visualizza pdf - Microbiologia TorVergata

Prof. Raffaele Caliò
INTRODUZIONE
ALLE
LEZIONI DI VIROLOGIA
ad uso degli studenti
dell’Università degli Studi di Roma
“Tor Vergata”
Anno Accademico 2005-2006
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I virus sono delle strutture nucleoproteiche più o meno complesse che
possiedono due proprietà della materia vivente: moltiplicarsi ed essere soggette a
mutazione.
I virus sono dei parassiti strettamente obbligati sia delle cellule eucariotiche
(virus propriamente detti) che procariotiche (batteriofagi).
La replicazione avviene all’interno della cellula parassitata utilizzando i
meccanismi biosintetici cellulari. Separatamente viene sintetizzato l’acido nucleico
virale e le proteine sia quelle associate all’acido nucleico (poliammine - istoni), che
quelle che costituiscono un involucro protettivo di rivestimento dell’acido nucleico
stesso; successivamente l’acido nucleico e le proteine si legano con legami chimicofisici fra loro per autoassemblaggio.
I virus sono delle strutture di dimensioni che variano dai circa 20 nm ai circa 280
nm pertanto essi non sono visibili con gli ordinari microscopi ottici, soltanto con la
messa a punto del microscopio elettronico si è potuto studiare la morfologia dei vari tipi
di virus.
La possibilità di trasmettere delle malattie (es. rabbia) con filtrato di fluido
infetto attraverso filtri di batteriologia che trattengono i batteri (i più piccoli batteri
extracellulari: i cocchi, misurano 1µ di diametro) e l’impossibilità di osservare
l’eventuale agente patogeno al microscopio ottico, ha indotto i microbiologi della fine
dell’800 a denominare questi agenti patogeni piccolissimi virus filtrabili (in latino virus
significa veleno).
Morfologia dei virioni
La particella virale al di fuori della cellula è chiamata virione. I virus più
semplici sono formati da un acido nucleico di un solo tipo DNA o RNA di solito
complessato con istoni e protetto da un involucro proteico detto capside: il tutto è detto
nucleocapside.
Il capside è formato da subunità proteiche ripetute (capsomeri) che possono
formare o un capside di tipo elicoidale di unità proteiche identiche intorno
all’acidonucleico (virione a simmetria elicoidale) oppure più capsomeri sono assemblati
a formare un capside di struttura icosaedrica (virione a simmetria icosaedrica).
L’icosaedro è un poliedro regolare formato da venti facce triangolari e dodici
vertici. In questo tipo di simmetria nel virione sono presenti due tipi di capsomeri
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antigenicamente distinti: un tipo di capsomero che forma le facce e 12 capsomeri
identici che si trovano alla sommità dei vertici.
I capsomeri dei virus a simmetria icosaedrica sono proteine formate da due o tre
polipeptidi. Per la particolare forma, evidente in alcuni virus, i capsomeri che formano
le facce sono detti esoni e quelli che formano i vertici sono detti pentoni. Vi sono virioni
formati dal semplice nucleo capside, in altri il nucleocapside è rivestito da un involucro
(envelope) pericapsidico formato da una membrana lipidica di origine cellulare che a
seconda della famiglia di virus può essere originata dalle membrane della cellula ospite
(membrana citoplasmatica o nucleotidica o del reticolo endoplasmatico). Sull’involucro
pericapsidico sono localizzate delle glicoproteine codificate dal genoma virale dette
spicole (spikes) o peplomeri.
Dalle figure schematiche dei virioni di origine animale (Fig. 1) ottenute dalle
fotografie al microscopio elettronico, si possono ricavare le seguenti osservazioni: le
differenti famiglie virali hanno dimensioni diverse come precedentemente detto, vi sono
virus nudi (formati dal solo nucleocapside) e virus rivestiti (con involucro
pericapsidico), i virus nudi di origine animale hanno una simmetria esclusivamente di
tipo icosaedrico. Virus nudi a simmetria elicoidale sono alcuni batteriofagi o alcuni
virus del regno vegetale (es. virus del mosaico del tabacco). I virus con involucro
pericapsidico possono avere il nucleocapside sia a simmetria elicoidale (es. virus
influenzali e parainfluenzali, virus della rabbia) sia a struttura icosaedrica (es. virus
erpetici).
La famiglia dei Poxivirus (i virus più grandi) possiede una morfologia complessa
che sarà descritta nell’apposito capitolo.
Classificazione dei virus
Ad una prima classificazione dei virus basata sulla epidemiologia (es. arborvirus
= virus trasmessi da insetti) e sulla patologia (es. virus della rabbia) oggi i virus sono
classificati in base agli studi dei parametri biomolecolari e strutturali che sempre più si
perfezionano e si approfondiscono, nel contempo modificandosi i criteri classificativi.
I criteri classificativi dei virus in famiglie si basano sui seguenti caratteri:
Caratteri morfologici: nucleocapside a simmetria elicoidale o a struttura icosaedrica,
presenza o assenza di involucro pericapsidico.
Dimensione del virione.
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Genoma: tipo di acido nucleico (DNA o RNA), acido nucleico a singola o doppia elica,
circolare o lineare; per i virus a RNA, RNA a polarità positiva o RNA a polarità
negativa.
Modalità trascrizionale degli acidi nucleici.
Enzimi codificati dal genoma virale: enzimi che fanno parte della struttura del virione
(es. trascrittasi inversa), oppure enzimi codificati presenti durante il ciclo moltiplicativo
e assenti nel virione.
Nell’ambito delle famiglie si distinguono le specie in base alla antigenicità delle
singole proteine del virione e in maniera meno esatta allo spettro d’ospite.
Genomi virali
I virus animali si dividono in due classi: virus con genoma a RNA, virus con
genoma a DNA.
Tutti i virus aventi RNA genomico possiedono un RNA a singola elica ad
eccezione della famiglia dei Reovirus che hanno un RNA a doppia elica.
I virus ad RNA si dividono in due sottoclassi: i virus con RNA a polarità
positiva, virus con RNA a polarità negativa.
I virus ad RNA a polarità positiva hanno un RNA che all’interno della cellula
può fungere direttamente da RNA messaggero.
I virus con RNA a polarità negativa hanno un RNA la cui elica complementare
funge da RNA messaggero: questi virus hanno l’enzima RNA polimerasi RNA
dipendente associato al virione.
I Reovirus e alcune famiglie di virus a RNA a polarità negativa hanno un
genoma formato da più sequenze indipendenti di RNA (es. virus influenzale, 8
frammenti; bunyavirus 3 frammenti; Reovirus 12 frammenti, con trascrizione autonoma
di ciascuna sequenza)
Tutti i virus a DNA hanno un DNA a doppia elica con eccezione dei
Picodnavirus (piccoli virus a DNA) che hanno DNA a singola elica.
Virusoidi
I virusoidi sono virus a RNA a piccolo genoma (200 - 400 basi di RNA circolare
a singola elica). Essi appartengono al regno vegetale, il loro genoma non codifica per le
loro proteine strutturali per cui questi virus utilizzano proteine prodotte da un virus
“helper” dal quale dipendono.
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Viroidi
I viroidi sono strutture autoreplicanti costituite da piccole molecole di RNA
prive di rivestimento proteico. L’RNA è a singola elica circolare formato da 240 – 375
basi. Caratteristica di questa molecola è che la maggior parte delle sue basi si appaiano
formando una struttura filiforme a doppia elica apparente. Questa particolare forma
strutturale rende la molecola di RNA resistente agli enzimi nucleosidici anche se priva
di protezione proteica.
In definitiva i viroidi sono agenti infettivi che producono malattie nelle piante,
formati da RNA a singola elica mancante di rivestimento proteico e che si autoreplica
autonomamente a mezzo della RNA polimerasi II della cellula.
Coltivazione dei virus
I primi isolamenti dei virus furono fatti coltivandoli in animali da esperimento
ricettivi: in topini neonati (mancanti ancora di difese immunitarie) o in embrioni di
pollo.
Successivamente furono messe a punto colture di cellule da organo espiantato, in
terreno ricco formato da aminoacidi vitamine e siero di sangue. Con l’avvento degli
antibiotici è stato più facile lavorare con le colture cellulari in quanto l’aggiunta
dipenicillina e streptomicina al terreno di coltura difende le cellule dall’inquinamento
batterico.
Per l’allestimento di colture cellulari, frammenti di tessuto vengono dissociati a
mezzo di tripsina e collagenasi. Le cellule in sospensione vengono messe in terreno in
capsule Petri, le cellule aderiscono al fondo della capsula e comincia la divisione
mitotica, le nuove cellule si distendono in monostrato e danno luogo alla coltura
primaria. Le colture primarie sono mantenute cambiando due o tre volte il terreno di
coltura nella capsula Petri, successivamente le cellule sono staccate dal supporto con
tripsina o EDTA e aliquote di queste, in sospensione, sono rimesse in coltura per
iniziare una nuova crescita che viene detta coltura secondaria. Le cellule in coltura sono
di due tipi: sottili e allungate dette similfibroblastiche o poligonali dette similepiteliali.
Le colture primarie e secondarie possono essere piastrate in serie diverse volte,
conservando le caratteristiche delle cellule precedenti e mantenendo la loro diploidia
dando origine ad un ceppo cellulare diploide. Dopo un certo numero di passaggi le
cellule vanno incontro a senescenza cellulare e muoiono.
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Durante la moltiplicazione di un ceppo cellulare alcune cellule possono andare
incontro a delle alterazioni con cambiamenti di morfologia, diminuzione del tempo di
duplicazione, alterazione del genoma (poliploidia), diminuzione delle esigenze
nutrizionali. Tali cellule danno origine alle linee cellulari che a differenza dei ceppi di
origine possono crescere all’infinito (immortalizzazione es. cellule HELA).
Le colture cellulari servono ad isolare e per moltiplicare i virus, a osservare le
alterazioni cellulari dovute a differenti virus, a studiare la moltiplicazione a livello
biomolecolare.
Sia i ceppi cellulari che le linee continue di cellule possono essere conservate per
anni mediante congelamento. Sospensioni di cellule mescolate con glicerolo o
dimetilsulfossido vengono distribuite in provette e congelate in azoto liquido (-196°C).
Normalmente le cellule crescono in monostrato. I virus oncogeni possono
causare, inserendosi nel genoma cellulare, capacità di formare colonie di cellule
(impilamento) sulla superficie del substrato.
Moltiplicazione dei virus
Dati i diversi tipi di genomi delle famiglie virali, risultano differenti gli eventi
moltiplicativi virali da virus a virus. Ci proponiamo pertanto di descrivere per sommi
capi le tappe metaboliche della moltiplicazione quando tratteremo le singole famiglie
virali.
Ci preme in questa sede descrivere le prime fasi dell’infezione della cellula da
parte del virione e cioè il legame del virus alla cellula competente e la penetrazione del
virione nella cellula, e la successiva liberazione del virione maturo una volta assemblato
il nucleocapside.
Il virione rappresenta la forma inerte dei virus, l’attività del virus si esplica nel
momento della interazione virus-cellula che rappresenta il tema centrale della virologia.
La penetrazione del virus nella cellula genera una nuova entità: la cellula infetta.
L’infezione cellulare può determinare due eventi distinti che dipendono sia dal
tipo di virus che dal tipo di cellula.
Il primo è l’evento litico o interazione litica, il virus si moltiplica all’interno
della cellula con liberazione dei virioni e lisi della cellula ospite.
Il secondo evento è l’interazione trasformante, il genoma virale si integra nel
genoma della cellula ospite determinando una trasformazione permanente della cellula
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nella sua morfologia e nella maniera in cui interagisce con le altre cellule con cui viene
a contatto.
Primo stadio dell’infezione è l’adsorbimento. Il virione si lega alla membrana
cellulare mediante un legame chimico-fisico che lega un antirecettore specifico di
superficie del virione ad un recettore specifico sulla membrana cellulare. Data l’alta
specificità del legame (si può paragonare tale legame alla reazione antigene-anticorpo),
risulta evidente che i virus infettano le cellule che possiedono quella particolare
glicoproteina specifica che può attivare legami di tipo chimico fisico con l’antiricettore
virale (es. il virus dell’immunodeficienza acquisita lega con il suo antiricettore la
glicoproteina CD4 che si trova sulla membrana dei linfociti helper. I virus epatitici
propriamente detti possono infettare esclusivamente gli epatociti).
Al legame specifico antirecettore-recettore segue l’internazione del virus nella
cellula per viropessi (o pinocitosi) o più raramente in caso di virus con l’involucro
pericapsidico per fusione delle membrane. Il virione è racchiuso in una vescicola
fagocitica, alla vescicola si accostano dei lisosomi che versano in esse enzimi idrolitici;
il virus viene decapsidizzato e così si libera l’acido nucleico. Segue una fase di eclissi in
cui avviene la sintesi di acido nucleico virale e proteine virali; l’assemblaggio
(formazione del nucleocapside) e infine la liberazione della progenie virale dalla cellula
lisata o gravemente danneggiata.
I cicli moltiplicativi dei virus come abbiamo detto saranno descritti quando
tratteremo le singole famiglie virali.
Immunologia virale
Le malattie virali conseguono alle infezioni delle cellule con alterazione delle
stesse, e molto più spesso lisi delle medesime. L’attivazione dell’immunità specifica è
rivolta quindi non solo nei riguardi del virione, ma anche contro la cellula infetta che i
meccanismi immunitari tendono ad eliminare.
L’immunità di tipo umorale (anticorpi) tende a neutralizzare i virioni; anche se
non per tutti i virus, gli anticorpi se presenti, impediscono l’infezione della cellula.
Per molti virus si ha neutralizzazione anticorpale tanto che si sono potuti
allestire dei vaccini preventivi molto potenti (vaccino antipoliomielitico, antirosolia,
antimorbillo, antivaioloso, antiparotite, anti febbre gialla ed altri).
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Gli anticorpi delle classi IgM e IgG sono rilevanti per la difesa contro le
infezioni virali accompagnate da viremia, mentre gli anticorpi tissutali (IgA) sono
importanti per le infezioni contratte attraverso la mucosa (naso, intestino).
Grande importanza riveste l’immunità cellulo-mediata nelle malattie virali nel
circoscrivere i focolai di infezione rappresentate dalle cellule infette. Tali cellule per la
presenza di antigeni virali sia sulle membrane cellulari che all’interno di esse (antigeni
associati alle cellule) attivano sia i linfociti T citotossici (CTL) che la citotossicità
cellulo-mediata anticorpo dipendente (ADCC).
Un ruolo importante hanno i linfociti natural killer (NK). L’importanza del loro
ruolo nella guarigione da malattie virali è stata messa in evidenza da diversi studi (in
topi infettati con virus erpetico aumenta la mortalità quando privati di cellule NK).
Questi grandi linfociti ricchi di granuli citoplasmatici agiscono soprattutto nei
riguardi di cellule infettate da virus con involucro pericapsidico. Su tali cellule a livello
delle membrane citoplasmatiche compaiono le glicoproteine di superficie codificate dal
virus (spicole).
I linfociti NK riconoscono aspecificamente le glicoproteine virali come bersaglio
legandosi alla cellula infetta. Attraverso una sostanza chiamata perforina aprono un
canale tra la propria membrana e quella della cellula e rilasciano in essa il contenuto
granulare citoplasmatico comprendente alcuni fattori quali i granzimi (una famiglia di
proteasi), il fattore di crescita tumorale (TNF) e altri fattori citotossici derivati dai
granuli.
Il granzima B insieme ad altri fattori induce apoptosi (morte cellulare
programmata) della cellula infetta probabilmente innescando l’attivazione di proteasi
che idrolizzano una serie di molecole proteiche, includendo gli enzimi di riparazione del
DNA. L’azione citotossica degli NK è potenziata dall’interferon alfa (vedi interferenza).
Interferenza ed interferon
Quando una cellula viene infettata simultaneamente da due differenti virus, l’uno
può moltiplicarsi indifferentemente dall’altro. Più frequentemente la moltiplicazione di
un tipo di virus impedisce la moltiplicazione di un eventuale altro virus che
successivamente infetta la stessa cellula. Tale fenomeno è conosciuto come interferenza
virale. Il primo virus è detto interferente il secondo cimentante o superinfettante.
L’interferenza virale è stata studiata in vivo ed in vitro.
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Es. in vivo: scimmie infettate con virus della febbre gialla a bassa virulenza non
si ammalano se infettate con un altro flavivirus altamente virulento e non correlato
antigenicamente al primo. Si dimostra così il fenomeno della interferenza e l’esclusione
di una eventuale protezione anticorpale.
Es. in vitro: colture cellulari infettate con virus influenzale di tipo A,
successivamente infettate con virus influenzale di tipo B, la moltiplicazione di questo
secondo virus cimentante risulta inibita. La stessa inibizione del virus cimentante si ha
inoculando precedentemente le cellule con virus interferente inattivato con raggi UV (
in questo caso il virus penetra nella cellula ma non si moltiplica).
Il sovranatante cellulare dell’esperimento precedente privo di qualsiasi particella
virale se aggiunto ad una coltura cellulare fresca impedisce anche la moltiplicazione del
virus influenzale di tipo A e B.
Tale esperimento condotto nel 1957 da Isaac e Lindenman ha portato alla
scoperta che le cellule infettate producono una sostanza interferente (che fu detta
interferon) la cui presenza (nel sovranatante) impedisce la moltiplicazione virale nelle
cellule con cui viene a contatto.
Studi successivi hanno dimostrato che quasi tutti i virus animali (sia a DNA che
ad RNA) quando infettano cellule di differenti specie animali inducono le cellule entro
cui si moltiplicano a produrre interferon.
Sono stati messi in evidenza tre tipi di interferon.
L’interferon beta prodotto dai fibroblasti, l’interferon di tipo alfa prodotto dai
leucociti (si conoscono almeno 12 interferon leucocitari) ambedue prodotti da cellule
infettate da virus o attivate chimicamente (presenza di ribopolinucleotidi a doppia elica),
l’interferon di tipo gamma o interferon immune prodotto dai linfociti T attivati da
mitogeni o antigeni.
Gli interferon sono polipeptidi di piccolo peso molecolare (circa 19.000 M.W.),
l’interferon beta appare glicosilato.
Gli interferon prodotti dai differenti tipi di animali sono specie-specifici. Gli
interferon alfa e beta si distinguono dall’interferon gamma poiché essi sono stabili al pH
acido.
Gli interferon sono dei potenti inibitori della moltiplicazione virale: da 10 a 20
molecole di interferon sono in grado di conferire resistenza ad una cellula.
In vivo l’interferon oltre che esplicare la sua azione antivirale ha la proprietà di
inibire la proliferazione cellulare e modula la risposta immunitaria mediante
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l’attivazione delle cellule natural killer (vedi sopra); l’interferon gamma è un potente
attivatore dei macrofagi. Da quanto detto risulta che l’interferon esplica una azione
regolatrice delle funzioni cellulari.
Gli interferon sono prodotti da cellule infettate con virioni completi sia infettanti
che inattivati.
Hilleman mise in evidenza che la presenza nel citoplasma cellulare di RNA a
doppio filamento (dsRNA), induce la cellula a produrre interferon. In effetti buoni
induttori di interferon sono: i Reovirus e ribonucleotidi di sintesi. Ma anche altri virus a
DNA e ad RNA a singola elica sono degli induttori di interferon in quanto dsRNA si
possono formare durante la moltiplicazione dei virus a RNA (capacità di formare RF,
vedi picornavirus); nel caso di virus a DNA si può formare dsRNA da trascrizione
simmetrica sulle due eliche di DNA.
Il genoma cellulare nelle condizioni di cui sopra (presenza di dsRNA) produce
interferon durante la maturazione del virus, l’interferon fuoriesce dalla cellula e si lega
alle cellule vicine a livello di ricettori specifici della membrana cellulare. Tale legame
determina un blocco del meccanismo della traduzione mediante due vie che implicano
l’attivazione di una proteina chinasi e di un’endonucleasi. Perchè avvenga la sintesi di
questi enzimi è necessaria la presenza nel citoplasma di piccole tracce di ds RNA indice
di una infezione virale.
L’inibizione della traduzione può danneggiare o uccidere la cellula infetta ma ha
come effetto finale l’arresto dell’infezione virale.
Vi sono stati molti studi circa i sistemi modulati indotti dall’interferon. I due più
conosciuti che inducono il blocco della traduzione sono l’attivazione di geni cellulari
che codificano per una proteina chinasi e per una oligo A sintetasi (oligo adenina
sintetasi).
La proteina chinasi si attiva in presenza di dsRNA e fosforila il fattore di
iniziazione e IF-2. La fosforilazione blocca il complesso di iniziazione formato da e IF2, GTP (guanosina trifosfato) e Met-t RNA f con la piccola unità ribosomale e
l’mRNA.
La oligo A sintetasi indotta da interferon sintetizza in presenza di dsRNA una
oligonucleotide adenina contenente tre o più nucleotidi a legame insolito (due-cinque
A). Il 2-5 A oligonucleotide attiva una endoribonucleasi che idrolizza l’mRNA e l’RNA
ribosomale (Fig. 2).
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In vivo la produzione di interferon ha il significato di protezione di pronto
intervento nell’infezione primaria dato che i meccanismi immunitari hanno bisogno di
7-15 giorni per essere attivati. L’importanza dell’interferon nel limitare l’infezione
virale è suggerita da alcune osservazioni.
La somministrazione di siero immune anti interferon aumenta la letalità in topini
infettati con virus dell’epatite murina.
Individui ipogammaglobulinemici si comportano nei confronti delle malattie
virali come gli individui normali al contrario di quello che avviene con le infezioni
batteriche in cui gli ipogammaglobulinemici hanno manifestazioni patologiche più
gravi.
La febbre (temperatura corporea di 39-40 gradi) induce una maggiore
produzione di interferon.
La scoperta dell’interferon, potente inibitore in vitro della moltiplicazione virale,
alimentò la speranza di poterlo utilizzare come farmaco per una terapia antivirale a
largo spettro. Attualmente l’interferon sia alfa che beta viene prodotto per ingegneria
genetica. Prove cliniche hanno dimostrato che l’uso dell’interferon nella terapia
antivirale ha un impiego estremamente limitato dimostrandosi molto poco efficace per
tutte le malattie virali. E’ stato dimostrato un miglioramento nelle infezioni gravi di
varicella, herpes e citomegalovirus in pazienti immunocompromessi. Sembra efficace
nel diminuire il tempo di guarigione di alcuni papillomi facendo delle somministrazioni
topiche sulle lesioni papillomatose.
In casi di epatite cronica da virus B e C, usando dosi massive di interferon, si è
riscontrata una diminuzione della viremia e del danno epatico.
Ma l’uso dell’interferon è soprattutto limitato dal fatto che nelle dosi usate in
terapia è tossico, l’interferon causa stanchezza, febbre, mialgia e meno frequentemente
danni neurologici e midollari.
Attualmente sono in uso dei farmaci antivirali più o meno efficaci che saranno
trattati nella virologia speciale.
Infezioni latenti e infezioni croniche persistenti
Le infezioni latenti e le infezioni persistenti sono meccanismi di sopravvivenza
virale che permettono ad alcuni virus una prolungata presenza nell’organismo ospite.
