HELIOS MAGAZINE Rivista bimestrale di scienze, cultura e società Registrazione Tribunale di Reggio Cal. Nr. 3/96 Direttore Responsabile Pino Rotta Direttore Editoriale Gianni Ferrara Comitato di redazione: Mimmo Codispoti, Valentina Arcidiaco, Katia Colica, Elisa Cutullè, Giorgio Neri, Salvatore Romeo Corrispondenti: Anita Seija Leijala, Tania Kostiuk, Giancarlo Calciolari, Faiyz Barakat Almahasneh Editore: Centro Studi Sociali Club Ausonia Presidente: Pino Rotta Vice Presidente: Roberto Pirrello Sede legale: via Pio XI nr. 291 89132 Reggio Calabria (I) Redazione: via Pio XI nr. 291 – 89132 Reggio Calabria (I) Tel. 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In questo numero: Editoriale - Letta scopre l'acqua calda (di Pino Rotta) pag. 2 Società - L’ “amabile violenza”: lo stalking pag. 3 (di Salvatore Romeo) Società - Amore molesto: dalla Limerance alla violenza sul corpo e sulla mente delle donne (di Laura Falduto) pag. 4 Società- Se la società non ci appartiene più: quando il crimine è sempre in prima pagina (di Valentina Arcidiaco) pag. 6 Società- Amici miei violenti (di Giancarlo Calciolari) pag. 7 Società - Una parola brutta da morire: femminicidio temuto e femminicidio parlato (di Katia Colica) pag. 8 Esteri - Le piazze indignate del Brasile (di Domenico Grillone) pag. 9 Esteri – La Cina verso un nuovo ordine globale (di Pietro Stilo) pag. 10 Scienza - Teoria dei geni e principi della meccanica quantistica (di Elio Stellitano) pag. 11 Scienza - Ricerca del Laboratorio Neurolab per la diagnosi dell'Alzheimer pag. 12 Arte - “L’anatomia non è un destino.” (di Kreszenzia Gehrer) pag. 13 Arte - Divagazioni e note leggendo "La materia intellettuale" di Giancarlo Calciolari (di Alessandro Taglioni) pag. 14 Recensione - TV “lady camorra” Pupetta Maresca (di Anna Rita Leonardi) pag. 16 Fuori sommario: - Recensione – L'Eco di Iside, di Salvatore Romeo (a cura di Tiziana Fortunato) - Recensione – Primo Premio alla scrittrice e poetessa Daniela Piricone per Il caso e la ragione (a cura di Paolo Morabito) HELIOS magazine 2013 n. 3-4 I Economia - Letta scopre l’acqua calda di Pino Rotta l Presidente Letta nei giorni scorsi ha pubblicamente dichiarato che la deindustrializzazione è stato un errore dei passati venti anni. La Camusso, Segretario della CGIL, prevede una ritorno ai livelli occupazionali del 2007 tra 63 anni. Ora due sono le ipotesi: o io sono un genio, avendo scritto queste cose dieci anni fa, e contuato a scriverle fino ad oggi, o chi ci ha governato in questi ultimiventi anni è stata una classe di imbecilli! Mi sono informato, sono certo di non essere un genio e che neanche la classe dirigente italiana (non tutta almeno) è fatta da imbecilli. Quindi rimane n’ultima ipotesi: la notizia “anestetica”. Tre guerre in 20 anni, un Mediterraneo in continua guerriglia, il petrolio che dai 30 dollari al barile del 2001 è schizzato a 140 dollari nel 2003 e si è attestato attorno ai 100 dollari fino ad oggi. Le fabbriche che dall’Europa “storica” sono fuggite (con la cassa pubblica!) prima nei paesi dell’ex Unione Sovietica e poi verso India, Cina, Brasile ed altri paesi in forte sviluppo e sfruttamento del lavoro. Tutto questo non è successo in un anno e non è stato un caso. Questa evoluzione del capitalismo e la moderna replica di una storia che si ripete ciclicamente. Come fa tutto questo a passare sulla testa della gente, anzi inizialmente con il grande entusiasmo che ha accompagnato l’avvento della Globalizzazione, si spiega con due fattori che solo con un’abbondante dose di ignoranza o di ipocrisia si può ignorare. La campagna mediatica, effettuata soprattutto dalle televisioni, e gli intrecci di corruzione nazionale ed internazionale hanno drogato l’opinione pubblica europea, ed in particolare quella italiana, portandola ad accettare sia le guerre che la deindustrializzazione senza reagire. Anzi tutti quelli che hanno reagito per anni sono stati derisi ed accusati di essere “comunisti” e “conservatori”. Poi due anni fa sono arrivati i conti di questi venti anni e tutti si sono svegliati dal sono delle coscienze. Tutti arrabiati, tantissimi disperati, ma in pochissimi con la possibilità di “assolversi” dalla complicità di un sistema che artatamente ci ha portati a ridurre le 2 Editoriale sicurezze sociali e il tenore di vita. L’antipolitica è esplosa e rischia di essere l’ennesima arma di distrazione di massa. Sarebbe facile eliminare le istituzioni democratiche perchè costano troppo, si chiama fascismo, la verità è che il peso della corruzione, pur inaccettabile dal punto di vista morale (ma per venti anni è stato accettato e votato dalla maggior parte degli italiani e degli europei, non dimentichiamo che l’Europa è governata dalla Destra da dieci anni!) ha un costo irrisorio se paragonato con i capitali portati all’estero e con lo spostamento all’estero delle attività produttive. Su questi temi non si sente nessuna autocritica, nessun mea culpa. Si discute di finanziamento ai partiti (suicidio della democrazia!) di riforma elettorale, di auto blu’, ecc.... tutte cose giustissime da discutere, ma marginali rispetto all’economia ed all’occupazione. Altro devastante e programmato effetto di questi ultimi venti anni è stata la delegittimazione dell’Unione Europea, portata avanti nel’interesse degli Stati Uniti con la complicità della Destra europea. Solo un’Europa forte e spinta verso il recupero dele sue tradizioni socialiste e liberali può dare speranza ai tanti giovani incerti sul loro futuro ed ai tanti anziani che, avendo fallito le loro scelte di vita diventando complici degli aguzzini dei propri figli, rischiano oggi di vedere anche la loro vecchia ridotta in miseria. Questo è il capitalismo, il liberismo, gente! Il Presidente Letta farebbe bene a spiegarci dove era mentre tutto questo accadeva, perchè non è consentito a chi ha nelle proprie mani il nostro destino di defilarsi da tutte queste responsabilità, previste, studiate e portate avanti senza scrupoli in tutti questi anni, per colpe ma anche per omissioni. n HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Società L’ “amabile violenza”: lo stalking A “Cenere sulla manica di un vecchio è ciò che resta delle rose bruciate” (T.S. Eliot: Quattro Quartetti: Little Gidding) di Salvatore Romeo (*) more è un dio e un demone, figlio di Ingegno e Povertà, abile e tormentato a un tempo, capace di offuscare ogni intelletto e di imbrigliare la ragione. Amare significa provare un trasporto irrefrenabile verso l’altro (l’attrazione) e volergli del bene indicibile. Ma l’amore può rappresentare anche il nucleo di partenza di un oscuro impulso che induce talvolta a fare del male alla persona amata, a causa di paradossali sentimenti di vendetta messi in atto con violenza inaudita. Ciò non avviene solo alla fine di un rapporto, quando si dice che un amore grande può lasciare il posto a un odio altrettanto grande, quando non si è trasformato in indifferenza. Le esplosioni di violenza avvengono spesso quando ancora si prova “amore”. Noi siamo esseri complessi ed è quindi inevitabile che le relazioni che instauriamo siano anch’esse costituite da forze sovente contrastanti. Ogni relazione affettiva si basa sull’equilibrio e sulla sublimazione di due energie fondamentali: la libidica e l’aggressiva. Alla prima possiamo ascrivere quel trasporto che ci induce a cogliere un fiore di campo, una rosa bianca o un tulipano giallo come segno simbolico di entusiasmo affettivo, mentre alla seconda conferiamo solitamente un significato negativo. Ma l’aggressività non possiede connotazioni esclusivamente negative. Il suo ruolo è fondamentale nella costruzione di un rapporto sentimentale, perché è determinante nei meccanismi dell’attaccamento, ossia di quella particolare propensione che ci induce a ricercare la vicinanza protettiva di un’altra persona. Quando la coppia si dissolve, però, l’aggressività può riappropriarsi delle sue qualità negative e uscire allo scoperto in tutta la sua distruttività. E’ allora che l’amore può trasformarsi in odio. Un odio mascherato e proprio per questo incontrollabile. L’aggressione allora può prendere la forma dell’indifferenza e del distacco emotivo, oppure può manifestarsi con rabbia e rancore. Come avviene per qualsiasi emozione, anche questo amore “tradito” e deluso si esprime con un suo linguaggio, che in questo caso è violento e aggressivo, fatto di atteggiamenti e comportamenti intrusivi e irra- zionali. In alcuni individui, fragili e tanto insicuri di sé quanto estremamente narcisisti e innamorati, in fondo, solo di se stessi, la passione può sopraffare la ragione e indurre fenomeni come lo stalking, che è un