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Novembre 2011 - N°
25
Il tema del numero
Musei ebraici italiani
a cura di Michela Zanon e Roberta Favia
Rivista semestrale di Museologia
Giornale ufficiale
dell’Associazione Italiana di Studi Museologici
www.nuovamuseologia.org
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Si ricorda che la rivista
Nuova Museologia viene inviata
gratuitamente ai soci dell’Associazione
Italiana di Studi Museologici.
Per l’iscrizione all’Associazione
consultare il sito
www.studimuseologici.org.
Sommario
pag.
1
Il punto sui musei ebraici italiani
Annie Sacerdoti
pag.
2
Gli ebrei e Casale, una storia
di oltre cinquecento anni
Claudia De Benedetti
Nuova Museologia
n. 25, Novembre 2011
Segreteria
Via V. Foppa 16 - 20144 Milano
Telefono 02.4691589 - fax 02.700406383
E-mail [email protected]
Direttore Responsabile
Giovanni Pinna
pag.
7
Il Museo Ebraico di Firenze
Dora Liscia Bemporad
pag.
11
Il Museo Ebraico di Roma
Olga Melasecchi
pag.
16
Il progetto del Museo Ebraico
nel complesso sinagogale di Siena
Anna Di Castro, Renzo Funaro
Redazione e impaginazione
Claudia Savoiardo
pag.
pag.
Associazione Italiana di Studi Museologici
Via V. Foppa 16 - 20144 Milano
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Nuova Museologia è aperta alla
collaborazione di quanti si interessano
alla problematica dei musei. Gli articoli
proposti vanno inviati alla Segreteria.
20
Il Museo della Comunità Ebraica di Trieste
Daniela Gross
pag.
23
Il Museo Ebraico di Venezia
Michela Zanon
Progetto grafico
Antonia Pessina
Stampa
Bine Editore s.r.l.
C.so di P.ta Vittoria, 43 - 20122 Milano
Telefono 02.55025312
Il Museo Ebraico “Fausto Levi” di Soragna
Yehuda Giavarini
Promozione e sviluppo
Carlo Teruzzi
Relazioni esterne
Donatella Lanzeni
Via Chiossetto, 16 - 20122 Milano
Telefono e fax 02.76004870
E-mail [email protected]
18
pag.
28
Gli ebrei di Asti
Maria Luisa Giribaldi
pag.
30
Il Museo Ebraico di Ferrara
Andrea Pesaro
pag.
31
Il MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo e
della Shoah
Carla Di Francesco
pag.
33
La Giornata Europea della Cultura Ebraica 2011
Sira Fatucci
Registrazione del tribunale di Milano
numero 445 del 18.06.1999
pag.
34
Glossario delle principali parole ebraiche
utilizzate negli articoli
La Redazione declina ogni responsabilità in merito alle
notizie contenute nelle inserzioni pubblicitarie.
pag.
Indirizzi e recapiti dei musei ebraici italiani
ISSN 1828-1591
pag.
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36
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del copyright dei testi.
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Note brevi
EDITORIALE
Il punto
sui musei ebraici italiani
Annie Sacerdoti
Più della metà del patrimonio artistico del mondo
è concentrato in Italia e quello ebraico ne rappresenta un importante tassello. Non stupisce quindi se nella nostra penisola esiste oggi una fitta rete di musei sparsi quasi in ogni regione, musei grandi e piccoli, organizzati dalle Comunità o gestiti da associazioni culturali cittadine, se non esiste più un nucleo ebraico sul
territorio. Non stupisce neppure che vengano progettati nuovi musei, con dimensioni e importanza diverse: di grande respiro, come quello nazionale di Ferrara sull’ebraismo italiano e la Shoah o quello di Roma
sulla Shoah, o alcuni di piccole dimensioni programmati nei matronei, come quello futuro di Siena. Questi ultimi musei si propongono di esporre oggetti, documenti, ricordi di storia ebraica locale con uno scopo soprattutto didattico.
La filosofia che guidò la nascita dei primi musei ebraici in Italia fu ben diversa da quella che attualmente viene seguita. All’inizio del Novecento e dopo la Shoah le
Comunità sentirono l’esigenza di riunire in luoghi sicuri oggetti preziosi e no, documenti, arredi, fotografie per conservare un patrimonio dalla dispersione e dalla rovina, senza probabilmente all’epoca attribuire alla collezione un vero e proprio valore artistico e culturale. Molte Comunità sparse sul territorio erano diventate
molto esigue o erano scomparse del tutto: l’urbanizzazione aveva infatti indotto all’inizio del Novecento molti ebrei a spostarsi dalla campagna nei grandi centri urbani, dove nascevano le industrie; la persecuzione e la
deportazione avevano poi inflitto un nuovo duro colpo alla vita comunitaria. In alcuni casi, come per la realizzazione del museo di Soragna, si decise di riunire in
un unico luogo oggetti, arredi, documenti di tutta l’area
del parmense e del piacentino, alienando le vecchie sale di preghiera ormai abbandonate.
Nel corso degli anni la filosofia che ha interessato
i musei ebraici è cambiata, seguendo le tendenze generali di tutti i musei del mondo. Esperti museografi,
architetti, studiosi hanno iniziato a discutere sul significato e sull’importanza delle esposizioni permanenti e
di quelle temporanee, sul ruolo che entrambe giocano
nella diffusione della cultura generale e, non ultimo, sul
loro impatto sui giovani. Gli interrogativi che hanno interessato gli addetti ai lavori sono stati numerosi e
coinvolgenti. Le discussioni hanno interessato il target
del pubblico al quale ci si vuole indirizzare (ebrei o non
ebrei, conoscitori e studiosi o semplici cittadini, studenti);
hanno posto il problema sul se dare prevalenza alla descrizione della vita interna ebraica (il ciclo della vita)
o alla storia dei rapporti con il mondo esterno; hanno
dibattuto se presentare gli oggetti per il loro valore artistico o con puro intento didattico; hanno valutato
quale rapporto porre tra museo “materiale” e museo “virtuale”. In alcuni casi, trovandosi l’esposizione museale negli edifici di sinagoghe utilizzate per il rito quotidiano, come a Roma o a Venezia, si è deciso di permettere
una rotazione periodica degli oggetti (in particolare argenti e tessuti), in modo che questi ultimi, tolti dalle
vetrine, potessero essere utilizzati anche normalmente. È questo un interessante esempio di oggettistica
non “musealizzata” ma “viva”, che viene utilizzata per
le funzioni religiose, sia pure con tutte le dovute accortezze.
Anche i frequentatori dei musei in questi ultimi anni sono cambiati. Fino a pochi decenni fa entravano soprattutto studiosi e specialisti e chi non era del mestiere
vi si avvicinava con un certo timore. Oggi non è più
così, anche grazie alle nuove scelte culturali che sono
alla base. Il museo è diventato sempre più un luogo amico, accogliente, vivace, che presenta accanto alle esposizioni permanenti mostre temporanee, illustrate con conferenze e incontri, offre laboratori didattici per i ragazzi
di varie età, biblioteche, videoteche, spazi di consultazione, banche dati a disposizione per ricerche e approfondimenti. I ragazzi nei nuovi spazi si trovano a loro agio tanto che, sempre più spesso, è possibile imbattersi in scolaresche che svolgono attività didattica all’interno delle sale.
Il futuro dei nostri musei è dunque tracciato. Il loro sviluppo è indubbiamente legato alla loro vitalità e
alla capacità di “fare rete”, con uno sguardo verso
l’estero. Ma anche alla loro capacità di offrire sempre
nuove proposte culturali, rimanendo al passo con l’evoluzione tecnologica.
EDITORIALE
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Gli ebrei e Casale, una storia
di oltre cinquecento anni
Claudia De Benedetti
Il complesso museale ebraico di Casale Monferrato con la
sua splendida Sinagoga ha conosciuto nell’ultimo trentennio
un periodo di espansione inatteso. Grazie all’infaticabile opera dei membri delle uniche due famiglie ebraiche residenti a
Casale, i Carmi e gli Ottolenghi, oggi il Museo di Arte e Storia Antica Ebraica, la Sinagoga degli Argenti, il Museo dei Lumi e l’Archivio documentario sono a pieno titolo uno dei fiori all’occhiello dell’ebraismo italiano.
Un’antica e ininterrotta presenza
Mi dor le dor, “di generazione in generazione”, questa espressione usata ripetutamente nel testo delle Scritture potrebbe riassumere uno degli ideali che da sempre ha contraddistinto le
famiglie ebraiche.
Fin dagli anni successivi alla cacciata dalla Spagna, gli ebrei
si stanziarono a Casale Monferrato, città destinata a essere per
secoli importante punto di riferimento per l’ebraismo italiano.
In quei secoli, mentre in gran parte del Piemonte i Savoia attuavano politiche contrarie agli ebrei, nel Monferrato i Paleologi prima e i Gonzaga poi furono più tolleranti. Nonostante
ciò gli ebrei monferrini consideravano la loro posizione sempre in bilico tra la condizione di straniero e quella di suddito, con sbilanciamenti da una parte o dall’altra, a seconda delle epoche e dei regnanti: per continuare a vivere in città talvolta dovevano versare ai sovrani ingenti tributi a sostegno delle spedizioni militari o di particolari concessioni che venivano attribuite di volta in volta.
Le vie del ghetto
Vittorio Amedeo II dal 1724 impose l’obbligo di trasferimento della popolazione ebraica all’interno dei ghetti; nel quartiere della Sinagoga, che abbracciava la Contrada degli ebrei,
oggi via d’Azeglio e via Balbo, via Roma, vicolo Castagna e
piazza San Francesco, risiedevano già molte famiglie. Secondo il censimento generale commissionato in Piemonte dai Savoia nel 1761 nel ghetto di Casale vivevano 136 nuclei familiari, per un totale di 673 persone.
La Rivoluzione francese e l’occupazione napoleonica portarono a una momentanea uguaglianza e le porte dei ghetti
furono eliminate per essere poi ripristinate con la Restaurazione.
La Comunità di Casale conobbe il momento di massimo splendore intorno alla metà del XIX secolo quando circa 850 persone vi risiedevano e nella gran parte vivevano
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praticando il prestito su pegno e commerciando in frumento,
gioielli, pizzi e spezie.
Durante il Congresso Agrario, tenutosi a Casale nel 1847,
si era parlato di libertà e di uguaglianza. Gli ebrei avevano trovato nel canonico Gatti un sostenitore la cui speciale qualità
conferiva un titolo maggiore alla sua difesa; in un opuscolo
intitolato La Rigenerazione politica degli Israeliti in Italia proclamava il dovere di considerare gli ebrei fratelli e di ritenerli uguali agli altri cittadini. Nella piazza Maggiore, secondo quanto riferisce Giuseppe Levi nel suo volumetto Le iscrizioni del
Sacro Tempio Israelitico, inoltre, sul finire del 1847, Pier Luigi Pinelli parlava in favore degli ebrei e scambiava, fra la generale commozione, il bacio di fratellanza con G. Jacob Levi.
Finalmente emancipati
La Comunità di Casale deliberò di ricordare in perpetuo
l’emancipazione ottenuta nel 1848 da Carlo Alberto e di incaricare il rabbino Levi Gattinara di comporre un’iscrizione in
lingua ebraica e italiana da murare nella Sinagoga. In Italia non
esiste alcun altro luogo di culto in cui gli ebrei abbiano voluto tributare riconoscenza al sovrano che li ha affrancati. Ecco
il testo della lapide così significativa: “1848 il 29 marzo / Re
Carlo Alberto e il 19 giugno il parlamento nazionale decretavano / i diritti civili e politici agli israeliti subalpini / acciocché scordate le passate interdizioni / nell’uguaglianza e
nell’amor patrio crescessero liberi cittadini / a perpetua ricordanza gli Israeliti Casalesi”.
Alla morte del re, nel 1852, gli ebrei di Casale listarono a
lutto la Sinagoga, dipingendo sui muri delle fasce nere sotto
le grate dei matronei.
Tra i biografi della Comunità vi è Leone Ottolenghi, che
nel suo saggio Brevi cenni sugli Israeliti casalesi e sul loro sacro Oratorio pubblicato nel 1866, racconta la situazione della Comunità casalese, quando ancor forte in lui è l’emozione
per l’emancipazione. Nell’opuscolo si legge: “Chi può descrivere l’entusiasmo con cui questa notizia fu accolta? Tutta la
Comunità era in moto. Era un andare, un venire, uno stringersi, un rallegrarsi”; e poco più avanti: “I nostri fratelli cattolici presero viva parte alla nostra esultanza ed era invero commovente lo scambio di affetti e di generose idee che in allora si ammiravano”. Ottolenghi loda poi le iniziative intraprese per integrare la Comunità Ebraica con il resto della cittadinanza: dalla creazione di un Società di Incoraggiamento alle
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Arti e Mestieri, alla riforma dell’Opera di Beneficenza per aiutare i malati, fino all’ipotesi di costruzione di un ospedale.
Il 25 dicembre 1862 gli ebrei casalesi appresero la notizia
della scomparsa del marchese Roberto d’Azeglio “valente nostro difensore e fortissimo propugnatore dei conculcati nostri
diritti” a lui venne dedicato un Uffizio Propiziatorio straordinario comprendente la recita di alcuni Salmi di Davide, il discorso funebre del rabbino e la preghiera di requiem, ashkava.
quali è realizzata su un pezzo di argilla di 22 x 24 cm, del peso di circa 2 kg. Accanto a ciascuna lettera è riportato un testo descrittivo che ne indica la pronuncia, il valore numerico
– in ebraico ghematriah – e il significato simbolico.
Altre opere d’arte basate sulle lettere di Gabriele Levy sono esposte nella scalinata che conduce al Museo degli Argenti.
Il cortile e le api
Nel cortile adiacente al portico si trova un piccolo albero
di melograno dal grande significato: nella tradizione ebraica
La splendida Sinagoga nascosta, capolavoro del barocco
la melagrana, con i suoi innumerevoli semi, simboleggia la propiemontese
sperità e la vita; per questo motivo viene utilizzata come auNel cuore del vecchio ghetto si accede a un gioiello di argurio a Rosh ha-Shanah, il capodanno ebraico. La melagrana
chitettura tardobarocca piemontese, dichiarato monumento nainoltre è una delle sette specie vegetali bibliche della Terra di
zionale. L’edificio occupa un lato dell’attuale stretto vicolo SaIsraele ed è quindi legata alla storia del popolo ebraico.
lomone Olper e ha mantenuto, fin dall’origine, un aspetto anoGli artisti Jessica Carrol e Aldo Mondino, nel 2002, traennimo con la facciata simile alle case del quartiere e l’ingresso
do spunto dalla stella di Davide incisa su un’antica moneta codecisamente piccolo. Dalla strada si passa nel vasto atrio che
niata in una Comunità
prosegue con l’arEbraica del Maghreb,
monioso portico che
hanno realizzato una
immette nel cortile.
grande stella in bronzo, tutt’intorno sei api
L’ingresso e il Memocorteggiano la stella,
riale della Shoah
sciamano, danzano,
L’artista Antonio
la circondano in un
Recalcati ha donato
movimento rotatorio
alla Comunità di Cache porta polline e
sale l’opera dedicata
miele, lasciando coalle vittime della
munque segno di sé,
Shoah provenienti da
coprendo con il dolCasale e Moncalvo.
cissimo miele alcuni
Sul vetro sono insemplici sassi. Una
cisi i nomi dei nati a
delle api è rappreCasale o arrestati in
sentata nel gesto placittà che furono uccisi
stico di staccarsi dal
nei campi di stermifiore-stella, per annio, mentre lettere in
dare a raccogliere le
terracotta formano le
Interno della Sinagoga di Casale Monferrato. (Foto Comunità Ebraica di Casale
sensazioni, la meparole ebraiche ShaMonferrato)
moria, gli umori, i colom, Shoah e mi dor
lori, i profumi che l’albero della vita e della fertilità, il melole dor. La scultura di 3 metri per 3 fissata al muro, richiama vigrano – in ebraico rimon – elargisce generosamente. E così,
sivamente il Kotel, il Muro Occidentale del Tempio di Gerugrazie all’ape, il melograno moltiplica mille e mille volte i suoi
salemme, cuore della spiritualità del popolo ebraico, davanti
segni, dedicati a chi, in affettuosa amicizia, li vuole ricevere.
a cui gli ebrei pregano; molti lasciano, all’interno delle fessuE ancora, una delle api – in ebraico dvoràh – nel fecondare
re delle pietre, foglietti di carta contenenti preghiere o desil’albero della vita feconda il mondo e si trasforma in parola –
deri personali. Recalcati ha voluto rappresentare l’immobilità
in ebraico davar. Dvoràh e davar: due parole che in ebraico
delle pietre e il moto dei fogli che sembrano alzarsi in volo
si scrivono con le stesse lettere, gli stessi grafemi; ma, camdal muro dirigendosi verso il cielo.
biandone pronuncia, dvoràh diventa davar, diventa un suono/significato che sta per parola o per cosa.
Il portico e l’alfabeto ebraico
Con un’assonanza che sottende un gioco di significati
L’opera multipla, creata nel 1994 dall’artista Gabriele Levy,
questo lavoro d’artista fa sì che l’ape operosa e dolce impolè composta da tutte le lettere dell’alfabeto, ciascuna delle
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lini il mondo riempiendolo di parole e significati. Perché le
parole niente altro sono se non il nome delle cose, l’abito esteriore della concretezza della vita della Comunità Ebraica di Casale.
La storia della Sinagoga
La “vita” della Sinagoga di Casale cominciò con un contratto di locazione firmato il 17 settembre 1595, con l’affidamento dell’edificio a un custode ebreo e, nei primi mesi del
1606, con la costruzione di un pubblico forno per il pane azzimo.
La sala rettangolare è orientata da nord a sud nel senso
della lunghezza. L’aron, armadio che contiene i Rotoli della
Torah, come in ogni sinagoga, è orientato verso Gerusalemme. Originariamente esistevano due file di panche l’una di fronte all’altra, ma all’inizio del 1700 la sala, divenuta troppo piccola per ospitare l’intera Comunità, fu ampliata aggiungendo
il primo piano, che fu destinato alle donne. Ulteriori migliorie vennero realizzata nel 1787 con l’abbellimento dell’aron
con oro e legni preziosi e la quasi contemporanea costruzione della cantoria in legno scolpito e dorato.
Nel 1853, subito dopo l’emancipazione, furono abbattuti
alcuni muri perimetrali per ampliare la sala e costruire il porticato; il rabbino Salomone Olper coordinò significativi abbellimenti
e restauri dell’edificio per renderlo più consono alle nuove esigenze di vita sociale della Comunità.
Nel clima di euforia generato dall’emancipazione, nel 1866
gli ebrei di Casale apportarono alla sala ulteriori modifiche, ancora più sostanziali, trasferendo la porta d’ingresso al centro
della parete minore, spostando l’aron di fronte a essa e realizzando sul pavimento un prezioso mosaico in stile veneziano; le panche furono spostate, disposte perpendicolarmente
alle pareti della Sinagoga, rivolte verso l’aron.
Iniziò poi un periodo di abbandono dell’edificio a causa
della progressiva diminuzione della popolazione della Comunità.
Circa un secolo dopo, nel 1968, la Sinagoga è stata completamente restaurata sotto la direzione dell’architetto Giulio
Bourbon, attualmente direttore del museo.
Oggi la Sinagoga non viene utilizzata regolarmente poiché a Casale vivono soltanto due famiglie di ebrei. Durante
l’anno, tuttavia, vengono celebrati alcuni Sabati e le principali festività in un’atmosfera speciale di raccoglimento, gioia e
condivisione.
Le iscrizioni
I muri della Sinagoga sono ricoperti da iscrizioni in
ebraico incorniciate da ornamenti dorati e disposte su tre file. La grafia ebraica è un prezioso elemento decorativo: si
distinguono citazioni tratte dai Salmi, scelte da Giuseppe Levi e disposte nella fila inferiore e in quella superiore; nella
fila centrale gli epitaffi in caratteri ebraici, collocati sulle la-
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pidi in marmo bianco di Carrara, ricordano eventi storici. L’iscrizione più antica permette di datare la costruzione della Sinagoga: “Questa pietra ricorda che nell’anno 5355-1595 fu
eretto questo oratorio in onore del Dio di Israele”; altra iscrizione è dedicata alla generosità di Giuseppe Vitta Clava, che
consentì di creare la prima galleria delle donne: “In memoria
della generosità di Giuseppe Vitta Clava, che volle ornare
una nuova galleria delle donne 5480-1720”. Un epitaffio ricorda il restauro e l’arricchimento dell’aron: “Questa pietra
testimonia che la Santa Arca, splendidamente decorata con
legno prezioso e con capitelli in oro massiccio, fu costruita nell’anno 5547-1787”. Due pietre sono dedicate al restauro
del pavimento, eseguito grazie a una donazione: “A perenne memoria della munificenza del barone Giuseppe Raffael
Vitta, che consentì di collocare il pavimento in marmo nella Sinagoga e nel colonnato nell’anno 5583-1823”; e all’ampliamento della Sinagoga: “Per decisione del Presidente della Comunità, per volontà dell’assemblea e grazie alla generosità della gente questa Sinagoga fu riportata all’antico
splendore e allungata nella parte prospiciente all’Arca Santa. Con grande esultanza e gioia fu restaurata nell’anno
5626-1866”. Sui muri vengono ricordati alcuni eventi storici: l’assedio delle truppe spagnole, “Giorno di luce e gioia
che ricorda la liberazione e la salvezza donateci da Dio nell’assedio delle truppe spagnole – 10 Adar 5389-1629 e Tishri 53911631”, e il pericolo scampato quando alcune bombe caddero
sulla Sinagoga affollata senza provocare vittime, “Giorno di
canti e di gioia perché Dio ci ha protetti e salvati dalle bombe dei tentatori che si sono contrapposti a questa città. 7 Iyar
5416-1656”.
