiquitina con un legame tioesterico (processo ATP-mediato); b) E2: enzima coniugato all’ubiquitina, E1 trasferisce l’ubiquitina a E2 attaccandolo ad un gruppo sulfidrilico; c) E3: ubiquitina ligasi, trasferisce l’ubiquitina da E2 al substrato. Il tipo di ubiquitina ligasi determina il destino della cellula bersaglio; 2) La proteina ubiquitinata viene riconosciuta e indirizzata al complesso proteico del proteasoma 26S, è necessaria una poliubiquitinazione cioè la formazione di una catena di ubiquitine attaccata alle cellule con almeno 4 ubiquitine e queste devono essere collegate tra di loro tramite residui specifici (Lys 29 o 48), catene legate tramite residui amminoacidici diversi da questi (mediati da E3 diversi) non indirizzeranno la proteina bersaglio al proteasoma ma rappresentano altri tipi di segnali intracellulari; 3) La proteina target viene degradata e le molecole di ubiquitina vengono riciclate. Nella risposta atrofica vengono attivati due geni che codificano per due ubiquitine ligasi, l’espressione delle quali è responsabile della maggior degradazione proteica: 1) ATROGIN-1; 2) MuRF1. Il fattore trascrizionale responsabile dell’attivazione di questi due geni fondamentali per l’atrofia si chiama FoxO, questo può essere in forma attiva (ossia defosforilata e quindi in grado di entrare nel nucleo) e inattiva (ossia fosforilata e quindi non in grado di entrare nel nucleo). Solo se FoxO può entrare nel nucleo riesce ad attivare i suoi bersagli. Stimoli trofici come l’insulina o IGF1 attivano, tramite i relativi recettori di membrana, la PI3K che a sua volta attiva la cascata di AKT, quando questa chinasi è fosforilata si attiva e agisce su due substrati fosforilandoli a sua volta: 1) FoxO che appunto in forma fosforilata non sarà più in grado di entrare nel nucleo e quindi non favorirà più la degradazione proteica. In situazioni di diabete, digiuno, disuso o denervazione non sia ha attivazione della via trofica, quindi AKT non è attivata e FoxO rimane libero di entrare nel nucleo; 2) mTOR (mammalian target of rapamycin, la rapamicina è un prodotto batterico naturale in grado di inibire mTOR), questo fattore quando attivato da AKT si unisce ad altre due proteine formando un complesso che agisce su: a) p70S6K1, è una chinasi che quando attivata da mTOR ha come bersaglio la proteina ribosomiale 6S, quest’ultima quando fosforilata favorisce la sintesi proteica; b) 4EBP1, è una proteina che normalmente lega il fattore di trascrizione ELF4E, quando viene fosforilata libera il fattore trascrizionale che va ad attivare geni importanti nella sintesi proteica. mTOR inoltre è in grado di inibire il processo di autofagia (vedi dopo). Autofagia L'autofagia è un meccanismo degradativo dal punto di vista molecolare altamente conservato (quindi fondamentale per la sopravvivenza cellulare), implicato in moltissimi processi, sia fisiologici che patologici. 57 Il processo autofagico consente di eliminare frazioni di citoplasma, di degradare e riciclare i componenti di organelli (soprattutto mitocondri che nel tempo si danneggiano e diventano dannosi, perché producenti ROS) e proteine a turnover cellulare lento (quelle a turnover veloce vengono degradate dal sistema ubiquitina-proteasoma). L'autofagia nelle cellule è normalmente mantenuta a livelli basali, ma può essere indotta da stimoli stressanti (come digiuno, stress ossidativo ecc.) come processo adattativo di omeostasi cellulare al pari del sistema ubiquitinaproteasoma; però a differenza di quest'ultimo l'autofagia (macroautofagia e microautofagia) è un processo degradativo quasi sempre non selettivo (eccezione per l'autofagia mediata da chaperoni). Esistono 3 tipi di autofagia: 1) Macroautofagia: la più nota e di maggior interesse biologico; 2) Microautofagia: per piccole quantità di citoplasma; 3) Autofagia mediata da chaperoni: è l'unica forma selettiva che non prevede un riarrangiamento delle membrane interne ma implica la sola degradazione di proteine a turnover lento; proteine chaperone citosoliche come HSC70 (heat shock protein complex 70) riconoscono lo specifico pentapeptide KFERQ nella proteina da degradare e interagiscono con LAMP2a (proteina di superficie lisosomiale) per far passare la proteina nel lisosoma; La macroautofagia si distingue in 4 fasi: 1) Nucleazione: formazione dell'isolation membrane/fagoforo dalle membrane interne dell'ER, Golgi, Mitocondrio ecc; 2) Elongazione: la membrana si espande e si chiude inglobando la parte di citoplasma da degradare e diventando autofagosoma; 3) Maturazione: la fusione con vescicole dalla via endocitica cioè con gli endosomi precoci o MVBs (multivesicular bodies) forma un più grande amfisoma che si fonderà con il lisosoma formando l'autolisosoma che ha lume acido con enzimi degradativi attivi e marker di membrana lisosomiali come LAMP; 4) Degradazione con riciclo dei componenti ottenuti. Ogni fase e regolata da molteplici proteine e/o vie di segnale; alterazioni dei loro componenti molecolari, determinano particolari patologie. Il principale inibitore dell'autofagia è mTORC1 (mTOR Complex 1) che stimola la sintesi proteica nell'ipertrofia muscolare, su stimolo di nutrienti/insulina/IGF-1 che attivavano PI3K quindi AKT. Invece attivano l'autofagia: 1) Stimoli tipici dell'atrofia (stress cellulare, digiuno e carenza amminoacidica) tramite FoxO (non più inibito da AKT) che stimola anche la degradazione proteasomiale attivando E2 ed E3; 2) Funzionamento difettoso/saturazione del sistema ubiquitina-proteasoma; 3) Accumulo di proteine mal ripiegate che scatenano una rapida risposta cellulare adattativa cioè l’UPR (unfolded proteins response); 4) Aggregati proteici intracellulari ad es. nelle malattie degenerative del sistema nervoso centrale come il morbo di Parkinson e il morbo di Alzheimer; 5) Organelli citosolici danneggiati. La macroautofagia può mancare completamente in caso di delezione di geni definiti ATG (geni autofagici). I prodotti di questi geni sono marcatori necessari per il rimodellamento delle membrane, la formazione del autofagosoma e la fusione con il lisosoma. Questi geni sono stati individuati dagli esperimenti del 1992 del giapponese Oshumi grazie a modelli cellulari di lievito con deficit del processo autofagico. Gli esperimenti hanno dimostrato che in cellule di lievito, cresciute in terreni 58 poveri di amminoacidi, si scatena una risposta adattativa al digiuno che consente di sopravvivere degradando parti del citoplasma per riciclarne i componenti. Alcune cellule a digiuno presentavano invece accumulo di autolisosomi con precipitati proteici interni, incapaci di degradare il contenuto inglobato; l’analisi mutazionale del genoma di queste varianti ha mostrato deficit genetico di enzimi lisosomiali. Stesse osservazioni si ottengono se inibitori delle proteasi lisosomiali vengono aggiunti a cellule wild type a digiuno. Oshumi individuò però anche cellule mutanti che non avendo neppure gli autolisosomi erano incapaci di sopravvivere a digiuno per più di 2 giorni: studiandone il genoma definì almeno 30 tipi di mutanti e quindi 30 geni Atg mutati, la cui alterazione (anche di uno solo) era sufficiente a compromettere l'autofagia cellulare. In ogni fase della macroautofagia sono coinvolte proteine Atg precise in complessi altamente regolati. Possiamo distinguere: 1) INIZIO E NUCLEAZIONE: definizione della membrana del futuro fagoforo, viene meno l'attività di mTORC1 inibente ULK1, mentre Beclin-1 interagisce con il fagoforo in un complesso multiproteico di Atg tra cui Vps34 e Vps-15. a) Normalmente mTORC1 attivo in cellule di mammifero fosforila ULK1 e Atg13: si forma un complesso che si mantiene inattivo per l'autofagia con mTORC1, ULK1, Atg13, Atg101 e Atg17 (FIP200). Se viene meno l'attività fosforilativa inattivante di mTOR, il complesso resta, ma ULK1 acquisisce attività chinasica autofosforilandosi (in un'altra posizione) e assume una forma chiusa; il complesso si associa all'isolation membrane e porta alla formazione dell'autofagosoma. mTORC1 è importante per lo shift tra ipertrofia e atrofia, sia segnali intracellulari che extracellulari ne regolano l'attività: Normalmente recettori TK di membrana attivati da stimoli trofici e/o fattori di crescita, attivano PI3K che attiva fosforilando PDK1 che a sua volta fosforila attivando AKT; AKT fosforilato inattiva l'inibitore di mTOR (TSC2) quindi attiva mTORC1 che tra le altre funzioni di stimolazione della sintesi proteica, inibisce l'autofagia a monte agendo su Atg1 e 13. 59 AKT fosforila anche, inattivandolo, FoxO3 che viene sequestrato nel citosol da 14-3-3 e non può agire come fattore trascrizionale pro-atrofia, quindi inibisce l'altra via di attivazione dell'autofagia; Inoltre il rapporto AMP/ATP, che indica lo stato energetico della cellula, aumenta, indicando sofferenza cellulare; si attiva quindi il sensore intracellulare AMP-K (chinasi dipendente da AMP). Questa chinasi fosforila attivandolo l'inibitore TSC2 (+TSC1) di Rheb (attivatore di mTORC1) quindi di fatto blocca mTORC1. Se la cellula è in carenza di fattori di crescita o di amminoacidi e/o e in carenza di molecole di ATP, mTORC1 viene bloccato portando il complesso autofagico di inizio in conformazione quindi in grado quindi di iniziare il processo di autofagia. b) BECLIN-1 (Atg6) interagisce con molte proteine come centro di oligomerizzazione, contiene: Centralmente un CCD (coiled coil domain); Al C-terminale estremamente conservata ECD (evolution conserved domain); Al N-terminale il dominio BH3 (Bcl-2 homologous domain 3) che può essere sia fosforilato che ubiquitinato per controllarne il funzionamento: è un dominio tipico delle proteine sia pro che antiapoptotiche che devono oligomerizzare (es. proteine pro-apoptotiche “BH3-only” BAD e BID che si trovano nel citosol, dove agiscono da sensori di danno cellulare, e in seguito al danno stesso migrano sulla superficie dei mitocondri per attivare le proteine multidominio che determinano il rilascio di citocromo c). Beclin-1 aumenta l'attività enzimatica di Vps34 che è associata alla membrana del fagoforo. Vps34 è una chinasi PI3K di classe III che e simile alla PI3K I, attivata dalla cascata trofica di TK-R/AKT. Il PI-3-P, prodotto da Vps34, a livello della isolation membrane, risulta fondamentale per l’autofagia, in quanto arruola altre proteine tra cui Atg18 che si localizza sulla membrana garantendo il proseguimento dell'elongazione. Si noti che PI-3-P è anche prodotto da PI3K I nella via attivata dai fattori di crescita che deve attivare mTORC1 e bloccare l'autofagia: questa ambivalenza è spiegata in base alla localizzazione della proteina, PI-3-P a livello della isolation membrane attiva l’autofagia invece a livello della membrana plasmatica la inibisce. 2) ELONGAZIONE: si formano grandissimi complessi di Atg associati all'autofagosoma, tra cui il complesso Atg12, Atg5 e Atg16 ma anche Atg8 (LC3), che invece viene inserito come marcatore nella membrana dell'autofagosoma; Nella fase di elongazione c’e la necessita di formare un complesso proteico costituito da 3 proteine ATG: a) ATG 12; b) ATG 5; c) ATG 16. Questo complesso deve associarsi alla membrana del preautofagosoma affinché si abbia la chiusura della vescicola e la formazione del fagosoma vero e proprio. La formazione di questo complesso avviene attraverso un sistema ubiquitina simile. L’altro evento necessario è l’attacco di LC3 (ATG8) che viene inserito tramite lipidazione. Tutti questi componenti sono essenziali: se mancano, l’autofagia viene bloccata. Nel processo di assemblamento del complesso ATG12-5-16: a) L’ATG7 (enzima E1 simile) si carica di ATG12; b) Lo passa all’ATG10 (enzima E2 simile); c) Infine viene legato alla proteina target che è ATG5; d) ATG12-5 poi recluterà ATG16 per completare il complesso necessario nella parete del preautofagosoma. Questo processo come per quello dell’ubiquitinazione richiede energia. 3) MATURAZIONE E DEGRADAZIONE: formazione dell'autolisosoma. 60 VPS34, BECLIN1, LC3 vengono per esempio attivati dalla denervazione o dal digiuno, e tutte queste up-regolazioni sono dipendenti da FoxO3; mTOR invece da una parte stimola la sintesi proteica e dall’altra blocca l’autofagia, ciò e dimostrabile introducendo nelle fibre scheletriche un fattore FoxO3 costitutivamente attivo, determinando una marcata atrofia delle fibre. Cross-talk tra apoptosi e autofagia Di solito apoptosi e autofagia sono antagoniste, (non c’è bisogno di autofagia se la cellula deve morire). Nell’apoptosi la Caspasi-8 taglia inattivandola Beclin-1, il suo C-terminale si inserisce sulla membrana mitocondriale sensibilizzandola agli stimoli apoptotici e favorendo il rilascio del citocromo c. Tuttavia il rapporto tra apoptosi e autofagia non è del tutto compreso: si pensi ad esempio alla Caspasi-3, che taglia inattivando Atg5 inibendo l'autofagia, mentre al contrario, tagliando Atg4D attiva l'autofagia. Autofagia e fisiologia Esiste un'attività basale di autofagia che rappresenta un “controllo qualità” della cellula. Inoltre l’autofagia è l’unico metodo per rimuovere interi organelli vecchi o danneggiati. In aggiunta a queste situazioni, l’autofagia può venire anche stimolata dal digiuno. Il digiuno è il tipico segnale che innesca autofagia, l’innesco di questo sistema permette alle cellule di riciclare per esempio amminoacidi, degradando parte del proprio contenuto, questi vengono poi riutilizzati dal fegato per la gluconeogenesi. Rappresenta quindi una risposta adattativa ad una situazione di stress per la cellula. In particolare si è visto che l’autofagia indotta da digiuno è essenziale in alcuni momenti dello sviluppo, per esempio nei primi giorni dopo la nascita. In topi privati di geni dell’autofagia, soprattutto ATG5 e ATG7, sopravviene la morte nelle 24 ore successive alla nascita. L’autofagia ha un ruolo importante anche nella restrizione calorica, cioè l’introduzione di meno nutrienti rispetto al fabbisogno. Nei topi di laboratorio la restrizione calorica, se non portata agli estremi, è un fenomeno positivo, aumentando la vita media degli individui. Tuttavia questo beneficio viene meno se l’autofagia viene inibita, quindi l’effetto positivo di una restrizione calorica è data dall’attivazione dell’autofagia. Questo avviene sia perché ci sono meno fattori di crescita che vanno a stimolare mTOR che blocca l’autofagia, ma soprattutto perché la restrizione calorica oltre ad attivare una chinasi che dipende dai livelli di ATP/AMP (chinasi che promuove il processo di autofagia), attiva anche un importante componente, la Sirtuina1 (coinvolta anche nell’obesità). La Sirtuina1 è una de-acetilasi che agisce su proteine citosoliche, tra le quali proteine importanti nel processo autofagico (per esempio FoxO3 che viene attivato dalla de acetilazione, ma anche LC3, ATG5, ATG7. Mitofagia Per mitofagia si intende l’autofagia volta ad eliminare mitocondri. Il mitocondrio sano svolge numerose funzioni importanti per la cellula ma produce anche numerose specie reattive dell’ossigeno (ROS). Recentemente è stato ipotizzato che molte patologie derivino da un malfunzionamento mitocondriale; per esempio nelle malattie neurodegenerative (morbo di Parkinson, morbo di Alzheimer, Corea di Huntington) si è visto che uno dei difetti principali a livello cellulare è il malfunzionamento mitocondriale, e una delle cause può essere l’alterata autofagia che impedisce l’eliminazione dei mitocondri danneggiati. L’eliminazione di mitocondri danneggiati può essere innescata da vari agenti come: 1) Ipossia: induce la produzione di NIX1 e BNIP3, proteine simili a Bcl2. a) BNIP3 compete con Bcl2 per il legame con BECLIN1 (a sua volta inattivata da Bcl2): dunque BNIP3 libera BECLIN1 rendendola disponibile per la formazione della membrana pre-autofagica; b) NIX1 invece lega LC3 rendendola disponibile per l’elongazione della vescicola autofagica; 61 2) Agenti che causano la depolarizzazione del mitocondrio: la proteina PINK1 viene importata all’interno del mitocondrio normale grazie al potenziale di membrana, una volta entrata viene degradata per effetto della proteasi TARL. Quando il mitocondrio è depolarizzato PINK1 si accumula nella membrana esterna mitocondriale, agendo da recettore per un altro enzima chiamato PARKIN (un ubiquitina ligasi). PARKIN quando associata a PINK1 facilita l’ubiquitinazione e quindi la degradazione di proteine nella superficie mitocondriale. Tutto questo processo comporta infine un malfunzionamento del mitocondrio: alcune marcate da PARKIN sono le mitofusine 1 e 2, importanti per la forma fisiologica del mitocondrio. In più queste proteine marcate e degradate sono uno stimolo per la mitofagia. Questo processo molecolare è importante per lo studio di malattie come l’Alzheimer nelle sue varianti ereditarie, in cui PARKIN è mutata; 3) Ridotto stato energetico della cellula: un mitocondrio danneggiato produce meno ATP e il rapporto AMP/ATP aumenta, questo attiva l’enzima chinasi dipendente dall’AMP attivando infine l’autofagia. Autofagia e malattia Tutti i meccanismi normali visti finora per attivare l’autofagia se sregolati possono portare a malattia. Alcuni esempi sono: 1) Insufficienza di nutrienti in caso di digiuno; 2) Accumulo di aggregati proteici: l’accumulo di aggregati proteici è molto più dannoso in cellule che non si dividono, o si dividono poco, infatti se la cellula si divide molto velocemente, gli aggregati dannosi vengono diluiti, se invece non si divide la concentrazione aumenta molto facilmente e questo può alterare il funzionamento della cellula stessa. L’accumulo di aggregati proteici si può notare in molte malattie neurodegenerative come il Parkinson, l’Alzheimer, l’Huntington. La formazione di questi aggregati proteici stimola il processo autofagico, inizialmente ritenuto come processo patogenetico in queste malattie, in seguito è stato rivalutato come meccanismo di difesa adattativa; 3) Mancato smaltimento di organelli danneggiati: se un mitocondrio non funzionante non viene smaltito, questo può portare ad una diminuita energetica cellulare e ad un’aumentata produzione di ROS, con tutti i relativi danni da perossidazione lipidica; 4) Infezioni croniche: l’autofagia è un meccanismo grazie al quale la cellula elimina i batteri intracellulari. L’autofagia è anche un processo che viene sfruttato comunemente da alcuni batteri per crearsi un ambiente intracellulare favorevole alla sopravvivenza. Questi sono batteri solitamente correlati ad infezioni croniche, e si isolano dal resto della cellula affinché ad esempio non vengano riconosciuti come estranei dalle cellule, evitando quindi la risposta immune. Questi microrganismi quindi si creano un microambiente intracellulare nella vescicola autofagica e bloccandone la maturazione impediscono la fusione con il lisosoma; 5) Cancro: alcuni componenti molecolari dell’autofagia (per esempio BECLIN1), hanno un ruolo di oncosoppressori. BECLIN1 è stato trovato deleto in diversi carcinomi della prostata, dell’ovaio e del seno. Tuttavia l’autofagia può anche promuovere la sopravvivenza di cellule tumorali in condizioni di stress (mancanza di nutrienti o in presenza di farmaci antitumorali) impedendone l’apoptosi. In numerosi tumori è stato trovato BECLIN1 in eterozigosi (solo una copia funzionante), in questi casi era importante la riduzione del processo autofagico, non il blocco totale dell’autofagia, poiché il blocco totale non sarebbe stato compatibile con la sopravvivenza delle cellule malate. Si è visto anche che geni come p53 e PTEN stimolano l’autofagia, quindi anche il meccanismo di altri oncosoppressori che funzionano isolati, può indurre autofagia inibendo il complesso mTORC1; 6) Invecchiamento: l’autofagia è collegata alla longevità e all’invecchiamento, infatti con l’aumentare dell’età c’e una diminuita espressione di geni coinvolti nell’autofagia, inoltre la longevità è associata alla restrizione calorica solo se l’autofagia viene mantenuta. Se sperimentalmente si blocca l’autofagia in restrizione calorica non aumenta la longevità. Questo perché l’autofagia ha un ruolo nel controllo di qualità delle proteine, e quindi nel mantenere l’omeostasi cellulare al 62 meglio. Gli esperimenti sono stati svolti su topi di 600giorni (considerati vecchi) in cui è stata iniettata la rapamicina (inibente mTOR) inducendo autofagia, è stata osservata in questi animali un aumento dell’aspettativa di vita. Un altro effetto positivo è la riduzione della morte cellulare per apoptosi e l’aumento dell’ormesi. L’ormesi è il meccanismo di resistenza della cellula ad uno stimolo lesivo dopo un pre-condizionamento come può essere una breve ischemia cerebrale o cardiaca. Questo rende l’organo colpito, attraverso un meccanismo adattativo che coinvolge l’autofagia, più resistente ad un successivo evento. APPROFONDIMENTO: La miostatina (chiamata anche GDF8) è una proteina che regola la crescita dei muscoli, appartiene alla superfamiglia del TGFβ. Viene rilasciata nell’ambiente extracellulare e agisce come inibitore della crescita muscolare (mutazioni del gene della miostatina causano ipertrofia muscolare associata a iperplasia). È inizialmente prodotta sottoforma di zimogeno (promiostatina) e viene poi sottoposta a proteolisi sequenziale: 1) Viene rimossa una sequenza segnale; 2) Viene effettuato un taglio interno alla molecola con formazione di due frammenti che rimangono legati da legami non covalenti (quello C-terminale è quello attivo); 3) Due molecole di miostatina dimerizzano dando luogo alla molecola completa e attiva. Un inibitore di questo processo si chiama follistatina che si lega al dimero impedendogli il legame col recettore. Il recettore ActRIIB (Activin Receptor type II B) per la miostatina è attivato per trans fosforilazione, quando attivo recluta dei corecettori attraverso i quali attiva la via delle SMAD, si forma quindi il complesso SMAD 2,3,4 che migra nel nucleo e svolge la sua funzione de fattore trascrizionale. La miostatina limita la crescita muscolare ma non induce atrofia. L’interesse di ricerca in questo campo potrebbe essere quello di con terapia genica in soggetti con patologie che inducono atrofia muscolare come la distrofia di Duchenne. 2.3.6 Aplasia Per aplasia si intende lo mancato sviluppo (totale o parziale) di un organo o di un tessuto. Può avvenire: 1) Durante lo sviluppo embrionale per malformazione congenita o per difetto genico, provoca assenza o arresto del differenziamento di un tessuto o organo; 2) Per alterazioni acquisite in tessuti che normalmente rigenerano, per esempio nell’aplasia midollare. 2.3.7 Anaplasia È un fenomeno per il quale certe cellule perdono le loro caratteristiche fenotipiche di cellule differenziate, tipico ma non assoluto di tumori altamente maligni. In campo anatomopatologico si descrive come “pleomorfismo” delle cellule di un tessuto, ossia la grande varietà di morfologia della popolazione all’interno di un tessuto (prevalentemente di tipo tumorale). 2.4 PATOLOGIE DA ACCUMULO Le patologie da accumulo sono condizioni in cui si ha un accumulo di materiali all’interno di certi organi o tessuti in seguito a determinate sollecitazioni o danni, i materiali accumulabili possono essere di origine: 1) Endogena, per esempio: a) Lipidi; b) Proteine; c) Glicogeno; d) Pigmenti (lipofuscine, melanina, emosiderina); 63 e) Acido urico; 2) Esogena, per esempio: a) Carbone; b) Antracosi. L’accumulo può essere: 1) Intracellulare, per esempio la steatosi; 2) Extracellulare, per esempio l’amiloidosi. Le cause principali di accumuli intracellulari possono essere: 1) Difetti transitori del metabolismo che causano un accumulo di un certo substrato (per esempio nella steatosi epatica dove si ha difetto del metabolismo lipidico); 2) Difetti genici, anche in eterozigosi, per esempio produzione di proteine alterate che non si ripiegano nel modo corretto o che non vengono trasportate in sede (per esempio nel deficit di α1-antitripsina la proteina alterata non viene portata in membrana e si accumula nell’ER), oppure mancanza di un enzima come nelle malattie da accumulo lisosomiale; 3) Accumulo di sostanze tossiche: che possono avere origine sia esogena che endogena, i materiali vengono accumulati perché indigeribili (per esempio i pigmenti del carbone o l’emosiderina). 2.4.1 Steatosi epatica La steatosi epatica (detta anche degenerazione* grassa del fegato) consiste in un accumulo intracellulare di trigliceridi, all’esame istologico saranno visibili grandi vacuoli vuoti, in quanto nelle procedure di fissazione i grassi vengono sciolti ed eliminati lasciando quindi dei campi otticamente vuoti. L’organo principale in cui può avvenire la steatosi è sicuramente il fegato, ma si può ritrovare anche in cuore, muscolo e reni. La steatosi è ancora un processo reversibile ma può essere l’anticamera di patologie più gravi come l’epatite e la cirrosi. *degenerazione: intende lo stato in cui un danno riduce l’efficienza e la vitalità di una cellula. Le possibili cause di steatosi epatica sono: 1) Abuso di alcool; 2) Ipossia 3) Veleni o tossine; 4) Iponutrizione (soprattutto se proteica); 5) Diabete mellito; 6) Obesità. La figura rappresenta un piccolo riassunto del metabolismo lipidico all’interno del fegato, da un difetto in uno di questi passaggi di captazione, catabolismo o secrezione può risultare accumulo di lipidi. Il meccanismo attraverso il quale il fegato va in contro a steatosi è dipendente dalla causa: 1) Steatosi da abuso di alcool: è la causa principale e più diffusa soprattutto nel mondo occidentale. L’etanolo ingerito viene trasformato nel fegato in acetaldeide dall’enzima alcool deidrogenasi (presente anche nel + rene), che utilizza come coenzima un NAD riducendolo a NADH. L’acetaldeide è di per se ancora più tossica 64 ma viene subito convertita ad acetato nei mitocondri dall’enzima aldeide deidrogenasi, anche questo enzima + consuma un NAD (esistono altri enzimi con la catalasi e la P450 che collaborano alla detossificazione dell’alcool ma in quantità minori). Se viene ingerita un’ingente quantità di alcool gli enzimi di + conseguenza lavorano molto e consumano quindi NAD , mentre viene accumulato NADH. Il NADH è il coenzima utilizzato nell’esterificazione degli acidi grassi a trigliceridi (3 ac. grassi + 1 glicerolo = trigliceride), quindi se ne viene accumulato molto nella cellula la reazione di formazione di TG verrà favorita, al contrario diminuirà la β+ ossidazione in quanto richiede NAD . Da ciò risulta quindi un accumulo di TG. Inoltre se l’acetaldeide non viene prontamente processata, può associarsi alla tubulina compromettendone la funzione e quindi danneggiando i microtubuli. Questi sono essenziali, tra le altre cose, per il trasporto delle lipoproteine epatiche, con i microtubuli danneggiati le lipoproteine non potranno uscire dagli epatociti provocando quindi ulteriore accumulo di grassi. 2) 3) 4) 5) 6) Ad aggravare la situazione c’è anche la capacità dell’etanolo di aumentare il catabolismo degli acidi grassi nei tessuti periferici che vengono mobilizzati e indirizzati al fegato (infatti l’alcolista cronico dimagrisce, non sia d’inganno l’idea dell’alcolista con la pancia gonfia, che non dipende dall’accumulo di grassi bensì di liquidi all’interno della cavità peritoneale = ascite); Diabete: il calo di produzione di insulina (o di sensibilità del suo recettore) provoca diminuita assunzione di glucosio da parte delle cellule e aumento della glicemia. Questa alterazione del metabolismo glucidico si riflette in un aumento della lipogenesi, aumentano gli acidi grassi in entrata nel fegato con squilibrio delle reazioni (come spiegato precedentemente) e quindi accumulo nelle cellule; Veleni come il tetracloruro di carbonio (CCl4): è altamente tossico, viene subito processato dal sistema P450 all’interno del REL con produzione del radicale altamente reattivo CCl 3. Questo se non prontamente neutralizzato reagisce con gli acidi grassi polienici delle membrane reticolari formando radicali lipidici e innescando la per ossidazione lipidica (vedi patologia molecolare). La perossidazione lipidica è una reazione che in presenza di O 2 si auto sostiene e si propaga lungo le membrane causandone la rottura. La formazione di pori nel RER provoca lo sconvolgimento degli equilibri elettrolitici e quindi il rigonfiamento dell’organello. Il RER gonfiandosi perde i ribosomi con conseguente marcata riduzione della sintesi proteica, tra le proteine che non vengono sintetizzate ci sono anche le apoproteine necessarie al trasporto e secrezione dei TG che vengono quindi accumulati negli epatociti. Inoltre se l’assunzione di questo tossico persiste o è molto grande, la per ossidazione può migrare anche alla membrana plasmatica delle cellule danneggiandola provocando infine la morte degli epatociti, quindi necrosi e tutti gli eventi infiammatori che ne conseguono; Tossine come per esempio: a) La tossina difterica che provoca il blocco della sintesi proteica e quindi mancanza di apoproteine necessarie al trasporto dei grassi; b) Aflatossina, è una tossina fungina anch’essa in grado di bloccare la sintesi proteica; Ipossia: la riduzione di ossigeno provoca il rallentamento delle reazioni dipendenti da O2, come per esempio la β-ossidazione degli acidi grassi, questi vengono quindi convogliati verso la formazione di TG con i meccanismi già accennati e con conseguente accumulo; Iponutrizione: soprattutto se è carente l’uptake di proteine con conseguente calo della sintesi proteica tra cui la produzione di apoproteine, i grassi quindi rimangono bloccati nel fegato e non vengono veicolati in periferia; 65 7) Obesità e le diete iperlipidiche comportano aumentata assunzione di grassi che provocano diminuzione del catabolismo glucidico e accumulo di TG nelle cellule, con conseguente steatosi e anche chetosi. La steatosi è un fenomeno reversibile, nel caso in cui venisse a mancare la causa, il fegato è in grado di ripristinare la situazione di partenza riassorbendo man mano i lipidi accumulati. Frequentemente la steatosi è la parte iniziale di patologie come: 1) Cirrosi, è una grossa insufficienza epatica causata dalla sostituzione del tessuto funzionale epatico con fibroblasti (fibrosi), si vengono a formare noduli iperplasici colorati di verde a causa della stasi biliare; 2) Epatite, è la sovrapposizione di un quadro infettivo (in genere virale) ad un quadro degenerativo. Queste condizioni hanno un alto rischio di evolvere in fenomeni neoplastici. La continua esposizione all’agente di danno e la conseguente degenerazione del tessuto provoca fibrosi del parenchima e formazione di noduli iperplasici. Questi sono fenomeni infiammatori cronici, si ha un costante danno cellulare affiancato a continua rigenerazione. La fibrosi è data dall’attivazione a causa infiammatoria delle cellule stellate di Ito, normalmente quiescenti nello spazio di Disse (tra l’endotelio e gli epatociti). I danni cellulari ripetuti stimolano le cellule di Kupffer e quelle endoteliali a produrre citochine che attivano le cellule stellate; queste si trasformano quindi in mio fibroblasti che proliferano e hanno proprietà fibrinogenica, cioè producono e depositano fibrina provocando la fibrosi. Inoltre questi mio fibroblasti sono i grado di contrarsi e di produrre ulteriori fattori pro infiammatori che sostengono l’infiammazione cronica. La fibrosi è un evento non più reversibile, in quanto nel momento in cui viene perso lo scheletro fibroso che da la disposizione degli epatociti questi rigenereranno in modo disordinato. 