comportamento molesto, assillante, fatto di minacce, ricatti, telefonate, sms, pedinamenti, e che purtroppo, a volte, è solo l’inizio di un logorante percorso che può culminare in violenze fisiche e finanche nell’omicidio. Ne possono essere vittima anche gli uomini, certo, ma è un fatto che la stragrande maggioranza delle vittime siano donne. Lo stalking rappresenta una comunicazione emotiva perversa e nasce dal celato convincimento che la donna sia un oggetto su cui è “naturale” rivendicare diritti di possesso. E’ un convincimento derivato da una tradizione culturale nella quale il pensiero maschile si è imposto come dominante, consolidando un ordine sociale in cui la distinzione tra i generi si basa non sulla diversità, ma su una scala di “importanza”. La donna, portata per tradizione alla sottomissione, rappresenta quindi l’anello più debole, l’oggetto più facilmente aggredibile. E non sorprende che l’uomo, categoria egemone, si senta portato, più o meno consapevolmente, a rivendicare il suo diritto al predominio. Se strutturiamo i valori sociali sull’avere anziché sull’essere, il più forte è portato a prevalere e ad imporsi, convinto che sia un proprio diritto la supremazia, anziché un’ingannevole e perversa costruzione ideologica. La supremazia è dominio, potere, e il senso del potere è uno degli elementi che pervade qualsiasi relazione affettiva. L’esperienza della propria “forza” accresce l’autostima, contribuendo ad aumentare la percezione del proprio valore. La relazione tra un uomo e una donna non si discosta da questa “legge”: anch’essa è fatta di molteplici dimensioni: l’affetto e l’attaccamento, certamente, ma 3 HELIOS magazine 2013 n. 3-4 anche la dipendenza e l’inclinazione al potere. Quando queste due ultime tendenze sfuggono al controllo della ragione, l’amore buono diviene cattivo, diviene amore “criminale”. Un forte sentimento di dipendenza può determinare nell’individuo un vissuto di ipervalutazione e di idealizzazione del partner, la cui vicinanza conferisce forza e fiducia. L’altro diviene un oggetto posseduto, funzionale all’autoaffermazione, utile per cogliere la ragione del proprio valore soggettivo. La perdita della persona amata sarà vissuta come un’esperienza intollerabile e profondamente ingiusta, come una vera e propria catastrofe personale, un dramma, una ferita dolorosa e insopportabile che occorre ad ogni costo riparare. Il fenomeno dello Stalking è proprio il tentativo perverso di rimarginare questa ferita attraverso un comportamento rivendicativo, francamente persecutorio e usurpante che invade, condiziona e limita in maniera inaccettabile la libertà personale e l’autonomia della Società donna. In questo quadro, l’aggressività regredisce a puro istinto originario e distruttivo e si manifesta col comportamento violento. E’ una “amabile violenza”, in quanto scaturisce da “troppo amore” e il troppo amore può essere imprevedibile razionalmente e a volte anche distruttivo. Quando l’istinto regredisce, per angoscia o per disperazione, come avviene in un carattere dipendente che sperimenta una situazione di separazione o di abbandono, il “Tu sei mia” si materializza e diviene espressione di possesso esclusivo e di appartenenza concreta. L’istinto si colora allora di tinte cupe, si diviene estremamente egoisti, preda di un’illusione di onnipotenza che annulla qualsiasi ragione e ogni limite, e ogni atto compiuto viene giustificato dalla convinzione di un’esecuzione svolta per ripristinare la giustizia. Lo stalking è l’espressione più eclatante della violenza psicologica, dell’imposizione di sé e dell’annientamento dell’altro come soggetto libero e autonomo. n (*) psichiatra Amore molesto: dalla Limerance alla violenza sul corpo e sulla mente delle donne di Laura Falduto (*) “Il battito del cuore accelerato prima di uscire di casa, una sudorazione eccessiva al solo pensiero di incontrarlo, una sensazione di oppressione al fatto, un senso di soffocamento, l’ansia costante, il respiro corto, il tremito, il senso di sbandamento, la confusione in testa, la paura, i pensieri invadenti dai quali non riesci a liberarti “ D (A. Basotti e coll, 2011). a un punto di vista strettamente psicologico, ciò che si verifica nel corpo e nella mente di una donna vittima di violenza è un laceramento che intacca non solo la propria identità corporea ma ogni sua resistenza ed area esistenziale. Secondo l’art. 1 della Dichiarazione ONU del 1993, con l’espressione “violenza contro le donne” s’intende ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi o possa verosimilmente provocare alle 4 donne un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica, comprese le minacce di violenza, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata. Purtroppo spesso il palcoscenico entro cui s’inscena la violenza sono le mura domestiche come afferma il rapporto UNICEF “la violenza è di solito opera degli uomini che con le vittime hanno o hanno avuto un rapporto di fiducia, di intimità e di potere”. Tra i disturbi immediati che condizionano la qualità della vita ed il benessere psicofisico della donna ritroviamo la sensazione di allarme continuo e l’ insonnia che protratti generano l’insorgere di disturbi d’ansia; paura, sentimento di arresa, di colpa e vergogna divengono inoltre generalizzati: la paura è il segnale di un pericolo imminente che generalmente è evitabile o affrontabile, quando però un individuo si confronta con un pericolo che è determinato come inevitabile o impossibile da fuggire, allora l’unico esito è la resa. Questa visione è in accordo con quella di Società Freud (1926) secondo cui: “il nucleo, il significato” della causa di un trauma psichico è “la valutazione delle nostre forze rapportate all’entità del pericolo, l’ammissione della nostra impotenza di fronte a esso”; oltre alla paura, la solitudine è sicuramente uno degli effetti più immediati uniti ai sintomi tipici degli episodi depressivi: si assiste ad una perdita sempre più marcata di autostima, le vittime si sentono vuote, stanche, prive di energia, niente le interessa più. Non riescono a pensare o concentrarsi, nemmeno su attività molto banali. Molte donne vittime di violenza lamentano una serie di disturbi somatici come: tachicardia, insonnia, difficoltà a deglutire (il “un nodo alla gola”), disturbi gastrointestinali (vomito compulsivo, crampi ecc), un silenzio interno e un’ ansia costante (A. Gamberini 2004). Diverse sono le conseguenze a lungo termine: frammentazione della realtà e dell’identità personale; svalorizzazione di sé (la donna spesso si auto convince che non vale niente, che è sessualmente inadeguata, sminuita nella sua femminilità e nell’essere donna); eccessiva responsabilità e attribuzione interna, cioè rivolta verso se stessa della causa degli eventi traumatici di cui è stata o è vittima; senso di privazione e distorsione della realtà oggettiva (normalizzazione della violenza); depressione; disturbo post traumatico; amnesia psicogena. I numeri della violenza parlano chiaro e sono sempre più allarmanti: nel nostro Paese, secondo le rilevazioni Istat, sarebbero 6 milioni 743 mila (dati elaborati da un campione di 25mila donne di età compresa tra i 16 e i 70 anni), le giovani e non che nel corso della loro vita hanno subìto violenza fisica, sessuale, psicologica. Infine il consiglio d’Europa, due anni fa, ha pubblicato una ricerca secondo la quale la prima causa di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni in tutto il mondo è la violenza domestica. Purtroppo è ancora alto il numero delle vittime “silenziose” quelle che cioè faticano a denunciare le molestie subite. Una delle forme di difesa più frequente infatti è la repressione: inibire il ricordo aiuta a sopravvivere e a non prendere coscienza dell’abuso. Si associa a forme primitive di difesa quali il diniego (se nego l’esistenza di qualcosa allora non esiste!) A volte le donne che subiscono violenza non solo dimenticano i fatti circa le violenze subite, ma anche di averli “svuotati” di quei sentimenti di sdegno e umiliazione che li hanno accompagnati. Allora per ricercare le origini di queste escalation di violenza efferata (dalle percosse, alle molestie assillanti proprie del fenomeno dello stalking fino al tanto citato femminicidio) bisogna far riferimento a quel- HELIOS magazine 2013 n. 3-4 lo che è il concetto di “legame di attaccamento”, ponendo particolare attenzione, per un’adeguata comprensione, a quelli che sono i vissuti soggettivi e l’organizzazione dello spazio coscienziale del soggetto che ne è vittima. Oggi molta attenzione è rivolta alla violenza contro le donne, e su quelle che possono esserne i fattori scatenanti su diversi fronti (indipendentemente dalle caratteristiche di personalità e di evoluzione che meriterebbero una trattazione più ampia) sia antropologici e sociali sia psicologici e giuridici; tale trattazione vuole lanciare uno spunto di riflessione sugli stili di attaccamento disfunzionali ricevuti durante lo sviluppo e riprodotti nelle relazioni interpersonali adulte: oltre ai classici stili di attaccamento elaborati da Bowlby, un concetto importante è quello di di Limerence (o Ultrattaccamento) termine coniato dalla psicologa Dorothy Tennov nel 1977 in seguito ad uno studio scientifico condotto su 500 soggetti intervistati sul concetto di amore. In seguito a tale ricerca la studiosa pubblicò i risultati in Love and Limerence: The Experience of Being in Love (1979) descrivendo tale fenomeno come lo stadio finale, quasi ossessivo dell’amore romantico. Gli individui affetti da limerence sono costantemente attratti da partner sbagliati e sono incapaci di imparare dalle loro esperienze passate. Durante il limerence, i pensieri dell’oggetto limerent sono sia persistenti, che involontari che intrusivi. Limerence è in primo luogo un’ossessione che porta a vere e proprie fantasie sulla vita con la persona amata. Tali fantasie, a volte, si esprimono con pensieri estremi quali il “salvare” la persona amata o nei casi più estremi si concretizzano nella violenza fisica pur di conquistare/possedere la donna. Il soggetto attua forme di attaccamento nei confronti dell’Altro, alimentate tuttavia, dall’angoscia e dall’incertezza. Quest’ultima agisce su due fronti: da un lato aumenta il dolore, dall’altro alimenta desiderio e speranza (fino all’acting out). n (*) psicologa 5 HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Società Se la società non ci appartiene più: B quando il crimine è sempre in prima pagina di Valentina Arcidiaco (*) isogna Scrivere un articolo su quello che accade giornalmente alle donne, alle famiglie e ai bambini; così ha esordito il direttore redattore qualche settimana fa. Il dottor Rotta, sociologo da sempre attento osservatore della società nei suoi molteplici aspetti politici, economici, culturali, si occupa fondamentalmente, assieme al gruppo di Helios Magazine, dell’animo umano indagando i fattori predittivi di un cambiamento diventato molto problematico se non allarmante. Parlare, informare sensibilizzare, conoscere lo status vivendi di questo tempo e di questa crudele, efferata società è la parola d’ordine per riuscire a capire cosa sta succedendo. Da un punto di vista prettamente psicologico si stanno attuando numerose ricerche sulla correlazione tra patologie psichiatriche e crimini riguardanti infanticidi e femminicidi, omicidi e, in senso più ampio, si sta cercando anche di capire come le situazioni di stress possano portare all’esasperazione delle proprie emozioni spingendo gli individui ad atti estremi verso gli altri ma a volte, anche verso se stessi. Si va alla ricerca di fattori definibili predittori rispetto alla commissione del reato, si ricercano le anomalie e le comparazioni tra i crimini commessi, si scava nelle vite e nella psiche trovando però risposte poco esaustive. Di certo non si vuol fare riferimento alla ormai superata fenomenologia di Lombroso o alle nuove tecniche americane che sembrano così irreali rispetto al nostro contesto ma quel che è evidente è che quotidianamente lo scenario sociale manifesta gravi segni di malattia,disagio e di alienazione. E’ evidente che mentre prima chi uccideva veniva pedinato interrogato e messo “alle strette” fin quando non confessava, oggi si assiste ad una forma molto più “evoluta”di crimini, infatti molti dei casi non sono stati risolti in quanto non si hanno notizie certe sul crimine o sul colpevole, talvolta non si sa neanche dove sia la vittima, che fine abbia fatto il suo cadavere e/o dove si possa trovare il suo corpo. Ci si riferisce chiaramente ai numerosi casi in cui c’è un indiziato e non si riesce a trovare la vittima che quasi sicuramente è stata oggetto di violenza o di crimini efferati. Risulta pertanto insufficiente studiare la personalità, il vissuto, i tratti caratteriali di un soggetto che può aver commesso un crimine di cui non si conoscano il movente, le modalità o la scena. 6 Bisogna, tra l’altro, tener conto dell’effetto amplificatore dei mass media, i quali nel riportare notizie, possono distorcere, spesso spettacolarizzare eventi drammatici che segnano la nostra società già colpita da gravi problemi economici, politici, una società che non garantisce alcun futuro ai giovani, che non riesci ad occuparsi in modo adeguato degli anziani, che è erosa da corruzione, evasione fiscale, deficit e quant’altro. Lo psichiatra e neurologo Vittorino Andreoli, che si occupa anche di crimini, ha provato a schematizzare e teorizzare una parte che è comune ai vari crimini recenti, ossia quel percorso mentale che spinge un soggetto a reputare necessario l’omicidio di un altro essere, cercando di racchiudere in alcune tipologie le ragioni che spingono ad ammazzare: per professione, per terapia, per disperazione. L’ammazzare per professione è riferito a quei soggetti che senza alcun minimo pathos, decidono di uccidere per acquisire un merito, un’eredità uno status privilegiato, Andreoli li definisce “provocati dalla fame”e non vi è nulla di drammatico per colui che commette l’omicidio. L’ammazzare terapeutico è riferito a quelle situazioni in cui chi commette il crimine è convinto di fare un’azione meritoria o di commettere del bene rispetto all’ambiente in cui vive e alla persona interessata. L’ammazzare disperato o per follia nel quale il soggetto perde la visione oggettiva del mondo intorno a sé e si strutturano schemi mentali disfunzionali dove le cui distorsioni fanno apparire nella mente del soggetto il mondo come minaccia e come miglior metodo l’omicidio. Ovviamente tutti questi aspetti inducono il soggetto a compiere un crimine che distrugge per sempre non solo la sua vita ma soprattutto quella di un’altra persona e di coloro che ne sono coinvolti. Ecco perché è necessario interrogarsi su come si potrebbero preventivamente evitare le tragedie giornaliere alle quali assistiamo impotenti e su come creare una rete di solidarietà e di aiuto per coloro che sono colpiti direttamente o indirettamente da questo fenomeno aberrante. n (*) psicologa HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Società Amici miei violenti Q di Giancarlo Calciolari uando la violenza scende dal suo scanno originario nell’ordine impossibile della parola, che non ha parallelismo in quello degli umani, si svincola dal tempo (la sua percezione è il terremoto, le traveggole) e si distribuisce non egualitariamente. Il monopolio della violenza è maschile: dalla guerra dei sessi alla guerra planetaria. Nonostante tutta questa estimità (il contrario di intimità), la cosa rimane invisibile tanto il meccanismo di copertura lavora al massimo. Le guerre sono diventate missioni di pace, al punto che è diventato politicamente scorretto menzionarlo. La violenza sulle donne, prima addirittura senza nome, poi si è chiamata delitto passionale e oggi femminicidio. Viene accusata una cultura medioevale e sessista condivisa e coltivata nella famiglia, nel villaggio e nel resto del paese, come se nella cultura transmoderna ci fosse chi tra gli uomini possa trarsi fuori dalla questione del femminicidio per stigmatizzarlo in una sola parte degli uomini. Non c’è termine linguistico che possa arginare il principio di violenza al cui soldo si pone ogni uomo. Ognuno, ogni uno. L’uno che non differisce da sé, l’uno unico unificante centrale. Il figlio del totem, che è sempre animale anche quando e ligneo. Il figlio animale, più o meno razionale. L’homo duplex: fuori buono, emancipato, persino femminista, e dentro porco, lupo, belva. È sempre l’impianto del porco (quale sostituto impossibile del padre, che non è il genitore). L’impianto del nome del padre, che precisa Lacan è il padre morto. In questo impianto la donna è supporto dell’uno o supplemento. Oggetto e merce. E assume anche il tempo: oggetto e merce deperibile. Il mito della donna parallelo alle fasi della luna (Atena, Afrodite, Era, Ecate); mentre non è colto il continuum maschile: dio-demone-uomo-animalevegetale-minerale. Quelle rare volte che gli uomini hanno messo in discussione l’ordine simbolico del padre, da Gesù a Spinoza, da Francesco a Freud, sono stati macellati dalla storia. Anche la settimana scorsa è uscito l’immancabile riduzione a frattaglie dell’invenzione freudiana nel supplemento domenicale del “Sole 24 ore”, autentico osservatore religioso e militare dello status delle gerarchie. Quello che non