Seminario
“La Cooperazione fraterna tra Chiese
nella testimonianza della carità”
Roma, 3/4 marzo 2005
L'EREDITÀ DI MONSIGNOR ROMERO: LA CHIESA DELLA PASQUA
di Monsignor Gregorio Rosa Chávez
Tra un mese, il 2 aprile, sabato della settimana di Pasqua, celebreremo in San Salvador
i venticinque anni del martirio di Monsignore Óscar Arnulfo Romero. Sento una speciale
emozione nel partecipare a questo seminario che ha come principale obiettivo di
riflettere sull'eredità che ci ha lasciato Monsignore Romero, un pastore che ha amato
appassionatamente questa città di Roma. Così lo dice nel suo Diario, commentando una
delle sue visite: «Così passa un altro giorno davvero felice, perché trovarmi a Roma, per
me, è sempre una benedizione del Signore» (Diario, 28.04.79).
Il giorno dopo aggiunge questo commento:
“L'alba a Roma evoca tanti ricordi. Questi paesaggi che io conobbi quando studiavo la
mia teologia, quando mi ordinai sacerdote e vissi i miei primi mesi da sacerdote, sono
un rinnovamento per il mio spirito. Ora, con nuove responsabilità, sento che Roma è
una benedizione del Signore che conferma la mia missione, il mio lavoro, che Dio
condivide dandomi questa fortuna di potere collaborare umilmente all’inserimento del
suo Regno nel mondo” (Diario, 29.04.79).
Il mio contributo al tema del seminario non è quello di un esperto bensì di un testimone
e di un amico del caro pastore. Vengo a dare testimonianza dell'ispirazione profonda che
lo spinse lungo la sua vita sacerdotale e il suo ministero come arcivescovo di San
Salvador; vengo anche come un amico che, fin dai miei anni di seminarista minore, ho
avuto la grazia di conoscerlo e di trattare con lui nella Diocesi di San Miguel.
Il mio proposito è di condividere con voi alcuni tratti del pastore e profeta che Dio ci ha
offerto in Monsignor Romero. Perciò prenderò come guida la sua prima lettera pastorale
che è la sua presentazione all'arcidiocesi di San Salvador; ed il Diario che raccoglie le
sue confidenze negli ultimi due ultimi anni della sua vita.
La ragione è ovvia: in “La Chiesa della Pasqua” - un semplice documento di diciotto
pagine che egli scrisse personalmente - troviamo descritto il modello di Chiesa che egli
sognava:
«Una Chiesa autenticamente povera, missionaria e PASQUALE (la sottolineatura è
sua), slegata da ogni potere temporale ed audacemente impegnata nella liberazione
di tutto l'uomo e di tutti gli uomini» (Medellín, Povertà, n. 15).
A sua volta, il Diario - che ha l'originalità di essere stato “scritto” con il microfono, di
fronte ad un semplice registratore - ci rivela i sentimenti ed i pensieri che bollono nel
cuore e nella testa del pastore mentre continua a dare la sua vita di giorno in giorno per
continuare a profilare questo volto pasquale della Chiesa. Lì Monsignore ci racconta, in
tono di confidenza, come tenta di rispondere alle formidabili sfide che ha dovuto
affrontare nella turbolenta storia del Salvador.
Ciò che sorprende di questo percorso è la coerenza con cui Monsignore Romero mise in
pratica la sua intuizione iniziale. Non c'è dubbio: egli prese sul serio la cristologia e
l'ecclesiologia conciliare applicate alla realtà del nostro continente dai documenti di
Medellín e Puebla. Questa opzione lo portò al martirio. Alla fine delle mie riflessioni,
spero che si potranno trovare alcuni elementi della ricca “eredità” che il beneamato
pastore ci lascia per portare avanti la nostra missione di servi di coloro che sono preferiti
da Dio: i poveri, gli emarginati e gli esclusi.
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1. “Sono minacciato di morte”
Nei miei tempi da studente di seminario, ho imparato che i vangeli furono scritti a
partire dalla fine: dalla morte e resurrezione di Gesù Cristo. Poi venne la domanda
sull'infanzia, sull’attività pubblica del Signore. Penso di seguire un metodo simile
avvicinandomi alla straordinaria figura di Monsignore Romero, profeta, pastore e martire
della Chiesa postconciliare.