2.4.2 Patologie da accumulo di proteine Come tutte le patologie da accumulo possono essere intra o extracellulari. Le cause principali sono: 1) Alterazione della struttura primaria, per esempio una mutazione o un difetto genico che cambi la sequenza amminoacidica; 2) Difetti di trascrizione e traduzione, per esempio la sregolazione del turn-over di una proteina dovuta ad aumento della sua produzione causa accumulo; 3) Alterazioni post-traduzionali, come difetti del ripiegamento (misfolding). 2.4.3 Amiloidosi Per amiloidosi si intende la deposizione e accumulo extracellulare di una sostanza di natura proteica detta amiloide. L’amiloide è una famiglia di proteine insolubili con proprietà chimico-fisiche e strutturali analoghe anche se originano da proteine molto diverse. Queste proteine si legano tra loro attraverso i foglietti β e si rendono insolubili andando a depositarsi negli spazi extracellulari di vari organi e tessuti. Le proteine complessate formano dei filamenti di 75/100 Å di spessore, colorabili con il colorante Rosso Congo, questi filamenti hanno struttura amorfa composta da più elementi: 1) 95 % Proteine amiloidogeniche, possono essere molto diverse in base alla loro origine ma contengono tutte una struttura caratteristica a foglietti β; 2) Componente P, glicoproteina globulare componente naturale delle membrane basali, che ha un precursore ematico chiamato SAP (Serum Amyloid Protein). Si lega a tutti i tipi di fibrille con un meccanismo mediato dal calcio e ne rende più improbabile la proteolisi; 3) Proteoglicani e glicosaminoglicani solfatati che si aggregano. ATTENZIONE: nelle slides di lezione compare due volte la composizione dell’amiloide in due maniere diverse, nella prima la componente P risulta essere proteoglicani + glicosaminoglicani, nella seconda risulta essere un aggregato 66 glicoproteico di SAP, risulta essere corretta la seconda composizione (inserita nel precedente elenco). Riferimenti bibliografici: 1) Kumar et al. Robbins e Cotran, Le basi patologiche delle malattie. 7 ed. Elsevier Masson. 2) Nomenclature of amyloid and amyloidosis WHO-IUIS Nomenclature Sub-Committee. Bull World Health Organ. 1993; 71 (1) :105-12. PubMed PMID:8440029; PubMed Central PMCID: PMC2393434. La cinetica di formazione delle fibrille dipende dalla presenza di oligomeri o proto fibrille, la formazione di un nucleo critico di monomeri favorisce la successiva polimerizzazione (nucleazione), quindi una maggior presenza di substrato amiloidogenico diminuisce la fase di latenza della patologia. L’amiloidosi è dovuta ad un alterato ripiegamento di proteine normalmente prodotte dalle cellule; ci sono molte proteine potenzialmente in grado di formare fibre amiloidi, possono anche essere molto diverse ma possiedono tutte una struttura secondaria caratteristica a foglietti β. Quindi l’amiloidosi racchiude vari tipi di patologie, accomunate dalla deposizione di forme amiloidi, ma differenziate dall’eziologia di queste fibre, ci sono circa 16 proteine (principali, vedi tabella sopra) in grado di dare accumuli di amiloide, alcune di queste sono: 67 1) Catene leggere delle Ig, che in caso di mieloma multiplo essendo iperprodotte, vengono maturate in modo aberrante e finiscono per accumularsi nel comparto extracellulare andando a formare l’amiloide AL ; 2) SAA (Serum Amyloid type A), in seguito alla reazione di fase acuta cambia il profilo di proteico plasmatico in favore di certe proteine utili per affrontare la situazione (PCR, fibrinogeno, aptoglobina, proteine del complemento – vedi Infiammazione), per poi ritornare al normale corredo plasmatico dopo la risoluzione; anche la SAA è una di queste, ma se lo stato infiammatorio persiste, a differenza di molte altre proteine di fase acuta, la sua produzione rimane molto elevata, la sua funzione non è ancora del tutto chiara (si pensa che sostituisca l’apolipoproteina A delle HDL in modo che le lipoproteine vengano indirizzate ai macrofagi per fornirgli fonti energetiche lipidiche). In certe condizioni infiammatorie croniche dunque questa proteina può accumularsi e formare fibrille amiloidi AA; Questi sono due esempi di amiloidosi generalizzata, un tipo di amiloidosi localizzata è: 3) Morbo di Alzheimer, dovuto a formazione di amiloide Aβ (42 a.a.) limitata al tessuto cerebrale che origina dalla scorretta maturazione della proteina APP normalmente presente in membrana . In tutte le amiloidosi è presente come aspetto fisiopatologico comune un precursore amiloidogenico, inoltre è necessario: 1) Un background genetico predisponente; 2) Un’anormalità nella proteolisi dei precursori. I fattori che rendono possibile l’aggregazione di proteine in amiloide, che possono presentarsi singolarmente oppure in associazione, sono: 1) Tendenza intrinseca della proteina ad assumere una conformazione patologica che con l’età diviene più evidente per: a) Graduale accumulo, come per la transtiretina (proteina plasmatica chiamata anche prealbumina per la posizione all’elettroforesi, deputata al trasporto degli ormoni tiroidei e dell’acido retinoico) nell’amiloidosi sistemica senile; b) Concentrazioni elevate, come nell’amiloidosi che può insorgere in pazienti dializzati, dovuta a eccesso di β2-microglobulina; 2) Tendenza all’aggregazione aumentata a causa di mutazioni, per quanto riguarda quindi le forme di amiloidosi ereditarie, familiari; 3) Alterata funzione di enzimi preposti alla maturazione delle proteine, come le secretasi nel morbo di Alzheimer. I meccanismi con cui questi depositi possono indurre danno tissutale non sono ancora del tutto chiariti, in alcuni casi sono presenti teorie contrapposte: 1) La deposizione di materiale può alterare l’architettura di un tessuto o danneggiare la cellula stessa, provocando la disfunzione del tessuto; 2) L’amiloide extracellulare può interagire a livello locale attivando recettori cellulari tipo RAGE (Receptor for Advanced Glycation Endproducts) che hanno la funzione di riconoscere proteine variamente alterate per attivare una forte risposta infiammatoria; 3) Al contrario in alcuni casi (come nel morbo di Alzheimer) alcuni ricercatori hanno ipotizzato che gli accumuli abbiano funzione protettiva, cioè sequestrano i monomeri o gli oligomeri che possiedono invece capacità tossica. 2.4.4 Morbo di Alzheimer Il morbo di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da: 1) Perdita di memoria; 68 2) 3) 4) 5) 6) Disorientamento topografico; Ridotta abilità e capacità lessicali e parafasie (sostituzione di parola con un'altra parola); Prosopoagnosia, alterato riconoscimento dei volti familiari; Disturbi della comprensione, è la prima causa di demenza nel mondo (80 %); Quadro neurodegenerativo: a) Forte atrofia corticale dovuta a perdita di neuroni (soprattutto di tipo colinergico) ma anche di attività dei neuroni rimasti (diminuisce il loro metabolismo); b) Ammassi intracellulari neurofibrillari di proteina τ; c) Placche amiloidi extracellulari (dette anche placche senili) costituite principalmente dal peptide Aβ di 42 amminoacidi, circondate da dendriti danneggiati e da cellule infiammatorie della microglia. È definito come malattia neurodegenerativa e non semplicemente come patologia da aggregazione proteica, in quanto non è presente solo l’amiloide come elemento patogenetico: 1) Troviamo appunto l’amiloide Aβ nel comparto extracellulare, soprattutto localizzata nell’ippocampo e nella neocorteccia; 2) Ma anche gli “intracellular tangles”, ammassi proteici intracellulari neuro fibrillari che originano dall’aggregazione della proteina tau (τ) normalmente presente nei neuroni: 3) Gliosi, ovvero aumentata presenza di cellule infiammatorie della microglia. La proteina tau (55 kDa) è normalmente molto espressa nel cervello, si associa alla tubulina dei microtubuli stabilizzando il citoscheletro. Negli ammassi tipici dell’Alzheimer si trova in forma iperfosforilata e quindi non più in grado di legarsi alla tubulina, la sua mancanza provoca alterazione delle funzionalità sinaptiche dei neuroni. È da notare che i tangles compaiono tardivamente durante il decorso della malattia. Le placche amiloidi creano un doppio effetto tossico: 1) Attivano l’infiammazione attivando le microglia con tutte le conseguenze che si ha in un’infiammazione di tipo cronico; 2) Hanno un effetto diretto sulla funzionalità neuronale, è stato evidenziato un effetto sull’omeostasi ionica dei neuroni e sulla sua attività sinaptica, alterando dal punto di vista ionico il neurone si innesca un danno da stress ossidativo conducendo quindi alla disfunzione neuronale. 3) È stato osservato ma non confermato che l’alterazione dovuta al peptide Aβ si manifesti indirettamente all’interno del citoplasma con un’alterata attività chinasica e questo sarebbe legato alla formazione dei tangles, che essendo più tardivi potrebbero essere appunto la conseguenza nella cellula dell’alterazione all’esterno. Sono presenti forme diverse della patologia: 1) Geneticamente determinate (dette anche pre-senili o FAD, Familiar Alzheimer Disease), la trasmissione è autosomica dominante, con comparsa precoce del fenotipo (“early onset" = 35-40 anni). Sono causate da mutazioni su 3 possibili geni: a) Uno è quello del precursore dell’amiloide (APP); b) Gli altri due codificano per due proteine ad alta omologia chiamate preseniline 1 e 2; 2) Non geneticamente determinate con comparsa tardiva del fenotipo patologico (“late onset” = 75-80 anni) e che non presentano mutazioni associate. Sono stati identificati dei fattori di rischio che influiscono sull’incidenza e sull’onset della malattia: 1) Presenza dell’isoforma 4 della APO E; 2) Fattori ambientali (comportamenti, dieta, ambiente). 69 Il responsabile della formazione dell’amiloide è la proteina APP (Amyloid Precursor Protein), una proteina trans membrana che subisce una maturazione per taglio proteolitico da parte di enzimi specifici detti secretasi di cui esistono isoforme differenti e specifiche (α, β, γ) che agiscono in un determinato ordine, se quest’ordine viene alterato è possibile che si formi il peptide Aβ: 1) Via non amiloidogenica: la APP viene tagliata prima dalla α secretasi e poi dalla γ secretasi, dal taglio della α secretasi si libera il peptide APPsα (APP soluble α) che secreto e ha funzione neurotrofica e protettiva per i neuroni. Nella membrana rimane un peptide denominato α stub (o anche C83) che subisce quindi a sua volta il taglio della γ secretasi, con due prodotti finali: a) AICD (APP Intracellular Domain), che sembra avere funzioni di regolazione genica; b) P3, frammento solubile non amiloidogenico; 2) Via amiloidogenica: la APP viene tagliata in questo caso prima dalla β secretasi e poi sempre dalla γ secretasi. La β taglia leggermente più verso l’N-terminale rispetto alla α, quindi libera un frammento solubile extracellulare più piccolo (APPsβ). Il peptide che rimane in membrana (detto β stub o C99) sarà leggermente più lungo rispetto a quello della via non amiloidogenica. La γ secretasi agisce su questo formando due prodotti: a) AICD: rilasciato nel citoplasma esattamente come nell’altra via; b) Frammento Aβ che può avere due dimensioni diverse in base al sito di taglio da parte della γ secretasi (che non è precisa nella sua azione), il sito può slittare di 2 amminoacidi: 40 a.a. che non può aggregarsi in amiloidi; 42 a.a. che è la forma tossica ritrovabile negli aggregati, i due amminoacidi in più sono idrofobici e conferiscono al peptide la capacità di associarsi a un peptide omologo. 70 Le forme genetiche della malattia che presentano mutazioni sul gene della APP (mutazioni patologiche) mostrano non tanto un aumento della produzione della proteina stessa, la cui produzione in assoluto rimane stabile, piuttosto uno spostamento della maturazione della APP verso la formazione del peptide Aβ42. L’evidenza dell’importanza di APP nella patogenesi è stata confermata da studi su pazienti con sindrome di Down, infatti il gene di APP si trova sul cromosoma 21 quindi nel caso della trisomia si ha sovrapproduzione, accumulo del peptide Aβ e quindi Alzheimer precoce, in questo caso dunque è l’effetto dose, più che una mutazione, a determinare la malattia, ma nonostante ciò si conferma l’importanza di questa proteina. Le mutazioni che invece riguardano le preseniline (cromosomi 1 e 14) vanno ad interferire con l’attività della γ secretasi, di cui sono costituenti, favorendo la formazione di peptidi Aβ di 42 a.a. La γ secretasi è una proteasi aspartica in grado di tagliare porzioni transmembranarie delle sue proteine target. È composta da un complesso muliproteico: 1) Presenilina, una proteina con 9 domini trans membrana che ne costituisce il “core” catalitico; 2) Nicastrina; 3) APH 1; 4) PEN-2; Le mutazioni FAD (Familiar Alzheimer Disease) sono mutazioni “gain of function”, ossia conferiscono un cambio di specificità per il taglio del substrato (quindi non viene persa una funzione precedente). Essendo implicata in molte vie fisiologiche di regolazione e maturazione di proteine, non è possibile pensare a un qualche tipo di terapia inattivante (come potrebbe essere per la terapia genica). Si occupa infatti della maturazione (oltre che della APP) di: 1) Notch, un recettore trans membrana coinvolto nella trasduzione del segnale intracellulare durante lo sviluppo embriologico dell’asse dorsale e della maturazione di vari tipi cellulari nel periodo post-natale; 2) ErbB4, un recettore tirosin-chinasico implicato nella regolazione della proliferazione e nel differenziamento di molti tipi di tessuto (è anche un protoncogene, vedere Oncologia); 3) CD44, una molecola coinvolta nell’adesione cellulare soprattutto dei linfociti ma che è anche in grado di trasdurre segnali all’interno della cellula. La presenilina è inoltre implicata in altre vie di segnale importanti tra cui l’omeostasi del calcio intracellulare. Per spiegare la patologia sono state elaborate varie teorie: 1) Nell’ipotesi della cascata dell’amiloide, pubblicata per prima e ad oggi ancora la più accreditata, si sostiene che il punto centrale della patogenesi sia la produzione e l’accumulo di Aβ42. La formazione di placche amiloidi ha un effetto subdolo di tossicità. Gli oligomeri, i monomeri o le fibrille portano ad un danno neuronale progressivo a livello dei neuriti, inoltre c’è un’attivazione massiccia della risposta infiammatoria gliale che comporta un danno del tessuto che altera la funzionalità. Questa condizione porta ad un’alterata funzionalità neuronale, da cui può derivare a sua volta un’alterata omeostasi ionica intracellulare; alcuni enzimi chiave per la cellula vengono sregolati e non funzionano più correttamente, questo è stato postulato per spiegare l’iperfosforilazione di tau. 2) non necessariamente esclude la precedente. Questa ipotesi, emersa negli ultimi 10 anni, si basa sul fatto che nelle forme genetiche di malattie determinate dalle mutazioni in presenilina, oltre ad avere un aumento del peptide Aβ si ha un’alterazione dell’omeostasi intracellulare del calcio. Nella cellula c’è un gradiente di concentrazione molto importante, nei fluidi extracellulari troviamo una -3 -7 concentrazione dell’ordine di 10 M, mentre all’interno della cellula ne abbiamo circa 10 M. Inoltre dentro la cellula ci sono degli organelli “deposito”, il principale è il reticolo endoplasmico, all’interno di questi la -3 concentrazione è alta: all’interno del reticolo endoplasmico si raggiunge l’ordine di 0.5x10 M. 71 Per mantenere questo gradiente, la cellula consuma un’ingente quantità di energia. Si è visto che mutazioni delle preseniline possono alterare varie vie di questa omeostasi, ma non tutte le hanno lo stesso effetto: a) alcune mutazioni in PS1 sembrano aumentare la concentrazione del calcio; b) ma la maggior parte delle mutazioni (soprattutto in PS2) ne diminuiscono la concentrazione nei depositi. L’ipotesi di una disfunzione dell’omeostasi del calcio considera i concetti affrontati in precedenza sul deposito di Aβ, ma aggiunge come causa prima della malattia l’alterazione dell’omeostasi di questo ione. Questa alterazione a monte e causerebbe l’alterato processamento della proteina APP, in particolare si spiegherebbe anche l’alterazione della funzionalità delle chinasi, tra cui la calpaina (proteasi intracellulare che viene attivata con influssi di calcio massicci), che taglia alcune chinasi e rende conto all’iperfosforilazione di tau. La dimostrazione che alcuni tipi di mutazioni causa di Alzheimer, provochino effetti contrastanti sul calcio spinge a considerarne l’alterazione dell’omeostasi come un epifenomeno. Per epifenomeno si intende un fatto che non è causale per la patologia, ma piuttosto a carattere modulatorio (sempre all’interno delle patologie legate ad alterazioni genetiche, quindi ereditarie): ++ a) Mutazioni alla presenilina 1 provocano aumento dei depositi di Ca intracellulari, il fenotipo del morbo risulta più grave e aggressiva che compare più precocemente; ++ b) Mutazioni alla presenilina 2 provocano invece diminuzione dei depositi di Ca intracellulari, il fenotipo del morbo risulta meno grave ed aggressivo con onset tardivo paragonabile alla patologia sporadica (non familiare). È auspicabile quindi che le vie del calcio possano diventare target farmacologici non tanto per guarire la malattia in se, ma per ritardarne e rallentarne la comparsa. 2.5 NOTE 72 2.6 AUTOVALUTAZIONE 1) Riguardo alla steatosi descrivere: a) Cause e meccanismo patogenetico b) Esiti c) Organi più colpiti 2) Riguardo al morbo di Alzheimer spiegare: a) Origine e sviluppo del frammento Aβ42 b) Cosa sono le FAD e quali sono i geni coinvolti c) Quali sono le ipotesi patogenetiche 3) Riguardo alla necrosi descrivere: a) Alterazioni morfologiche caratteristiche b) Le fasi di evoluzione c) I tipi di necrosi 4) Riguardo all’amiloidosi in generale spiegare il motivo per il quale alcune proteine sono in grado di formare fibrille e fare degli esempi. 5) Descrivere le differenze tra necrosi e apoptosi, in particolare i motivi per i quali una cellula segua una strada oppure l’altra. 6) Riguardo all’apoptosi descrivere: a) Morfologia cellulare b) Principali molecole coinvolte 7) Riguardo all’ipertrofia cardiaca descrivere: a) Definizione e cause b) Tipi di ipertrofia c) Meccanismi molecolari della patogenesi 8) Dare una sintetica definizione (max 3 righe) dei seguenti termini: a) Metaplasia b) Anaplasia c) Aplasia d) Iperplasia e) Ipertrofia f) Atrofia 73 3. INFIAMMAZIONE L’infiammazione è la risposta al danno dei tessuti vascolarizzati, è una forma di difesa che entra in azione quando le difese primarie hanno ormai ceduto. L’organismo è protetto da diversi elementi in sequenza: 1) Barriere fisiche, che rappresentano la prima linea di difesa (cute, mucose, epiteli); 2) Infiammazione, che assume ruolo di seconda linea di difesa instaurando una risposta efficiente ma sostanzialmente stereotipata contro un gran numero di agenti lesivi diversi (immunità innata); 3) Immunità acquisita che è la terza e ultima linea di difesa ma che è strettamente collegata alla precedente, in quanto il processo infiammatorio coordina e prepara il terreno per la risposta immunitaria specifica. CAUSE (danno cellulare generico) • • • Chimico (veleni) Fisico (traumi meccanici, radiazioni) Biologico (infezioni) CARATTERISTICHE • • Produzione di mediatori dell'infiammazione Afflusso di fluidi e leucociti dal sangue SCOPO • • • • Diluire gli agenti nocivi Distruggere gli agenti nocivi Isolare gli agenti nocivi Riparare il danno È una risposta protettiva che se interviene eccessivamente può generare essa stessa danno tissutale. L’infiammazione riconosce due tipi di reazioni basate fondamentalmente sulla durata e con caratteristiche molto diverse: 1) Infiammazione acuta (“early response”), prevalgono i fenomeni di tipo vascolare (come l’essudazione di liquidi dai vasi) e il tipo cellulare prevalente sono i granulociti (neutrofili); 2) Infiammazione cronica, generalmente più tardiva, caratterizzata da fenomeni di tipo cellulare,con presenza soprattutto di infiltrati di monociti/macrofagi e linfociti, e fenomeni riparativi associati a processi di alterazione dell’architettura del tessuto originale. Avviene quando il danno persiste e l’agente patogeno per esempio non è eliminabile, oppure quando si verificano fenomeni autoimmuni (che per definizione sono caratterizzati da stimolo infiammatorio persistente). Si possono descrivere dei segni detti “cardinali” dell’infiammazione, ossia le evidenze che indicano una reazione di tipo infiammatorio su di un tessuto: 1) Rubor (rossore), la zona è rossa perché si verifica vasodilatazione (anche detta iperemia); 2) Tumor (gonfiore), la zona è gonfia perché i vasi diventando più permeabili lasciano uscire dell’essudato (edema) infiammatorio; 3) Calor (calore), la zona è calda per il maggior afflusso di sangue dovuto alla vasodilatazione; 4) Dolor (dolore), il dolore ha cause molteplici, tra cui il rilascio di mediatori chimici algogeni (che inducono dolore) come la bradichinina, e anche per l’eventuale compressione e irritazione nervosa. Inoltre si può aggiungere un altro segno di insorgenza tardiva se non c’è recupero completo dopo la reazione infiammatoria: 5) Functio laesa (perdita di funzione), quando il processo infiammatorio è talmente accentuato o talmente prolungato che i danni inflitti al tessuto diventano irreparabili (in questo caso si osserverà un importante fenomeno di fibrosi e cicatrizzazione). Da ricordare che nella terminologia viene usato il suffisso –ite per intendere un qualsiasi processo infiammatorio (per esempio pleurite, peritonite, ecc.). 74 3.1 INFIAMMAZIONE ACUTA 3.1.1 Fase vascolare dell’infiammazione Danno tissutale La fase vascolare interviene nel giro di secondi in seguito al danno, si osserva: 1) Iniziale vasocostrizione transitoria (non sempre presente), dura da qualche secondo a qualche minuto e interessa le arteriole precapillari nelle immediate vicinanze della zona colpita; 2) Vasodilatazione, vengono rilasciati gli sfinteri precapillari e si aprono nuovi letti capillari (vengono perfusi i capillari che in condizioni normali non erano perfusi) e vengono eventualmente chiusi degli shunt arterovenosi fisiologici. Ne consegue un fenomeno di iperemia. 3) Aumento della permeabilità vascolare che si verifica nel comparto venoso all’altezza delle venule, le proteine plasmatiche saranno libere di uscire dal letto vascolare penetrando nella zona infiammata provocando uno squilibrio delle pressioni con conseguente fuoriuscita di liquidi (edema). Produzione di mediatori dell'infiammazione Mediatori vasoattivi Essudato Fattori chemiotattici Reclutamento di cellule infiammazione Fase vascolare dell'infiammazione Fase cellulare dell'infiammazione 3.1.2 Edema Per edema si intende un accumulo di liquido negli spazi interstiziali o nelle sierose. Il liquido può essere: 1) Essudato (edema infiammatorio), ossia un liquido extravascolare con un elevato contenuto di proteine di origine plasmatica, che sono fuoriuscite dai vasi per l’aumento della loro permeabilità. Ha caratteristiche molto simili al plasma. L’essudazione è il passaggio di fluidi, proteine e cellule, dal sistema vascolare verso i fluidi interstiziali o le cavità sierose; 2) Trasudato, liquido extravascolare con un basso contenuto di proteine che può avere significato : a) Fisiologico, per cui si parla di ultra filtrato plasmatico, ossia quella parte di plasma che normalmente esce dai vasi diffondendo ai tessuti fondamentale per gli scambi di nutrienti; b) Patologico, dovuto a problemi pressori (squilibrio delle pressioni idrostatica o oncotica, intra o extra vascolari). Per comprendere i meccanismi dell’edema, è necessario prendere in considerazione tutti gli elementi responsabili degli scambi di liquidi nel microcircolo. Gli scambi di liquidi tra plasma e interstizio è regolato dalla legge di Starling: La quantità di liquido che filtra all’esterno all’estremità arteriolare dei capillari equivale all’incirca alla quantità di liquido che viene riassorbita all’estremità venulare Il bilancio normale dei liquidi è mantenuto da due gruppi opposti di forze: 1) Quelle che causano uscita di liquido dal letto vascolare: a) Pressione idrostatica intravasale (componente principale); 75 b) Pressione osmotica del liquido interstiziale; 2) Quelle che causano entrata di liquido nel letto vascolare: a) Pressione osmotica delle proteine plasmatiche (o pressione oncotica); b) Più altre componenti minoritarie. Queste componenti regolano il 90 % degli scambi. Il 10 % rimanente, in quanto la quantità di liquido in uscita è leggermente maggiore di quella che entra nel letto vascolare, rappresenta la quota di liquidi drenata dal sistema linfatico. 1) Pressione idrostatica del capillare 2) Pressione negativa del liquido interstiziale libero 3) Pressione colloido-osmotica del liquido interstiziale 30 mmHg a) 6 mmHg 41,3 mmHg 4) Pressione colloido-osmotica del plasma 28 mmHg 28 mmHg 5,3 mmHg Forza totale verso l’esterno Forza totale verso l’interno Pressione colloido-osmotica del plasma 28 mmHg Forza totale verso l’interno b) Pressione idrostatica del capillare c) Pressione negativa del liquido interstiziale libero d) Pressione colloido-osmotica del liquido interstiziale Forza totale verso l’esterno 28 mmHg 10 mmHg 5,3 mmHg 6 mmHg 21,3 mmHg All’estremità arteriolare del capillare agisce una forza netta verso l’esterno pari a 13,3 mmHg (41,3 – 28); All’estremità venulare del capillare agisce una forza netta verso l’interno pari a 6,7 mmHg (28 – 21,3). La differenza tra le due pressioni che determinano filtrazione e riassorbimento non è pari a zero (13,3 – 6,7 = 6,6), ciò rende ragione della quota di liquidi filtrati che non ritorna nel letto vascolare ma viene drenata dal sistema linfatico. L’edema si può formare in caso di: 1) Aumento della pressione idrostatica capillare, in questo caso aumenterà la filtrazione di liquidi all’esterno dei vasi, il sistema linfatico drenerà l’eccesso di filtrato, ma quando questo eccesso supera la capacità drenante dei vasi linfatici si formerà edema; 2) Diminuzione della pressione oncotica plasmatica, come avviene per esempio durante l’infiammazione acuta in cui i vasi diventando più permeabili fanno uscire nell’interstizio le proteine del plasma determinando uno squilibrio delle pressioni oncotiche (la pressione oncotica plasmatica è responsabile del trattenimento dell’acqua nel letto vascolare). 76 3.1.3 Permeabilità vascolare I meccanismi attraverso i quali si ottiene l’aumento della permeabilità vascolare sono: 1) L’aumento in un primo momento grazie a mediatori vasoattivi (come l’istamina e la serotonina) che interagiscono con recettori sulla superficie endoteliale, che provoca: ++ a) L’ingresso di Ca con un meccanismo immediato che causa la contrazione delle cellule endoteliali; b) In un secondo momento il riarrangiamento del citoscheletro delle cellule endoteliali per sostenere il fenomeno per tempi più lunghi; 2) Alcuni vasi possono subire danno diretto e quindi una fuoriuscita diretta di fluidi nella zona danneggiata; 3) Fuoriuscita diretta di fluidi per un danno ritardato (nel giro di qualche ora) dovuto alle stesse cellule infiammatorie (effetti collaterali dell’infiammazione stessa) che possono danneggiare di per se i tessuti; 4) Transcitosi, ossia un passaggio diretto di liquidi tramite vescicole da un lato e dall’altro della cellula endoteliale. 3.1.4 Ruolo e tipi di essudato Le funzioni dell’essudato sono: 1) Diluizione, infatti l’essudato fa si che qualsiasi agente (chimico o microbico) abbia dato via all’infiammazione venga diluito. Può essere molto importante in caso di infezione da batteri che rilasciano tossine, se queste vengono diluite la loro concentrazione relativa sarà minore e quindi il loro effetto tossico sarà ridotto; 2) Azione battericida degli anticorpi e del complemento, infatti tra le proteine plasmatiche che passano nell’interstizio ci sono anche queste che verranno quindi veicolate solo dove sono necessarie (dove si forma l’edema cioè dove c’è infiammazione), questo concetto è detto “economizzazione della difesa”; 3) Contenimento, la polimerizzazione della fibrina una volta uscita dal letto vascolare costituisce un ostacolo fisico alla diffusione degli agenti patogeni, in questo modo verrà isolata l’area danneggiata (inoltre si getteranno le basi per la successiva riparazione); 4) Continuo drenaggio, tutto ciò che si trova nell’area infiammata, inclusi i fattori potenzialmente nocivi contro i quali potrebbe risultare utile attivare una difesa specifica, viene veicolato verso i linfonodi per il riconoscimento. L’essudato può assumere caratteristiche diverse a seconda dell’agente che ha causato l’infiammazione: 1) Essudato sieroso, molto liquido e relativamente povero di proteine, si genera tipicamente in seguito a piccoli traumi ripetuti (vescica) o a scottature a causa di una permeabilizzazione di lieve entità dei vasi; 2) Essudato fibrinoso, ha un contenuto proteico molto più elevato (soprattutto di fibrinogeno che polimerizza a fibrina nell’interstizio). Molto caratteristico delle infiammazioni nelle cavità sierose dove può dar luogo ad aderenze, oppure anche in risposta ad infiammazioni batteriche (tipica formazione di pseudomembrane nelle vie aeree in seguito a infezione da C. diphteriae); 3) Essudato catarrale, più viscoso dei precedenti, di aspetto vischioso e giallastro, contiene molte cellule morte e proteine degradate. Caratteristico delle infiammazioni delle superfici mucose sulle quali un iniziale essudato sieroso viene riconosciuto come materiale da eliminare e stimola una grossa produzione di muco dalle cellule mucipare; 4) Essudato purulento, di colore che può variare da giallo chiaro a molto intenso fino a marrone (in presenza di eritrociti). Ha pH acido e contiene un elevato numero di neutrofili morti. Si forma generalmente in risposta a batteri chiamati genericamente “piogeni” (stafilococchi, streptococchi, pneumococchi, meningococchi), i quali producono tossine che causano necrosi tissutale, il materiale necrotico viene poi colliquato ad opera degli enzimi lisosomi ali rilasciati dai neutrofili morti (pus); 5) Essudato emorragico, è un normale essudato infiammatorio ma che contiene anche eritrociti. Si forma generalmente quando il danno all’albero vascolare è grave (come per esempio in alcune infezioni batteriche come l’antracosi da Bacillus anthracis). 