è messo in discussione è la gerarchia, l’impianto perpendicolare della gestione sociale, oggi camuffata da una orizzontalità che è la sua più recente metamorfosi. La gerarchia è applicata e narrata in oriente, come nell’arte della guerra di Sun Tzu e diviene quasi nello stesso tempo filosofia, logica. I principi della gerarchia sono i principi dell’antivita di Aristotele (il cui dio è bestia): principio di non contraddizione, principio di identità e principio del terzo escluso, quando invece i principi della vita sono: principio di contraddizione, principio di differenza e principio del terzo dato. Gli x-men uccideranno sempre i non-x, che verranno anche definiti nonuomini, come nel progetto nazista di sterminio degli ebrei e anche dei malati mentali, degli omosessuali, degli zingari, dei testimoni di Geova. Mentre per gli oppositori politici non c’è neanche il campo, non c’è scampo (ex campo): vengono uccisi all’istante. C’è chi scrive che il maschilismo è una bestia sistemica e viene interiorizzato, trasmesso e perpetrato anche dalle donne stesse. La direzione di questo ragionamento va verso la colpevolizzazione delle donne che in qualche punto mette in discussione. Le donne anche quando partecipano al sistema, la cosa non accade in quanto “x”. Anche quando erigono un ordine al femminile rimane un supplemento, come quel supplemento di godimento non fallico che il fallicissimo Lacan attribuisce alle donne. Le donne e gli uomini non sono e non saranno mai riducibili a delle “x”. Queste annotazioni tengono conto appunto delle profondissime radici storiche del maschilismo. L’impianto fallico-logo-antropo-centrista non è messo in discussione che da rare donne e da ancor più rari se non rarissimi uomini, nessuno esente dal ricorso alla padronanza e al controllo degli umani. Le istituzioni sono d’impianto divino e quindi anche bestiali e per questo troppo umane. Per esempio, chi non accetta il compromesso sulla macellazione animale, accetta la macellazione universitaria (cos’altro è il precariato e la competizione in corso?). Il principio di contraddizione è dell’apertura, inconciliabile. Ciascuno, ciascuna procede dall’apertura in direzione della qualità. Il viaggio non è circolare, ma una curva anomala, libera, leggera, indipendente, come nell’itinerario di Angela Putino. n 7 HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Società Una parola brutta da morire: F femminicidio temuto e femminicidio parlato di Katia Colica emminicidio è una parola che non esiste. Una parola che graffia il cuore di chi la pronuncia, che ha il tanfo fetido di chi la subisce, una parola che infastidisce quelli che gli fiutano attorno abusi di discriminazione capovolta: “L’omicidio è omicidio – affermano – non ha genere, non ha età, colore, razza eccetera”. Ma femminicidio è una parola che si è inventata da sola, quando per troppo tempo si sono uccise donne in quanto donne, non in quanto persone. Le parole fanno paura perché cambiano le cose, ricordano quello che è davvero importante. Le parole trovano quello che si perde nel mucchio confuso dei pensieri e dividono, con una linea immaginaria, il caos ripetitivo e affollato dei pensieri dalla pura logica. Prendono quest’ultima e la inchiodano; e così, a fatica, ci tocca ragionare per schemi, per numeri. Anno 2012: in Italia le donne uccise sono state 124, i tentati omicidi 47. Anno 2013: solo nei primi quattro mesi sono 35 le donne uccise. Il 70% di queste violenze è stato commesso da uomini con cui la vittima aveva rapporti sentimentali. La polemica che si è aperta a questo proposito ruota attorno alla solita domanda: “Abbiamo bisogno di un termine così aspro e fastidioso se si tratta sempre di omicidi?”. Immaginiamo che, in Italia, a giorni alterni e per un anno intero un uomo di colore sia ucciso da un uomo bianco. Ci sarebbero certamente i presupposti per parlare di genocidio. Il termine “genocidio” non esisteva prima del 1944 quando un avvocato, Raphael Lemkin (1900-1959), volle indicare la volontà di uccisione di una persona appartenente a una determinata razza unendo il prefisso geno (dal greco razza o tribù) con il suffisso -cidio, (dal latino uccidere). Immaginiamo, ancora, che sempre in Italia e a giorni alterni per un anno intero un bambino sia ucciso da un adulto. Il termine infanticidio non sarebbe certamente fuori luogo. Invece femminicidio è una parola biasimata, disapprovata, che gratta sulla pelle e si rigetta addosso a una figura-incubo di molti uomini: la femminista. Una dietrologia di massa e banale vuole che il termine sia allusivamente accusatorio nei confronti degli uomini, ipotesi che tra le altre cose riporta al pericoloso dualismo maschio/femmina calpestando il ventaglio di generi che, piaccia o meno, si frappongono a queste due entità: lesbo, gay, trans, bisex. Come dire che usando il termine “infanticidio” si biasimi il restante mondo composto da adulti. Ma la polemica sull’uso di un termine scomodo, probabilmente, nasconde altre pretese: quella, tra tutte, di un’acquisizione da parte delle donne della realtà violenta di genere a occhi bassi. Con una specie di rassegnazione misurata e sobria; d’altronde, da sempre, la rabbia sembra non poter far 8 parte delle donne: gli scatti d’ira al femminile vengono tacciati d’isteria. Ricorrente, quindi, la pratica di offuscare dietro insinuazioni di veterofemminismo da donnine annoiate la richiesta d’attenzione al fenomeno, bloccandola con un ridimensionamento del linguaggio: rigettare la definizione relativa all’uccisione sistematica delle donne in quanto tali è come coprire dietro un telo i tratti allarmanti di un’emergenza sociale sempre più pericolosi. Secondo Diana Russell, criminologa, “tutte le società patriarcali hanno usato – e continuano a usare – il femminicidio come forma di punizione e controllo sociale sulle donne”: la “grave” colpa della donna che viene uccisa (ma ricordiamo il gran numero di violenze e vessazioni che, per fortuna, non porta alla morte) è soprattutto quella di voler ostinarsi a trasgredire il suo ruolo ideale e naturale imposto dalla tradizione. Un ruolo di donna obbediente che si fa piacere tutto, brava madre e moglie, sessualmente sempre disponibile ma solo per il proprio uomo. Donna che non pretende molto più di ciò che le viene concesso e, tra questo, non è compreso l’uso di un termine nuovo. Un atteggiamento ritenuto azzardato che la vede sottrarsi al potere e al controllo del proprio uomo (padre, partner, fratello, ecc.). In più, questo stesso uomo, se vogliamo riferirci a canoni ancestrali, è colui che la riconosce da sempre come simbolo di fertilità e uccidendola assieme a lei vorrebbe uccidere il mondo intero: qualcuno, insomma, che si è incaricato di controllare socialmente un fenomeno che sfugge di mano (il femminino nella sua interezza). Ecco perché quando si parla di femminicidio le reazioni sono spesso stizzite: concedere un tale neologismo vorrebbe dire rendere legittimo il diritto di non morire in quanto donna. Femminicidio è una parola che ha lo stesso effetto di una secchiata gelida in faccia, usata da uomini e donne coraggiosi nella denuncia, persone che pretendono una politica adeguata, strutture di ricezione e accoglienza attive sul territorio. Femminicidio, è una parola mostruosa quanto il suo stesso significato, tirata fuori dalle nostre tasche come un’alternativa raccontata del dolore che proviamo. Una parola che adesso serve ma che non ci piace utilizzare; e infine, per la tranquillità di chi si irrita a sentirla, che ridaremo indietro volentieri e dimenticheremo con gioia appena arriverà quel giorno in cui sarà finalmente inutile usarla. n HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Esteri Le piazze indignate del Brasile “ di Domenico Grillone La più grande rivolta popolare che il Brasile si trova ad affrontare negli ultimi trenta anni”. L’affermazione viene dai più importanti opinionisti politici di un paese, e qui sta l’apparente contraddizione, che da tempo vive un periodo di piena occupazione, dal 2003 circa 35 milioni di persone sono uscite dalla povertà, mentre le regioni storicamente più arretrate come il Nordeste stanno diventando il nuovo motore del paese. A questo occorre aggiungere il dato del tasso d’interesse che si trova al minimo storico, il governo ha concesso alle imprese milioni di Reais di incentivi, e con un tasso di cambio molto competitivo per favorire le esportazioni. Oltre al fatto che, tutto sommato, i conti pubblici sono sotto controllo. Pochi dati economici che fanno del Brasile la più grande potenza economica del Sudamerica. E allora perché oltre cento città brasiliane in queste ultime settimane sono scese in