Nel suo Diario, Monsignor Romero parla di minacce di morte il 5 novembre del 1979. La
notizia gliela comunica confidenzialmente il Nunzio della Costa Rica. La sua reazione è
commovente:
«Credo che darò a quest’informazione l'importanza che ho dato sempre: da cittadino
prudente, ma senza esagerazioni... L’ho commentata anche con delle personalità del
Governo che sono venute a visitarmi, e mi hanno detto che è conveniente denunciare
la cosa in pubblico; e che se volevo mi davano essi le garanzie, perfino un veicolo
blindato. Ma ho detto loro che volevo continuare a correre gli stessi rischi della mia
gente, e che non sarebbe edificante una sicurezza di questo livello».
Il tema appare con più dettagli un mese prima della sua morte, negli appunti del suo
ultimo ritiro. Il testo è molto noto, ma vale la pena ricordarlo:
«La mia altra paura riguarda i rischi per la mia vita. Mi costa accettare una morte
violenta che è molto possibile in queste circostanze; perfino il Signor Nunzio della
Costa Rica mi ha informato riguardo ai pericoli imminenti in questa settimana».
La domenica successiva Monsignore comunica la notizia al popolo di Dio nel contesto di
un’energica chiamata alla conversione rivolta all'oligarchia:
«Io parlo in prima persona perché questa settimana mi è arrivato un avviso che sto
nella lista di coloro che stanno per essere eliminati la prossima settimana. Ma
rimanga il punto fermo che la voce della giustizia nessuno mai potrà ammazzarla. Per
questo motivo credo dunque che è urgente questa chiamata alla conversione, rivolta
alle Forze Armate» (Omelia, 24.02.80).
E così arriviamo alla domenica 23 marzo del 1980, quando pronunciò la sua celebre
esortazione ai soldati, a cui ha chiesto il fine della repressione. Avevo l’abitudine di
ascoltare le sue omelie domenicali, mettendomi con carta e penna nel mio ufficio di
rettore del seminario maggiore. Spesso, dopo commentavamo le nostre impressioni.
Quando ascoltai quelle parole piene di forza, il mio cuore ha sussultato e avevo pensato:
«Questa è la sua sentenza di morte.” Il mio presentimento si è realizzato il giorno dopo.
L'ultimo paragrafo dell'omelia che faceva immediatamente seguito alle parole “Cessi la
repressione!», diceva così:
«La Chiesa predica la sua liberazione come l'abbiamo studiata oggi nella Sacra Bibbia.
Una liberazione che mette, al di sopra di tutto, il rispetto alla dignità della persona, la
salvezza del bene comune della gente e la trascendenza che guarda innanzitutto a
Dio e solo da Dio ricava la sua speranza e la sua forza».
Quella volta non ho avuto il tempo di commentare con Monsignore Romero la sua ultima
omelia in cattedrale. Ma sento che egli stesso lo fece, il commento, il giorno dopo
scegliendo come vangelo della messa dei defunti, il testo del chicco di grano che cade in
terra. Non è questa un'offerta cosciente della sua vita? Ricordiamo le sue parole:
«Avete appena ascoltato nel vangelo di Cristo che è necessario non tanto amare se
stessi, e fare attenzione a non mettersi nei rischi che la storia ci riserva, e che chi
vuole allontanare da sé il pericolo, perderà la vita. Invece, chi si consegna per amore
a Cristo al servizio degli altri, costui vivrà come il chicco di grano che muore, ma è
un’apparenza che muore. Se non morisse rimarrebbe solo. Se dà il raccolto è perché
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muore, si lascia immolare nella terra, si lascia disfare e solo disfacendosi produce il
raccolto» (Omelia, 24.03.80).
2. “Come risponde bene la gente quando la si è saputa amare!”
Troviamo questa frase nel suo Diario, commentando il clima tanto speciale in cui si era
svolta la messa per le esequie di un sacerdote assassinato:
«Una vera manifestazione splendida di solidarietà, di sofferenza, di amore, di
affidamento alla causa di Gesù Cristo! La folla è stata estremamente affettuosa coi
sacerdoti e col suo vescovo, che salutavano con applausi, baciando la mano, etc. Ho
terminato la cerimonia con una grande soddisfazione nello spirito.” La frase che
chiude il commento è estremamente bella: “Come risponde bene la gente quando la
si è saputa amare!”» (Diario , 21.01.79).