Le infezioni latenti sono dovute alla presenza del genoma virale nel nucleo della
cellula ospite sia in forma integrata al genoma cellulare che in forma episomiale
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(genomi virali singoli circolarizzati non integrati). Il fenomeno della latenza è limitato
ai virus a DNA e ai Retrovirus. Importanti conseguenze della latenza sono la
riattivazione del genoma virale con la ricomparsa del virus infettante e la conseguente
ripresa della attività patogena. Tale attività può essere accentuata negli individui
immunocompromessi ovvero mediante meccanismi che evitano l’immunità cellulo
mediata. Inoltre il DNA nello stato integrato può essere parzialmente trascritto con
produzione di proteine virali. Alcune di queste proteine dette proteine trasformanti sono
associate ad alterazioni neoplastiche della cellula ospite.
Le infezioni persistenti sono dovute al fatto che il virus, evitando, spesso con
meccanismi propri l’immunità specifica precedentemente evocata continua a
moltiplicarsi in particolari cellule.
Le conseguenze della persistenza virale possono variare dalla mancanza di
manifestazione patologica a conseguenze cliniche gravi sia in individui normali che
soprattutto in individui immunocompromessi.
Infezione latente
I virus erpetici inducono o possono indurre infezioni latenti così come i
Papovavirus, Hepadnavirus e naturalmente i Retrovirus.
Esempio tipico di latenza è l’erpesvirus di tipo 1 che, a seguito dell’infezione
primaria, va a localizzarsi trasportato lungo l’assone del nervo sensitivo al ganglio
sensorio regionale, soprattutto i gangli del trigemino.
Il virus infetta i neuroni e persiste in essi nel nucleo in più copie e in forma
episomiale stabilendo una infezione latente che dura tutta la vita. Stimoli poco
conosciuti, clinicamente legati ad eventi patogeni e di stress, attivano il virus latente che
si moltiplica nei neuroni e viene trasmesso attraverso il plasmalemma della fibra
nervosa sensitiva fino alle giunzioni neuroepiteliali con conseguente infezione delle
cellule sovrastanti epiteliali e produzione della lesione erpetica. Durante la latenza del
virus non sono state messe in evidenza proteine virali nei neuroni.
Infezione latente che esprime antigeni virali
Tipico esempio è il virus di Epstein Barr (EBV), un altro virus erpetico, agente
della mononucleosi infettiva. Esso si moltiplica nelle cellule epiteliali naso faringee e
infetta i linfociti B stabilendo in essi una infezione latente in forma episomiale (più
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copie di DNA circolarizzato nel nucleo). Nelle cellule tumorali del linfoma di Burkitt è
stato individuato genoma integrato.
La latenza di EBV nei linfociti B non è completamente silente ma il genoma
virale esprime alcune proteine, i cosidetti antigeni nucleari (EBNA) dei quali è stato
particolarmente studiato EBNA-1 che induce la DNA polimerasi cellulare a produrre
più copie di DNA episomiale virale. Altri EBNA inducono l’immortalizzazione dei
linfociti B mentre altri antigeni virali prodotti, i cosidetti antigeni di membrana che
compaiono sulla superficie della cellula infetta, stimolano una risposta cellulo mediata
nei confronti del linfocita B infetto (quindi aumento dei Linfociti T nel corso della
mononucleosi infettiva: vedi virus di Epstein Barr).
Le infezioni persistenti
In alcune malattie (epatite B, epatite C, morbillo, rosolia) alla guarigione dalla
malattia può stabilirsi in maniera più o meno rara la produzione dell’agente virale in
forma persistente.
Le conseguenze della persistenza virale possono talvolta portare a danni non
reversibili quali la cirrosi epatica nel caso dei virus epatitici, ma più spesso negli
individui normali la persistenza non comporta manifestazioni patologiche che invece
vengono
espresse
immunodeficienza
negli
individui
primaria,
es.
immunocompromessi
negli
individui
normali
(AIDS,
la
trapianti,
persistenza
da
citomegalovirus è asintomatica mentre nei pazienti con infezione da HIV può
comportare l’insorgenza di polmonite e retinite).
E’ evidente che la persistenza virale negli individui normali deve essere in
qualche modo dovuta a meccanismi di evasione, da parte del virus e della cellula
infettata, dei meccanismi immunitari.
Meccanismi di evasione virale
Gli anticorpi possono neutralizzare il virione libero ma agiscono soprattutto
legandosi agli antigeni glicoproteici virali che compaiono sulla superficie della cellula
infetta inducendo la lisi cellulare mediata dal complemento o attraverso la citotossicità
cellulo-mediata anticorpo dipendente.
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L’immunità citotossica specifica si attua nei confronti di antigeni virali
(frammenti peptidici) associati agli antigeni maggiori di istocompatibilità (MHC) di
classe I e II.
I linfociti T CD8+citotossici sensibilizzati si legano agli antigeni virali a loro
volta associati a MHC di classe I eliminando le cellule infette anche attraverso l’azione
di citochine antivirali da essi prodotte quali l’interferon gamma e il fattore di necrosi
tumorale (TNF).
I linfociti CD4+ virus specifici (helper) si legano ai frammenti antigenici virali
associati a MHC di classe II che si ritrovano sui macrofagi inducendo la produzione da
parte dei macrofagi di citochine antivirali; inoltre CD4+ stimolano la produzione di
anticorpi da parte dei linfociti B.
L’infezione latente assoluta, senza espressione di proteine virali, sottrae il virus
ai meccanismi immunitari (HSV nei neuroni, HIV nelle cellule T resting). In misura
minore alcuni virus che infettano le cellule per fusione di membrana, possono per una
certa percentuale sottrarsi agli anticorpi tissutali.
Infine virus che infettano particolari tessuti quali quello nervoso persistono con
più facilità nei neuroni poichè la scarsa o nulla presenza in essi di MHC impedisce
l’attuazione della immunità citotossica specifica, senza contare della difficoltà dei
linfociti di raggiungere il sistema nervoso centrale a causa della barriera
ematoencefalica.
Alcuni virus quali il citomegalovirus e i virus BK e JC (poliomavirus) per
ragioni sconosciute tendono a persistere nel tessuto renale.
Recenti studi hanno dimostrato che alcune proteine virali interferiscono con la
funzione delle citochine.
Proteine precoci dell’adenovirus proteggono le cellule infettate dall’azione litica
di TNF, la proteina BCRFI del virus di Epstein Barr è omologa alla interleuchina 10 e
pertanto possiede la stessa azione di IL-10 nell’inibire la sintesi di IL-2 e di interferon
gamma, note citochine antivirali.
Infine la variazione antigenica ad alta frequenza di mutazione, propria di alcuni
virus ad RNA e del virus dell’immunodeficienza, comporta l’insorgenza di nuove
varianti virali ad opera della pressione selettiva immunitaria, favorendo la
sopravvivenza del virus sia a livello epidemiologico (successive pandemie, vedi il virus
influenzale) che a livello di individuo (HIV).
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VIRUS AD RNA
Picornaviridae (piccoli virus a RNA)
I picornavirus sono dei piccoli virus nudi (circa 28 nm di diametro) con genoma
RNA a polarità positiva. Il virione ha una struttura similicosaedrica. Il capside è formato
da 60 capsomeri identici (ogni capsomero è costituito da tre polipeptidi VP1, VP2, VP3)
che in gruppi di 5 capsomeri costituiscono i 12 vertici e insieme le facce di una figura
molto vicina all’icosaedro: all’interno del capside è associata un’altra proteina VP4.
Il genoma è formato da un filamento di RNA poliadenilato alla estremità 3’ e
con un cappuccio all’estremità 5’ formato da una proteina (Vpg).
Vpg è sempre associata con legame covalente all’RNA genomico ed è essenziale
per la replicazione genomica.
Il ciclo replicativo di questi virus inizia con il legame del virione ad una
lipoproteina ricettoriale della cellula. Tale adsorbimento determina una alterazione del
capside virale con perdita della proteina VP4 e dell’RNA. Solo le particelle integre
vengono inglobate dalla cellula e decapsidizzate nell’interno di un vacuolo
citoplasmatico. RNA genomico funge da messaggero perdendo il suo cappuccio e
traduce sui poliribosomi della cellula un lungo polipeptide (Fig. 3). Questa proteina è
scissa per autoclivaggio in tre regioni P1, P2, P3 di cui la terza genera due proteine la
RNA polimerasi e la proteasi. Le proteasi virali a loro volta scindono la P1 formando le
proteine strutturali. RNA polimerasi si attiva a formare eliche complementari (RNA -)
su cui si sintetizzano gli RNA positivi che danno luogo al genoma della progenie e agli
mRNA. L’elica complementare e RNA+ nascente formano dei complessi a doppia elica
di breve vita (IR intermedio replicativo), sia gli RNA+ genomici che l’RNAcomplementare legano il Vpg all’estremità 5. Gli mRNA nascenti mancano di questa
proteina.
Una volta formate le proteine strutturali si ha la formazione del virione per
autoassemblaggio e durante questa fase si hanno le ultime scissioni dei polipeptidi (Vp4
e VP2 da VP0).
I processi maturativi avvengono interamente nel citoplasma; in poche ore (3-4)
si compie l’intero processo moltiplicativo con la produzione di un migliaio di particelle
virali che si liberano insieme per lisi o scoppio cellulare.
Il modello moltiplicativo di cui sopra studiato negli enterovirus è simile per gli
altri picornavirus.
15
I picornavirus sono un gruppo numeroso di virus che danno malattie negli
animali (es. afta epizootica) e nell’uomo.
I virus che interessano la patologia umana sono gli enterovirus dell’uomo, il
virus dell’epatite A e i Rhinovirus.
Gli enterovirus
Questi piccoli virus sono caratterizzati dal fatto che si moltiplicano nelle
linfoghiandole prevalentemente in quelle dell’intestino (placche del Peyer) e sono
resistenti al pH acido. Fino ad ora sono stati isolati circa 70 sierotipi che vengono
classificati secondo il vecchio criterio tradizionale in:
virus della poliomielite:
3 sierotipi
virus Coxackie di tipo A:
23 sierotipi
virus Coxackie di tipo B:
6 sierotipi
Echovirus:
32 sierotipi
I virus della poliomielite sono 3, distinti antigenicamente, ognuno dei quali
indipendentemente può dare la malattia. L’uomo è il solo ospite naturale di questi virus.
Il virione è resistente agli agenti atmosferici e al pH acido, e la via di trasmissione è orofecale. Il virus si moltiplica nelle linfoghiandole della mucosa faringea e dell’intestino e
raggiunge lo stesso superando la barriera gastrica. La malattia epidemica è caratterizzata
da una intensa moltiplicazione virale a livello delle placche del Peyer che provoca di
solito una lieve sindrome febbrile. Intorno all’1% degli individui può aversi una viremia
che nel termine di 5-6 giorni può portare alla infezione del sistema nervoso centrale con
lesioni in prevalenza a livello delle corna anteriori del midollo spinale, o del bulbo
(esito infausto) o della corteccia, con conseguente paralisi dei vari distretti del corpo. Il
virus, nella fase viremica, infetta direttamente i neuroni motori si moltiplica in essi e li
distrugge. Non è esclusa una via di infezione lungo le terminazioni nervose.
Grandi quantità di virus che vengono eliminate con le feci sopravvivono nelle
acque luride. (dalle acque del Tevere si può isolare il virus attenuato del vaccino Sabin).
Nei primi anni ‘50 i virologi americani Salk, Cox, Koprowski e Sabin misero a
punto delle metodiche che permisero di attuare la produzione di due potenti vaccini che
laddove usati hanno debellato questa spaventosa malattia.
16
Vaccinazione antipoliomielitica
Vaccino di Salk. Salk dimostrò che tutti e tre i tipi di Poliovirus prodotti in
colture di cellule e purificati, possono essere inattivati trattandoli con formalina al 0.4%
a pH 7 e a 37°C per una settimana, senza che essi perdano la loro antigenicità.
Vaccino di Cox, Koprowski e Sabin, conosciuto come vaccino di Sabin. I tre
virus sono stati coltivati in colture cellulari attraverso molteplici e successivi passaggi,
tali ceppi hanno perduto il loro neurotropismo (non provocano paralisi) quando
inoculati in scimmie suscettibili per via parenterale e per via intracerebrale.
Il vaccino di Salk è stato il primo ad essere usato, e tuttora è adoperato in
Finlandia e Svezia. Costituito dai tre virus inattivati, viene inoculato per via parenterale,
con tre iniezioni nell’arco di 3-6 mesi, una quarta al 12mo mese e il richiamo ogni 5 anni.
Il vaccino induce prevalenza di anticorpi IgM e IgG.
Vaccino di Sabin: I tre virus attenuati sono somministrati per via orale all’inizio
del terzo mese, seconda dose dopo un mese, terza al sesto mese, quarta al 12mo mese,
quinta in età scolare. Il virus vaccinico supera la barriera gastrica essendo resistente al
pH acido, raggiunge l’intestino e si moltiplica dando luogo all’infezione naturale che si
esaurisce a livello intestinale.
Tale vaccino induce oltre che gli anticorpi IgM e IgG anche quelli tissutali IgA,
è più facile nella somministrazione, la dose vaccinica si inattiva con meno facilità che
non quella del vaccino Salk, quindi è meglio trasportabile in paesi con problemi
logistici. Il vaccino Sabin viene eliminato con le feci e dal punto di vista epidemiologico
potrebbe essere un vantaggio, potendosi sostituire nell’ambiente al virus tipo selvaggio.
Sebbene i casi di reversione genica del virus vaccinico al selvatico sono stati
riscontrati in colture di cellule, sono molto discussi i rarissimi casi di reversione in vivo
che si sono verificati, in prevalenza, in soggetti con immunodeficienza.
L’efficacia dei vaccini antipoliomielitici nell’uomo, che è il solo ospite naturale,
potrebbe far prevedere l’eradicazione della malattia con un programma di vaccinazione
globale (come avvenuto per il vaiolo).
Recentemente, in Italia si è adottato uno schema vaccinale che prevede la
somministrazione di tre dosi di vaccino Salk.
Altri enterovirus
I virus Coxackie sono così chiamati perchè il primo della serie è stato isolato in
topino neonato, da feci di bambini provenienti dalla omonima cittadina nel New Jersey.
17
In base alla antigenicità e alla sintomatologia in topino neonato, si distinguono
26 tipi di virus di gruppo A e 6 di gruppo B.
I virus di gruppo A sono collegati alle seguenti malattie: Meningite asettica
benigna, Angina erpetiforme, Malattia mani-piedi-bocca.
Quelli di tipo B sono gli agenti della Pleurodinia o mialgia epidemica,
miocardite del neonato, pericardite.
I virus ECHO, isolati dalle feci, in colture di cellule e all’atto dell’isolamento
non chiaramente associati a malattie (ECHO = enteric cythophatic human orphan) sono
32 sierotipi e sono collegati alle seguenti malattie: Meningite asettica benigna, malattie
respiratorie acute minori, febbre estiva infantile, miocardite.
Alcuni virus Coxackie ed ECHO sono collegati a sintomatologie neurologiche.
Altri specifici enterovirus, più di recente studiati, sono l’enterovirus 70 associato
ad una congiuntivite acuta emorragica.
L’enterovirus 72 o virus dell’epatite A (vedi virus delle epatiti).
Rhinovirus
Sono gli agenti delle malattie acute afebbrili delle vie aeree superiori
(raffreddore comune).
Caratteristiche di questi Picornavirus sono: moltiplicazione a livello del tratto
respiratorio superiore, l’uomo è il solo ospite naturale, molto sensibili a pH acido,
optimum di temperatura di incubazione 33°C pH 7 (temperatura delle cavità nasali), la
crescita è inibita a 37°C temperatura corporea.
Sono stati fin’ora isolati 115 sierotipi, per cui uno stesso individuo può essere
soggetto a più raffreddori nell’anno.
L’interferon alfa inoculato per via nasale attenua in alcuni casi la sintomatologia
(effetto assai modesto e sperimentazione dubbia).
Arborvirus (Arthropod born virus)
Sotto questo nome sono raggruppati virus che infettano l’uomo attraverso la
puntura di un insetto (zanzara, zecca, flebotomo). Essi sono causa nell’uomo in
prevalenza di encefaliti, dengue, febbri emorragiche.
Attualmente gli arborvirus sono classificati in più generi e propriamente Togavirus,
Flavivirus, Bunyavirus e Arenavirus.
18
Gli arborvirus si moltiplicano nell’intestino e nelle ghiandole salivari
dell’artropode senza che l’insetto subisca danni.
Nel ciclo di trasmissione sia i vertebrati (animali selvatici e domestici) che gli
artropodi vettori sono considerati serbatoi di virus.
Molto spesso nel vettore il virus si trasmette nella progenie attraverso infezione
transovarica.
Togavirus
Il virione rivestito ha un diametro di 60 nm, nucleocapside con RNA a polarità
positiva e capside a struttura icosaedrica. Nel ciclo moltiplicativo l’RNA genomico
viene tradotto in una poliproteina che viene scissa a formare le proteine non strutturali
(RNA polimerasi, proteasi).
Si forma poi l’RNA complementare (RNA -) sul quale è trascritto l’RNA
genomico (filamento intero 49S) e un più piccolo mRNA (filamento 26S) che è tradotto
in una poliproteina che per scissione idrolitica dà origine ai polipeptidi strutturali.
Questi virus danno delle forme gravi di encefalite nel cavallo e nell’uomo. Da
ricordare l’encefalite equina dell’est (EEE), encefalite equina venezuelana (VEE),
encefalite equina dell’ovest (WEE) con distribuzione geografica America del Nord e
Sud America. Il ciclo di trasmissione principale avviene tra uccelli sia domestici che
selvatici e zanzara che sono i serbatoi del virus. Ospiti finali cavallo e uomo. Il virus
EEE è quello che produce i più gravi danni neurologici con una alta percentuale di
mortalità. Esistono dei vaccini inattivati per EEE e WEE usati per i cavalli ma di cui
non si conosce l’effetto nell’uomo.
Flavivirus
Sono virus assai simili ai togavirus con genoma RNA+ ma più piccoli (45 nm).
A questo genere appartengono virus encefalitogeni, il virus della febbre gialla, il virus
Dengue, i virus delle febbri emorragiche trasmesse da zecche.
Il virus della febbre gialla da cui viene il nome al genere (Flavus = giallo) è il
più studiato fra i Flavivirus soprattutto da un punto di vista epidemiologico. Agente di
vaste epidemie nel sud e centro America e in Africa è trasmesso dalla zanzara Aedes
aegypti. La febbre gialla è una malattia sistemica grave, il virus dopo un ciclo
moltiplicativo nelle linfoghiandole, infetta e distrugge le cellule di fegato, milza, reni e
midollo osseo.
19
Per la febbre gialla si distinguono due tipi di epidemie, il ciclo urbano
trasmissione zanzara (Aedes) - uomo - zanzara e il ciclo della giungla, con trasmissione
zanzara (varie specie) - scimmia e uomo ospite accidentale.
Un ottimo vaccino è costituito dal ceppo virale 17 D attenuato che dà una
protezione sicura per almeno 5 anni.
L’encefalite di S.Louis diffusa negli Stati Uniti è trasmessa da zanzara Culex: il
ciclo replicativo avviene fra zanzara e uccelli e l’uomo è ospite accidentale.
La febbre dengue (cefalee, febbre, mialgia, esantema) ha un ciclo urbano uomo Aedes e un ciclo della giungla come per la febbre gialla.
Le febbri emorragiche da zecca (Ixodes) hanno una ampia distribuzione
geografica con probabile serbatoio in piccoli mammiferi e trasmissione transovarica del
virus nell’insetto.
Bunyaviridae
Appartengono a questa famiglia almeno 200 virus alcuni dei quali, nell’uomo,
sono gli agenti di febbri emorragiche.
Il virione ha una struttura nucleocapsidica a simmetria elicoidale, formata da tre
segmenti di RNA lineari a polarità negativa con RNA polimerasi associata, formando
tre nucleocapsidi con capside circolare e racchiuse in un involucro pericapsidico. Il
ciclo moltiplicativo è abbastanza simile a quello dei Myxovirus (vedi) compresa la
maturazione dell’mRNA messaggero con il capuccio in posizione 5’ mutuato
dall’mRNA della cellula ospite. L’involucro pericapsidico si forma a spese della
membrana dell’apparato del Golgi.
Si conoscono 4 generi, all’interno dei quali alcuni virus hanno somiglianze
antigeniche.
- gen. Bunyavirus: provocano febbri con cefalea e mialgia. Virus isolati in
Africa e continente Americano. Le malattie sono trasmesse da zanzare.
- gen. Nairovirus: agenti di febbri emorragiche (della Crimea, del Congo) con
sintomatologie renali, trasmessi da zecche.
- gen. Flebovirus: trasmessi da Flebotomus papataci agenti della febbre da
papataci nell’Italia del Sud e in Egitto (cefalea, febbre, mialgia).
- gen. Hantavirus: a differenza degli Arborvirus sopra detti, questi virus sono
trasmessi per aerosol o contatto dalle feci e urine di roditori. Come per gli Arborvirus
non vi è trasmissione per contatto interumano. Isolati in occasioni di piccole epidemie in
20
Asia (Hantan fiume al confine tra Corea del Sud e del Nord) ed Europa dell’Est, si
conoscono almeno quattro virus agenti di febbre emorragica con sindrome renale.
Recentemente sono stati isolati almeno altri quattro virus, per ora diffusi nel continente
americano, che sono agenti della sindrome polmonare da Hantavirus: una polmonite
accompagnata da edema.
Famiglia Arenaviridae
Al genere Arenavirus appartengono virus che sono agenti di febbri emorragiche.
Il virione è costituito da 2 nucleocapsidi a simmetria elicoidale circolari con RNA
lineare formato da due segmenti successivi di RNA a polarità ambisenso, e cioè un
segmento a polarità positiva e un successivo segmento a polarità negativa. Involucro
pericapsidico con diametro di 120 nm. All’interno del virione sono visibili due tre
granuli elettrondensi che sono residui di ribosomi della cellula (arena = sabbia).
Gli arenavirus si trasmettono all’uomo attraverso escrezioni di roditori infetti.
Soltanto per il virus di Lassa vi sono indicazioni di trasmissione interumane.
Il virus Lassa provoca una febbre emorragica grave in Nigeria.
I virus del gruppo Tacaribe sono trasmessi da pipistrelli e criceti e provocano
febbri emorragiche a sintomatologia più lieve nell’America del Sud e Centrale.
Il virus della Coriomeningite linfocitaria dà nell’uomo (Europa e Stati Uniti) una
sintomatologia lieve similinfluenzale spesso accompagnata da meningite linfocitaria. Il
virus si trasmette con le escrezioni di topi infetti.
Rubivirus
La trasmissione interumana del virus della rosolia ha indotto i virologi a
classificare come Rubivirus un virione che ha tutte le caratteristiche chimico fisiche e
moltiplicative dei Togavirus (vedi.). La rosolia è una malattia esantematica di lieve
entità che però assume aspetti drammatici allorquando l’infezione è trasmessa a donne
sieronegative in periodo di gravidanza.
Il virus della rosolia ha la proprietà di infettare il feto per trasmissione
transplacentare provocando gravi difetti congeniti specialmente nei primi tre mesi di
gestazione (sordità, cataratta, microcefalia, alterazioni cardiache), nei successivi sei
mesi i danni da infezione fetale diminuiscono drasticamente anche se i bambini nati
clinicamente sani possono per qualche tempo eliminare il virus.