77 3.1.5 Ascesso L’ascesso è una raccolta di pus, o essudato purulento, formato da neutrofili, cellule necrotiche e liquidi, localizzata e circoscritta, che si forma per un processo di suppurazione (infezione) all’interno di un tessuto o un organo. Può essere ricondotto all’infiammazione acuta, ma qualora perduri nel tempo può rientrare nella definizione di infiammazione cronica. I PMN si accumulano e progressivamente ricavano spazio all’interno del tessuto stesso (cavità ascessuale). La presenza nel pus di tantissime proteasi favorisce l’ulteriore estensione del danno tissutale ai margini dell’ascesso. Il risultato è la formazione di una cavità dove precedentemente era presente tessuto compatto. Se il pus si accumula in una cavità preformata si parla invece di empiema. L’accumulo di pus col tempo tende a venir isolato dal tessuto circostante mediante formazione di una capsula composta da tessuto connettivo prodotto da fibroblasti. Questa capsula prende il nome di membrana piogena e ha la funzione di limitare il processo infettivo e di isolarlo. La capsula è facile che si formi in caso di infezione da batteri piogeni, microrganismi particolarmente aggressivi e difficili da eliminare, ma allo stesso tempo molto chemiotattici. Quando i batteri persistono per molto tempo richiamano tantissimi PMN creando un accumulo continuo che si autosostiene. La situazione di un ascesso infetto può risolversi in due modi: 1) Sterilizzazione del pus (tutti i batteri vengono uccisi) che verrà poi rimosso/riassorbito e il tessuto rigenerato; 2) L’ascesso può rompersi dando origine a una fistola, la quale può essere diretta verso: a) L’esterno, verso la superficie esterna del corpo (fistola cutanea); b) L’interno, verso la superficie interna (per esempio in un polmone). 3.1.6 Fase cellulare dell’infiammazione acuta Questa fase è suddivisa in: 1) Marginazione dei leucociti, che avviene grazie alla modulazione dell’esposizione di molecole di adesione sulle membrane endoteliali e dei leucociti stessi. Con questo fenomeno si ha l’aumento dell’adesività delle cellule infiammatorie che saranno in grado di attaccarsi alla superficie endoteliale specificamente nel distretto infiammato; 2) Diapedesi dei leucociti, ossia la migrazione attraverso lo strato endoteliale (detto anche estravasazione), avviene principalmente a livello delle venule post-capillari (dove le forze di scorrimento indotte sulle pareti del vaso dal moto del sangue sono minori); 3) Chemiotassi, i leucociti sono in grado di rilevare un gradiente di concentrazione di una serie di segnali (citochine, chemochine e prodotti batterici), grazie ai quali riescono ad orientarsi e a muoversi giungendo nell’area di interesse dove devono svolgere le loro funzioni; 4) Fagocitosi che serve alla captazione e all’eliminazione dei patogeni e di qualsiasi altro elemento non fisiologico. 78 3.1.7 Migrazione dei leucociti Normalmente nella circolazione, i leucociti (più grandi), per una questione di flusso laminare, dovrebbero occupare la parte centrale dei vasi. In realtà nel microcircolo, il flusso assiale dei globuli rossi spinge i globuli bianchi ad urtare con la parete dei vasi. In condizioni normali i globuli bianchi rimbalzano e non aderiscono alla parete endoteliale, mentre in situazioni di infiammazione a causa della fuoriuscita di liquido i globuli rossi interagiscono tra di loro impaccandosi e impilandosi al centro del capillare, questo spinge ancora di più i leucociti sulla parete endoteliale (fenomeno chiamato iperemia passiva). La migrazione dei leucociti attraverso l’endotelio si svolge in tre fasi: 1) Rolling (rotolamento), è una fase iniziale di interazione con l’endotelio in cui i leucociti non aderiscono in modo stabile; 2) Adesione ferma, i leucociti aderiscono in modo stabile e si fermano; 3) Migrazione (o diapedesi) attraverso l’endotelio. I leucociti sono in grado di aderire e quindi fermarsi sull’endotelio perché quest’ultimo viene reso più adesivo in corrispondenza dell’area infiammata, affinché i leucociti abbandonino il lume dei vasi le cellule endoteliali devono venir attivate e devono essere upregolate alcune molecole di adesione che andranno a interagire con molecole complementari sui leucociti. Ogni fase è mediata da molecole di adesione specifiche: 1) Nella fase di rolling sono coinvolte delle molecole chiamate selettine, i mediatori chimici dell’infiammazione inducono la fusione dei cosiddetti corpi di WeibelPalade, vescicolette intracellulari che contengono selettine preformate, con la superficie luminale della membrana endoteliale, da cui l’immediato aumento di adesività. Esistono selettine di tipi diversi: 79 a) E-selettine e P-selettine stanno sull’endotelio (le P-selettine sono quelle contenute nei corpi di WP e sono quindi preformate, mentre le E-selettine normalmente non sono presenti e vengono espresse de novo), queste molecole di adesione hanno come ligando sui leucociti delle glicoproteine particolari (PSGL-1) che presentano un tetra saccaride detto Sialylated Lewis X (così chiamato per la presenza di residui di acido sialico). L’interazione selettina/ligando è un fenomeno stechiometrico, quindi più molecole sono presenti in superficie più l’adesione sarà favorita; b) L-selettine sono solo sui leucociti e interagiscono con dei ligandi chiamati GlyCAM-1, CD34 e MadCam-1, presenti sulla superficie endoteliale; L’iniziale aumento di adesività è dovuto a mediatori pro infiammatori (come IL-1 e TNFα) e causa l’esposizione delle P-selettine preformate presenti nei corpi di WP, in un secondo momento il fenomeno è sostenuto dall’induzione, dovuta sempre ai mediatori dell’infiammazione, dell’espressione delle E-selettine; 2) La fase di adesione ferma comprende sempre l’azione delle selettine ma oltre a queste entrano in gioco le integrine, dato che la loro forza di legame con i rispettivi ligandi è molto maggiore, i leucociti riescono a fermarsi sulla parete vasale, l’arresto di leucociti sulla parete del distretto infiammato favorisce l’aggregazione di ulteriori leucociti. Le integrine sono presenti sui leucociti, mentre i ligandi specifici sono sull’endotelio, l’interazione integrina/ligando viene favorita da due eventi entrambi secondari alla presenza di mediatori dell’infiammazione: a) L’induzione dell’espressione dei ligandi specifici delle integrine ICAM-1 e VCAM-1 sulla superficie endoteliale, queste sono molecole che appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline; b) Modulazione diretta della capacità delle integrine di legare il proprio ligando. Le integrine sono molecole molto duttili, possono passare da uno stato: Di riposo, in cui la loro affinità di legame col ligando è relativamente bassa; Attivato, in cui hanno alta affinità; Questa particolare capacità è detta inside-out regulation, ossia la possibilità che degli eventi intracellulari siano in grado di modulare quello che avviene al di fuori della cellula, nel caso specifico delle integrine, il segnale pro infiammatorio dato dalle chemochine come IL-8 determina l’aumento dell’affinità di legame con i ligandi. opposto all’inside-out regulation è l’outside-in regulation, ossia il legame di un ligando che attiva la trasduzione di un segnale all’interno della cellula; 3) Nella fase di diapedesi il leucocita si fa strada tra le cellule endoteliali, questo fenomeno dipende ancora dalle integrine ma anche da un’altra molecola fondamentale chiamata PECAM-1 (Platelet Endothelium Cell Adhesion Molecule) o CD31. Nella tabella sono riassunte le varie molecole di adesione che Leucocita Endotelio intervengono nel processo e il rispettivo ligando contrapposto. L-selettina GlyCAM La mancanza di una di queste componenti può determinare deficit di β1 integrine (VLA4) VCAM-1 migrazione dei leucociti: β2 integrine 1) Nella LAD-1 (Leukocyte Adhesion Deficiency) si ha mutazione ICAM-1 (LFA 1) a carico di CD18, una delle subunità che costituisce le β2 PSGL-1 integrine, ciò comporta una grave riduzione della capacità dei P-selettina (con sialil Lewis X) leucociti di fermarsi sull’endotelio con evidenti conseguenze ESL-1 E-selettina sull’efficienza dei processi infiammatori; 2) Nella LAD-2 invece si ha un difetto di fucosilazione, questo processo è fondamentale per l’attacco del sialil Lewis X alle glicoproteine PSGL-1, il difetto in questo caso è meno grave perché l’adesione è ridotta ma non mancano i mediatori più forti di adesione ovvero le integrine, quindi i leucociti riusciranno comunque a fermarsi. Una volta uscito dal lume vasale il leucocita trova la membrana basale che rappresenta un grosso ostacolo interposto all’area da dove è partita l’infiammazione. È una struttura proteica piuttosto solida quindi i leucociti la devono 80 perforare per passare oltre, a questo scopo sono dotati di proteasi (per esempio le elastasi o le collagenasi) con cui digeriscono la membrana basale attraversandola. 3.1.8 Chemiotassi Una volta che il leucocita ha oltrepassato l’endotelio e la lamina basale deve trovare il punto dove ha avuto origine l’infiammazione. I leucociti devono compiere un movimento attratti da segnali che si trovano specificamente nel sito dove è avvenuto il danno, si tratta di un movimento orientato in un gradiente di molecole con proprietà chemio tattiche. Si parla di: 1) Chemiotassi positiva se il movimento è diretto verso un determinato chemioattraente; 2) Chemiotassi negativa se al contrario il movimento è orientato nella direzione in cui il gradiente è decrescente. La chemiotassi è un movimento orientato, diversa invece è la chemiocinesi che è un aumento generale del movimento indipendentemente dalla direzione. I leucociti sono in grado di seguire una sommatoria di segnali chemiotattici, che possono essere di origine: 1) Esogena, i più importanti, in caso di infezione batterica, sono i cosiddetti N-formilmetionin peptidi (cioè che hanno come primo aminoacido una metionina formilata). Questi sono un segno univoco di presenza batterica, infatti solo gli organismi procarioti usano la metionina formilata come primo aminoacido nella sintesi proteica, inoltre non segnalano solo la presenza di batteri, ma anche la loro vitalità, in quanto è un segnale del loro metabolismo proteico in atto; 2) Endogena, tra cui: a) Anafilotossine, originate dall’attivazione del complemento (C5a, C3a); b) Leucotrieni (LTB 4) c) Chemochine; d) Citochine varie. I recettori leucocitari che ricevono i segnali chemiotattici sono recettori a 7 domini trans membrana (7TM) associati a proteine G dimeriche che funzionano attivando la fosfolipasi C (PLC), con conseguente formazione di IP3 (inositolo tri2+ fosfato) e DAG (diacilglicerolo) con rilascio di Ca dai depositi intracellulari. L’aumento del calcio modula l’attività di proteine coinvolte nell’assemblaggio e nel controllo dinamico del citoscheletro: 1) Rac; 2) Rho; 3) Cdc42. Il leucocita quando si muove secondo gradiente non è simmetrico: l’asimmetria è dovuta in primo luogo alla distribuzione dei recettori per i fattori chemiotattici posti sulla superficie del linfocita. Il leucocita non è sferico ma ha due poli, può percepire la differenza di gradiente tra il polo posto più vicino alla sorgente dell’infiammazione e il polo più lontano (anche se la differenza è di solo il 2%). Il citoscheletro si assembla asimmetricamente in maniera dipendente dalla differenza di concentrazione percepita. Tra i fattori responsabili di questa “polarizzazione” asimmetrica della cellula ci sono degli enzimi come la PI3K che si posiziona verso il polo dove la concentrazione percepita è maggiore. Quello che avviene si può riassumere in una rapida sequenza cronologica: 1) Legame del chemioattraente in quantità maggiore ad un polo della cellula; 2) Polarizzazione degli enzimi che vengono reclutati in quella sede; 3) Rimodellamento del citoscheletro in quella direzione, si crea così una sorta di motore che traina la parte anteriore della cellula; 81 4) Nel momento in cui viene raggiunta la sorgente dell’infiammazione si annulla il gradiente e quindi il leucocita si ferma. 3.1.9 Fagocitosi La fagocitosi può avvenire: 1) Con opsonizzazione, è un processo facilitato: a) Immunoglobuline (recettori per il frammento Fc sui leucociti); b) Complemento (complement receptors C3bi sui leucociti); c) Opsonine non specifiche come alcune proteine plasmatiche; 2) Senza opsonizzazione, soprattutto quando i fagociti sono attivati a) Mediante riconoscimento di strutture della superficie microbica; b) Mediante assunzione diretta; 3) Pinocitosi in fase fluida. I meccanismi di distruzione del materiale fagocitato si dividono in: 1) Meccanismi ossigeno-indipendenti (I classe), enzimi degradativi come idrolasi, proteasi, lipasi; 2) Meccanismi ossigeno-dipendenti (II classe), che utilizzano radicali reattivi dell’ossigeno. Per quanto riguarda i meccanismi ossigeno dipendenti: 1) La NADPH ossidasi è un enzima che si trova sulla superficie dei fagosomi, si attiva quando viene fagocitata una particella da degradare. È un complesso enzimatico che sporge da entrambi i lati della membrana vescicolare: + a) Dal lato citosolico lega il cofattore NADPH che viene ossidato a NADP ; b) L’energia dell’ossidazione è necessaria sul versante interno della membrana fagosomiale per ridurre l’ossigeno ad anione superossido. L’assemblaggio delle subunità enzimatiche avviene solo quando avviene la fagocitosi, questo per evitare danni da attività incontrollata e non necessaria. L’anione superossido non ha di per se un effetto battericida particolarmente elevato, tuttavia grazie alla reazione di Haber-Weiss, reagisce con perossido di idrogeno (H2O2) generando un radicale ossidrile, che al contrario è un ottimo battericida. Questa reazione ossido-riduttiva è catalizzata dai metalli, perciò un’alta concentrazione di metalli nell’organismo è dannosa proprio perché favorisce la formazione di radicali dell’ossigeno. Quando si attiva la NADPH ossidasi si parla di burst respiratorio poiché si vede un brusco aumento del consumo di ossigeno. 2) La seconda reazione importante è quella catalizzata dalla mieloperossidasi, che utilizza perossido di idrogeno in presenza di ioni cloruro per generare ipoclorito (HOCl comunemente chiamata candeggina) che è un eccellente battericida. I leucociti utilizzano l’ossigeno quasi esclusivamente per i meccanismi battericidi, mentre per le loro attività metaboliche sfruttano principalmente la glicolisi, questo conferisce loro un vantaggio in tutte le situazioni in cui si trovano ad operare in siti relativamente ipossici. Il difetto di NADPH ossidasi provoca una patologia detta malattia granulomatosa cronica, questa è caratterizzata da infezioni ricorrenti anche gravi (sia batteriche che fungine), ma non rappresenta una malattia mortale. 82 Per quanto riguarda i meccanismi ossigeno-indipendenti: 1) Lisozima, è una piccola proteina enzimatica in grado di scindere il legame tra l’acido N-acetilmuramico e l’Nacetilglucosamina, questo è un legame fondamentale presente nella parete di molti batteri; 2) BPIP (Bacterial Permeability Increasing Protein), ha la proprietà di inserirsi nella membrana esterna dei batteri gram – e di perforarla; 3) Defensine, piccole proteine ad azione citotossica; 4) Lattoferrina, ha la capacità di chelare il ferro, quindi abbassa la concentrazione di ferro libero attorno ai batteri con effetto batteriostatico, infatti essendo il ferro un fattore di crescita per molti batteri, la loro crescita è molto rallentata; 5) Enzimi degradativi (proteasi, fosfolipasi, ecc.) funzionano tutti con pH acido (il quale di per se è batteriostatico e battericida) attaccando vari componenti strutturali dei batteri. 3.2 CELLULE DELL’INFIAMMAZIONE Prima di procedere alla descrizione dei mediatori dell’infiammazione è proposta una rapida scorsa sulle cellule coinvolte nei processi infiammatori, tuttavia per una più approfondita analisi si rimanda ai testi di Istologia e Immunologia. 3.2.1 Granulociti neutrofili I granulociti neutrofili (anche detti polimorfo nucleati o PMN) caratterizzano l’infiammazione acuta, hanno un nucleo polilobato, pochissimi mitocondri (in quanto prediligono la glicolisi e glicogenolisi, sono presenti infatti molti granuli di glicogeno), sono terminalmente differenziati e hanno vita limitata. FUNZIONI: fagocitano detriti e batteri Contengono tre tipi diversi di granuli: 1) Azzurrofili (o primari), contengono la mieloperossidasi, lisozima e altri enzimi degradativi; 2) Secondari, contengono proteine ad attività antibatterica come la lattoferrina e la proteina legante la vitamina B12; 3) Terziari (o particelle C), contengono gelatinasi e catepsine (sono delle proteasi). 3.2.2 Monociti/macrofagi Il macrofago è la controparte tissutale (attiva) del monocita (che si trova fondamentalmente in circolo). I macrofagi caratterizzano l’infiammazione cronica e le fasi tardive di quella acuta, sono grandi produttori di mediatori dell’infiammazione: 1) Citochine a) IL-1; b) TNFα; c) IL-6; d) IL-8; e) IL-12; 2) Chemochine; 3) Prostaglandine; 4) Leucotrieni. FUNZIONI: diverse in base allo stato in cui si trovano: 83 1) A riposo devono eliminare rapidamente i detriti e le cellule morte ma non è richiesta la produzione di citochine (housekeeping); 2) Durante l’infiammazione sono la cellula di passaggio/comunicazione con l’immunità acquisita. Conserva la sua funzione principale fagocitica e di distruzione di elementi estranei/nocivi, ma in questo caso degraderà i peptidi ad epitopi di 10 a.a. circa in modo da presentarli efficacemente alle cellule immunitarie. Questo cambio fenotipico è mediato da alcuni segnali come interferone gamma (INFγ) e LPS. 3.2.3 Piastrine Sono necessarie per l’emostasi e la coagulazione, sono inoltre fonti ricchissime di mediatori dell’infiammazione: 1) Serotonina; 2) Trombossano A2. 3.2.4 Granulociti eosinofili Appaiono rossi, eosinofili alla colorazione istologica, hanno granuli piuttosto grandi che contengono una sostanza paracristallina formata da una grossa quantità di MBP (Major Basic Protein) aggregata. FUNZIONI: combattere le infezioni parassitarie (elminti), hanno un importante ruolo nelle manifestazioni allergiche. Sono fonte di grandi quantità di mediatori infiammatori tra cui prostaglandine della serie E. 3.2.5 Linfociti Sono associati più che altro all’infiammazione cronica, intervengono nelle reazioni immunitarie umorali e cellulomediate. 3.2.6 Mastociti Sono dotati di moltissimi granuli intracellulari che contengono ingenti quantità di mediatori dell’infiammazione, sono cellule estremamente reattive che con piccoli stimoli de granulano riversando il loro contenuto di mediatori preformati nel sito interessato. I mediatori rilasciati sono responsabili delle prime fasi immediate di tipo vascolare e cellulare nell’infiammazione acuta (contengono tutti i mediatori tranne la serotonina). FUNZIONI: è probabile che i mastociti rappresentino gli elementi di innesco della risposta acuta. Molti stimoli sono in grado di indurre la de granulazione e quindi il rilascio di istamina, il principale mediatore iniziale. Gli stimoli alla degranulazione sono: 1) Danno diretto: a) Stimoli fisici (termici e meccanici); b) Veleni; 2) Anafilotossine del complemento che si legano a recettori specifici sulla superficie mastocitaria; 3) Meccanismo mediato da IgE nelle allergie; 84 3.3 MEDIATORI DELL’INFIAMMAZIONE Nell’area infiammata esiste una fitta rete di segnali che serve a coordinare le cellule dell’infiammazione. Questo coordinamento avviene sostanzialmente poiché il tessuto leso produce dei mediatori chimici responsabili di due effetti: 1) Aumento della permeabilità vascolare e dell’afflusso di sangue (edema e iperemia); 2) Richiamo delle cellule della difesa dal letto vascolare verso dove è necessaria la loro presenza grazie a segnali di tipo chemio tattico (migrazione leucocitaria). Si possono distinguere mediatori: 1) Locali, che si dividono in: a) Preformati, sono i primi a stimolare l’edema e a richiamare le cellule in loco: Istamina; Serotonina; b) Di nuova sintesi, che prolungano e sostengono l’infiammazione, sono sostanzialmente i mediatori di natura lipidica: Leucotrieni; Prostaglandine; Ma anche di altro tipo: NO; Citochine; 2) Sistemici, servono a sostenere la risposta infiammatoria quando le risorse locali sono esaurite, sono fattori di origine plasmatica e sono i sistemi: a) Delle chinine; b) Della coagulazione; c) Del complemento (anafilotossine). Un mediatore chimico dell’infiammazione dovrebbe: 1) Trovarsi nei tessuti a concentrazioni che spieghino i sintomi o gli effetti osservati; 2) Essere rilasciato per effetto dello stimolo che ha indotto la risposta; 3) Avere la stessa azione in tutte le specie in cui avviene il fenomeno; 4) Venire eliminato con meccanismi locali o sistemici per evitare accumuli; 5) Essere bloccato (direttamente o indirettamente) dagli inibitori dell’infiammazione. 3.3.1 Istamina L’istamina è il principale mediatore preformato che innesca la risposta infiammatoria, è contenuta in grandi quantità nei mastociti e nei granulociti basofili. Risiede all’interno di granuli intracellulari con pH acido e legata ad eparina (il mediatore libero essendo instabile indurrebbe la degranulazione) e ATP. Viene secreta attraverso tre possibili meccanismi: 1) Danno diretto: a) Stimoli fisici (termici, meccanici); b) Sostanze rilasciate da patogeni o cellule danneggiate; c) Veleni; 2) Meccanismo recettoriale, le anafilotossine (C5a, C3a) legandosi a recettori specifici stimolano la degranulazione dei mastociti; 85 3) Meccanismo mediato da IgE, nei soggetti allergici l’allergene attiva le IgE che si legano mastociti armati. Un nuovo contatto con l’allergene provoca una fosforilazione a cascata dei recettori per le IgE con degranulazione dei mastociti. L’istamina deriva dal processamento dell’istidina e interagisce con una classe specifica di recettori H: 1) H1: sono recettori a sette domini trans membrana accoppiati a proteine G dimeriche di tipo Gq (connesse al 2+ rilascio di Ca ), questi recettori sono coinvolti nell’infiammazione e rappresentano i target farmacologici degli antistaminici; 2) H2: sono recettori a sette domini trans membrana accoppiati a proteine G s connessi quindi alla produzione di AMP ciclico tramite adenilatociclasi, questi recettori sono tipicamente espressi nella mucosa dello stomaco e sono collegati alla secrezione gastrica, rappresentano i target farmacologici nella terapia per la gastrite; 3) H3: si trovano nel cervello. L’effetto proadesivo dell’istamina è dovuto all’interazione con i recettori H1 sulle cellule endoteliali che induce la fusione dei corpi di Weibel-Palade con le membrane esterne provocando l’aumento delle P-selettine e quindi l’adesività dell’endotelio, inoltre induce vasodilatazione tramite la formazione di ossido nitrico (vedi dopo). 3.3.2 Serotonina La serotonina, o 5-idrossitriptamina (5-HT), è presente in elevata concentrazione nelle piastrine. Gli effetti sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli dell’istamina, contribuisce: 1) A rilasciare gli sfinteri precapillari causando l’iperemia; 2) Alla contrazione delle cellule endoteliali a livello venulare causando l’edema; 3) In aggiunta agli effetti istamino-simili provoca stimolazione della proliferazione dei fibroblasti, pone quindi la base del processo riparativo. 3.3.3 Ossido nitrico L’ossido nitrico (NO) è un gas solubile prodotto dalle cellule endoteliali, dai macrofagi e da alcuni neuroni. Viene prodotto dall’enzima NO sintasi (ossido nitrico sintetasi) a partire dall’arginina. L’enzima è presente nelle cellule produttrici di NO ma in isoforme diverse in base alla localizzazione e allo stato della cellula: 1) eNOS è l’isoforma espressa costitutivamente nell’endotelio; 2) iNOS è l’isoforma inducibile in caso di stimolo alla vasodilatazione; 3) nNOS è l’isoforma neuronale. 86 L’ossido nitrico ha varie funzioni: 1) È un potentissimo vasodilatatore locale, questo è di gran lunga il suo ruolo più importante; 2) Riduce l’aggregazione piastrinica; 3) Riduce il reclutamento leucocitario; 4) Agisce come antimicrobico in quanto è un radicale reattivo. Il meccanismo di vasodilatazione responsabile dell’iperemia nell’infiammazione è appunto dovuto all’ossido nitrico. Consiste in un dialogo tra due tipi cellulari diversi, ossia le cellule endoteliali e le cellule muscolari lisce della tonaca vasale. 1) Il meccanismo è azionato dall’istamina quando interagisce con i recettori H1 sulle cellule endoteliali; 2) Il recettore attiva a sua volta la cascata della PLC e quindi aumento del calcio intracellulare; 3) Il calcio si lega alla calmodulina che attiva allostericamente la NO sintasi; 4) L’enzima scinde l’arginina a citrullina e NO con consumo di O2 e di un cofattore NADPH; 5) L’NO essendo un gas solubile diffonde in tutte le direzioni per una piccola distanza, sufficiente a raggiungere le cellule muscolari lisce adiacenti nella tonaca muscolare della parete del vaso; 6) L’NO attiva la guanilatociclasi delle cellule muscolari inducendo la produzione di GMP ciclico; 7) IL GMPc attiva a sua volta la PKG (kinasi dipendente da GMPc); 8) La PKG attiva per fosforilazione la Myosin Light Chain Phosphatase che defosforila le catene leggere delle miosine, si ricordi che la fosforilazione di queste catene è necessaria per il crossbridging nella contrazione del muscolo liscio, quindi la rimozione dei fosfati provoca una diminuzione della contrattilità; 9) Si ottiene dunque la vasodilatazione. Nell’infiammazione viene inizialmente reclutata la eNOS che si trova preformata nelle cellule endoteliali (e che inoltre ha una attività basale), se è necessario il mantenimento della vasodilatazione allora interviene la iNOS che deve però essere prodotta de novo. l'istamina interagisce con i recettori H1 sull'endotelio rilascio di Ca2+ attivazione NO sintasi produzione di NO che diffonde in tutte le direzioni attivazione della guanilatociclasi nelle cellule muscolari lisce aumento del GMP ciclico attivazione della PKG attivazione della Myosin Light Chain Phosphatase che defosforila le miosine sulle catene leggere inibizione del crossbridging e quindi della contrazione della muscolatura vasale vasodilatazione 3.3.4 Mediatori infiammatori peptidici di origine plasmatica Questo tipo di mediatori può avere tre origini, nelle quali è coinvolto sempre il fattore XII (di Hagemann) della coagulazione: 1) Alcuni derivano dalla cascata della coagulazione, per esempio i fibrinopeptidi derivanti dal clivaggio attivatorio del fibrinogeno che svolgono una funzione chemiotattica per i leucociti; 2) Altri derivano dalla cascata fibrinolitica, frammenti del plasminogeno e della fibrina idrolizzati; 3) Alcuni si formano in seguito all’attivazione della precallicreina a forma attiva, la quale taglia il chininogeno producendo alcuni mediatori importanti come bradichinina e callidina (sistema delle chinine). 87 3.3.5 Sistema delle chinine Le chinine sono mediatori vasoattivi che originano da proteine plasmatiche chiamate chininogeni per azione di proteine specifiche chiamate callicreine. La precallicreina viene attivata a callicreina dal fattore XII (attivato a sua volta dal contatto con superfici cariche negativamente come collagene, membrane basali e piastrine attivate), questa agisce sul chininogeno ad alto peso molecolare (HMWK) scindendolo e inoltre amplifica la cascata attivando altre molecole di fattore XII. Dalla scissione del chininogeno origina bradichinina o callidina: 1) La bradichinina è un nonapeptide con effetti vasoattivi simili a quelli del’istamina, induce vasodilatazione e aumento della permeabilità vascolare tramite recettori specifici. Inoltre è anche un mediatore algogeno, ossia induce dolore, una funzione che l’istamina invece non possiede; 2) La callidina è del tutto paragonabile alla bradichinina, e’ un’altra chinina ad azione vasodilatatrice ed ipotensiva, è un decapeptide (10 aminoacidi contro i 9 della bradichinina) con effetti meno potenti rispetto alla precedente. 