In un'altra occasione, lo avevano acclamato in cattedrale con un lungo applauso:
«Ho spiegato loro che non me ne vantavo ma, al contrario, che facevano sì che mi
sentissi di più un servo della gente e mi spingevano a tentare di interpretare questa
comunione di sentimenti che esprimevano con il loro applauso. Ho domandato loro
molto impegno nella preghiera e nel seguire Cristo con la sua croce» (Diario,
23.09.79).
Di questa sintonia con la popolazione, soprattutto la gente semplice e povera, ci sono
numerose dimostrazioni nel suo Diario: senza dubbio Monsignore avvertiva l'amore della
sua gente. È per lui un valore così grande che lo riporta molte volte. Queste sono alcune
delle sue espressioni: «Mi sentivo quasi come in famiglia, come in una casa in cui mi
trovavo così a mio agio», dice tornando da Puebla e celebrando nella sua cattedrale.
“Benedetto sia Dio per l'amore che la nostra gente sente per i suoi pastori” (Diario,
02.07.79). «Mi hanno riservato un'accoglienza festosa, portando delle palme, e mi ha
fatto pensare alla domenica delle palme» (Diario, 24.12.79), commenta ricordando la
visita ad un quartiere periferico di San Salvador.
È questa la sintonia che porta il pastore ad essere attento ai problemi che colpiscono
alcune delle comunità cristiane. I più gravi si riferiscono alla comunione dentro la
Chiesa: dei conflitti tra parroci e comunità ecclesiali di base; conflitti di identità in
cristiani che appartengono alle organizzazioni politiche popolari; conflitti con sacerdoti
che non sono d’accordo con la linea pastorale dell'arcidiocesi, etc.
Nel primo caso, Monsignore Romero invita a «presentare la testimonianza di una vera
comunità che segue Gesù Cristo» (Diario, 08.10.78); ai cristiani che hanno optato per
un progetto rivoluzionario, prova a dare loro un orientamento «perché lo sforzo
rivendicativo delle loro organizzazioni non sia separato dal modo di sentire cristiano ma
questo inglobi quello nella redenzione universale e profonda di Gesù Cristo, cioè a
partire dalla liberazione del peccato» (Diario, 14.01.79). Lamenta che un parroco non
possa sviluppare con tutta sincerità la linea dall'arcivescovato «per il fatto che ha certi
pregiudizi contro la liberazione della nostra gente e tenta di conservare sempre certi
privilegi, coi quali non si può vivere in questo momento in cui il Vangelo ci chiede la sua
logica radicalità» (Diario, 09.03.80). Invece si mostra benigno con un sacerdote
straniero che respinge le comunità ecclesiali di base: «Bisogna comprenderlo, ma
bisogna anche spingerlo a non spegnere lo spirito che si sente così vigoroso in mezzo
alla gente» (Diario, 16.03.80).
Quale è questa linea pastorale di cui parla Monsignore? È il tema pregnante che
troviamo nell'ultima settimana della sua vita, quando spiega ampi dettagli di una
riunione della Commissione di Pastorale che si svolge in mezzo alla violenza crescente
che percorre in lungo e in largo il Salvador: siamo agli inizi della guerra durata ben
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dodici anni che ha messo a terra il paese. Lo cito “in estenso” perché è una sintesi
ammirabile che chiarisce i dubbi sullo spirito ecclesiale del suo lavoro per il Regno:
«Dovrei dire quello che spero dalla Commissione di Pastorale: un coordinamento che
riesca a raggiungere l'armonia tra le due parti verso cui si proiettano i nostri agenti di
pastorale» (17.03.80).
Quali sono queste due parti?:
«Vi sono alcuni, che non vogliono impegnarsi con la pastorale dell'arcidiocesi; ed altri
che se ne partono via, così, ad un estremo molto avanzato, causando la sfiducia degli
altri. Sono da svolgere serie riflessioni su questo fatto» (Ibidem).
Monsignore entra in dettagli:
«Il Padre Octavio Cruz che sta coordinando la riunione, ci fa una preziosa analisi di
quello che è il progetto pastorale dell'arcidiocesi, prendendolo dai documenti che
hanno promosso questo progetto, tali come: la settimana di pastorale, le lettere
pastorali ed il documento di Puebla. È una linea concreta, ben definita, ed è molto
sostenuta dal desiderio della Chiesa, fatti per cui si rendono inaccettabili le scuse di
coloro che non vogliono adattarsi a questo pensiero; e sarà il lavoro della
Commissione di pastorale quello che darà una fisionomia sua alla nostra arcidiocesi»
(Ibid.).