21
La scoperta del danno fetale da virus della rosolia (Gregg, oculista australiano
nel 1941) attivò una serie di ricerche atte a coltivare il virus, a studiarne la patogenesi, a
rilevare l’infezione spesso inapparente attraverso appropriate diagnosi di laboratorio, ad
approntare un vaccino.
La rosolia è una malattia altamente contagiosa. Il periodo di incubazione tra
l’infezione e la comparsa dell’esantema è di 15-18 giorni di media. Il virus può essere
isolato dalle secrezioni nasali (veicolo di trasmissione del virus) una settimana prima e
una settimana dopo la comparsa dell’esantema. Il contatto di giovani donne con bambini
infettanti ma con segni della malattia non ancora manifesti può essere frequente.
Il virus oggi facilmente coltivato in colture di cellule ha un antirecettore di
superficie l’emagglutinina E1, capace di agglutinare gli eritrociti di oca e umani di tipo
0, che induce sia anticorpi neutralizzanti che inibenti l’emagglutinazione.
La presenza di anticorpi antirosolia può essere messa in evidenza con la reazione di
inibizione della emagglutinazione (Vedi virus influenzale) dopo la rimozione degli
inibitori aspecifici. L’aumento del titolo anticorpale in due successive determinazioni è
indice di infezione in atto.
Tale diagnosi in donne gestanti può provocare dei conflitti psicologici
devastanti, prodromi di decisioni drammatiche. pertanto la vaccinazione è vivamente
consigliata.
Grande evento scientifico è stato la messa a punto di un vaccino a virus
attenuato (RA27/3) mediante passaggi successivi in cellule diploidi di rene fetale. Il
vaccino è dato in una sola dose e fin’ora è stato accertato che è altamente protettivo per
un periodo superiore ai 15 anni.
Fermo restanto che devono essere vaccinate le bambine nel periodo 1-12 anni, in
Italia, una vaccinazione generalizzata della popolazione infantile maschi e femmine, si
sta attuando con l’uso del vaccino polivalente MMR (antimorbillo, antiparotite
epidemica, antirosolia) ai 12-15 mesi di età. Autori americani consigliano in questo caso
un richiamo di MMR al 12mo anno di età.
La vaccinazione di donna in età postpuberale nel dubbio di una eventuale
immunizzazione da pregressa malattia, può essere fatta anche senza il preventivo
accertamento di presenza di anticorpi. Il vaccino deve essere inoculato almeno 3 mesi
prima del concepimento e mai durante il periodo di gestazione.
22
Orthomyxoviridae
I virus influenzali, classificati nella famiglia degli Orthomyxoviridae, appaiono
all’osservazione ultramicroscopica in una forma rotondeggiante pleomorfa avente un
diametro di 80-120 nm. Con frequenza si osservano virioni a forma filamentosa. Il
virione è costituito da un genoma di RNA a singola elica di p.m. intorno a 5x106
daltons, con capside a simmetria elicoidale. La nucleoproteina è racchiusa da una
membrana pericapsidica costituita da una struttura proteica interna, detta proteina
matrice, aderente ad un doppio strato lipidico esterno che contiene due tipi di protezioni
glicoproteiche radiali di diversa struttura e attività biologica. l’agglutinina e la
neuraminidasi.
Il genoma del virus influenzale è formato da otto differenti piccole molecole di
RNA a singola elica, ciascun frammento è un gene che codifica per una singola o più
proteine del virus. La corrispondenza fra gli 8 pezzi di RNA e le proteine codificate si è
raggiunta attraverso le analisi di migrazione dell’RNA e della proteina virale in
elettroforesi in gel di acrilamide di virus ricombinanti. Infatti, ad una variazione di
migrazione di un singolo RNA modificato o appartenente a un nuovo ceppo
ricombinante, corrisponde la variazione di migrazione di una singola proteina e quindi
la possibilità di assegnare all’RNA la corrispondente proteina da esso codificata.
L’RNA genomico del virus influenzale è a polarità negativa e pertanto non
infettante. Una
RNA polimerasi RNA dipendente,
strettamente
associata
alla
nucleoproteina traduce dal genoma virale un RNA complementare che funge da
messaggero. La moltiplicazione del virus influenzale è inibita dalla presenza di
actinomicina D, ciò sta a dimostrare la dipendenza del virus influenzale dal DNA
nucleare della cellula. E’ stato dimostrato che la polimerasi virale utilizza come innesco
per la trascrizione degli RNA messaggeri virali, il cappuccio degli RNA messaggeri
della cellula. Di conseguenza l’inibizione della sintesi dell’RNA messaggero cellulare
inibisce la trascrizione dei messaggeri virali.
In sintesi le proteine strutturali del virione codificate dagli otto frammenti
genomici dell’RNA sono le seguenti:
- Tre proteine non glicosilate associate all’attività RNA polimerasica.
- Una proteina che forma il capside elicoidale (proteina NP), una proteina (MP)
detta matrice, associata all’interno della membrana pericapsidica. Ambedue queste
proteine specificano antigenicamente i tipi influenzali A, B e C.
23
- Due proteine non strutturali, NS1 e NS2 sintetizzate dal genoma virale, migrano
nel nucleo cellulare e nel citoplasma.
NS1 ha proprietà inibitorie nei confronti della migrazione dell’RNA cellulare, e limita
gli effetti antivirali dell’interferon e delle citochine.
NS2 facilita la migrazione dal nucleo dell’RNA virale.
- Inoltre, le due glicoproteine associate alla membrana pericapsidica di cui si dà
di seguito la descrizione: - a) una struttura glicoproteica complessa (HA) responsabile
dell’attività emagglutinante del virus e del legame del virus al recettore della cellula
competente.
La
struttura
di
questa
agglutinina
appare,
all’osservazione
ultramicroscopica, come un segmento a sezione triangolare. La molecola ha un peso di
210.000 D ed è costituita da 6 polipeptidi uguali tra loro tre a tre (HA1, HA2) e uniti
insieme da legami disolfurici. - b) Una struttura glicoproteica complessa (NA) avente
attività neuraminidasica (la neuraminidasi è un enzima che idrolizza una zucchero
terminale degli oligosaccaridi delle glicoproteine denominato acido sialico o
neuraminico) di p.m. 200.000 formato da 4 unità polipeptidiche e che morfologicamente
appare come un bastoncino con una protuberanza distale.
L’involucro di rivestimento della nucleoproteina del virus influenzale, detta
membrana pericapsidica, ha origine dalla membrana plasmatica della cellula infettata,
almeno nella sua struttura lipidica, mentre le proteine della membrana: la matrice,
l’agglutinina e la neuraminidasi, sono codificate dal genoma virale. La genesi della
membrana pericapsidica ha inizio con la sintesi delle proteine virali durante la
moltiplicazione del virus all’interno della cellula. Mentre si sintetizza la nucleoproteina,
la proteina matrice comincia a migrare sul foglietto interno della membrana
citoplasmatica; le due glicoproteine neoformate, l’agglutinina e la neuraminidasi, si
depositano invece sulla membrana citoplasmatica della cellula, attraverso un complesso
sistema di trasporto che coinvolge il reticolo endoplasmatico, sostituendo le proteine
cellulari di membrana non più sintetizzate. La nucleoproteina neoformata si addossa alla
membrana citoplasmatica modificata dalla presenza delle glicoproteine virali e questa si
avvolge intorno alla nucleoproteina, formando la membrana di rivestimento del virus. Il
virione così formato si stacca dalla cellula.
Proprietà antigeniche
In base alla differente antigenicità della nucleoproteina e della matrice, che viene
messa in evidenza con la reazione di fissazione del complemento, i virus influenzali si
24
dividono in tre tipi immunologicamente distinti: il virus di tipo A isolato nel 1933, il
virus di tipo B isolato nel 1940 e il virus di tipo C isolato nel 1949. Il virus di tipo B dà
una malattia con sintomatologia clinica simile a quella dell’influenza A e colpisce
particolarmente gli adolescenti, mentre il tipo C dà origine ad epidemie circoscritte a
sintomatologia più lieve. I virus di tipo A e B mostrano differenze antigeniche che sono
messe in evidenza con la reazione di inibizione della emagglutinazione, che sfrutta la
capacità del virus di agglutinare le emazie del pollo. L’aggiunta di anticorpi specifici
maschera il sito con il quale il virus si lega al recettore dell’emazia e che non è altro che
il peplomero glicoproteico superficiale che va sotto il nome di agglutinina, impedendo
al virus di agglutinare i globuli rossi.
A seconda del grado di specificità degli anticorpi corrispondenti agli epitopi, si
ha una maggiore o minore neutralizzazione delle molecole di agglutinina e questa
reazione rende conto, in maniera sensibile, della pur minima modificazione antigenica
della agglutinina, quale può essere la sostituzione nella catena polipeptidica della
agglutinina di un singolo aminoacido. Con una reazione di agglutinazione più
complessa, nel virus di tipo A è stata messa in evidenza anche una variazione antigenica
che riguarda la neuraminidasi.
Sia la agglutinina che la neuraminidasi sono glicoproteine che evocano anticorpi
aventi la capacità di neutralizzare l’infettività del virus. A mezzo dell’agglutinina il
virus si lega ad un recettore glicoproteico specifico della cellula competente e tale
evento rappresenta la prima tappa del ciclo di moltiplicazione del virus nella cellula;
meno chiara è la funzione della neuraminidasi. I virus influenzali si legano con
l’agglutinina ai recettori glicoproteici di membrana, ma anche, come da tempo
osservato, ai mucopolisaccaridi degli essudati e dei liquidi biologici e a particolari
glicoproteine sieriche, quali l’orosomucoide e la α2macroglobulina. Risulta evidente
come queste molecole possano, legandosi alla agglutinina, inibire il virus ad infettare
altre cellule o ad agglutinare le emazie e pertanto tali molecole sono dette inibitori
aspecifici per distinguerle dagli anticorpi specifici. Del resto i virus dell’influenza sono
detti Myxovirus proprio per la loro capacità di legarsi alla mucina. Durante il percorso
del virus lungo le vie respiratorie, il virus si lega ai mucopolisaccaridi dei liquidi
biologici. Per l’azione della neuraminidasi, che distrugge il recettore glicoproteico, a cui
l’agglutinina è legata, mediante l’idrolisi del suo zucchero terminale, l’acido sialico, si
libera il virus che così può raggiungere la cellula competente e legarsi al suo recettore
specifico.
L’attività
pinocitosica
della
25
cellula
sul
virus
previene
l’azione
neuraminidasica, che invece si esplica su cellule che non inglobano il virus quali le
emazie, dalle quali il virus, dopo qualche tempo, eluisce. La neuraminidasi quindi
potrebbe essere considerata un fattore di difesa del virus, un mezzo per raggiungere la
cellula competente dove possa moltiplicarsi e sopravvivere. La neuraminidasi sembra
avere inoltre un’attività che facilita la liberazione del virus maturo dalla cellula .
I virus di tipo A, a livello della agglutinina e della neuraminidasi mostrano, con
periodicità abbastanza regolare, un cambiamento più o meno profondo della struttura di
queste molecole che si riflette in una variazione antigenica. I nuovi ceppi virali si
selezionano attraverso la pressione anticorpale esercitata dagli anticorpi evocati dal
precedente virus. Una variazione antigenica più limitata si ha con il virus dell’influenza
B. Inoltre, a differenza del tipo B, in cui i ceppi virali sono stati isolati finora solo
nell’uomo, i virus dell’influenza A mostrano un’ampia diffusione in natura come agenti
patogeni del suino, del cavallo e degli uccelli. In questi ultimi tempi parecchi ceppi sono
stati isolati nei volatili. Accanto a ceppi patogeni, quali i virus della peste aviaria, che
provoca un alto tasso di mortalità tra i tacchini e tra i polli, e quelli delle quaglie e
anatre domestiche, altri virus di tipo A sono stati isolati in uccelli selvatici migratori nei
quali, a quanto pare, non danno luogo a malattia manifesta.
L’isolamento e l’identificazione delle varianti antigeniche dei virus influenzali
nell’uomo, condotto fin dal 1947 da un gruppo di laboratori in varie parti del mondo,
coordinati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha permesso di identificare tra i
virus dell’influenza umana di tipo A dei sottotipi virali che non mostrano reazione
sierologica crociata, mediante il test dell’inibizione dell’emagglutinazione, con il
sottotipo precedente. Tali sottotipi sono stati precedentemente designati come A0, A1,
A2, A3. Poichè essi mostrano anche proprietà sierologiche diverse nei riguardi della
neuraminidasi, i sottotipi sono stati designati come H0N1, H1N1, H3N2, dove H sta per
l’antigene agglutinina ed N per l’antigene neuraminidasi. Il virus del sottotipo H0N1,
isolato nella pandemia del 1933 ed il sottotipo H1N1, isolato nel 1946, mostrano
reazione crociata per l’antigene neuraminidasi, lo stesso avviene per il sottotipo H2N2
responsabile della pandemia “asiatica” del 1957 ed il sottotipo H3N2, responsabile della
pandemia del 1968.
Nel 1980, il sistema di nomenclatura dei virus influenzali di tipo A, che era stato
stabilito nel 1971, è stato revisionato per cui gli antigeni emagglutinanti
precedentemente indicati come sottotipi H0H1 e Hsw1 (virus influenzale del suino) sono
considerati strettamente correlati e pertanto appartenenti al singolo sottotipo H1. Tale
26
risultato è dovuto soprattutto a studi che hanno utilizzato metodi di ibridazione RNARNA, RNA-DNA, analisi degli oleonucleotidi e reazioni di immunoprecipitazione per
doppia diffusione (Tab. 1). I ceppi virali isolati, responsabili di epidemie e pandemie nei
periodi di tempo intermedi all’isolamento dei tre sottotipi H1N1, H2N2, H3N2, mostrano
una reazione crociata con il virus dello stesso sottotipo che li precede, reazione che
diventa sempre più debole per i ceppi virali isolati nei tempi successivi.
Da quanto detto sopra vi sono due diversi tipi di variazione antigenica. La prima
riguarda la completa sostituzione di un antigene (l’agglutinina o la neuraminidasi) con
un antigene differente dal primo e che implica la totale mancanza di reazione
sierologica crociata. Questa variazione antigenica drastica è detta spostamento
antigenico (antigenic shift) e viene spiegata, più che come un evento mutazionale, con
una sostituzione del segmento di RNA che codifica per l’agglutinina o per la
neuraminidasi con un RNA nuovo, che può derivare da un virus di tipo A degli animali.
Tale teoria è suffragata dal fatto che la particolare composizione del genoma del virus
influenzale, formato da otto geni separati, facilita il fenomeno di riassortimento dei geni
che non
passano attraverso una ricombinazione a crossing-over, peraltro non
chiaramente dimostrata per i virus a RNA a singola elica; e anche dal fatto che sono
stati ottenuti sperimentalmente ibridi fra i virus influenzali dell’uomo, del suino e degli
uccelli. Non bisogna dimenticare che studi di archeosierologia danno ormai per scontato
che gli anticorpi antiemagglutinina di individui che hanno avuto l’influenza “spagnola”
nel 1918 interreagiscono con l’agglutinina del virus influenzale del suino. E’ evidente
quindi il ruolo che la riserva animale dei virus influenzali può avere nello spostamento
antigenico (Tab. 2).
Oltre a questo evento drastico di sostituzione di antigene, l’altro fenomeno
mutazionale è quello della deriva antigenica (antigenic drift). Una volta che è comparso
un sottotipo influenzale responsabile di una pandemia, i successivi ceppi virali isolati o
in piccole epidemie localizzate o in pandemie, presentano delle leggere modificazioni a
carico degli antigeni superficiali tali che essi reagiscono sempre più debolmente con gli
anticorpi indotti dal virus precedente, fino a che la reazione sierologica crociata risulta
così debole che difficilmente gli anticorpi precedentemente evocati dal sottotipo da cui
essi derivano possono proteggere dai virus mutati comparsi dopo qualche anno. La
persistenza di una reazione sierologica crociata fa pensare che questi ceppi derivino
l’uno dall’altro soltanto per un numero di mutazioni puntiformi (sostituzione di una base
27
purinica o pirimidinica) a carico del gene che codifica per l’agglutinina o la
neuraminidasi.
I ceppi virali nuovi, sia quelli dovuti allo spostamento antigenico che quelli
dovuti alla deriva antigenica, si sostituiscono al ceppo precedente dopo un periodo di
tempo in cui persistono insieme, fenomeno questo da attribuire alla pressione selettiva
degli anticorpi (Tab. 3). Una deriva antigenica si ha anche con il virus influenzale di
tipo B, ma non è stata riscontrata finora in questo virus la comparsa di nuovi sottotipi.
E’ interessante notare che ceppi di tipo B non sono risultati patogeni negli animali; la
mancanza di riserva animale potrebbe dar ragione della mancanza di spostamenti
antigenici.
L’esame sierologico di un gran numero di sieri di individui di varie età ha
permesso di rilevare che ogni qual volta vi è uno stimolo antigenico da parte di un virus
influenzale, oltre agli anticorpi omologhi, vengono anche evocati gli anticorpi
corrispondenti al ceppo del virus influenzale con il quale l’individuo ha avuto contatto
per la prima volta. Questo fenomeno che va sotto il nome di “peccato originale
antigenico”, ha permesso ad alcuni studiosi di confrontare anticorpi in sieri di persone
anziane o di collezione evocati da virus sconosciuti nelle pandemie influenzali anteriori
al 1935 con i virus influenzali isolati negli ultimi anni.
Questi studi sierologici hanno portato ai risultati seguenti. La presenza di
anticorpi antiantigene Hsw1 del virus influenzale del suino trovati a partire dal 1934 in
sieri di individui di età maggiore ai 16 anni ha indotto a ritenere che il virus della
spagnola dovesse avere una agglutinina simile a quella del virus del suino di Shope. In
sieri raccolti prima della pandemia del 1957, appartenenti ad individui nati prima del
1887, sono stati trovati anticorpi che hanno reazione crociata con l’agglutinina H2. In
sieri raccolti durante la pandemia del 1957 furono trovati anticorpi contro il sottotipo
H3N2, successivamente comparso nel 1968. Questi studi potrebbero portare alla ipotesi
della presenza dei sottotipi H2 e H3 nelle pandemie del 1890 e precedenti e quindi alla
possibilità di un ritorno ciclico di epidemie dovute a virus già precedentemente
comparsi. Una riprova della ipotesi del riciclaggio potrebbe essere la comparsa nel
dicembre 1977 di un virus del sottotipo H1N1, l’URSS/1/76 che ha causato pandemie in
Unione Sovietica e in Cina.
Negli ultimi anni sono stati condotti intensi studi sierologici e biomolecolari dei
sottotipi del virus di tipo A isolati oltre che nell’uomo e in altri mammiferi (suino,
cavallo, foca) negli uccelli migratori e stanziali. Il risultato di questi studi ha evidenziato
28
(vedi tebella) 15 sottotipi di agglutinine (HA) e 9 sottotipi di neuraminidasi (NA) Tutti i
sottotipi appartengono a virus aviari e tutti i sottotipi differiscono fra loro per circa un
30% di omologia riguardo alla sequenza aminoacidica.
Gli uccelli acquatici infatti raramente si ammalano e pertanto sono considerati serbatoi
per tutti i sottotipi del virus A.
Dato interessante è che dal 1983 non sono stati isolati negli uccelli nuovi sottotipi di HA
e NA pertanto si presume che il numero di virus influenzali di tipo A aviari sia finito.
I virus influenzali dell’uomo H1N1 , H2N2 , H3N3
posseggono agglutinine e
neuraminidasi che hanno strette analogie con i virus del suino e di alcuni volatili (vedi
tabella); si ritiene pertanto che nel maiale, nei paesi asiatici a stretto contatto con l’uomo
e i volatili, sia potuto avvenire l’infezione del ceppo influenzale umano e del volatile
con successivo riassortimento (shift).
Nel 1997 a Hong Kong il virus aviario H5N1 ha contagiato diverse persone a seguito del
contatto diretto con pollame infetto. Finora (2004) le persone malate in seguito al
contagio sono state 44 di cui 32 morti, tasso di mortalità 73%. Non si hanno notizie
certe sulla eventuale trasmissione interumana di H5N1 . Tale evenienza non può essere
esclusa per il futuro e in tal caso questo nuovo virus potrebbe scatenare una pandemia a
mortalità elevatissima. Lo studio del prodotto genico di questo virus ha dimostrato una
intensa attività della proteina NS1 nel limitare l’effetto antivirus delle citochine e
dell’interferon.
Tab. I sottotitpi dell’emagglutinina e della neuroaminidasi del virus influenzale A presente negli uccelli, serbatoi
potenziali. In corrispondenza i sottotipi individuati nell’uomo e nei mammiferi.
Uccelli
H1
H2
H3
H4
H5
H6
H7*/**
H8
H9
H10
H11
H12
H13
H14
H15
Uomo
PR/8/34
H1NI
Sing/I/57
H2N2
HONG KONG/I/68
H3N2
H5N1
?
-
* sottotipo isolato nel cavallo
Maiale
SW/la/15/30
Uccelli
N1
Uomo
Pr/8/34
Maiale
SW/la/15/30
-
N2
Sing/I/57
SW/Taiwan70
SW/Taiwan 70
N3
-
-
?
N4
N5
N6
N7*
N8*
N9
-
-
?
-
** sottotipo isolato nella foca
29
L’influenza nell’uomo
L’influenza è una malattia epidemica a rapida diffusione. Nei secoli passati sono
state fatte drammatiche descrizioni di epidemie influenzali, le cui cause sono state
attribuite di volta in volta all’ “influenza delle stelle” (sec. XVI) e all’ “influenza del
freddo” (sec. XVIII), a significare sin da allora le caratteristiche più salienti di queste
epidemie: la periodicità di comparsa più breve rispetto alle altre malattie epidemiche (24 anni) ed il picco massimo di contagiosità e recrudescenza nei mesi freddi. La ricerca
scientifica dell’agente eziologico della malattia fu avviata da Pfeiffer durante la
pandemia del 1890. Egli isolò da soggetti ammalati un batterio che erroneamente
ritenne l’agente della malattia e che perciò classificò con il nome di Haemophilus
influenzae. Oggi si riconosce il ruolo che l’Haemophilus, insieme allo stafilococco ed
allo streptococco β-emolitico, possono avere come agenti responsabili di infezioni
secondarie nel corso della malattia.
Durante la grande pandemia influenzale del 1918-1919, passata alla storia con il
nome di “spagnola”, di eccezionale gravità per l’entità dei decessi, le numerose indagini
scientifiche esclusero che l’agente eziologico potesse essere un batterio. A tale
proposito è da ricordare che due autori italiani, Centanni e Savunozzi dimostrarono che
l’agente della peste aviaria, che attualmente risulta antigenicamente correlato al virus
dell’influenza A, possedeva le caratteristiche di un virus filtrabile. Shope nel 1931,
studiando
l’influenza
del
suino,
stabilì
una
similitudine
epidemiologica
e
sintomatologica tra tale malattia e l’influenza dell’uomo, tanto che da alcuni studiosi fu
avanzata l’ipotesi che l’influenza del suino potesse originare da un virus umano.