3.3.6 Mediatori di natura lipidica I mediatori di natura lipidica sono tutti metaboliti dell’acido arachidonico (ottenuto dalla conversione dell’acido linoleico), sono detti eicosanoidi (molecole a 20 atomi di carbonio) e derivano dal processamento dei lipidi di membrana delle cellule infiammatorie. Sono autacoidi, ossia ormoni ad azione locale, il loro ambito di azione e la loro emivita sono infatti molto ridotti. L’evento primario che porta a generare eicosanoidi è l’attivazione dell’enzima fosfolipasi A2 il quale possiede attività 2+ idrolitica. Questo enzima è attivato da vari segnali citosolici, tra cui l’aumento di Ca , una volta attivo l’enzima produce acido arachidonico, questo a sua volta costituisce il substrato di due enzimi diversi contrapposti: 1) 5-lipossigenasi che produce leucotrieni, all’interno della famiglia dei leucotrieni ci sono varie classi con funzioni differenti: a) Leucotriene B4 (LTB4) è un forte fattore chemiotattico per i granulociti; b) Leucotriene C4 (LTC4) è un vasocostrittore; c) Leucotriene D4 (LTD4) è un broncocostrittore (coinvolto nei fenomeni di broncospasmo); d) Leucotriene E4 (LTE4) aumenta la permeabilità vasale; 2) Ciclossigenasi che producono prostaglandine, dei mediatori vasoattivi con effetti opposti tra loro: a) Prostacicline, prodotte nell’endotelio dalla ciclossigenasi di tipo 2 (COX2) e con funzione antiaggregante e vasodilatatoria (per esempio PGI2); b) Trombossani, come il trombossano A2 (TXA2), vengono rilasciati dalle piastrine e inducono vasocostrizione e favoriscono l’aggregazione piastrinica, sono prodotti nei megacariociti dalla ciclossigenasi di tipo 1 (COX1). Questi mediatori lipidici agiscono su recettori 7TM accoppiati a proteine G, in base al tipo di questa dipende l’effetto del mediatore, quindi l’effetto finale non dipende solo dal tipo di mediatore rilasciato ma anche dal corredo recettoriale delle singole cellule bersaglio. Alcuni esempi: 1) PGI2 agisce sul muscolo liscio tramite una proteina G che attiva l’adenilatociclasi provocando aumento dell’AMPc e infine vaso o broncodilatazione; 2) TXA2 agisce tramite una proteina G che attiva la fosfolipasi C e quindi causano aumento del calcio citosolico, quindi vaso o broncocostrizione. 3) PGE2 provoca vasodilatazione, broncodilatazione e inibizione delle cellule infiammatorie; 4) PGF2α provoca vasodilatazione e broncocostrizione. 88 L’intervento terapeutico sui mediatori di origine plasmatica volto a ridurne la produzione può avvenire a step diversi della loro formazione: 1) Con i corticosteroidi (cortisonici) si inibisce a monte la formazione di acido arachidonico (con un meccanismo di blocco della trascrizione genica, inibendo la produzione della fosfolipasi A2, e con un meccanismo di stimolazione della trascrizione, favorendo la produzione di lipocortina, che ha effetto inibitorio sempre sulal fosfolipasi A2); 2) Con gli inibitori delle ciclossigenasi si riduce la formazione di prostaglandine (farmaci antinfiammatori non steroidei o FANS); 3) Inibitori della 5-lipossigenasi. La fosfolipasi A2 ha un prodotto di scarto dalla formazione di acido arachidonico, lascia in membrana un monogliceride che viene processato dalla liso-PAF acetil transferasi, questo enzima attacca un acetato in posizione 2 del glicerolo al posto dell’acido arachidonico dando luogo al PAF (Platelet Activating Factor) (vedi anche dopo). Il PAF è un altro mediatore dell’infiammazione che ha effetto: 1) Vasodilatatorio; 2) Proaggregante; 3) Broncocostrittivo. 3.3.7 Sistema del complemento Le anafilotossine sono delle potenti attivatrici dei mastociti, i quali se non attivati dall’eventuale trauma fisico, verranno sicuramente indotti alla degranulazione dal contatto con le proteine del plasma fuoriuscite dal letto vascolare (tra le quali ci sono quelle del complemento). 3.3.8 Citochine e chemochine Le cito- e chemochine sono mediatori di natura proteica non antigene-specifici che fungono da segnali di comunicazione tra le cellule del sistema immunitario e tra queste e diversi organi e tessuti. Sono prodotte da vari tipi di cellule e la loro produzione è in genere transitoria e ben regolata, si possono anche classificare come: 1) Monochine, prodotte dai monociti/macrofagi; 2) Linfochine, prodotte dai linfociti; 3) Chemochine, citochine con attività chemiotattica. La nomenclatura attuale le classifica come interleuchine (seguito da un numero per ogni molecola diversa). Le citochine sono piccole proteine (anche di soli 5 kDa) che hanno un ruolo importante nell’attivazione e nel controllo della risposta infiammatoria, la loro azione è mediata da recettori specifici presenti sulla cellula bersaglio. Gli effetti si differenziano in: 1) Autocrini, se la cellula che ha prodotto la citochina è essa stessa influenzata dalla citochina (come avviene per IL-2 nell’espansione clonale dei linfociti); 2) Paracrini, la cellula bersaglio è molto vicina alla cellula che secerne la citochina; 3) Endocrini, quando la citochina agisce a livello sistemico (IL-1 nella febbre); 4) Pleiotropici, quando citochine uguali agiscono su cellule e tessuti diversi; 5) Ridondanti, quando citochine diverse hanno effetti simili o identici sulle cellule bersaglio; 6) Sinergismo, quando l’azione combinata di due citochine è maggiore della somma degli effetti delle singole; 7) Antagonismo, alcune citochine hanno azione inibente nei confronti di altre. 89 3.3.9 Citochine infiammatorie primarie Quando i mediatori primari come l’istamina sono già esauriti, la risposta infiammatoria viene sostenuta dal rilascio di queste citochine, che vengono rilasciate dopo la fase iniziale ed hanno un’azione più prolungata: 1) IL-1; 2) TNFα; TNF 3) IL-6. IL-1 Mediatori dell’immunità IL-6 Sono le prime citochine che entrano in gioco e sono responsabili di innata IFN numerosissimi effetti a valle: IL-12 1) Produzione di ulteriori mediatori; IL-15 2) Espressione di nuove molecole di adesione endoteliali (P IL-2 selettine e aumento dell’affinità delle integrine; IL-4 Mediatori 3) Produzione di mediatori lipidici; IL-5 dell’immunitàspecifica 4) Produzione di NO; IL-6 5) Amplificazione del reclutamento e della sopravvivenza TNF leucocitaria; Fattori di crescita del IL-3 6) Effetti sistemici (febbre e risposta di fase acuta). sistema ematopoietico IL-7 3.3.10 Interleuchina 1 È prodotta principalmente, ma non solo, da monociti/macrofagi, la sua produzione è indotta da IL-1 stessa e da TNF (amplificazione). Si parla di sistema “complesso” in quanto comprende non solo una molecola e il suo recettore, ma è composto da: 1) 2 agonisti (IL-1α e IL-1β) due molecole distinte con omologia limitata, IL-1α e IL-1β, che nonostante le differenze interagiscono con lo stesso recettore; 2) 1 antagonista recettoriale (IL-1Ra), prodotto dalle stesse cellule che producono gli agonisti, lega il recettore ma non trasmette il segnale; 3) Sistema recettoriale complesso costituito da due componenti proteici: a) AcP, è una catena accessoria necessaria per la trasduzione del segnale all’interno della cellula (l’antagonista recettoriale IL-1Ra non trasmette il segnale perché non contatta la catena accessoria); b) IL-1R, è il recettore, esiste in due possibili forme: Type I che interagisce normalmente con la catena accessoria AcP trasducendo il segnale; Type II è anche chiamato decoy receptor (recettore finto) che non è in grado di trasdurre il segnale in quanto manca della porzione intracellulare, può essere presente sia montato in membrana oppure quando viene tagliato da metallo-proteasi si può ritrovare libero/solubile: In forma libera sequestra IL-1; In forma legata alla membrana agisce come dominante negativo in quanto si comporta come un recettore normale sequestrando allo stesso tempo la citochina e la catena accessoria. Questo sistema ha vari gradi di controllo: 1) Produzione simultanea di agonisti e antagonisti da parte del leucocita; 2) Produzione simultanea di IL-1R type I e II da parte delle cellule target. In questo modo il sistema può essere up o downregolato: 1) Se aumenta l’espressione dei componenti attivi aumenta di conseguenza il signaling lungo la via e quindi gli effetti biologici; 2) Se aumenta l’espressione degli antagonisti la risposta viene spenta. 90 Antagonisti ricombinanti di IL-1R sono usati come farmaci nel trattamento nelle malattie infiammatorie croniche, per esempio l’artrite reumatoide. TNF contatta il recettore arrivandolo 3.3.11 Tumor necrosis factor Questa citochina condivide buona parte degli effetti biologici con IL-1, è sintetizzata come precursore di membrana che viene processato da una metallo-proteasi detta TACE (TNFα Converting Enzyme). I suoi maggiori produttori sono i fagociti mononucleati. Esistono due recettori con funzioni diverse, entrambi si attivano per trimerizzazione: 1) TNF receptor I (p55) che media l’apoptosi tramite un death domain (cascata dell’apoptosi via caspasi 8); 2) TNF receptor II (p75) che media gli effetti proinfiammatori attraverso la via di segnale che attiva il fattore di trascrizione NFkB. Per l’infiammazione ci interessa il recettore di tipo II: 1) Una volta attivato porta all’assemblamento di una serie di attivatori ed adattatori molecolari che uniti attivano una chinasi citosolica specifica chiamata IkB-chinasi (IKK); 2) IKK fosforila il suo bersaglio specifico IkB, questo è una proteina che fa parte di un complesso che contiene le subunità p50 e p65 del fattore trascrizionale NFkB attivo; 3) La fosforilazione di IkB ne provoca l’ubiquininazione e quindi l’invio verso la degradazione nel proteasoma; 4) Dalla degradazione di IkB vengono rilasciate le subunità p50 e p65 che non vengono distrutte dal macchinario proteolitico. Le subunità libere migrano nel nucleo dove interagiscono con i promotori dei geni bersaglio; 5) Il risultato è l’attivazione di molti geni per altre citochine. 3.3.12 Interleuchina 6 attivazione di IKK (IkB -chinasi) IKK fosforila IkB IkB viene ubiquitinato e quindi degradato nel proteasoma si liberano le subunità p50 e p65 che migrano nel nucleo attivazione dei geni bersaglio di NFkB quando il recettore viene attivato dimerizza transfosforilazione della porzione citoplasmatica fosforilazione di JAK e reclutamento di STAT JAK fosforila STAT Viene prodotta principalmente nel fegato, ma anche da macrofagi e linfociti. È una citochina pleiotropica in quanto interviene: 1) Nella risposta infiammatoria; 2) Nella risposta immunitaria; 3) Nell’emopoiesi. La sua produzione è indotta da vari segnali: 1) Stimolazione antigenica; 2) Da altre citochine (IL-1, IL-12, TNF); 3) Prodotta nei muscoli dopo esercizio fisico. le STAT vengono liberate e dimerizzano il dimero di STAT migra nel nucleo dove stimola la trascrizione dei geni bersaglio La trasduzione del segnale avviene tramite la via di segnalazione JAK-STAT: 1) Quando IL-6 contatta il recettore questo dimerizza; 2) I domini citoplasmatici dei recettori dimerizzati si transfosforilano reclutando le proteine STAT e fosforilano le proteine JAK associate al recettore attivandole; 3) Le JAK fosforilate sono in forma attiva e a loro volta fosforilano le STAT; 91 4) Le STAT fosforilate vengono rilasciate e dimerizzano; 5) Il complesso migra nel nucleo dove svolge funzione trascrizionale. Le funzioni di IL-6 sono di stimolare: 1) Gli epatociti a produrre proteine di fase acuta; 2) La crescita dei linfociti B; 3) Il differenziamento dei neutrofili (sostiene dunque l’infiammazione acuta). 3.3.13 Chemochine Le chemochine sono piccole proteine facenti parte di una sottofamiglia di citochine con attività chemiotattica, dirigono infatti il movimento dei leucociti circolanti verso i siti di infiammazione o danno. Sono circa 50 divise in 4 famiglie sulla base di differenze strutturali e funzionali, per questa classificazione è stata presa come riferimento la posizione di alcuni residui di cisteina conservati che formano ponti strutturali nel ripiegamento del polipeptide. Sono tutte proteine con discreta omologia di sequenza, che formano ripiegamenti simili differenti solamente per il numero e la posizione di queste cisteine particolari: 1) CXC, tra le due cisteine che contribuiscono al ripiegamento c’è un altro aminoacido qualsiasi interposto; 2) CC, in cui sono presenti 4 cisteine senza aminoacidi interposti; 3) C, sono presenti solo due cisteine; 4) CX3C con tre aminoacidi interposti. Nell’infiammazione sono importanti le famiglie CXC e CC: 1) CXC intervengono nell’infiammazione acuta richiamando PMN. Un esempio è CXCL8 (o IL-8) che lega il recettore CXCR8. Un sottogruppo delle CXC sono le ELR+ (di cui fa parte IL-8), tipicamente chemiotattiche per i neutrofili e per la loro attivazione (burst respiratorio), ELR è una sequenza caratteristica (o motivo) di 3 aminoacidi conservati situata verso l’N-terminale (Glutammato-Glicina-Arginina); 2) CC intervengono nell’infiammazione cronica richiamando e attivando i fagociti mononucleati (principalmente macrofagi) e fibroblasti. La più importante è MCP-1, Macrophage Chemotactic Protein (o CCL2), che interagisce con il recettore CCR2. Le chemochine sono citochine infiammatorie secondarie, la cui produzione è quindi stimolata dalle primarie precedentemente affrontate. La loro azione biologica è varia: 1) Attività chemiotattica costitutiva, ossia il traffico dei linfociti dentro e fuori dai linfonodi anche al di fuori delle risposte immuni; 2) Chemochine inducibili, regolano l’infiammazione e l’immunita; 3) Chemochine di interesse in ambito neoplastico coinvolte nel processo di metastatizzazione e angiogenesi, regolano la proliferazione di alcune cellule tumorali. Esistono recettori per le chemochine che non possiedono tutti gli elementi strutturali per trasdurre il segnale, per esempio in alcuni mancano i siti specifici fosforilabili, questo tipo di recettori quando legano il loro ligando lo titolano, ossia lo sequestrano, bloccando la segnalazione a valle (decoy receptors). Questo è anche un meccanismo attraverso alcuni virus e parassiti si difendono. 92 Da ricordare che i recettori per chemochine CXC4 e CC5 (CXCR4 e CCR5) sono porte d’entrata nelle cellule per il visur dell’HIV e rappresentano quindi un oggetto attuale di ricerca e trial clinico per nuovi farmaci anti-HIV (Maraviroc). 3.3.14 Platelet-Activating Factor (PAF) È uno dei mediatori vasoattivi fortemente chemotattico prodotto dai globuli bianchi. La fosfolipasi A2 idrolizza il legame estere tra il C-2 del glicerolo e l’acido grasso di una molecola fosfolipidica, formando in questo modo due prodotti: 1) Da una parte l’acido arachidonico, precursore degli eicosanoidi, precedentemente menzionato; 2) Dall’altra si forma il precursore del PAF, il liso-PAF che lega in posizione 2 del glicerolo un ossidrile (-OH). Il Liso-PAF viene utilizzato come substrato da un’acetiltransferasi che trasferisce un gruppo acetilico in posizione 2 formando il PAF. I recettori per il PAF hanno la classica struttura a 7 domini transmembrana. Tra gli effetti di questo mediatore troviamo effetti proinfiammatori come: 1) Aumento della permeabilità vascolare; 2) Chemiotassi, aumenta la motilità delle cellule dei globuli bianchi; 3) Può causare broncospasmo o broncocostrizione. 3.3.15 Reazione triplice della cute (di Lewis) Dopo aver affrontato tutti i protagonisti dell’infiammazione acuta si possono interpretarne alcuni fenomeni macroscopici. Per esempio il semplice passaggio di una punta sulla cute provoca in sequenza: 1) Impallidimento, per l’iniziale vasoscostrizione; 2) Arrossamento (in alcuni secondi), in quanto lo stimolo meccanico provoca la degranulazione dei mastociti in quel limitato distretto, quindi rilascio di istamina e conseguente vasodilatazione e iperemia. Tuttavia l’area arrossata è più grande dell’ipotetica area di diffusione dell’istamina dai mastociti degranulati e anche della diffusione del NO successivamente prodotto. Questo fenomeno è causato dalla stimolazione delle fibre sensitive da parte dei mastociti nell’area di interesse, attraverso il rilascio di mediatori chimici come ATP e sostanza P le fibre sensitive vengono stimolate e inviano un impulso antidromico amplificando in senso laterale la reazione andando a stimolare i vasi vicini tramite altri mastociti; 3) Gonfiore (dopo alcuni minuti) per l’uscita di essudato. 3.4 INFIAMMAZIONE CRONICA acuta fenomeni vascolari prevalenti angioflogosi infiammazione cronica fenomeni cellulari prevalenti istoflogosi 93 restitutio ad integrum caratterizzata da da esteso danno cellulare, a cui contribuiscono in parte le stesse cellule dell'infiammazione possibile functio laesa L’infiammazione cronica è causata da uno stimolo lesivo gereralmente caratterizzato da grande intensità e persistenza, e in cui il processo infiammatorio vede svolgersi nello stesso momento sia demolizione tissutale sia riparazione e rigenerazione dello stesso. Nell’infiammazione cronica la componente cellulare predomina su quella umorale, le cellule maggiormente implicate sono i macrofagi ma in parte anche i linfociti. L’infiammazione cronica è caratterizzata da: 1) Neoangiogenesi; 2) Fibrosi, formazione delle cicatrice di tessuto connettivo organizzato; 3) Tessuto di granulazione, un particolare tipo di connettivo, da cui deriva tramite un processo assimilabile alla rigenerazione: a) Il connettivo nella sede interessata dalla lesione comincia a produrre molti fibroblasti; b) Deposizione di collagene; c) Contiene molti macrofagi; d) Contiene inoltre molte gemme di capillari neoformati composti praticamente solo dallo strato endoteliale, ancora molto permeabili poiché immaturi, alcuni addirittura non ancora pervi e in formazione. Questa caratteristica rende il tessuto edematoso con presenza di molto essudato. Gli stimoli che inducono infiammazione cronica invece sono: 1) Reazione da corpo estraneo, una irritazione chimica o fisica prolungata, prodotta da particelle di materiale inerte, il quale è di difficile o impossibile eliminazione; 2) Infezione da microrganismi a bassa tossicità ma di difficile eliminazione; 3) Reazioni autoimmuni (artrite reumatoide, epatite cronica autoimmune, tiroidite autoimmune tipo Hashimoto, diabete mellito di tipo I). Macrofagi e linfociti vengono reclutati dall’endotelio venulare, che in un’area estremamente infiammata assume caratteristiche simili all’endotelio presente sugli organi linfoidi periferici deputato all’homing e al ricircolo dei linfociti. Questo particolare tipo di endotelio è chiamato HEV (High Endotelial Venule), esprime un set di molecole di adesione che lo rende molto efficiente nel reclutamento di leucociti: queste molecole di adesione sono dette PNAds (Periferal Node Addressins). Le PNAds sono una famiglia di ligandi per le L-selettine, mentre nei linfonodi vi sono molecole specializzate nel reclutamento di soli linfociti, nelle aree di infiammazione cronica la specializzazione è diversa in quanto devono reclutare soprattutto monociti. I monociti una volta migrati nel tessuto differenziano in macrofagi in attiva proliferazione, e si attivano man mano. Questa attivazione è dovuta a citochine secrete dai linfociti T attivati (IFNγ) o da stimoli non immunogeni come le endotossine, una volta attivati i macrofagi: 1) Fagocitano più attivamente; 2) Sono più efficienti nel degradare il materiale fagocitato; 3) Producono un numero altissimo di altre citochine; 4) Numerosi fattori di crescita: a) TGFβ (Transforming Growth Factor β); b) FGF (Fibroblast Growth Factor); c) PDGF (Platelet Derived Growth Factor); 5) Mediatori lipidici derivati dell’acido arachidonico; 6) Fattori angiogenetici.; Si noti però come l’aumento di attività dei macrofagi sia alla base di buona parte dei danni autoinflitti al tessuto dall’infiammazione cronica. 94 L’infiammazione cronica era un tempo classificata come: 1) Interstiziale (o aspecifica); 2) Granulomatosa (o specifica). 3.4.1 Reazioni granulomatose Un granuloma è una risposta infiammatoria focale ad andamento cronico caratterizzata dall’accumulo e dalla proliferazione di leucociti di tipo prevalentemente mononucleato (macrofagi). La funzione è quella di isolare e distruggere materiali difficili da eliminare perché scarsamente solubili o difficilmente degradabili. Le reazioni granulomatose possono dividersi in base all’eziologia: 1) Non immunitarie (o da corpo estraneo), la causa prima non è un infezione batterica e non interviene il sistema immunitario. Di solito sono piccoli granulomi che presentano pochi manicotti cellulari, con l’andare del tempo si riduce il numero di cellule al loro interno e il responsabile inerte della reazione risulta circondato da una sola capsula fibrosa; 2) Immunitarie (o da ipersensibilità), nelle quali è attivato il sistema immunitario, quindi saranno presenti anche linfociti. Importante è distinguere il granuloma dall’ascesso: 1) L’ascesso: a) Può essere grande da alcuni millimetri fino a vari centimetri; b) Contiene neutrofili morti; c) Ha consistenza semiliquida; 2) Il granuloma: a) È solido; b) Ha dimensioni piccole (qualche millimetro), i granulomi diventano grandi solo perché più granulomi possono fondersi tra loro; c) Può contenere aree di necrosi ma la maggior parte delle cellule sono vive. Nel granuloma i macrofagi attivati raggiungono un ulteriore grado di differenziamento e specializzazione: 1) In primo luogo si trasformano in cellule epitelioidi, dei macrofagi modificati più efficienti; 2) Dalla fusione di più cellule epitelioidi originano le cellule giganti multinucleate, sono metabolicamente molto attive e hanno un burst respiratorio 20-30 volte maggiore dei macrofagi normali. In base alle differenze istologiche si distinguono: a) Cellule giganti di Langhans, si trovano nei granulomi di tipo immunitario, hanno all’interno una caratteristica disposizione a ferro di cavallo periferica dei nuclei. È un classico reperto istologico dei granulomi tubercolari, nei quali è possibile vedere strutture calcificate; b) Cellule giganti multinucleate con disposizione casuale dei nuclei, spesso associate a granulomi da corpo estraneo. 3.4.2 Granuloma tubercolare Il granuloma tubercolare è un particolare tipo di granuloma immunitario, di caratteristico ha: 1) La presenza di aree di necrosi al centro; 2) Cellule di Langhans circondate da cellule epitelioidi (con nuclei ad aspetto caratteristico a ruota di carro, questo segno generalmente indica attiva produzione) connesse da giunzioni cellulari strette; 3) Uno strato più esterno di linfociti; 4) Una capsula fibrosa esterna isolante. 95 L’area di necrosi caratteristica di questo granuloma si presenta al taglio del reperto anatomico a fresco con un aspetto semisolido e biancastro (necrosi caseosa), amorfo quasi paracristallino, non visibile la basofilia classica dei nuclei quindi mancanza di cellule vive. L’agente eziologico del granuloma tubercolare è il Mycobacterium tubercolosis, questo micobatterio è caratterizzato da una spessa parete esterna che costituisce un importante fattore di virulenza, questo conferisce al batterio il vantaggio di essere impermeabile alla quasi totalità dei farmaci in terapia antibatterica (gli unici utilizzabili sono rifampicina e derivati dell’isoniazide), dall’altro lato però ciò determina un rallentamento degli scambi tra interno ed esterno, quindi le colonie micobatteriche cresceranno molto lentamente. I fattori che determinano la virulenza di questo microrganismo: 1) Uno strato relativamente sottile di peptidoglicano di rivestimento, a cui però sono anche legate altri tipi di molecole che rendono il patogeno indigesto ai fagociti: a) Arabino-galattani; b) Acidi micolici; 2) Non produce esotossine, solo alcune emolisine e lipasi: CereD, presenti nella parete batterica, sono rilasciate in seguito ad autolisi della stessa, si tratta di esteri di acido micolico con arabino-galattani legati a spezzoni di peptiglicano; 3) Non produce endotossine; 4) Fattore cordale, molecole derivate dall’acido micolico (dimicolil trealoso). Questa molecola: a) È responsabile del tipico accrescimento del micobatterio in cordoni a serpentino; b) Svolge un importante ruolo nel passaggio di molecole indispensabili alla crescita del batterio; c) Inibisce la fagocitosi e l’attivazione del burst respiratorio (attivazione dei macrofagi). 5) Non sintetizza la capsula; I micobatteri sono inoltre in grado di bloccare la fusione dei fagosomi con i lisosomi e la loro acidificazione. Per l’analisi istologica è necessaria una colorazione particolare chiamata di Ziehl-Neelsen che sfrutta l’acidoresistenza, il processo consta a grandi linee di una colorazione prima con fucsina, poi una decolorazione con HCl e infine una colorazione con Blu di Metilene. L’infezione da parte di questo patogeno avviene tramite inalazione o ingestione, dopodichè: 1) I macrofagi alveolari fagocitano il micobatterio, ma non sono in grado di eliminarlo, quindi questo riesce a iniziare a replicarsi; 2) Alcuni macrofagi muoiono provocando un piccolo danno cellulare e infiammazione locale, il rilascio di detriti batterici e cellulari induce il reclutamento in zona di altri fagociti e linfociti circolanti; 3) Nelle prime 12 ore vengono reclutati neutrofili, che sono totalmente inefficaci; 4) Successivamente vengono sostituiti da macrofagi e linfociti. Il fenotipo del macrofago attivato è il risultato dell’interazione lifociti-macrofagi tramite un pool di citochine, un ruolo chiave è rivestito dai linfociti T helper 1 (Th 1) che producono: 1) IFNγ che agisce sul macrofago: 96 a) Facendogli acquistare una maggior capacità fagocitica e microbicida; b) Aumentandone la produzione di citochine; c) Amplificando la risposta immunitaria potenziando la presentazione dell’antigene; 2) IL-12. E in parte da T helper 2 che producono invece: 1) IL-4; 2) IL-5; 3) IL-6; 4) IL-10; 5) IL-12. + E infine un ruolo è rivestito anche dai linfociti T citotossici (T CD8 ) che servono per riconoscere e uccidere le cellule in cui risiedono i micobatteri fagocitati ma non degradati, questo allo scopo di far fuoriuscire il microrganismo e sottoporlo all’azione dei macrofagi attivati più efficienti. 3.4.3 Tubercolosi primaria Si parla di tubercolosi primaria quando l’organismo e il sistema immunitario è al primo contatto con il patogeno tubercolare, la lesione avviene tipicamente nella zona subpleurica (ma non solo) nelle zone apicali del polmone, cioè quelle più ventilate. La formazione del granuloma si ha in genere nel giro di 5-6 giorni, se la reazione di contenimento ha avuto successo in alcune settimane l’infezione è risolta e tenuta sotto controllo: si forma il complesso primario di Ghon. Il complesso primario di Ghon comprende la lesione localizzata in un’area limitata del polmone e il relativo interessamento dei linfonodi ilari drenanti quel territorio. Nella lesione possono persistere micobatteri vitali anche per lunghi periodi, in una sorta di “letargo metabolico”, questa presenza richiede una continua sorveglianza immunologica + + ad opera di macrofagi attivati e specifici linfociti T CD4 e CD8 della memoria. 1) Se il granuloma viene sterilizzato l’infezione può dirsi eradicata e il soggetto guarito; 2) Se l’infezione è contenuta ma non eradicata, il micobatterio può persistere anche per decenni in attesa, in particolari condizioni l’infezione può riattivarsi e diffondersi andando incontro alla cosiddetta tubercolosi sencondaria. In entrambi i casi il soggetto interessato sarà positivo al test di Mantoux della tubercolina (vedi dopo). I tubercoli possono andare incontro a fibrosi e anche calcificazione. 3.4.4 Tubercolosi secondaria L’individuo che non ha eradicato completamente l’infezione si dice soggetto a lesione silente, se insorgono immunodeficienze di qualsiasi natura, il bilancio delle forze cambia: 1) Viene a mancare il continuo controllo immunitario; 2) Si ha riattivazione del complesso primario; 3) Il micobatterio riprende attivamente a moltiplicarsi all’interno dei granulomi; 4) I granulomi ricominciano a espandersi e possono anche fondersi con altri vicini. L’espansione del granuloma può andare a lesionare superfici libere del polmone,in questi casi la diffusione del patogeno sarà incontrollabile e verranno invase altre sedi del parenchima del polmone e dell’organismo in generale. Il granuloma può aprirsi in: 1) Un bronco; 97 2) Un vaso sanguigno, in questo caso il comportamento dell’infezione sarà differente in base al tipo di vaso infiltrato: a) Vena polmonare, il micobatterio attraverserà il cuore sinistro e potrà andare tramite circolo sistemico a tutto l’organismo; b) Arteria polmonare, si avrà la cosiddetta diffusione miliare all’interno del parenchima polmonare. La tubercolosi miliare è il fenomeno che avviene quando il granuloma infitra un vaso polmonare arterioso anche di un certo calibro, il micobatterio diffonderà a valle e l’area interessata avrà il tipico aspetto a “grani di miglio”, piccoli punti che rappresentano la diffusione capillare dell’infezione. Reazioni di questo tipo possono avvenire come tubercolosi secondarie ma anche in caso di infezioni primitive in soggetti già immunodeficienti. 3.4.5 Test della tubercolina (di Mantoux) e test Quantiferon Test in cui è prevista l’inoculazione intradermica di una dose di 0,1 ug di derivato proteico purificato (PPD) (5 unità di tubercolina), contenente gli antigeni del M. tubercolosis. La positività al test è data dall’insorgenza nel giro di 24 ore di un pomfo di cui vanno valutate le dimensioni per definire anche un grado di responsività del sistema immunitario. È una forma di DTH (Delayed-Type Hypersensibility), una reazione di ipersensibilità ritardata (di tipo IV) cellulomediata. Le citochine che intervengono in questa reazione sono: 1) IL-12: prodotta dai macrofagi, è un forte stimolo ai linfociti Th specializzarsi in Th1 e quindi favorisce indirettamente la produzione di IFNγ; 2) IFNγ, è un potente attivatore dei macrofagi, i quali in forma attivata producono importanti fattori come PDGF e TGFβ; 3) PDGF e TGFβ servono per il reclutamento e l’attivazione dei fibroblasti; 4) IL-2 viene prodotta dai linfociti T per indurre proliferazione dei cloni specifici ma anche per reclutare altri linfociti t nell’area. Il test Quantiferon ha man mano sostituito il precedente, è un test che misura le risposte immuni cellulo mediate (CMI) agli antigeni peptidici che simulano le proteine micobatteriche. Tali proteine (ESAT-6, CFP-10 e TB7.7p4) sono assenti in tutti i ceppi BCG (bacillo di Calmette-Guérin) e nella maggior parte dei micobatteri non tubercolari. In genere, il sangue dei soggetti infetti da organismi del complesso M. tubercolosis contiene linfociti in grado di riconoscere questi ed altri antigeni micobatterici. Il processo di riconoscimento comporta la generazione e secrezione della citochina interferone-γ (IFN-gamma ), questa viene utilizzata come marker di positività o negatività all’esposizione al micobatterio, con un’ottima sensibilità e specificità. 