Tra le tante iscrizioni presenti all’interno della Sinagoga,
nella terza fila superiore si legge una frase dal tono ecumenico tratta da Isaia 56,7: “Ki beitì bet tefilah, ikareh lekol amim”
(Poiché è il mio Tempio, si chiamerà casa di Orazione per tutti i popoli).
L’aron e la bimah
L’aron e la bimah sono collocati in posizione rialzata rispetto alle panche.
L’aron neoclassico risale al 1765, il timpano è sostenuto
da quattro colonne lignee monumentali, i capitelli corinzi e i
motivi in legno di quercia con decorazioni floreali sono dorati, le colonne dipinte di marrone su sfondo verde per assomigliare al marmo, l’interno rivestito in damasco rosso con decorazioni in legno dorato. Quando le ante dell’aron vengono
aperte si ammirano i Dieci Comandamenti scritti in blu cobalto,
lo shofar, la menorah e il Sefer Torah realizzati in bassorilievo e dorati.
La bimah è delimitata da un motivo in ferro battuto, il tavolo su cui viene posto il Rotolo della Legge, per la lettura,
ha la base in ferro battuto splendidamente decorata.
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I due bassorilievi
Sulle pareti ai due lati della bimah si trovano due rari bassorilievi del XVI secolo in scagliola che paiono realizzati in bronzo: a destra Gerusalemme e il Tempio di re Salomone, a sinistra la città di Hebron e le tombe dei Patriarchi.
Il soffitto e le finestre
Grandi lampadari in ottone pendono dal soffitto costituito da una volta a botte con motivi floreali e stucchi dorati che
spiccano su fondo verde-azzurro. La decorazione in oro della volta è formata dalla scritta ebraica “ze shaar ha shamaiym”
il cui significato è “questa è la porta dei cieli”.
Quattordici finestroni in legno circondati da stucchi dorati permettono alla luce di entrare all’interno della sala regalando una straordinaria luminosità alla Sinagoga.
Il Museo Ebraico: un ricco patrimonio di argenti e tessuti
Il Museo di Arte e Storia Antica Ebraica, anche denominato Museo degli Argenti, ospita una delle collezioni di oggetti d’arte ebraica più importanti d’Europa. Ideato nel 1969
dall’architetto Giulio Bourbon a completamento dei lavori di
restauro della Sinagoga di Casale Monferrato, fa parte del
complesso museale ebraico di Casale, così come il Museo dei
Lumi e l’antica Sinagoga. È collocato all’interno dei matronei
della Sinagoga e al primo e ultimo piano dei due edifici comunitari attigui.
Le collezioni: argenti e tessuti
Il vasto patrimonio di argenti ebraici, straordinario per la
qualità degli oggetti esposti, è ospitato nelle gallerie che accolgono le donne durante la preghiera. Le opere d’arte antica, che compongono la collezione, sono in continuo aumento e provengono da prestiti, generose donazioni o acquisti.
La funzione originaria degli oggetti da cerimonia ne determina le forme caratteristiche, gli stili cambiano da Paese a Paese e riflettono le tendenze artistiche predominanti nei luoghi di
produzione e di origine. Quando agli ebrei fu proibito accedere alla corporazione degli argentieri, gli oggetti rituali furono realizzati da artigiani non ebrei in base alle richieste e alle istruzioni dei committenti. I ricami, le stoffe e i tessuti preziosi potevano invece essere prodotti direttamente dagli ebrei e destinati principalmente a completare, coprire e abbellire gli oggetti sacri.
Le collezioni sono legate essenzialmente a tre tematiche
principali: la Torah, le festività ebraiche e la vita familiare, l’allestimento è integrato da una collezione mista che arricchisce
le esposizioni temporanee.
La Torah
Rari esemplari di Rotoli della Legge – Sefer Torah – in pergamena manoscritta e arrotolata su due supporti in legno o in
argento sono custoditi nell’aron della Sinagoga e usati duran-
te le funzioni religiose, altri incompleti e non più idonei all’uso
liturgico sono esposti nel museo con i loro ornamenti.
La collezione comprende pregiate coppie di rimonim – letteralmente melagrane –, terminali in argento sbalzato e cesellato
che vengono posti sulla parte superiore dei Rotoli, corone –
atarah o keter – di esclusiva fattura piemontese che conferiscono dignità regale al Sefer Torah, interessanti placche – tass
– in argento sbalzato e cesellato, e bacchette in argento che
terminano con un motivo a forma di mano – yad – utilizzate
per indicare ogni parola durante la lettura del testo sacro, poiché ciascuna parola della Torah – Pentateuco – è importante
e non deve essere persa.
Stoffe e tessuti policromi sono esposti con grande cura per
preservare i colori originali dai danni che potrebbe provocare
la prolungata esposizione alla luce. Le vetrine presentano rare tende dell’aron finemente decorate e ricamate, preziose fasce – mappah – in seta o lino utilizzate per stringere la Torah,
quando è arrotolata. Risalgono al XVII secolo anche i manti –
me’il – che, oltre ad avere funzione estetica, vengono utilizzati
per avvolgere e per proteggere il rotolo dalla polvere.
Le festività ebraiche
Al Sabato e alle festività ebraiche il Museo degli Argenti
dedica alcune aree tematiche e approfondimenti con oggetti
rituali.
L’atmosfera speciale del Sabato – Shabbat, giorno sacro dedicato al riposo –, è ricreata da una tavola con la challah, speciale pane a forma di treccia che si usa per il Sabato, la lampada, che viene accesa il venerdì prima del tramonto per accogliere la festa, la coppa per il kiddush, che contiene il vino
utilizzato per la preghiera di ringraziamento a Dio per le sue
benedizioni, e il portaspezie con cui si celebra l’Havdalah, cerimonia di separazione tra il Sabato e il giorno feriale.
Una sala è dedicata alla Pasqua ebraica, Pesach: all’interno si può osservare una tipica tavola imbandita per il Seder,
letteralmente ordine, cerimonia estremamente evocativa con
cui si ricorda l’esodo, l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto e
dalla schiavitù e la riconquista della libertà.
Una piccola capanna – sukkah – caratterizza l’allestimento didattico della festa autunnale di Sukkoth, al suo interno sono collocati tutti gli oggetti tipici della ricorrenza tra cui un prezioso contenitore per il cedro, etrog.
Ogni anno, per Chanukkah viene accesa una lampada: un
lume ogni sera fino all’ottava sera, quando risplendono otto
lumi; lo shamash, letteralmente servitore, è il nono lume, posizionato a parte sulla lampada stessa. Nel museo sono esposte numerose lampade di Chanukkah: una di esse, in bronzo, è tra gli oggetti più antichi di proprietà della Comunità e
risale al XV secolo.
Nella sala dedicata alla gioiosa festività di Purim sono esposti alcuni esemplari di meghilloth, Rotoli, contenenti la storia
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di Ester, uno di essi, particolarmente pregiato, è scritto interamente su cartapecora, mentre un altro, finemente decorato
e illustrato, risale al XVII secolo.
La vita familiare
Ricca e interessante è la collezione di shadday – letteralmente Onnipotente – composta da ciondoli beneauguranti in
argento sbalzato e cesellato di varia foggia. Molto pregiato è
l’antico set degli strumenti necessari per la circoncisione dei
neonati, brith milah.
In questa sezione dedicata alle ricorrenze celebrate in famiglia, la cerimonia del matrimonio ebraico occupa un posto
di rilievo. Lo sposo con indosso il manto di preghiera – tallith o talled secondo l’uso giudaico-piemontese – e la sposa
si trovano sotto la chuppah, il baldacchino tradizionale, accanto
a loro sono esposti un interessante anello nuziale in argento
a forma di casa che apparteneva alla Comunità e veniva prestato alla sposa per la cerimonia nuziale e alcuni esemplari di
contratti nuziali, ketuboth.
Questa parte del museo termina appositamente con il
matrimonio, una fase della vita idealmente proiettata verso il
futuro e la crescita, per trasmettere ai visitatori l’idea che a Casale esiste ancora una Comunità Ebraica vitale e non solo un
polo museale.
Collezione mista
Altre tematiche ebraiche fanno parte della collezione eterogenea in cui meritano particolare menzione i ritratti micrografici di Mosè, Salomone e re David, interamente realizzati utilizzando minuscole lettere ebraiche per formare l’immagine. Ciascun ritratto contiene un testo diverso tratto dalla Bibbia: il Levitico, il Cantico dei Cantici e il Quinto libro dei Salmi.
In una delle sale espositive si possono ammirare le magnifiche Tavole della Legge in legno, probabilmente appartenute all’aron di un’antica sinagoga. Furono ritrovate dalla famiglia di Giorgio Ottolenghi in uno scantinato, forse destinate a bruciare in un camino.
Il Museo dei Lumi: il futuro nella collezione di lampade
contemporanee
Nell’autunno 1994, in occasione delle celebrazioni per i quattrocento anni della Sinagoga di Casale, un gruppo di esperti
e appassionati d’arte, tra cui Elio Carmi, Antonio Recalcati, Aldo Mondino e Paolo Levi, nel discutere di arte ebraica ritenne interessante promuovere e stimolare uno sviluppo nel
campo dell’arte ebraica. La Comunità di Casale possedeva allora alcune lampade di Chanukkah in argento realizzate da
Elio Carmi, l’artista Emanuele Luzzati stava creando un’opera
simile in ceramica da regalare alla Comunità. È nata così l’idea
di promuovere una collezione di chanukkiot d’arte contemporanea, prodotte da artisti ebrei e non. La partecipazione all’ini-
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ziativa da parte di molti maestri, anche di fama mondiale, è
stata fin da subito entusiasta. La raccolta è un’occasione unica per vedere i diversi modi in cui tanti artisti hanno affrontato i problemi legati al progetto formale di un oggetto rituale. Il Museo dei Lumi è oggi ospitato nei locali sotterranei della Comunità, locali anticamente adibiti a forno delle azzime –
matzoth – il pane non lievitato che gli ebrei mangiano durante
la Pasqua ebraica. Il numero delle opere, donate alla Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel
Piemonte Orientale ONLUS ha superato le 115 lampade, è in
costante aumento e ha permesso di realizzare un’esposizione
temporanea molto apprezzata al Musée d’Art et d’Histoire du
Judaisme di Parigi.
I due cimiteri: uno spaccato di storia che continua
nell’eternità
A Casale, seconda Comunità Ebraica del Piemonte, esistono
tuttora due cimiteri, mentre vi sono alcune testimonianze che
attestano l’esistenza di due ulteriori “prati degli ebrei” vicino
a piazza Statuto e a Porta Milano.
Del cimitero vecchio, situato in via Negri, il cui primo utilizzo risale al 1732, è conservato nell’archivio della Comunità
un elenco nominativo dei primi anni del XIX secolo in cui sono registrate oltre duecento sepolture. Al centro del campo si
trova un suggestivo accatastamento di lapidi con iscrizioni, parzialmente corrose, in ebraico; vicino esisteva verosimilmente
un tempietto di cui sono rimasti i progetti.
Nel 1810 ci furono trattative infruttuose condotte da Enrico Vitta per conto del Concistoro degli ebrei, circoscrizione
di Casale, per l’acquisto di un appezzamento di terreno fuori
Porta Nuova. Si giunse nel 1893 a una convenzione con il Municipio, relativa a un ettaro di terreno destinato all’attuale cimitero di via Cardinal Massaia. Il prato, di forma quadrata, registra la prima sepoltura nel 1904, al suo interno si trova il tempietto progettato da Enrico Bertana e Lorenzo Rivetti con belle vetrate e iscrizioni in lingua ebraica tratte dai Salmi.
Un salto nel passato: l’archivio
Nel 1989 è stata avviata la riorganizzazione dell’archivio
storico ora situato nell’ala sud-ovest dell’edificio comunitario
in due grandi locali dedicati alla memoria di Livia Pavia Wollemborg.
Accanto ai documenti si trova una raccolta di manoscritti
e testi liturgici nonché tutto il materiale della Comunità di Moncalvo estinta prima della seconda guerra mondiale.
Recentemente è stata completata anche l’informatizzazione dell’intero catalogo che può essere così accessibile e consultabile con facilità dagli studiosi.
Claudia De Benedetti è vicepresidente dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane e assessore agli Esteri e alla Formazione.
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Il Museo Ebraico di Firenze
Dora Liscia Bemporad
vestimento, rosa e bianche, fu un’ulteriore allusione alla PaleIl Museo Ebraico di Firenze si trova in un luogo relativastina e all’età in cui gli ebrei erano liberi. Il Tempio, costruito
mente periferico rispetto alla Firenze ottocentesca, lontano sia
in forme eclettiche dal carattere moresco, ebbe tuttavia soludal primo insediamento, localizzato al di là dell’Arno, nella via
zioni ingegneristiche e architettoniche adeguate alle trasformazioni
dei Giudei, vicino alla chiesa di San Jacopo, sia dal luogo in
che si stavano formulando al di fuori dell’Italia nei Paesi a più
cui fu fondato il ghetto, ossia nel cuore della città medievale,
alta industrializzazione, come l’Inghilterra, la Germania e la Frantra il Duomo e il Mercato Vecchio. Quest’ultima zona, una delcia. Non a caso uno dei tre architetti che progettarono l’edifile più suggestive di Firenze, fu demolita insieme a gran parte
cio fu Marco Treves, il quale aveva lavorato a Parigi e conodel centro storico nell’ultimo decennio del XIX secolo, per essceva le novità che erano state formulate all’estero. La presenza
sere sostituito da edifici in stile neorinascimentale. L’antico
degli altri due progettisti, Vincenzo Micheli e Mariano Falcini,
mercato prese il nome di piazza della Repubblica e ha assunambedue fiorentini, non pesò sul carattere – così lontano stito un aspetto trionfale ed estraneo allo spirito intimo e severo
listicamente dal gudella città.
sto fiorentino – del
Nonostante fosluogo di culto, che
sero rimasti aperti in
spiccava con le sue
una strada adiacente
cupole nello skyline
al ghetto, in via delle
della città, alla pari
Oche, due oratori, il
delle altre cupole delcentro dell’ebraismo
le chiese.
fiorentino si spostò
Quindi, la predove fu innalzato il
senza degli ebrei a Finuovo Tempio, in una
renze può essere sezona allora poco abiguita attraverso la vitata, anche se entro le
sita a luoghi che soantiche mura trecenno abbastanza lontatesche. Le prime inni tra di loro: il centenzioni di costruire
tro della città, che però
una sinagoga monuha perso totalmente la
mentale erano state
fisionomia originaria,
formulate nel 1861,
ma dove restano alall’indomani
cune vestigia della
dell’emancipazione
In queste pagine, due immagini del nuovo Museo Ebraico di Firenze
presenza ebraica, il
ebraica decretata dodell’architetto Renzo Funaro, realizzato con il contributo di Regione Tocimitero più antico,
po l’Unità d’Italia, ma
scana, Ente Cassa di Risparmio di Firenze, Fondazione Monte dei Paschi
nella zona di San Frela conclusione si ebbe
di Siena. (Foto Renzo Funaro)
diano vicino alle annel 1882. Per la sua
tiche mura, aperto nel 1777, e lasciato per essere ormai satugrandezza, bellezza e originalità tale costruzione è diventata agli
ro alla fine del secolo successivo, nel 1870, quando Marco Treocchi degli ebrei fiorentini e non solo il simbolo stesso della
ves ne progettò uno nuovo nella zona di Rifredi, dalla parte
trovata libertà, un edificio che si staccava in tutto dalle caratopposta della città nella zona nord. Quest’ultimo, benché molteristiche che hanno connotato le sinagoghe dei ghetti. Il noto interessante per le tombe monumentali e per le cappelle, è
me stesso, Tempio Maggiore, ha indicato la volontà di diffedifficilmente integrabile in una visita con il resto dei luoghi ebrairenziarsi da ogni altro luogo di culto ebraico italiano fino ad
ci fiorentini, mentre quello di viale Ariosto è visitabile su apallora costruito, segno di un’identificazione con Gerusalemme
puntamento.
anche dal punto di vista lessicale. La scelta delle pietre di ri-
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In ogni caso, la maggior parte delle visite dei turisti e delle scolaresche si concentra nel Tempio dove, al primo piano,
in una sala retrostante il matroneo e in quella immediatamente al di sopra, è aperto il museo, fondato nel 1981 a seguito di
una donazione fatta da Marta Del Mar Bigiavi dopo essere venuta a conoscenza, attraverso un’intervista alla sottoscritta, della necessità di conservare e di valorizzare il materiale posseduto dalla Comunità Ebraica e di attirare oggetti che le famiglie avessero voluto vedere esposti.
Il nucleo centrale è rappresentato dagli oggetti cerimoniali del Tempio provenienti dalle due sinagoghe del ghetto, la
Scuola Italiana e la Scuola Spagnola o Levantina, e da alcune
delle Comunità estinte, tra cui quella di Arezzo. Gli arredi, di
cui possediamo inventari assai tardi, sono con difficoltà attribuibili all’una o all’altra sinagoga, soprattutto per quanto riguarda
i tessuti che sono descritti con note sommarie e soprattutto ripetitive. Più facile è per gli argenti che hanno caratteristiche
molto spiccate e identificabili e che sono giunti a noi quasi integralmente, nonostante le vicende che hanno attraversato nel
corso dell’ultimo conflitto mondiale.
All’indomani della promulgazione delle leggi razziali furono emanate norme che impedivano l’esportazione dei beni, compresi quelli di carattere storico-artistico, che colpivano essenzialmente gli ebrei di nazionalità non italiana in previsione del
decreto di espulsione che li avrebbe colpiti, provvedimento che
coinvolse le Soprintendenze, alle quali fu raccomandato di porre il maggior numero di ostacoli possibile a ogni tentativo in
questo senso. Il compito di effettuare le requisizioni dei beni
ebraici dopo l’8 settembre fu affidato a una struttura creata a
quello scopo. Il 21 dicembre 1943, il capo della Provincia, Raffaele Manganiello, dispose la creazione dell’Ufficio Affari Ebraici nell’ambito della Prefettura di Firenze e ne affidò la direzione
a Giovanni Martelloni, legato a uno dei più intransigenti e feroci protagonisti della Repubblica di Salò, quel Mario Carità che
aveva il suo quartier generale in una villa sulla via Bolognese,
conosciuta con il nome di Villa Triste per le efferate torture che
vi si perpetravano. Martelloni si trovò come ostacolo sulla strada del progetto di requisizione sistematica dei beni ebraici le
truppe tedesche, che indiscriminatamente e prevaricando le autorità italiane se ne impossessavano. Oggetti, mobili, suppellettili, sculture e dipinti requisiti furono ammassati nella Sinagoga dove si procedette a pubbliche aste (solo la casa d’aste
Pandolfini rifiutò). Nel programma, i beni di carattere artistico
avrebbero dovuto essere consegnati alla Soprintendenza, ma
nella realtà solo il “tesoro” della Sinagoga cadde sotto la sua
competenza. Questo era stato trovato in una stanza murata della villa pratese di Giorgo Forti, dove erano state nascoste le casse che lo contenevano insieme a beni di alcuni privati. Quando fu palese che l’avanzata degli Alleati avrebbe raggiunto Firenze entro poco tempo, Martelloni prelevò il denaro e i preziosi dalla Banca d’Italia, dove erano stati depositati, e dall’Ac-
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cademia le diciotto casse con il tesoro del Tempio per portarli verso il Nord. Nel luglio del 1944 il maggiore Carità fece portare il bottino nella Villa Cabianca a Longa di Schiavon nei pressi di Vicenza, nuova sede del suo comando, con la scusa di
sottrarlo alle “rapine” degli Alleati. Il 27 aprile 1945 gli Alleati
giunsero nel Veneto e Carità decise di trasportare tutto il tesoro verso Trento, ma lungo la strada il convoglio fu assalito da
un drappello di partigiani della formazione “Vicenza”, che si
accorsero del contenuto delle casse solamente quando ne entrarono in possesso, casse che i tedeschi avevano in parte già
scassinato per impadronirsi del tesoro. I componenti della divisione partigiana affidarono le trentasei casse e un sacco contenente altra argenteria al parroco, don Marco Gasparini, e successivamente, su sollecitazione del comandate alleato Maximilian
Becker, il materiale fu depositato presso la biblioteca del Seminario vescovile di Vicenza. Dopo che il 7 giugno 1947 a Firenze fu dato inizio a un procedimento penale nei confronti
di Giovanni Martelloni, la Comunità fiorentina nel 1949 poté
rientrare in possesso di tutti gli arredi trafugati, tranne alcuni
pezzi, in particolare tre rimonim, ciascuno dei quali faceva parte di una coppia. Il processo svoltosi nel 1950 (attraverso le cui
carte abbiamo le maggior parte delle notizie) finì incredibilmente
con l’assoluzione di Martelloni. Si poté, dunque, rientrare in possesso di quasi tutti gli arredi, che furono restaurati, dopo i danni che avevano subito per il travagliato trasporto verso il Nord,
a cura dei consiglieri che si avvicendarono nella guida della
Comunità e di rav Fernando Belgrado, il quale mostrò sempre
una grande attenzione al patrimonio artistico della Sinagoga.