Durante la pandemia del 1933, il virus dell’influenza fu isolato a Londra da Smith,
Andrew e Laidlaw. Questi autori infettarono il furetto per via intranasale con il lavaggio
nasofaringeo di ammalati di influenza, provocando nell’animale la malattia, riuscirono a
trasmetterla da animale ad animale e dimostrarono la neutralizzazione dell’essudato
infetto con il siero di convalescenti di influenza. La proprietà caratteristica del virus
influenzale di agglutinare le emazie di animali di specie diversa con la possibilità,
quindi, di valutare la presenza e la quantità dei virioni, e la facile coltivazione in
embrioni di pollo hanno permesso di intraprendere lo studio di questi virus in anni in cui
le tecniche di coltura di cellule in vitro non erano perfezionate, nè si conoscevano le
tecniche necessarie per la coltivazione e lo studio della gran parte dei virus
successivamente isolati.
30
Clinicamente l’influenza è una malattia che si manifesta a carico delle prime vie
respiratorie, provocando una tracheite acuta con lesioni e distruzione dell’epitelio ciliato
da parte del virus. Durante i primi due giorni di malattia, l’epitelio necrotico si
disintegra e si stacca, leucociti migrano dai capillari alla mucosa e nelle vie respiratorie
si forma un essudato di leucociti, di debris necrotico e di muco. Il periodo di
incubazione, di uno o due giorni, è caratterizzato da cefalea, malessere e brividi di
freddo. La febbre è una caratteristica peculiare e caratterizzante di questa malattia. La
temperatura aumenta rapidamente a 38-40°C nelle prime 24 ore. Cefalea diffusa mialgie
ai lombi e alle estremità sono frequenti nell’adulto, ma meno marcate nel bambino. La
febbre decade al 3°-4° giorno e segue una rapida convalescenza, che spesso in individui
adulti, è accompagnata da leggera prostrazione e a difficoltà di concentrazione.
Complicanze polmonari, frequenti nelle persone anziane, sono associate a
sovrainfezioni batteriche e possono essere sospettate se la febbre ed
i sintomi
persistono dopo quattro o cinque giorni dall’inizio della malattia. Rarissime risultano,
nelle recenti epidemie, le polmoniti primarie da virus che, dai dati acquisiti dal 1918-19,
si ritiene siano state più frequenti durante l’epidemia spagnola, volendosi vedere in
questo una maggiore patogenicità del virus responsabile. Tuttavia anche per la spagnola
è stato accertato che la maggior causa di morte fu dovuta a complicazioni polmonari
provocate da infezioni batteriche secondarie.
Come per molte altre malattie da virus l’influenza presenta un ampio spettro
nelle manifestazioni cliniche. Anche se le ragioni di questa ampia variazione
sintomatologica sono poco conosciute, esse appaiono abbastanza correlate allo stato del
paziente ed a preesistenti disturbi dell’apparato cardiocircolatorio, vascolare e
respiratorio. La variazione nella frequenza di morbilità e mortalità dell’influenza,
riscontrata da una pandemia all’altra, hanno fatto pensare a mutazioni genetiche
correlate alla virulenza del virus anche se non è stato dimostrato in questo un gene
specifico o una costellazione di geni responsabili della virulenza stessa.
Epidemiologia dell’influenza
Nella pandemia 1918-19 il numero dei morti nel mondo raggiunse i 20 milioni,
con un’alta percentuale tra i giovani adulti; nessun popolo fu risparmiato. Negli Stati
Uniti, la cui popolazione, a differenza di quella europea subì meno le conseguenze
indirette degli eventi bellici, vi furono cinquecentomila decessi. L’eccezionale virulenza
del virus della spagnola non si è ripetuta nelle pandemie successive. Nella pandemia
31
“asiatica” del 1957-58 (sottotipo H2N2), più grave delle pandemie del 1946 (sottotipo
H1N1) e del 1968 (sottotipo H3N2), il numero dei morti negli Stati Uniti raggiunse
settantamila unità, il 14% rispetto ai decessi della pandemia del 1918.
Dal punto di vista epidemiologico l’influenza oggi è l’unica malattia la cui
presenza in una comunità civile può essere messa in evidenza dalla variazione statistica
dell’indice di mortalità. In altri termini l’epidemia influenzale tende ad incrementare la
mortalità da altre cause. La severità dell’epidemia “spagnola” e la periodicità frequente
della comparsa di nuove epidemie ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ad
organizzare centri di sorveglianza epidemiologica, al fine di individuare i nuovi ceppi
virali responsabili di nuove epidemie e nel timore della ricomparsa di un virus
particolarmente virulento. Nel gennaio 1976 un ceppo di virus influenzale del suino
venne isolato dal cadavere di un soldato morto per influenza a Fort Dix nel New Jersey
(U.S.A.) e da altri cinque pazienti. La somiglianza sierologica del ceppo influenzale
suino isolato a Fort Dix con il ceppo del virus responsabile della pandemia del 1918,
desunto da studi su sieri di persone anziane, fece temere alle autorità sanitarie degli Stati
Uniti la comparsa di una pandemia di particolare gravità quale era stata la spagnola. Fu
organizzata una campagna di vaccinazione di emergenza che avrebbe dovuto interessare
l’intera popolazione statunitense.
Nonostante gli sforzi fatti risultarono vaccinate soltanto 35 milioni di persone.
Sebbene tale campagna risultò in seguito non necessaria, in quanto il ceppo influenzale
New Jersey fu rapidamente sostituito con il ceppo Victoria, questa eccezionale
esperienza permise tuttavia di acquisire alcuni dati relativi alla vaccinazione: la
difficoltà logistica di vaccinare in breve tempo una intera popolazione, anche se
appartenente al Paese più ricco di risorse finanziarie e tecnologiche, e l’osservazione
che come conseguenza della vaccinazione un soggetto su centomila vaccinati presentava
una complicazione neurologica, una polineurite: la sindrome di Guillain-Barré, con una
incidenza sei volte superiore a quella della popolazione non immunizzata dello stesso
periodo.
Profilassi
La profilassi dell’influenza ad opera dell’immunizzazione attiva supplisce, anche
se solo in parte, alla mancanza di strumenti terapeutici adatti per la cura della malattia. I
vaccini attualmente usati sono polivalenti e preparati con i ceppi virali responsabili delle
pandemie in atto o con la variante antigenica isolata che si prevede possa essere l’agente
32
responsabile di una nuova pandemia. La composizione di questi vaccini viene di anno in
anno allestita su raccomandazione delle autorità sanitarie dei vari Paesi, in accordo con i
dati epidemiologici acquisiti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ad esempio in
Italia, negli U.S.A. ed in altri Paesi europei il vaccino per l’anno 1985-86 era costituito
dal sottotipo A/Cile 1/83 (variante H1N1), A/Filippine 2/82 (variante H3N2) e da una
variante dell’influenza B, il B URSS 100/83. Attualmente, anno 1997-98, è costituito da
A/Sydney 5/97 (H3N2 Austalia), A/ Beijing 262/95 e da B/Beijing 184/93. Essi
contengono virus cresciuti in membrana corioallantoidea di embrioni di pollo
parzialmente purificati ed inattivati con formaldeide; producono un livello di anticorpi
antiemagglutinina tale da proteggere il 70% dei vaccinati con una durata protettiva
media di un anno. Le reazioni che il vaccino può dare sono limitate ad eritemi ed
indurimenti nel sito dell’inoculazione. Reazioni rarissime sono la febbre ed una
sintomatologia simile a quella di una influenza clinicamente attenuata, quali mialgie,
spossatezza e sensazione di freddo.
Tali reazioni si manifestano soprattutto nei bambini di età non superiore a 6 anni
con una incidenza che può raggiungere il 10-20%. Questi effetti collaterali, che in
passato erano attribuiti alla presenza di proteine inquinanti dell’uovo presenti nel
vaccino, persistono anche nei vaccini odierni, preparati con virus purificato con la
centrifugazione in gradiente di densità, tecnica che elimina la gran parte delle proteine
non virali. Queste reazioni, che iniziano 6-12 ore dopo la vaccinazione, persistono per
1-2 giorni; oggi si ritiene che esse siano il risultato di un’attività similendotossica
dovuta alle lipoproteine della membrana pericapsidica. In effetti, in vaccini preparati
con subunità virali (agglutinina e neuraminidasi), queste reazioni insorgono con una
frequenza molto inferiore. Ciò non toglie che reazioni anafilattiche si possano avere in
individui con ipersensibilità alle proteine dell’uovo.
Di norma la vaccinazione si attua con una dose singola di vaccino che contiene
in totale 300 unità emagglutinanti. Una seconda dose viene raccomandata quando nel
vaccino è contenuto un sottotipo virale con il quale il vaccinato non è venuto
precedentemente in contatto. Sono inoltre sotto sperimentazione clinica preparati con
componenti virali, ottenuti dopo rottura dei virus con detergenti e successivo isolamento
degli antigeni superficiali: l’agglutinina e la neuraminidasi. Questi vaccini, preparati con
antigeni purificati, dovrebbero aumentare la risposta anticorpale oltre ad essere privi di
effetti tossici.
33
Un altro tipo di vaccino, in via sperimentale da qualche anno, è costituito da
ceppi virali attenuati nell’infettività, selezionati a mezzo di passaggi seriali a bassa
temperatura in embrioni di pollo o colture di cellule (mutanti condizionali temperaturasensibili) ed inoculati per via intranasale. Questi vaccini inducono una buona risposta
anticorpale tipo IgA nel secreto respiratorio oltre che di immunoglobuline sieriche.
Purtroppo il tempo necessario per selezionare questi ceppi ed avviarli alla
sperimentazione clinica è tale da poter rendere inattuabile l’uso del vaccino
sperimentato.
Finora non è stata presa in considerazione una immunizzazione massiva che ha
dei limiti, sia per il breve periodo di immunizzazione assicurata dal vaccino che per i
problemi collegati all’organizzazione della campagna di somministrazione, che del resto
risultano già notevoli per assicurare la vaccinazione nei soggetti ad alto rischio. La
vaccinazione viene attualmente raccomandata ai soggetti con malattie croniche
dell’apparato respiratorio, cardio-circolatorio e renale, diabete mellito ed altre malattie
dismetaboliche, nonchè per gli anziani di età superiore ai 65 anni, poichè soprattutto
questa classe di età ha risentito dell’aumento di mortalità durante le ultime pandemie
influenzali. Per quel che riguarda la sindrome di Guillain-Barré il rischio può
considerarsi trascurabile rispetto al rischio associato all’influenza nei soggetti per i quali
è indicato il vaccino: Può essere presa in considerazione la vaccinazione del personale
sanitario nel caso di insorgenza di un nuovo sottotipo virale che dovesse comparire nel
prossimo futuro.
Il problema della vaccinazione di massa è legato alla possibilità di produrre nei
prossimi anni vaccini di lunga durata che coprano un’ampia gamma di antigeni di
superficie. Esso dipende dalla risposta ad un enigma biologico non ancora risolto, e cioè
se la variazione antigenica dei virus ha una potenzialità illimitata nel senso che esprime
sempre nuovi ceppi mutanti all’infinito o se il numero dei mutanti è limitato ad una
serie di antigeni che si ripetono in ritorni ciclici. Nella prima ipotesi l’immunizzazione
di massa può accelerare addirittura la comparsa selettiva di mutazioni nuove, mentre
nella seconda ipotesi si può sperare in un vaccino a largo spettro antigenico, tale da
rappresentare una barriera immunogena completa alla diffusione dei virus influenzali.
Ancora per quel che riguarda la profilassi dell’influenza, un chemioterapico
alquanto efficace per la prevenzione dell’influenza di tipo A è l’amantadina alla dose
150-200 mg pro die. Questi dosaggi somministrati in soggetti sani a rischio di infezione
(ad esempio personale ospedaliero durante ospedalizzazione di malati di influenza) o
34
pazienti immunodepressi, può conferire una protezione durante i giorni di
somministrazione, paragonabile a quella del vaccino. E’ evidente che la profilassi con
l’amantadina deve essere considerata temporanea e in attesa della profilassi vaccinale. Il
farmaco è attivo e selettivo nel proteggere dall’influenza di tipo A, ma non per
l’influenza dovuta al virus di tipo B.
Paramyxoviridae
Ai paramyxovirus appartengono un gruppo di virus, alcuni dei quali, al momento
della loro scoperta, erano classificati nei myxovirus per alcuni caratteri che li
accomunano ai virus influenzali, quali l’affinità per i mucopolisaccaridi, la proprietà
emagglutinante e neuraminidasica e l’essere prevalentemente agenti infettivi
dell’apparato respiratorio.
I paramyxovirus differiscono dai myxovirus fondamentalmente per la struttura
del genoma. Il genoma del paramyxovirus è formato da un unico filamento di RNA (il
peso molecolare varia da 4.8x106 a 7.5x106) laddove quello dei myxovirus è segmentato
in 8 frammenti di RNA. Il virione dei paramyxovirus avente un diametro medio di 125250 nm ha una morfologia simile a quella dei myxovirus e consta di una nucleoproteina
con capside a simmetria elicoidale avviluppata all’interno di una membrana
pericapsidica (Tab. 4). La membrana pericapsidica similmente a qualla dei myxovirus è
costituita da un doppio strato lipidico derivato dalla membrana citoplasmatica avente
uno strato proteico basale interno codificato dal genoma virale detto proteina matrice
(MP). Inserite nel doppio strato lipidico, vi sono due glicoproteine virali (peplomeri),
aventi l’una proprietà emagglutinante e neuraminidasica (NH p.m. circa 75.000) e l’altra
attività emolitica e di fusione (proteina F p.m. circa 65.000). Il genoma è rappresentato
da un RNA a singola elica a polarità negativa che codifica per 6-7 proteine.
Strettamente legata alla nucleoproteina vi è una RNA-polimerasi RNA dipendente che
trascrive mRNA monocistronici.
Le proprietà che hanno questi virus di avere attività emolitica e di fusione è
strettamente connessa alle modalità di infezione. Una volta che è avvenuto il legame tra
l’agglutinina del virus e il recettore glicoproteico cellulare, la membrana pericapsidica
del virus fonde con la membrana citoplasmatica della cellula. Questo fenomeno è
mediato dalla presenza della glicoproteina F di superficie che a sua volta è convertita in
una forma biologicamente attiva (F1) da un enzima proteolitico delle cellule competenti
alla moltiplicazione del virus.
35
Il processo di maturazione dei paramyxovirus è simile a quello del virus
influenzale. La nucleoproteina neoformata nel citoplasma viene inglobata da parti
discrete di membrana citoplasmatica le cui proteine, durante il processo infettivo, sono
state sostituite dalle proteine virali ovverossia dalla proteina matrice basale (MP) e dalle
glicoproteine di superficie NH e F. A questo punto si ha il distacco per gemmazione del
virione maturo dalla cellula.
La fusione cellulare da parte dei paramyxovirus può coinvolgere più cellule
determinando nelle colture cellulari la formazione di sincizi.
La glicoproteina F responsabile della fusione causa anche l’emolisi degli
eritrociti. I paramyxovirus, a seconda dei sottotipi, sono facilmente coltivabili in cellule
diploidi umane e di scimmia in colture primarie e successivamente anche in linee
cellulari continue. Alcuni paramyxovirus crescono bene in embrioni di pollo.
La famiglia dei Paramyxoviridae è divisa in tre generi: i Paramyxovirus
propriamente detti in cui sono raggruppati i virus parainfluenzali 1-4, il virus della
malattia di Newcastle e il virus della parotite epidemica; il genere Morbillivirus a cui
appartengono il virus del morbillo, del cimurro del cane, della peste bovina e il virus
della peste dei piccoli ruminanti ed infine il genere Pneumovirus che contiene i virus
sinciziali respiratori umano e bovino ed il virus della polmonite del topo. Nella Tab. 5
sono sintetizzati i caratteri biochimici e biomolecolari che distinguono i tre generi dei
paramyxovirus.
Genere Paramyxovirus
I virus parainfluenzali
I virus parainfluenzali dell’uomo isolati negli anni 1956-60 sono agenti di
affezioni delle prime vie respiratorie, specialmente nella prima infanzia e giovinezza.
Sono comuni le reinfezioni, ma spesso a livello subclinico. La persistenza di
questi virus in infezioni inapparenti comporta una riserva attiva di virus infettivo.
Ai virus parainfluenzali appartengono 4 tipi antigenici diversi:
1) il virus parainfluenzale di tipo 1 che contiene due sottotipi virali, l’HA2 e il
virus Sendai (Tab. 5) - (Fig. 4) originariamente un parainfluenzale del topo. Entrambi
questi virus crescono in colture primarie di mammifero e aviarie, dando luogo a sincizi
e inclusioni citoplasmatiche. Le aree citopatiche possono essere messe in evidenza con
l’adsorbimento delle emazie. Ambedue i ceppi a simiglianza del virus influenzale
36
possono essere isolati dal gargarizzato o dal tampone faringeo, mediante colture in
amnios di embrione di pollo in 10a giornata. Successivamente i virus possono essere
coltivati in membrana allantoidea di embrione di pollo.
2) Il virus parainfluenzale di tipo 2 include anche il virus parainfluenzale della
scimmia SV5.
3) Il virus parainfluenzale di tipo 3 è correlato antigenicamente con un virus
parainfluenzale di origine bovina.
4) Il virus parainfluenzale di tipo 4 mostra una reazione crociata col virus della
parotite epidemica.
Le tecniche di isolamento e di coltura dei parainfluenzali di tipo 2, 3 e 4 sono
simili a quelli del parainfluenzale di tipo 1.
I virus parainfluenzali sono distribuiti in tutto il mondo e frequentemente danno
epidemie. Anticorpi contro tutti i 4 tipi si ritrovano nelle popolazione adulta. Le malattie
che essi danno a carico delle prime vie respiratorie spesso presentano sintomi simili a
quelli del comune raffreddore e dell’influenza. I virus parainfluenzali di tipo 1 e 2
provocano nella gran parte dei casi una laringo-tracheo-bronchite (croup) e sono gli
agenti che danno le forme parainfluenzali più gravi. Il virus parainfluenzale di tipo 3
spesso provoca una sintomatologia simile a quella del raffreddore comune. Il virus
parainfluenzale di tipo 4 dà spesso forme blande o asintomatiche. Il virus di tipo 3
bovino causa rinotracheiti nei bovini, tali infezioni in forma epidemica si sviluppano
durante il trasporto delle mandrie sulle navi (shipping fever).
Esistono vaccini preparati con virus inattivati con formalina che però non hanno
ancora completato la sperimentazione clinica. Un vaccino preparato con il virus
parainfluenzale 3 inattivato, per la vaccinazione dei bovini, ha dato esito controverso.
Virus della malattia di Newcastle
Questo virus detto anche virus parainfluenzale aviario di tipo 1, può provocare
epidemie più o meno gravi fra i volatili domestici. Sono state isolate infatti quattro
varianti del virus che colpiscono i volatili in base al grado di virulenza: la variante
velogenico-viscerotropa dà la malattia più grave con mortalità del 90% del pollame,
caratterizzata da difficoltà di respiro, edema congiuntivale, nasale e oculare, torcicollo,
emorragia
intestinale
e
diarrea.
la
variante
velogenica-neurotropa
dà
una
pneumoencefalopatia con il 15% di mortalità dei volatili. Le varianti mesogeniche e
lentogeniche danno una forma più mite di malattia. Tutte e quattro le varianti del virus
37
possono
infettare
personale
addetto
all’allevamento
potendo
provocare
una
congiuntivite per strofinamento dell’occhio con le mani, oppure una faringite con una
sintomatologia simil-influenzale per inalazione di materiale infetto.
Sono disponibili vaccini vivi attenuati preparati con ceppi lentogenici e
mesogenici da somministrare al pollame nell’acqua da bere, o per aerosol o per
instillazione oculare o nasale.
Virus della parotite epidemica
Il virus della parotite epidemica è simile, nelle sue caratteristiche morfologiche e
biochimiche, ai virus parainfluenzali. Presenta un pleomorfismo spinto per cui il
diametro dei virioni può variare dai 100 ai 600 nm.
Il virus della parotite epidemica ha come ospite naturale l’uomo ed è diffuso in
tutto il mondo. I segni clinici caratteristici della malattia quali la tumefazione delle
ghiandole parotidee e la complicanza dell’orchite sono stati già descritti da Ippocrate nel
V secolo a.C.
La parotite epidemica è una malattia acuta infettiva che colpisce soprattutto nella
fascia di età dai 4 ai 15 anni e si manifesta con febbre, rigonfiamento delle ghiandole
parotidee, secchezza della gola da ridotta salivazione per blocco dei dotti salivari. La
complicanza più comune è l’orchite che può verificarsi quattro o cinque giorni dopo la
manifestazione parotidica, con una più alta incidenza negli adulti. Altra complicanza
può essere la meningite con prognosi benigna e, in rari casi, una meningoencefalite.
La parotite epidemica varia nelle sue manifestazioni cliniche e si calcola che
almeno la metà degli individui che sono andati incontro ad infezione non sviluppano la
malattia. L’infezione avviene per via interumana. Il virus penetra nel naso e nella bocca
con l’aerosol salivare e si moltiplica nelle prime vie respiratorie. Il periodo di
incubazione della malattia ha una media di 18 giorni e il paziente diventa infettante 4-5
giorni prima dell’inizio della sintomatologia clinica e lo rimane per 7-9 giorni. Durante
questo periodo il virus si ritrova nella saliva e può anche essere isolato successivamente
nel liquido cefalorachidiano e nelle urine. La diagnosi di laboratorio si fa isolando il
virus della saliva a mezzo di gargarizzato o tampone faringeo. Il materiale può essere
inoculato in amnios di embrione di pollo alla decima giornata o in colture cellulari di
rene di scimmia. La presenza di virus è rilevata dall’attività emagglutinante del liquido
amniotico e dall’emoadsorbimento in colture cellulari.
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Nel 1968 è stato immesso nella farmacopea un vaccino preparato con un ceppo
virale attenuato isolato in embrione di pollo. Questo vaccino può essere usato in forma
monovalente o in combinazione con il vaccino del morbillo e della rosolia (vedi).
Genere morbillivirus
Sono raggruppati sotto questo genere, virus che mostrano fra loro alcune
relazioni antigeniche almeno per gli antigeni nucleoproteici e di matrice (NP,M).
Appartengono al genere di Morbillivirus il virus del morbillo (diminutivo dal latino
morbus) dell’uomo, il virus del cimurro del cane che può infettare anche altri canidi ed i
mustelidi, il virus della peste bovina che può colpire in forma endemica le mandrie
bovine ma anche pecore e capre. Infine il virus della peste dei piccoli ruminanti con
patogenesi simile a quella della peste bovina.
Virus del morbillo
I virioni pleomorfi misurano 100-250 nm. di diametro. La glicoproteina H
misura isolata 15 nm., ha una forma conica ed è presumibilmente formata da 3
monomeri, manca di attività neuraminidasica. La glicoproteina F è convertita nella
forma attiva di fusione da enzimi proteolitici della cellula. Tale molecola attiva è
costituita da un polipeptide (F1) e da un glicopolipeptide (F2) legati fra loro da ponti
disolfurici. L’uomo è l’ospite naturale del virus del morbillo.
Le infezioni sperimentali sono condotte in scimmie, topi e criceti. Il virus si
moltiplica in colture di cellule diploidi umane, di rene di scimmia ma anche in linee
cellulari continue quali cellule Vero ed Hela. Il virus è stato adattato a crescere anche in
colture di fibroblasti di embrioni di pollo e uno di questi ceppi virali (ceppo Schwartz) è
usato come vaccino.