3.4.6 Ulcere e aderenze Le ulcere sono lesioni che comportano la perdita di sostanza di cute o mucose con scarsa o nessuna tendenza alla guarigione. Una estesa distruzione tissutale si associa a fenomeni rigenerativi e riparativi. Un classico caso sono le lesioni nel morbo di Chron o nell’ulcera peptica da H. pilory. Le aderenze si verificano quando un processo infiammatorio colpisce una superficie sierosa, nella quale è facile che si accumuli una grande quantità di essudato. L’agente che stimola l’infiammazione distrugge localmente il rivestimento mesoteliale e questo blocca quindi la produzione del film liquido che riveste le pareti sierose, il quale viene appunto sostituito dall’essudato infiammatorio fibrinoso. La fibrina dell’essudato causa l’incollamento delle due pareti sierose messe a contatto, a infiammazione risolta può verificarsi: 1) Fibrinolisi e quindi restitutio ad integrum con rigenerazione del mesotelio; 2) Organizzazione del tessuto fibroso e formazione di tessuto di granulazione, l’aderenza diverrà in questo caso permanente. 98 3.5 CONSEGUENZE DEI PROCESSI INFIAMMATORI I processi infiammatori sono accompagnati da un grado variabile di danno tissutale: 1) Nei processi acuti di piccole dimensioni e breve durata si ha generalmente bassa distruzione tissutale; 2) Nei processi cronici si ha spesso significativa distruzione tissutale, anche ad opera delle cellule dell’infiammazione stessa. Le conseguenze di un danno sono il risultato della sommatoria: 1) Delle caratteristiche del processo infiammatorio: a) Eziologia; b) Estensione della lesione; c) Durata; 2) Della ripetitività della lesione; 3) Della sede del danno; 4) Del tipo cellulare colpito, un parametro molto importante è la capacità rigenerativa delle cellule che costituiscono l’organo colpito, più è alta maggiore è la probabilità di una restitutio ad integrum; 5) Della forma della lesione; 6) Un fattore prognostico molto favorevole è l’assenza di necrosi; 7) Condizioni concomitanti che inibiscono il processo di guarigione: a) Presenza di corpi estranei (per esempio punti di sutura non rimossi); b) Inadeguato apporto di sangue; c) Infezioni; 8) Malattie che interferiscono con la guarigione, per esempio nello scorbuto, in cui la carenza di vitamina C, necessaria per l’idrossilazione di alcuni aminoacidi costituenti del collagene, provoca continua riapertura delle cicatrici (anche di quelle remote e già risolte). Si può avere totale risoluzione quando lo stimolo e la durata del processo sono limitati e reversibili. L’area infiammata sarà edematosa e presenterà una serie di cellule dell’infiammazione, gli eventi necessari alla riparazione sono: 1) Ripristino della normale permeabilità vascolare, questo avverrà tramite la neutralizzazione attiva o spontanea dei mediatori chimici; 2) Rimozione dell’essudato infiammatorio, in parte drenato dai vasi linfatici e in parte rimosso per pinocitosi dai macrofagi; 3) Eliminazione di tutti i detriti e dei neutrofili morti da parte dei macrofagi; 4) Infine eliminazione dei macrofagi stessi. 3.5.1 Tappe della guarigione In caso di ferita abbastanza profonda con emorragia: 1) Emostasi, formazione di un coagulo; 2) Infiammazione acuta, la presenza di tessuto necrotico e di batteri scatena la risposta infiammatoria, quindi si formerà essudato e reclutamento di leucociti; 3) Proliferazione di cellule stromali e parenchimali, se la sede è popolata da cellule con buona capacità rigenerativa, le cellule sane adiacenti alla lesione riceveranno segnali di tipo proliferativo. Prolifera sia il parenchima mentre lo stroma svilupperà tessuto di granulazione; 4) Angiogenesi, gemmazione di vasi nuovi dalle pareti dei vasi integri adiacenti con formazione di piccoli capillari inizialmente altamente permeabili (tessuto denso ed edematoso); 99 5) In seguito inizierà a proliferare più decisamente la componente fibroblastica e quindi comincerà la deposizione di matrice extracellulare. I vasi neoformati maturano, la componente cellulare diminuisce in favore di quella fibrotica, il tessuto sarà meno denso ed edematoso; 6) Rimodellamento tissutale, la matrice inizialmente depositata viene man mano sostituita da una nuova meglio organizzata definitiva; 7) Contrazione della ferita, i (mio)fibroblasti esprimono proteine tipiche del muscolo liscio e acquisiscono la capacità di contrarsi, questo riduce l’ampiezza della ferita avvicinandone i lembi. Ogni fase in qualche modo getta le basi per l’instaurarsi della successiva, cioè contiene i segnali e i fattori che stimolano i fenomeni che devono avvenire in seguito. 3.5.2 Modalità di guarigione delle ferite Dipendono dalla gravità della lesione: 1) Per prima intenzione (unione primaria), essenzialmente quella delle ferite chirugiche, riguarda ferite lineari, a margini stretti e ben suturati (la sutura riduce al minimo la perdita di sostanza). In questi casi non è quasi richiesto l’intervento del tessuto di granulazione; 2) Per seconda intenzione (unione secondaria), non ripristina completamente l’architettura tissutale originale. Riguarda ferite lasciate aperte per scelta o per necessità, di conseguenza il tessuto di granulazione si forma sul fondo della lesione e procede dal basso verso l’alto per riempirla. È un processo che richiede tempi relativamente lunghi e può comportare significative alterazioni morfologiche dell’area interessata. Guariscono tipicamente per seconda intenzione: a) Ferite lacero-contuse con margini frastagliati, aree necrotiche ed ematomi; b) Ferite infette; c) Ferite con perdita di sostanza, come ampie ustioni necrotizzate. 3.5.3 Processo riparativo per prima intenzione 1) Emostasi (minuti): si attivano i dispositivi emostatici dell’aggregazione piastrinica e della cascata coagulativa, la maglia di fibrina connetti i lembi della ferita. Ogni fase come è stato detto contiene i messaggi per la successiva, infatti: a) L’aggregazione piastrinica è associata al rilascio tra i vari anche del PDGF (Platelet Derived Growth Factor). Il PDGF è chemiotattico e mitogeno per i fibroblasti necessari nelle fasi successive. 100 b) Il taglio dei tessuti avrà sicuramente esposto il sangue a superfici cariche negativamente, quindi si attiverà il fattore XII della coagulazione con conseguente: Attivazione della trombina e creazione del tappo fibrinico; Azione chemiotattica dei fibrinopeptidi sui macrofagi; Azione fitogena sui fibroblasti; 2) Infiammazione (minuti-ore): per qualsiasi ferita la risposta infiammatoria si comporta ipotizzando la presenza di batteri (chiaramente tutte le ferite sono interessate da batteri ma per parlare di ferita settica c’è bisogno di una certa carica batterica). Quindi anche se la ferita è sterile si ha comunque richiamo di cellule dell’infiammazione mediante i soliti fattori chemiotattici, si tratta di una risposta stereotipata. a) La trama di fibrina costituisce un solido supporto e rende la fagocitosi più efficiente rispetto a un tessuto fluido come quello edematoso. Questo fenomeno è chiamato fagocitosi di superficie, è una delle modalità grazie alle quali i fagociti possono captare antigeni immobilizzati efficientemente; b) In questa fase si forma l’escara (o crosta): l’essudato esce dalla ferita e portandosi in supeficie costituisce un tappo al di sopra della lesione (funzione protettiva), inoltre disidratandosi contribuisce ad avvicinare i lembi della ferita; 3) Migrazione delle cellule residenti (24 ore): l’essudato si fa più marcatamente macrofagico (diminuiscono o scompaiono i PMN) e si attivano i fibroblasti. a) La fibronectina presente sulle maglie di fibrina costituisce una guida per i fibroblasti verso la zona lesionata; b) Dai vasi non danneggiati adiacenti all’area lesionata inizia la gemmazione di nuovi capillari; A due giorni dalla ferita la lacuna nell’epitelio viene parzialmente o totalmente ricoperta da nuove cellule epiteliali che proliferano al di sotto dell’escara (questa desquama infatti circa quando l’epitelio sottostante è nuovamente integro). I fattori che mediano questo processo sono: a) HGF (Hepatocyte Growth Factor), un fattore di crescita prodotto da cellule mesenchimali, che lega un recettore ad attività tirosin-chinasica chiamato MET. Viene anche detto scatter factor perché stimola la proliferazione e la motilità delle cellule epiteliali; b) Fattori della famiglia degli FGF (Fibroblast Growth Factor); c) EGRF (Epidermal Growth Factor Receptor), recettori ad attività tirosin-chinasica importanti anche in oncologia poichè correlati allo sviluppo di alcuni tumori. Sono normalmente presenti su cellule epiteliali e mesenchimali, lega una famiglia di ligandi tra cui HB-EGF (Heparin Binding – Epidermal Growth Factor), che si trova ancorato a strutture della matrice extracellulare e può interagire con il suo recettore in forma solubile o ancorata in membrana. Questo sistema di fattori di crescita attiva una serie di fattori trascrizionali tra cui AP1, STAT, PPARs (Peroxisome Proliferator Activated Receptors). d) TGFβ (Transforming Growth Factor β), ha attività antagonista, inibisce la crescita e direziona i suoi bersagli verso il differenziamento; 4) Rigenerazione (tessuto di granulazione): a circa 3 giorni si trovano molti macrofagi e fibroblasti che iniziano a depositare matrice seguendo le maglie di fibrina, inoltre i vasi che in precedenza stavano gemmando ora sono pervi e perfondono l’area della lesione. Avviene un forte cambiamento dell’ambiente: la tensione di O2 nell’area torna a livelli normali; 5) Cicatrice iniziale (7-10 giorni): il tessuto di granulazione si compatta per progressiva sintesi di collagene da parte dei fibroblasti (rimodellamento della matrice) e la lesione diviene man mano meno cellularizzata. Una volta deposta, la cicatrice non è inerte, è sottoposta a un turn-over molto rapido, quando questo turnover è ostacolato, per esempio dallo scorretto assemblaggio del collagene (vedi scorbuto), le ferite si riaprono; 6) Maturazione della cicatrice (mesi - anni): la zona di lesione originaria è diventata una massa fibrosa con pochissime cellule e vasi, la matrice è composta da molto collagene e poche fibre elastiche (dura, compatta e poco distensibile), conserva comunque un attivo turn-over. 101 3.5.4 Guarigione per seconda intenzione Quando la ferita è ampia e si ha netta perdita di sostanza, non si ha solamentente un semplice riempimento della lacuna con collagene: si ha il fenomeno della contrazione della ferita, per il quale la perdita di sostanza viene limitata, ridotta, e la quantità di cicatrice da deporre è minore. L’avvicinamento dei lembi è dettato dalla geometria della ferita e dalle caratteristiche del tessuto. All’interno di una comune ferita i fibroblasti assumono caratteristiche contrattili speciali (miofibroblasti), attivando infatti l’espressione di proteine tipiche del muscolo liscio come l’α-actinina, tra i fattori che contribuiscono a questo particolare differenziamento c’è il TGFβ. Il collagene di una cicatrice è diverso da quello del tessuto normale, presenta fasci sottili e disordinati. L’attività contrattile dei miofibroblasti unita alla presenza di uno scheletro di fibrina e/o matrice (opportunamente ancorati fra loro), contribuisce ad avvicinare i lembi della ferita aperta. 3.5.5 Risultato del processo riparativo Il tessuto di granulazione funge da stampo per la deposizione di matrice, l’area viene riepitelizzata ma visivamente presenta caratteristiche morfologiche differenti rispetto al tessuto originale: 1) È rialzata rispetto al tessuto circostante; 102 2) È priva di annessi cutanei (ghiandole e peli); 3) Ha un’alterata pigmentazione, di solito risulta più chiara ma può essere anche più scura a causa dell’errata integrazione del numero di melanociti. 3.5.6 Risposta trascrizionale al’ipossia Esiste un fattore trascrizionale direttamente responsivo alla tensione di ossigeno molecolare, ha la capacità di attivarsi quando si abbassa la pO2 nel tessuto. Il fattore è chiamato HIF-1 (Hypoxia Inducible Factor), i suoi target principali sono i geni rilevanti per una condizione d’ipossia, come VEGF. In definitiva il fatto che nei primi momenti del processo di riparazione ci sia una situazione di ipossia relativa, viene trasformato in un aspetto positivo poiché è l’ipossia stessa che stimola l’angiogenesi. Il meccanismo di HIF-1: 1) In condizioni di normossia HIF è comunque prodotto costitutivamente, tuttavia viene immediatamente processato ad opera di enzimi ossigeno-dipendenti ad attività prolil-idrossilasica. La presenza del cofattore ossigeno, in situazioni di pO2 normale, permette quindi l’idrossilazione di HIF, la quale è un segnale per il suo indirizzamento al proteasoma; 2) In condizioni di ipossia, le idrossilasi non possono più agire in quanto manca il cofattore, perciò HIF viene stabilizzato non avvenendo l’idrossilazione. L’emivita aumenta di molto e ciò permette a HIF-1 di raggiungere il nucleo dove, legandosi ad un’altra proteina (HIF-1β), costituisce un complesso trascrizionale attivo che promuove la trascrizione di vari geni tra cui appunto VEGF. Altri target importanti sono: a) Enzimi importanti nel metabolismo del glucosio; b) Fattori importanti per la proliferazione cellulare. 3.5.7 Proliferazione di elementi epiteliali Fattori come HGF, TGFβ e FGF controllano la proliferazione e la motilità delle cellule epiteliali, che si espandono tra l’escara (sopra) e il tessuto di granulazione (sotto), una volta che l’epitelio monostratificato è completo l’escara desquama. Uno dei primi segnali che determina la proliferazione delle cellule epiteliali è il venir meno dell’inibizione da contatto, che normalmente rappresenta il primo fattore limitante la crescita degli epiteli. Le cellule epiteliali ai lati della lesione hanno un margine libero, in aggiunta sono sottoposte alla stimolazione di numerosi fattori/segnali di crescita, tutto ciò favorisce la proliferazione. 3.5.8 Angiogenesi Esistono due modalità per la formazione di un vaso sanguigno: 1) Vasculogenesi, ossia la formazione di un vaso durante lo sviluppo embrionale; 2) Neoangiogenesi (o neovascolarizzazione), vasi preesistenti sono in grado di formare gemme di nuovi vasi. Lo sviluppo di un nuovo vaso prevede: 1) La degradazione proteolitica della membragna basale del vaso originario, al di sotto del quale ci sono le cellule endoteliali; 2) Proliferazione e migrazione specifica di cellule endoteliali verso lo stimolo angiogenetico; 3) Maturazione delle cellule endoteliali con inibizione della crescita e rimodellamento in tubi capillari; 4) Reclutamento di cellule periendoteliali (periciti) per i piccoli vasi e cellule muscolari lisce per i vasi di calibro maggiore. 103 Tra i principali fattori che guidano l’angiogenesi è già stato affrontato il VEGF, questo fa parte di una grande famiglia di fattori prodotta da cellule stromali e mesenchimali. La maggior parte delle nuove cellule endoteliali origina per proliferazione e gemmazione da vasi preesistenti, tuttavia alcune derivano da precursori midollari (endothelial progenitor cells) detti mesangioblasti, questi sono cellule relativamente indifferenziate in grado di formare endotelio nuovo. I mesangioblasti possono anche contribuire alla rigenerazione muscolare. I fattori di crescita coinvolti nell’angiogenesi sono: 1) VEGF, che favorisce lo “sprouting” (gemmazione) dai capillari; 2) Angiopoietine, che servono per reclutare i periciti; 3) PDGF, che è mitogeno per le cellule muscolari lisce e per i fibroblasti; 4) TGFβ, che inibisce la proliferazione delle cellule endoteliali e stimola la deposizione di matrice da parte dei fibroblasti. 3.5.9 VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) È una famiglia di fattori che origina da un singolo gene con molti esoni, si differenziano vari prodotti per splicing alternativo. Esistono anche molti recettori diversi, ma principalmente a mediare tutte le funzioni sui vasi è il recettore di tipo 2 (VEGFR 2). Quando il recettore lega il suo ligando si mettono in moto varie vie di trasduzione del segnale, tra cui: 1) Raf-MEK-Erk, che induce proliferazione delle cellule endoteliali; 2) p38 MAPK, promuove la migrazione delle cellule endoteliali; 3) PI3K-Akt-PKB, favorisce la sopravvivenza delle cellule endoteliali e aumenta la permeabilità vascolare agendo sul sistema dell’ossido nitrico. Inoltre affinchè si verifichi lo sprouting è necessario degradare la membrana basale in modo localizzato e ordinato, questo processo avviene ad opera di metallo proteasi di membrana (MMP) che vengono controllate dal PDGF. 3.5.10 Relazione tra matrice e vasi nell’angiogenesi La crescita dei vasi e la deposizione di matrice in una ferita sono fenomeni che avvengono contemporaneamente e sono governate da una serie di livelli di regolazione reciproca. Esistono delle interazioni dinamiche che guidano la formazione di nuovi vasi all’interno del tessuto di riparazione. Un ruolo importante è svolto dal recettore integrinico ανβ3, è un recettore per la fibronectina e per la fibrina (che svolgono un ruolo importante anche nella guida dei fibroblasti). Il recettore è espresso sulle cellule endoteliali ed è attivato specificamente dall’interazione con la matrice piena di fibronectina tipica del tessuto in riparazione, infatti se questo recettore viene inibito si blocca anche lo sprouting. Inoltre il legame con il ligando aumenta a sua volta l’espressione del recettore stesso, così il processo di angiogenesi si autosostiene. 3.5.11 Rimodellamento della cicatrice La cicatrice è in continua evoluzione, viene continuamente rimodellata. I supporti della matrice precedente vengono eliminati e sostituiti, questo processo è dovuto ad enzimi proteolitici come le metallo-proteasi (MMP); la nuova matrice depositata avrà elementi più specializzati nella resistenza e nel supporto meccanico. L’attività proteasica deve essere finemente controllata: l’esito del processo cicatriziale dipende dal corretto bilanciamento tra l’attività di rimodellamento delle proteasi e l’attività di costruzione della matrice. L’attività delle MMP è inibita da specifici inibitori detti TIMPs (Tissue Inhibitor of Metallo-Proteases). 104 3.5.12 Fattori che influenzano la guarigione delle ferite A livello locale: 1) Infezioni; 2) Caratteristiche della lesione: a) Tipo; b) Profondità; c) Estensione; d) Localizzazione; e) Irregolarità della superficie della ferita; 3) Inadeguato apporto ematico; 4) Presenza di necrosi e corpi estranei; 5) Movimenti a cui è esposta l’area lesa; 6) Esposizione a radiazioni (che contrastano l’attività mitogena delle cellule). A livello sistemico: 1) Infezioni sistemiche (per esempio TBC, sifilide); 2) Condizioni del sistema circolatorio (per esempio presenza o meno di aterosclerosi); 3) Disordini ematologici: a) Anemie; b) Granulocitopenie; c) Malattie emorragiche; 4) Alterazioni dello stato nutrizionale (per esempio ipoproteinemia, ipovitaminosi); 5) Stati dismetabolici (per esempio il diabete); 6) Assunzione di corticosteroidi. 3.5.13 Fibrosi e ruolo del sistema immunitario Fibrosi (definizione): processo citopatologico in cui si ha deposizione di tessuto connettivo in eccesso come conseguenza di un fenomeno di tipo riparativo o reattivo in un processo patologico (differente dalla rigenerazione del normale tessuto connettivo di un determinato organo). Il risultato è la formazione di una struttura permanente (cicatrice). Esistono citochine profibrotiche e antifibrotiche. Per quanto riguarda le profibrotiche: 1) TGFβ; 2) IL-13 (differenziamento verso Th2). Per quanto riguarda invece quelle antifibrotiche: 3) IFNγ (differenziamento verso Th1). Un importante livello di controllo nel turn-over della matrice avviene sul metabolismo dell’arginina: 1) Sotto l’influenza di citochine Th2 come IL-4 o IL-13 i macrofagi attivano un enzima specifico detto arginasi 1. L’attivazione dell’arginasi comporta produzione di prolina e dunque di collagene (di cui la prolina appunto è un costituente fondamentale). Inoltre queste citochine agiscono anche inibendo la produzione di TIMPs; 2) Sotto l’influenza di citochine Th1 come l’IFNγ i macrofagi attivano invece la nitrico sintetasi, che usa l’arginina come substrato per produrre NO, quindi sottrae l’arginina che servirebbe all’arginasi. Inoltre queste citochine hanno un effetto esattamente contrario a quelle Th2, favoriscono cioè la produzione di TIMPs. 105 3.6 PPR, PAMPs e DAMPs La fagocitosi può avvenire anche in assenza di qualsiasi processo di opsonizzazione o di altro segnale che aiuti l’interazione col batterio. L’immunità innata riconosce qualsiasi tipo di batterio senza segnali adiuvanti, e una volta riconosciuto è in grado di rispondere adeguatamente attivandosi. 3.6.1 PPR (Pattern-Recognition Receptors) I microrganismi vengono riconosciuti dai fagociti tramite i PRR (Pattern-Recognition Receptors) che riconoscono componenti comuni di organismi potenzialmente infettanti. I recettori si trovano in gran parte sui leucociti (macrofagi, linfociti, NK) ma alcuni di essi sono ubiquitari, oppure espressi su cellule epiteliali o endoteliali. Si distinguino due classi di PRR: 1) Endocytic pattern-recognition receptors, questo tipo di recettori riconosce il batterio come patogeno da fagocitare, quindi lo ingeriscono e lo distruggono in fagolisosomi, senza l’intervento di vie di segnalazione intracellulari. Questa classe include: a) Recettori per il mannosio, riconoscono un residuo di mannosio presente esclusivamente sui polisaccaridi della parete batterica. Non è assolutamente espresso da cellule eucariote, rappresenta quindi un segnale univoco di presenza di agenti infettivi; b) Recettori scravenger, legano molecole ricche di acido sialico; c) CD14, interviene nel riconoscimento di LPS (vedi dopo); 2) Signaling pattern recognition receptors, recettori con domini citosolici deputati alla trasduzione di segnali intracellulari. Questa categoria contiene la famiglia dei Toll-like Receptors (TLR) che hanno la caratteristica comune di modulare l’espressione di molti geni di citochine. 3.6.2 PAMPs (Pathogen-Associated Molecular Patterns) Sono molecole prodotte esclusivamente da microrganismi, all’interno dei quali svolgono funzioni importanti e indispensabili, spesso infatto possono essere parte integrante della struttura celluare, e vengono liberati in seguito a lisi o comunque in seguito ad un danno della cellula. Essendo molecole altamente conservate (cioè rimaste invariate nel corso dell’evoluzione proprio a causa della loro importanza per la sopravvivenza del microrganismo), se presenti e visibili al sistema immunitario, sono quindi dei marcatori univoci di invasione infettiva. I PAMPs appartengono alla categoria delle endotossine, ossia componenti strutturali dei microrganismi che divengono patogeni solamente perché è il nostro organismo ad aver sviluppato delle risposte immunitarie nei loro confronti come funzione difensiva. Una caratteristica delle endotossine è che sono rilasciate: 1) O dal patogeno (batterio, virus) morto e lisato; 2) Oppure quando il patogeno è in attiva proliferazione, quindi è anche indicativa del tasso di crescita. I PAMPs sono: 1) Prodotti solo da procarioti e non da eucarioti; 2) Sostanzialmente identici nei microrganismi della stessa specie; 3) Componenti essenziali per la sopravvivenza dei microrganismi, quindi non possono mutare tra ceppi diversi dello stesso patogeno (quindi non è necessaria una batteria troppo estesa di immunità innata per affrontarli: risposta stereotipata); 4) Marcatori di specie ma non distinti tra patogeni e non patogeni, cioè sono presenti anche in organismi saprofiti e commensali. 106 3.6.3 DAMPs Come varie cellule sono capaci di riconoscere i PAMPs, allo stesso modo i leucociti sono capaci di riconoscere a livello molecolare dei marcatori, dei pattern di danno cellulare, i damage-associated molecular patterns, DAMPs. Questi recettori rendono ragione di come avvenga una risposta infiammatoria sistemica senza la presenza di patogeni. I segnali di danno possono essere dipendenti da un microrganismo patogeno, ma possono anche segnalare un pericolo di natura diversa, come un grave danno a un tessuto. I trasduttori dell’informazione sono gli stessi, i TLR (vedi dopo), cambiano però le molecole segnalatrici. 1) Molecole prodotte in quantità inappropriata; 2) Molecole rilasciate da cellule morenti, che normalmente non si ritrovano libere, come ad esempio: a) Proteine istoniche, il più importante DAMP è un istone specifico (HMGB1) che i toll-like receptors riconoscono esattamente come un patogeno; b) Lo stesso vale per alcune heat shock proteins (HSP), proteine che permettono il corretto folding e il refolding in condizioni di stress; c) Anche l’ATP, quando rilasciato in grande quantità all’esterno, rappresenta un importante DAMP. Quindi, attraverso i toll-like receptors, anche delle molecole endogene sono in grado di indurre un programma trascrizionale identico a quello promosso dai PAMPs. Non sono solo i TLR a promuovere questo trasferimento di informazione, ma ci sono altre classi di recettori di sensori di danno, tra cui il recettore RAGE (Advanced Glycation End Products Receptor), recettore per i prodotti di glicosilazione, che altro non sono che proteine fortemente alterate in quanto troppo glicosilate, le quali sono presenti in condizioni patologiche di iperglicemia, ossia nel diabete mellito. Questa via di segnalazione è molto importante perché segnala non solo quando delle cellule sono morte, ma anche quando vi e un’alterazione grossolana della funzionalità dei tessuti. 3.6.4 TLRs (Toll-Like Receptors) Recettore Sede PAMPs Origine TLR 1 Ubiquitaria Lipopeptidi Batteri e micobatteri TLR 2 Cellule dendritiche, PMN e monociti Peptidoglicano e lipopeptidi batterici Gram + RNA ds Virus Lipopolisaccaride (LPS) Gram - Flagellina Batteri flagellati TLR 3 TLR 4 TLR 5 Cellule dendritiche, NK, upregolato sulle cellule epiteliali ed endoteliali Tutte le cellule dell’immunità (tranne che sui linfociti) Monociti, cellule dendritiche immature, cellule epiteliali, NK e linfociti T TLR 6 Linfociti B TLR 7 TLR 8 Linfociti B Monociti e in minor quantità in linfociti T e NK Acido lipoteicoico e diacil lipopeptidi RNA ss RNA ss Gram + Virus Virus È una famiglia di recettori originariamente individuata in Drosophila, scoperta primariamente come gene coinvolto nella definizione dell’asse antero-posteriore del moscerino durante lo sviluppo embrionale. Sono caratterizzati da: 1) Un dominio extracellulare LRR (Leucine Rich Region) ricco in leucine; 107 2) Un dominio intracellulare con alta omologia col recettore per IL-1 (IL-1R) detto anche TIR (Toll-IL1 Receptor); Hanno un modulo comune ma specificità diversa per PAMPs diversi, attivano tutti la stessa cascata che converge sul fattore trascrizionale NFkB, coinvolto nell’attivazione trascrizionale di molte citochine proinfiammatorie. Possono funzionare sia come monomeri che come dimeri. Alcuni TLR che funzionano sottoforma di dimeri sono: 1) TLR 1-2 che riconosce alcuni lipopeptidi batterici; 2) TLR 2-6 che riconosce alcuni componenti delle pareti dei gram + e lieviti. I Toll-like receptors costituiscono il punto di connessione principale tra immunità innata e specifica: oltre che la secrezione di citochine, inducono anche la produzione di nuove molecole costimolatorie, per questo argomento si rimanda ai trattati di Immunologia. 3.6.5 LPS (LipoPoliSaccaride) Prodotto tipico dei batteri gram-, è un componente della parete batterica di questi microrganismi. Presenta: 1) Una porzione esterna che contiene il cosiddetto antigene O, questo è una catena di carboidrati ramificati ed è ceppo-specifico; 2) Una porzione interna molto costante chiamata lipide A, costituita da una serie di catene di acidi grassi comune a tutti i batteri. Costituisce uno dei PAMPs più importanti. L’LPS viene rilasciato quando la crescita batterica è in fase esponenziale quindi è un marker significativo di proliferazione batterica e induce infatti una potente risposta infiammatoria. Una volta rilasciato: 1) Si lega a una proteina detta LBP (LPS Binding Protein); 2) Il complesso LPS-LBP si lega a sua volta a una struttura presente sulla membrana dei linfociti detta CD14. CD14 è una GPI anchored protein, cioè è legata covalentemente ad un fosfatidil-inositolo di membrana, questa proteina può essere resa solubile dalla fosfolipasi C rilasciate dai batteri. Quindi in caso di infezione batterica il CD14 delle cellule immunitarie viene staccato e va a legarsi anche su cellule che non lo esprimono ma che presentano solo il TLR 4, è un meccanismo di amplificazione del segnale; 3) Il complesso LPS-LBP-CD14 a sua volta è riconosciuto dal TLR 4 che attiva quindi la cascata di NFkB; 4) Viene attivata la produzione di citochine infiammatorie primarie. L’attivazione del TLR 4 accende in poche ore la trascrizione di centinaia di geni, ci sono tre livelli attivatori, che si basano: 1) In un primo momento sull’attivazione di un pool di fattori trascrizionali preformati; 2) Dopodichè questi inducono la trascrizione di geni che, tra le altre cose, codificano per nuovi fattori trascrizionali; 3) Questi a loro volta fanno trascrivere un terzo livello di fattori ancora più numerosi. Vengono inoltre attivate: 1) Citochine infiammatorie: a) IL-1; b) TNFα; c) IL-6; d) IFNβ; 2) Fattori chemiotattici, chemochine e relativi recettori; 3) Fattori della coagulazione; 4) Meccanismi antimicrobici; 5) Fattori di riparazione tissutale; 108 6) Meccanismi di processamento e presentazione degli antigeni. 3.6.6 Sepsi e shock settico L’LPS induce la produzione delle citochine IL-1, TNFα e di IL-6 che sono i classici pirogeni endogeni, inoltre induce la sintesi di iNOS e di COX2. Nel caso in cui l’infezione raggiunga il circolo ematico (setticemia) si ha un’infezione e quindi infiammazione sistemica. I meccanismi che prima avvenivano a livello locale avverranno a livello sistemico: 1) Febbre molto alta, in quanto c’è massiccia produzione di pirogeni endogeni; 2) Shock da vasodilatazione periferica sistemica, per la produzione sistemica di NO sintasi e quindi ossido nitrico in elevate quantità; 3) Coagulazione intravascolare disseminata. Questo argomento verrà trattato in modo molto più approfondito nel corso di Fisiopatologia Generale. 