Egli fu anche protagonista di un altro grave disastro che ha
colpito la Sinagoga e il suo patrimonio, cioè l’alluvione che devastò Firenze nel 1966. L’acqua, arrivata all’interno dell’edificio a più di due metri di altezza, ha reso inservibili i quasi cento sefarim che rappresentavano uno dei tesori più cospicui in
Italia, e, ovviamente, anche gli arredi tessili e d’argento dei Rotoli che erano collocati dentro gli aronoth ha-kodesh. Insieme
si sono persi i quindicimila volumi, alcuni dei quali preziosissimi, che costituivano la biblioteca storica della Comunità. Uno
dei pochi esiti positivi dell’alluvione è stata la scoperta che sotto la vernice scura di tre aronoth di legno provenienti da Comunità “di confine” era celata la cromia originaria, che a quel
punto è stata ripristinata. L’armadio di Lippiano, in stile neoclassico, si trova ora nel museo, mentre quello di Monte San
Savino è utilizzato nella Yeshiva Margulies, un oratorio entro
il Tempio. Oltre ai libri, i tessuti hanno subito danni in molti
casi irreparabili. Alcuni oggetti sono stati lavati e restaurati da
centri specializzati, ma si tratta in ogni caso di procedure difficili e che devono essere compiute da persone esperte. Ad alcuni dei giovani apprendisti restauratori è stata offerta l’opportunità
di svolgere il proprio stage presso il museo, compiendo un prezioso lavoro di manutenzione, di piccolo restauro e di magazzinaggio, quest’ultimo un aspetto delicato e troppo spesso
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trascurato. Anche gli argenti sono stati in molti casi restaurati
sia dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, con l’accordo del
quale sono stati compiuti restauri sperimentali e che a distanza di molti anni hanno dimostrato di essere corretti, sia da laboratori privati, ma tramite personale diplomato alla Soprintendenza.
La scelta del luogo in cui allestire il museo è stata condizionata, ovviamente, dal pericolo sempre incombente delle alluvioni. Infatti, nei sotterranei del Tempio esistevano, ed esistono, alcuni locali bellissimi che sarebbero stati molto adatti
e certamente estesi su una superficie più ampia di quella
dell’ambiente che poi è stato scelto. La stanza dietro il matroneo ha pianta rettangolare molto allungata e si estende lungo
la facciata anteriore dell’edificio. L’architetto Alberto Boralevi,
che ha disegnato le vetrine, è stato vincolato dalle grandi finestre, che non hanno consentito un ampio sviluppo dello spazio espositivo, e dalla limitata larghezza. Tuttavia, dovendo concentrare sia l’introduzione storica, sia gli oggetti di culto domestico, sia, infine, gli arredi sinagogali, è stata scelta una divisione tematica delle vetrine, ciascuna esemplificativa di un
soggetto. Questo museo, come molti dei
musei ebraici, è destinato ad avere una
funzione didattica nei
confronti dei visitatori non ebrei, piuttosto
che a mostrare la qualità artistica dei pezzi
esposti. Firenze, infatti, possiede oggetti di grande qualità, tra
i quali i più antichi
rimonim esistenti in
Italia (purtroppo, uno
è andato perduto nelle vicende dell’ultimo
conflitto mondiale) e
altri oggetti di importanza assoluta; ma,
sia per i motivi sopra accennati, sia perché il pubblico è disabituato ad apprezzare opere appartenenti alla categoria delle
arti applicate, è difficile che ci si soffermi a valutarli dal punto di vista delle peculiarità artistiche.
Le vetrine, in legno dipinto di verde molto scuro, sono quadrate, le centrali, triangolari, quelle addossate alle pareti. Non
consentono una grande concentrazione di oggetti e, per questo motivo, sono stati scelti solo i pezzi più significativi tra i numerosi in possesso della Comunità. Nel corso dei trenta anni
di vita del museo gli oggetti sono stati fatti ruotare, sia per una
migliore conservazione, in particolare dei tessuti, sia per rendere più fruibile il percorso, che, come si è detto, è molto con-
dizionato dalla struttura dell’ambiente. Ad esempio, nella prima vetrina centrale documenti e libri antichi sono stati sostituiti da un plastico del ghetto, eseguito dall’architetto Claudio
Liscia, che serve a integrare l’introduzione storica, realizzata attraverso pannelli fotografici, in cui si ripercorre in breve la storia degli ebrei fiorentini dai primi insediamenti fino all’emancipazione. Un particolare risalto è stato dato alla figura del cav.
David Levi, che con il suo lascito testamentario ha permesso
la costruzione del Tempio monumentale, sia all’edificio che rappresenta uno dei più begli esempi in Europa di sinagoga
dell’emancipazione.
Con l’ampliamento del museo nel 2007, su progetto degli
architetti Renzo Funaro e Michele Tarroni, è cambiata, ovviamente, la disposizione. I nuovi ambienti sono stati ricavati nel
piano soprastante al precedente, con la nuova aula rettangolare cui si aggiungono alcune altre stanze, relativamente modeste quanto a superficie, ma sufficienti a dare respiro al percorso. Infatti, per offrire al pubblico un percorso coerente, ho
preferito lasciare al primo piano solamente gli oggetti sinagogali, arricchiti da acquarelli dipinti da Ottavio Levi nel 1911,
che ritraggono i due
oratori, quello di rito
italiano e quello della confraternita Mattir
Assurim, di rito sefardita, aperti nel centro storico della città
nei pressi dell’isolato
dove sorgeva il ghetto, quando quest’ultimo stava per essere
demolito.
Al secondo piano, invece, sono stati raccolti gli oggetti
di culto domestico,
quasi tutti frutto di
donazioni di privati, che sono collocati in vetrine di metallo dipinte in grigio ferro che ripercorrono le tappe della vita dell’ebreo. Benché queste vetrine siano state pensate con
criteri espositivi più moderni, anche in questo caso lo spazio è abbastanza limitato, per cui si è scelto di privilegiare
solamente gli oggetti esteticamente più interessanti e più emblematici per spiegare le varie feste dell’anno ebraico, la maggior parte delle quali sono caratterizzate da oggetti specifici. La prima metà, dunque, è incentrata sulla spiegazione delle tappe della vita (matrimonio, nascita, maggiorità religiosa), la seconda sulle maggiori feste dell’anno ebraico. Alcune
informazioni sono fornite da due totem all’inizio e alla fine
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della sala, che con l’ausilio di scritte e immagini spiegano
l’uso e la funzione dei diversi arredi.
Il percorso è completato da un ambiente attrezzato con panche e schermo per introdurre alla saletta (curata dall’architetto Renzo Funaro), dedicata alla contemporaneità, dall’emancipazione alla ricostruzione postbellica. Una sala vicina all’ingresso del museo presenta sei computer con relative postazioni
collegate ai maggiori musei ebraici del mondo, ma il cui uso
necessiterebbe di una costante presenza di addetti per la sorveglianza.
Gli oggetti contenuti nella seconda parte del museo non sono attualmente in uso, anche perché l’apertura macchinosa delle vetrine non consente un facile accesso. Alcuni degli arredi sinagogali, anche quelli più antichi e preziosi, invece, sono adoperati in alcune occasioni, il che comporta frequenti danni, dovuti spesso all’uso maldestro che viene fatto dagli addetti al culto, i quali non sono affatto consapevoli del valore che tali oggetti hanno. Infatti tutti gli oggetti sono di proprietà della Comunità
Ebraica ed è difficile che siano sostituiti con arredi contemporanei per gusto ed epoca. In passato, gli arredi erano rinnovati
di continuo e, anzi, era un punto d’impegno tenerli aggiornati
sulle nuove mode stilistiche. L’esempio israeliano, americano e
di altri musei europei non è servito finora a far comprendere che
preservare un patrimonio così prezioso significa anche salvaguardare
un pezzo della nostra storia. Questa situazione potrebbe dipendere
anche dalla nuova percezione che si ha della Sinagoga, e
dell’ebraismo in genere, al contrario di quando il suo arricchimento era il segno della collocazione sociale di ciascuno all’interno della Comunità, come nei secoli trascorsi era percepito. A
questo si aggiunge che il ruolo turistico ricoperto dalla Sinagoga e dal suo indotto, se ha portato introiti nelle casse comunitarie, nello stesso tempo ha tolto la comprensione della funzione predominante per la quale è nata, luogo di culto in primis,
e poi luogo di aggregazione.
Inoltre, per motivi di funzionalità, il coordinamento e la gestione del turismo sono stati affidati a una cooperativa esterna
(la cooperativa Sigma). Si tende, tuttavia, a scegliere tra il personale ebrei, israeliani o quanti abbiano già un’infarinatura di
cultura ebraica. A tutti coloro che entrano a far parte dello staff,
che si occupa del turismo, sono offerte lezioni di cultura, storia e arte ebraica per accompagnare con maggiore consapevolezza i visitatori nel percorso che comprende la visita al Tempio e al museo. Normalmente si affianca un esponente della
Comunità, il quale presenta il quadro storico dei tempi più recenti e risponde alle domande su cultura e tradizione ebraica
poste dai visitatori, compito questo particolarmente delicato quando si tratta di scolaresche.
Durante i mesi invernali, le visite sono a tempo, mentre in
estate si tende a tenere aperti contemporaneamente tutti i luoghi da visitare, anche se molto dipende dal flusso dei turisti.
Infatti, negli ultimi anni, a seguito dei noti avvenimenti inter-
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nazionali, il numero delle presenze, che un tempo si aggirava
intorno alle 40.000 unità, è bruscamente calato per subire ora
una lenta ripresa. Vi sono dei momenti nel corso dell’anno in
cui la Sinagoga diventa un punto di riferimento per i fiorentini. Sia la Giornata della Cultura, sia quella della Memoria portano un numero altissimo di visitatori che vanno conteggiati al
di fuori del normale flusso turistico, così come quelli che sono attirati da aperture straordinarie (importante è stata quella
per la celebrazione dell’Unità d’Italia). Soprattutto durante la
Giornata della Cultura la molteplicità di iniziative offre un
aspetto inedito dell’ebraismo, fuori dai consueti schemi in cui
ancora è relegata l’idea di una religione e di una comunità di
cui pochi conoscono le caratteristiche. Per i bambini sono allestiti laboratori e spettacoli, alcuni dei quali sono offerti per
tutto l’anno scolastico, in collaborazione con la cooperativa.
In tali occasioni la presenza costante delle autorità fiorentine è forse il segno più evidente degli ottimi e stretti rapporti che intercorrono con la città: esse hanno sempre mostrato
una sentita partecipazione a tutti gli eventi che coinvolgono la
Comunità. Nessuno degli enti ha mai fatto mancare il sostegno,
soprattutto economico, agli imponenti lavori di restauro, coordinati dall’architetto Funaro, che in quasi un ventennio hanno
permesso di risanare l’edificio e le decorazioni interne danneggiate
dalla mancanza di manutenzione e, in ultimo, dall’alluvione del
1966. Tuttavia, la presenza del museo all’interno della Sinagoga pone una serie di vincoli di non facile soluzione. Infatti, tra
le donazioni ricevute vi sono opere che non possono essere
inserite all’interno di un percorso espositivo che si incentra sugli arredi a carattere cerimoniale, siano essi sinagogali o domestici. Tra i casi più difficili da risolvere vi è quello dei dipinti e delle sculture per i quali non vi sono spazi adatti a una
adeguata valorizzazione. La sala che è stata creata nell’adiacente
edificio della Comunità è tuttavia troppo lontana dal museo per
creare un flusso di visitatori da un luogo all’altro, con notevoli problemi anche di tipo logistico. In questo modo, allo stato
attuale, esiste solo marginalmente la possibilità di dare vita a
iniziative che aiutino a incrementare il numero e la qualità dei
visitatori.
Ancora molto è da fare per rendere maggiormente attrattivo il percorso delle visite: un sito internet che fornisca un numero maggiore di informazioni; sistemi interattivi; produzione
di video sulla storia recente della Comunità Ebraica fiorentina
ecc. Naturalmente la mancanza di risorse penalizza l’adeguamento a nuove metodologie, ma già ora il Museo Ebraico e il
Tempio Monumentale offrono un insieme vasto e affascinante che come volle il cavalier David Levi nel suo lascito testamentario “è degno della città di Firenze”.
Dora Liscia Bemporad è direttore e curatore del Museo Ebraico
di Firenze, professore di Storia delle Arti Applicate e
dell’Oreficeria presso l’Università di Firenze.
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Il Museo Ebraico di Roma
Olga Melasecchi
argenti preziosi per essere trasferiti in alcune sinagoghe della città. In questi casi sono rigorosi il controllo dello stato di
conservazione e la cura nel trasporto.
Il fulcro della collezione comprende circa novecento
Il Museo Ebraico di Roma è il museo della locale Comustoffe e quattrocento argenti di uso liturgico, quanto rimane
nità Ebraica e la sua storia è strettamente legata alla storia deldegli antichi addobbamenti per il Sefer Torah. Queste comla Comunità dal dopoguerra a oggi. Collocato fin dalla sua
plesse macchine cerimoniali, composte da me’il, mappah e
nascita all’interno del Tempio Maggiore, dal 2005 è stato tofascia lavorati con antichi variegati tessuti e preziosi ricami,
talmente rinnovato nelle sette sale del piano seminterrato del
abbinati con corona, rimonim
monumentale edificio, dove si
e mezza corona tutti in argentrova anche il Tempio Spagnoto riccamente cesellato, ai qualo, compreso nel percorso di
li si univano alcune volte anche
visita insieme alla Sinagoga Magla yad per la lettura della Torah,
giore. L’allestimento si estende
e la parokheth per coprire l’aron
in uno spazio esterno sul mecon il tikkun per la tevah, codesimo livello in cui è stata alstituivano i doni privilegiati dellestita, sempre nel 2005, la Galle famiglie ebraiche alle loro
leria dei Marmi Antichi. L’aspetsinagoghe di appartenenza in un
to attuale del museo, voluto da
arco di tempo compreso fra il
Daniela Di Castro, direttore del
Seicento e il Novecento. Erano
museo dal 2005 al 2010, anno
famiglie residenti a Roma da
della sua prematura scomparsa,
lungo tempo, oppure proverisponde in pieno ai requisiti
nienti dalla campagna laziale, e
richiesti dall’International Counsoprattutto qui rifugiatesi dalla
cil of Museums che definisce
Spagna e dal Regno delle Due
un museo come “una istituzioSicilie dopo il 1492, legate, a sene permanente e senza fini di luconda del rito celebrato in ciacro, che acquisisce, conserva in
scuna di esse, a una delle cincondizioni protette, ricerca, coque sinagoghe, denominate
munica ed espone, per motivi di
Scola Nova, Scola Tempio, Scostudio, formazione e diletto, le
la Siciliana, Scola Catalana e
testimonianze materiali delle
Scola Castigliana. Dal 1555, anpersone e del loro ambiente”. L’atno di istituzione del ghetto, i cintuale allestimento, non ancora toque luoghi di culto erano stati
talmente ultimato, conserva ed
accorpati all’interno di un uniespone uno straordinario patrico edificio, chiamato perciò le
monio artistico e documentario
Cinque Scole, cuore pulsante delche è sopravvissuto a razzie e
la vita religiosa e aggregativa
distruzioni grazie alla cura dei suoi
Il Tempio Maggiore a Roma. (Foto Araldo De Luca)
dell’antico quartiere ebraico. I
depositari, fin da quando gran
doni elargiti, insieme a molti altri realizzati in materiali più
parte di questi oggetti veniva utilizzata per scopi rituali. Ano meno pregiati, destinati sempre a esigenze di culto (chiacora oggi una minima parte dei preziosi manufatti viene usavi per l’aron, libri di preghiera, ner tamid, meghillot miniata per i medesimi scopi. Tutti gli anni, infatti, in occasione di
te, chanukkiot, brocche e bacili), venivano accuratamente analcune importanti feste ebraiche, escono dal museo tessuti e
Dedico questo articolo alla cara memoria di Daniela Di
Castro, amica e maestra.
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notati nei registri inventariali delle Scole, conservati ancora
nell’Archivio Storico della Comunità. Agli inizi del Novecento,
in piena Età dell’Emancipazione, l’edificio in cui erano riunite le cinque sinagoghe è stato purtroppo distrutto e in occasione del trasferimento dell’ingente materiale in esso conservato (compresi seggi, arche sante, transenne in marmi preziosi) all’interno dei nuovi edifici di culto – il Tempio Maggiore, il Tempio Spagnolo e l’Oratorio Di Castro – su quasi
tutti gli oggetti furono segnati i numeri d’inventario, trascritti
nel 1905 in un catalogo generale diviso per Scole. Di nuovo, all’epoca delle leggi razziali nel marzo del 1941 fu ordinata dall’allora Presidente della Comunità, Ugo Foà, “una reinventariazione generale [...] per testimoniare lo stato di fatto
delle raccolte in una Roma minacciata dai bombardamenti
aerei, subito prima della tragedia conseguente al crollo del
fascismo e all’ingresso dei nazisti a Roma”1. A ogni oggetto
è stata così assegnata una nuova numerazione riportata questa volta in due registri inventariali: uno per i tessuti e l’altro per gli argenti. Questa reinventariazione venne fatta pensando a un trasferimento in un luogo più sicuro. Infatti, come scriverà lo stesso Foà nel suo avvincente resoconto dal
titolo Appunti circa il salvataggio dalla rapina tedesca degli Arredi sacri della Comunità Israelitica di Roma (27 novembre 1943 e 10 gennaio 1944)2, nel giugno dello stesso
anno molti di questi arredi furono portati via e rinchiusi in
alcuni grandi armadi corazzati presi in affitto nella sede romana del Banco di Napoli in via del Parlamento “ad eccezione di una parte che, per le insistenze di qualche Consigliere e di molti fedeli, fu lasciata nella Stanza del Tesoro per
servirsene nelle solennità rituali”. Poco prima egli aveva infatti spiegato che in quella stanza all’interno del Tempio Maggiore c’era una cassaforte in cui venivano custoditi, “anziché negli scaffali della Biblioteca della Comunità”, alcuni “Sacri Codici di eccezionale valore storico”.
La solerzia di Ugo Foà si trasformò in coraggio quando
salvò con l’aiuto di altre generose persone tutto questo materiale dalle SS di Kappler che nel settembre del 1943 avevano preso possesso del Tempio Maggiore. “Pensai allora”,
continua Foà nel suo resoconto, “non tenendo conto delle
diffide reiteratamente fatte dei nazisti sotto comminatoria di
morte di sottrarre all’imminente confisca almeno i codici custoditi nella Stanza del Tesoro. Trattili dalla cassaforte li feci in un primo tempo nascondere dagli shammashim Sierra Giorgio e Moscati Gino nel Tempio stesso sotto l’anfiteatro della galleria delle donne. Quindi, per l’interessamento
del Deputato al Culto avv. Goffredo Roccas (uno dei pochissimi
consiglieri che sfidando il pericolo erano rimasti a Roma) e
del suo zio avv. Dante Calò, quei volumi furono trasportati nella Biblioteca Vallicelliana”. Ancora più pericoloso sarà,
qualche mese dopo, il salvataggio degli arredi sacri, della cui
esistenza “gli invasori avevano cominciato ad avere sento-
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re”. Il trasferimento di tutto il materiale dal Banco di Napoli avvenne “in pieno giorno nel centro di Roma, cioè in una
zona sorvegliatissima, a poco più di un mese dalla razzia del
16 ottobre, e con i Tedeschi già sull’avviso [...] Il 27 novembre 1943, proprio mentre agenti del fascio stavano in altri locali dello stesso Banco indagando per rintracciare i nostri arredi, questi furono nella loro totalità ritirati ed avviati in luogo sicuro”. Sette grosse casse di argenteria e due grandi bauli di stoffe furono così trasportati nei magazzini dello spedizioniere Bolliger in piazza di Spagna, dove vennero ancora
una volta ricontrollati dalla segretaria della Comunità, Rosina Sorani e dallo shammash Sierra, e da qui, per maggior sicurezza, trasportati dallo stesso Bolliger, con inaudito coraggio,
“in un suo locale (situato presso le mura Vaticane) nel quale custodiva alcuni bagagli dell’Ambasciata di Germania e che
come tale restò immune da ogni indagine tedesca”. Nel frattempo Ugo Foà dovette provvedere anche al salvataggio di
altre argenterie ancora conservate nella Stanza del Tesoro e
nell’Oratorio di via Balbo. Le prime vennero murate il 10 febbraio del 1944 in un’intercapedine di mattoni e cemento appositamente costruita in fondo al pozzo del bagno rituale nei
sotterranei del Tempio, le seconde vennero nascoste nel villino a Monteverde del segretario della Comunità Fortunato
Piperno, dove furono audacemente trasportate dallo shammash Sierra. Ulteriori pezzi di argenteria furono infine nascosti
nella casa del portiere del Tempio, Edmondo Contardi, di fede cattolica, e perciò agli occhi di Foà meritevole di grande
ammirazione e riconoscenza.
Alla fine dell’occupazione nazista della città, il 25 agosto
1944 tutto il materiale potè rientrare in possesso della Comunità.