Questo è il progetto che Monsignor Romero porta avanti ogni domenica a cominciare
dalla cattedrale di San Salvador o dalle altre chiese dove lui celebra quando la
cattedrale, il suo tempio, è occupata da gruppi di opposti al Governo: organizzazioni
politiche popolari, sindacati, etc. Sono delle occupazioni fastidiose perché ostaco lano il
culto, a volte avvengono delle profanazioni e rimangono sempre dei danni materiali.
Monsignore tuttavia risponde da difensore della vita:
«L'inconveniente delle occupazioni è grave, ma comprendiamo che la nostra gente ha
bisogno di questi rifugi della Chiesa, di fronte alla situazione di oppressione tanto
orribile che stiamo vivendo» (p. 439).
3. “La Chiesa della Pasqua”
In altri scritti ho spiegato che, studiando l'opera di Monsignore Romero, si può
dimostrare che la sua eredità è stata precisamente quella Chiesa che, utilizzando le
espressioni del documento di Medellin, egli progetta nella sua prima lettera pastorale:
«una Chiesa povera, missionaria e pasquale…».
Come se la sogna, come la sente e la descrive? Tenterò di rispondere a questa domanda
riprendendo la sua prima lettera pastorale.
Paolo VI ci aveva lasciato la “Ecclesiam suam” e Giovanni Paolo II aveva scritto la
“Redemptor Hominis” per presentare il programma del suo pontificato. Da parte sua,
Monsignore Romero ci offre la “Chiesa della Pasqua” come «la lettera della mia
presentazione e del mio primo saluto» a tutti i settori del popolo di Dio che è in
cammino nell'arcidiocesi di San Salvador.
Monsignore comincia ricordando «l’eredità di incalcolabile valore» che riceve dal suo
predecessore, Monsignore Luis Chávez y González. Egli è cosciente che deve
«continuare a portarla avanti e a coltivarla attraverso nuovi e difficili orizzonti». Fa
seguito un'affermazione cristologica: «Solo lo spirito di Cristo risorto che vive e
costruisce la sua Chiesa attraverso il tempo può spiegare questa feconda eredità». Egli
esprime il desiderio di vivere «il mistero della Pasqua e della Chiesa che sempre hanno
affascinato il mio spirito cristiano».
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Monsignore Romero comincia il suo ministero invitando ad un dialogo ben meditato in
nome della Chiesa. Perché «la Chiesa non vive per sé stessa, bensì per portare al
mondo la verità e la grazia della Pasqua. Ecco qui la sintesi – aggiunge - di questa
lettera che vuole solo presentare, alla luce di questa ‘ora pasquale ', l'identità e la
missione della Chiesa ed offrire con sincerità la volontà che essa ha di dialogo con tutti
gli uomini».
Dopo avere spiegato che cosa è la Pasqua nell'antico e nel nuovo testamento, giunge
alla sua affermazione centrale:
«Con emozione di pastore mi rendo conto che la ricchezza spirituale della Pasqua,
l'eredità massima della Chiesa, sta fiorendo tra di noi, e che già qui si sta realizzando
quell’augurio che i Vescovi hanno espresso a Medellín parlando ai giovani».
Segue lo straordinario testo che abbiamo citato all'inizio su: «La chiesa autenticamente
povera, missionaria e pasquale». Per riaffermare subito dopo:
«La Chiesa di Cristo deve essere una CHIESA DELLA PASQUA (la sottolineatura è
sua). Cioè, una Chiesa che nasce dalla Pasqua e vive per essere segno e strumento
della Pasqua in mezzo al mondo».
Il pastore di questa Chiesa dev’essere un servo dei suoi fratelli e delle sue sorelle:
«E mi piace molto sottolineare questo senso di servizio in una lettera che ha come
obiettivo la presentazione di un pastore che vuole vivere e provare, il più vicino
possibile, gli stessi sentimenti del Buon Pastore che ‘non è venuto ad essere servito
ma a servire e a dare la sua vita».