3.7 EFFETTI SISTEMICI DELL’INFIAMMAZIONE Sono presenti quando le dimensioni dell’infiammazione primaria siano sufficientemente grandi. L’organismo risente sistemicamente delle infiammazioni che avvengono localmente, perché a questo livello vengono rilasciate molecole mediatrici che attraverso il circolo ematico possono agire su organi a distanza. Uno dei bersagli principali è il fegato, l’organo responsabile della produzione di una serie di molecole che costituiscono la risposta di fase acuta. La risposta di fase acuta è a grandi linee una serie di eventi sistemici che sono associati a una risposta infiammatoria locale. Gli effetti principali sono: 1) Febbre (ipertermia febbrile); 2) Leucocitosi, innalzamento del numero di leucociti circolanti (tipicamente PMN cioè neutrofilia); 3) Aumento drastico della produzione di alcune proteine plasmatiche da parte del fegato, cambia il pattern di espressione delle proteine del siero (proteine di fase acuta); 4) Questo causa aumento della velocità di eritrosedimentazione (VES). Gli effetti secondari sono: 1) Modificazione della concentrazione plasmatica di alcuni ioni bivalenti: 2+ 2+ a) Scendono le concentrazioni di Fe e Zn , la diminuzione del ferro è interpretabile come l’interesse dell’organismo di togliere un importante fattore di crescita batterico dal sangue per un’eventuale setticemia; 2+ b) Aumenta la concentrazione di Cu ; 2) Aumento del catabolismo muscolare in caso la risposta di fase acuta si protragga, ciò provoca atrofia muscolare; 3) Stimolazione della crescita immunitaria, proliferazione di linfociti B e T e NK; 4) Altri sintomi: a) Sonnolenza; b) Astenia; c) Inappetenza; d) Mialgia. Tutti questi effetti possono essere fatti risalire in maniera più o meno diretta alla produzione di citochine infiammatorie primarie in seguito all’infiammazione locale. 109 3.7.1 Risposta di fase acuta Le alterazioni del profilo proteico sanguigno durante il processo flogistico sono dette risposta di fase acuta. Le proteine di nuova sintesi sono dette proteine di fase acuta appunto per la precocità della loro comparsa (qualche ora), prodotte e secrete dagli epatociti sotto stimolo delle citochine infiammatorie primarie. La risposta di fase acuta determina: 1) Riduzione della sintesi di alcune proteine: a) Albumina; b) Transferrina; 2) Aumento del C3 del complemento; 3) Aumento della PCR (Proteina C Reattiva), una proteina plasmatica della famiglia delle pentraxine che ha la capacità di legarsi a diversi tipi di superfici in modo relativamente aspecifico, funziona molto bene come opsonina, influenza l’aggregazione piastrinica e attiva il complemento; 4) Aumento dell’α1-antitripsina, questa proteina inattiva numerose proteasi che potrebbero danneggiare i tessuti amplificando il danno (attività antiproteasica); 5) Aumento del fibrinogeno, poiché è probabile che in condizioni infiammatorie sia anche richiesto l’intervento della coagulazione; 6) Aumento della proteina amiloide sierica di tipo A (SAA, Serum AMyloid type A), la cui funzione non è ancora del tutto chiara, potrebbe contribuire all’attivazione dei PMN, inoltre va a sostituirsi alla apoproteina A nelle HDL; 7) Aumento dell’aptoglobina, ha la funzione di legare l’emoglobina rilasciata dai globuli rossi in caso di emolisi; 8) Aumento delle MBP (Mannose Binding Protein), una famiglia di proteine adesive che coadiuvano la fagocitosi (opsonine) e attivano il complemento; 9) Aumento della ceruloplasmina, proteina che lega e trasporta il rame, funziona come scravenger di radicali liberi. Nel caso della risposta di fase acuta non aumenta solo l’RNA messaggero, ma è tutto il macchinario trascrizionale, traduzionale e di maturazione delle proteine che aumenta in modo coordinato. Se l’infiammazione è protratta per più di una settimana le concentrazioni delle proteine di fase acuta scendono ma persistono su valori superiori al fisiologico (risposta rapida e transitoria ma che riesce a mantenersi a livelli elevati). Proteina di fase acuta PCR SAA Aptoglobina Fibrinogeno Albumina Transferrina Aumento dopo 1 giorno Aumento dopo 7 giorni >> 1000 >> 1000 + 20 + 20 - 20 - 20 + 30 + 200 + 150 + 100 - 50 - 50 In un’infiammazione cronica si ha alta concentrazione di SAA che, come spiegato precedentemente, ha proprietà amiloidogeniche, per cui in questi casi si è facilmente soggetti ad amiloidosi. 3.7.2 Leucocitosi Per leucocitosi si intende un valore di concentrazione leucocitaria nel sangue superiore alla norma. 3 Range di normalità: leucociti compresi tra 4000 e 11000 cellule per mm : 1) Sotto ai 4000 si parla di leucopenia; 2) Sopra ai 10000 si parla di leucocitosi. 110 3 Alcuni laboratori nei paesi industrializzati talvolta usano un limite superiore pari a 8500 cellule/mm , questo perché nei paesi sviluppati l’igiene è ad un livello tale che la popolazione non è più di tanto soggetta a infezioni e quindi il numero di globuli bianchi normali può essere considerato più basso (l’azienda ospedaliera di Padova comunque per le analisi sui pazienti ricoverati usa un limite superiore di 11000). 1) In caso di infezione acuta si ha tipicamente neutrofilia, cioè aumento del numero di PMN. È una conseguenza frequente di lesioni soprattutto se infettate da batteri piogeni, l’aumento dei neutrofili non è dovuto esclusivamente alla stimolazione specifica di questo lineage midollare, infatti di norma più del 50% dei PMN non sono circolanti ma si trovano in un pool reversibilmente marginato, gli stimoli che inducono leucocitosi richiamano il pool in circolo; 2) In caso di infezioni da parassiti o flogosi allergiche si ha eosinofilia; 3) La basofilia è molto rara; 4) Durante le infezioni croniche si ha monocitosi e linfocitosi (in base all’eziologia). Inducono stati di leucocitosi: 1) Stress; 2) Attività fisica; 3) Infiammazioni ed infezioni; 4) Alterazioni metaboliche. Tra gli effettori di questo fenomeno ci sono alcune citochine dette anche CSF (Colony Stimulating Factor), prodotte nel sito d’infiammazione secondariamente al rilascio di citochine infiammatorie primarie: 1) IL-3; 2) GSF (Granulocyte Stimulating Factor); 3) MSF (Macrocyte Stimulating Factor). Queste hanno come effetto sistemico l’ipeplasia midollare in toto. Altre citochine invece stimolano specificamente la produzione di globuli bianchi nel midollo: 1) IL-1; 2) IL-2, agisce sui linfociti T; 3) IL-5, agisce sui linfociti B e sugli eosinofili; 4) IL-7, agisce sulle cellule staminali linfoidi. 3.7.3 Aumento della VES (Velocità di EritroSedimentazione) È un test datato ma ancora di largo uso. È usato per determinare se nell’organismo è in corso un meccanismo patologico legato ad uno stato infiammatorio. Il principio su cui si basa è che i globuli rossi sospesi in una colonnina di sangue, in presenza di anticoagulante, tendono ad aggregarsi in “rouleaux”, cioè impacchi di GR, e a precepitare. Normalmente gli eritrociti sedimentano molto lentamente poiché la loro densità è circa equivalente a quella del plasma, e perché sono carichi negativamente sulla superficie (quindi si respingono impedendo l’impilamento). Quando cambiano alcuni parametri della composizione plasmatica è possibile che venga favorita l’interazione tra i GR e quindi la precipitazione sotto forma di rouleaux (molto più densi del plasma). La ragione principale è l’aumento del fibrinogeno che essendo carico positivamente si interpone tra i globuli rossi favorendole l’aggregazione. La VES normale si misura in mm/h, mentre quella alterata in cm/h. 111 3.7.4 Febbre La termoregolazione è posta sotto il controllo dei centri termoregolatori situati nell’area preottica dell’ipotalamo, i quali ricevono segnali termici: 1) Centrali, tramite rilevazione della temperatura del sangue circolante; 2) Periferici, tramite vie nervose in arrivo dai termocettori periferici (superficiali e profondi). I neuroni dei centri termoregolatori sono sensibili alle variazioni positive e negative della temperatura corporea rispetto a una temperatura di riferimento preimpostata di circa 37 °C (set-point ipotalamico). Quando la temperatura si sposta dal valore impostato si innescano i meccanismi termogenetici o termolitici, atti a riportare la temperatura al livello richiesto dall’organismo. Si parla di ipotermia quando si osserva abbassamento della temperatura al di sotto dei 37 °C. Si parla di ipertermia quando si osserva aumento temperatura al di sopra dei 37 °C: 1) Non febbrile, quando aumenta la temperatura corporea senza alcuna modifica del set-point ipotalamico: a) Per termogenesi; b) Per ostacolata termodispersione (colpo di calore o heat shock); 2) Febbrile, quando il set-point ipotalamico è innalzato, la temperatura corporea in questo caso avrà queste variazioni: a) Fase prodromica (di rialzo termico), in cui aumenta la temperatura perché viene percepita come inferiore a quella impostata nel set-point (termogenesi e termoconservazione, sensazione di freddo); b) Fase stazionaria (o del fastigio), durante la quale la temperatura rimane costante (sensazione di caldo dovuta all’alta temperatura corporea); c) Fase della defervescenza, nella quale diminuisce la temperatura per termolisi, l’abbassamento può essere: Graduale (lisi); Brusco (crisi). L’eziopatogenesi della febbre è legata al rilascio dei pirogeni endogeni dal sito dell’infiammazione verso il circolo sanguigno: 1) I pirogeni endogeni raggiungono i vasi ipotalamici adiacenti ai centri termoregolatori ed interagiscono con i recettori presenti sull’endotelio; 2) Le cellule endoteliali vengono stimolate a produrre mediatori lipidici infiammatori, dei quali il più importante è sicuramente la prostaglandina E2 (PGE2); 3) La PGE2 diffonde e agisce direttamente sui neuroni dei centri termoregolatori legando recettori specifici come EP3; 4) L’attivazione dei recettori provoca aumento dell’AMPc con conseguente disregolazione del set-point ipotalamico, il quale viene impostato su una temperatura maggiore. Questo argomento verrà trattato in modo molto più approfondito nel corso di Fisiopatologia Generale. 112 3.8 NOTE 3.9 AUTOVALUTAZIONE 1) Descrivere le differenze tra infiammazione acuta e cronica a proposito della vascolarizzazione e dell’adesione dei leucociti ai vasi 2) Descrivere il processo di chemiotassi dei leucociti 3) Descrivere le tappe di guarigione di una ferita lacero-contusa infetta 4) Descrivere i meccanismi di fagocitosi messi in campo da un leucocita 5) Descrivere gli effetti dell’LPS 6) Descrivere gli effetti e le funzioni dell’istamina con particolare attenzione al meccanismo molecolare dell’interazione istamina-recettore H1 7) Descrivere gli eventi della fase vascolare dell’infiammazione acuta 8) Descrivere quali sono le forze in gioco nei processi di normale filtrazione vascolare e come queste cambiano durante l’infiammazione 9) Descrivere le fasi di rollin, adesione e diapedesi 10) Descrivere le fasi della guarigione per seconda intenzione 11) Dare una sintetica definizione (max 3 righe) dei seguenti termini: a) Prostaglandina b) Leucotriene c) Chemochina d) Citochine infiammatorie primarie e) TLRs f) Anafilotossina g) NO h) IL-1 i) Essudato e trasudato j) Proteine di fase acuta k) Tessuto di granulazione l) Ascesso m) Bradichinina 113 4. ONCOLOGIA GENERALE 4.1 DEFINIZIONI Il cancro è una crescita: 1) Cellulare (ma in un contesto tissutale); 2) Autonoma (solo relativamente poiché alcuni tumori al contrario sono dipendenti da ormoni, per esempio il tumore alla mammella); 3) Non causata da stimoli fisiologici (generalmente); 4) Progressiva (presenta stadi graduali e non è mai autolimitante); 5) Multifasica. Non è un sinonimo di tumore o neoplasia, infatti: 1) Un tumore è un accrescimento tissutale diverso da quello fisiologico; 2) Una neoplasia è la formazione di una massa patologica di tessuto, formata da cellule proliferanti anomale, sia benigna che maligna. Il cancro è una neoplasia maligna. 4.1.1 Metastasi Le metastasi sono emboli di cellule che si staccano da un tumore primario e che per via ematica o linfatica colonizzano tessuti anche distanti. Si tenga presente che più del 50% dei pazienti arrivano dal medico con metastasi. 4.1.2 Ipertrofia Aumento di volume di un tessuto o di un organo per aumentato volume delle singole cellule che lo compongono. 4.1.3 Iperplasia Aumento di volume di un tessuto o organo per aumentato numero di cellule che lo compongono. 4.1.4 Metaplasia Processo in cui la cellula passa da uno stato differenziato ad un altro stato diversamente differenziato ma non istologicamente patologico. È un processo reversibile, in quanto se viene sospeso lo stimolo le cellule riprendono il normale commitment (geneticamente determinato). La metaplasia è dovuta ad un diverso differenziamento delle cellule staminali della sede interessata, non riguarda cellule già maturate, è legato quindi a una modifica di espressione genetica in cellule che stanno maturando e che sono coinvolte nel turn-over del tessuto. 4.1.5 Anaplasia Scarso o assente differenziamento de tessuto considerato (disorganizzazione tissutale), non è riconoscibile l’origine istologica del tessuto analizzato. Può essere: 1) Di posizione, organuli disposti a caso e nucleo dislocato; 2) Citologica, diversa dimensione del nucleo, proprietà tintoriali e rapporto nucleo/citoplasma. 114 4.1.6 Carcinoma in situ Una lesione già considerata cancerosa ma che non ha ancora attraversato la membrana basale, è il primo stadio del cancro, quindi rappresenta già una situazione irreversibile. 4.1.7 Lesione precancerosa Concetto statistico per il quale una lesione ha un elevato rischio di evolvere in cancro. 4.1.8 Displasia Alterato differenziamento e disposizione della cellula nel tessuto. Spesso una displasia, soprattutto se di grado grave, è considerata una lesione precancerosa, si pensi alla classificazione CIN (Cervix Intraepithelial Neoplasia) per l’esame istologico della cervice uterina con la colorazione di Papanicolau (PAP-test). Recentemente, soprattutto ad opera della scuola di Anatomia Patologica padovana, il concetto di displasia viene visto più precisamente come carcinoma non invasivo, questo per sottolineare la caratteristica già carcinomatosa delle cellule displastiche, che fenotipicamente rassomigliano a quelle di un tumore invasivo, ma che ancora non hanno invaso i piani più profondi e non in grado quindi di dare metastasi. 4.2 CLASSIFICAZIONE DEI TUMORI Innanzitutto le neoplasie Neoplasie possono essere distinte in Benigne Maligne benigne e maligne. La Capsulate Non capsulate differenza fondamentale è Non invasive (espansive) Invasive data dalla capacità o meno di dare metastasi, nella gran Ben differenziate Poco differenziate parte dei casi un tumore Mitosi rare Mitosi frequenti metastatizzante è più Crescita lenta Crescita rapida aggressivo, più grave e con la Scarsa o assente anaplasia Anaplasia a vari gradi probabilità maggiore di Assenza di metastasi Presenza di metastasi recidivare. Esistono tuttavia delle eccezioni, per esempio esistono tumori maligni che non metastatizzano e tumori benigni che nonostante non siano invasivi rappresentano un grosso rischio per la vita del paziente affetto. Per esempio, tumori benigni che comprimono i tessuti circostanti, possono causare alterazioni pericolose per l’organismo (compressione cerebrale, oppure masse addominali che comprimono il canale digerente). La classificazione dei tumori può essere fatta in base a: 1) Sito anatomico, caratteristica importante per la sintomatologia, per l’evoluzione prognostica e per l’eventuale trattamento. Si prevede una prognosi anche in base alle sedi preferenziali di metastasi di un dato tumore (la prognosi è la previsione sul decorso e sull’esito di una patologia); 2) Tipo di tessuto e classificazione istologica, il tumore viene classificato in base al tipo di tessuto dove insorge, viene valutato l’aspetto micro e macroscopico: a) Neoplasie benigne che derivano dai foglietti ecto Benigne -oma Neoplasie ed endodermici si indicano con un prefisso riferito epiteliali Maligne -carcinoma al tessuto di origine seguito dal suffisso –oma; b) Neoplasie maligne che derivano dal mesoderma Benigne -oma Neoplasie si indicano con il termine sarcoma; connettivali Maligne -sarcoma c) Neoplasie maligne che derivano dai foglietti ecto 115 ed endodermici si indicano con il termine carcinoma; Tumori del sistema ematopoietico sono divisibili in: Linfomi, che si sviluppano nel tessuto ematopoietico; Leucemie, che si sviluppano nel sangue periferico; e) Neoplasie di origine istologica multipla e che coinvolgono diversi tessuti (angiomiolipomi, angiomi sarcomi); f) Neoplasie dovute ad alterazioni dell’embriogenesi (teratomi); g) Alcune neoplasie benigne che sono considerate come precancerose; 3) Grado istologico di malignità, valuta il grado di infiltrazione (grading) del tumore. Tra i parametri utilizzati ci sono: a) L’attività mitotica; b) I rapporti tra stroma e membrana basale; c) Eventuali infiltrazioni della capsula; d) Invasione vascolare; e) Presenza di cheratine (fattore prognostico negativo); f) Eventuale presenza di molecole di differenziazione sulla superficie cellulare (biologia molecolare). Il grading di un tumore viene espresso in gradi: a) Grado I (differenziazione 75-100%), buona conservazione degli attributi morfologici e funzionali del tessuto d’origine, poche mitosi, scarse variazioni di forma e delle dimensioni cellulari; b) Grado II (differenziazione moderata 75-50%), minor corrispondenza con il tessuto d’origine, maggior numero di mitosi, modeste variazioni di grandezza e forma; c) Grado III (differenziazione scarsa 50-25%), scarsa attinenza col tessuto d’origine, mitosi frequente; d) Grado IV (differenziazione nulla 25-0%), grandi variazioni di grandezza e forma delle cellule, alto grado di anaplasia; 4) Estensione, si valuta invasività e meta statizzazione (solo pochi tumori maligni non danno metastasi, per lo più tumori di origine cerebrale tipo neuroglioblastomi). 5) Classificazione citologica secondo Papanicolau, metodo di colorazione di un campione citologico prelevato con tampone, endoscopio o ago sottile: a) Classe I, reperto di normalità; b) Classe II, banale infezione; c) Classe III, cellule atipiche, ipotizzabile alterazione neoplastica; d) Classe IV; e) Classe V. d) 4.2.1 Stadiazione TNM Il tumore viene indagato sotto l’aspetto: 1) Clinico (visita medica); 2) Radiografico (diagnostica per immagini); 3) Chirurgico (biopsia); 4) Anatomo-patologico. La stadiazione TNM non è valida per tutti i tumori, per esempio le leucemie e i tumori non misurabili tramite diagnostica per immagini. Ha lo scopo di standardizzare il trattamento, valutare la prognosi e i risultati della terapia: 1) T: indica la dimensione del tumore primario e il suo grado di infiltrazione: a) T1 tumore confinato, limitato, non invasivo, non tocca la tonaca muscolare, molto piccolo; b) T2 parziale invasione della tonaca muscolare, grandezza 2-4 cm; c) T3; d) T4 il tumore invade i visceri oltrepassando tutte le tonache; 116 e) f) T0 nessun segno di tumori primitivi; Tis carcinoma in situ intraepiteliale, non supera la mucosa ma ha tutte le caratteristiche istologiche del carcinoma; g) Tx tumore primario clinicamente non evidenziabile (si riconoscono solo metastasi); h) pT1-2-3-4 stadiazione post intervento chirurgico; 2) N: (N = nodes) indica il numero di linfonodi distrettuali infiltrati da cellule metastatiche: a) N0 nessun linfonodo interessato (anche se ci sono metastasi); b) N1 presenza di un unico piccolo nodulo tumorale (2-3 cm); c) N2 presenza di più di un nodulo tumorale con misure più grandi; d) Nx dati insufficienti per la stadiazione; 3) M: indica le metastasi a distanza: a) M0 nessuna metastasi; b) M1 un’unica metastasi in un organo; c) M2 due metastasi in un singolo organo; d) M3 metastasi in organi diversi; e) Mx dati insufficienti per la stadiazione. Si ricordi che questa semplificazione è esplicativa ma non rappresentativa delle classificazioni TNM di tutti i tumori, infatti ogni categoria (polmone, fegato ecc.) per cui è stata scelta questa modalità di classificazione, ha i suoi parametri di dimensione e invasività che ne determinano le classi (TNM), scelti in seguito a consensus conference delle società scientifiche che studiano e regolano le singole materie (per esempio l’American Joint Commitee on Cancer e molti altri). Inoltre la classificazione TNM ha molti limiti, tra i quali: 1) Scarsa applicabilità a linfomi e leucemie; 2) Non standardizzabile per tutte le classi d’età (es. tumori dell’infanzia); 3) Elaborazione di classificazioni più semplici (es. carcinoma ovarico) 4) Non sempre esiste correlazione tra prognosi e grado TNM. 4.2.2 Modelli di cancro In quanto modelli non sono realtà biologiche, rappresentano delle ipotesi di quello che potrebbe essere la situazione reale: 1) Modello stocastico, tutte le cellule del tumore hanno la stessa potenzialità oncogena e le differenze fenotipiche sono causate dalla coesistenza di subcloni geneticamente distinti; 2) Modello a “cancer stem cells”, solamente alcune cellule sono i grado di rigenerare indefinitamente, le altre hanno capacità proliferativa limitata. Questo modello spiegherebbe la presenza di fenotipi diversi, ed è sostenuto dal fatto che: a) Non tutte le cellule tumorali sono in grado di proliferare formando colonie in vitro; b) Oppure alternativamente di causare tumore se trapiantate in un animale modello. 4.3 PROGRAMMA GENETICO E CICLO CELLULARE Tumori possono svilupparsi in qualsiasi tessuto in cui ci siano cellule in grado di replicare. La velocità di replicazione è di solito maggiore di quella che caratterizza le cellule normali, ma non sempre. Se un tumore prolifera lentamente ci metterà più tempo a diventare pericoloso (cioè a raggiungere dimensioni tali da mettere a rischio la vita), ma sarà anche meno aggredibile dai farmaci antitumorali, che tipicamente attaccano cellule con alto grado re plicativo (cioè in attiva proliferazione). 117 4.3.1 Programma genetico di una cellula La cellula normale presenta un suo programma genetico preciso, il quale determina: 1) Il potenziale replicativo, ossia il numero di divisioni mitotiche alle quali la cellula sarà sottoposta prima di morire per apoptosi (morte programmata); 2) Differenziazione, restrizione dell’espressione genica che comporta l’acquisizione di una specializzazione funzionale, quindi di un ruolo preciso nel contesto dell’organismo. La cellula tumorale invece presenta un programma genetico alterato: 1) Perdita del controllo del potenziale replicativo (immortalizzazione), aumenta la velocità replicativa e il numero di replicazioni è indefinito. In alcuni tumori come le leucemie, però, la velocità di replicazione delle cellule neoplastiche è minore di quella delle cellule normali, il clone cresce lentamente ma senza controllo. 2) Alterato programma di restrizione (trasformazione), alterata espressione genica con conseguente perdita del differenziamento fino anche all’anaplasia, alterazioni funzionali e disorganizzazione tissutale. 4.3.2 Ciclo cellulare La maggior parte delle cellule che compongono l’organismo non si trova dentro al ciclo, inoltre tessuti diversi avranno quote diverse di cellule in divisione. Anche in tessuti attivamente proliferanti solo un 10% di cellule è nel ciclo. La cellula entra in ciclo passando da uno stato quiescente ad uno di attiva replicazione tramite l’attivazione di diversi fattori. Dal punto di vista oncologico i fattori più importanti: 1) Complesso myc-max, il complesso attivo è formato da questi due componenti uniti, in caso invece siano presenti complessi max-max oppure max-mad si ha repressione trascrizionale. Max è espresso costitutivamente, quindi normalmente è molto abbondante e stechiometricamente è favorito il suo omodimero (non attivo), in caso di stimolo proliferativo viene attivato myc e viene promossa la formazione del dimero attivo. Alcuni substrati sono: a) Cicline; b) CDK (Ciclin Dependent Kinase); c) ODC (Ornitina DeCarbossilasi), enzima necessario per la sintesi dei nucleotidi; d) Cdc25, una fosfatasi delle CDK; e) hTERT; 2) Complesso fos-jun. Questi fattori funzionano solamente in forma di dimeri, quando uniti svolgono il ruolo di fattori trascrizionali. Il complesso ciclina-CDK è il complesso fondamentale che permette di progredire nel ciclo cellulare, ci sono cicline e CDK specifici per ogni fase. Per essere attiva la CDK deve essere fosforilata sul residuo 160 e defosforilata nei residui 14 e 15 (azione operata dalla CDC25). Il complesso ciclina-CDK attivo funziona come chinasi fosforilando altri substrati. Tra i più importanti substrati delle CDK c’è la proteina Rb (Retinoblastoma), responsabile del passaggio da G1 → S: 1) Rb defosforilata lega il complesso E2F; 2) Quando viene attivata la ciclina-CDK della fase specifica, questa fosforila Rb; 3) Rb fosforilata rilascia E2F il quale va ad attivare i geni della fase S. Ogni ciclina può associarsi solo a precise CDK. 118 Fase del ciclo Ciclina CDK G1 D 4e6 G1 tardivo E 2 S A 2 G2 e pre-M B 1 Il complesso della fase G2 è responsabile dei fenomeni di fosforilazione degli istoni, della laminina delle membrane nucleari e della frammentazione del Golgi e dell’ER. Le cicline hanno emivita molto limitata e vengono degradate rapidamente tramite ubiquitinazione (difetti di ubiquitinazione possono essere importanti in campo oncologico), questo spiega come avvenga il susseguirsi dei vari tipi nelle varie fasi. p53 è detto guardiano del genoma in quanto svolge il ruolo di controllore della stabilità genetica. È una proteina composta da 3 domini: 1) NTD (N-Terminal Domain), è il dominio che viene fosforilato per la sua attivazione; 2) Dominio centrale di legame al DNA che contiene motivi a zinc fingers; 3) CTD (C-Terminal Domain), dominio di regolazione. Gli stimoli che ne inducono la produzione sono: 1) Fattori genotossici; 2) Cancerogeni chimici; 3) Insulti cellulari (non genotossici come l’ipossia per esempio). p53 ha due proprietà: 1) Si può legare ad altre proteine modificandone il funzionamento; 2) Funziona come fattore trascrizionale. In caso di danno al DNA: 1) Delle chinasi (tra cui ATM, proteina mutata nella atassia telangectasia) fosforilano p53 attivandola; 2) Si blocca il ciclo cellulare; 3) p53 attiva i geni della riparazione e geni proapoptotici: a) GADD45, gene di riparazione del DNA utili in caso di danno lieve; b) BAX, squilibra la cellula verso l’apoptosi in caso di danni più gravi; c) 14-3-3σ, trasporta nel citoplasma il complesso ciclina-CDK rendendolo inattivo. Se il danno viene riparato p53 deve essere degradata, a questo scopo esiste un circuito di controllo autocrino: 1) p53 induce l’espressione di MDM2; 2) MDM2 stimola l’espressione di p90; 3) p90 ha effetto inibitorio su p53. Esistono dei sistemi di controllo, se il DNA è intatto la cellula continua il ciclo, se invece presenta anomalie avremo un blocco. In caso di arresto del ciclo sono attivati degli inibitori (spesso fase-specifici) che hanno il ruolo di interporsi tra ciclina e CDK impedendone l’interazione e quindi il funzionamento. Uno tra i più importanti è p21 (per le fasi G1 e G2), viene espresso dopo stimolo trascrizionale mediato da p53. Altri inibitori sono: 1) Quelli espressi dal gene CDKN2A che per splicing alternativo può codificare per: a) o p14, sequestra MDM2 impedendo l’inibizione di p53; b) o p16, inibisce l’associazione di CDK4 con la ciclina D bloccando il ciclo (è deficitario nei melanomi a predisposizione familiare). 2) TGFβ, induce l’espressione di: a) p15 che inibisce il complesso ciclina D-CDK4 (fase G1); b) p27 che inibisce il complesso ciclina A-CDK2 (fasi G1 tardiva e G2). 119 4.4 CRESCITA DELLA MASSA TUMORALE La crescita tumorale avviene a causa di: 1) Alterazione del potenziale replicativo (telomerasi); 2) Blocco dell’apoptosi (Bcl-2/BAX); 3) Apporto nutritivo (neoangiogenesi). 4.4.1 Alterazione del potenziale replicativo - il telomero Il telomero è una struttura specializzata localizzata alle estremità dei cromosomi, costituita da sequenze nucleotidiche esameriche ripetute in tandem (TTAGGG)n. La funzione è quella di proteggere i cromosomi da eventi di degradazione, fusione end-to-end tra cromosomi danneggiati e ricombinazione durante la divisione mitotica e meiotica. Nel neonato i telomeri nella maggior parte delle cellule possono anche essere lunghi 12 Kbasi, con le successive divisioni cellulari si accorceranno man mano. Ad ogni divisione viene perso un frammento di circa 50-200 nucleotidi all’estremità 5’ del lagging strand. La cellula può dividersi fino a quando non avrà esaurito praticamente tutta la lunghezza del telomero. Quando viene raggiunta una certa lunghezza critica (limite di Hayflik) la cellula percepisce un segnale inibitorio che la manda in senescenza replicativa, cioè smette di dividersi. La senescenza è quel periodo della vita di una cellula che si interpone tra il blocco della mitosi e l’apoptosi. La lunghezza critica è quella lunghezza alla quale il telomero non è più in grado di ripiegarsi nel caratteristico loop, una volta raggiunta vengono rilasciate le proteine che risiedono normalmente legate alla forcina (vedi figura). Le proteine rilasciate costituiscono un segnale che indica presenza di danno al DNA (la cellula percepisce come se ci fosse una rottura a doppio filamento), questo induce l’attivazione per fosforilazione di un pathway di morte cellulare programmata via p53. Se p53 è alterata è possibile che non si attivi la cascata apoptotica e che la cellula continui a dividersi, questo porta a graduale erosione delle estremità cromosomiche e in definitiva ad una instabilità genetica. La cellula dopo un certo numero di divisioni inizia a “mangiarsi” il patrimonio genetico e muore per necrosi, tuttavia l’instabilità genetica può anche favorire l’insorgenza di cancro, un passaggio fondamentale è l’immortalizzazione della cellula. Perché dall’instabilità genetica si passi al cancro deve attivarsi la telomerasi. La telomerasi è un complesso enzimatico composto da: 1) hRT (RNA template), che serve da stampo per l’allungamento del telomero, è il complementare della sequenza telomerica (AAUCCC). Nella cellula viene espresso costitutivamente. Il suo gene si trova sul cromosoma 3; 120 2) hTERT, è la parte enzimatica del complesso che usa il templato come stampo per costruire la ripetizione del telomero. Questa proteina ha un’omologia di sequenza del 95% con la trascrittasi inversa di HIV. Essendo hRT espresso in modo costitutivo, la presenza di telomerasi attiva dipende solo da hTERT, a ragion di ciò si è visto che il promotore sul suo gene è molto complesso. Il promotore di hTERT è sensibile a costimolazioni, cioè non è mai sufficiente un solo fattore attivante, ma è necessaria una stimolazione multipla. Il suo gene si trova sul cromosoma 5. La telomerasi oltre ad allungare il telomero ha anche altre funzioni, conferisce: 1) Resistenza all’apoptosi (le cellule muoiono meno facilmente); 2) Vantaggio proliferativo (le cellule replicano più in fretta). 