Solo una piccola frazione di virus prodotto in colture cellulari ha attività
infettante, inoltre il virione tende ad essere rapidamente inattivo. I danni citopatici
provocati dal virus in colture di cellule consistono in estensive fusioni cellulari con
formazione di grandi sincizi, distruzione del citoscheletro e formazione di corpi inclusi
eosinofili sia a livello nucleare che citoplasmatico formati soprattutto da nucleoproteine.
Infezioni persistenti possono prodursi in colture di cellule in cui normalmente il virus
esaurisce il suo ciclo litico. In questo caso le cellule in vitro si moltiplicano
normalmente e la presenza di antigene virale può essere messa in evidenza nel
citoplasma a mezzo di anticorpi fluorescenti. Le infezioni persistenti spesso sono dovute
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ad una restrizione selettiva della sintesi di uno o più componenti dell’involucro
pericapsidico.
La penetrazione del virus avviene attraverso le prime vie respiratorie e
probabilmente anche attraverso la congiuntiva. Il periodo di incubazione è di circa 10
giorni. Il virus si moltiplica nel tessuto linfatico e successivamente nel sistema
reticoloendoteliale, provocando leucopenia. Contemporaneamente il virus infetta
soprattutto l’epitelio respiratorio e successivamente l’endotelio dei piccoli vasi. Il virus
può essere isolato dai linfociti periferici, dagli essudati catarrali, dalla congiuntiva e
dalle urine. La malattia ha inizio con una fase catarrale caratterizzata da febbre, tosse,
congiuntivite e fotofobia, possono apparire nella cavità orale le macchie di Koplik,
areole eritematose grigiastre di 1.3 mm di diametro. Segue un esantema macropapulare
che può diventare confluente, che di solito appare per primo alla nuca e al viso e
diffonde successivamente per tutto il corpo. Possibili complicanze batteriche della
malattia possono provocare l’otite media e la broncopolmonite. Un’altra complicanza
del morbillo è l’encefalite che può insorgere dopo alcuni giorni dall’esantema. Negli
Stati Uniti la possibilità di tale evento è di 1 caso su 2.000 malati. In condizione di
carenza igienica e nutrizionale il morbillo può assumere una particolare gravità. In
popolazioni defedate la malattia è da considerare una delle più importanti cause di
mortalità per i bambini da 1 a 5 anni.
Il virus del morbillo oggi è considerato l’agente etiologico della panencefalite
sclerosante subacuta, una rara malattia progressiva del sistema nervoso centrale che
colpisce soprattutto nella fascia di età di 5 - 14 anni. I malati presentano alti livelli
anticorpali di IgG e IgM nei riguardi del virus morbilloso, sia nel siero che nel liquido
cefalorachidiano; il virus morbilloso è stato isolato con la tecnica di fusione cellulare da
cellule nervose di tessuto infetto ed inoltre è stata trovata presenza di antigeni specifici
del morbillo in cellule nervose da tessuto necrotico autoptico. Il ceppo virale trovato nel
tessuto nervoso contiene una proteina M alterata che non corrisponde agli anticorpi anti
M del virus normale. La malattia, estremamente rara, insorge con una frequenza di 1 su
100.000 casi di morbillo, dopo un periodo di incubazione da 6 mesi a 2 anni dal
trascorso clinico morbilloso.
Il vaccino preparato con virus inattivato non è più in uso in quanto i soggetti
vaccinati possono avere reazioni abnormi di ipersensibilità e un morbillo atipico quando
successivamente esposti all’infezione naturale, ovvero rivaccinati con il vaccino
preparato con virus attenuati. E’ stato accertato che il vaccino inattivato induce anticorpi
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anti HN ma non anticorpi anti F che sono importanti nel prevenire la fusione cellulare e
quindi la diffusione del virus cellula-cellula.
Viene ormai generalmente usato un vaccino vivo attenuato per 77 passaggi
seriali del ceppo Edmonston, a temperatura di 32°C, in colture di fibroblasti di embrione
di pollo (ceppo Schwartz). Questo vaccino dato in una sola dose per via parenterale dà
una protezione che allo stato attuale supera 15 anni ma che probabilmente è permanente.
Il vaccino è controindicato alle gestanti anche se non vi sono prove che il virus possa
attraversare la placenta. Sono rari gli effetti collaterali (convulsioni, febbre) che possono
essere trattati con una piccola dose di gamma globulina. Poichè gli anticorpi trasmessi
dalla madre tendono a persistere a lungo, si preferisce vaccinare i bambini dopo il 1°
anno di età. Il rischio di una panencefalite sclerosante subacuta da vaccino è di 10 volte
inferiore a quello da infezione naturale.
Genere Pneumovirus
Appartengono al genere dei Pneumovirus:
il virus sinciziale respiratorio dell’uomo e il virus sinciziale respiratorio del bovino che
sono fra loro antigenicamente collegati.
Nello stesso genere è stato classificato il virus della polmonite del topo che non
mostra rapporto antigenico con i primi due. I virus sinciziali respiratori si differenziano
dai Paramyxovirus e Morbillivirus perchè mancano di attività emagglutinante.
Virus sinciziale respiratorio dell’uomo
Il virus sinciziale respiratorio è stato isolato nel 1956 da uno scimpanzè e l’anno
successivo in bambini con grave sintomatologia respiratoria. Il virus ha una forma
pleomorfa con un diametro che può variare dagli 80 ai 500 nm. Spesso alcuni virioni
hanno forma filamentosa. Le caratteristiche morfologiche del virus sinciziale
respiratorio sono quelle proprie dei paramyxovirus. Sono state identificate, a
simiglianza degli altri paramyxovirus, due glicoproteine di superficie, una ad attività di
fusione che determina la formazione di cellule sinciziali giganti mentre l’altra, a
simiglianza della glicoproteina NH, si lega al recettore cellulare delle cellule competenti
ma manca di attività neuraminidasica ed agglutinante.
L’isolamento del virus si attua nel gargarizzato o con tampone faringeo. Durante
il trasporto in laboratorio il campione deve essere mantenuto a bassa temperatura
evitando il congelamento e data la estrema labilità del virus si deve procedere al più
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presto possibile alla semina su colture di linee cellulari Hep2 o HeLa (ceppo Bristol) o
colture di polmone embrionario umano. Il virus provoca nelle colture cellulari ampi
sincizi e cellule giganti e la sua presenza può essere messa in evidenza con la tecnica
degli anticorpi fluorescenti. Le tecniche sierologiche usate per il riconoscimento degli
anticorpi specifici sono la fissazione del complemento e la neutralizzazione.
Data la lenta moltiplicazione del virus nelle colture cellulari (7-10 giorni), una diagnosi
più rapida può essere la messa in evidenza nelle secrezioni naso faringee dell’RNA
virale mediante RT-PCR
Il virus, diffuso in tutto il mondo, provoca infezioni respiratorie che possono
variare nella sintomatologia da lievi alterazioni delle prime vie respiratorie a severi
attacchi di bronchiolite acuta. Il virus sinciziale respiratorio è causa di gravi infezioni
respiratorie nella prima infanzia, soprattutto in bambini al di sotto dei 6 mesi di età, ma
può anche infettare e causare gravi bronchiti nelle persone anziane.
La patologia grave si manifesta con bronchiolite necrotizzante e collassamento
dei bronchioli. L’infiltrazione peribronchiale può diffondere il virus nei polmoni
potendo provocare una polmonite interstiziale . Segni clinici nei casi gravi sono febbre,
letargia e apnea. Sia nei bambini che negli adulti si può avere reinfezione in presenza di
anticorpi neutralizzanti nel siero. La resistenza alla reinfezione sembra piuttosto
collegata ai livelli d’immunoglobulina A nel secreto nasale.
La presenza di anticorpi IgG nel siero indotti dall’infezione naturale da VSR
protegge parzialmente e per brevissimo periodo da una susseguente reinfezione. In più
le forme più gravi di malattia e cioè la bronchiolite e la polmonite, causate dal virus
sinciziale respiratorio si hanno di solito in bambini al di sotto dei 6 mesi di età in cui
persistono ancora gli anticorpi trasmessi dalla madre. I tentativi di una profilassi con un
vaccino preparato con virus inattivato con formalina non è solo fallito, ma nei soggetti
trattati, specialmente quelli più giovani, la reinfezione ha portato a dei gravi decorsi
clinici. I risultati di cui sopra inducono a formulare l’ipotesi che le più severe forme
della malattia possono essere provocate in parte dai fenomeni immunologici dovuti
all’interazione del virus con gli anticorpi sierici. Attualmente sono in corso tentativi di
approntare dei vaccini preparati con virus vivo attenuato nel presupposto che tale tipo di
vaccino possa indurre soprattutto anticorpi IgA nel tratto respiratorio. La
sperimentazione clinica di questi vaccini si è rivelata sino ad ora infruttuosa.
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Rhabdoviridae
Appartengono a questa famiglia, virus sia del mondo animale che vegetale.
Al genere Lyssavirus (lyssa = pazzia) appartiene il virus della rabbia che infetta
varie specie di mammiferi e l’uomo.
Il virione ha una caratteristica forma a proiettile, il nucleo capside (130 nmx200
nm) è a simmetria elicoidale con RNA a polarità negativa. L’involucro pericapsidico
rivestito all’interno dalla proteina matrice (M) possiede in superficie le spicole
glicoproteiche (glicoproteine G) che hanno la proprietà di legarsi al recettore neuronale
della acetilcolina. Il ciclo moltiplicativo è simile a quello dei paramixovirus.
L’infezione è veicolata dalla saliva infetta dell’animale rabbico sia con il morso
(cane e altri mammiferi) che, nel caso di pipistrelli, per un concentrato di aerosol in
ambiente chiuso.
Sia nell’uomo che in altri mammiferi la malattia si manifesta come una
encefalite con il 100% di mortalità, con un periodo di incubazione che varia dalle tre
alle otto settimane a seconda del distretto del corpo in cui è avvenuta l’infezione.
Il più o meno lungo periodo di incubazione della malattia è dovuto alla lenta
progressione del virus verso il sistema nervoso centrale. Il virus penetrato con la saliva
all’interno dei tessuti si moltiplica nel tessuto connettivo e muscolare raggiunge le
terminazioni dei nervi periferici e attraverso l’axoplasma degli assoni raggiunge i gangli
neuronali e prosegue per la stessa via raggiungendo il sistema nervoso centrale
moltiplicandosi e distruggendo i neuroni.
In precedenza, utilizzando le terminazioni nervose, raggiunge le ghiandole salivali
replicandosi in esse.
La rabbia è una encefalite con degenerazione dei neuroni del cervello e del
midollo spinale. Le manifestazioni della malattia, sia per l’uomo che per il cane e altri
mammiferi (volpi, lupi, procioni ecc.) sono impressionanti: aumento del tono
muscolare, contrazioni spasmodiche generali e spasmo dei muscoli della deglutizione,
anche alla sola vista dell’acqua (idrofobia). Nel cane tendenza all’aggressività (rabbia
furiosa). Una diagnosi di laboratorio per stabilire la morte per rabbia è la ricerca dei
corpi di Adelchi Negri (1903) nel citoplasma dei neuroni, in preparati tissutali della
regione del corno di Ammone mediante la colorazione con il metodo di Mann o con il
Giemsa.
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La presenza di queste inclusioni che rappresentano il centro di produzione virale
all’interno del citoplasma cellulare, è diagnostica per infezione rabbica ed è importante
per lo studio epidemiologico della malattia (cadaveri di volpi, cani, procioni ecc.).
Il lungo periodo di incubazione permette di poter utilizzare l’immunità artificiale
attiva a seguito di sospetta infezione (morso da animale).
Il primo vaccino antirabbico fu ideato da Pasteur negli anni 1880. Egli intuì che
l’agente eziologico della rabbia era un “virus filtrabile”: studiò la trasmissione della
malattia in coniglio inoculando per via intracerebrale filtrato di midollo spinale di
animale infetto. Dopo 50 passaggi in serie in coniglio, notò che il periodo di
incubazione della malattia di solito variabile, si fissava in 8 giorni e chiamò questo
agente filtrabile modificato virus fisso. Dopo aver trattato con fenolo per 40 giorni il
midollo spinale del coniglio infettato con virus fisso, usò questo materiale diluito come
vaccino su individui sicuramente infettati da animali rabidi e che pertanto non si
ammalarono.
Il vaccino di Pasteur variamente modificato fu usato fino agli anni ‘60 (vaccino
di Fermi in Italia). Questo vaccino in rari individui poteva dare gravi sintomatologie di
natura allergica dovute al materiale cerebrale iniettato.
Per gli animali (il vaccino antirabbico è obbligatorio per i cani) si usano vaccini
preparati con virus attenuato per successivi passaggi in embrione di pollo.
Per l’uomo attualmente, con attesa della messa a punto di un prodotto preparato
con antigeni virali di superficie prodotti per ingegneria genetica, si usa il vaccino
antirabbico costituito da virus coltivato in cellule diploidi umane e inattivato con il βpropiolattone (HDCV), in 5 dosi ai giorni 0,3,7,14,28.
Il vaccino viene usato a scopo profilattico per alcune categorie di persone:
veterinari speleologi laboratoristi.
Normalmente è usato per persone morsicate da animale sospetto.
In Italia esistono dei Centri Antirabbici dove medici specializzati ricevono la
denuncia, decidono sulla somministrazione del vaccino, ordinano il controllo
dell’animale sospetto nei canili municipali. Di regola la vaccinazione viene sospesa se
dopo 10 giorni l’animale non manifesta i sintomi della malattia. Nel caso di morso da
cane o di altri mammiferi sfuggiti all’osservazione o uccisi, si attua il ciclo vaccinico
completo.
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Attualmente un serbatoio di virus rabbico è costituito nell’Europa dell’Est dalle
volpi. Negli Stati Uniti serbatoi sono i procioni mentre nell’America del Sud i grandi
pipistrelli.
Filoviridae
Appartengono a questa famiglia i virus Marburg ed Ebola. Sono agenti di febbri
emorragiche con una sintomatologia grave e devastante a trasmissione interumana sia
per aerosol che per contatto con il vomito e liquidi biologici del malato, ad alto rischio
di infezione il personale sanitario.
Il virus di Marburg fu isolato in Germania a Marburg e Francoforte e in
Jugoslavia dove vi furono casi di febbre emorragica fra il personale di laboratorio
addetto alle colture di cellule, che aveva lavorato con reni di scimmie verdi africane di
recente importazione. Vi furono 31 malati compresi addetti sanitari dell’ospedale con 7
esiti letali. Successivamente altri casi furono segnalati in Sud Africa e Kenia.
Nel 1976 vi furono delle epidemie di febbre emorragica in Zaire e Sudan (550
casi e 430 morti) dai pazienti è stato isolato il virus Ebola antigenicamente distinto dal
Marburg. Successivamente si sono riscontrati focolai epidemici da Ebola in Sudan
(1976), in Zaire (1995) 315 casi 244 morti, nel Gabon (1996) 27 casi 19 morti.
Sono state segnalate anche epidemie fra le scimmie africane (scimpanzè).
Poco si conosce ancora dell’epidemiologia di questi virus e degli improvvisi
episodi epidemici.
La morfologia del virione è alquanto singolare, sono dei bastoncini di lunghezza
variabile fino a 14.000 nm con un diametro traverso di 80 nm. Il nucleocapside è
formato da un RNA a polarità negativa con capside a simmetria elicoidale avvolto da un
involucro pericapsidico con proteina matrice e glicoproteina di superficie.
Sono stati identificati 7 geni su un genoma con lunghe regioni intergeniche non
codificanti.
Reoviridae
Caratteristica di questi virus è il genoma formato da un RNA a doppia elica
segmentato (Rotavirus 11 segmenti). I virus sono nudi. L’RNA genomico è racchiuso in
un doppio capside icosaedrico con un diametro di 70 nm.
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Reovirus è acronimo di respiratory enteric orphan virus. Virus appartenenti a
questo genere infettano (presenza di anticorpi) senza dare manifestazioni patologiche
evidenti.
Alla Famiglia Reoviridae appartengono i Reovirus e i Rotavirus.
Al genere Rotavirus appartengono 4 virus antigenicamente distinti responsabili
della gastroenteriti acute infantili (età 6-24 mesi); la malattia si manifesta con diarrea,
febbre, spesso vomito e può durare alcuni giorni. Particolarmente grave e causa di morte
nei paesi in via di sviluppo (bambini denutriti). Negli adulti si manifestano infezioni
subcliniche. Il virus si moltiplica nella mucosa duodenale e si ritrova in abbondanza
nelle feci. La trasmissione è oro-fecale e la malattia tende a manifestarsi nel periodo
invernale.
I Rotavirus si coltivano assai difficilmente in colture cellulari, una diagnosi di
laboratorio, assai attendibile data l’abbondanza dei virioni nelle feci è l’osservazione
con la microscopia elettronica del sovranatante fecale. E’ usato attualmente il metodo
immunoenzimatico ELISA per la messa in evidenza degli antigeni virali.
Caliciviridae
Sono virus icosaedrici nudi di 27 nm di diametro, con genoma a RNA singola
elica e a polarità positiva. Il nome deriva dal fatto che all’osservazione microscopica in
sezione esagonale i lati appaiono concavi.
Non è stato trovato fin’ora un metodo di coltivazione.
Alla famiglia appartengono virus che interessano le patologie umane del tratto
gastroenterico: il gruppo del virus di Norwalk e il virus dell’epatite E (vedi virus
epatitici).
I virus di Norwalk danno una gastroenterite epidemica in famiglia o in comunità
che colpisce bambini in età scolare ed adulti.
La malattia che si manifesta anche con dolori addominali persiste per 1 o 2
giorni. Data l’abbondanza di virus nelle feci la diagnosi si può fare con l’osservazione
elettronmicroscopica.
Coronaviridae
Il nome deriva dalla presenza sul pericapside di spicole che sembrano formare
una “corona” intorno al virione.
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I coronavirus infettano l’uomo ma anche altri mammiferi come maiali, roditori,
cani, gatti, uccelli.
I virioni hanno un diametro di 80-220nm, sono pleiomorfi e rivestiti. Il capside è
a simmetria elicoidale.
Il genoma è a RNA singola catena con polarità positiva, lineare e non
segmentato. L’RNA genomico funziona direttamente come RNAm. Il genoma ha un
cap metilato in posizione 5’ e una sequenza poly-A all’estremità 3’. Le proteine
strutturali del virus comprendono: la proteina N nucleocapsidica fosforilata; la
glicoproteina M di matrice, situata nel pericapside che sporge sia verso l’interno che
verso l’esterno; la glicoproteina S che fuoriesce dall’envelope. La glicoproteina S ha
proprietà recettoriali e di fusione, in alcuni tipi ha capacità emoagglutinanti e comunque
rappresenta il principale antigene.
I coronavirus umani comprendono due gruppi antigenici: 229E e OC43.
La maggior parte dei coronavirus cresce difficilmente in colture di cellule perciò
si conosce molto poco del ciclo replicativo. Il ciclo replicativo è lento comparato ad altri
virus con envelope. L’entrata avviene per endocitosi seguita da fusione dell’envelope
con la membrana dell’endosoma.
La replicazione avviene nel citoplasma.
Durante la replicazione i Coronavirus vanno incontro molto spesso a
ricombinazione. Questo è un fatto insolito per un virus ad RNA con genoma non
segmentato e può spiegare alcune variazioni antigeniche riscontrate. I coronavirus
presentano un’alta frequenza di mutazione durante ciascun ciclo replicativo, fra cui
un’alta incidenza di mutazioni per delezione. Vanno incontro a numerose
ricombinazioni dell’RNA durante la replicazione e ciò ovviamente contribuisce
all’insorgenza di nuovi ceppi virali.
I virioni maturano nel citoplasma per gemmazione dalle membrane dell’apparato
del Golgi e si accumulano in ampie vescicole che poi fondono con la membrana
citoplasmatica e quindi liberati all’esterno.
I coronavirus tendono ad essere specie-specifici. Poco si sa sulla patogenesi
delle malattie. Molti dei coronavirus animali noti hanno un tropismo per le cellule
epiteliali del tratto gastrointestinale e di quello respiratorio.
Nell’uomo le infezioni di solito sono limitate alle primissime vie respiratorie e
forse al tratto gastrointestinale.
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Particelle simili ai coronavirus sono state trovate nelle feci di pazienti con
enteriti ma anche nelle feci di soggetti normali, e quindi non sono ancora chiare le
implicazioni di questi virus nelle malattie gastrointestinali nell’uomo. Negli animali
provocano infezioni gastrointestinali acute.
I coronavirus umani provocano nell’adulto il raffreddore, malattia di solito non
febbrile. I sintomi sono simili a quelli dei rhinovirus con abbondante secrezione e
malessere. Il periodo di incubazione è di 2-5 giorni ed i sintomi persistono di solito per
una settimana. Raramente vengono coinvolte le vie respiratorie inferiori (casi di
polmonite fra le reclute militari sono stati attribuiti a coronavirus). I bambini asmatici
possono andare incontro a dispnea.
Il virus si trasmette per inalazione di goccioline respiratorie infette, ma può
essere trasmesso anche tramite le mani alla mucosa del naso e degli occhi.
I coronavirus umani sono presenti in tutte le parti del mondo e sono associati a
epidemie ben definite. Si valuta che i coronavirus siano responsabili di circa il 15-30%
dei casi di raffreddore.
SARS: Severe acute respiratory syndrome
E’ una malattia respiratoria virale causata da un Coronavirus (detto SARS-CoV).
Si ritiene che l’epidemia abbia avuto origine nel febbraio 2003 in Guangdong,
una provincia della Cina (circa 300 persone ammalate e almeno 5 morte). Nei mesi
successivi la malattia si è diffusa in più di 12 paesi. Durante l’epidemia SARS, da
Febbraio a Luglio 2003 si sono ammalate 8437 persone con SARS. Di queste 813 sono
morte.
La sequenza nucleotidica di brevi tratti del gene della polimerasi (la parte più
conservata) ha rivelato che il virus isolato da pazienti con SARS è un Coronavirus non
conosciuto prima. Questa conclusione è confermata anche da analisi sierologiche. Ora si
conosce la sequenza completa (circa 29700 nucleotidi) di molti isolati del virus della
SARS.
Il virus della SARS viene coltivato in cellule VERO, a differenza degli altri
Coronavirus che sono generalmente difficili da coltivare in vitro.
La principale modalità di trasmissione sembra essere uno stretto contatto tra
persona e persona. Si ritiene che il virus si trasmetta con le goccioline respiratorie che,
attraverso colpi di tosse o starnuti si depositano sulle mucose della bocca, naso, occhi di
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persone vicine. L’infezione può avvenire anche attraverso le mani che toccano superfici
o oggetti contaminati e poi portate sulle mucose.
Si ritiene che il periodo di incubazione sia di 4-6 giorni. In generale la SARS
inizia con febbre alta (>38°C). Molti pazienti hanno riportato sintomi simil-influenzali
come mal di testa, dolori diffusi, malessere generale, perdita di appetito. La maggior
parte dei pazienti sviluppa polmonite (polmonite interstiziale). I dati fino a questo
momento mostrano che i sintomi gastrointestinali sono meno comuni: il 10-20% dei
pazienti con SARS manifestano diarrea.
Sono a disposizione due tipi di test diagnostici:
Test sierologici: gli anticorpi specifici possono essere messi in evidenza con
immunofluorescenza indiretta o con test immunoenzimatici (ELISA).