Nel 1950, tuttavia, come è stato ancora una volta accuratamente annotato nei registri inventariali del 1941, diversi preziosi manufatti furono donati ad alcune Comunità italiane depredate durante la guerra, come Milano e Ferrara, e soprattutto alle due neonate istituzioni culturali israeliane di Gerusalemme, il Museo Nazionale Bezalel, futuro Museo Israel,
e il Museo Nahon della Comunità Italiana, “in segno di sostegno a una nazione nella quale gli ebrei non sarebbero mai
stati perseguitati, e forse anche per paura di nuove future razzie”3. Gesto generoso, ma poco lungimirante ai fini di una
corretta conservazione del patrimonio culturale: “per la prima volta e per sempre”, ha sottolineato Daniela Di Castro4,
“si dividono oggetti che erano stati realizzati per restare insieme”, e questo perché fino a quel momento quelle opere
erano state “considerate come di sola importanza liturgica, e
nessuno le aveva mai studiate, né addirittura fotografate”. Dal
dopoguerra in poi il Tempio Maggiore e il piccolo Tempio
Spagnolo di rito sefardita al suo interno diventano meta di
preghiera dei turisti ebrei americani, che, come si può immaginare, sono sorpresi dalla bellezza degli arredi marmorei provenienti dalle Cinque Scole, e dagli addobbamenti del-
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la Torah che possono ammirare quando il Rotolo viene preesposizione era considerata un momento di pausa e di apso dall’armadio sacro per la preghiera. Anche per soddisfaprofondimento offerto gratuitamente ai soli ebrei che si rere la richiesta e la curiosità di questi confratelli era stata alcavano nel Tempio per pregare: “mentre da un lato vi è la
lestita una piccola mostra nella sala dietro l’Arca Santa del
certezza che gli ebrei di tutto il mondo trarranno motivo di
Tempio Maggiore, oggi riservata alla lettura dei contratti nusoddisfazione ed ispirazione dalla visita di questa Mostra”,
ziali. Il primo nucleo del futuro museo venne chiamato inscriveva Pitigliani nell’introduzione, “è auspicabile dall’altro,
fatti Mostra Permanente della Comunità Israelitica di Roma,
che la generosità dei visitatori contribuirà ad estendere ed
ideato nel 1960 da Fausto Pitigliani “con la costante collaborazione
ampliare questa esposizione ed a migliorarne la qualità”6. La
del Rabbino Capo Elio Toaff”5 e inaugurato il 5 giugno di quell’anComunità Ebraica romana non era ancora pronta ad aprirsi
all’esterno. Fu invece l’interesse di alcuni studiosi verso gli
no. Tre anni dopo la mostra si sposta al piano superiore veroggetti esposti a stimolare la volontà di valorizzare questo
so il Tevere, in un ambiente più grande con vestibolo, la “stanraro patrimonio materiale. Nel 1977, dopo l’invito a parteza del tesoro”, che diventa in questa occasione “il deposito
cipare alla grande mostra
blindato, stipato di tutti
Tesori d’arte sacra di Roquei tessuti che non hanma e del Lazio dal Meno trovato posto nelle sadioevo all’Ottocento, allele espositive: le modalità di
stita nel 1975 al Palazzo delconservazione non sono
le Esposizioni, con una
ottimali”, ha osservato anricca sezione dedicata
cora Daniela Di Castro,
all’ebraismo romano, si
“anche per la carenza di
decise di rinominare la
spazio, ma quanto meno le
mostra permanente Mustoffe sono al riparo dalla
seo della Sinagoga o Muluce”; un ulteriore spazio
seo Israelitico. Questa magsarà acquisito nel 1995 con
giore consapevolezza
la Sala Sonnino al piano indell’importanza degli ogferiore. In occasione delgetti conservati e della lolo spostamento del 1963 lo
ro fruizione da parte di
stesso Pitigliani pubblicaun pubblico più vasto si
va un piccolo ma comconcretizzava con l’agpleto catalogo nella dopgiornamento dell’inventapia edizione italiana e inrio e con una schedatura
glese, in cui era riportato
quasi completa delle opeil criterio di allestimento
re effettuati dal “guardadistinto in tre differenti serobiere” Armando Tagliazioni: la prima storica, docozzo tra il 1977 e il 1982,
cumentata dai calchi di ale con la gestione di Anna
cune lapidi delle catacombe
Ascarelli Blayer che, ricoebraiche, e da carte toponoscendo il valore didatgrafiche, manoscritti oritico oltre che cultuale e
ginali, antichi libri ebraici,
culturale del museo, alriproduzioni di bolle ed
largava l’invito alle scuoeditti papali, riproduzioni
Parokheth donata da Yehudà Zaddic alla Scola Nuova nel 1594
le e agli enti civili e relidi stampe e disegni; la see rilavorata nel 1833, esposta nella Sala 4 del Museo Ebraico
giosi di ispirazione cattoconda riservata all’argenteria
di Roma. (Foto Araldo De Luca)
lica per i quali organizzacerimoniale; la terza agli arva anche visite guidate in più lingue. “Ma a questa attività
redi cerimoniali tessili. Naturalmente considerato lo spazio
divulgativa non corrispondono per anni”, ha precisato Dalimitato a disposizione era stata esposta una minima quanniela Di Castro7, “investimenti sulla manutenzione, sulle
tità degli oggetti. Se la realizzazione del catalogo aveva avviato l’inizio di una sommaria catalogazione e di una camstrutture, sulla sicurezza, sulla conservazione delle opere, supagna fotografica limitata, era tuttavia ancora evidente l’asgli apparati didattici, e in generale sui principi della moderna
senza di corretti criteri museologici. Infatti questa prima
museologia”. “Introdurre nella Comunità una nuova cultu-
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ra museale”, ha spiegato altrove la stessa Di Castro8, “è stato, ed è ancora, un lavoro lungo e paziente, non tutti erano
consapevoli della necessità di intervenire su più fronti, non
limitando l’intervento alla risistemazione delle vetrine ma introducendo nuovi sistemi di lavoro, regole, procedure e requisiti, che, come è comprensibile, sono stati vissuti da più
parti senza cogliere appieno le implicazioni positive che essi portavano. Eppure proprio queste innovazioni garantiscono la durata nel tempo degli ambienti rinnovati, delle opere restaurate, e della considerazione che il museo ha guadagnato
nel panorama più generale dei musei, ebraici e non”.
La consapevolezza di Daniela Di Castro, storica delle arti decorative, era maturata agli inizi degli anni Novanta al tempo del suo impegno nel progetto “Presenza Ebraica in Italia”, condotto dal Consorzio ARS nell’ambito dei “Giacimenti
Culturali”. Proprio in quella occasione la studiosa compilò
la prima catalogazione scientifica di questo ingente patrimonio
secondo gli standard definiti per le schede OA dall’Istituto
Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), lavoro confluito nel 1994 nel libro L’arte ebraica a Roma e nel
Lazio9. Nel frattempo i vertici della Comunità si erano resi
conto dell’esigenza di nuovi spazi per il museo e per questo aveva promosso nel 1997 la progettazione di ambienti alternativi che erano stati individuati dagli architetti Sonnino
e Romanelli nel seminterrato del Tempio Maggiore. “Il rinnovamento del museo prende una piega concreta nel 1998”,
ricordava ancora Daniela Di Castro10, “quando la Comunità
Ebraica istituisce una commissione scientifica, presieduta da
Daniela Di Castro e composta da Gianni Ascarelli, Anna
Blayer, Luca Fiorentino, Bice Migliau, Micaela Procaccia, Sara Romanelli, Andrea Sonnino, Amedeo Spagnoletto, Mario
Toscano e Luca Zevi. L’approccio metodologico cambia radicalmente, perché si decide di partire non più dalla riconfigurazione architettonica degli spazi ma dalla conoscenza delle opere, passando attraverso la loro interpretazione per
proporre un nuovo ordinamento destinato a un pubblico quanto più possibile allargato, e che comunque comprenda gli ebrei
e i non ebrei, le scuole, i visitatori stranieri, e i cittadini italiani. È l’inizio di una trasformazione, fin dal nome del museo, che diventa Museo Ebraico di Roma anche a segnalare
il rapporto strettissimo fra la Comunità Ebraica e la città. Nel
frattempo la Soprintendenza per i Beni Architettonici di Roma riceve dalla Legge per Roma Capitale un fondo di 2.500
milioni di lire a favore dell’edificio del Tempio Maggiore. La
Comunità Ebraica decide di destinare all’ampliamento del museo gran parte del seminterrato, e nel 2001 nomina Daniela
Di Castro soprintendente straordinario per la realizzazione
del progetto di rinnovamento del museo.
La Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma recupera gli splendidi ambienti, ubicati proprio sotto il Tempio Maggiore e adiacenti al Tem-
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pio Spagnolo, eliminando decenni di palchi e tramezzi dovuti alle più svariate utilizzazioni: forno per le azzime, abitazione del custode, palestra, teatro, centro giovanile. Per contrastare l’umidità dovuta alla vicinanza del Tevere si creano
un vespaio sotto i pavimenti e una trincea che isola il fronte esterno sul lato nord. Su questa valorizzazione si innesta
il progetto museologico e museografico di Daniela Di Castro
e dell’architetto Manuela Lucà Dazio, basato su un nuovo ordinamento delle raccolte, tematico, e cronologico all’interno
dei temi. Enfasi viene data al fatto che le raccolte testimoniano non solo un passato importante nella storia dell’ebraismo e in quella europea, ma anche il presente vivo di una
Comunità inserita nel tessuto civile e nazionale. Per le opere di allestimento del museo si lancia una campagna di raccolta fondi, cui aderiscono fra l’altro l’Unione Europea, il Ministero dei Beni Culturali, la Regione Lazio, la Provincia, il
Comune di Roma [...] e diversi privati, italiani e statunitensi.
[...] Dal 2002 al 2004 si interviene sui marmi depositati
all’esterno del museo, che sono restaurati andando ad allestire quella che viene così chiamata Galleria dei Marmi Antichi: chi la percorre per entrare nel museo avverte immediatamente il carattere dell’ebraismo romano, fra il retaggio
culturale e artistico di una città nella quale il gusto per i marmi era condiviso da tutte le sue componenti, e la tradizione
giudaica di cui le lapidi in ebraico fiorito sono esempio”. Il
progetto di allestimento è stato condizionato da diversi fattori. “Primo fra tutti”, ha evidenziato l’architetto Lucà Dazio11,
“la particolare configurazione architettonica delle sale espositive, con il recupero delle ampie arcate che sottolineano il
disegno delle volte e la spazialità dell’insieme”. Si è deciso
di intervenire “sulla cromia generale degli spazi caratterizzandola
con tonalità appartenenti alle famiglie del grigio, del bianco
e del rosso, con particolari trattamenti sulle superfici e lasciando
a vista la trama delle antiche volte in mattoni”. La leggibilità
delle opere lungo il percorso espositivo e la loro conservazione sono stati gli altri due fattori imprescindibili: nel primo caso si è scelto di inserire le vetrine “all’interno degli archi lasciando inalterata la leggibilità degli spazi e degli elementi architettonici strutturali, in ciascuna sala è stato individuato un elemento particolarmente scenografico per completare l’effetto di sorpresa affidato alla bellezza degli oggetti
esposti”. Ma proprio per non compromettere tale bellezza,
come in tutte le più serie istituzioni museali si sono dovuti
rispettare particolari requisiti in termini di controllo del microclima, di illuminazione, di accorgimenti nell’esposizione.
Il monitoraggio di questi valori è costante, controllo particolarmente delicato in quanto in molte vetrine convivono tessuti e argenti che necessitano di livelli diversi di umidità e
temperatura.
Dall’epoca del rinnovamento a oggi la collezione del museo è stata arricchita da generose donazioni, alcune delle qua-
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li hanno permesso di approfondire tragici capitoli della storia della Comunità nel Novecento: dalla diaspora degli ebrei
libici, alla quale è stata dedicata un’intera sala, alle persecuzioni razziali prima e durante la seconda guerra mondiale.
A differenza di molti altri musei ebraici questo di Roma non
ha tra le sue esigenze primarie quella di recuperare patrimoni
depredati, quanto piuttosto di restaurare, studiare ed esporre gli oggetti conservati, oltre a interagire con i luoghi di culto ebraici della città per il prestito temporaneo sopra ricordato. Le forze sono perciò concentrate, grazie a un’intensa
attività di fund raising, nell’attività di restauro che procede
a pieno regime, e nella comunicazione. Sono stati infatti organizzati diversi eventi culturali, come presentazione di libri
e cene organizzate da enti e associazioni ebraiche (Benè Berit, Ambasciata Israeliana presso la Santa Sede, Fondazione
Elio Toaff); è stato anche organizzato con l’UGEI (Unione Giovani ebrei italiani) nel settembre del 2010 un happy hour “After Art – Aperitivo ad arte nel Museo ebraico di Roma”: come sottolineava la locandina “Roma incontra Roma per visitare il Museo fuori orario, sorseggiare un bicchiere di vino,
parlare d’arte e di altro ancora”. Un’occasione divertente per
riunire giovani ebrei e non ebrei in uno scenario elegante e
prezioso. Il museo partecipa inoltre alla Notte Bianca dei Musei di Roma con apertura straordinaria fino alle due di notte, alla Giornata della Cultura Ebraica e al Festival della Letteratura ebraica con mostre a tema. Nel contempo è stata anche avviata la catalogazione informatizzata per la quale è stato progettato uno specifico database. L’intensa campagna fotografica affidata da Daniela Di Castro al fotografo d’arte Araldo De Luca ha permesso anche la pubblicazione di uno splendido catalogo per il quale aveva lei stessa scritto i testi, catalogo che fu pubblicato postumo nell’ottobre del 2010 in occasione del Cinquantenario del museo. Tra gli impegni primari è l’offerta educativa. È stato per questo scopo ideato il
progetto chiamato il “Museo della domenica”, momento nel
quale vengono organizzati programmi didattici per i bambini e i ragazzi delle scuole elementari e medie. Per gli adulti
sono state invece ideate mostre a tema dal titolo “Il museo
di famiglia”. In queste piccole mostre sono esposti gli oggetti,
specialmente tessuti e argenti, che nel corso dei secoli le singole famiglie hanno donato alle loro sinagoghe di appartenenza. Questo progetto in particolare ha suscitato l’interesse dei discendenti degli antichi donatori ai quali il museo offre anche una parziale ricostruzione dell’albero genealogico
attraverso le iscrizioni riportate sui manufatti, integrate, quando è possibile, da notizie estrapolate da documenti o libri:
sono state, fino a questo momento, ricostruite le donazioni
delle famiglie Di Segni, Piperno, Del Monte e Sonnino. A fianco di queste attività ordinarie vi sono i progetti straordinari
come le grandi mostre che, oltre a essere l’occasione per una
più accurata attività di ricerca, offrono a un pubblico più va-
sto aspetti inediti della vita e della cultura della Comunità Ebraica romana e, ancora di più, sottolineano gli intrecci artistici, intellettuali e religiosi con il resto di Roma. Ecco perché
Daniela Di Castro amava ripetere che il Museo Ebraico di Roma è un grande museo ebraico, un grande museo di arti decorative e, soprattutto, un grande museo di Roma.
Il museo in numeri
assessore per il Museo della Comunità Ebraica di Roma
direttore
conservatore
responsabile comunicazione, ufficio stampa
e pubbliche relazioni
1 registrar
1 responsabile prenotazioni gruppi e scuole
1 responsabile museum shop
13 guide
2 le sinagoghe da visitare
3 le lingue dei pannelli esplicativi
7 le sale del Museo
160 gli articoli in vendita nel museum shop
600 i mq espositivi coperti.
oltre 1.500 gli oggetti nelle nostre collezioni
85.000 i visitatori nel 2010
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Olga Melasecchi è conservatore presso il Museo Ebraico di
Roma.
1. Di Castro D., I tesori del Museo ebraico di Roma. Guida alla visita e alle collezioni, Roma, Araldo De Luca Editore, 2010, p. 10.
2. Pubblicato nell’ottobre 1943: Cronaca di un’infamia, a cura della Comunità Israelitica di Roma, Roma 1961, pp. 30-34.
3. Di Castro D., op. cit., p. 13.
4. Ibidem.
5. Pitigliani F., Mostra Permanente della Comunità Israelitica di Roma. Catalogo, Roma, s.d. ma 1963, p. 1.
6. Ibidem, p. 4.
7. Di Castro D., op. cit., p. 16.
8. Di Castro D., Quando l’arte si fa bella. Si rinnova il Museo Ebraico di
Roma nei contenuti e nell’allestimento, in “Shalom”, n. 11, novembre
2005, pp. 18-19.
9. Di Castro D. (a cura di), Arte ebraica a Roma e nel Lazio, Roma, Palombi, 1994.
10. Di Castro D., I tesori…, op. cit., p. 17.
11. Lucà Dazio M., Un patrimonio immenso. Obiettivo: la conservazione
dei beni, in “Shalom”, n. 11, novembre 2005, p. 19.
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Il progetto del Museo Ebraico
nel complesso sinagogale di Siena
Anna Di Castro, Renzo Funaro
La città di Siena e il progetto del Museo Ebraico
Il progetto del Museo Ebraico presso la Sinagoga di
Siena nasce dalla secolare presenza ebraica in questa città,
dove la Comunità Ebraica ha svolto un ruolo attivo e vitale sin dall’epoca medievale. A pochi metri da piazza
del Campo, nel cuore della città storica, la Sinagoga
settecentesca sorge sul sito della più antica sala di culto documentata già alla fine del 1500 e testimonianza di
una presenza ebraica in città che risale indietro alla
metà del Trecento.
Il recupero del complesso sinagogale di Siena in funzione espositiva
L’attuale Sinagoga di Siena risale al 1786 e risulta edificata sull’area di precedenti sale di preghiera con il
progetto del 1776 dell’architetto fiorentino Giuseppe
del Rosso. La Sinagoga tardosettecentesca, sefardita, a pianta centrale con la bimah e la tejva in posizione baricentrica,
costituisce un bellissimo esempio tra le sinagoghe toscane,
pre-emancipazione, con due ordini di matronei sovrapposti con bellissime schermature intagliate in legno (mechizah). Questa articolazione ha costituito un suggerimento dell’impostazione progettuale architettonica ed espositiva del museo, con un’articolazione di percorsi verticali e collegamenti verticali sino alla riscoperta della preesistente sukkah (capanna per la festa delle capanne Sukkot)
al piano sottotetto con un gran lucernario sotto il cielo
di Siena con la vista della Torre del Mangia di piazza del
Campo.
L’esterno dell’edificio è semplice e senza particolari
elementi che indichino la presenza di un luogo di culto, come si usava per tutte le sinagoghe edificate prima
dell’emancipazione.
Il complesso sinagogale di Siena risulta costituito da
un fabbricato che si affaccia su vicolo delle Scotte e si
sviluppa all’interno articolandosi in parte in aderenza ad
altri fabbricati, in parte affacciandosi su una corte interna e in parte sviluppandosi all’interno di fabbricati
adiacenti.
Il progetto del museo prevede l’utilizzo dell’intero fabbricato: il vestibolo d’ingresso, gli spazi delle vecchie cantine al piano terreno e dei magazzini annessi, i due piani degli antichi matronei, la stanza di accesso all’aula si-
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nagogale, la stanza sociale della Comunità, includendo
anche la Sinagoga.
La realizzazione delle opere previste per la realizzazione del Museo Ebraico si è avviata nei primi mesi del
2011 con opere edili per l’abbattimento delle barriere architettoniche, con l’installazione nella corte interna di un
ascensore Shabbat system automatico (sistema automatico di azionamento nel rispetto delle norme ebraiche del
riposo sabbatico e delle solennità ebraiche, già installato nel Tempio di Firenze), di un servoscala nell’atrio di
accesso e opere varie di adeguamento. Contemporaneamente sono state realizzate opere di consolidamento strutturale di solai e coperture, tutte concluse entro
il mese di agosto 2011. Entro la fine del 2011 è prevista
la realizzazione delle opere impiantistiche e successivamente
delle attrezzature e degli allestimenti propriamente espositivi.
Contenuti e storia per il Museo Ebraico di Siena
L’idea di un recupero dell’antico edificio della Sinagoga in funzione espositiva ha preso corpo da un ampio lavoro preliminare di conservazione, catalogazione e valorizzazione dei propri beni che la Comunità ha
promosso in tempi recenti in collaborazione con le diverse Soprintendenze. Lo sforzo è stato rivolto al riordinamento e alla catalogazione dell’archivio storico, al
restauro di una parte degli arredi lignei della Sinagoga e degli argenti rituali ancora utilizzati per il culto,
alla realizzazione di un prima mostra documentaria di
dieci pannelli espositivi in italiano e in inglese a sussidio dei visitatori in visita alla Sinagoga. Un progetto
di catalogazione complessivo del patrimonio dei beni
mobili della Sinagoga di Siena è in fase di avvio con
la locale Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed
Etnoantropologici di Siena e Grosseto. Ultimo, ma non
meno significativo, è il percorso di ricerca avviato a partire dal lavoro di archivio sulle storie familiari, sulle memorie del Novecento, nato anche dal rapporto di collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza Senese, per documentare la memoria delle leggi razziali e della Shoah a Siena, con il recupero di materiale
fotografico, ma anche interviste, diari ecc. Il progetto
di un museo, che valorizzasse gli antichi matronei da
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tempo chiusi e non più utilizzati, si è delineato a partire da un’indagine conoscitiva e dal lavoro di ricognizione
relativo all’intero edificio della Sinagoga di Siena.
La destinazione a museo non interferirà con le attività religiose e comunitarie che continueranno a svolgersi
all’interno dell’edificio e di cui le attività museali saranno
complemento.