La Chiesa della Pasqua è una Chiesa in permanente conversione:
«Il Cristo della Pasqua si prolunga e vive nella Chiesa della Pasqua. E non è possibile
fare parte di questa Chiesa senza essere fedeli a quello stile di “passaggio” dalla
morte alla vita; senza un sincero movimento di conversione e fedeltà al Signore».
La Chiesa della Pasqua è una Chiesa fedele:
«La funzione profetica, sacerdotale e sociale che, a nome di Cristo resuscitato,
realizza la Chiesa tra gli uomini, deve stare in perfetta sintonia col senso di Cristo,
oggi più che mai, quando la gente da lei spera la risposta dell'Unico che ci può
salvare».
La Chiesa della Pasqua è una Chiesa al servizio del mondo, quando, secondo i vescovi a
Medellín, «siamo alla soglia di una nuova epoca storica». Perché la Chiesa non può
rimanere indifferente davanti a «un sordo clamore di milioni di uomini, che chiedono ai
loro pastori una liberazione che non arriva loro da nessuna parte» (Medellín, Povertà,
2).
Siamo arrivati alla parola-chiave: la liberazione. Monsignor Romero la spiega
accuratamente prendendo come base l'insegnamento di Paolo VI presente in “Evangelii
Nuntiandi” (n. 34). Finisce il paragrafo con una richiesta:
«Raccomando molto caldamente lo studio di tutto questo terzo capitolo della
menzionata Esortazione per avere delle idee chiare sulla liberazione che la Chiesa
favorisce e promuove».
La conclusione è l'inserimento nella realtà salvadoregna:
«Comprendiamo anche la sfida ed i rischi che questa difficile ora ci sta lanciando. È la
sfida di una speranza per il mondo messa nella nostra Chiesa. Siamo degni di
quest’ora a patto che sappiamo dare ragione di questa speranza con la nostra
testimonianza di unità, di comunione, di autenticità cristiana e di un lavoro pastorale
che, salvaguardando con chiarezza la supremazia della missione religiosa della Chiesa
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e della salvezza in Cristo Gesù, tenga anche molto presenti le dimensioni umane del
messaggio evangelico e le esigenze storiche del suo aspetto religioso ed eterno».
4. “Oggi si è compiuta questa parola”
Rimane a noi in sospeso una domanda: come è andato via via costruendo Monsignore
Romero la “Chiesa della Pasqua.”? Mi limito all'elemento basilare del suo ministero:
l'omelia domenicale. Il pastore che fece la presa di possesso della cattedrale un 22 di
febbraio, festa della cattedra di San Pietro, è stato realmente l'uomo della cattedra, il
predicatore infaticabile, il profeta di fuoco. Un teologo lo ha espresso in modo originale
con questa frase: “Con Monsignor Romero Dio è passato per il Salvador.”
Si ha piena ragione e sorge spontaneo, parlando di Monsignor Romero, di qualificarlo
come un profeta. Egli stesso ha spiegato che cosa è un profeta in una bella omelia che
aveva intitolato così: “Il profeta è presenza di Dio nella società”. Ascoltiamo il suo
commento:
«Ho sviluppato il tema presentando come l'iniziativa procede sempre da Dio e come il
profeta non è altro che uno strumento di Dio e come la società accetta o respinge a
Dio nella persona del profeta» (Diario, 08.07.79).
In un'altra occasione, commentando la scena di Gesù nella sinagoga di Nazaret, spiega il
senso dell'omelia: «Perché quando Cristo dice: “questo oggi si compie”, egli pronuncia
una vera omelia, che è l’attualizzazione viva della parola di Dio” (Diario, 27.01.80). Noi
che siamo stati vicino a lui possiamo attestare la dedizione con cui Monsignor Romero
preparava la sua predicazione domenicale. Lavorava in alcune occasioni quasi fino
all'alba. Di solito preparava un vero e proprio “dossier” con degli schemi, una parte di
scritti ed una serie di materiali complementari che utilizzava soprattutto al momento di
fare luce sulla realtà nazionale. L'omelia durava normalmente circa quaranta minuti. Ci
furono casi in cui gli scappò di mano.
Egli stesso riconosce quello che successe una domenica:
«L'omelia si è prolungata quasi per due ore e questo mi dà l'impressione che sto
abusando del tempo, ma sento, d'altra parte, la necessità di orientare questa gente
che mi ascolta con avidità; di fatto mi prolungo precisamente perché non noto alcuna
stanchezza nell'uditorio, e lo vedo sempre attento; e così mi fanno capire che
seguono con attenzione anche attraverso la radio» (Diario, 10.01.80).