Sebbene alcuni pazienti mostrano anticorpi specifici entro 14 giorni dall’insorgenza
della malattia, l’interpretazione definitiva di un risultato negativo è possibile solo da
campioni ottenuti dopo 21 giorni.
Test molecolari: prevedono test di amplificazione (RT-PCR) specifici per RNA di
questo nuovo Coronavirus. E’ possibile mettere in evidenza il virus entro i primi 10
giorni dall’inizio della malattia. Sono ora disponibili test diagnostici commerciali.
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VIRUS A DNA
Adenoviridae
Gli adenovirus sono dei virus nudi a DNA il cui virione a simmetria icosaedrica
è caratterizzato da fibre che si diramano dai 12 vertici (Fig. 5).
Il capside è costituito da 252 capsomeri, 240 dei quali hanno una forma
esagonale con un foro centrale (exon) e formano le facce e gli angoli dell’icosaedro; 12
capsomeri costituiscono i vertici: hanno una base pentagonale (penton) dalla quale si
diparte una caratteristica fibra che rappresenta l’antirecettore. Non è noto il ricettore
cellulare: l’antiricettore può legarsi a siti ricettoriali di globuli rossi.
Gli adenovirus umani possono essere distinti in base ai tipi di emazie che
agglutinano.
La replicazione virale avviene all’interno del nucleo cellulare.
Avvenuta la decapsidizzazione nel vacuolo citoplasmatico, il DNA penetra nel
nucleo, e a livello nucleare avviene l’assemblaggio della progenie virale. Corpi inclusi a
livello nucleare della cellula infetta sono le manifestazioni di questo processo.
Il DNA a doppia elica dell’adenovirus ha la caratteristica di possedere una
proteina legata all’estremità 5’ (Proteina TP) necessaria per l’inizio della replicazione
genomica.
Prima che abbia inizio la replicazione del DNA virale vengono trascritti gli RNA
messaggeri precoci che traducono: due fosfoproteine attivatrici collegate alla attività
trasformante di alcuni adenovirus su criceti neonati, la proteina TP, la proteina che si
lega al DNA, e la DNA polimerasi virale.
In successione si formano gli RNA messaggeri tardivi che codificano per le
proteine strutturali (esoni, pentoni, fibre).
I messaggeri tardivi in origine sono formati da lunghi trascritti (a somiglianza
degli mRNA della cellula eucariotica) che formano gli RNA messaggeri precursori;
questi vengono processati mediante scissione degli introni a formare i messaggeri
maturi.
Gli mRNA tardivi degli adenovirus hanno in comune il CAP e tre sequenze
guida.
La trascrizione degli mRNA virali avviene ad opera della RNA polimerasi II
della cellula ospite.
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Le proteine virali sintetizzate sui polisomi vengono trasportate nel nucleo dove
avviene l’assemblaggio.
Gli adenovirus sono stati isolati fin dal 1953 da adenoidi rimosse
chirurgicamente. Finora comprendono 49 sierotipi suddivisi in 6 gruppi in base a vari
caratteri biologici (P.M. del DNA, tipo di agglutinazione, potenziale oncogeno nei
criceti neonati). La scoperta del potenziale oncogeno degli adenovirus ha incentivato la
ricerca scientifica su questi virus. Non si ha nessuna evidenza di correlazione virustumore nell’uomo.
Gli adenovirus sono gli agenti di una malattia respiratoria acuta con
sintomatologia, simile alla influenza, che si manifesta in forma epidemica in piccole
comunità (reclute).
Altre sindromi cliniche sono una congiuntivite epidemica e una gastroenterite
acuta infantile.
Parvoviridae
I parvovirus (o picodnavirus) sono particelle icosaedriche di 20-25 nm. di
diametro con capside formato da 60 capsomeri identici. Caratteristica di questi virus e
che a differenza degli altri virus a DNA contengono un genoma DNA a singola elica.
Originariamente sono stati scoperti in associazione con gli adenovirus. Questi
virus adeno associati sono difettivi, il loro ciclo moltiplicativo dipende dalla presenza di
alcune proteine precoci dell’adenovirus o del virus erpetico.
Successivamente sono stati scoperti dei parvovirus autonomi.
I virus satelliti difettivi sono classificati come Dependovirus. La progenie di
questi virus è formata da metà popolazione che contiene un filamento di DNA a polarità
positiva e l’altra metà con filamento di DNA a polarità negativa.
I parvovirus autonomi sono diffusi nel regno animale. Per quanto riguarda
l’uomo si conosce un solo patogeno umano classificato come Erithrovirus (sierotipo
B19) agente eziologico dell’eritema infettivo (V malattia) malattia esantematica febbrile
autolimitante dell’infanzia (età scolare).
Herpesviridae
Il nome deriva dalla parola greca herpein = strisciare per il fatto che alcune malattie
dovute a questi agenti si manifestano con lesioni ricorrenti cutanee (herpes simplex) o
con vescicole adiacenti (Herpes zoster, zoster = cintura).
51
Il virione di questa famiglia ha un acido nucleico a DNA a doppia elica formato
da due sequenze, una lunga (UL) la successiva corta (US) affiancate da due sequenze
terminali ripetute. Queste sequenze possono essere invertite, e nell’una e nell’altra elica,
dando origine a quattro popolazioni molecolari di DNA che differiscono per il differente
orientamento di UL e US.
Il DNA del virione dal peso molecolare di 100 milioni dalton è avvolto intorno
ad una struttura proteica a forma di toroide e può codificare per almeno 81 polipeptidi
diversi.
Il nucleoide è protetto da un capside icosaedrico formato da 162 capsomeri a
forma di prismi esagonali cavi allungati. Il nucleocapside è avvolto dall’involucro
pericapsidico contenente le glicoproteine esterne.
Nello spazio che divide l’involucro dal capside si trova il tegumento, costituito
da 8 differenti polipeptidi.
Il virione ha un diametro esterno di 180 -200 nm.
Le glicoproteine di superficie sono almeno 10 tipi differenti. Almeno due
fungono da antirecettore, ed una la gD ha attività di fusione.
La penetrazione del virus avviene per fusione fra l’involucro virale e la
membrana citoplasmatica, il capside è trasportato verso un poro nucleare e il DNA è
rilasciato nel nucleo.
La replicazione genomica e la maturazione del virus si svolge nel nucleo.
La replicazione del DNA nel nucleo avviene tramite una DNA polimerasi virus
codificata, il DNA virale circolarizza e si replica mediante il meccanismo del circolo
rotante: sul filamento circolare interno del DNA usato come stampo vengono
sintetizzati in successione concatameri di unità di lunghezza del genoma sui quali
vengono sintetizzate successivamente le catene complementari.
Gli RNA messaggeri sono trascritti in successione come α mRNA precoci
immediati, β mRNA precoci ritardati e γ mRNA tardivi. Le trascrizioni di β mRNA si
attivano in presenza delle proteine tradotte dagli α mRNA, e le trascrizioni di γ mRNA
sono attivate a loro volta dalle proteine tradotte dai β mRNA e dalle proteine α. Le α
proteine precoci immediate hanno funzione regolatrice dell’espressione dei geni virali.
Alle β proteine appartengono la DNA polimerasi virale ed enzimi che riguardano il
metabolismo e la sintesi dell’acido nucleico virale (es. timidinochinasi). Alle γ proteine
tardive appartengono le proteine strutturali virioniche.
52
Successivamente, il capside fuoriesce dal nucleo, acquisendo a spese della
membrana nucleare e della membrana del Golgi l’involucro pericapsidico, sul quale si
trovano le spicole precedentemente glicosilate nell’apparato del Golgi.
I virus erpetici dell’uomo sono classificati in tre sottofamiglie.
Alla sottofamiglia alfa appartengono gli Herpes simplex di tipo 1 e 2 e
l’Herpesvirus
della
Varicella
zoster.
Alla
sottofamiglia
beta
appartiene
il
Citomegalovirus e a quella gamma il virus di Epstein Barr della mononucleosi infettiva.
Caratteristica di questi virus e che a seguito della infezione primaria rimangono
latenti nell’organismo e tendono a riattivarsi con manifestazioni cliniche a seguito di
stimoli che tendono a influenzare l’immunità cellulo mediata o a situazioni patologiche
o iatrogene che la diminuiscono.
Gli alphaherpesvirus persistono nella loro fase latente nei gangli dei nervi dorsali
sensitivi. I citomegalovirus possono persistere nelle ghiandole salivari, nei tubuli renali,
nelle linfoghiandole e parimenti nelle linfoghiandole persiste il virus di Epstein-Barr.
Herpesvirus di tipo 1 (erpete labiale) e 2 (erpete genitale)
L’infezione avviene per contatto. L’infezione primaria molto spesso inapparente
può manifestarsi nei bambini come una gengivo-stomatite, attivazioni successive del
virus latente portano all’insorgere dell’erpete labiale.
Il virus a primo contatto si moltiplica nelle mucose o nel tessuto cutaneo dando
luogo a vescicole. Successivamente il virus migra nelle terminazioni nervose adiacenti e
lungo l’assone si porta nel ganglio sensitivo più vicino dove persiste nei neuroni in
forma episomiale. All’atto della riattivazione e nelle forme ricorrenti il virus si
moltiplica nei neuroni del ganglio e ripercorre per via centrifuga la via assonica
localizzandosi nella cute dando l’erpete labiale in zona assai vicina all’infezione
precedente.
Una grave malattia dell’occhio dovuta all’Herpes virus simplex è la cheratite
erpetica, il virus provoca lesioni nella cornea con cicatrici corneali che se ricorrenti
possono portare a cecità. Evento patologico raro ma assai grave è l’encefalite erpetica.
L’erpesvirus di tipo 2 o erpete genitale è trasmesso prevalentemente per via
sessuale e provoca vescicole e lesioni genitali e perianali che possono essere ricorrenti.
Madri con lesioni genitali erpetiche possono infettare il bambino all’atto della
nascita provocando malattia grave e spesso letale (preferibile, in questi casi, il taglio
cesareo).
53
Analoghi nucleosidici quali la Iododesossiuridina e l’adenina arabinoside
(Vidarabina) sono stati usati in casi di cheratite erpetica ed encefalite erpetica; questi
farmaci sono fosforilati dagli enzimi cellulari e bloccano la replicazione virale sia
incorporandosi nel DNA neosintetizzato sia inibendo l’azione della polimerasi virale.
Attualmente un farmaco d’elezione per gli Herpes virus di tipo 1 e 2 è la
desossiguanosina aciclica (aciclovir). L’aciclovir viene monofosforilato elettivamente
dalla timidinochinasi del virus e successivamente trifosforilato dagli enzimi cellulari.
L’aciclovir risulta quindi selettivo nell’agire nella cellula infetta, e quindi è di gran
lunga meno tossico degli analoghi su menzionati.
Studi epidemiologici non hanno confermato la implicazione dell’herpes virus di
tipo 2 nel carcinoma cervicale e vulvare della donna.
Virus della varicella zoster
Questo virus è trasmesso con le secrezioni respiratorie dando origine ad una
malattia primaria contagiosa, la varicella, che si diffonde nella popolazione infantile. Il
periodo di incubazione è intorno ai 14 giorni precedenti la febbre e l’esantema. Il virus
si moltiplica nei linfonodi regionali, segue una fase viremica con successiva
localizzazione nella epidermide dove provoca macule, in prevalenza nel capo e nel
torso, che rapidamente evolvono in papule, vescicole e pustole.
Il virus migra nei gangli sensori e rimane latente.
Alla malattia primaria (varicella) in età adulta e a distanza di anni può seguire un
esantema localizzato monolaterale lungo un persorso nervoso dovuto alla riattivazione
del virus. Il virus riattivato percorre l’assone verso le terminazioni nervose periferiche
epidermali dove provoca una eruzione vescicolare dolorosa (herpes zoster o fuoco di
sant’Antonio).
L’aciclovir per via endovenosa si è dimostrato efficace per la terapia in pazienti
immunocompromessi.
Attualmente è disponibile un vaccino anti varicella. Il vaccino può causare una
eruzione varicello simile nel 5% dei bambini sani e nel 50% dei bambini con leucemia.
Citomegalovirus
Il nome deriva dal fatto che il virus induce un ingrossamento della cellula
infettata e la comparsa di grandi corpi inclusi intranucleari. Esso può essere isolato in
fibroblasti embrionali umani dove si moltiplica lentamente.
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L’infezione è molto diffusa nella popolazione e raramente dà malattia
manifesta, quando accade dà una sintomatologia simile alla mononucleosi infettiva ma
con linfoadenopatia molto poco accentuata.
Infezioni gravi si possono avere in pazienti trapiantati (polmonite virale) e in
pazienti AIDS (edema retinico, polmonite, ulcere del tratto gastrointestinale, encefalite).
E’ frequente in questi casi l’isolamento del virus nelle urine.
La infezione primaria della gestante è causa della trasmissione del virus al feto
attraverso la placenta. Si calcola che il 7% dei bambini infettati durante la gestazione
nascono con la malattia citomegalica con inclusioni. Il virus può causare aborto o gravi
alterazioni patologiche quali splenomegalia, cecità, sordità, microcefalia.
Un analogo dell’aciclovir, il ganciclovir, mostra una certa attività terapeutica nei
confronti del citomegalovirus e del virus di Epstein-Barr, questo profarmaco è
fosforilato interamente dagli enzimi cellulari dal momento che nè il Citomegalovirus nè
il virus della mononucleosi infettiva possiedono una timidinochinasi.
L’infezione primaria da CMV può essere diagnosticata su base sierologica,
accertando una sieroconversione in individui immunocompetenti
in cui si voglia
definire lo stato immune nei confronti del CMV, (per es donatori di sangue, donatori o
accettori di trapianti, donne prima e durante una gravidanza).
Test immunoenzimatici sono ampiamente usati per la rilevazione di anticorpi
anti CMV.
La presenza di IgM anti-CMV non è sempre un indicatore specifico di infezione
primaria poiché spesso le IgM vengono prodotte anche durante le riattivazioni e le
reinfezioni. Quando è indispensabile l’identificazione di un’infezione primaria, la
determinazione dell’avidità delle IgG è la procedura più attendibile. Durante le prime
settimane dopo l’infezione gli anticorpi mostrano una bassa avidità per gli antigeni e
acquisiscono progressivamente una più alta avidità. Una bassa avidità delle IgG è un
marker di infezione primaria nell’ambito di 18-20 settimane dopo l’insorgenza dei
sintomi in pazienti immunocompetenti.
Il CMV può essere isolato da vari materiali biologici ( urine, saliva, sangue,
broncolavaggio etc.) su colture cellulari di fibroblasti umani dove produce un effetto
citopatico (CPE) in 7-21giorni.
Una coltura virale rapida costituita dal metodo delle shell vial consiste in una
modificazione della coltura convenzionale e permette di ottenere il risultato entro 48
55
ore. I campioni clinici sono centrifugati su monostrati, incubati brevemente e marcati
prima della comparsa del CPE con anticorpi specifici marcati per gli antigeni precoci.
Un altro approccio per la diagnosi rapida è quello di ricercare gli antigeni virali
nel materiale dei prelievi di sangue. E’ commercialmente disponibile un saggio per la
ricerca dell’antigene pp65 in leucociti separati da sangue periferico in cui vengono usati
anticorpi monoclonali marcati.
Virus di Epstein-Barr (o della mononucleosi infettiva)
Il virus è stato isolato da biopsie del linfoma di Burkitt, il tumore che colpisce i
bambini dell’Africa centrale e della Nuova Guinea. Successivamente è stato dimostrato
che questo virus è l’agente etiologico della mononucleosi infettiva.
Il virus si propaga per contatto e si moltiplica nell’orofaringe ritrovandosi nella
saliva, successivamente infetta i linfociti B, dove si stabilisce uno stato di latenza virale,
il genoma virale all’interno del nucleo circolarizza e si mantiene in più copie allo stato
episomiale. La presenza del genoma virale nei linfociti B trasforma queste cellule che
acquistano la capacità di moltiplicarsi “in vitro” all’infinito (immortalizzazione).
La malattia si manifesta con ingrossamento dei linfonodi, splenomegalia e
aumento dei linfociti T e dei linfoblasti T8 conseguenza di una risposta immune cellulo
mediata nei confronti di antigeni virus indotti sulla membrana dei linfociti B.
Una diagnosi di laboratorio per la mononucleosi infettiva (reazione di Paul Bunnel - Davidson) è basata sul fatto che durante la malattia si producono anticorpi
eterofili IgM capaci di agglutinare globuli rossi di montone. Questi anticorpi eterofili
non vengono eliminati da adsorbimento con rene di cavia, ma vengono adsorbiti da
emazie di bue.
Nel linfoma di Burkitt dove per primo è stato isolato il virus di Epstein-Barr il
95% delle cellule tumorali contiene nel nucleo il DNA del virus in forma episomiale
(circolarizzato e non integrato) in più copie. Nei rari casi di linfoma di Burkitt al di fuori
delle aree endemiche, il genoma del virus è sempre presente anche se solo nel 20% delle
cellule linfomatose. Vi è evidenza che il tumore di Burkitt derivi da un clone B
linfocitario con infezione persistente.
Un passo importante della trasformazione oncogena può essere dovuto alle
traslocazioni cromosomiche che possono verificarsi nelle cellule linfomatose
(traslocazione 8 - 14 e 2 - 8). Queste traslocazioni mettono l’oncogene c-myc che è
56
localizzato nel cromosoma 8 sotto il controllo degli attivatori della catena pesante delle
gammaglobuline (cromosoma 14) e della catena leggera K (cromosoma 2) attivandolo.
Non si conosce l’effetto dell’oncogene attivato, è accertato comunque che nelle
cellule linfomatose gli antigeni virali di superficie sono molto meno espresse rispetto a
quanto avviene nei linfociti B nella mononucleosi.
Infine è possibile che una concausa del linfoma di Burkitt sia dovuta alla
presenza nell’area africana della malaria da P. falciparum che infetta la gran parte della
popolazione infantile con un’alta endemicità. Le infezioni malariche stimolano la
proliferazione dei B linfociti e deprimono l’immunità cellulo mediata, eventi che
possono favorire lo sviluppo del tumore.
Il carcinoma naso faringeo estremamente raro nel resto del mondo, ha una alta
incidenza nella Cina del sud. Il virus di Epstein-Barr è presente in forma episomiale
nelle cellule cancerose di origine epiteliale che esprimono antigeni precoci del virus
sulla membrana. Non si conoscono le concause che limitano il tumore ad una particolare
popolazione.
Altri tre distinti herpes virus dell’uomo sono stati isolati e identificati in pazienti
con sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS).
L’herpesvirus umano di tipo 6 che infetta e replica nei linfociti T è stato
successivamente identificato come l’agente etiologico dell’esantema subitum o roseola
infantum o sesta malattia, una malattia esantematica della prima infanzia.
L’herpesvirus umano di tipo 7 isolato da linfociti CD4+ (helper) infetta durante
la prima infanzia ma finora non è stato collegato a sintomatologie morbose.
L’herpesvirus umano di tipo 8 o herpesvirus associato al sarcoma di Kaposi
(KSHV). Questo complesso tumore cutaneo compare con una certa frequenza in
pazienti AIDS. KSHV è stato individuato elettronmicroscopicamente e successivamente
con tecniche di ibridazione (il virus non è coltivabile) nelle cellule sarcomatose. Finora
il DNA del virus è stato trovato in tutti i tumori di Kaposi esaminati sia dei pazienti
AIDS, che nei rari casi di Kaposi di pazienti esenti da AIDS.
Papovaviridae
A questa famiglia appartengono due generi: Poliomavirus e Papillomavirus.
I Poliomavirus dell’uomo possono causare in individui con grave carenza
immunitaria gravi alterazioni neurologiche o malattie a carico dell’apparato renale.
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I papillomavirus sono associati ai vari tipi di verruche cutanee; inoltre mentre i
virus del Polioma sono facilmente coltivabili, i virus del Papilloma non sono coltivabili
ma sono stati individuati attraverso l’analisi del DNA virionico estratto.
Il virione dei Papovavirus è un virus nudo con un capside costituito da 72
capsomeri, il genoma è formato da DNA bicatenario circolare e spiralizzato, la
dimensione del virione è di circa 50 nm.
Poliomavirus
Questi virus appartengono a varie specie animali. Il prototipo ampiamente
studiato è il Poliomavirus del topo (Gross) capace di produrre tumori nel suo ospite
naturale.
Due virus dell’uomo sono stati messi in evidenza e correlati a specifiche
patologie, il virus JC e il virus BK.
Questi virus sono ubiquitari nella popolazione normale. L’80% della
popolazione adulta possiede anticorpi verso questi virus; sono stati isolati e identificati
nell’urina per la prima volta in pazienti con trapianto d’organo farmacologicamente
immunodepressi.
In conseguenza di grave immunosoppressione sia umorale che cellulo mediata il
virus JC causa una grave malattia demielinizzante, la leucoencefalopatia progressiva
multifocale (LPM). Si calcola che il 3% di pazienti AIDS possono sviluppare questa
malattia. L’esame istopatologico delle lesioni da LPM dimostra una alterazione
citologica a livello nucleare di dendrociti e astrociti con presenza di acido nucleico e
proteine
virali
nel
nucleo,
nonchè
presenza
di
virioni
maturi
osservabili
microscopicamente.
Il virus BK, in condizioni di immunodepressione da trapianto si ritrova nelle
urine senza dare manifestazioni, occasionalmente può essere associato ad una cistite
emorragica.
Papillomavirus
I virus del Papilloma umano, almeno 60 tipi finora isolati sono agenti di lesioni
proliferative a livello della cute (verruche plantari e volgari.) e delle mucose (condilomi
piani e acuminati anogenitali, Papillomi orali e Papillomi laringei).
58
Gli studi su questi virus sono stati intensificati in quanto il genoma di alcuni di
questi è presente nel 93% dei carcinomi della cervice uterina e della regione
anogenitale.
Il virus infetta le cellule dello strato basale dell’epitelio si moltiplica e persiste
durante il differenziamento cheratinocitico delle cellule dallo strato spinoso, granuloso e
corneo. Nelle cellule dello strato basale e spinoso non si trova il virione ma solo il DNA
libero nel nucleo, le particelle virali si ritrovano nello strato granuloso e corneo; alcune
cellule ingrossate tra lo strato spinoso e granuloso, i coilociti, sono altamente indicativi
delle infezioni papillomatose.
Mentre nelle verruche e nei condilomi (escrescenze benigne) il genoma virale si
trova in forma episomiale, nel carcinoma della cervice uterina e in carcinomi squamosi
(un tumore che può svilupparsi in pazienti colpiti da una rara malattia ereditaria,
l’epidermodisplasia verruciforme), il genoma virale è stato ritrovato integrato nel DNA
della cellula tumorale. Di seguito diamo esempi dei tipi più comuni di papilloma
associati alle malattie cui danno luogo.
Verruche plantari
tipi
1,2
Verruche comuni
tipi
1,2
Verruche piane
tipi
3,10
Condilomi acuminati
tipi
6,11
Papillomi orali
tipi
13,32
Papillomi laringei
tipi
6,11
Carcinomi cervicali
tipi
16,18 (genoma virale integrato sicuramente
concausa del tumore).