piazza? Non lo hanno fatto certo per l’aumento di 20 centavos sui mezzi pubblici, considerato solo un pretesto per mettere in luce i principali handicap del Brasile odierno: una corruzione dilagante che investe in maniera particolare tutta la classe politica, compresa quella di Brasilia, capitale e sede del parlamento; il bassissimo livello dell’istruzione e della sanità pubblica, una cattiva gestione delle risorse pubbliche ed una loro iniqua distribuzione, una violenza inaudita che rende insicure tutte le strade del paese. Tutti dati confermati dalla ricerca promossa dalla Cnt (Confederazione nazionale dei Trasporti) e pubblicata in questi giorni dalla rivista brasiliana Epoca. Un grave malcontento che alla fine si è tradotto in una sorta di rivolta popolare dove i partiti politici, tutti indistintamente, sono diventati anch’essi un bersaglio delle proteste. Basti pensare che durante le diverse manifestazioni nessuna bandiera, compresa quella del Pt, il partito al governo da dieci anni, quello di Lula prima e Dilma Rousseff dopo, è stata sventolata nelle piazze coinvolte dalla protesta. Ciò che realmente ha fatto infuriare i brasiliani, ed in particolar modo la classe media ed intellettuale del paese, è che sotto la patina di nuovo benessere e del miglioramento degli standard di vita, le riforme economiche hanno intaccato solo la superficie dei problemi atavici del gigante sudamericano. Come, ad esempio, l’impunità della classe politica colpita da innumerevoli scandali di corruzione e rimasti quasi tutti senza un pronunciamento da parte della giustizia grazie ad una legge ad hoc, la Pec 37, che limita il potere investigativo del pubblico ministero verso i componenti del parlamento. Ed è stata proprio la, sollevazione popolare a convincere la presidente a fare un passo indietro è restituire quel senso di giustizia che ha portato poi, in questi ultimi giorni, alla revoca della legge. Ma non è stato solo questo l’unico effetto di una protesta così generalizzata che per registrarne una uguale bisogna andare molto indietro nel tempo. Perché sull’onda di una protesta, tuttora in atto ma meno aggressiva dei primi giorni, la presidente Dilma in un discorso a reti unificate e dopo l’incontro con i 27 governatori del paese ed i 26 sindaci delle maggiori città, ha annunciato la volontà dell’esecutivo di sottoporre a referendum una profonda “riforma politica” del paese elaborata da una assemblea costituente ad hoc. Ma non è stata solo questa la risposta di un governo che evidentemente teme la reazione di un popolo che adesso non ha paura di manifestare e di scendere in piazza contro un modello politico-economico che, nonostante sia stato l’artefice in questi ultimi dieci anni di un grande cambiamento nel paese, non riesce più a tenere il passo di un tempo. Ed ecco, quindi, la decisione di stanziare 18,5 miliardi di euro per migliorare i trasporti pubblici, principale cavallo di battaglia dei manifestanti, e di mettere in cantiere un “patto contro la corruzione” in favore dell’istruzione, della sanità pubblica e della stabilità economica del Brasile. Il problema adesso, secondo vari esperti ed opinionisti brasiliani, è incanalare un paese tradizionalmente pacifico, e estraneo a manifestazioni di piazza, nella giusta direzione se non vuole perdere completamente la rotta. Perché dietro l’angolo non è difficile intravedere tutte quelle forze occulte, conservatrici e di estrema destra che, cavalcando l’onda del malcontento popolare spingono verso una sorta di restaurazione politico di un triste passato, con il pretesto di riportare il paese alla cosiddetta “normalità”. n 9 HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Esteri La Cina verso un nuovo ordine globale P di Pietro Silo arlare di Cina e relazioni internazionali è come parlare di un’invenzione complessa. Non si tratta di enfasi ma di pura realtà. Gli interessi strategici del paese del dragone sono talmente numerosi e multicentrici che è davvero difficile dare una lettura esaustiva e completa del fenomeno. La Cina dopo la sua ascesa a potenza economica, politica e militare globale ha interessi diffusi e profondi in ogni angolo del pianeta. Dal cortile di casa asiatico alle nuove colonie africane passando per il vecchio continente, rapporto caratterizzato da vicende altalenanti al paese a stelle e strisce con il quale le relazioni sono equiparabili più ad un matrimonio d’interesse che d’amore, per finire con il paese del sol levante con il quale da sempre i rapporti sono sclerotici. Cominciamo con i vicini asiatici: la divisione de facto di Taiwan dal resto della Cina continentale risale al gennaio del 1949 anno in cui Chiang Kai-shek, il leader del Partito nazionalista cinese o Kuomintang, trovò rifugio sull’isola, in fuga dalla rivoluzione di Mao che nell’ottobre dello stesso anno fondò la Repubblica Popolare Cinese. Dal 1949 Taiwan continua a essere divisa dalla madrepatria e questo è spesso motivo di pericolosi attriti diplomatici tra i governi di Pechino e Taipei. I rapporti con il gigante indiano invece sono ottimi dal punto di vista economico, tanto è vero che la Cina è il primo partner commerciale dell’India, posizione che fino a qualche anno addietro era detenuta dagli Stati Uniti d’America. I due colossi asiatici che in passato non godevano di buone relazioni, negli ultimi tempi si sono avvicinati sempre più, fanno parte infatti dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) il club delle nuove economie emergenti. Cina e India insieme costituiscono un binomio vincente grazie alle differenti caratteristiche dei due paesi che tra loro però si conciliano bene, la prima infatti è una grande piattaforma produttiva mentre la seconda un hub dell’IT mondiale, nonostante ciò alcune divisioni tra i due partner esistono, penso al campo energetico e ai problemi relativi ad alcuni confini territoriali mai definiti con precisione. Il Myanmar sta assumendo una grande importanza geopolitica per la Cina. Il rafforzamento dei rapporti con l’ex Birmania è giocato in funzione della ricerca di punti strategici per la sicurezza dei trasporti marittimi e terrestri, attraverso la costruzione di basi marittime e nuovi porti finanziati proprio dalla Cina. Per quanto riguarda l’Africa, l’interesse di Pechino per il continente nero risale alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, infatti con la Conferenza di Bandung del 1955 nacque una comune identità “terzo mondista” e la Repubblica Popolare Cinese rafforzò in tal modo le relazioni con l’Africa. Attualmente la Cina mantiene rapporti diplomatici ufficiali con cinquanta stati africani su cinquantaquattro e secondo i dati della Banca Mondiale, le relazioni economiche tra Cina e Africa hanno raggiunto la cifra di 160 miliardi di 10 dollari nel 2011. La presenza cinese nel continente africano è cresciuta gradualmente nel tempo, con una accelerazione esponenziale negli ultimi 15 anni, in particolare per quanto riguarda il settore dell’economia e della cooperazione allo sviluppo. Per molti governi africani questa presenza è considerata positiva per il miglioramento di molti settori dell’economia e per lo sviluppo della rete infrastrutturale. Però va evidenziato che in alcuni casi le politiche cinesi in Africa sono considerate negative perché dettate (secondo i detrattori di questa forte presenza) esclusivamente dall’interesse per l’approvvigionamento delle materie prime africane senza tenere conto dei bisogni delle popolazioni locali, nonostante Pechino cerchi in ogni modo di evidenziare i benefici comuni e non solo unilaterali di queste relazioni, la presenza cinese in Africa è spesso bollata di neocolonialismo. Nei confronti dell’Unione Europea l’approccio di Pechino è spesso caratterizzato da un braccio di ferro sui temi commerciali, in particolare sul dumping. La Cina viene accusata di praticare questa politica a danno delle aziende europee. E’ di questi giorni la polemica sul dazio d’entrata sui pannelli solari cinesi che potrebbe comportare una guerra commerciale tra le due potenze economiche con possibili ritorsioni cinesi su diversi prodotti europei. In generale non esistendo purtroppo una politica estera europea comune, le relazioni con l’UE sono da ascrivere ai rapporti bilaterali di Pechino con le singole cancellerie europee. Infine con gli Usa è più un rapporto di tolleranza e comune convivenza pacifica, che un rapporto amichevole. Questo dettato anche dal fatto che dal 2010 la Cina è assurta a ruolo di seconda potenza economica globale, superando il vicino Giappone con il quale i rapporti non sono mai stati idilliaci a causa di una competizione ormai secolare, e secondo le stime dell’Fmi