4.4.2 Blocco dell’apoptosi Non è fondamentale per lo sviluppo di un tumore, ma in alcuni tumori è tipico. Un esempio paradigmatico è quello del linfoma follicolare, nel quale non si ha eccessiva proliferazione, ma le cellule neoplastiche non sono soggette ad apoptosi. La proliferazione è regolare, ma nei linfonodi, dove il turn-over è normalmente rapido, se non vengono eliminate le cellule “vecchie” queste si accumulano. Nel linfoma follicolare si ha overespressione di Bcl-2, un fattore antiapoptotico, la presenza eccessiva di questo fattore impedisce l’apertura dei pori per il citocromo c sui mitocondri bloccando quindi l’apoptosi. 4.4.3 Apporto nutritivo – neoangiogenesi Tutte le cellule devono trovarsi a una distanza massima di 100-200 μm da un vaso per poter sopravvivere e non andare in ipossia, in mancanza di neoangiogenesi un tumore non potrebbe espandersi oltre questa distanza. una delle caratteristiche importanti che stimolano l’angiogensi è l’ipossia stessa, infatti viene favorita la funzione di HIF-1 (vedi infiammazione). In caso di tumore si ha uno sbilanciamento in favore di fattori angiogenetici, tra i quali si trovano: 1) VEGF; 2) ESAF; 3) FGF; 4) TGF; 5) TNF; 6) Angiopoietina; 7) Angiogenina. Tra i fattori inibenti invece ci sono: 1) Angiostatina; 2) Endostatina; 121 3) Trombospondina; 4) TIMPs. p53 può inibire l’angiogenesi sequestrando HIF-1 e promuovendo la trascrizione dei geni per i fattori inibenti appena nominati. Inoltre è da sapere che alcuni oncogeni attivati (tra cui RAS) possono favorire l’angiogenesi tramite stimolazione di VEGF. 4.4.4 Curva di crescita Gompertziana Durante le fasi iniziali di sviluppo la crescita di un tumore è esponenziale, quando il tumore aumenta di volume e diviene clinicamente evidente (minimo 1 grammo), la crescita rallenta e non ha più un andamento esponenziale. La crescita segue questa espressione: N = N0 . (Kp – Kl) . t N = numero di cellule al momento t N0 = numero di cellule iniziali Kp = tasso delle cellule in proliferazione Kl = tasso di cellule morte/perse t = tempo trascorso Tpot = è il tempo potenziale di raddoppio della massa neoplastica Td = è il tempo reale di raddoppio della massa neoplastica Tc = è il tempo di duplicazione cellulare Le relazioni che intercorrono tra questi tempi sono: 1) Tpot > Tc perché non tutte le cellule sono proliferanti e quelle che proliferano non lo fanno in modo sincrono; 2) Tpot < Td perché c’è sempre una quota di cellule che vengono perse: a) Necrosi nella regione centrale del tumore; b) Instabilità genetica; c) Mancanza di nutrienti; d) Non tutte le cellule sono in grado di proliferare; e) Sistema immunitario; 3) Tpot = Tc solo all’inizio della crescita (1,2,4,8 ecc.) Il tempo di raddoppio delle metastasi è generalmente più basso di quello del tumore primitivo, questo può spiegarsi perché: 1) La metastasi parte da dimensioni di una piccola masserella tumorale quindi non ha problemi di angiogenesi; 2) Per lo stesso motivo non ha un grosso tasso di perdita cellulare per necrosi; 3) È probabile che le cellule che sono riuscite a metastatizzare abbiano un potenziale re plicativo più elevato. 4.5 LA CELLULA NEOPLASTICA Le modificazioni a livello cellulare, molecolari e morfologiche, riguardano il nucleo e la membrana,mentre quelle a livello funzionale riguardano le interazioni tra varie cellule. 122 4.5.1 Alterazioni morfologiche Le alterazioni di carattere generale sono: 1) Volume cellulare (generalmente aumentato); 2) Forma della cellula alterata; 3) Aumentato rapporto nucleo/citoplasma, le cellule in attiva replicazione hanno tipicamente un nucleo più grande, per misurare l’alterazione è necessario porre a confronto la cellula neoplastica con una normale con la stessa origine. Questa alterazione non è sempre rispettata (per esempio nel linfoma di Hodgkin nel quali sono presenti le cellule di Reed-Sternberg, dei linfociti giganti originati dall’unione di più cellule). A livello del nucleo risulta alterato: 1) Il numero (la cellula neoplastica può essere multi nucleata); 2) Le dimensioni (generalmente aumentate); 3) La colorabilità (generalmente più eosinofilo); 4) La membrana nucleare (può presentare più pori); 5) Il cariotipo. Nel citoplasma le alterazioni rilevabili possono essere: 1) Reticolo endoplasmatico (generalmente aumentato); 2) Mitocondri (generalmente aumentati); 3) Alterazione del citoscheletro; 4) Alterazione della membrana plasmatica. 4.5.2 Alterazioni cromosomiche Le alterazioni del cariotipo sono frequenti nelle cellule tumorali: 1) Numeriche (monosomie, trisomie); 2) Strutturali, che si dividono in bilanciate e non bilanciate in base alla quantità di DNA ma non alla qualità, cioè che alcuni geni possono essere alterati nella funzione anche nelle bilanciate pur essendoci tutto il materiale genetico originario. a) Bilanciate: Inversioni; Traslocazioni; b) Non bilanciate: Delezioni; Duplicazioni; Isocromosomi; Inserzioni; Cromosomi ad anello; Amplificazioni; Rotture. I siti fragili sono zone di DNA specifiche particolarmente soggette a danno/rottura. Si tratta di: 1) Sequenze specifiche trinucleotidiche; 2) Oppure zone ricche in AT; 3) Corrispondono a regioni con minor addensamento della cromatina, quindi più accessibili ai cancerogeni chimici; 4) Sono sensibili all’età. 123 Ci sono circa 120/130 siti comuni nella popolazione generale, mentre un 5% della popolazione presenta siti fragili rari connessi talvolta anche a condizioni di ritardo mentale. Vicini a questi siti fragili (o addirittura sovrapposti ad essi) sono presenti dei geni per oncogeni o per oncosoppressori, oppure anche per miRNA (vedi dopo). Alcuni esempi sono: 1) FRA3B, è un sito fragile sensibile a molti cancerogeni chimici (per esempio il fumo di sigaretta), che contiene il gene per l’oncosoppressore FHIT, espresso nel tessuto polmonare e che manca in certi tumori; 2) Cromosoma Philadelphia, è il cromosoma che origina dalla fusione tipica 9-22, la fusione avviene a livello dei geni abl e bcr e da luogo ad un gene ibrido, dalla cui trascrizione viene prodotta una nuova proteina detta di fusione (bcr-abl). Questa alterazione è responsabile della leucemia mieloide cronica; 3) Linfoma follicolare (traslocazione 18-14), in questo caso il gene di Bcl-2 è traslocato in una regione regolata dal promotore delle Ig, quindi viene espresso costitutivamente e in grande quantità e di conseguenza vi è un blocco dell’apoptosi; 4) Linfoma di Burkitt (traslocazione 8-14), in questo caso è il gene di myc a finire sotto il promotore delle Ig provocando una proliferazione incontrollata. 4.5.3 Alterazioni delle interazioni tra cellule Viene alterato il comportamento biologico della cellula: 1) Perdita di ancoraggio, le cellule perdono la capacità di aderire ad altre cellule simili, questo fatto legato alla presenza di neoangiogenesi può provocare l’entrata in circolo di tali cellule tramite nuovi capillari molto permeabili. Inoltre se la cellula neoplastica acquisisce adesività eterotipica può attecchire in un tessuto differente da quello di origine. Nel sarcoma di Rous, che colpisce le cellule di pollo, l’oncogene Src trasportato dal virus, codifica per una proteina che fosforila la vinculina rendendola inattiva e sconvolgendo quindi la placca di adesione intercellulare; 2) Perdita dell’integrazione nel contesto tissutale, la disorganizzazione deriva dalla fosforilazione inappropriata di proteine che compongono la placca di adesione, che rappresenta l’interfaccia tra il citoscheletro e la matrice extracellulare. Questa alterazione può non essere sufficiente per causare tumore ma è molto importante per la disseminazione; 3) Perdita dell’inibizione da contatto; 4) Perdita della crescita densità dipendente; 5) Capacità di crescere in terreni semisolidi; 6) Ridotta adesività omotipica e aumentata adesività eterotipica; Nelle interazioni tra le cellule sono coinvolte molte molecole di adesione, alcune importanti in oncologia sono: 1) Le integrine, molecole di adesione formate da due subunità (α e β),possono contattare molecole diverse (contatto eterotipico), esse si legano a componenti della matrice (per esempio fibronectina, fibrinogeno, trombospondina), oppure ad altre molecole di adesione sulla superficie di altre cellule (come le ICAM-1 e 2). Possono attivare pathway di trasduzione del segnale all’interno delle cellule, importanti per la motilità e per l’adesione cellulare. 2) Le caderine al contrario delle integrine mediano legami omotipici, cioè contattano altre caderine su altre cellule. Hanno questo nome perché il legame è mediato anche da calcio. La down regolazione delle caderine è tipica di cellule fortemente metastatiche. 3) Le N-CAM sono molecole di adesione appartenenti alla superfamiglia delle Ig, mediano legami omotipici come le caderine; 4) Le selettine, importanti chiaramente nell’interazione con l’endotelio. 124 4.6 METASTASI Le metastasi sono emboli di cellule che si staccano da un tumore primario (o da altre metastasi) e che per via ematica o linfatica colonizzano tessuti anche distanti. le metastasi hanno un organo tropismo (cioè tumori specifici danno metastasi in determinate sedi preferenzialmente) che dipende da: 1) Sede anatomica del tumore primario, è importante per l’anatomia dei vasi ematici e linfatici che vascolarizzano quel distretto e quindi chiaramente per la disseminazione; 2) Istotipo e caratteristiche molecolari delle cellule neoplastiche (molecole di adesione espresse); 3) Fattori di crescita nel tessuto in cui finisce la metastasi (microambiente). L’organotropismo è importante per la stadiazione e per il follow-up di un dato tumore. 4.6.1 Disseminazione Può avvenire per via: 1) Ematica, in vari sarcomi, nel carcinoma renale, prostatico ed epatico; 2) Linfatica, in vari carcinomi; 3) In cavità, come la disseminazione in peritoneo nel carcinoma del colon-retto e quella in pericardio nel carcinoma polmonare. Ogni distretto ha dei linfonodi detti “sentinella”, vengono individuati iniettando un colorante e osservando il primo linfonodo captante. È importante nella stadiazione per determinare il grado N. La storia naturale di un processo metastatico è: 1) Crescita del tumore primario; 2) Neoangiogenesi; 3) Invasione dei tessuti con interessamento dei vasi linfatici, capillari e vene; 4) Embolismo e trasporto; 5) Arresto in tessuti a distanza; 6) Adesione alle pareti vasali; 7) Estravasazione; 8) Creazione di un microambiente; 9) Se favorevole → proliferazione (il processo può ripetersi). Non tutte le cellule che embolizzano da un tumore poi andranno a formare una metastasi. La metastasi è un processo molto frequente riferito ai tumori in generale, in quanto la maggior parte di essi, soprattutto se non trattati, darà origine a metastasi. Tuttavia riferito alle cellule è un evento rarissimo, si pensi che solo lo 0,01 delle cellule neoplastiche rilasciate e circolanti sarà in grado di metastatizzare. La penetrazione nei tessuti è favorita da: 1) Perdita di molecole di adesione omotipiche; 2) Espressione di selettine, ligandi per le selettine endoteliali e citoadesine (come CD44). CD44 è una proteina di membrana che per splicing alternativo può avere molte varianti diverse per potere adesivo. Le cellule neoplastiche a seconda di quale CD44 presentano possono avere più o meno capacità metastatica; 3) Viaggio in circolo sottoforma di emboli non troppo piccoli, masse troppo piccole hanno scarsa probabilità di interagire con l’endotelio. Dopo aver passato l’endotelio le cellule si trovano di fronte alla membrana basale, un ostacolo che deve essere degradato. Questo compito è svolto da: 125 1) Metallo-proteasi, come le collagenasi, gelatinasi e stromalisine che vengono prodotte come proenzimi e attivati a cascata al di fuori della cellula; 2) Attivatore del plasminogeno, una serin-proteasi di tipo urochinasico il cui substrato è appunto il plasminogeno. La plasmina attiva ha la capacità di rimodellare la matrice. L’attività di questa proteina è strettamente correlata all’espressione del suo recettore in membrana delle cellule neoplastiche, questo recettore lega la molecola e la attiva guidando il processo di rimodellamento. Alcuni oncosoppressori codificano per fattori inibenti la formazione di metastasi: 1) Inibitori dell’angiogenesi (p53); 2) Inibitori delle metallo-proteasi (TIMPs); 3) Inibitori dell’attivatore del plasminogeno (serpine). 4.6.2 Dormienza tumorale Cellule neoplastiche possono risiedere nei tessuti in uno stato di apparente quiescenza per mesi o addirittura anni, per poi risvegliarsi e dare origine a una massa tumorale in seguito a stimoli non ancora del tutto chiari. In studi su modelli animali sono stati identificati alcuni probabili fattori che favoriscono la dormienza: 1) Mancanza di stimolo angiogenetico appropriato (bilanciamento apoptosi/proliferazione); 2) Mancanza di fattori di crescita (per esempio mancanza di ormoni in tumori ormono-dipendenti); 3) Fattori immunologici, la dormienza può essere interrotta per esempio da stati infiammatori o di particolare immunodepressione. Sono quindi stimoli dettati dal microambiente (nicchia) che si crea attorno all’embolo metastatico quando invade un tessuto, questo può essere permissivo o meno. 4.7 MULTIFATTORIALITA’ E MULTIFASICITA’ DEL PROCESSO NEOPLASTICO Il cancro è una malattia dell’organismo e non solo di una singola cellula, quindi all’interno di un contesto tissutale e sistemico. È un processo: 1) Multifattoriale, perché ci sono più cause che concorrono alla genesi di un tumore. Possono essere fattori sia endogeni che esogeni; 2) Multifasico, ogni tumore è determinato (salvo rare eccezioni come per il retinoblastoma) da più alterazioni, sequenziali a carico di oncogeni e oncosoppressori. In genere i tumori solidi presentano un numero maggiore di alterazioni rispetto al neoplasie emolinfopoietiche. 4.7.1 Oncogeni Un oncogene è un gene modificato codificante per una proteina, che aumenta la malignità di una cellula tumorale. Un proto-oncogene è un gene normale che può diventare oncogene a causa di mutazioni o di un aumento dell’espressione. Tutti gli oncogeni (c-onc) evidenziati nelle cellule neoplastiche hanno una controparte nelle cellule normali (protoncogene) dove esercitano una funzione fisiologica. I protoncogeni sono: 1) Presenti in tutte le cellule; 2) Trasmessi come caratteri mendeliani classici; 3) Presenti in tutti i metazoi; 4) Altamente conservati filogeneticamente; 5) In numero finito; 126 6) Geni che codificano elementi funzionali alla proliferazione e al differenziamento cellulare. I protoncogeni codificano prodotti diversi: 1) Fattori di crescita; 2) Recettori per fattori di crescita; 3) Tirosin-chinasi e proteine G implicate nella trasduzione dei segnali intracitoplasmatici; 4) Fattori di trascrizione; 5) Fattori antiapoptotici. 4.7.2 Identificazione degli oncogeni 1) Omologia di sequenza (completa o parziale) con oncogeni virali (v-onc) veicolati da retrovirus. Il primo oncogene identificato è stato il gene per Src nel virus del sarcoma di Rous che induce tumori nel pollo. Il virus porta nel suo genoma un gene che codifica per un oncogene, il quale nella cellula sana ha una controparte non ontogenetica, quando il virus si integra viene prodotta la proteina Src, questa induce fosforilazione della vinculina e quindi la trasformazione cellulare (Src ha un omologo anche nell’uomo). Altri oncogeni identificati in questo modo sono fos, myc e jun; 2) Transfezione di DNA da tumori umani (sia prelevati da pazienti sia indotti in vitro da cancerogeni chimici). Il procedimento prevede: a) Estrazione del DNA da cellule tumorali; b) Taglio con enzimi di restrizione e costruzione di una libreria genomica; c) Trasferimento in cellule murine, alcune svilupperanno foci; d) Estrazione del DNA dalle cellule trasformate e ibridizzazione con sonde per sequenze Alu per individuare il frammento di DNA umano inserito in quello murino; e) Sequenziamento del DNA di interesse. Con questa metodica sono stati individuati oncogeni come Ras, Met e Ret; 3) Contiguità con sequenze virali (di retrovirus) integrate nel genoma della cellula: quando un retrovirus si integra nei pressi di un protoncogene possono attivare la sua trascrizione tramite le sequenze LTR che fungono da forti promotori. Nel caso della leucemia aviaria, il genoma virale si integra sempre vicino a c-myc promuovendone la trascrizione e quindi la proliferazione; 4) Anomalie cromosomiche tipiche (non random), alcuni tumori presentano anomalie tipiche, cioè che si ritrovano in tutti i soggetti affetti: a) myc nel linfoma di Burkitt (traslocazione 8-14); b) Bcl-2 nel linfoma follicolare (traslocazione 14-18); c) PML-RARA nella leucemia promielocitica (traslocazione 15-17); d) bcr-abl nella leucemia mieloide cronica e nella leucemia linfoblastica acuta (traslocazione 9-22); 4.7.3 Tipologie di oncogeni 1) Fattori di crescita: a) int-2, protoncogene che codifica una proteina simile al fattore di crescita per i fibroblasti; b) sis, codifica la catena β del PDGF; c) hst, codifica per una proteina legante l’eparina; 2) Trasduttori del segnale: a) Recettori dei fattori di crescita con attività tirosin-chinasica, tipo HERB-2 che fa parte degli ERB receptors (recettori per l’Epidermal Growth Factor) di cui esistono vari tipi. Il recettore quando viene contattato dal fattore di crescita dimerizza e si attiva per transfosforilazione, a sua volta attiva la cascata segnalatoria. Tutti i sottotipi di HERB richiedono omodimeri per funzionale, mentre HERB-2 può funzionare anche eterodimerizzando con tutti i componenti della famiglia. In alcuni tumori HERB-2 è amplificato e ha una configurazione particolare per cui in caso di omodimerizzazione (2 molecole di 127 HERB-2) si attiva senza dover ricevere il segnale del fattore di crescita, stimolando quindi la proliferazione. L’amplificazione di HERB-2 era un fattore prognostico negativo (prima dell’introduzione dell’Herceptin, vedi dopo); b) Tirosin-chinasi associate a recettori per fattori di crescita, come la proteina Src, che in forma di oncogene (v-onc) ha attività tirosin-chinasica autonoma e indipendente dall’attivazione recettoriale. Un altro caso è quello di abl che in caso di fusione con il gene di bcr perde la porzione regolatoria e assume attività costitutiva; c) Proteine G associate a recettori, sono proteine la cui attività dipende dal legame di un GTP nel sito allosterico, quando legate a GDP sono inattive, mentre quando sono attive (legate a GTP) stimolano la funzione dell’adenilatociclasi o la fosfolipasi C. L’esempio paradigmatico è quello di ras. Ras è una proteina G che legata al GDP è inattiva: Quando viene attivato il recettore a cui è associato, una GEF (Guanine nucleotide Exchange Factor) scambia il GDP con un GTP; Ras si attiva e accende la cascata segnalatoria a valle; Dopo un certo tempo una proteina GAP (GTPase Activating Protein) induce l’idrolisi da parte di ras del GTP; Ras si inattiva e si spegne la cascata (GAP è Ras-GDP un regolatore negativo). inattivo Nel caso di alcuni tumori ras risulta mutato in il recettore un aminoacido del sito catalitico responsabile GAP stimola associato a ras l'idrolisi del dell’attività GTPasica, questa mutazione viene attivato GTP comporta perdita della funzione, ras non idrolizzerà più il GTP anche se legata a GAP. Un’altra mutazione che può incorrere è quella il recettore Ras-GTP attivo attivo stimola che impedisce il legame di ras con GAP e quindi stimola la GEF cascata anche in questo caso è bloccata l’idrolisi del segnalatoria a GTP. Questi tipi di mutazioni comportano la valle permanenza di ras in forma attiva. GEF scambia il GDP di Ras con 3) Fattori trascrizionali, per esempio: un GTP a) fos-jun, è un fattore trascrizionale coinvolto nel ciclo cellulare, ha la capacità di legare il DNA (dominio leucine-zipper) e funziona solo con le due subunità dimerizzate. Tra i vari geni target che promuove c’è anche quello di hTERT; b) NFkB, è un fattore trascrizionale coinvolto nella trascrizione di tantissimi geni tra cui quelli delle citochine infiammatorie, dei fattori angiogenetici. Anche questo fattore può agire sul promotore di hTERT; c) myc anche questo fattore è coinvolto nel ciclo cellulare e nella trascrizione di hTERT. Se overespresso immortalizza la cellula. 4.7.4 Meccanismi di attivazione degli oncogeni I protoncogeni presenti nelle cellule sane, per passare alla loro attività oncogena (non fisiologica o comunque alterata), devono essere attivati ad oncogeni, questo può avvenire attraverso vari meccanismi: 1) Modificazioni qualitative, portano all’espressione di un prodotto non esattamente uguale a quello codificato dal protoncogene: a) Mutazioni puntiformi, come per il gene di ras (vedi sopra); b) Traslocazioni con formazione di geni ibridi e prodotti di fusione, come per bcr-abl (vedi sopra); 2) Modificazioni quantitative, comportano una maggior produzione di proteina: a) Per amplificazione genica, sono presenti nella cellula più copie del protoncogene, per esempio in caso di cellule iperploidi (più di due cromosomi dello stesso tipo) oppure più copie del gene sullo stesso 128 cromosoma (regioni HSR), oppure ancora si possono formare double minutes, ossia piccoli cromosomi soprannumerari che derivano da rotture in siti fragili e che poi in mitosi migrano scorrettamente. Questo meccanismo di amplificazione non si applica solo agli oncogeni ma a tutti i geni, per esempio è coinvolto nello sviluppo di resistenza a certi farmaci, uno di questi è il metotrexate (inibitore della diidrofolato reduttasi), dopo un certo periodo di trattamento con questo farmaco il gene che codifica il bersaglio inibito viene amplificato; b) Per traslocazione, un protoncogene può traslocare in una regione controllata da promotori o enhancer molto più forti rispetto a quelli di origine. Per esempio nel linfoma di Burkitt (vedi sopra) in cui il gene di myc finisce sotto il promotore delle Ig (generalmente davanti alle sequenze J), in questo tipo di linfoma la traslocazione avviene in linfociti che ancora non hanno riarrangiato i geni per le Ig. Nel caso invece del linfoma B, che colpisce tipicamente soggetti con AIDS trattati, la traslocazione avviene in linfociti che hanno già riarrangiato i geni delle Ig, questo tipo di linfoma risulta più letale del precedente; c) Per mutagenesi inserzionale, un retrovirus può integrarsi nelle vicinanze di un protoncogene attivandone l’espressione o overesprimendolo attraverso le sue LTR sequence, le quali funzionano come già accennato come forti promotori; 3) Modificazioni contestuali, trascrizione e sintesi inappropriata di oncogeni (fuori tempo e luogo fisiologici); 4) Trasduzione di oncogeni da genomi retrovirali, l’oncogene è trasportato dal retrovirus nel suo genoma, il quale si integra in quello dell’ospite inserendo quindi il prodotto nocivo nella cellula. 4.7.5 Oncosoppressori Sono geni che codificano fattori contrastanti la progressione del ciclo cellulare, proteggendo in tal modo la cellula dall'accumulo di mutazioni e danni in generale potenzialmente cancerosi. Quando questi geni sono assenti o inattivati, una cellula può progredire in un processo neoplastico (solitamente sono necessarie anche altre alterazioni genetiche). Affinché promuovano la formazione di un tumore devono essere soppressi entrambi gli alleli (loss of function), mentre per gli oncogeni bastava un allele difettoso. Gli oncosoppressori possono dividere in due categorie: 1) Geni caretaker, sono deputati al controllo della stabilità genetica, la loro inattivazione comporta instabilità generale del genoma, non favoriscono lo sviluppo di un particolare tumore ma aumentano il rischio di neoplasie in generale (per esempio p53, MSH2, ATM, BRCA 1 e 2); 2) Geni gatekeeper, svolgono funzioni precise, quindi la loro inattivazione comporta lo sviluppo di tumori specifici (per esempio APC). Alcuni esempi sono: 1) Rb (vedi sopra), quando il ciclo cellulare è in svolgimento questa proteina è iperfosforilata da p34cdc2; 2) p53 (vedi sopra), quando non funzionante o assente, è favorita l’instabilità genetica, per esempio nella sindrome di Li-Fraumeni, nella quale uno dei due alleli è assente, si ha predisposizione per tumori multipli. Inoltre è stata identificata una mutazione particolare a carattere dominante che conferisce a p53 caratteristiche oncogeniche; 3) WT-1 (Wilms Tumor), è una DNA binding protein che lega sequenze specifiche, compete con i fattori trascrizionali EGR1 attivati nelle cellule in risposta a fattori di crescita. La funzione di questa proteina è quella di moderare la proliferazione e controllare l’entrata nel ciclo cellulare. Nella sindrome di WAGR (la sigla riassume i quattro sintomi caratteristici: Wilms tumor, Aniridia, Genitourinary malformations, mental Retardation) è presente una particolare delezione a trasmissione familiare di uno dei due alleli. Nei tumori di Wilms su base familiare la delezione è di tipo diverso da quella presente in casi di WT sporadico. A questa sindrome è anche spesso associata infertilità, spiegabile dalla forte attività di questa proteina nel sistema genito-urinario; 129 4) APC (Adenomatous Polyposis Coli), è un importante oncosoppressore, la sua funzione è di legare le βcatenine, dei fattori trascrizionali attivanti geni del ciclo cellulare. Le β-catenine rimangono legate alle caderine quando queste sono impegnate con altre molecole simili sul versante extracellulare (inibizione da contatto), invece quando sono libere le rilasciano. La APC è quindi un sistema di controllo di questa via segnalatoria, in caso manchi è favorita la proliferazione; 5) FHIT (vedi sopra), coinvolto spesso in tumori polmonari (generalmente in quelli non a piccole cellule); 6) TGFβ, quando si lega al suo recettore cellulare attiva le SMAD, queste sono proteine che una volta attive dimerizzano e funzionano da fattori trascrizionali che attivano geni inibenti il ciclo cellulare. Questa molecola interviene quindi nel sistema di inibizione da contatto, alterazioni delle SMAD sono rilevabili in molti tumori; 7) MSH2, mancante nei tumori del colon-retto a predisposizione familiare non poliposici. È un gene coinvolto nella riparazione del DNA (nucleotide mismatch repair) insieme a MLH1. È la controparte umana dei geni del batterio MutS e MutL; 8) Locus CDKN2A (vedi sopra), mutazioni in questo locus danneggiano le proteine p14 e p16. 4.7.6 Identificazione degli oncosoppressori Sono stati identificati con varie metodiche: 1) Ibridi somatici, si possono formare cellule ibride dall’unione di due cellule distinte. Possono unirsi: a) Una cellula normale + una tumorale = con fenotipo normale; b) Due cellule tumorali = con fenotipo normale (i difetti sono diversi tra le due cellule e si implementano); Questo tipo di esperimenti dimostra la recessività del carattere oncosoppressivo; 2) Perdita di eterozigosi, si osserva in alcuni tumori sia sporadici che a predisposizione familiare. Questi tumori sono associati a delezione di entrambi gli alleli specifici. Il primo esempio identificato è quello di Rb, in cui si osservava che nelle famiglie con storia di retino blastoma, la patologia insorgeva precocemente, nei casi sporadici invece si verificava in età più avanzata. La differenza è dovuta al difetto genetico congenito a carico di uno dei due alleli nei casi a trasmissione familiare, la mancanza già dalla nascita di un allele rende più probabile la formazione del tumore in quanto è sufficiente una sola mutazione, nel soggetto sano invece perché si sviluppi il tumore sono necessarie due mutazioni consecutive nella stessa cellula. Inoltre il fatto di avere un allele già alterato rende più facile la perdita dell’altro; 3) Studio di tumori a trasmissione familiare attraverso metodiche di linkage con microsatelliti. Ogni cromosoma ha molti microsatelliti, cioè sequenze di nucleotidi ripetuti in tandem non codificanti che si trovano a volte vicino a locus specifici di interesse. Si confrontano cellule sane con cellule tumorali, si fanno ibridizzare i filamenti delle due cellule, se non ibridizzano vuol dire che qualche regione è alterata o mancante. Tramite i microsatelliti si può restringere il campo di ricerca nella regione di interesse. 4.7.7 Alterazioni a carico degli oncosoppressori 1) Perdita di eterozigosi: a) Perdita e duplicazione; b) Ricombinazione mitotica; c) Mutazioni; 2) Mutazioni puntiformi; 3) Inattivazione del prodotto proteico, come nel caso di HPV. Il virus del papilloma umano codifica per delle proteine che sequestrano e inattivano importanti oncosoppressori: a) E6 sequestra p53 e ne promuove la degradazione; b) E7 sequestra Rb. 130 4.7.8 Confronto oncogeni - oncosoppressori Protoncogeni Gain of function Attivazione Mutazione dominante Mutazione a carico delle cellule somatiche (non viene trasmesso alla prole) Oncosoppressori Loss of function Inattivazione Mutazione recessiva Mutazione a carico di cellule somatiche e/o germinali (può essere trasmesso ereditariamente) Modificazioni qualitative Mutazioni puntiformi Prodotti di fusione Amplificazione genica Attivazione in cis Attivazione in trans Mutazioni puntiformi Modificazioni quantitative Perdita di materiale genetico Inattivazione del prodotto proteico 4.8 SINDROMI Quando si ha l’alterazione di uno solo dei due alleli di un oncosoppressore non si ha necessariamente tumore (solo in alcuni rari casi), ma possono insorgere sindromi specifiche dipendenti dal gene alterato. Le sindromi sono caratterizzate da delezioni o mutazioni a carico di geni particolari che comportano un complesso di manifestazioni cliniche correlate al deficit genetico, sono condizioni congenite. Le sindromi possono essere: 1) Dominanti, ovvero solo un allele alterato e sindrome manifesta; 2) Recessive, entrambi gli alleli devono essere alterati perché la sindrome sia clinicamente evidenti. L’alterazione di un oncosoppressore rispetto ad un altro può predisporre l’individuo a sviluppare un certo tumore, ma: 1) È necessaria la mutazione anche dell’altro allele; 2) Sono necessarie altre alterazioni a carico di altri oncogeni e oncosoppressori. Non è mai sufficiente (salvo casi rari) un’unica alterazione ma sono necessari eventi multipli (multi hit). 