Infine il progetto del museo comprende la costituzione di spazi in cui saranno collocati l’archivio storico
e l’antica biblioteca, attualmente conservati in uno dei
due matronei non in uso. L’attività di consultazione al
pubblico e di ricerca offerta dalla presenza dell’archivio
rappresenta inoltre un’opportunità di approfondimento
alla visita stessa del museo.
Obiettivi generali: perché il museo?
La volontà di istituire un museo ebraico di Siena
presso la Sinagoga
risponde quindi a
molteplici obiettivi,
tra cui:
• presentare la storia degli ebrei a
Siena, come parte integrante della storia della
città e della storia ebraica italiana;
• promuovere e
diffondere queste conoscenze
con l’obiettivo di
contribuire a contrastare il pregiudizio e la discriminazione e
Tavola di progetto, sezioni.
per affermare i
valori universali del rispetto e del riconoscimento dell’altro;
• contribuire attraverso la creazione del museo a Siena alla promozione dell’Itinerario Europeo del Patrimonio Ebraico, riconosciuto ufficialmente nel 2005
dal Consiglio d’Europa a Strasburgo.
Obiettivi specifici: Museo Ebraico vivo - attività di
rete - didattica
Il museo non vuol rappresentare una stele mortuaria per ricordare una realtà scomparsa: al contrario vuole esprimere una speranza, una volontà di esserci ancora,
rispondendo a quanto si dice in ebraico “am Israel chai”,
il popolo di Israele è vivo. Questa è la parola d’ordine
che il futuro Museo Ebraico di Siena fa propria e che intende declinare attraverso un’attività dedicata a piccole
esposizioni temporanee legate al mondo ebraico contemporaneo nelle sue mille sfaccettature.
Tra gli obiettivi che il Museo Ebraico di Siena si pone c’è quello di attivare articolate capacità di fare sistema con il territorio circostante. Questo potrà avvenire attraverso l’individuazione di percorsi di collegamento tra realtà diverse per creare sinergie culturali ed
economiche (una attività promozionale di ricerca, pubblicistica, espositiva, organizzazione di eventi e iniziative
speciali), finalizzate allo sviluppo di un circolo virtuoso
di collaborazioni tra soggetti diversi operanti nel territorio.
Il museo vuol rispondere, attraverso un’offerta didattica
il più possibile ampia e variegata, alla grande richiesta
di conoscenza che
arriva dal mondo
della scuola.
Il Museo Ebraico a
Siena: un museo
per chi?
Oggi la Sinagoga e gli spazi
dell’edificio che conservano lapidi, iscrizioni e alcuni oggetti già esposti, accoglie un pubblico
diversificato composto da gruppi scolastici di Siena e provincia, da turisti e
studiosi italiani e
stranieri.
Con la creazione del museo la Comunità Ebraica si propone in definitiva di promuovere, in collaborazione con le istituzioni
culturali locali, attività di studio, divulgazione e formazione destinate a un pubblico quanto più possibile allargato, oltre che contribuire, attraverso la creazione di
una nuova realtà museale nella città di Siena, a una conoscenza sempre più vasta, approfondita e culturalmente qualificata della storia senese.
Anna Di Castro è curatore scientifico e si occupa di organizzazione
museale. Renzo Funaro è architetto, si occupa di progettazione
architettonica e allestimento. Entrambi hanno curato il
Museo Ebraico di Siena.
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Il Museo Ebraico “Fausto Levi”
di Soragna
Yehuda Giavarini
lemme, quelli di Fiorenzuola sono stati trasferiti a MilaIl Museo Ebraico di Soragna, che dipende ed è gestino, mentre l’antico aron ha-kodesh di Soragna si trova ora,
to dalla Comunità Ebraica di Parma, nasce nel 1979 quansplendidamente restaurato, nella Sinagoga del Kenesset,
do l’allora presidente della Comunità Fausto Levi con
il Parlamento dello Stato d’Israele. Nel museo di Soragna
massima dedizione, minuzioso lavoro e grande lungimivennero invece raccolti, restaurati ed esposti numerosi ogranza, nell’impossibilità di mantenere in situ le vestigia di
getti e cimeli, espressione della fervente vita ebraica ratutte le piccole Comunità insediate nel territorio parmendicata nel territorio.
se e piacentino sin dal XV secolo ma ormai estinte, deciBenché la collezione museale comprenda preziosi ogse di raccoglierne e conservarne le testimonianze nei logetti di culto dei secoli XVI, XVIII e XIX, (sefarim, atacali attigui alla bellissima e caratteristica Sinagoga ottocentesca
roth, rimonim ecc.) e una importante collezione di antidi Soragna. Dopo la scomparsa di Fausto Levi il museo fu
che e uniche ketubbot (contratti matrimoniali) che rendono
dedicato alla memoria del suo fondatore. Per meglio comil museo certamente una
prendere la genesi e il valore
realtà di grande rilievo, la fistorico-testimoniale del munalità strettamente conserseo è opportuno ricordare covativa non è mai stata lo
me la presenza ebraica in
scopo principale del museo.
questi territori fu esigua nuInfatti fin dalla fondazione,
mericamente ma estremaoltre a essere uno straordimente capillare. Infatti dopo
nario luogo di testimonianla bolla del 1555 di Papa
za del passato, il museo ha
Paolo IV che istituiva i ghetmantenuto una solida vocati, i duchi Farnese allora regzione e funzione educativa
genti espulsero gli ebrei da
in cui gli oggetti della meParma e da Piacenza permoria vengono utilizzati comettendo loro tuttavia di trame strumenti per illustrare e
sferirsi in sedici paesi della
far comprendere ai visitatozona in cui nacquero fiori la realtà viva e vivente
renti Comunità, tra cui ridelle tradizioni, della relicordiamo Borgo S. Donnino
gione e della cultura ebrai(ora Fidenza), Busseto, Coche. Per questo motivo le
lorno, Cortemaggiore, Fiovisite, della durata di un’ora
renzuola, Monticelli d’Oncirca, si svolgono tutte con
gina e, appunto, Soragna.
Corona (atarah) per Rotolo della Torah in argento sbalzato
l’ausilio di guide che, oltre a
Fu scelta Soragna come
e dorato (inizio XIX secolo).
descrivere gli oggetti e i luosede del museo per la preghi per collocarli nel giusto contesto storico e artistico, si
senza della importante Sinagoga in stile neoclassico, ansoffermano soprattutto sugli aspetti più salienti delle tracora magnificamente conservata, con eleganti colonne, cadizioni ebraiche: il ciclo della vita, le ricorrenze religiopitelli corinzi, affreschi decorativi e iscrizioni in belle letse, gli usi e costumi. In questa logica il museo comprentere ebraiche dorate. Delle antiche sinagoghe restano ogde anche ricostruzioni di ambienti e di “contesti” come le
gi quelle di Soragna e di Parma, entrambe funzionanti per
tavole imbandite con gli oggetti cultuali per lo Shabbat e
il culto, in quanto gli arredi delle restanti sono stati traper Pesach (la Pasqua ebraica). Il percorso museale comsferiti, sempre per volontà di Fausto Levi, là ove ne veprende quindi numerosi pannelli illustrativi sulle tradizioni
nisse assicurata la conservazione e soprattutto l’uso sacro:
e sulla religione del popolo ebraico e diverse sale temagli arredi della Sinagoga di Busseto si trovano a Gerusa-
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argomenti specifici dell’ebraismo e della cultura ebraica.
tiche tra cui una dedicata a feste ebraiche e tradizioni e
Tutti questi eventi godono di ampia risonanza nella stamun’altra alle leggi razziali e alla Shoah. Ogni sala è corpa e nelle televisioni locali. Il museo dispone anche di un
redata da numerosi pannelli illustrativi di approfondibookshop che mette a disposizione dei visitatori, oltre a
mento. La struttura dispone inoltre di un laboratorio dioggettistica, libri, guide e documentazione specifica e gedattico per le scuole (Sala Hurbinek) messo a disposizionerale, materiali inerenti agli argomenti e ai temi illustrane dell’Amministrazione Comunale, che viene utilizzato in
ti nel corso delle visite.
collaborazione con l’Istituto Storico della Resistenza e
In tutti questi anni la collaborazione con enti e istitudell’Età Contemporanea di Parma con cui il museo intrattiene
zioni locali è sempre stata particolarmente stretta e intensa.
un’intensa collaborazione.
Le Fondazioni dei due Istituti di Credito di riferimento del
Per questi motivi i visitatori di rifermento del museo
territorio, Banca del Monte di Parma e Cassa di Risparmio
sono gli alunni delle scuole provenienti da un bacino d’utendi Parma e Piacenza, hanno contributo ai restauri degli amza che comprende oltre all’Emilia Romagna anche la
bienti e di alcuni oggetti di particolare valore storico e arLombardia orientale e la Liguria. Il museo ha quindi mestistico. Inoltre il
so a punto diversi
museo ha attualpercorsi didattici
mente in essere
studiati appositauna convenzione
mente per le scuocon la Provincia di
le, con la possibiParma e il Comune
lità di differenziardi Soragna in base
li in funzione
alla quale il museo
dell’età degli alliesvolge anche la
vi e dell’obiettivo
funzione di Ufficio
didattico che si
di Promozione Tuvuole conseguire
ristica. Il visitato(storico, culturale,
re potrà quindi troreligioso ecc.). Per
vare presso il bookrafforzare ulteriorshop del museo
mente il rapporto
un’ampia docucon il mondo scomentazione sulle
lastico e soprattutaltre realtà museato per adempiere
li presenti a Soraalle finalità educagna (Rocca Meli
tive di cui si è detLupi, Museo del
to, con il patrocinio
Parmigiano) e in
e il supporto della
provincia di ParProvincia di Parma (circuito dei cama e con il patrostelli del parmense)
cinio del Comune
e sulle strutture redi Soragna e
cettive della zona,
dell’Unione delle
in particolare quelComunità Ebraiche
le con maggiore
Italiane, il museo
vocazione e specipromuove ogni anficità territoriale. Il
no il concorso
museo è aperto tut“Shevilim - percorsi
Sinagoga di Soragna (1855), vista dalla grata del matroneo.
to l’anno (nel pedi studio e di apriodo invernale solo per gruppi su prenotazione) con
profondimento della Cultura Ebraica per le Scuole”.
chiusura al sabato e nelle ricorrenze ebraiche.
Il museo svolge inoltre un’intensa attività culturale
organizzando ogni anno numerosi eventi, molto parteciYehuda Giavarini è presidente del Museo Ebraico “Fausto Levi”
pati, quali corsi, concerti, presentazioni di libri, incontri
di Soragna (Parma) e della Comunità Ebraica di Parma.
con rabbini e conferenze volte all’approfondimento di
MU
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NUOVA
Il Museo della
Comunità Ebraica di Trieste
Daniela Gross
Nella genesi del Museo della Comunità Ebraica di Trieste
la scelta del luogo gioca un ruolo di non secondaria importanza.
La struttura, inaugurata il 17 gennaio del 1993 e intitolata a Carlo e Vera Wagner, illustri esponenti della Comunità triestina e
benefattori, occupa infatti i locali di via del Monte 5 e 7. Una
via, cantata dal poeta Umberto Saba (“[…] a Trieste ove son tristezze molte/e bellezze di cielo e di contrade/c’è un’erta che si
chiama via del Monte […]” Le tre vie), densa di testimonianze
ebraiche sia antiche sia molto vicine a noi.
L’importanza del luogo
Qui, lungo quest’aspra salita che conduce alla Cattedrale di San Giusto, simbolo di Trieste, Michele, figlio di Salomone da Norimberga, alla fine del Quattrocento acquista una
vigna per farne un cimitero destinato ai correligionari. Qui
al numero 7 la Comunità edifica nel Settecento un ospedale per far fronte alle esigenze dei propri iscritti che, nel periodo della massima fioritura economica del porto triestino,
aumentano rapidamente. Un secolo più tardi, nel 1829, la famiglia Vivante, di origine veneziana, vi fa costruire una Sinagoga di rito sefardita detta Scola numero 4 o Scola Vivante
che sarà successivamente demolita.
Ma le esigenze storiche si fanno sentire anche in questa
appartata e silenziosa via nel pieno centro della città. L’ospedale viene rimpiazzato dalla scuola ebraica Isacco e Sansone Morpurgo (elementari e giardino d’infanzia) che intorno
al 1930 viene trasferita al numero 3 dove tutt’ora è attiva. Nel
1920 vede intanto la luce, al numero 7, il Misrad, vero e proprio Comitato d’assistenza agli emigranti ebrei cui si affianca un Patronato per i sussidi in denaro, alloggio, vitto o vestiario ai più bisognosi.
Trieste, negli anni Venti e nei primissimi anni Trenta, è infatti un punto di riferimento fondamentale per i profughi ebrei
provenienti soprattutto dal centro e dall’Est Europa che giungono fin qui, unico porto italiano da cui salpano le navi che
fanno rotta verso il Levante, per imbarcarsi alla volta della Palestina. È un flusso che negli anni, con il montare delle persecuzioni nazifasciste, si intensifica in modo drammatico portando a Trieste migliaia e migliaia di ebrei in cerca di un imbarco
alla volta della Palestina o delle Americhe.
La Comunità Ebraica locale attiva numerose forme di assistenza e di supporto e l’edificio di via del Monte 7 accoglie gli
emigranti che qui trovano anche un pasto kasher e un orato-
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rio di rito ashkenazita polacco che rimarrà fino al 1987 e che
oggi è parte centrale della struttura museale.
Per questa particolare stagione storica, che ha valso a Trieste l’appellativo di Porta di Sion, lo stabile di via del Monte 7 è
stato proclamato dallo Stato italiano sito di interesse nazionale.
La nascita del museo
La decisione della Comunità Ebraica di destinare il sito a sede del museo nasce proprio da questo complesso tessuto di storia, memorie e affetti. Quando nei primi anni Novanta si pone
la necessità di ristrutturare l’edificio, ormai fatiscente e disabitato, si pensa a diversi utilizzi tra cui una casa di riposo per anziani. L’importanza del luogo, che tanta parte ha avuto nella storia dell’ebraismo europeo, induce però il Consiglio della Comunità
a destinarlo a sede espositiva delle testimonianze ebraiche locali. È una soluzione che consente anche di preservare, in
omaggio alla tradizione ebraica, il piccolo tempio posto al pianterreno.
I lavori di recupero e manutenzione mantengono infatti integre sia la struttura dell’ambiente sia la sua disposizione così
da consentire l’utilizzo della Sinagoga come tutt’oggi avviene
in particolari occasioni. Accanto alle teche dell’esposizione oggi si trovano dunque un aron sistemato a fondale in una nicchia sopra cui sono messe in luce le antiche travature in legno
del solaio originale che campeggiano anche al centro dell’ambiente, ornate di alcuni begli esemplari di ner tamid. Dal punto di vista funzionale la ristrutturazione modifica la disposizione originaria al pianoterra solo con l’apertura di un nuovo ingresso interno, che conduce i visitatori all’interno del museo dal
civico 5. La ristrutturazione e l’adeguamento degli stabili sono
a cura della Comunità, la realizzazione del museo avviene anche grazie alla famiglia Wagner.
Le collezioni
Il Museo della Comunità Ebraica di Trieste si articola su due
piani. Al pianoterra si trovano due sale principali comunicanti
che accolgono gran parte dell’esposizione e una saletta dedicata alla Memoria della Shoah. Il patrimonio culturale conservato
nel museo è, per qualità e quantità, uno dei più importanti d’Italia e rappresenta una testimonianza unica di vita ebraica nel Friuli-Venezia Giulia. La tipologia espositiva è piuttosto variegata.
La mostra permanente propone la collezione di giudaica della Comunità Ebraica triestina, con oggetti di arte rituale che con-
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NUOVA
Al museo sono inoltre conservati alcuni documenti stofluirono nella grande Sinagoga di piazza Giotti, edificata nel 1912,
rici di grande importanza, quali la Patente sovrana concesa seguito dello smantellamento delle tre Sinagoghe o Scole triesa a fine Settecento dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo
stine: la Scola 1 o Scola piccola che sorgeva nel ghetto, tra via
agli ebrei triestini. Ricca la collezione di numismatica e medelle Beccherie e piazzetta delle Scole israelitiche, le Scole 2 e
daglistica dello Stato d’Israele per un arco storico che spa3 che si trovavano a pochi metri di distanza all’interno della Scozia dal 1948 ai giorni nostri.
la grande in via delle Scole israelitiche. Ognuna di queste Scole aveva infatti il suo corredo di argenteria rituale per i propri
La Shoah e gli oggetti dei deportati
sefarim, per il ner tamid e le altre lampade commemorative e
La terza saletta al pianoterra del museo è dedicata alla
d’illuminazione come pure gli oggetti usati nelle festività.
Shoah. Inaugurata nel 2008 a settant’anni delle leggi razziali è
Sono reperti di grande valore che si salvarono dalle razzie
stata allestita nell’area che già in precedenza ospitava le bisacnazifasciste in maniera singolare e avventurosa. Dopo l’8 setce con gli oggetti degli ebrei deportati da Trieste. Si tratta di una
tembre 1943 Trieste venne annessa all’Adriatisches Kunstenland
serie di oggetti che i prigionieri portavano con sé nel loro viage subì l’occupazione nazista, unica città italiana che vide in fungio verso i campi di sterminio: per uso personale o nella spezione un campo di sterminio alla Risiera di San Sabba. In quel
ranza di poterli utilizzare per sostentare se stessi e la famiglia
periodo la monumentale Sinagoga, che già in precedenza avenella nuova destinazione che probabilmente nessuno immagiva subito alcune devastazioni, venne adibita a deposito per i linava potesse essere la morte. Sono occhiali, orologi, piccola arbri e le opere d’arte trafugate dagli occupanti e da essi destigenteria, alcuni gioielli, una
nati a prendere la via
testimonianza toccante e ricdella Germania. Gli arca di verità. Ritrovati dagli Algenti rituali erano però già
leati all’interno di bisacce di justati celati in un ingeta, furono spediti a Roma dognoso nascondiglio rive per decenni rimasero dicavato in un minuscolo
menticati in un sotterraneo
appartamento sito al pridel Ministero del Tesoro. Nel
mo piano del comples2000 vennero restituiti alla Coso sinagogale. Le minumunità Ebraica di Trieste, che
ziose perlustrazioni dei nadecise di esporne parte nel
zisti non riuscirono però
proprio museo e di donarne
mai a individuarlo perché
una piccola ma significativa
una provvida mano aveselezione al Civico Museo delva avuto cura di ometla Risiera di San Sabba e al Muterne la presenza nelle
seo Yad Vashem di Gerusapiante del luogo. Alcuni
lemme.
arredi rituali che si troOggetti della collezione di argenti rituali della Comunità Ebraica di
Accanto alla grande teca
vavano nel piccolo oraTrieste conservati nel museo. (Foto Marino Sterle, gentile concessione
con gli oggetti dei deportati la
torio della Pia Casa Gendel Museo della Comunità Ebraica di Trieste “Carlo e Vera Wagner”)
struttura propone documentilomo per anziani antazioni d’epoca – carte d’identità, schede del censimento fascidarono invece perduti. Altri pezzi di uso sinagogale, di proprietà
sta e dall’archivio della Gestapo, pagelle scolastiche, foto – che
privata di alcune famiglie, vennero invece posti in salvo fuori
consentono di gettare uno sguardo nuovo su un periodo dramTrieste e quindi restituiti all’uso comunitario dopo la Liberazione.
matico per la vita della Comunità Ebraica triestina che fu profonLe collezioni ospitate al museo si compongono di argenti
damente colpita dalla ferocia nazista. Secondo le stime venne
tessuti, documenti e libri che testimoniano la vita ebraica sia neldeportato nei lager quasi un migliaio di persone, più del 10 per
la dimensione comunitaria sia in quella familiare. Nei nomi decento degli ebrei italiani. Fecero ritorno solo in 19, soprattutto
gli antichi proprietari e donatori di questi oggetti – il più antidonne, che testimonieranno l’orrore subito. Nel suggestivo alco, una piastra da sefer con incisioni dai caratteri goticizzanti,
lestimento ideato da Ennio Cervi, che richiama alla memoria gli
risale al 1594 – riecheggiano i grandi gruppi familiari di ebrei
interni delle baracche nei campi di concentramento, la sala contriestini protagonisti della storia cittadina. Di particolare pregio
sente di ripercorrere quegli anni attraverso la quotidianità di algli argenti rituali eseguiti a Venezia nel Settecento, ma non mancune famiglie triestine che hanno generosamente messo a dicano esempi di argenteria settecentesca mantovana, anconetasposizione le loro documentazioni (in particolare le famiglie Wana o di provenienza centroeuropea. Particolarmente interessanti
gner, Zaban e Kostoris).
i pezzi eseguiti a Trieste tra fine Settecento e metà Ottocento.
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NUOVA
Si tratta di una sezione in costante divenire. L’auspicio dei
promotori è che la mostra si arricchisca di altri documenti e oggetti a memoria di quanto accaduto a Trieste e nel Friuli-Venezia Giulia. Molte famiglie hanno già risposto all’appello per dare vita a un archivio della memoria che apra ulteriori occasioni
di riflessione e di approfondimento su un’epoca drammatica.