e della Banca Mondiale la Cina potrebbe superare l’economia degli Stati Uniti entro il 2016 o al massimo il 2020, strappando un primato che dura da circa un secolo e diventando quindi la prima potenza economica globale. Quindi un rapporto con gli Usa fortemente competitivo che, lo ritroviamo in diverse situazioni, nella competizione per le risorse africane, nelle dispute regionali con l’appoggio (a volte aperto altre velato) di Pechino a Stati considerati canaglia dagli Usa. Quindi una politica estera, quella cinese pluridirezionale e molto competitiva, ma anche intelligente, che si insinua in tutte le occasioni utili ma con un approccio soft senza cercare lo scontro con i propri competitor. Un atteggiamento considerato da molti analisti fortemente responsabile e consapevole del nuovo ruolo assunto a livello globale, contesto nel quale la Cina avrà sempre più un posto al sole. n HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Scienza L Teoria dei geni e principi della meccanica quantistica di Elio Stellitano inus Pauling, chimico fisico americano, è riuscito ad adattare i concetti della meccanica quantistica allo studio delle molecole. Pauling ha esteso alla fisica e alla chimica lo studio delle specificità dell’essere vivente. Le nozioni di legame debole e di complementarietà di struttura sono ancora oggi fondamentali per comprendere le interazioni tra macromolecole. Su questi principi si fondano le strutture e le funzioni dell’essere vivente. Nel 1940, Pauling e Delbruck ricusarono il modello proposto da Jordan di replicazione dei geni basato proprio sui principi della meccanica quantistica, dimostrando che questo modello era invece incompatibile con i risultati della fisica quantistica. Delbruck impiegò per lo studio del gene lo stesso metodo che i fisici avevano impiegato per lo studio dell’atomo. I fisici avevano bombardato l’atomo con delle particelle di grandezza ed energia diverse. il bombardamento produceva sul bersaglio un risultato variabile e da queste variazioni era possibile dedurre le proprietà del nucleo. L’idea di Delbruck dopo il suo incontro con il fisico Niels Bohr era che, per scoprire il segreto della vita, bisognasse studiare il sistema biologico più semplice possibile. I principi della meccanica quantistica erano stati svelati solo quando la materia era stata studiata al suo livello,atomico. Il sistema elementare di studio della vita fu per Delbruck il batteriofago. Bohr può essere considerato il padre della meccanica quantistica. Fu lui per primo a fissare la posizione degli elettroni intorno al nucleo,per spiegare i dati sperimentali sull’assorbimento e l’emissione della luce da parte degli atomi. Bohr distinse il comportamento dell’elettrone dentro l’atomo surriscaldato (stato eccitato) da quello nell’atomo in condizioni normali (stato stazionario), avanzando due postulati: I° postulato (sullo stato stazionario degli elettroni): negli atomi, normalmente gli elettroni non emettono onde elettromagnetiche, poiché si muovono lungo orbite preferenziali, orbite stazionarie, caratterizzate ognuna da una ben definita quantità di energia. II° postulato (sullo stato eccitato degli elettroni): si verificano emissioni di energia sottoforma di onde elettromagnetiche solo quando un elettrone salta da un orbita ad energia maggiore ad un’altra ad energia minore. In questo caso la frequenza n della radiazione emessa è deter- minata dalla teoria di Einstein sui quanti di luce: DE=hn dove DE rappresenta la differenza di energia dei livelli tra i quali si realizza il salto. L’obiettivo di Bohr era di operare un trasferimento scientifico dalla fisica alla biologia, ossia di applicare i risultati della prima alla seconda. Bisognava indurre un “trasferimento epistemologico”, indagare su come la nuova visione del mondo fisico può modificare quella degli esseri viventi. Uno dei risultati essenziali della nuova fisica era il principio di complementarietà: uno stesso oggetto,ad esempio il fotone, poteva e doveva essere studiato con approcci diversi ma complementari, essere considerato un’onda e al tempo stesso una particella. Nel libro intitolato “what is life ?” (1944) Schrodinger rivelò i risultati della genetica, e suggerì che la meccanica quantistica è in grado di spiegarli. Due proprietà dei geni, stabilità e mutabilità, sono inspiegabili secondo la fisica classica. I geni sono troppo piccoli perché la loro stabilità derivi da un equilibrio statistico delle molecole che li costituiscono. Le proprietà dei geni evocano i livelli stabili di energia rivelati nelle molecole dalla meccanica quantistica. A Cambridge, Watson e Crick collaborarono sulla struttura del DNA. Partendo dai dati forniti dal gruppo di Wilkins,Watson e Crick cominciarono a costruire modelli della molecola del DNA. Watson scoprì che le coppie di basi A-T e G-C avevano la stessa struttura spaziale, il che permetteva di costruire una doppia elica perfettamente regolare. Anche i fisici Brillouin e Feynman, i matematici Turing e Von Neuman, padri dell’informatica,furono attratti dalla biologia. Gli storici devono ancora comprendere cosa sia realmente accaduto tra gli anni ‘40 e ’60 quando nacquero e si svilupparono due discipline fondamentali quali sono l’informatica e la biologia molecolare, e quando si formulò questa nuova visione del mondo in cui “l’informazione e la logica hanno un rilievo maggiore dell’energia o della costituzione della materia”. n 11 HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Scienza Ricerca del Laboratorio Neurolab per la diagnosi dell’Alzheimer Il magazine scientifico americano SPIE Newsroom ha pubblicato il risultato di una innovativa ricerca sulla diagnosi precoce del morbo di Alzheimer svolta dal Laboratorio Neurolab - Dipartimento DICEAM dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, diretto dal prof. Francesco Carlo Morabito. La malattia di Alzheimer (AD) è una forma complessa e diffusa di demenza la cui prevalenza nel mondo è destinato a raddoppiare nei prossimi 20 anni. Non esiste cura ed è possibile ritardare l’evoluzione mediante cura farmacologica, la cui efficacia aumenta con la diagnosi precoce. Tuttavia, la maggior parte di questi esami clinici sono costosi e invasivi. Gli studi del gruppo coordinato dal prof. Morabito hanno evidenziato che analizzando il contenuto dell’attività elettrica alla superficie del cervello mediante una corretta interpretazione dell’elettroencefalogramma, i ricercatori possono distinguere tra i pazienti che sono sani e quelli con diversi tipi di deterioramento cognitivo. Come specificato dal prof. Morabito, il risultato è frutto del lavoro delle molte persone che compongono il gruppo di ricerca, nonché della collaborazione con centri americani (Catholic University of Washington), giapponesi (Brain Center RIKEN Tokyo), coreani (BSRC KAIST Daejeon, Corea del Sud), inglesi (Imperial College, Londra) e italiani (Centro Neurolesi Fondazione Bonino Pulejo, Messina). La ricerca pubblicata sul magazine on line “SPIE Newsroom” riguarda l’utilizzo di segnali elettrici rilevati in modo non invasivo sullo scalpo di pazienti neurologici. In particolare, lo studio mira al monitoraggio di pazienti non ospedalizzati con tecniche di tele-monitoring. Il punto chiave dei risultati è che il segnale EEG di pazienti con malattia di Alzheimer presenta una bassa complessità rispetto al segnale rilevato su un soggetto sano di pari età (in termini statistici). Questo fatto implica una maggiore ridondanza e, quindi, la possibilità di comprimere più facilmente il segnale corrispondente, come si fa con file, immagini e suoni su un computer. Essendo maggiormente compressibile, il segnale può più facilmente essere trasmesso a distanza attraverso uno smartphone collocato vicino al paziente. Di norma, un segnale EEG, essendo distribuito su più 12 elettrodi, non stazionario e non lineare, nonché rilevato su tempi lunghi, impegna un eccesso di banda rispetto alle capacità di un sistema di trasmissione a distanza. In altri termini, non è sufficientemente “sparso” per consentirne una compressione in tempo reale. Lo studio è stato condotto su un campione retrospettivo di segnali EEG rilevati su numerosi soggetti, nell’ambito di una collaborazione con ilCentro Neurolesi IRCCS Fondazione Bonino Pulejo di Messina e su segnali resi disponibili nell’ambito di una collaborazione internazionale. La ricerca è ancora in corso e si prevede la disponibilità di tracciati EEG da un elevato numero di soggetti . Il corrispondente database risulta d’interesse internazionale, infatti la ricerca verrà condotta in più centri che dispongono di tecniche e strumenti algoritmici diversi, anche molto