Il genoma del papillomavirus possiede due geni (L1 e L2) che codificano per
proteine strutturali e otto geni che producono proteine non strutturali, alcune delle quali
(E5, E6 ed E7) possono promuovere l’inattivazione di due importanti proteine cellulari
(p53 e pRb) che presenziano al controllo del ciclo cellulare.
La diagnostica delle infezioni da HPV è prevalentemente rivolta alla ricerca
degli acidi nucleici virali nelle cellule e nei tessuti cutanei e mucosi mediante saggi
molecolari in grado di identificare sequenze specifiche del genoma virale.
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Non è possibile propagare HPV su colture cellulari perché il virus replica
nell’epitelio squamoso stratificato la cui coltivazione in vitro è difficile.
La ricerca del virus sul campione (frammenti tissutali) si opera mediante un test
di ibridazione. Il DNA virale eventualmente presente nel campione si ibridizza con
sonde di sequenze di RNA specifiche per più ceppi di papilloma. L’ibrido DNA-RNA è
rivelato attraverso il legame con un anticorpo specifico. L’eventuale reazione avvenuta
si rivela con un secondo anticorpo legato a molecole di fosfatasi alcalina.
Poxiviridae
I poxivirus sono i virus più grandi e più complessi. Il virione ha una forma a
mattone con dimensione media 280 nm. Il nucleo è formato da un DNA a doppia elica e
insieme a varie proteine e racchiuso in una membrana, questo nucleosoma è
fiancheggiato da due corpi laterali proteici il tutto contenuto entro una membrana
esterna proteica sulla superficie della quale appaiono tubuli proteici irregolari. Infine il
tutto è avvolto da un involucro pericapsidico formato dai lipidi della cellula ospite e da
proteine virali. Il DNA può codificare fino a 300 polipeptidi.
La replicazione del virus avviene interamente nel citoplasma dato che il DNA
codifica gli enzimi richiesti per la trascrizione e la replicazione del genoma virale
(compresa l’RNA polimerasi DNA dipendente, il fattore trascrizionale, la timidina
chinasi, ed altri) che sono contenuti nel virione. L’involucro pericapsidico viene
acquisito a spese della membrana del Golgi.
L’officina produttiva virale nel citoplasma può essere messa in evidenza nella
cellula infettata in preparati istologici colorati come corpi inclusi citoplasmatici detti dal
suo scopritore corpi del Guarnieri (1908), la ricerca dei quali è servita per dare una
diagnosi di laboratorio della malattia.
Il vaiolo nel passato è stata causa di gravissime pandemie. Come vedremo,
l’ingegno umano ha saputo approntare delle difese verso questa malattia molto tempo
prima che fossero acquisiti i concetti di immunizzazione e di agente patogeno (pratica
della variolizzazione e della vaccinazione).
Il vaiolo è una malattia grave generalizzata con manifestazione esantematica.
Il virus resistente all’ambiente esterno viene trasmesso per aerosol o per
contatto, si moltiplica nella mucosa del tratto respiratorio superiore e viene
trasmesso dai macrofagi infettati nei linfonodi regionali, in fase viremica raggiunge gli
organi interni, fegato, milza e polmoni dove si moltiplica; alla fine di questo periodo di
60
incubazione si ha una seconda viremia: il virus veicolato dai macrofagi infetta lo strato
basale epidermico con comparsa di eruzione cutanea con necrosi, ed edema a livello
delle vescicole. L’esantema evolve dalla macula alla papula alla vescicola e infine alla
pustola, l’infezione interessa anche il derma per cui alla caduta delle pustole permane la
cicatrice, ed essendo più numerose le pustole sul capo, può venire alterata la fisionomia
dell’individuo (viso butterato). L’alta mortalità è dovuta ad una tossicità generale
causata dall’invasione massiva anche degli organi interni.
Fin dall’antichità furono notate nelle epidemie due forme principali di vaiolo: il
variola maior con letalità intorno al 25% e il variola minor o alastrim, letalità intorno
all’1%. Altra osservazione, una volta guariti non ci si ammala una seconda volta. In
base a queste conoscenze molti popoli durante le epidemie benigne di alastrim
inoculavano il liquido prelevato dalle pustole nei bambini procurando al massimo la
malattia lieve. Questa pratica detta della variolizzazione, rischiosa per eventuale
trasmissione di altre malattie, nel settecento fu praticata in Inghilterra.
Nel 1776 il medico inglese Jenner osservò che i mungitori di vacche che
contraevano il vaccino, una malattia pustolosa localizzata sulle mammelle delle vacche,
e nell’uomo localizzata alla mano, non si ammalavano di vaiolo. Egli pertanto inoculò il
contenuto della pustola vaccinica nell’epidermide provocando una infezione localizzata,
la pustola vaccinica, risultandone una immunità al vaiolo dell’individuo vaccinato.
Oggi sappiamo che il virus del bovino ha antigeni in comune con il virus del
vaiolo.
La vaccinazione antivaiolosa fu resa obbligatoria durante questo secolo in molti
paesi. Una campagna mondiale di vaccinazione iniziata nel 1966 dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha eradicato il vaiolo, l’ultima epidemia si è avuta in India nel
1973.
Poxivirus del mollusco contagioso
Il virus non coltivabile produce una escrescenza non infiammata e molliccia
sulla pelle, di solito nella regione anale e genitale ma anche in altri distretti; nei giovani
può essere trasmesso per via sessuale. Le cellule di questa ipertrofia epidermica
mostrano nel citoplasma una massa granulosa acidofila, il corpo incluso del mollusco
(diagnosi di laboratorio).
La lesione si risolve spontaneamente anche se può persistere per mesi.
Un incremento delle lesioni è stato notato in pazienti AIDS.
61
RETROVIRIDAE
Alcuni agenti filtrabili hanno suscitato l’interesse dei ricercatori già nei primi
anni del secolo perchè agenti di tumori negli animali (leucosi aviaria, 1908; sarcoma dei
polli, 1911). Per tutto il secolo vi è stato un continuo studio di questi virus che ha
portato a conquiste significative nel campo della biologia molecolare e della fisiologia
cellulare oltre che in quello più strettamente virologico.
Allo stato attuale una gran parte dei virus che inducono tumori negli animali
appartengono alla famiglia dei Retroviridae.
I caratteri più significativi dei Retroviridae sono la presenza nel virione della
trascrittasi inversa e l’integrazione del genoma virale nel genoma della cellula come
tappa replicativa obbligata della progenie virale.
Una tappa significativa di queste ricerche negli animali è stata la scoperta degli
oncogeni.
Gli oncogeni sono dei geni virali presenti nei retrovirus che trasformano
rapidamente le cellule infettate in vitro e rapidamente inducono tumore negli animali
(virus del sarcoma di Rous dei polli, virus della leucemia acuta aviaria ed altri). La gran
parte dei virus che posseggono l’oncogene sono virus defettivi: in questi virus manca
parte del loro genoma costituito dai geni essenziali per la moltiplicazione (gag, pol, env)
che viene sostituito dall’oncogene. Pertanto per moltiplicarsi hanno bisogno di un virus
helper con genoma integro.
Si è scoperto successivamente che gli oncogeni virali (V-onc) sono assai simili o
identici a geni cellulari (C-onc) che inducono proteine collegate alla regolazione dello
sviluppo cellulare. E’ probabile quindi che l’evento integrativo virale abbia potuto dare
origine ad una situazione di scambio con l’incorporazione di un gene cellulare nel
genoma virale.
C-onc è detto protooncogene nella sua attività fisiologica normale; V-onc e Conc, sono detti oncogeni nella situazione di produzione alterata del prodotto genico e
conseguente trasformazione cellulare.
I due generi più importanti dei Retroviridae sono gli Oncovirus i virus oncogeni,
e i Lentivirus che sono associati ad anemie aplastiche e a sindromi da
immunodeficienza.
I retrovirus dell’uomo sono stati isolati tra il 1980 ed il 1983.
62
I virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV-1, HIV-2) appartengono ai
Lentivirus.
I virus linfotropi umani delle cellule T (HTLV-1, HTLV-2) tendono ad essere
classificati come Oncovirus.
I retrovirus dell’uomo non hanno oncogeni nel loro genoma.
Virus dell’immunodeficienza acquisita
Il virione ha un diametro di 100,120 nm il genoma è formato da due copie
identiche di un RNA a polarità positiva e a singola elica, legate insieme da legami
idrogeno alla estremità 5’, inoltre all’interno del capside a forma di cilindro si trovano
delle molecole di tRNA, e gli enzimi, trascrittasi inversa, integrasi e proteasi. Il capside
è formato dalla proteina P24 ed è contenuto nell’involucro pericapsidico con all’interno
adiacente alla doppia membrana lipidica la proteina matrice (P17).
All’esterno i peplomeri sono formati da una glicoproteina transmembrana (gp
41) a cui è legata la glicoproteina di superficie (gp120).
Il genoma lungo 10 kb (Fig.6) possiede un cap, una ridondanza terminale R la
sequenza U5, il sito di legame dell’innesco complementare che si lega alla estremità 3’
del tRNA (tRNA lisina che funge da innesco per la trascrittasi inversa che codifica
l’elica DNA-) Segue il sito di legame delle due eliche e il segnale di assemblaggio (Ψ)
che permette all’RNA genomico neoformato di assemblarsi nel virione. Seguono le
sequenze dei tre geni principali gag che codifica per le proteine del capside della
matrice, il gene pol che codifica per la trascrittasi inversa, per la proteasi e la integrasi, e
env che codifica per le proteine delle spicole.
Il genoma contiene inoltre sei geni accessori, tat, rev, nef, vif, vpr, vpu. Questi
geni codificano per proteine che agiscono in trans regolando l’espressione delle proteine
virali. Il prodotto del gene tat aumenta la produzione degli mRNA virali, il prodotto del
gene nef ne rallenta l’espressione. Alle sequenze geniche segue il sito di innesco P che
lega le tRNA di innesco per la sintesi dell’elica DNA+ quindi la regione U3 e R
ridondanza terminale, a cui segue la sequenza poli (A) n.
Il virus penetra nella cellula elettiva, il linfocita T helper legandosi con il suo
antiricettore, la glicoproteina dell’involucro gp120, al ricettore cellulare di membrana
CD4. Il legame gp120 - CD4 provoca lo scoprimento e l’attivazione di una sequenza di
gp41 avente attività di fusione con la membrana citoplasmatica. Il virione penetrato per
fusione viene decapsidizzato nel citoplasma.
63
L’RNA genomico libero funge da stampo per la sintesi di un DNA a doppia
elica sintetizzato ad opera della trascrittasi inversa che nel contempo ha anche una
attività ribonucleasica.
La sintesi del DNA (Fig. 7) avviene partendo dall’estremo U5 e saltando
nell’estremo U3 baipassando il terminale R per cui una volta che il dDNA è sintetizzato
esso è leggermente più lungo dell’RNA di partenza. I terminali dell’RNA 5’RU5,
3’U3R diventano nel DNA U3RU5, U3RU5 dette pure LTR (lunghe estremità ripetute
= long terminal repeats). Il DNA sintetizzato lineare traslocato nel nucleo si integra nel
genoma cellulare mediante sequenze di inserzione contenute in LTR.
Avvenuta l’integrazione ad opera della integrasi virale, l’attivazione della
trascrizione del genoma virale integrato dipende da fattori sia cellulari sia virali. Fattori
di trascrizione cellulare si legano a siti specifici di LTR attivando la produzione delle
proteine regolatrici TAT, REV (attivatori dell’espressione virale) e NEF (rallenta
l’espressione virale). L’azione di queste proteine regola la trascrizione degli altri RNA
messaggeri virali alcuni dei quali sono processati (splicing) per dare l’RNA finale
maturo. I geni gag e pol sono trascritti in un unico RNA messaggero che traduce un
lungo polipeptide (p.180) che viene successivamente scisso ad opera della proteasi
virale nelle proteine strutturali e degli enzimi associati al virione.
Env tradotto in un precursore polipeptidico e glicosilato a livello dell’apparato
del Golgi (gp 160) viene scisso in gp 120 (spicola) e gp 41 (proteina transmembrana).
L’RNA genomico interamente trascritto e le diverse componenti proteiche, già
prodotte a livello citoplasmatico, vengono assemblate e il nucleo capside fuoriesce dalla
cellula per gemmazione dalla membrana cellulare modificata per l’inserimento delle
proteine codificate dal gene env.
L’involucro pericapsidico contiene trimeri di gp 160 nonchè residui di proteine
della membrana cellulare quali gli antigeni di istocompatibilità.
La gp 120, antirecettore del virus, contiene delle sequenze aminoacidiche,
altamente variabili, a livello di tre epitopi (V1 , V2, V3 ) che inducono la produzione di
anticorpi neutralizzanti.
Questa variabilità rende problematico l’allestimento di un vaccino.
HIV-1 e HIV-2 (isolato in Africa occidentale) hanno come ospite ristretto
l’uomo, HIV-2 diverge da HIV-1 in quanto anche se ha una reazione immunologica
crociata con p24 e con la trascrittasi inversa, per alcune altre proteine mostra
similitudini antigeniche a SIVsm (virus dell’immunodeficienza della scimmia).
64
Questi virus infettano cellule che esprimono il ricettore CD4: linfociti T helper,
monociti e macrofagi.
L’isolamento e lo studio di questi virus, ma prima ancora dei virus oncogeni
HTLV-1 e HTLV-2, si è potuto realizzare grazie alla scoperta del Fattore di crescita dei
linfociti T (interleuchina 2, Gallo).
Oggi si possono coltivare in vitro in presenza di interleuchina 2 sia linfociti T
normali stimolati con mitogeni specifici, sia ceppi leucemici di linfociti T.
L’infezione di queste cellule da parte di HIV avviene per fusione, più cellule
infette che esprimono gp 120 sulla loro superficie tendono a fondersi fra loro formando
dei sincizi. I sincizi sono più facilmente indotti da virus isolati da pazienti da lungo
tempo malati (fenotipo SI) che non da virus isolati dopo una infezione primaria (NSI).
In vivo formazioni sinciziali a carico dei macrofagi si sono ritrovati in sezioni
istopatologiche di tessuto nervoso del cervello.
La sindrome dell’immunodeficienza acquisita è dovuta alla deplezione dei
linfociti T4 helper caratterizzati dall’antigene di superficie CD4 ad opera di HIV. Tale
deplezione comporta un crollo delle difese immunitarie cellulari e umorali con
conseguenza di infezioni secondarie particolarmente gravi ed anomale.
Alla infezione primaria con attiva moltiplicazione virale e produzione di
anticorpi con un abbassamento del livello di T4, segue una fase di latenza del virus,
variabile, ma che può durare fino a 7 anni, detta infezione clinica asintomatica, cui
segue la progressione della malattia.
E’ probabile che la fase asintomatica più che a una latenza virale sia dovuta ad
un equilibrio tra la soppressione delle cellule infette da CTL, produzione di nuovi T4 e
neutralizzazione virale da anticorpi. La rottura di questo equilibrio provoca la
deplezione di T4 e il crollo del sistema immunitario.
Recentemente, alcuni brillanti studi (Lusso, Gallo e altri) hanno messo in
evidenza dei meccanismi di resistenza alla infezione per alcuni individui che
sicuramente infettati con HIV negli anni ‘80 (emofiliaci, politrasfusi con sangue infetto)
in loro il virus non è riuscito ad attecchire o meglio non ha prodotto la malattia. Questi
individui resistenti rappresentano il 10% dei trasfusi di cui sopra. Fu notato che questi
individui resistenti producono il doppio di chemochine, sostanze ad attività
antinfiammatoria prodotte dai CD8 (linfociti citotossici).
In vitro queste sostanze inibiscono il legame gp120-CD4, legandosi sui propri
recettori collocati nel linfocita T4 (CXCR4) o sul macrofago (CCR5). Indirettamente
65
quindi sono stati individuati dei cofattori dell’infezione cellulare: i recettori
transmembrana delle chemochine; allorquando vi è sufficiente quantità di chemochine
da saturare i propri recettori sulle cellule competenti, pur avendo luogo il legame CD4gp120 non avviene la penetrazione del virus, in quanto non più disponibili i corecettori
del legame CD4- gp120 (CXCR4, CCR5).
Tab. Proprietà biologiche e tropiche di HIV-1
Corecettore
Replicazione
PBMC
X4*
R5 ***
R5/X4
+
+
+
Replicazione
Macrofagi
- **
+
+
Replicazione
linee T
cellulari
+
+
Fenotipo
Replicativo
Sincizi
Rapido
Lento
Rapido
++
+
* CXCR4
** Nei macrofagi il virus entra dando luogo ad un’infezione precocemente abortiva.
*** CCR5
Tab. Proteine non strutturali di HIV e SIV
VIF
VPR
VPX
VPU
NEF
REV
TAT
Aumenta l’infettività virale
Arresta il ciclo replicativo cellulare, è presente nel nucleo della cellula
Presente nel nucleo cellulare, è presente in HIV2 e SIV
Facilita il rilascio virale, è presente solo in HIV-1
Altera i processi cellulari, aumenta l’infettività’ virale
Regola la sequenza produttiva degli RNA virali e facilita la fuoriuscita degli stessi dal nucleo
Gene transattivatore favorisce la trascrizione del DNA virale, favorendo anche l’attivazione di
fattori trascrizionali della cellula.
Lentivirus dei primati e dei mammiferi
Ancor prima della comparsa di HIV furono descritte due virus che danno malattie degli
animali domestici: il virus maedi-visna responsabile di sindromi a carico del sistema
respiratorio e nervoso delle pecore e il virus dell’immunodeficienza del bovino. Questi
virus furono classificati come lentivirus per l’andamento dell’infezione a carattere
persistente e a lento sviluppo della malattia ed in seguito furono identificati come
retrovirus.
Successivamente
alla
scoperta
di
HIV
(1983)
sono
stati
isolati
i
virus
dell’immunodeficienza della scimmia (SIV, 1985). Di questi, i più studiati sono il
66
SIVcpz (scimpanzè) e il SIVsm (saoty mangabeys). Nel 1987 è stato isolato il virus
dell’immunodeficienza del felino (gatto).
Alcune similitudini fra HIV1 e SIVcpz, nonché fra HIV2 e SIVsm, basate su identità
delle sequenze del gene pol, hanno dato luogo all’ipotesi che la comparsa di HIV possa
essere dovuta all’adattamento all’uomo di lentivirus dei primati che hanno superato la
barriera di specie.
I retrovirus endogeni
Sono state messe in evidenza nel genoma umano dei mammiferi e degli uccelli
sequenze frammentate di DNA retrovirali integrati che presumibilmente si sono
accumulate nel corso evolutivo e che rimangono silenti e non attivate dagli elementi
trascrizionali della cellula ospite.
È necessario tener conto della presenza di queste sequenze ancestrali di DNA
allorquando si usano cellule e organi di mammiferi nei xenotrapianti dell’uomo,
nell’ipotesi che il passaggio possa attivare nel nuovo ambiente elementi retrovirali.
Inibitori dell’infezione da virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV) usati come
farmaci.
I farmaci attualmente disponibili nella terapia antiretrovirale da infezione da
HIV appartengono alle classi degli inibitori della trascrittasi inversa (RTi) e degli
inibitori della proteasi di HIV. Della classe degli inibitori della trascrittasi inversa fanno
parte gli analoghi nucleosidici (NRTi) e gli inibitori non nucleosidici (NNRTi). Gli
analoghi nucleosidici comprendono 3’-azido-2’,3’-dideossitimidina (AZT, Zidovudina),
2’,3’-dideossinosina (ddI, Didanosina), 2’,3’-dideossicitidina (ddC, Zalcitabina), 2’deossi-3’tiocitidina (3TC, Lamivudina), 2’,3’-dideidro-2’,3’-dideossitimidina (d4T,
Stavudina), e Abacavir che, una volta trifosforilati ad opera degli enzimi cellulari,
agiscono bloccando la retrotrascrizione come terminatori della catena nascente di DNA.
Gli inibitori non nucleosidici sono la delavirdina, la nevirapina, efavirenz, non
necessitano di fosforilazione per essere attivi, agiscono legando ed inibendo
direttamente la trascrittasi inversa. Gli inibitori della proteasi di HIV di uso clinico o in
avanzata fase di sperimentazione clinica sono: Saquinavir, Indinavir, Ritonavir,
Nelfinavir, Amprenavir, e Lopinavir. Gli inibitori della proteasi hanno la struttura di
base costituita da dipeptidi isosterici non idrolizzabili che contengono l’idrossietilene o
67
l’idrossietilamina come porzione attiva ed esplicano la loro azione inibendo in modo
irreversibile la proteasi virale e quindi bloccando il processo maturativo del virione. Di
particolare interesse, è il Tipranavir il primo inibitore della proteasi non-peptidico
attualmente in fase di studio clinico.
In fase di sperimentazione vi sono degli inibitori dell’entrata del virus
(fusion/binding inhibitors) che potrebbero costituire una nuova arma verso un altro
bersaglio del ciclo replicativo virale.
Gli schemi terapeutici che hanno dato i migliori risultati prevedono l’uso in
associazione di due inibitori della trascrittasi inversa e di un inibitore della proteasi.
Inoltre vi sono protocolli predisposti per la prevenzione della trasmissione maternofetale che prevedono l’uso in modose della Nevirapina poche ore prime del parto.
Questo trattamento risponde in modo particolare alle esigenze terapeutiche dei paesi del
terzo mondo (es. Africa).
Virus della leucemia - linfoma a cellule T dell’adulto (HTLV-1, HTLV-2)
HTLV-1 è stato isolato da Gallo in cellule T umane leucemiche coltivate in vitro
in presenza di interleuchina 2.
A questo virus è associata una forma aggressiva di leucemia che coinvolge
anche la cute (linfoma cutaneo). La malattia che interessa diverse aree geografiche
(Giappone, India, Africa occidentale) è rara e si sviluppa nel 3% di individui che
possiedono anticorpi verso HTLV-1.
Come per HIV il virus è trasmesso per trasfusione, iniezione e per via sessuale.
Il genoma del virus contiene dei geni regolatori di cui due sono stati oggetto di
studio approfondito, i geni Rex e Tax che regolano in trans la trascrizione del DNA
virale integrato. La proteina P40 codificata da Tax inoltre ha la capacità di trans-attivare
i geni cellulari che codificano per il ricettore della IL-2, inoltre sia Tax che Rex attivano
i geni che codificano nella cellula T la produzione del fattore di crescita IL-2.
Attualmente è stato messo in evidenza che P40 (Tax) transattiva due protooncogeni
cellulari C-fos e C-erg nonchè il gene per GM-CSF (Granulocyte- Macrophage Colony
Stimulating Factor). L’azione di questi geni può essere causa della moltiplicazione
incontrollata delle cellule T e della loro trasformazione.
HTLV-2 è stato isolato sporadicamente in soggetti con leucemia a cellule
capellute.
68
I VIRUS DELL’EPATITE
Cinque virus differenti fin’ora conosciuti sono agenti delle epatiti virali
dell’uomo, essi infettano elettivamente l’epatocita causando nel fegato alterazioni
necrotiche e infiammatorie,
Sono il virus dell’epatite B (HBV, famiglia epadnaviridae, l’unico virus epatitico
a DNA), il virus dell’epatite A (HAV, enterovirus 72), il virus dell’epatite C (HCV,
classificato come Flavivirus), il virus dell’epatite E (HEV, simile a un calicivirus), il
virus dell’epatite D (HDV unico prototipo della famiglia Deltaviridae, virus defettivo,
ha HBV come virus helper). In fase di studio è un virus dell’epatite G (HGV, pare un
Flavivirus).