L’esposizione, proprio per la quotidianità degli oggetti esposti, ha un elevato valore didattico. Messi a confronto in modo
così immediato con l’esperienza della Shoah gli studenti hanno infatti modo di riflettere, al di là della retorica e delle frasi a
effetto, su un evento che ha colpito i vicini di casa, i compagni
di scuola e gli amici di tanti triestini e che dunque va compreso anche in questa dimensione. Attraverso questa esposizione
si riesce inoltre a richiamare l’attenzione sul fatto che le leggi
razziali e le persecuzioni che hanno colpito il mondo ebraico
sono state accolte con indifferenza e acquiescenza da tanta parte della popolazione e che proprio quest’atteggiamento è il terreno fertile su cui attecchisce qualsiasi tipo di discriminazione.
Le attività culturali, la didattica, il turismo
Fin dalla sua istituzione il Museo della Comunità Ebraica di
Trieste si pone non solo come luogo della conservazione e della memoria, ma aspira a divenire un centro vivo di cultura ebraica. Un’ambizione consolidatasi in questi anni attraverso l’organizzazione di mostre temporanee, presentazioni, conferenze, dibattiti, corsi e rassegne musicali o cinematografiche.
A queste esigenze è dedicata in modo particolare la sala al
primo piano, dove i pannelli per gli allestimenti espositivi circoscrivono un uditorio che può accogliere un centinaio di persone con un megaschermo mobile sullo sfondo. Sempre al primo piano, nel suggestivo cortile interno che nel retro si affaccia sul muraglione a pastini del vecchio cimitero ebraico, è stato allestito un piccolo orto lapidario, il gal avanim, che contiene
le ultime testimonianze del vecchio cimitero ebraico di Trieste,
situato proprio sulla stessa via un po’ più a monte, nonché alcuni resti monumentali provenienti da antichi edifici ebraici oggi scomparsi.
L’attività è realizzata sulla base delle linee indicate dall’Assessorato alla Cultura della Comunità Ebraica da cui il museo dipende, che segue anche la gestione delle collezioni permanenti e la loro valorizzazione, con l’obiettivo di divulgare e rendere sempre più fruibile al pubblico l’ebraismo e la
sua cultura.
Il programma annuale prevede frequenti momenti d’incontro e dibattito, anche promossi da altre realtà ebraiche o da
gruppi e associazioni che si occupano di argomenti attinenti,
oltre a esposizioni originali o realizzate da altri musei ebraici italiani o stranieri.
Tra le mostre originali più recenti si segnalano la rassegna
“La carte postale antisemite”, carrellata di cartoline europee tra
fine Ottocento e metà Novecento dalla collezione di Gerard Syl-
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vain che consente di leggere in modo nuovo la diffusione del
pregiudizio antiebraico; “Il viaggio di Elia - L’arcipelago ebraico dalla Mitteleuropa” della fotografa Monika Bulaj, con immagini
del mondo ebraico che dal cuore del mondo yiddish nell’Europa orientale spaziano fino al Caucaso, la Turchia, l’Anatolia,
l’Iran per concludersi in Israele; “Kiddushin – Sposi ieri e oggi”, una selezione di fotografie, tratte dagli archivi familiari e della Comunità Ebraica di Trieste, dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri di matrimoni ebraici in una carrellata storica che intreccia memorie, ritualità e affetti e la mostra dedicata agli ebrei
di Corfù (apertura settembre 2011) che per la prima volta ricostruisce la storia e l’attualità degli ebrei che a fine Ottocento, a
seguito della cacciata dall’isola, giunsero a Trieste dove costituiscono tutt’oggi una parte importante della Comunità locale.
Dal punto di vista didattico l’attività si esplicita prevalentemente attraverso le visite scolastiche, che coinvolgono sia gli
alunni degli ultimi anni della scuola primaria sia gli allievi della secondaria di primo grado e di secondo grado. Gli incontri
con gli studenti, frutto di una sensibilizzazione portata avanti
in modo costante nelle scuole dell’intera regione, prevedono
di norma un incontro a carattere generale sull’ebraismo accompagnato da una visita al museo contestualizzata nella realtà
della Comunità Ebraica triestina oltre a un momento di libera
discussione. Il programma della visita viene generalmente concordato con il docente, anche sulla base del lavoro già svolto
in classe. Spesso la visita al museo si affianca alla visita alla Sinagoga, in un itinerario per cui è previsto un unico biglietto cumulativo.
Da segnalare infine il costante incremento del flusso turistico, composto sia da italiani sia da stranieri, per cui sono state predisposte delle audioguide su ipod (in italiano e inglese)
molto apprezzate per la ricchezza dei contenuti che spaziano
dalla realtà locale ai significati dei principali momenti e feste ebraiche.
Il complesso di queste attività ha fatto sì che, nell’arco di
quasi vent’anni, il Museo della Comunità Ebraica di Trieste sia
divenuto un riferimento ormai consolidato per la cultura ebraica del Friuli-Venezia Giulia e un’occasione d’incontro apprezzata e amata dalla cittadinanza che sempre risponde con grande entusiasmo e partecipazione alle iniziative proposte. Sono
risultati legati alla qualità della proposta culturale che senz’altro hanno potuto avvantaggiarsi del progressivo sviluppo della comunicazione relativa al museo sia attraverso i media tradizionali sia attraverso il web (ad esempio attraverso i siti internet comunitari o la gestione mirata di mailing list) che hanno puntato a fidelizzare il pubblico e a renderlo partecipe in
prima persona ai diversi eventi.
Daniela Gross è giornalista, si occupa per il Museo della Comunità
Ebraica di Trieste della comunicazione e dell’Ufficio Stampa e
collabora all’organizzazione di mostre ed eventi.
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Il Museo Ebraico di Venezia
Michela Zanon
pinnacoli e medaglioni in argento o argento dorato e manti
Il Museo Ebraico di Venezia (MEV) è attualmente, insietessuti e ricamati, tutti di pregevolissima fattura veneta ed eume a quello di Roma, il più importante museo ebraico d’Itaropea; nella parte centrale del museo era montata un’importante
lia, sia per la qualità del materiale d’esposizione, sia per l’atchuppah, cioè un baldacchino nuziale, in velluto rosso con
tività didattico-culturale che da anni intraprende, attraverso
iscrizioni in oro, datato inizi XVIII secolo, con accanto due
mostre, seminari, presentazione di libri.
poltroncine in velluto rosso in stile seicentesco che ancor ogFondato agli inizi degli anni Cinquanta, su proposta di
gi sono utilizzate per i matrimoni veneziani; accanto erano
Giovannina Reinisch Sullam e per volontà di Cesare Vivanesposti contratti matrimoniali risalenti al XVIII e XIX secolo.
te e dei rabbini Elio Toaff e Bruno Polacco, con la collaboL’intento era quello di permettere sia agli appartenenti
razione di Aldo Fortis, il museo fu intitolato a Vittorio Faalla Comunità sia ai visitatori,
no, allora presidente della Cocittadini e non, di godere della
munità Ebraica di Venezia.
bellezza degli oggetti esposti e
Il legame della Comunità
di poter accostarsi alla cultura
Ebraica con il ghetto – istituito dalebraica, tanto vituperata duranla Serenissima Repubblica di Vete il fascismo.
nezia nel 1516, unicum urbaniCome ricorda Umberto Forstico che ha mantenuto inalteratis “ll museo fu riordinato, una
ta nei secoli la propria struttura
prima volta, negli anni ’70, per
architettonica, custodendo al suo
opera di Giovannina Reinisch
interno ben cinque sinagoghe riSullam e del rabbino Abramo
salenti al XVI secolo – era ed è
Piattelli; mentre fu ampliato, con
rimasto fortissimo: un museo
l’aggiunta di nuove sale e con un
ebraico, naturalmente, non poteva
rinnovato ordinamento, negli anche sorgere nel cuore della sua
ni ’80, su progetto dell’architetparte più antica, nello stesso edito Ugo Camerino”. Il museo voficio ove sorgono le due prime
luto da Camerino è ancora fruisinagoghe veneziane.
bile, pur avendo necessità di imIl MEV fu aperto al pubbliportanti interventi di restauro,
co nel 1954, come appare dal priin particolare riguardanti l’illumo registro dei visitatori, conminotecnica ormai obsoleta.
servato nell’archivio comunitario;
Il museo era stato impostainizialmente l’apertura al pubto su due importanti ambienti (ogblico avveniva su richiesta, gragi le prime due sale del museo),
zie a un servizio fornito da voil primo dei quali dedicato agli
lontari della Comunità. Il muoggetti d’arte orafa, il secondo ai
seo, costituito di due sole stantessili, con un allestimento che
ze, offriva sette vetrine e alcune
consente una felice lettura e un
bacheche per l’esposizione di
La prima sala del Museo Ebraico di Venezia.
primo approccio alla cultura
oggetti sacri e alcuni antichi ma(Foto Paola Baldari)
ebraica. Infatti la prima sala del
noscritti. Il primo allestimento
museo presenta oggetti che sono intimamente legati con le
infatti offriva al visitatore una scelta di arredi liturgici d’arte
festività previste dal calendario ebraico: le prime due veorafa e tessile, esposti su dei tavoli, e altri oggetti testimoni
trine presentano gli oggetti in uso per lo Shabbat (Sabadella vita civile e religiosa ebraica a Venezia, quali addobbi
to) e le seguenti offrono allo sguardo del visitatore gli ogper il Sefer Torah (Rotolo della Legge) costituiti da corona,
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getti in uso per Rosh ha-Shanah (capodanno ebraico che
cade all’inizio dell’autunno) e quindi quelli utilizzati per le
festività seguenti, maggiori o minori che siano, accompagnati da ricche didascalie, purtroppo poco leggibili a causa della scarsa illuminazione, ma che aiutano a comprendere il significato delle solennità ebraiche.
Gli oggetti esposti sono stati donati da privati alla Comunità Ebraica veneziana nel corso dei secoli, e alcuni sono stati forgiati proprio per essere donati a una delle sinagoghe veneziane; di conseguenza molti oggetti riportano scritte dedicatorie molto utili per ricostruire la storia delle famiglie
che nel ghetto veneziano avevano soggiornato.
Al centro della prima sala campeggiano quattro vetrine a colonna che espongono pregiatissimi esempi di corone per il Rotolo della Legge e dei rispettivi rimonim (letteralmente “melograni”, si tratta di pinnacoli che adornano i bastoni su cui la pergamena viene fissata). Molte corone sono di bottega veneta e veneziana e risalgono ai secoli XVII e XVIII. L’esposizione della prima sala prosegue
con l’esposizione di un addobbo completo di Sefer e quindi presenta una serie di “manine” (indicatori) in argento,
chiavi antiche per aprire gli armadi che custodivano i sefarim e una serie d’impressionante ricchezza e bellezza di
rimonim. Tra la prima e la seconda sala il raccordo è rappresentato da una rampa di scale che presenta per lo più
lumi sabbatici, lampade per la festa di Chanukkah (inaugurazione), mentre la seconda sala espone una ricchissima collezione di tessuti destinati alla vita religiosa: parokhiot
(drappi che coprono l’Arca Santa), mappot (teli che coprono
il Sefer negli intervalli di lettura), me‘ilìm (manti che coprono il Sefer) e un completo per neonato in merletto di
Pellestrina, risalente al 1779. I tessuti esposti al museo sono solo una piccola parte della collezione di tessuti antichi che la Comunità custodisce. Tra i molti pregiati tessuti spicca la parokheth datata 1667 (?), tessuto e ricamato
da Stella Perugia, sottoposto a un importante e delicato intervento di restauro nel 2011 e che a breve sarà nuovamente
esposto nelle sale del museo.
Negli anni Sessanta-Settanta l’apertura al pubblico del
museo fu possibile grazie all’attività di volontari che non
potevano però garantire un’apertura continuativa e normata.
Negli anni Ottanta la Comunità affidò la gestione dei servizi al pubblico del museo a una piccola società, “Il Melograno”, che iniziò ad aprire il museo con continuità,
seppure con orario limitato nell’arco della settimana (sabato e domenica chiuso, il primo obbligatoriamente per motivi religiosi, il secondo per scelta di riposo settimanale aggiuntivo) e spezzato, cioè con chiusura tra le 13.00 e le 15.00.
Si trattò comunque di un primo tentativo di organizzare in
modo continuativo la fruibilità del museo, garantendo nel
contempo l’accesso alle sinagoghe grazie a visite guidate
24
bilingui (italiano e inglese) offerte con regolarità nell’arco
della giornata.
Nel 1990 la Comunità Ebraica di Venezia, per garantire la migliore fruibilità possibile da parte del pubblico di
questi beni di inestimabile valore, stipulò una convenzione con Codess Cultura (ora Pierreci Codess CoopCultura),
dando precise indicazioni di lavoro in merito all’organizzazione della gestione dei servizi al pubblico. In base agli
accordi il museo assunse un orario regolare e continuativo nel tempo, favorendo il più possibile l’accesso dei visitatori; nel contempo, per evitare che l’apertura delle sinagoghe agli utenti provocasse l’inevitabile degrado dei luoghi e per garantire il rispetto dovuto a dei luoghi di culto, l’accesso ai visitatori venne consentito solo se accompagnati e in gruppi limitati (massimo 30 persone), in maniera tale da permettere il controllo degli ambienti, salvaguardandoli da atteggiamenti impropri e da sollecitazioni
statiche troppo pressanti.
La scelta di non usare guardasala ma guide fece sì che,
oltre agli obiettivi summenzionati, se ne perseguisse un terzo: la possibilità per i visitatori di ammirare le sinagoghe
veneziane coadiuvati in questo da persone competenti in
grado di illustrare i luoghi visitati, inserendoli nel corretto
contesto storico, artistico e culturale.
A garantire la competenza degli operatori, per quanto riguarda la conoscenza dell’ebraismo, fu e ancora è la Comunità
Ebraica di Venezia, che offre per le aspiranti guide del museo
corsi su argomenti quali cultura, storia, festività e riti ebraici.
Il primo nucleo di operatori del museo, ancor oggi in
attività, ha avuto il privilegio di seguire per un anno intero lezioni settimanali tenute da eminenti esponenti della Comunità veneziana come Amos Luzzatto, Umberto Fortis, Cesare Vivante, Roberto Bassi e Riccardo Calimani.
Per quanto riguarda la preparazione in storia, storia dell’arte, competenze didattiche e capacità comunicative le valutazioni sono affidate a Pierreci Codess Coopcultura che
si occupa anche della formazione supplettiva.
Attualmente anche la preparazione circa la cultura
ebraica avviene in forma più autonoma, mediata dalla responsabile del museo, ma l’idoneità dei candidati è comunque
verificata da una commissione espressa dalla Comunità e
tutti gli operatori assunti in servizio seguono annualmente dei corsi d’aggiornamento e approfondimento, condotti e offerti dalla Comunità Ebraica veneziana o dai singoli
docenti, l’ultimo, cronologicamente parlando, è stato un corso sulla letteratura ebraica italiana dal Medioevo al Settecento, a cura di Umberto Fortis.
Pierreci Codess ha inaugurato nel 1990 la propria gestione del Museo Ebraico di Venezia ampliando notevolmente
il precedente orario di apertura al pubblico: dal 1° gennaio
di quell’anno il MEV è aperto, con orario continuato, dal-
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le 10.00 alle 17.30 nel periodo invernale e, nel periodo estivo, dalle 10.00 alle 19.00.
Fin dal primo anno è stata dedicata grande attenzione
alle finalità didattiche del museo, investendo molto in risorse umane affinché ogni visita guidata potesse trasformarsi
per l’utente in un’occasione di accrescimento culturale e
personale. In quest’ottica si inserisce l’attiva collaborazione con l’IRRSAE del Veneto nello sviluppo del progetto “Locus”: educazione alla lettura del bene culturale rivolta agli
adulti e istituzione di una sezione didattica rivolta agli studenti per i quali è stato studiato un apposito itinerario.
Nel caso del progetto “Locus” era stato creato un percorso all’interno del museo riguardante un tema monografico
d’ampio interesse per il pubblico: il ruolo della donna.
Prendendo in esame alcuni oggetti scelti tra quelli normalmente esposti, era stato trattato il tema della figura femminile nel mondo ebraico. L’interesse riscosso dall’argomento
ha stimolato, nell’ambito del II° Festival di cultura ebraica
(iniziativa d’ampio respiro organizzata dal MEV nel giugno
1997, due anni dopo il I° Festival), una riproposta ampliata
dell’itinerario: al termine del percorso museale gli ospiti erano accompagnati a visitare le sinagoghe dal punto di vista delle donne, come lo stesso titolo della visita guidata
annunciava, e cioè dai matronei, terminando con la visita
al miqwè (bagno rituale), normalmente non accessibile al
pubblico. A distanza di molto tempo l’itinerario viene ancora proposto in occasione dell’otto marzo per offrire
un’occasione di riflessione sul ruolo della donna.
Il successo continuamente riscontrato ha confermato la
felicità della scelta di un percorso a tema all’interno di un’offerta di stimoli e informazioni a volte così ricca da risultare disorientante.
Per le scolaresche in visita d’istruzione, il Museo Ebraico veneziano è divenuto da alcuni anni un punto di riferimento per molti insegnanti impegnati a trattare l’argomento
“ebraismo”.
Il lavoro dei primi anni di promozione ha dato i suoi
frutti a partire dal 1992: da quel momento è stato registrato
un costante aumento delle presenze scolastiche che si è stabilizzato nel 1995 con una media annua di circa 20.000 studenti in visita d’istruzione.
Per quanto riguarda le proposte per le scolaresche, fondamentali sono la definizione dell’obiettivo di apprendimento,
del gruppo di ascolto, la presentazione dell’argomento e
dell’itinerario stabilito.
L’obiettivo d’apprendimento può essere diverso:
• un primo approccio con la tradizione, la vita sociale e
culturale ebraica;
• la conoscenza della storia del Ghetto di Venezia;
• la comprensione della condizione ebraica in Italia in generale, ma in particolare a Venezia, dai tempi antichi
a quelli odierni, con particolare riguardo al tragico periodo della Shoah.
Le modalità di raggiungimento dell’obiettivo prefisso normalmente sono:
• un incontro preliminare alla visita, a cura dei volontari della Commissione scuola della Comunità Ebraica di
Venezia, nel caso in cui sia richiesto; a volte per motivi organizzativi l’incontro avviene il giorno stesso anche al termine della visita;
• una visita guidata al Museo Ebraico, al ghetto e a una
sinagoga; la visita, di circa un’ora, è piuttosto impegnativa
e richiede molta attenzione da parte degli studenti in
particolare per quanto riguarda la parte svolta all’interno
delle sale espositive.
Durante il percorso didattico è compito dell’operatore
far sì che i ragazzi apprendano i concetti base che in sequenza logica dovranno portare alla comprensione, per quanto a livello elementare, della realtà ebraica, stimolandoli a
una maggiore apertura mentale nei confronti delle diversità etnico-religiose-culturali.
Attraverso gli oggetti esposti al museo, che sono intimamente
legati alla vita religiosa, sociale e culturale ebraica, i ragazzi possono accostarsi ai concetti base dell’ebraismo.
Porgendo la dovuta attenzione alla struttura architettonica
urbana del ghetto è possibile l’approccio storico con la realtà
ebraica veneziana.
Attraverso la visione, anche dal punto di vista architettonico,
della struttura dell’aula cultuale si può giungere alla conoscenza
della sinagoga quale luogo di incontro e di preghiera.
Le abilità da sviluppare negli studenti sono la capacità
di comprensione, di lettura degli oggetti come dati storici
culturali, di individuazione degli oggetti più significativi della ritualità ebraica e dei punti focali delle sinagoghe.
Per ottenere la partecipazione degli studenti, la guida dovrà riuscire a interagire con loro mettendosi a disposizione
per eventuali chiarimenti e per rispondere alle domande durante e al termine della visita. A volte è stato provato un approccio diverso, scegliendo di prendere in esame solo alcuni oggetti e quindi trattare un tema monografico come sperimentato con i gruppi adulti, ma probabilmente, poiché la
visita al museo potrebbe essere l’unica occasione per i ragazzi di diretto rapporto con il mondo ebraico, gli insegnanti
preferiscono che nel tempo a disposizione siano trattati
molti aspetti, anche se a discapito dell’approfondimento
dei temi e dell’interattività tra operatore e utenti.
La scelta di mantenere la visita guidata nei tempi fissati è dettata dalla necessità di coniugare l’organizzazione
delle entrate dei gruppi nelle sale del museo al fine di evitare sovraffollamento, cercando al contempo di soddisfare la richiesta di visita dei gruppi scolastici che nei mesi
primaverili diviene quasi insostenibile, con l’esigenza di ri-
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l’occasione, spesso con una interessante interazione tra il
spettare la capacità d’attenzione dei ragazzi, coniugandomuseo e il territorio circostante grazie al coinvolgimento
la al contempo con l’esigenza degli adulti che non amano
di istituti scolastici e del mondo dell’associazionismo.
la vivacità degli studenti in visita.