avanzati. In particolare, in Giappone si sta realizzando una cuffia per il tele-monitoraggio di F. Carlo Morabito pazienti con elettrodi attivi basati sull’uso di sistemi fuzzy. Negli Stati Uniti, il database verrà elaborato dal gruppo di ricerca del prof. Harold Szu, già ospite in passato della Mediterranea, per il test di un nuovo sistema di compressione multicanale che sfrutta la sparsità del segnale EEG in termini termodinamici. Le conseguenze dello studio sono potenzialmente numerose: la possibilità di distinguere stati diversi della malattia sulla base di un’elaborazione di un tracciato EEG utilizzando come marker il rapporto di compressione; la possibilità di monitorare a distanza pazienti neurologici sofferenti di diverse patologie; la possibilità di costruire semplici e poco costosi sistemi per effettuare studi longitudinali su pazienti sospettati di poter sviluppare patologie nel breve periodo. Il principale merito dei giovani ricercatori della Mediterranea è stato quello di comprendere che, nel caso di alcuni tipi di pazienti, le modificazioni del tracciato EEG potevano comportare una semplificazione dello stesso che ne favorisce la compressione e ne rende possibile la trasmissione a distanza via smartphone. SPIE Newsroom, Magazine on-line della Society for Optics and Photonics. n HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Arte “L’anatomia non è un destino” S di Kreszenzia Gehrer i è conclusa il 21 aprile 2013 Femme / Objet, la prima retrospettiva al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris su Linder Sterling: quarant’anni di carriera attraverso duecento opere. Una grandiosa selezione di fotografie, fotomontaggi, light box, opere su carta e video, e la ritrasmissione di una sua celebre performance musicale avvenuta nel 1982, in cui Linder sfilava con indosso un abito esclusivo di carne cruda racimolata nella spazzatura di un ristorante cinese, e, come se ciò già non bastasse, accompagnandosi a un vibratore nero. Il concerto del 5 novembre del 1982 si concludeva con uno strip di Linder la quale esponeva sul suo corpo la scritta “Donna svegliati!” Ma chi è Linder? Al secolo Linda Mulvey. Nasce a Liverpool nel 1954, ma debutta a Manchester negli anni Settanta, in piena temperie punk, e cambia il suo nome da Linda in Linder, dal suono molto meno femminile, più neutro e indistinto, il che si attagliava perfettamente al suo concetto di arte ibrida. Artista, musicista, performer, icona punk, urlatrice ufficiale dei Ludus – gruppo post-punk da lei fondato nel 1978 – e «la prima femminista punk radicale», così come venne definita da Jon Savage, biografo dei Sex Pistols. Agli anni Settanta risalgono le sue “chimere biomeccaniche”, frutto della rielaborazione dei linguaggi dei rotocalchi pubblicitari e dei prodotti di scarto della comunicazione, dai frammenti ritagliati da riviste femminili (di arredamento, casa, fotoromanzi, cucina) a quelli maschili (porno, automobilismo, fai-da- te), in una democraticissima operazione di estrazione visiva; vennero raccolte in serie e pubblicate come copertine di album: famoso Orgasm Addict del 1977 sul primo singolo dei Buzzcocks che raffigurava un nudo di donna – preso in prestito da una rivista pornografica – la cui estremità culminava in un ferro da stiro, al posto della testa, e due capezzoli a mo’ di sorridenti bocche. Gorgone post-moderna con al posto del cervello uno dei simboli del boom economico e della subalternità femminile: l’elettrodomestico. Donne addomesticate attraverso la subcultura delle eroine e degli eroi dei magazine dei tardi anni Settanta, come la tecnologia “addomesticò” la fatica del lavoro casalingo. I self-assemblage di Linder, ispirati ai caustici collage dadaisti, erano focalizzati sul corpo, sul desiderio fem- minile e sull’alienazione culturale subita e a volte cercata, erano vere e proprie aggressioni visive contro l’immagine convenzionale della donna e la reificazione oggettuale del suo corpo, considerato mero prodotto di consumo, utilizzabile e fungibile, stereotipo di fascinazione erotica. Sarà un caso, ma le sue opere hanno impiegato trentacinque anni prima di diventare “oggetto” da museo e ci sono arrivate con questa installazione parigina inaugurata il primo febbraio, e dal titolo tanto evocativo da ricordare La femme objet, film pornografico francese del 1980 diretto da Claude Mulot. Nel film Nicolas, scrittore di fantascienza con una esuberante sessualità abbandonato e deluso dalle sue amanti, costruisce un robot donna destinato a soddisfare ogni suo desiderio. La creatura cibernetica però si rivolgerà contro il suo creatore e lo trasformerà a sua volta in un oggetto sessuale. La retrospettiva su Linder ruota intorno alla domanda sul ruolo femminile: donna o oggetto? Domanda a cui ancora non si è data, purtroppo, nonostante anni di lotte femministe, una valida risposta. Linder prova a tentarla attraverso il suo distillato surrealistico e white trash di casalinghe isteriche, perverse e con qualche ritocchino estetico. Prova a tentarla, una risposta, demistificando quelle miniature di donna che la società occidentale post-moderna ci ha propinato, da urlatrice, ancora una volta, gridando nel neon della sua light box che «Anatomy is not destiny». Forse che ha agito e agisce ancora oggi un pregiudizio. Un fraintendimento logico. Che la libertà, di genere o meno, sia una questione fisiologica. Confondendo l’oggetto con il soggetto. Che la libertà, insomma, sia emancipazione del corpo e mica del cervello. “Donna svegliati!” n 13 HELIOS magazine 2013 n. 3-4 Arte Divagazioni e note leggendo “La materia intellettuale” N di Giancarlo Calciolari di Alessandro Taglioni umerose, nel libro, le note e le riflessioni intorno all’immagine. Un’ampia indagine che attraversa testi differenti sempre attenendosi alla cifra di un itinerario. L’indagine attraversa e analizza le varie forme di negazione del cibo intellettuale, fino all’approccio specifico e scientifico a una cucina che è linguistica, che è arte. Per arrivare a ciò occorre anche l’analisi della cucina “mondana”, della cucina spettacolo, della cucina che propone il cibo buono e il cibo cattivo, quello che fa bene e quello che fa male, con i suoi forni e fornelli, becchi, bocche, boccacce e bocchini. Ma si tratta anche dell’uomo e dell’immagine, non propria. L’Autore si accorge di qualcosa che riguarda l’uomo e le sue finzioni. L’uomo che finge d’insegnare l’autenticità. Giancarlo legge di scrittori importanti che però saltano e parimenti evitano la nominazione. Saltano l’anonimato e l’innominabile: cosiddetti funzionari senza nome che navigano fra antropomorfismo e zoologia. Il nome agente, il nome del nome, il farsi nome il farsi immagine, come farsi animale. Ma, soprattutto, vi sono intellettuali organici che formulano organigrammi e ricette sulle tecniche per affiancarsi all’animale. Cioè, come scriversi addosso, nel sistema e nel discorso. Si giunge così alla scrittura sul corpo, al tatuaggio, che creano e individuano la corporazione, o la community, e l’accorpamento, per argomentare i limiti e le appartenenze di un corpo. Il corpo limite, concetto che alimenta ogni ideologia umana e divina. Ma c’è ben altra scrittura: la pornografia “che si attiene”, quale scrittura della vendita, “alla grazia, alla carità, alla castità”. Qualità e qualificazione. Una verità che non si sistema, che non si logicizza che non si lascia ridurre in logìa. Verità che lo scientismo pensa di interrogare con il discorso scambiando la struttura con la logica. La verità non si logicizza se è effetto. Appunto “da quale parte” inseguire la verità? Ecco il perseguire, il demonismo e il partecipare a qualcosa che viene al più percepito o intuito al di qua dell’effetto di verità. In questo senso, nel discorso dell’occidente sono ammesse l’eutanasia, la mediotanasia o la giustanasia. Il modello scientifico dell’occidente è ancora e solo militare, quello che decide il destino di ogni categoria cui, però, come il rinascimento indicava, con l’invenzione del punto di fuga, qualcosa sfugge... In questo modello, il nome di dio sta al posto delcome. Con questa agenzia, 14 non vi sarebbe ammissione dell’uno, ma si ammetterebbe una genealogia, divina, con svariate categorie, anche laiciste, e infinite discendenze, gnostiche. Il come della serie degli uno, non la carrellata, non l’erranza dei nomi. Innominabile e anonimo il nome che non concede deroghe al lavoro del lutto. E c’è la dimensione in cui le immagini, che non trasportano concetti, non significano, contribuiscono alla memoria immemoriale, alla traccia, al segno senza alcuna possibilità di strisciare verso la significazione, perché, magari, proprio