Tutti questi virus causano epatiti acute. Per HBV, HDVe HCV alla fase acuta
può seguire una epatite cronica. Per HGV non è ben definita la manifestazione clinica.
HAV ed HEV sono trasmessi per via orofecale; HBV, HCV, HDV, HGV sono
trasmessi per esposizione a sangue infetto, sieroderivati, siringhe. HBV e HCV oltre a
dare epatiti con manifestazioni cliniche più gravi delle epatiti a trasmissione orofecale in
un alto numero di casi possono persistere nel fegato dando una epatite cronica.
Hepadnaviridae
L’unico virus dell’uomo di questa famiglia è il virus dell’epatite B (HBV). Il
virione misura 40 nm di diametro, il capside icosaedrico racchiude un DNA a doppia
elica circolare con una delle eliche non completa nonchè la polimerasi virale; il capside
(antigene c o HBcAg) è racchiuso in un involucro pericapsidico contenente una
glicoproteina che è il maggior antigene di superficie s (HBsAg).
Il virus difficilmente coltivabile fu messo in evidenza a mezzo di microscopia
elettronica nel sangue di un aborigeno australiano (antigene Australia) e
successivamente in individui che hanno sviluppato la malattia sia clinica che
cronicizzata e in individui politrasfusi.
I sieri di alcuni di questi individui contengono miliardi di particelle per millilitro.
Le particelle sono composte da tre differenti strutture, una rotondeggiante del diametro
di 40 nm detta particella di Dane che è il virione intero, particelle sferiche di 22 nm di
diametro, e filamentose 22 nm di diametro trasverso ma lunghe fino a 200 nm.
Queste due ultime strutture non sono altro che frammenti di membrana
pericapsidica che tendono a formare involucri lipoproteici chiusi vuoti. L’antigene di
69
superficie s si ritrova quindi in tutte e tre le particelle. Un antigene che può essere
presente all’inizio della fase clinica della malattia è l’antigene e HBeAg una proteina
non strutturale virionica. La presenza di antigene e ed s nel siero è indice di attiva
replicazione virale, la presenza di anticorpi anti e in portatori cronici HBsAg può essere
indice di replicazione virale persistente.
La moltiplicazione degli hepadnavirus segue un modello biosintetico particolare.
Il DNA virale insieme alla polimerasi del virione raggiunge il nucleo. La polimerasi del
virione completa l’elica incompleta, e il DNA circolare si superavvolge. La RNA
polimerasi cellulare trascrive sul filamento negativo del DNA più copie di RNA
completo detto RNA pregenomico che migra nel citoplasma, insieme agli RNA
messaggeri che codificano per le proteine. La proteina del capside neoformato avvolge
l’RNA pregenomico insieme alla polimerasi virale nel frattempo prodotta, e a una
proteina di innesco neoformata. La polimerasi sintetizza una trascrizione dell’RNA
pregenomico in un filamento di DNA su cui viene sintetizzato l’altro filamento
complementare incompleto, e nel contempo viene degradato l’RNA pregenomico. Il
virus matura gemmando dall’epatocita che si riveste della membrana cellulare
modificata.
Nel contempo altri frammenti di questa membrana priva di nucleocapside si
riversano all’esterno formando le particelle dell’antigene Australia.
La trasmissione del virus oltre che per via ematica può avvenire anche per via
sessuale. La particolare resistenza al calore del virione consiglia sia per il materiale a
perdere (es. siringhe usate monouso) che per il materiale non a perdere usato, la
sterilizzazione a 121°C o la bollitura per almeno 20 minuti.
Il primo vaccino è stato preparato con gli antigeni di superficie isolati e purificati
dal siero di individui infetti (antigene Australia).
Attualmente è usato un vaccino preparato con l’antigene di superficie prodotto
per ricombinazione genica da vettori (batteri, lieviti).
Il vaccino antiepatite B è obbligatorio in Italia per i bambini e somministrato in
3 dosi a distanza 0, 1, 6 mesi.
Deltaviridae
La trasmissione avviene con le stesse modalità di HBV.
HDV ovvero l’antigene delta è un piccolo virus a RNA singola elica a forma
circolare, appiattita per legami idrogeno fra alcune basi complementari (genomi ad
70
RNA circolare infettante, mancanti di capside, sono detti viroidi e sono comuni nel
regno vegetale)
L’RNA è protetto da un capside icosaedrico (antigene delta) e circondato
dall’involucro pericapsidico del virus dell’epatite B
Il virus defettivo può moltiplicarsi in contemporanea presenza nell’epatocita del
virus B.
L’antigene delta è stato ritrovato nei pazienti con epatite B cronica; si è notato
che una superinfezione con HDV in pazienti con epatite B in corso, può aggravare la
prognosi.
Virus dell’epatite C
Casi di epatiti da trasfusione non dovuti ad HBV sono stati messi in evidenza
negli anni 80, rimasti infruttuosi i tentativi di coltivare l’agente patogeno nel frattempo
indicato HCV, il genoma del virus è stato clonato dal fegato e dal plasma di scimpanzè
infettati sperimentalmente.
Il genoma è un RNA a singola elica a polarità positiva e l’aspetto del virione
visto al microscopio elettronico è simile a un flavivirus, virus con involucro che misura
60 nm di diametro.
In diverse parti del mondo sono stati isolati genomi di HCV che differiscono per
variazioni della sequenza nucleotidica.
L’infezione da HCV è associata a manifestazioni cliniche meno gravi di quelle
da HBV, ma con maggiore frequenza si possono stabilire forme severe di epatiti
croniche con esiti di cirrosi e carcinoma epatocellulare.
Attualmente l’epatite C è la forma più frequente di epatite trasfusionale, in attesa
di un vaccino non facile ad ottenersi, data la variazione antigenica del virus, sia i
donatori che i sieri sono sottoposti al controllo di assenza di anticorpi anti HCV.
Virus dell’epatite A
L’epatite A è un’infezione acuta autolimitante trasmessa da un picornavirus
l’enterovirus 72, spesso asintomatica o con sintomatologia più o meno grave ma che
non porta a cronicizzazione. Il virus è resistente all’ambiente esterno e al calore: il virus
è stabile a 56°C per trenta minuti e inattivato quando portato a 100°C per 5 minuti,
sopravvive all’interno dei mitili (ostriche, cozze, ecc.) acqua, sedimento marino. Stabile
71
a pH acido si trasmette via oro-fecale con cibo e acque contaminate. Alla malattia segue
una immunità che dura tutta la vita.
Dopo anni di tentativi infruttuosi si è riusciti a coltivare il virus in colture di
cellule umane.
Si è potuto così approntare un vaccino con virus inattivato con formalina,
altamente immunogeno, somministrato in 3 dosi a 0, 1, 6 mesi. In base al titolo
anticorpale evocato si è calcolato che l’immunità da vaccino dovrebbe persistere per
almeno 10 anni.
Virus dell’epatite E
Questa forma di epatite trasmessa per via oro-fecale con sintomatologia simile a
quella dell’epatite A si è manifestata per la prima volta in India.
Responsabile è il virus dell’epatite E il cui genoma è stato clonato dal siero di
ammalati; per la forma del virione e per il genoma, un RNA a polarità positiva, il virus è
stato classificato come Calicivirus.
Il virus dell’epatite E per ragioni ancora sconosciute provoca una epatite con alta
mortalità nelle donne gestanti.
Epatiti croniche virali
I virus che causano epatite cronica sono HBV e HCV. La superinfezione da
HDV, nel caso d’infezione da HBV, frequentemente costituisce un fattore prognostico
sfavorevole ed aumenta la frequenza di cronicizzazione.
In HBV e HCV la persistenza di proteine virali nell’epatocita e l’alterata risposta
del sistema immunitario cellulo-mediato sono le principali cause del fenomeno della
cronicizzazione. I fattori che causano tale evento si presume siano dovuti al
polimorfismo dell’MHC (sistema maggiore di istocompatibilità) ed allo squilibrio nella
produzione di citochine infiammatorie in seguito ad un’alterata risposta dei linfociti
CD4.
72
AGENTI INFETTANTI NON CONVENZIONALI, I PRIONI
Le encefaliti spongiformi trasmissibili (TSE) sono delle malattie degenerative
del cervello che si manifestano con una severa astrocitosi, vacuolizzazione dei neuroni e
con lisi dei medesimi. In sezione istologica del tessuto nervoso appaiono delle aree di
necrosi sparse che danno un aspetto spugnoso al preparato. Molto spesso si accumulano
nei siti necrotici delle fibrille di natura proteica amiloido-simili. Non vi è evidenza
istologica di risposta di tipo infiammatorio.
I più comuni segni clinici sono la demenza e atassia cerebellare con esito
mortale. I periodi di incubazione variano da mesi ad anni.
Queste malattie interessano un gran numero di specie. Le più studiate sono state
lo scrapie delle pecore, l’encefalite spongiforme bovina (BSE) e le quattro malattie che
colpiscono l’uomo: il Kuru, la malattia di Creutzfeldt-Jacob, la malattia di GerstmannStraussler-Sheinker e l’insonnia familiare fatale.
Per scrapie, BSE e Kuru da tempo si ha evidenza di trasmissione della malattia
attraverso inoculazione o ingestione di materiale infetto. Il Kuru è una malattia di
aborigeni della Nuova Guinea studiata dal Premio Nobel Gajdusek, trasmessa attraverso
pratiche cannibaliche e praticamente estinta con la fine di tali usanze.
Per la malattia di Creutzfeldt-Jacob (C.J.) si conoscono casi di trasmissione
iatrogena (neurochirurgia, trapianti di cornea). Questa malattia normalmente si
manifesta in un individuo su 1 milione.
La Gerstmann-Straussler-Sheinker (perdita di coordinazione e demenza) e
l’insonnia familiare fatale sono malattie ereditarie.
Dopo innumerevoli studi e controlli chimici sofisticati, prestigiosi laboratori
hanno escluso presenza di RNA o DNA virali; è stato individuato l’agente filtrabile
responsabile di queste malattie, un agente non convenzionale, una proteina pura,
mostrante una specificità di specie.
Ovvero questi agenti possono essere trasmessi da una specie all’altra, ma la
trasmissione interspecifica è molto più difficoltosa della trasmissione nell’ambito della
stessa specie.
Questi agenti non convenzionali sono stati chiamati prioni (PrP).
Lo studio della sequenza aminoacidica dei prioni e la preparazione di una sonda
molecolare ha stabilito che il prione è una proteina codificata da un gene cellulare, che
normalmente è prodotta dalle cellule senza che per questo si produca malattia.
73
L’ipotesi formulata da Prusiner ( Premio Nobel) ed altri, fu che il prione potesse
essere sintetizzato in due forme: una in forma normale, e l’altra che genera la malattia,
in forma modificata per un evento mutazionale del gene.
Fu scoperto che il prione dello scrapie è resistente alla azione della proteasi
mentre il prione della pecora sana è sensibile all’enzima.
Pertanto la proteina normale viene designata cone PrP cellulare e la proteina
infettante resistente alla proteasi: PrP scrapie.
La G.S.S. è una malattia ereditaria, il gene PrP clonato da famiglie in cui si
manifesta G.S.S., differisce dal gene di individui normali per una mutazione puntiforme.
Esiste quindi una forma normale di PrP e una forma patologica. La forma
patologica si produce per mutazione genetica e differisce dalla normale per sostituzione
di uno o più aminoacidi:
Questa differente composizione può comportare una variazione della
conformazione molecolare.
La molecola prionica normale è formata da tre regioni con conformazione alfa
elica e due brevi regioni a conformazione beta. Vi sono studi che dimostrano che la
sostituzione in punti critici di un aminoacido nella molecola, comporta lo srotolamento
delle alfa eliche e che queste molecole anomale possono indurre per contatto lo
srotolamento dei prioni normali in una reazione a cascata. Importanti esperimenti hanno
dimostrato che mescolando insieme Prione cellulare e prione anomalo infettivo, PrP
cellulare si converte nella forma infettiva.
La conversione di prione normale in prione infettante avviene a livello del
neurone nei lisosomi, producendo lo scoppio della cellula con danni alle cellule vicine e
la formazione di aree necrotiche. Frammenti di PrP si accumulano nel cervello
formando i filamenti e le placche amiloidi.
L’epidemia di BSE scoppiata in Gran Bretagna a metà degli anni ‘80 si è
accertato sia stata originata da una infezione interspecie, in quanto i bovini venivano
nutriti con farina animale prodotta da frattaglie di pecore, (in Gran Bretagna lo scrapie è
endemico) non adeguatamente trattata (il prione è resistentissimo al calore, dopo
autoclavaggio a 136°C per 60 minuti si riscontra infezione residua)
Dal 1994 ad oggi sono stati segnalati in Inghilterra circa 20 casi e circa 3 in
Francia di una malattia assai simile a C. J. ma con un periodo di incubazione più breve,
detta variante C.J. (V.C.J.)
74
E’ stato dimostrato che BSE e V.C.J. sono causate dal medesimo prione
anomalo.
Infatti i prioni di BSE e V.C.J. trasmettono la malattia in topi con periodo di
incubazione e periodo di sopravvivenza identici.
A differenza del prione C.J. che non trasmette la malattia in topi normali ma
soltanto in topi transgenici con il gene del prione umano; PrP BSE e V.C.J. non
mostrano barriera di specie nei confronti del topo normale.
75
Vaccini virali autorizzati
Vaccino
Numero
di
sierotipi
coperti
dal
vaccino
Adenovirus
2 (tipi 4
e 7)
Hepatite A
1
Hepatite B
Tipo di vaccino
Attenuato
Indicazioni
Inattivato
+
Vie di somministrazione
Comunità di
giovani reclute
Virus in capsule rivestite.
Somministrazione orale
+
Viaggiatori in zone
a rischio
Immunizzazione per via
parenterale con vaccino costituito
con virus inattivato; 2 dosi
1
+
Obbligatoria per i
bambini e
consigliata al
personale sanitario
Immunizzazione parenterale con
proteina virale ricombinante. 3
dosi: prima e seconda dose 3° e
5° mese, terza dose 11° mese.
Influenza A
eB
3
(H1N1,
H3N2, e
tipo B).
+
Anziani, soggetti
con patologie
cardiopolmonari
Immunizzazione parenterale,
ripetuta annualmente, con
vaccino a subunità
Morbillo
1
+
Fortemente
raccomandata
Immunizzazione parenterale; età
12-15 mesi, richiamo in età
scolare *
Parotite
1
+
Fortemente
raccomandata
Immunizzazione parenterale; età
12-15 mesi, richiamo in età
scolare *
Poliovirus
3
+
Vaccino
obbligatorio
Immunizzazione parenterale con
vaccino inattivato; prima dose 2°3° mese; seconda dose 5° mese;
terza dose 1 anno; richiamo dopo
i 3 anni.
Rabbia
1
Persone altamente a
rischio
Uso profilattico e terapeutico
Rosolia
1
+
Fortemente
raccomandata
Immunizzazione parenterale; età
12-15 mesi, richiamo in età
scolare *
Vaiolo
1
+
Non più utilizzato
dal 1982
Vaccino sottocutaneo:
somministrazione per
scarificazione epidermica
Varicella
1
+
Età 12-15 mesi
Immunizzazione per via
parenterale
Febbre
gialla
1
+
Viaggiatori in
regioni endemiche
Immunizzazione per via
parenterale
+ **
+
* Vaccino trivalente (morbillo, parotite,rosolia)
** In Italia attualmente si usa il vaccino Salk (vedi testo)
76
Figura 1
Virus ad RNA
Schemi della morfologia delle famiglie virali
(da Principi di Microbiologia Medica, M. La
Placa)
Virus a DNA
77
Meccanismi di inibizione della sintesi proteica indotti da interferon.
(Da Microbiologia, B. D. Davis, R. Dulbecco et all.)
78
Elaborazione post-traduzionale della poliproteina degli enterovirus
(Da Microbiologia, B. D. Davis, R. Dulbecco et all.)
79
80
81
82
83
84
85
Elenco tabelle e figure
Figura 1
Schemi della morfologia delle famiglie virali.
Figura 2
Meccanismi di inibizione della sintesi proteica indotti da interferon.
Figura 3
Elaborazione post-traduzionale della poliproteina degli enterovirus.
Tabella 1
Classificazione dei virus dell'influenza umana.
Tabella 2
Sottotipi degli antigeni emagglutinina e neuraminidasi finora messi in
evidenza nei virus influenzali umani, suini (sw), aviari (av) ed equini
(eq)
Tabella 3
Ceppi di virus dell'influenza A esaminati presso il centro mondiale
dell'influenza di Londra dal 1959 al 1973.
Tabella 4
Caratteri morfologici e biochimici degli Orthomyxovirus e di Paramyxovirus.
Tabella 5
Caratteristiche biologiche dei tre generi dei Paramyxovirus.
Figura 4
Preparato ultramicroscopico di particelle di virus parainfluenzale Sendai legate ai
recettori di membrana di una emazia.
Figura 5
Schema di adenovirus
Microfotografia di adenovirus con alcuni capsomeri staccati (esoni e pentoni).
Figura 6
Genoma del Retrovirus e schema del genoma del Retrovirus HIV-1 integrato con le
proteine codificate.
Figura 7
Modello della trascrizione inversa di un retrovirus.
86
INDICE
Morfologia dei virioni ...................................................................................................2
Classificazione dei virus................................................................................................3
Genomi virali.................................................................................................................4
Virusoidi ........................................................................................................................4
Viroidi............................................................................................................................5
Coltivazione dei virus....................................................................................................5
Moltiplicazione dei virus...............................................................................................6
Immunologia virale .......................................................................................................7
Interferenza ed interferon ..............................................................................................8
Infezioni latenti e infezioni croniche persistenti .........................................................11
Infezione latente ..........................................................................................................12
Infezione latente che esprime antigeni virali...............................................................12
Le infezioni persistenti ................................................................................................13
Meccanismi di evasione virale ....................................................................................13
VIRUS AD RNA.............................................................................................................15
Picornaviridae (piccoli virus a RNA) ..........................................................................15
Gli enterovirus .............................................................................................................16
Vaccinazione antipoliomielitica ..................................................................................17
Altri enterovirus...........................................................................................................17
Rhinovirus ...................................................................................................................18
Arborvirus (Arthropod born virus)..............................................................................18
Togavirus.....................................................................................................................19
Flavivirus.....................................................................................................................19
Bunyaviridae................................................................................................................20
Famiglia Arenaviridae .................................................................................................21
Rubivirus .....................................................................................................................21
Orthomyxoviridae........................................................................................................23
L’influenza nell’uomo .................................................................................................30
Epidemiologia dell’influenza ......................................................................................31
Profilassi ......................................................................................................................32
Paramyxoviridae..........................................................................................................35
Genere Paramyxovirus ....................................................................................................36
I virus parainfluenzali..................................................................................................36
Virus della malattia di Newcastle................................................................................37
Virus della parotite epidemica.....................................................................................38
Genere morbillivirus....................................................................................................39
Virus del morbillo........................................................................................................39
Genere Pneumovirus ...................................................................................................41
Virus sinciziale respiratorio dell’uomo .......................................................................41
Rhabdoviridae..............................................................................................................43
Filoviridae....................................................................................................................45
Reoviridae....................................................................................................................45
Caliciviridae ................................................................................................................46
Coronaviridae ..............................................................................................................46
SARS: Severe acute respiratory syndrome..................................................................48
VIRUS A DNA................................................................................................................50
Adenoviridae ...............................................................................................................50
Parvoviridae.................................................................................................................51
87
Herpesviridae...............................................................................................................51
Herpesvirus di tipo 1 (erpete labiale) e 2 (erpete genitale) .........................................53
Virus della varicella zoster ..........................................................................................54
Citomegalovirus ..........................................................................................................54
Virus di Epstein-Barr (o della mononucleosi infettiva) ..............................................56
Papovaviridae ..............................................................................................................57
Poliomavirus................................................................................................................58
Papillomavirus.............................................................................................................58
Poxiviridae...................................................................................................................60
Poxivirus del mollusco contagioso..............................................................................61
RETROVIRIDAE............................................................................................................62
Virus dell’immunodeficienza acquisita.......................................................................63
Lentivirus dei primati e dei mammiferi.......................................................................66
I retrovirus endogeni....................................................................................................67
Inibitori dell’infezione da virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV) usati come
farmaci.........................................................................................................................67
Virus della leucemia - linfoma a cellule T dell’adulto (HTLV-1, HTLV-2) ..............68
I VIRUS DELL’EPATITE ..............................................................................................69
Hepadnaviridae............................................................................................................69
Deltaviridae .................................................................................................................70
Virus dell’epatite C......................................................................................................71
Virus dell’epatite A .....................................................................................................71
Virus dell’epatite E......................................................................................................72
Epatiti croniche virali ..................................................................................................72
AGENTI INFETTANTI NON CONVENZIONALI, I PRIONI.....................................73
Vaccini virali autorizzati .............................................................................................76
88
Elenco dei virus citati con la loro eventuale sigla internazionale
Virus
sigla internazionale
Adenovirus
BK
Bunyavirus
Calicivirus
Citomegalovirus
Coriomeningite linfocitaria
Coronavirus
Coxackie virus
Deltavirus
Dengue
Dependovirus
Ebola
Echovirus
Encefalite di S.Louis
Encefalite equina dell'est
Encefalite equina dell'ovest
Encefalite equina venezuelana
Encefalite spongiforme bovina
Epatite A
Epatite B
Epatite C
Epatite E
Epstein Barr
Erithrovirus
Febbre gialla
Febbri emorragiche da zecca
Flebovirus
Hantavirus
Herpes simplex di tipo 1
Herpes simplex di tipo 2
Human herpes virus 6
Human herpes virus 7
Human herpes virus 8
CMV
HDV
DEN
EEE
WEE
VEE
BSE
HAV
HBV
HCV
HEV
EBV
HSV-1
HSV-2
HHV-6
HHV-7
HHV-8
89
pag.
50
58
20
46
54
21
46
17
70
20
51
45
16
20
19
19
19
73
71
69
71
72
56
51
19
20
20
20
53
53
57
57
57
Immunodeficienza acquisita di tipo 2
Immunodef. acquisita umana di tipo 1
Influenzale A
Influenzale B
Influenzale C
Insonnia familiare fatale
JC
Kuru
Lassa
Linfotropi umani delle cellule T tipo 1
Linfotropi umani delle cellule T tipo 2
Malattia di Creutzfeldt-Jacob
Malattia di Gerstmann-Straussler-Sheinker
Malattia di Newcastle
Marburg
Mollusco contagioso
Morbillo
Nairovirus
Norwalk
Papilloma
Parotite epidemica
Poliomielite
Prioni
Rabbia
Reovirus
Rhinovirus
Rosolia
Rotavirus
Severe Acute Respiratory Sindrome Virus
Sendai
Sinciziale respiratorio bovino
Sinciziale respiratorio umano
SV5
Tacaribe (gruppo)
Vaiolo
Variante C.J.
Varicella zoster
HIV-2
HIV-1
HTLV-1
HTLV-2
C.J.
G. S. S.
HPV
SARS
V.C.J
VZV
90
64
64
25
25
25
73
58
73
21
68
68
73
73
37
45
61
39
20
46
58
38
16
73
43
45
18
21
46
48
36
41
41
37
21
60
74
54