Concludo questa parte con alcune idee che egli sottolineava in modo speciale. Così
risulta dal suo Diario. È interessante scoprirne come il riassunto della sua lettera
pastorale:
«Nelle letture del giorno trovavo queste caratteristiche del mistero pasquale: un
mistero di liberazione. Cristo, nel suo mistero pasquale ci redime dal peccato, dalla
morte, dall'inferno e da qualunque altra schiavitù Ho fatto notare che la liberazione
cristiana è più completa e più profonda di qualunque altra liberazione di tipo
puramente politico, sociale o economico» (Diario, 09.04.78).
Egli stesso racconta quando riporta la sua esperienza nell'Assemblea di Puebla:
«Ho fatto riferimento al tema di Puebla in questi tre punti: in primo luogo, come io
sono andato a Puebla a rappresentare una diocesi in orazione (…); il secondo pensiero
è che io a Puebla portavo la testimonianza di una diocesi che percorre una linea
pastorale molto concordante con quanto si è studiato a Puebla (…); ed il terzo
pensiero, è stato quello che io porto via da Puebla per l'arcidiocesi: l'esperienza, la
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ricchezza, l'amicizia di numerosi pastori e diocesi del continente e del mondo» (Diario,
16.02.79).
Commentando il vangelo del sordomuto, afferma:
«Cristo è il vero liberatore che non distrugge ma rifà, e proietta tutte le dimensioni
dell'uomo, quella trascendente come quella storico-sociale» (Diario, 09.09.79).
Concludo con un dato curioso. Una domenica mentre Monsignore predicava
improvvisamente si è interrotta la corrente elettrica:
«Finita la parte dottrinale se n’è andata via la luce e ho dovuto sospendere la
predicazione per continuare la messa; e dopo la messa, una volta data la
benedizione, e dicendo io che quanti avessero voluto rimanere avrebbero sentito la
parte delle notizie e delle denunce (il commento sui fatti della settimana), quasi tutta
la gente della cattedrale è rimasta al suo posto fino ad ascoltare l'ultimo avviso ed
uscire con me al momento del congedo per la porta della cattedrale» (Diario,
04.03.79).
Per questo motivo afferma con piacere Monsignore Romero che «la messa (domenicale),
grazie a Dio, si è trasformata in un avvenimento ecclesiale”, “un avvenimento pieno di
consolazione per la vita pastorale della diocesi» (Diario, 18.03.79). Per questo motivo i
nemici della verità avevano fatto saltare varie volte con l’esplosivo la radio della Chiesa
il cui segnale, al momento della messa dell'arcivescovo , era captato dalla maggior parte
delle case del Salvador. Si trattava di un fenomeno assolutamente straordinario.
Nel marzo del duemila avevo celebrato il ventesimo anniversario del martirio di
Monsignor Romero nella basilica dei Santi Apostoli. Alla fine della messa aveva dato la
sua testimonianza un vescovo della delegazione di Pax Christi che aveva partecipato alle
celebrazioni in San Salvador. Quello che più l'aveva impressionato era il fatto di vedere
la partecipazione di tantissimi giovani che pur non avendolo conosciuto, lo acclamavano
come pastore. Questi giovani, mentre sfilavano verso la cattedrale con le torce in mano,
gridavano: «Si sente, si sente, Romero è presente».
Qualcosa di simile abbiamo provato noi alti qui a Roma quando ci siamo diretti con le
candele accese verso il Colosseo. Era un segno molto bello perché il Colosseo ci ricorda
la testimonianza di una moltitudine immensa di martiri.Qualche tempo dopo, il 7
maggio, nel Giubileo dei Martiri è stato nominato Monsignor Romero nella preghiera
conclusiva in onore dei martiri dell'America Latina. Nell’orazione si parlava di “pastori
coraggiosi come l'indimenticabile arcivescovo Óscar Romero, assassinato presso l'altare
mentre celebrava il sacrificio eucaristico”. Raccogliamo la sua eredità e impegniamoci a
costruire la “Chiesa della Pasqua” come risposta alle sfide a cui ci espone il terzo
millennio.
Roma, 3 marzo 2005.
Gregorio Rosa Chávez
Vescovo Ausiliare di San Salvador
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