Nel 2002 il MEV (sempre inteso come sinergia tra Comunità
Dal 1996 il restauro di una ex officina inserita nel perEbraica di Venezia e Pierreci Codess) ha restaurato un altro
corso museale grazie alla creazione di passaggi interni ha
locale del ghetto, non in uso da diversi anni, creando un’aupermesso la realizzazione di una sala ampia e accogliente,
la didattica polifunzionale, per ospitare le moltissime attività
nella quale è stata allestita una caffetteria kashèr, cioè obdi laboratorio creativo per gli studenti. La possibilità di avebediente alla normativa alimentare ebraica, e un bookshop
re uno spazio specifico dedicato, senza dare fastidio agli utenspecializzato in giudaica. Con il tempo il bookshop si è trati adulti, ha dato il via a tutta una serie di attività museali e
sformato in una libreria specializzata con nome e vita prodidattiche, con tematiche che spaziano dalle festività alle legpri, che offre al pubblico oltre 4.000 diversi titoli di volumi
gende, all’arte fino al delicato tema della didattica sulla
riguardanti l’ebraismo. Alef, la libreria del ghetto, è ubicata
Shoah, determinando la nascita della sezione servizi educaall’interno del MEV, ma è accessibile anche a chi non desitivi del MEV che continuamente progetta nuove attività eduderi visitare il museo, ma solo consultare o acquistare un licative da proporre ad adulti e studenti.
bro. Per Alef è stata creata una tessera fedeltà, la Sefer Card,
L’aumento quasi costante (bisogna tener conto di alcuche dà diritto a chiunque la richieda a titolo gratuito alla sconni arresti del flusso turistico determinati da fenomeni intertistica su libri e oggetti esposti e dà la possibilità di essere
nazionali, in partiinformati su tutte
colare il panico gele attività del museo
nerato dal terrorie della libreria, i
smo dopo l’11 setquali insieme ortembre, e la difficiganizzano regolarle congiuntura ecomente incontri con
nomica internazioAutori e presentanale del 2009) del
zioni di libri, spesflusso turistico in
so in collaboraziogenerale e la stabine con la vicinissilizzazione (per moma Biblioteca-Artivi logistici) di quelchivio “Renato Maelo scolastico che si
stro” e a volte con
è riscontrato nel
associazioni estercorso degli anni
ne al museo e alla
continua a conforComunità.
tare il MEV che perQuesto spazio
siste nell’intenziosi è subito rivelato
ne di rendere il Muprezioso per l’acseo Ebraico di Vecoglienza dei grupUn’immagine del nuovo allestimento del Museo Ebraico di Venezia. (Foto
nezia sempre più
pi che prima erano
Paola Baldari)
un luogo di procostretti ad aspetmozione turistica, ma anche culturale.
tare il loro turno d’ingresso all’aperto, cercando riparo sotA partire dal 2004, è stato possibile, grazie al contributo
to i portici del ghetto in caso di maltempo. La sala attrezzadella Regione Veneto, scrive Umberto Fortis, “avviare un
ta con tavolini e numerose sedie permette di accomodarsi e
radicale ampliamento dello spazio espositivo, dopo il traaspettare la visita guidata sfogliando i diversi volumi esposferimento della sede della segreteria della Comunità e lo
sti. Da ultimo, il restauro dello spazio ha permesso di ricreare
spostamento della Biblioteca-Archivio “Renato Maestro” al
un percorso unitario che collega, come in antico, la Sinagopiano inferiore dello stesso edificio cinquecentesco, che acga Grande Tedesca, il museo e la Sinagoga Canton, migliocoglie, ai piani superiori, anche la antiche sinagoghe Terando la gestione dei flussi dei visitatori.
desca e Canton, inserite nel percorso museale.
All’interno della caffetteria, dopo la sua apertura, soSu progetto scientifico del professor Umberto Fortis, si
no stati organizzati diversi eventi e allestite alcune piccoè potuto procedere all’aggiunta di nuove sale (architetto
le mostre d’arte o parti di mostre più impegnative, allestiLamberto Dehò, grafica Studio Favrin-Cimbaro). Con esse
te in tutti i possibili spazi museali, a volte “inventati” per
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si vuole, da un lato, illustrare la storia degli ebrei a Venezia dai secoli precedenti l’istituzione del ghetto fino agli anni della Shoah e della rinascita della Comunità, privilegiando
la vita culturale del ghetto e, in particolare, il valore della
stamperia in ebraico, che fece di Venezia il più importante centro editoriale d’Europa; dall’altro, si vuole mirare a
far conoscere la vita ebraica, nei suoi aspetti fondamentali, nelle sue feste, nei suoi usi e costumi. Il percorso museale è completato dalla visita alle cinque sinagoghe del
ghetto e ai loro preziosi oggetti di culto.
Così concepito, il museo vuole non solo contribuire alla diffusione della conoscenza dell’ebraismo, per combattere pregiudizi e sempre nuove forme di antisemitismo, ma
anche far conoscere la storia di una delle più importanti
Comunità ebraiche europee, presente sulla laguna già dal
Basso Medioevo, che fu relegata dapprima in terraferma,
poi, dal secolo XVI (1516), rinchiusa nel primo ghetto
d’Italia fino al 1797”.
E così, anno dopo anno, il Museo Ebraico di Venezia
ha rafforzato il proprio modello di trasmissione culturale
verso i diversi utenti. In particolare, per assolvere la propria vocazione didattica, lo sforzo è stato quello di giungere al compimento di almeno una prima sezione dell’ampliamento museale, sopra accennato, ora purtroppo momentaneamente sospeso per mancanza di fondi.
La nuova area museale è attualmente aperta al pubblico, pur non essendo ancora completato l’intero allestimento. La nuova sezione, così come è stata concepita da Umberto
Fortis, direttore scientifico del museo, vuole accompagnare
il visitatore attraverso un percorso storico-culturale che permetta di comprendere, anche a chi scelga di non avvalersi
di una visita guidata, le tappe fondamentali che gli ebrei hanno percorso nella loro permanenza veneziana. I pannelli esplicativi presentano le immigrazioni dei diversi gruppi etnici ebraici in città permettendo la comprensione di termini quali “sefarditi” e “askenaziti” e introducono il tema dell’usura, imprescindibile per comprendere la nascita di antichi e, purtroppo, persistenti pregiudizi nei confronti degli ebrei. L’allestimento continua con alcune sezioni dedicate alla vita
ebraica prima del ghetto illustrando la presenza dell’antico
cimitero risalente al 1386 e presentando il calco della prima
lapide tombale di cui si abbia conoscenza risalente al 1389.
La nuova area espositiva permanente presenta quindi
le Condotte, cioè i contratti che hanno controllato la vita
degli ebrei veneziani e sancito la creazione del primo
ghetto della storia europea nel 1516, e quindi introduce i
diversi gruppi etnici, o nationi, come si usava chiamarli un
tempo, ricordandone i costumi e presentando una scelta
di documenti e oggetti liturgici. Nel pur poco spazio disponibile
non poteva mancare una sezione relativa alla vita culturale del ghetto veneziano e dedicata ai suoi maggiori espo-
nenti, quali, per citare i due più famosi, il rabbino Leon Modena e la poetessa Sara Copio Sullam. Una sezione è dedicata all’editoria ebraica veneziana, famosa in tutta Europa per le pregiate edizioni, impreziosita dalla presenza di
volumi antichi già custoditi nella Biblioteca-Archivio “Renato Maestro”; al MEV è oggi possibile ammirare una delle prime edizioni del Talmud edito da Bomberg nella prima metà del XVI secolo.
L’itinerario museale prosegue con alcuni interventi didascalici relativi al periodo settecentesco e all’ingresso degli ebrei nella società veneziana.
A concludere la prima sezione del rinnovato Museo Ebraico di Venezia, è stato predisposto un percorso fisico ed emozionale per accostarsi alle crescenti difficoltà che gli ebrei
a Venezia, come nel resto d’Europa, hanno dovuto affrontare durante l’oppressione nazifascista. Al termine del
percorso è posta una gigantografia retroilluminata dei giorni successivi alla Liberazione che fotografa l’emozionante
istante in cui il Sefer Torah viene riportato all’interno della Sinagoga Ponentina (la maggiore tra quelle veneziane)
accompagnato da uno sparuto gruppo di persone al contempo felici e disorientate. La scelta allestitiva, frutto di un
lungo processo di riflessione, è stata dettata dalla volontà
di affrontare il tema della Shoah dando il giusto peso, ma
cercando di evitare che l’attenzione del visitatore si focalizzi solo su questo tragico periodo storico fuorviando
l’idea della vita del mondo ebraico.
Questa è la prima sezione che, pur nella sua incompletezza, riscontra già il favore del pubblico italiano e straniero.
Tale apprezzamento invita a non desistere: in futuro altre sale accompagneranno i visitatori accompagnandoli attraverso
il ciclo della vita ebraica, per il momento appena abbozzato.
Ai lavori di ampliamento e alla ordinaria vita quotidiana
si affiancano attività didattiche, mostre temporanee e manifestazioni di diverso respiro.
Il MEV mediamente organizza tre esposizioni temporanee all’anno, a volte più semplici, a volte più impegnative, se sostenute dall’apporto degli artisti o da sponsorizzazioni. Infatti bisogna considerare che, straordinaria manutenzione a parte, tutte le attività del museo sono economicamente sostenute dagli introiti della bigliettazione.
Nel 2011, appena terminata la mostra “Ritorno a Scuola”, il MEV ospiterà un video dell’artista Ruth Adler Schnee
che esporrà durante l’estate a Ca’ Mocenigo sede di un Museo Civico veneziano, mentre si sta preparando l’attesa giornata Europea della Cultura ebraica quest’anno dedicata alla sfida della tecnologia: “2.0 Facing the future” è il titolo
del prossimo appuntamento.
Michela Zanon è responsabile gestione servizi al pubblico
del Museo Ebraico di Venezia.
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Gli ebrei di Asti
Maria Luisa Giribaldi
Dal XIV secolo cominciò a formarsi ad Asti un insediamento ebraico in un tratto centrale della contrada
Maestra (ora corso Alfieri) per l’afflusso di correnti migratorie
dalla Francia, dalla Germania e dalla Spagna. Tollerati per
l’utilità dei loro banchi di prestito, gli ebrei astigiani nei
secoli successivi consolidarono la loro presenza, benché
sottoposti a rigidi controlli, minacce di espulsione e ostilità popolare. Nel 1553, di fronte all’accusa di infanticidio rituale, a stento riuscirono a scagionarsi dimostrando
la loro innocenza. L’istituzione del ghetto li obbligò a trasferirsi, nel 1724, nelle attuali vie Aliberti e Ottolenghi.
Durante l’esperienza giacobina della
Repubblica astese nel
1797, gli ebrei astigiani fecero un primo assaggio della libertà che
poi si affermò, sebbene per breve tempo,
con l’emancipazione
napoleonica e favorì
la crescita della Comunità sotto tutti i profili. Dopo la battuta di
arresto della Restaurazione, la parità concessa dallo Statuto Albertino nel 1848 permise anche agli ebrei
Due immagini della Sinagoga di Asti.
locali di partecipare
con entusiasmo all’epopea risorgimentale e dare un notevole contributo alla vita cittadina e nazionale. Si ricordano l’opera di Isacco Artom (1829-1900), segretario del
Cavour, e il mecenatismo di Leonetto Ottolenghi (18451904), insignito del titolo di conte per i suoi meriti. Fra
il 1848 e il 1861 si ebbe la massima espansione demografica del nucleo ebraico che superò di poco le 450 unità;
poi si consumò un lento declino per l’emigrazione verso le grandi città.
La deportazione ad Auschwitz di 45 ebrei, fra residenti,
sfollati e internati, pose fine, nel dopoguerra, a ogni
espressione di vita comunitaria. Ora la presenza ebraica
ad Asti è quasi del tutto estinta.
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Il rito astigiano o Appàm
Gli ebrei locali seguivano un rito detto astigiano o Appàm
(dalle iniziali ebraiche di Asti, Fossano e Moncalvo, le tre
Comunità in cui si praticava). Differiva da quello tedesco
nell’ufficiatura dei giorni penitenziali (dal Capodanno
ebraico all’Espiazione). Non se ne fecero mai edizioni a
stampa per l’esiguo numero delle persone a cui dovevano servire. Perciò si usavano i libri liturgici di rito tedesco annotando le varianti e inserendo parti manoscritte
in fascicoli detti in piemontese quinternett. Solo l’officiante
disponeva di un completo rituale manoscritto. Il rito
Appàm aveva melodie
proprie che furono registrate intorno al 1955
dal musicologo Leo
Levi per l’Istituto della musica popolare
dell’Accademia di Santa Cecilia.
La Sinagoga e il Museo Ebraico
L’attuale Sinagoga
in via Ottolenghi 8
(per visite su prenotazione telefonare ai
numeri: 0141-215526/
590003/ 399466), con
la facciata classicheggiante e il cortile chiuso da un’artistica cancellata, è il risultato dei lavori eseguiti nel 1888-1889 su progetto e a spese di Leonetto Ottolenghi. Il corpo originario dell’edificio risale al primo
Seicento e fu più volte restaurato, fino all’ampliamento del
1838-1840 che trasformò in forma quadrata la primitiva aula rettangolare, raddoppiandone altezza e cubatura. La presa di luce naturale dal lucernario sul tetto e l’impronta neoclassica dell’interno risalgono a quell’intervento che,
all’esterno, mantenne la sinagoga chiusa fra le case del
ghetto. A fine Ottocento si aggiunsero il matroneo a gradinate, le grandi finestre liberty, il coro e i locali di amministrazione nei quali ora è allestita la mostra permanente
“Una finestra sulla storia” dedicata in gran parte alla
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Shoah (a cura dell’Istituto Storico della Resistenza di Asti).
Il podio dell’officiante venne spostato dal centro dell’aula al fondo, davanti all’Arca Santa. Quest’ultima, di pregevole fattura, reca sul portale le date 1809 e 1816 relative all’esecuzione dell’opera e alla successiva doratura.
L’ottima qualità dell’insieme, con le ante a pannelli scolpiti raffiguranti gli arredi del Tempio di Gerusalemme, rimanda all’ambiente artistico di G.M. Bonzanigo.
Il locale un tempo adibito a tempietto invernale ospita, dal 1984, il Museo Ebraico. Nel vano dell’Arca Santa,
chiuso a vetrina, sono esposti due facsimile di Rotolo della Legge rivestiti dei loro paramenti, insieme ad alcuni preziosi addobbi in argento sbalzato e in tessuto dei secoli
XVIII-XIX. Una seconda vetrina contiene vari oggetti rituali relativi alle festività ebraiche, alla preghiera e a
usanze della Comunità. Sui ripiani di un mobile a parete, diviso
in quattro scomparti, si vedono testi liturgici a stampa e manoscritti,
tra i quali un quinternetto e un raro rituale Appàm del secolo XVIII,
bibbie ebraiche, catechismi, lunari
e testimonianze della locale scuola ebraica, denominata Istituto
Clava, che dal 1866 funzionò fino al 1930. Grazie alla scuola si
mantenne viva nella Comunità la
conoscenza e la scrittura della
lingua ebraica, come attestano gli
eleganti caratteri dell’ultimo copista
astigiano, Rafael Luzzati (18431906), le cui trascrizioni di preghiere sono esposte su vari ripiani e in un tavolo a bacheca che
contiene inoltre alcuni interessanti contratti nuziali. Su un tratto di parete si ammira, sotto vetro, una preziosa cortina per Arca Santa del secolo XVIII in raso
verde acqua con applicazioni di
argento in lamina e filato e un raffinato ricamo centrale che rappresenta il Tempio di Gerusalemme, il fiume Giordano e
i frutti di Israele. Pur nella limitata disponibilità di spazio, l’esposizione documenta i diversi aspetti della cultura ebraica, nel quadro della concreta realtà storica degli
ebrei astigiani. È visitata ogni anno da numerose scolaresche impegnate in percorsi didattici di avvio alla conoscenza
della realtà ebraica.
Nel museo è conservato anche l’Archivio Storico della Comunità comprendente documenti che, dall’età del-
la Restaurazione, giungono con qualche lacuna al secondo dopoguerra. Viene utilizzato da studiosi e giovani laureandi.
II cimitero
Chiuse da tempo la Sinagoga e la scuola ebraica, è
rimasto in funzione solo il cimitero, in via Martiri Israeliti 2, risalente al 1810 circa. Nel 1902 vi furono traslati
i resti esumati dall’antico “prato” che gli ebrei astigiani
possedevano dal 1539 ed era inutilizzato da lungo tempo. Il prospetto del cimitero ha una certa pretesa di
grandiosità. Sopra il cancello di ingresso sono riportate
citazioni bibliche in ebraico con traduzione. Un portico
immette al prato alberato dove riposano gli ebrei astigiani.
Il complesso presenta notevole interesse storico per le
personalità che vi sono sepolte
e artistico per il pregio dei numerosi monumenti eretti dopo
l’emancipazione. Sull’estesa area
verdeggiante semplici pietre tombali con iscrizioni ebraiche (le più
antiche) o bilingui si alternano a
stele, cippi e monumenti. Sui sepolcri, fra i simboli propri della
cultura religiosa (il candelabro
a sette bracci, la stella di Davide, il Rotolo della Legge, il melograno, la palma e altri), non di
rado si vede riprodotta l’effigie del
defunto, secondo un uso non
conforme alla tradizione ebraica.
Lungo un lato del perimetro
esterno sorgono cappelle con
ipogeo fatte erigere da alcune
famiglie in vista: Artom, Terracini, Clava, Debenedetti. La più
antica, del 1874, accoglie Isacco
Artom e illustri personalità della
sua stirpe. Gli Ottolenghi, tra i quali si ricordano il banchiere Zaccaria, a cui Asti deve la costruzione
del Teatro Alfieri, il conte Leonetto
e il senatore Salvatore, riposano in tombe monumentali
a forma di obelisco. Oltre un muro divisorio si estende
la zona più recente del cimitero. Qui, insieme ad alcune
cappelle nuove e tombe adorne di pochi e stilizzati simboli, si erge un colombario che documenta l’assimilazione degli ebrei astigiani alla cultura cristiana.
Maria Luisa Giribaldi è studiosa di ebraismo astigiano e
autrice di saggi.
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Il Museo Ebraico di Ferrara
Andrea Pesaro
È quindi ricordata la numerosa e rilevante presenza
Il Museo Ebraico della Comunità di Ferrara nasce nel
degli ebrei spagnoli e portoghesi chiamati dai duchi d’Este
1997 nell’edificio di via Mazzini 95, il più antico in Italia
che avevano compreso il contributo che gli ebrei avrebche sia stato ininterrottamente centro di attività religiose
bero offerto allo sviluppo economico e culturale della città.
e culturali ebraiche risalendo al 1485, anno della donaParticolare importanza nel museo è data all’attività di
zione dell’edificio alla Comunità da parte di Ser Melli. Obietstampa che, già iniziata nel 1476, ha avuto in Usque un
tivo della creazione del museo è stato quello di rappregrandissimo stampatore tra il 1553 e il 1557.
sentare e tramandare l’identità, la storia e la tradizione delEd è ricca la documentazione della vita nel periodo
la plurisecolare presenza ebraica in Ferrara, nella salvadel ghetto, chiuso a Ferrara nel 1624 dopo che nel 1598
guardia dei suoi significati religiosi, culturali e civili anla città era tornata sotto il controllo diretto del papato.
che nei rapporti con la società circostante.
Sono qui presentati una serie di lasciapassare per usciIl museo è quindi costituito da due racconti che si svolre dal ghetto di giorno e
gono nelle sei sale che comdi notte senza segno, dapongono il percorso di vitati dal 1729 al 1815 e sosita: quello religioso e quelno esposte anche le ultilo storico.
me chiavi dei portoni del
La parte rituale presenghetto. Documentata è la
ta preziosi argenti per uso
rinnovata partecipazione
del Tempio – corone, pundegli ebrei alla vita della
tali e piastre – del XVIII secittà nel periodo napocolo. Sono inoltre rappreleonico e, alla richiusura
sentate le feste ebraiche
del ghetto, i difficili rapporti
con gli oggetti per la loro
con le autorità: significacelebrazione, dalle lampativo è l’atto notarile del
de di Chanukkah in ar1817 con cui una balia digento e bronzo a una mechiara di non aver fatto
ghillah di Ester in argento
sul bambino a lei affidato
filigranato del XVII secolo.
atti contrari alla religione
In una vetrinetta brilla una
ebraica.
raccolta di portaprofumi in
Con l’Unità d’Italia ecargento di origine dell’Est
co i manifesti elettorali di
Europa.
Collezione di porta-besamim. (Foto Museo Ebraico di Ferrara)
ebrei che si presentano
La seconda sala rapper le elezioni del primo parlamento. Alla partecipaziopresenta gli eventi più importanti nella famiglia ebraica:
ne degli ebrei ferraresi al movimento sionistico e dei rapla nascita, con un set completo di strumenti in argento per
porti di Leone Ravenna con Herzl è dedicata un’intera
milah, il matrimonio e la morte per la quale è esposto uno
vetrina.
stampo, per quanto si sa usato solo a Ferrara, che viene
Il museo chiude con il ricordo della tragedia delle legutilizzato all’atto della copertura della tomba per verifigi razziali e della deportazione, con documenti e con la
care l’integrità della sepoltura al momento della sistemadivisa di carcerato di uno dei pochi tornati dall’inferno tezione finale.
desco.
La parte storica inizia con una serie di fotografie e rappresentazioni, del disegnatore Corni, che illustrano le siAndrea Pesaro è presidente dell’Associazione Amici del
nagoghe esistenti a Ferrara prima delle devastazioni del
Museo Ebraico di Ferrara.
periodo bellico.