lì c’è una falda di cenere che impedisce al serpente di strisciare verso tale significazione. Il ritorno. Tema grandioso e immenso. Non si rimuove. La rimozione non si assume neppure con l’appartenenza. “Il ritorno intraducibile con salvezza” perché “il ritorno del rimosso è dello zero nella sua funzione”. L’albero senza genealogia è albero inconoscibile, non per chiunque. Ciascuno comporta l’albero dell’apertura, l’albero senza dicotomia, l’albero che non porta la condanna eterna per via di una mela. Mangia o sempre da mangiare? Il calco di cui scrive l’Autore evoca il sigillo di cui parla Agostino nel De Trinitate. E poi l’esplorazione e lo studium di Pierre Legendre intorno all’immagine nelle scaramucce e nelle guerre a colpi d’immagine: ma c’è sempre l’idea che sta sotto. Mai un’immagine senza commento e senza idea: nel tempo presente l’immagine è ammessa se sostanziale. Forse è un’immagine senza l’angelo, senza annunciazione. L’autore, nel discorso occidentale, viene inseguito come rappresentazione dell’autorevolezza nelle opere cosiddette d’epoca, mentre viene ignorato e surclassato dall’idea (che ognuno ha) di opera, che prevale nel commento. L’autore, la firma, il nome vengono inseguiti nella trafila delle genealogie, delle attribuzioni e delle smentite, nel caso delle opere dell’antichità. Qual’è il valore di tutto ciò rispetto alla memoria? Il tempo ritenuto presente nella contemporaneità rappresenta la funzione di nome, che rimuove e esclude l’opera Arte in favore dell’idea sociale, del concetto, della performance. Il tempo, che invece si rappresenta nel passatismo, quindi nelle opere di epoche precedenti, cerca il nome dell’opera per guadagnare dal tempo, per trattarlo e speculare su di esso. L’autore viene inseguito per appropriarsene, come un dominio sul tempo. Il tempo nelle opere più antiche, storicamente, va a caccia dei nomi per creare o distruggere genealogie, fra autoritarismo e autorevolezza, correzioni e corruzioni, di nomi e di opere, soprattutto attribuzioni e smentite, cancellazioni e scoperte. Ma ciò che interessa, invece, è l’autenticità dell’opera che ne custodisce così l’anonimato, pur nella fanfara degli autori e dei nomi. Vane le ricerche del vero nome del vero autore, vane anche quelle di un genio come Harold Bloom. Quasi fosse l’esperienza a decidere il destino della nominazione. Interessano il nome, l’opera e la bellezza. Bellezza della memoria e del viaggio. Memoria immemore. Oggi, l’altra faccia dell’immagine istituita di cui parla Legendre dove sta? Il controllo del seme e il controllo del gene, forse, è proprio l’apoteosi della burocrazia, il controllo prima che le cose incomincino. Questo nuovo idolo cui biblicamente si opponeva il divieto di costruire immagini che va ben oltre il controllo delle nascite. Vi sono dei brani di finissima poesia nel testo di Calciolari, per esempio quando pone l’io narrante e il tu epistolare. Narrazione e poesia in cui l’immagine della parola affiora come cristallo, si specifica nel testo epistolare: chiarezza, semplicità e precisione. Jung è forse la reazione a Freud? Non avanza alcuna dissidenza. La pietra è inavvicinabile, inancorabile, irrappresentabile eppure viene cercata lo stesso, non al colmo del portale o dell’arcata etrusca e romana, ma al colmo della denigrazione, al di qua dello sdegno, con qualunque boicottaggio, oltre l’inciampo. La pietra senza paragone resta distante o vicina. Il problema si pone quando accanto a un’opera si impedisce la lettura portandosi appresso l’idea. Allora è un’idea davanti all’opera che talvolta può ignorare l’opera o impedire la vita dell’opera. Agisce così la paura presa per la coda? “La gioia è sensazione della cifra”, e “la funzione di non dell’avere è la funzione di accesso”. Enunciati interessanti e in qualche modo anche francescani. Il modello distributivo viene dal modello militare, senza particolarità e senza singolarità e spera invece nell’esistenza della pluralità. Impossibile parlare di, in generale, e ancora di più parlare addosso alle opere. Come sarebbe possibile distribuire l’opera, il testo, il disegno, in modo plurale? Con l’ideologia di Warhol. In Legendre il grado zero dell’impalcatura immaginifica è nel modello europeo distributivo dello standard, forse lo stesso standard HELIOS magazine 2013 n. 3-4 burocratico che trova un nuovo dio nella distribuzione globale. Non serve più neanche una teologia politica con questa liturgia burocratica. L’immagine nei modelli distributivi c’entra solo perché anello della costante circolarità del cambiamento e aggiornamento degli standard. Mai l’eccellenza, mai l’anomalia, mai il Mediterraneo. Questa immagine fantasmatica è apoteosi del concetto o dello standard. Impossibile la qualità della vita in questa rivoluzione celeste del maneggio del cane, dentro o fuori casa, o del maneggio finanziario globale. Questa tabula rasa dello standard è il premio del soggetto. Soggetto della rappresentazione di un quadro dove le guerre, sempre civili, diventano fiction. E ogni film delle grandi distribuzioni, anche le love story, diventano film di guerra. Dobbiamo aspettare che la cultura nordeuropea della “pseudo vita” elabori la lingua mediterranea? L’enunciato agostiniano ad imaginem dei non si incontrerà mai con l’ideologia dell’imago dei; occorre ben altra linguistica per incontrare la pax mediterranea. L’imago nordeuropea è annotata anche da Régis Debray, è quella della nascita dell’immagine “che è strettamente connessa alla morte”. Giancarlo Calciolari, “La materia intellettuale”, Transfinito, 2013. n 15 HELIOS magazine 2013 n. 3-4 L Se coraggio e passione delle donne vengono declinati sulla vita di “lady camorra” Pupetta Maresca di Anna Rita Leonardi (*) a programmazione dei canali della Tv italiana , in questi anni, ci ha abituati ad un parterre di film e trasmissioni che spesso si sono contraddistinti per il loro “basso contenuto artistico” e per la loro totale mancanza di gusto. Ma, come nelle peggiori famiglie, quando pensi di avere assistito a tutto l’inguardabile e l’intollerabile, ecco che arriva la botta che ti sorprende e ti sconvolge. Così salta fuori che la compagnia televisiva del signor Berlusconi, la ditta Mediaset, decide di girare una fiction dal titolo “Pupetta – Il coraggio e la passione”. Voi direte vabbé che originalità: sarà la solita commediola da 4 soldi di Canale 5 con il Gabriel Garko di turno. Lo pensavo anche io. E invece no! La fiction Mediaset, dal titolo nobile (“coraggio” e “passione” sono qualità importanti, almeno così dice lo Zingarelli) è ispirata e “dedicata” alla signora Assunta “Pupetta” Maresca, meglio conosciuta come “lady camorra”. Proprio così, perché la signora Pupetta altri non è che una nota camorrista, in “attività” tra il 1955 e il 1990, legata sentimentalmente a due famosi boss (Pasquale Simonetti e Umberto Ammaturo), mandante di alcuni omicidi e vera e propria “donna di clan”. Chiariamoci, se questo fosse un film “racconto” su una storia di mafia, poco o nulla ci sarebbe da dire. Il problema si pone invece perché in questa fiction la signora Pupetta viene mostrata come una donna forte, coraggiosa, determinata, una donna ribelle ed appassionata. Da criminale viene trasformata in un’eroina, in un modello di donna “che non si piega davanti a nulla e che combatte per le sue idee”. Poco importa a Mediaset, al regista ed agli attori, che quelle siano idee di morte, di delinquenza, di sangue. Una camorrista, una rappresentante della peggiore criminalità esistente viene portata a modello di forza e determinazione così, senza vergogna, con 16 Recensioni una naturalezza che fa quasi spavento. Spavento, paura, orrore. Orrore di quella società che trasforma i carnefici in eroi, in modelli da seguire ed imitare. Paura di ciò che queste figure rappresentano. Spavento per il messaggio sbagliato e terribile che una fiction del genere può trasmettere alla gente, allo spettatore. La televisione è, ancora oggi, il principale mezzo di informazione della maggior parte delle persone. I messaggi che veicola entrano prepotenti nella testa di tutti e, in qualche maniera, la condizionano. Questo fenomeno deve essere considerato e non può passare inosservato. Non si può pensare di non avere responsabilità quando una criminale viene trasformata in una “martire del femminismo”, in un modello di coraggio e onore. Ognuno di noi deve denunciare queste manifestazioni, sotto qualsiasi forma si presentino: è nostro compito “educarci” al giusto, difendendoci da falsi idoli. Perché, parafrasando De Andrè, “nessuno di noi è assolto, siamo inevitabilmente tutti coinvolti”. n (*) per gentile concessione di Scirocconews.it