4.8.1 Xeroderma Pigmentosum Sindrome autosomica recessiva legata al difetto genetico a carico dei geni deputati alla riparazione del DNA situati nel cromosoma 7. Le persone affette sono estremamente suscettibili a tutti i danni causati dai raggi UV, e spesso è associato un coinvolgimento neurologico (ritardo mentale). I soggetti interessati da tali sindromi hanno alta predisposizione a sviluppare tumori della pelle (melanomi, epiteliomi). 4.8.2 Atassia Teleangectasia - ATM La proteina ATM (vedi sopra) è coinvolta nella risposta al danno genetico, in caso di alterazione del DNA fosforila p53 attivandola e MDM2 inibendola. La sindrome è autosomica dominante in quanto è sufficiente un solo allele mutato, le manifestazioni cliniche comprendono: 1) Immunodeficienza, è alterato l’output timico in quanto ATM è importante nella maturazione dei linfociti T; 2) Degenerazione cerebellare (atassia); 3) Radiosensibilità, dovuta a scarsa attivazione di p53 in caso da danni da UV. 131 4.8.3 Sindrome di WAGR - WT-1 È una sindrome autosomica dominante, caratterizzata da: 1) Aniridia, alterazioni dell’iride; 2) Anomalie del tratto urogenitale e infertilità; 3) Ritardo mentale; 4) Predisposizione per i tumori di Wilms (deve mutare anche l’altro allele). 4.8.4 Adenomatosi poliposica familiare - APC Sindrome autosomica recessiva. Il gene è posto sul cromosoma 5. L’individuo nasce con un solo allele alterato, e durante la vita ha una forte probabilità di perdere l’altro. I soggetti affetti attorno ai 20 anni sviluppano polipi multipli, lo sviluppo di adenocarcinoma è la regola alcuni anni dopo la comparsa dei polipi. La malattia è caratterizzata da centinaia o migliaia di polipi non solo limitati al colon-retto, ma anche stomaco e duodeno. Per la funzione di APC si faccia riferimento al paragrafo 4.7.5. 4.8.5 Poliposi giovanile L’individuo nasce con un’alterazione (sindrome autosomica dominante) a carico di SMAD, ha un’alta probabilità di sviluppare carcinomi gastrointestinali o pancreatici. I polipi sono di tipo amartomatoso, non sono considerati neoplastici, ma il rischio di cancro associato è comunque più alto rispetto alla popolazione generale. 4.8.6 Tumori del colon retto a predisposizione familiare non poliposici - MSH2 L’alterazione di MSH2 (come di MLH1) è presente in varie sindromi e provoca un’instabilità genetica generale. La sindrome più famosa è anche detta sindrome di Lynch (HNPCC Hereditary Non Polyposis Colorectal Cancer), una forma autosomica dominante ad alta penetranza (80-85%) di cancro colon-rettale e rappresenta il 5% di tutti i casi di questa forma di cancro. L’alterazione di MLH1 comporta la cosiddetta instabilità dei microsatelliti, dovuta appunto al malfunzionamento del sistema del mismatch repair. 4.8.7 Sindrome di Von Hippel-Lindau - VHL Rara sindrome autosomica dominante in cui è mutato VHL, una proteina coinvolta (tra le altre cose) nella regolazione dell’angiogenesi. È in grado di sequestrare HIF-1 e mandarlo a degradazione nel proteasoma. Quando VHL è mutata si ha accumulo di fattori angiogenetici, i tumori associati sono tipicamente ipervascolarizzati. Il soggetto affetto può sviluppare: 1) Emangioblastoma; 2) Feocromocitoma, tumore maligno della midollare del surrene; 3) Carcinomi renali. Inoltre la sindrome è associata ad alta probabilità di sviluppare cisti (soprattutto renali). 4.8.8 Multiple endocrine neoplasia (tipo 1 e 2) Sindrome autosomica dominante che conferisce predisposizione allo sviluppo di tumori in varie sedi endocrine, sia contemporaneamente (tumori sincroni), sia a distanza di tempo (tumori metacroni). L’età di insorgenza è generalmente inferiore a quella dei corrispondenti tumori sporadici e il loro comportamento è più aggressivo. 132 Le MEN sono malattie rare la cui importanza è però legata alla possibilità di prevedere l’insorgenza di tumori nei soggetti a rischio e di instaurare quindi terapie opportune. I tumori correlati in genere non sono metastatizzanti. Ne esistono di due tipi: 1) MEN 1, è dovuta perdita di funzione del gene MEN 1 (cromosoma 11), è un gene oncosoppressore espresso ubiquitariamente; 2) MEN 2, dovuta a mutazioni attivanti del protoncogene RET, un recettore tirosin-chinasico per fattori di crescita. Le sindromi sono caratterizzate da lesioni neo o iperplastiche a: 1) Paratiroidi e tiroide (carcinoma midollare della tiroide); 2) Pancreas (a carico del tessuto neuroendocrino enteropancreatico); 3) Ipofisi (ghiandola Pineale). Questa è detta regola delle 3 P. 4.8.9 BRCA 1 e 2 BRCA è un importante gene in campo oncologico, è coinvolto nei meccanismi di riparazione del DNA: 1) In caso di danno genetico ATM fosforila BRCA 1;+ 2) BRCA 1 fosforilato entra a far parte di un complesso enzimatico (di cui fa parte anche BRCA 2) che ha la funzione di riparare il DNA per ricombinazione omologa in caso di rottura a doppio filamento. L’alterazione dei geni di BRCA comporta una instabilità genetica generale che favorisce l’insorgenza di svariati tumori, soprattutto mammella e ovaio 4.8.10 Identificazione di una famiglia ad alto rischio Nel caso per esempio di un tumore al seno su base familiare, una famiglia con sospetta familiarità per questo tipo di tumore viene controllata con questi parametri: 1) Almeno tre casi di tumore all’ovaio o alla mammella in due generazioni; 2) Devono avvenire tra parenti di primo grado; 3) Almeno un caso di tumore alla mammella bilaterale oppure diagnosticato prima dei 40 anni. Queste tre devono essere presenti in associazione ad almeno una delle seguenti: 1) Un caso di cancro alla mammella maschile; 2) Un caso di cancro alla mammella e all’ovaio nella stessa paziente. 4.9 CANCEROGENI La definizione sufficiente di evidenza di cancerogenicità è quando vi è una relazione causale stabilita tra un’esposizione a un agente e un tumore umano. Questo avviene quando una relazione positiva (correlazione) viene osservata tra un’esposizione a un agente e un tumore, in studi in cui il caso e il confondimento da altre cause possono essere esclusi con ragionevole fiducia (International Agency for Research on Cancer). 4.9.1 Cancerogeni chimici Molte sostanze non sono cancerogene di per se, ma lo diventano in seguito a processi metabolici nell’organismo. 133 Per cancerogeno terminale si intende una sostanza che può effettivamente danneggiare il DNA, può essere derivata dal metabolismo di una molecola precancerogena. Un cancerogeno diretto invece non ha bisogno di essere processato per arrecare danni ma si trova già in forma attiva. Generalmente i cancerogeni sono sostanze elettrofile, cioè povere di elettroni, questa loro caratteristica permette loro di legarsi covalentemente a vari target tra cui proteine e DNA formando degli addotti. Nel caso del DNA una sostanza elettrofila andrà a legarsi nelle zone nucleofile (ricche di elettroni), che sono l’ossigeno e l’azoto delle basi nucleotidiche. Uno dei meccanismi di danno genetico dei cancerogeni chimici consiste nell’indurre mutazioni: 1) Legandosi alle basi alterano l’interazione di un filamento con quello complementare; 2) Alla divisione cellulare successiva alla formazione dell’addotto viene inserita una base errata (mismatch); 3) Se l’errore non viene corretto, alla ulteriore divisione che segue il filamento con la base errata viene duplicato come normale e la mutazione viene fissata. Se mutazioni puntiformi di questo tipo colpiscono protoncogeni o oncosoppressori può essere favorita la formazione di neoplasie. 6 Un esempio pratico è quello di sostanze alchilanti che riescono ad attaccare un –CH3 in posizione O della guanina, alterandone la normale interazione con la citosina sull’altro versante. Alla prima divisione la metilguanina si attacca a una timidina invece che alla citosina, e alla replicazione successiva la sostituzione è completa e non più riparabile. In caso di esposizione continua i meccanismi di riparazione non sono in grado di fronteggiare tutti i danni inflitti. Per le varie sostanze cancerogene esistono dosi critiche oltre le quali il tasso di danno è insostenibile dall’organismo. Le sostanze chimiche vengono metabolizzate da un complesso sistema enzimatico. Il sistema è chiamato DMES (Drugs Metabolizing Enzyme System), ed è formato da innumerevoli proteine della famiglia di enzimi citocromo P450dipendenti, che collaborano al processamento di queste sostanze circolanti nell’organismo. 4.9.2 Suscettibilità ai cancerogeni È un fattore variabile dipendente da: 1) Sistema DMES. Per tantissimi geni dei componenti di questo sistema esistono varianti che codificano per isoforme diverse degli stessi enzimi. In base alle isoforme presenti in un dato individuo, questo sarà più o meno esposto a un certo cancerogeno, in quanto le varie isoforme esistenti hanno efficienze diverse, più queste sono efficienti più rapidamente le sostanze vengono metabolizzate ed attivate, aumentando quindi la probabilità che danneggino il DNA. La distribuzione delle varie isoforme all’interno della popolazione può dipendere da fattori diversi tra i quali sicuramente ha peso l’etnia di provenienza. Questi enzimi non vengono considerati oncogeni, ma evidenziano solamente l’interazione tra organismo e ambiente. Sono determinanti le abitudini comportamentali, la predisposizione dipende certamente da quali varianti alleliche presenta un individuo, ma in gran parte dall’esposizione cui l’individuo è soggetto; 2) Sistemi di riparazione del DNA, più questi sono efficienti, meno l’individuo sarà esposto ai danni cancerogeni. 134 4.9.3 Test di cancerogenicità Per valutare la capacità mutagena o oncogena di una sostanza si possono adottare due tipi di approccio: 1) Test in vitro, ne esistono molti tipi ma sicuramente quello più utilizzato è il test di Ames; 2) Test in vivo su modelli animali. I modelli utilizzati devono essere filogeneticamente il più possibile vicini all’uomo, a tal scopo si usano roditori su cui sono effettuabili anche test di cancerogenesi transplacentare per vedere la teratogenicità e per accelerare i tempi, in quanto sulla prole gli effetti si vedranno prima. Inoltre va scelta la modalità di somministrazione: a) Dose unica; b) Dose frazionata, a differenza della dose unica, che può essere semplicemente letale/tossica, con dosi frazionate si osserva meglio l’effetto cancerogeno a lungo termine. Gli svantaggi di un approccio di questo tipo sono: a) Problemi etici, la sperimentazione animale è approvata solo quando non è sostituibile con altri mezzi in vitro; b) Lunghi tempi di esecuzione; c) Bassa sensibilità (vale anche per i modelli in vitro); d) Limitata applicabilità per molti prodotti; e) Risposta influenzabile dall’assetto genetico dell’ospite, le risposte variano tra specie e addirittura ceppi diversi; f) Variabilità dell’incidenza di tumori spontanei; g) Invalidità dei test per alta mortalità; h) Costi; la curva dose-risposta permette di valutare la potenza delle varie sostanze cancerogene, i parametri utilizzati sono la dose somministrata e la prevalenza di tumori. La potenza si definisce osservando la dose necessaria a causare tumori nel 50% dei casi. Cancerogeni diversi possono causare gli stessi tumori e un unico cancerogeno può causare tumori diversi. Sia con test in vivo che con test in vitro possiamo verificare per molte sostanze la capacità cancerogena, ma per altrettante sostanze la determinazione non è così netta, ovvero alcuni test risulteranno positivi e altri negativi. 4.9.4 Test di Ames Questo test è basato sulla valutazione della capacità di un sospetto mutageno di provocare la reversione del carattere auxotrofo His in un ceppo mutato di Salmonella typhimurium. La reversione è avvenuta quando si osserva la crescita del batterio in un terreno privo di istidina, quando invece in partenza non ne era in grado. Il test viene effettuato piastrando i batteri su un terreno solido di agar contenente tracce di istidina e ponendo al centro della piastra un disco contenente la sostanza in esame, in questo modo la sostanza diffonderà nel terreno. La presenza di tracce di istidina permette di individuare mutazioni che richiedono più cicli replicativi per manifestarsi fenotipicamente. La frequenza delle mutazioni ottenute viene valutata in base alla distanza dal disco dopo 48 ore di crescita ed in rapporto ad una piastra di controllo, in cui i batteri sono fatti crescere in assenza di sostanza sospetta. Il confronto delle due piastre permette di eliminare dai risultati l’effetto dovuto alla presenza di eventuali repertanti spontanei. Il limite principale del test è l’impossibilità di valutare l’effetto genotossico dei precancerogeni, che vengono attivati in sede dal metabolismo degli organismi superiori. Per ovviare a questo problema si usa aggiungere al terreno di coltura l’estratto S9 di fegato di ratto. L’estratto S9 è ottenuto stimolando nel ratto la produzione degli enzimi coinvolti nel 135 metabolismo degli xenobiotici, l’animale viene quindi sacrificato e viene prelevato il fegato. Il fegato estratto viene omogeneizzato e centrifugato, e dal sedimento si prende l’anello S9, che corrisponde agli enzimi di interesse. Questa tecnica permette di inserire nel terreno di coltura parte di quegli enzimi in grado di attivare gli effetti genotossici delle sostanze chimiche, in questi casi i sospetti cancerogeni vengono aggiunti direttamente nel terreno e non tramite disco. I limiti di questo test dipendono dal fatto che viene eseguito su cellule batteriche, non può quindi valutare la capacità dei mutageni di alterare la struttura cromosomica del DNA umano, perciò da solo non è un test sufficiente a determinare il rischio genotossico. 4.9.5 Sostanze cancerogene Si tratta di: 1) Sostanze presenti normalmente nell’ambiente (aflatossine, radon, asbesto); 2) Sostanze prodotte dall’uomo (prodotti industriali, inquinanti, esposizione in ambito lavorativo); 3) Farmaci con proprietà cancerogena, in alcuni casi farmaci sono stati ritirati dal commercio (ad esempio alcuni contraccettivi orali), ma per altri è necessario un’analisi costi-benefici, per confrontare l’utilità in rapporto agli effetti nocivi. 4.9.6 Agenti inizianti e promuoventi Gli agenti inizianti sono quelli in grado di indurre danno permanente ed irreversibile, se sospesa l’esposizione dopo il processo di iniziazione non si ottiene reversione dell’evento. Gli agenti promuoventi invece di per se non hanno grande potere cancerogeno, ma hanno la capacità di far proliferare la cellula iniziata. Esistono sostanze che sono allo stesso tempo inizianti e promuoventi. Si ricordi che mutageno non è sinonimo di cancerogeno, un mutageno non ha capacità promuoventi, mentre un cancerogeno può averle. Iniziante Effetto irreversibile Non ha una dose soglia (causa sempre danno) Effetto additivo (le mutazioni si sommano) Curva dose-risposta lineare (più agente è presente più si verificano danni) Promuovente Effetto reversibile Ha una dose soglia (è necessaria una certa dose per stimolare la cellula) Non ha effetto additivo Curva dose-risposta sigmoide 4.9.7 Cancerogeni fisici Si tratta di radiazioni: 1) Eccitanti, radiazioni a bassa energia (<10 eV) che causano eccitazione elettronica, fenomeno per il quale gli e passano ad orbitali a maggior energia (più esterni). Sono le radiazioni ultraviolette, possono provocare: a) Deaminazione delle basi (idratazione); b) Formazione di dimeri di pirimidine; 136 c) Legame di proteine al DNA danneggiato; 2) Ionizzanti, radiazioni ad alta energia (>10 eV), causano ionizzazione dell’atomo e formazione di radicali liberi. Possono causare: a) Alterazione di basi; b) Perdita di basi; c) Rotture a singolo o doppio filamento. A seconda della dose verranno attivati i meccanismi di riparazione o di morte cellulare apoptotica (la necrosi interviene se il danno è ingente). L’effetto dei radicali ionizzanti è potenziato dall’interazione con l’H 2O e con l’O2. Talvolta la radioterapia è poco efficace per la bassa pO2 presente nelle aree centrali delle masse tumorali. 4.9.8 Linear Energy Transfer (LET) e Efficacia Biologica Relativa (EBR) Il LET è l’energia trasferita dalla radiazione in relazione al percorso effettuato attraverso un bersaglio. 1) Radiazioni x e γ hanno LET basso (alta penetranza ma bassa energia); LET = ΔE/Δx 2) Radiazioni α e β hanno LET alto (bassa penetranza ma alta energia). Δx viene espresso in micron, si può fissarlo a una distanza di 20 Å per riferirsi alle dimensioni del DNA, in questo caso il LET intende la probabilità di una radiazione di interagire con il DNA. Nello specifico raggi μ avranno valori bassi, mentre raggi α e β valori alti. L’efficacia biologica relativa è l’efficienza con cui i differenti tipi di radiazioni ionizzanti causano effetti biologici, questo parametro dipende dalla dose assorbita e dal LET della radiazione. Permette di paragonare l’effetto di radiazioni diverse a parità di condizioni. 4.9.9 Dose letale - Dose cancerogena La dose trasformante è inferiore a quella che da morte cellulare, più aumenta la dose meno probabile è la progressione tumorale di una cellula perché questa tenderà piuttosto a morire (vedi figura in basso a sinistra). 4.9.10 Rischio oncogeno 1) 2) 3) 4) A: singola dose a basso LET; B: singola dose ad alto LET; C: Dose frazionata a basso LET; D: dose frazionata ad alto LET. Le lettere sono riferite alla figura a destra L’uomo è esposto per l’82% a radiazioni naturali: 1) 11% interne; 2) 8% terrestri; 3) 8 % cosmiche; 4) 55% radon. Il restante 18% è quello relativo alle radiazioni prodotte dall’uomo, delle quali: 1) 11% mediche diagnostiche; 2) 4% mediche terapeutiche; 137 3) 3% prodotti di consumo; 4) 1% altre. 4.10 AGENTI INFETTIVI CORRELATI A TUMORI NELL’UOMO 1) 2) 3) 4) 5) 6) Virus dell’epatite B (HBV) → epatocarcinoma; Virus dell’epatite C (HCV) → epatocarcinoma; Papillomavirus (HPV) → carcinomi delle mucose genitourinarie e prime vie aeree e digestive; Virus di Epstein-Barr (EBV)→ linfomi e carcinoma nasofaringeo; Virus erpetico umano tipo 8 (HHV8) → sarcoma di Kaposi; Retrovirus: a) HTLV → linfomi; b) HIV → linfomi, sarcoma di Kaposi, carcinoma della cervice uterina; 7) Helicobacter pylori → carcinoma e linfoma gastrico. 4.10.1 HPV Virus a DNA ds con genoma relativamente piccolo (8 kba), privo di envelope, presenta moltissimi genotipi (>200) alcuni dei quali maggiormente correlati a tumori: 1) 16, 18, 31, 45 fortemente associati al cancro della cervice uterina; 2) 16 associato al cancro del pene. Questo virus ha tropismo per le cellule mucosali ed epiteliali. Quasi tutti i tumori (95%) della cervice uterina sono HPV+, ma l’infezione non è necessaria e sufficiente per lo sviluppo del tumore. I sottotipi di HPV che causano tumore sono quelli che codificano per proteine che interferiscono con oncosoppressori umani (vedi sopra). L’infezione nella maggior parte dei casi è silente e viene facilmente risolta, in una parte degli infetti però si verificano lesioni precancerose dovute a maggiore persistenza del virus, le lesioni iniziali evolvono in displasia e poi degenerano in cancro. Sono state messe in atto due tipi di prevenzione: 1) Primaria, grazie all’introduzione del vaccino antiHPV si attua una profilassi che impedisce de facto l’infezione e quindi l’esposizione al fattore di rischio. È il primo vaccino sviluppato con scopo antitumorale, i ceppi virali inseriti nel vaccino sono solo quelli ad alto rischio. In Italia viene somministrato all’età di 12 anni. Esistono due versioni di vaccino anti-HPV: a) Quadrivalente, contro i genotipi 16, 18, 6, 11; b) Bivalente, contro i genotipi16, 18; 2) Secondaria, tramite lo screening di massa attuato con il PAP-test, usato per verificare l’eventuale presenza di displasia della cervice in modo da intervenire in tempo prima dell’invasione degli strati profondi (diagnosi precoce). Quindi la prevenzione secondaria è rivolta a patologie già in atto ma ancora in stadi iniziali facilmente trattabili. 4.10.2 HBV e HCV HBV è un hepadnavirus, ha genoma a DNA circolare parzialmente ds. È fortemente associato all’epatocarcinoma che può favorire con due meccanismi, entrambi conseguenti all’infezione cronica: 1) Causando un danno continuo al parenchima epatico, il quale continuerà a rigenerarsi aumentando la probabilità di insorgenza di neoplasie; 2) Integrandosi nel genoma dell’epatocita immortalizzandolo e stimolandone la proliferazione. 138 Per questo virus esiste un vaccino, non nato per limitare i tumori, ma che ha avuto un effetto molto positivo sull’incidenza dell’epatocarcinoma. HCV è un flavivirus con genoma a RNA ss+ provvisto di envelope. Causa nella maggior parte dei casi infezioni croniche che causano un persistente danno al parenchima epatico e possibile evoluzione in tumore. Insieme all’abuso di alcol è il più forte fattore di rischio. Per questo virus non esiste ancora alcun vaccino. 4.10.3 EBV È un herpes virus con DNA ds lineare (172 kba) ristretto per l’uomo che infetta i linfociti B. L’infezione acuta può essere risolta grazie all’immunità cellulare, tuttavia il virus può andare in latenza nei linfociti B dove si integra nel genoma. In situazioni di immunodepressione si ha riattivazione e riacutizzazione. Questo virus è correlato all’insorgenza di: 1) Linfomi di Burkitt, nei quali viene espressa solo EBNA-1; 2) Linfomi B, nei quali si ha espressione di tutte le proteine di latenza; 3) Linfomi di Hodgkin, nei quali vengono espresse LMP 1 e 2; 4) Carcinomi nasofaringei, nei quali vengono espresse LMP 1 e 2; 5) PTLD (Post Transplantation Lymphoproliferative Disorders). 4.10.4 EBV e linfoma di Burkitt La causa chiave di questo linfoma non è l’infezione virale, ma la traslocazione di myc sotto il promotore delle Ig. EBV si trova nel 90% dei casi di LB endemico in Africa, mentre solo nel 10% dei casi sporadici nei paesi industrializzati. La differenza di comportamento è dovuta all’età di contagio da parte del virus, infatti mentre nei paesi occidentali il contagio avviene tardivamente (improbabile prima dell’adolescenza), in Africa il contagio è da madre infetta al figlio. L’infezione precoce associata ad altre condizioni ambientali come la presenza di malaria o altre infezioni croniche tipiche dell’Africa, favorisce l’instaurazione della latenza. La latenza del virus aumenta la proliferazione dei linfociti B e permette che un danno genetico venga fissato più facilmente. 4.10.5 EBV e linfomi di Hodgkin In questi linfomi è presente la proteina LMP-1 che mima il funzionamento del recettore di CD40L, solo che è costitutivamente attivo: 1) Attiva NFkB; 2) Attiva AP-1. Viene favorita l’espressione Bcl-2 (inibizione dell’apoptosi) e di hTERT (proliferazione). 4.10.6 EBV e trapianti In caso di trapianto, EBV può riemergere oppure addirittura può essere trapiantato nel paziente insieme all’organo. Per affrontare la riattivazione di EBV in pazienti trapiantati immunosoppressi è possibile prelevare linfociti T prima dell’operazione e creare in vitro CTL anti linfociti infetti da EBV. Con questa tecnica si possono curare i pazienti trapiantati con i loro stessi linfociti e contenere l’infezione (immunoterapia), tuttavia è un procedimento molto complesso e costoso per il quale sono necessari laboratori specifici e particolari. 139 4.10.7 HTLV Retrovirus complesso che codifica nel suo genoma molte proteine regolatorie oltre alle classiche gag, pol ed env. In particolare questo virus esprime la proteina Tax, che ha attività trans attivante, ossia upregola sia il fattore di crescita dei linfociti T, sia il suo recettore. Inoltre sembra avere effetti negativi sui meccanismi di riparazione del DNA. Questo retrovirus è associato all’insorgenza di ATLL (leucemia/linfoma a cellule T dell’adulto) caratterizzato dalla presenza di tipici linfociti T a fiore. L’infezione da HTLV è fondamentale ma non sufficiente per l’insorgenza della malattia, tanto che tra l’infezione e l’esordio clinico possono passare anche 20 anni. Quando viene trasmesso tramite trasfusione si può verificare tetraparesi spastica anche nel giro di solo 6 mesi. 4.10.8 HIV È associato all’insorgenza di tumori soprattutto per via dell’immunodeficienza che comporta. Tutti i virus che in genere sono facilmente controllati dal sistema immunitario, nei pazienti con AIDS conclamato possono favorire lo sviluppo di tumori. L’evidenza di questa correlazione (immunodeficienza/neoplasie) è stata osservata una volta messa a punto la terapia antiretrovirale, grazie alla quale i pazienti sono sopravvissuti alle infezioni opportuniste, ma hanno sviluppato altri tipi di problemi. 4.11 miRNA E CANCRO Un micro RNA (o miR) è un RNAss di circa 22 nucleotidi che origina da un trascritto che contiene una struttura tipica a forcina. Sono codificati da veri e propri geni che si possono trovare in regioni intergeniche o all’interno di introni. Ne sono stati identificati oltre 600, molti dei quali vicini a siti fragili. Vengono talvolta trascritti in sequenze policistroniche poi processate per dare i miR definitivi. Espressione dei miR: 1) Trascrizione (pri-miRNA); 2) Processamento, i miRNA vengono maturati e accorciati a pre-miRNA ad opera di Drosha; 3) Esportazione dal nucleo grazie alla proteina esportina; 4) Processamento, l’enzima Dicer procede ad un ulteriore accorciamento e viene tagliata la forcina; 5) RISC (RNA Inducing Silencing Complex) lega il miRNA e separa i due filamenti trattenendo quello antisenso. Una volta che RISC ottiene il suo miRNA maturo contatta il target e lo degrada o sequestra (processo dipendente dal grado di omologia del filamento con il bersaglio). Quindi i miRNA funzionano come repressori post-trascrizionali diretti contro mRNA specifici. Circa metà dei miRNA identificati è coinvolta nella genesi di tumori, possono comportarsi come oncogeni o come oncosoppressori: 1) Un miRNA oncosoppressore funziona reprimendo l’mRNA di un oncogene; 2) Un miRNA oncogene andrà a reprimere l’mRNA di un oncosoppressore A livello terapeutico è in corso la ricerca e lo sviluppo di cosiddetti antagomiRs, cioè microRNA diretti contro altri microRNA. I siRNA sono micro RNA sintetici costruiti in laboratorio a finalità terapeutiche (antagomiRs) o di ricerca (sviluppo di modelli knock-out). 140 4.11.1 Modificazioni (epi)genetiche nell’espressione e funzione degli oncomiRs 1) A livello genetico possono avvenire: a) Delezioni; b) Traslocazioni; c) Amplificazioni; d) Mutazioni che compromettano il legame tra miRNA e relativo target; 2) A livello epigenetico possono avvenire: a) Metilazioni; b) Acetilazioni; 4.12 TERAPIA DEI TUMORI I tumori possono essere trattati con: 1) Chirurgia; 2) Radioterapia; 3) Chemioterapia; 4) Immunoterapia; 5) Terapia genica. 4.12.1 Chemioterapia Sfrutta l’utilizzo di farmaci non selettivi ma che colpiscono caratteristiche particolari del tumore come per esempio la capacità proliferativa. Si dividono in: 1) Farmaci ciclo-specifici, che colpiscono cellule in attiva proliferazione: a) Fase-specifici, antimetaboliti come analoghi purinici o pirimidinici che bloccano l’allungamento del DNA e quindi agiscono in fase S; b) Non fase-specifici, come gli agenti alchilanti; 2) Farmaci non ciclo-specifici, indipendenti dalla proliferazione, sono citotossici e provocano morte cellulare. Per l’utilizzo di questi farmaci va fatta una valutazione costi-benefici. 4.12.2 Farmaci bersaglio-specifici La ricerca è mirata allo sviluppo di farmaci che colpiscano selettivamente le cellule tumorali e non interferiscano con quelle sane, in modo da curare la malattia evitando fastidiosi o addirittura dannosi effetti collaterali. Alcuni esempi di successi in questa direzione sono: 1) Il GLEEVEC (nome generico Imatinib), farmaco utilizzato per la cura della leucemia mieloide cronica, è in grado di intercalarsi nella tasca legante ATP della proteina ibrida bcr-abl inibendone l’attività tirosin-chinasica causa della malattia; 2) Immunoterapia: a) Attiva (vaccinoterapia), risultati nulli nella terapia, buoni nella prevenzione; b) Adottiva (CTL anti linfociti B EBV+); c) Passiva (anticorpi monoclonali). 4.12.3 Anticorpi monoclonali Alcuni esempi di farmaci biologici di largo utilizzo sono: 141 1) Rituximab, anticorpo monoclonale chimerico con catene costanti umane e variabili murine. È diretto contro il CD20, antigene presente sui linfociti B fortemente espresso in corso di linfomi non Hodgkin a cellule B (95%). Questo anticorpo agisce attivando apoptosi e ADCC contro le cellule target; 2) Trastuzumab (Herceptin, nome commerciale), anticorpo monoclonale diretto contro HERB-2, tipico nel cancro della mammella. Un tempo un paziente con alta espressione di HERB-2 aveva prognosi peggiore, dopo l’introduzione di questo anticorpo monoclonale la situazione si è rovesciata e quel tipo di tumore è divenuto più aggredibile; 3) Inibitori dell’EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor), target terapeutico soprattutto in tumori del polmone e del colon-retto in cui è spesso mutato: a) Anticorpi monoclonali contro il recettore possono agire inibendolo. Si possono usare solo in pazienti che non abbiano il gene di ras mutato, in caso contrario anche se blocco il recettore la via di segnalazione a valle è attiva costitutivamente; b) Inibitori delle tirosin-chinasi ne limitano la funzione. 4.13 NOTE 142 4.14 AUTOVALUTAZIONE 1) Descrivere cosa si intende per prevenzione primaria e secondaria. 2) Quale significato ha il fatto che per il carcinoma mammario, negli ultimi 10 anni è aumentata l’incidenza ma la mortalità è rimasta stabile? 3) Quali sono i geni coinvolti nella leucemia mieloide cronica? Conosci qualche forma di trattamento farmacologico? 4) Per quale neoplasia si utilizza l’immunoterapia con Ab anti-CD20? 5) A cosa si deve l’importanza della stadiazione dei tumori? 6) Quale di questi geni, se mutato, rappresenta un fattore favorente la crescita tumorale? Perché? Spiegane il meccanismo. a) TGFβ b) Mdm2 c) Ras 7) Il vaccino anti-HPV protegge solo dalla displasia della cervice associata all’infezione o anche dal cancro? 8) Per cosa codifica e che funzione ha il prodotto del gene CDK2NA? 9) Descrivi il meccanismo molecolare a base della leucemia mieloide cronica. 143