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Il MEIS, Museo Nazionale
dell’Ebraismo e della Shoah
Carla Di Francesco
smo Italiano e della Shoah”, e che in sostanza è l’organiIstituito nel 2006 con lo scopo di testimoniare la costante
smo al quale è demandato il raggiungimento delle finalità
e diffusa presenza della Comunità Ebraica sul territorio itadella nuova istituzione museale, regolandone le modalità
liano, il MEIS ha il compito di far conoscere e divulgare la
organizzative. Della Fondazione fanno parte il Ministero per
storia, il pensiero e la cultura dell’ebraismo italiano e di diffoni Beni e le Attività Culturali, il Comune di Ferrara, il Cendere con la sua attività l’incontro tra culture e religioni ditro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC), l’Unioverse, la pace e la fratellanza tra i popoli.
ne delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI).
Il progetto di un museo a Ferrara, in realtà, era partiIl 29 novembre 2007 il complesso edilizio dell’ex carto nel 2003 come Museo Nazionale della Shoah; ma negli
cere circondariale in via Piangipane viene consegnato
anni successivi, in dipendenza della nascita dell’impresa del
dall’Agenzia del Demanio al Ministero per i Beni e le Attutto simile del Museo Nazionale della Shoah di Roma, la
tività Culturali per essere destinato al Museo dell’Ebraismo
missione e gli scopi della nuova struttura sono stati modiItaliano e della Shoah. Nel
ficati fino ad arrivare al Mucorso dell’anno successivo
seo Nazionale dell’Ebraismo
Direzione regionale dell’EmiItaliano e della Shoah, selia-Romagna, Soprintencondo una nuova visione
denza per i Beni Architetdescritta nella legge istitutitonici e per il Paesaggio e
va n. 296 del 27 novembre
Comune di Ferrara danno vi2006.
ta a un gruppo di lavoro
Nello specifico, al Museo
tecnico che opera da un laNazionale dell’Ebraismo Itato al recupero architettoniliano e della Shoah dalla
co della palazzina d’ingresso
legge “sono affidati i sedalla città, dall’altro alla steguenti compiti:
sura del bando di progeta) far conoscere la stotazione.
ria, il pensiero e la cultura
I lavori alla palazzina, dedell’ebraismo italiano; in esstinata ad accogliere in via
so un reparto dovrà essere
temporanea gli uffici della
dedicato alle testimonianze
fondazione, una sala condelle persecuzioni razziali
ferenze, un piccolo spazio
ed alla Shoah in Italia;
per mostre, sono oggi in
b) promuovere attività
via di conclusione: il 20 dididattiche nonché organizcembre 2011 inizierà uffizare manifestazioni, incontri
cialmente l’attività al pubnazionali ed internazionablico del museo, che utili, convegni, mostre perIn questa pagina e nella successiva, rendering del progetto
lizzerà in questo modo la pamanenti e temporanee,
vincitore del concorso internazionale di progettazione del
lazzina per le sue attività
proiezioni di film e di spetMEIS: Studio Arco Architettura di Bologna, -Scape di Roma,
fino al compimento dell’intacoli sui temi della pace e
Michael Gruber, Kulapat Yantrasast e Stefano Massarenti.
tero complesso museale.
della fratellanza tra i poIn quanto al concorso internazionale di progettazione,
poli e dell’incontro tra culture e religioni diverse”.
concluso nel gennaio di quest’anno, il gruppo progettista
Del 23 gennaio 2007 è l’atto costitutivo della Fondazione
del futuro MEIS è stato individuato nel raggruppamento forMEIS, che nasce con “finalità di gestione, valorizzazione,
mato dallo Studio Arco di Bologna, dallo studio -Scape di
conservazione e promozione del Museo Nazionale dell’Ebrai-
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Roma e dagli architetti statunitensi Michael Gruber e Kulapat Yantrasast: alla fase concorsuale ha fatto seguito l’incarico di progettazione, e oggi si è giunti alla conclusione
della fase preliminare del progetto.
Inserire un museo come il MEIS in una architettura nata come carcere significa ribaltare totalmente il senso e il
significato dell’edificio sia al suo interno, per la nuova funzione, sia nei confronti del contesto cittadino. Così il progetto si assumerà anche il difficile compito di riconnettere alla città e alla sua vita quello che è stato per molti decenni – dal 1912 al 1992 – il luogo dell’esclusione e della chiusura.
Il progetto vincitore ha del resto convinto la giuria del
concorso anche per aver interpretato al meglio questo tema: il percorso dell’area a piano terra, che si presenta sotto forma di un piccolo parco integrato agli edifici, è totalmente libero e fa del complesso uno spazio cittadino a tutti gli effetti, da utilizzare anche senza accedere all’interno
delle sale espositive o dei servizi strettamente legati alla funzione museale.
L’ingresso principale del museo, dotato di ampia area
di accoglienza e orientamento dei visitatori, è rivolto
all’esterno della città e collocato lungo via Rampari di San
Paolo, in accordo con le previsioni urbanistiche secondo
le quali nei programmi di recupero del quadrante sud-est
della città sono comprese ampie aree idonee a parcheggio e riqualificazione della viabilità.
Dal punto di vista architettonico il progetto fa convivere nella nuova funzione museale due corpi di fabbrica
della struttura ex carceraria, la palazzina d’ingresso su via
Piangipane e il grande edificio delle ex carceri maschili,
alternandoli a edifici di nuova realizzazione. Questi ultimi, simbolicamente ispirati ai cinque libri della Torah
nella volumetria esterna, compongono uno il corpo di fab-
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brica d’ingresso/accoglienza, l’altro il cuore del museo,
nel quale sono collocati auditorium e sale di esposizione, organizzate in uno spazio libero e di grande flessibilità. Trasparenza e vetri traslucidi sui quali sono scritte frasi scelte della Torah caratterizzano le pagine-libro dei prospetti, che nel gioco di superfici si alternano alle superfici rosse, in cotto, degli edifici preesistenti. L’insieme è
armonioso e sensibile anche al contesto urbano, fatto di
edilizia piuttosto minuta. Volumetrie frazionate, altezze degradanti e mai al di sopra di quelle degli edifici verso i
quali si affacciano: anche in questo approccio sembra di
cogliere quel messaggio di accoglienza e dialogo che è
il manifesto programmatico del MEIS, pensato come un
museo-laboratorio, centro di promozione ed elaborazione culturale, di studi e approfondimenti, luogo di incontri e convegni, ma nello stesso tempo come struttura capace di comunicare con semplicità ed efficacia i temi della storia e della cultura dell’ebraismo italiano a diverse categorie di pubblico e frequentatori, dai bambini agli studiosi, dagli studenti ai più semplici curiosi e appassionati;
sarà quindi un museo a forte vocazione didattico-educativa, nel quale i visitatori potranno trovare oltre che
l’esposizione museale permanente e sale per mostre temporanee anche gli spazi per convegni e seminari, per laboratori didattici, per proiezioni, una biblioteca specializzata, e inoltre libreria, ristorante, caffetteria, aree esterne di sosta e ristoro. Un luogo accattivante nel quale il
pubblico si recherà per apprendere e imparare, ma anche, più semplicemente, per frequentare uno spazio cittadino piacevole e accogliente.
Carla Di Francesco è direttore regionale per i Beni Culturali
e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna, Ministero per i Beni e
le Attività Culturali.
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La Giornata Europea
della Cultura Ebraica 2011
Sira Fatucci
Hanno superato quota cinquantamila i visitatori che sfidando
il maltempo hanno partecipato all’undicesima Giornata Europea
della Cultura Ebraica. Anche se domenica 4 settembre il meteo
non è stato affatto clemente, la popolarità di cui gode l’iniziativa
si è riconfermata: un grande successo, in linea con le precedenti
edizioni e che ha riaffermato l’importanza dell’evento.
Splendida la cornice da cui si sono avviate le manifestazioni: a fare da capofila di questa edizione la città di Siena, la cui
esigua ma vivace rappresentanza ebraica ha fatto un ottimo lavoro organizzando per l’occasione numerosi e importanti eventi, tra i quali segnaliamo lo stimolante intervento dell’architetto
Renzo Funaro “Dall’antico al futuro: il nuovo museo ebraico, luogo di ricerca per l’identità ebraica”, intervento nel corso del quale sono state spiegate le linee guida teoriche e pratiche per un
museo ebraico. Un approccio interessante e denso di promesse per il futuro.
Coniugare le istituzioni tradizionali dell’ebraismo (Comunità,
musei, centri culturali) con il mondo della tecnologia, dell’innovazione, dei nuovi media: questa è stata la sfida che la AEPJ (l’Associazione europea per la preservazione del patrimonio ebraico
che si occupa dell’organizzazione della Giornata Europea della Cultura Ebraica e degli Itinerari Ebraici Europei) e in Italia l’Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane hanno lanciato per l’edizione 2011
della Giornata. L’ebraismo ha una storia plurimillenaria, ma è anche una cultura viva e immersa nella modernità: e proprio su questo duplice aspetto gioca il tema scelto quest’anno: “Ebr@ismo 2.0:
dal Talmud a Internet”. Una giornata che si propone di far conoscere l’ebraismo in molti dei suoi aspetti: la sua cultura, le sue tradizioni, i testi sui quali si fonda, nonché gli aspetti artistici insiti
negli oggetti e nell’architettura e molto altro ancora.
Molti organizzatori locali, oltre alle attività e alle visite guidate di routine, hanno quindi posto l’accento sul web, la grande rivoluzione mediatica, e hanno con entusiasmo accettato e
privilegiato l’aspetto “online” della modernità, un aspetto che ha
cambiato le nostre vite e sempre di più inciderà sulla nostra quotidianità, specie nella sua versione “social”, di interazione tra utenti e tra siti e utenti (cioè il web “2.0”, cui il nostro titolo fa riferimento). In tutte le località molti e affascinanti gli eventi organizzati: mostre, convegni, spettacoli, conferenze, assaggi di sapori ebraici attraverso veri e propri percorsi enogastronomici, appuntamenti culturali e soprattutto eventi legati alla multimedialità, in particolare nelle piazze appositamente allestite e nei musei ebraici che prendono parte all’iniziativa.
Ma, a parte l’aspetto tecnologico, le località che partecipano
alla Giornata (in Italia quest’anno circa sessanta, coordinate
dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) hanno aderito con
grande entusiasmo e propositività, organizzando eventi interessanti e spesso anche divertenti, in grado di captare ancora una
volta il favore di un pubblico numeroso e curioso, tanto che ci è
stato segnalato da molte località l’inizio di un “turismo da Giornata della Cultura”, con persone che aspettano la prima domenica di settembre per scegliere il percorso ebraico più gradito.
E se tutto questo è accompagnato da una notevole dose di
creatività, il prodotto finale non può che essere vincente. A Venezia ad esempio il Museo Ebraico e la Comunità, oltre che con
i consueti appuntamenti, hanno animato la giornata attraverso
“incursioni multimediali” come ad esempio il jewish bookcrossing e dei veri e propri art attack dedicati ai piccoli e che si sono tenuti nelle aree didattiche. A Bologna il Museo Ebraico ha
invece proposto tra le tante attività anche una mostra fotografica dal titolo beneaugurante: “Lechaim, the expression of Hebreism
in the world” (Lechaim in ebraico significa “alla vita” e sono le
parole che accompagnano il brindisi). O ancora, a Siracusa, dove non ci sono ebrei da dopo il Cinquecento (furono infatti espulsi da tutto il meridione, subito dopo la cacciata da Spagna e Portogallo), il ritrovamento di un Mikwe (antico bagno rituale ebraico) ha indotto gli organizzatori a costruire – in associazione alla visita al luogo – un convegno dal titolo “Vita, saperi, comunicazione e tradizione nell’ebraismo antico e moderno”, chiamando
a raccolta diversi studiosi italiani e non. E ancora, a Casale Monferrato, dove sono state presentate le schedature informatizzate
della Comunità, del Museo dei Lumi e del Museo degli Argenti, l’evento è stato accompagnato da assaggi di specialità giudaicomonferrine e naturalmente degustazione di vini kasher.
Secondo gli organizzatori e i partecipanti “assaggiare” (spesso non solo in modo astratto e simbolico), avvicinarsi, “aprire le
porte”, farsi conoscere dal proprio vicino, sono tutti strumenti
importanti per la conoscenza reciproca. Una giornata per “gettare dei semi”, incuriosire e stimolare a ulteriori approfondimenti.
Appuntamento quindi per la prossima edizione, la prima domenica
di settembre del prossimo anno.
Per vedere più nel dettaglio i programmi che si sono tenuti e conoscere l’abc dell’ebraismo è stato messo online un sito
dedicato: www.ucei.it/giornatadellacultura.
Sira Fatucci è coordinatrice dell’area stampa UCEI.
MU
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NUOVA
Glossario delle principali parole ebraiche utilizzate negli articoli
Aron ha-kodesh Armadio che conserva il Rotolo della Torah
Atarah o keter Corona per il Rotolo della Torah
Bimah o tevah Luogo rialzato da cui durante la celebrazione del rito si leggono i testi e si fanno le preghiere
Brith Milah Circoncisione dei nuovi nati
Chanukkah Festa dell’inaugurazione del Santuario
Chanukkiah Candelabro a otto bracci che viene acceso per la festa di Chanukkah, il nono braccio viene chiamato Shammash,
letteralmente “servitore” perché serve ad accendere gli altri 8 lumi
Challah Pane del Sabato
Chuppah Baldacchino nuziale
Yad Manina-indicatore per la lettura dei testi sacri
Yeshiva Luogo di studio e preghiera
Ketubbah Contratto nuziale
Kiddush Coppa o bicchiere per il vino utilizzato per la benedizione del Sabato
Mappah Fascia di tessuto utilizzata per cingere il Rotolo della Torah
Mechizah Divisorio di separazione
Meghillah “Rotolo”
Me’il Tessuto che avvolge e protegge il Rotolo della Torah
Menorah Candelabro a sette bracci
Mezuzah Astuccio fissato allo stipite destro della porta e contenente una pergamena con due passi della Torah
Milah Circoncisione
Miqweh Bagno rituale
Mitzvah “Comandamento”, “precetto”
Ner tamid Lume perpetuo solitamente posto in sinagoga sopra l’aron
Parokheth Tenda posta davanti all’armadio che contiene i Rotoli della Torah
Porta-besamin Portaspezie utilizzato durante alcune festività religiose
Pesach Pasqua ebraica
Purim Festa delle sorti, si celebra in inverno ed è legata alla figura biblica di Ester
Rimonim Letteralmente “melograni”, puntali ornamentali per il Rotolo della Torah
Rosh ha-Shanah Capodanno ebraico
Seder Letteralmente “ordine”, cena di celebrazione dell’inizio della Pasqua ebraica
Sefer Torah Rotolo della Torah
Shadday “Onnipotente”, amuleto che si appende alle pareti o sulle culle per invocare la protezione e la benedizione divina
Shofar Corno di montone che ricorda il sacrificio di Isacco e che viene suonato a Rosh ha-Shanah
Sefer “Libro”
Siddur Libro di preghiere
Sukkah Capanna che viene realizzata durante il periodo della festa di Sukkot
Sukkot Festa delle capanne, festività autunnale
Tallith o talled Manto da preghiera
Tass Piastra d’argento per ornare i Rotoli della Torah
Torah “Legge”, il Pentateuco ma, per estensione, l’insieme della Legge ebraica
È stato scelto, per motivi editoriali, di adottare per i termini ebraici la medesima trascrizione in tutti gli articoli.
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MU
NUOVA
Indirizzi e recapiti dei musei ebraici italiani
•
Museo Ebraico di Asti
Via Ottolenghi 8, 14100 Asti
Info presso Musei Civici, cell. 399489466
Istituto di Storia della Resistenza, tel. +39-0141590003
•
Museo Ebraico di Bologna
Via Valdonica 1/5, 40126 Bologna
Tel. +39-0512911280 - Fax +39-051235430
www.museoebraicobo.it
•
•
Comunità Ebraica di Casale Monferrato
Vicolo Salomone Olper 44, 15033 Casale Monferrato (AL)
Tel. +39-014271807
E-mail [email protected]
Fondazione Meis - Museo Nazionale dell’Ebraismo
Italiano e della Shoah
Piazza del Municipio 2, 44121 Ferrara
Tel. +39-0532419583
www.meisweb.it/museo.html
•
Museo Ebraico di Ferrara
Via Mazzini 95, 44100 Ferrara
Tel. e fax +39-0532210228
http://ww3.comune.fe.it/museoebraico/
•
Museo Ebraico di Firenze
via Farini 4, 50121 Firenze
Tel. +39-055245252 - Fax +39-055241811
E-mail [email protected]
•
•
Museo Ebraico di Genova
Via Bertora 6, 16100 Genova
Tel. +39-0108391513
E-mail [email protected]
Museo Ebraico di Gorizia
Via Ascoli 19, 34170 Gorizia
Tel. +39-0481532115 - Fax +39-0481522056
•
Museo Ebraico di Livorno
Via Micali 21, 57100 Livorno
Tel. +39-0586839772 - Fax +39-0586213885
E-mail [email protected];
[email protected]
•
Museo Ebraico di Merano
Via Schiller 14, 39012 Merano
Tel. +39-0473236127 - Fax +39-0473201300
E-mail [email protected]
•
Museo Ebraico di Roma
Lungotevere Cenci (Tempio), 00186 Roma
Tel. +39-0668400661 - Fax +39-0668400639
www.museoebraico.roma.it
•
Sinagoga di Siena
Vicolo delle Scotte 14, 53100 Siena
Tel. +39-0577284647
E-mail [email protected]
•
Museo Ebraico “Fausto Levi” di Soragna
Via Cavour 43, 43019 Soragna (PR)
Tel. e fax +39-0524599399 - Cell. 3319230750
E-mail [email protected]
www. museoebraicosoragna.net
•
Museo Ebraico “Carlo e Vera Wagner”
via Del Monte 5/7, Trieste
Tel. +39-040633819
E-mail [email protected]
•
Museo Ebraico di Venezia
Canna regio 2902/b, 30121 Venezia
Tel. +39-041715359 - Fax +39-041723007
E-mail [email protected]
www. museoebraico.it
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NOTE
BREVI
Museion e la collezione Marzona
Il seguente testo presenta un avvenimento molto controverso:
la proposta di acquisto, avanzata da Museion, della collezione di neovanguardie di Egidio Marzona, vicenda che, proprio per le sue non
poche incoerenze interne, è interessante proporre. Questo racconto risulta infatti capace di offrire uno spaccato sulle traversie, le critiche, gli attacchi – spesso immotivati – che una collezione privata
deve attraversare prima di essere riconosciuta di indubbio interesse
pubblico e quindi degna di essere acquisita da un museo.
Questa storia intercetta nel suo svolgimento anche gli interessi politici e le tensioni di una regione particolare e individuata, per il suo bilinguismo, a statuto speciale dalla Costituzione Italiana. Il Museo d’Arte Moderna di Bolzano viene fondato nel 1985
da un’associazione privata (Associazione Museion) con il sostegno della Provincia Autonoma di Bolzano; a esse si affiancherà
dal 2006 la Fondazione Museion che per statuto1 promuove l’arte dagli anni Cinquanta in avanti. Le attività, nella prima sede di
via Sernesi, iniziarono a tutti gli effetti soltanto due anni dopo, nel
1987 sotto la direzione di Pier Luigi Siena e la presidenza di Karl
Nicolussi-Leck. La neonata istituzione era caratterizzata da un interesse spiccatamente regionale, ovvero aveva la finalità di promuovere la documentazione, dal 1900 in avanti, delle arti visive
nell’area tra Ala e Kufstein, facenti parte del Tirolo storico. Nel 1991
inizia a essere adottata la denominazione “Museion” (dal greco
Mouseion): nell’antichità era il tempio dedicato alle nove muse
dei diversi generi poetici, applicato alla contemporaneità il nome
sembra rispecchiare la vocazione interdisciplinare e internazionale
delle pratiche artistiche. Il museo, proprio in quegli anni, inizia
ad aprirsi al confronto con le espressioni artistiche italiane e tedesche e di più ampio respiro internazionale2. Nel 2000, con la
presidenza di Alois Lageder, Museion assume lo status di Museo
d’arte moderna e contemporanea; quindi sotto la direzione di Andreas Hapkemeyer, a partire dall’anno successivo, il tema del linguaggio nell’arte intendeva porsi come ambito di specializzazione significativo, come lo stesso Hapkemeyer ha del resto sottolineato nell’intervista inedita che verrà analizzata più avanti.
Per ricostruire la vicenda del fallito tentativo di acquisto della collezione Marzona da parte di Museion, svoltasi a cavallo tra
il 2001 e il 2002, non è stato possibile consultare direttamente i
pareri facoltativi, le consulenze, le relazioni tecniche e neppure
gli atti dei verbali interni prodotti e archiviati presso la Provincia
autonoma di Bolzano Alto-Adige, in quanto essi risultano “esclusi dal diritto di accesso”3 e comunque legati a una vicenda che
non si è risolta positivamente4. Questo scritto è pertanto l’esito di
un incrocio di informazioni desunte da due interviste, la prima ad
Andreas Hapkemeyer la seconda ad Antonio Lampis, da una sintesi critica della rassegna stampa, nonché dall’analisi di alcuni documenti avuti da Lampis. L’analisi è stata condotta maggiormente su quotidiani locali, come l’“Alto Adige” o il “Dolomiten”, poiché proprio questi giornali hanno cavalcato l’ondata di polemiche e prese di posizione e hanno offerto spazio alle voci dei di-
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versi attori di questa vicenda dal febbraio 2001 al giugno 2002.
Proprio nel mese di giugno, infatti, venne diramata la notizia dell’avvenuto acquisto da parte dello Stiftung Preussischer Kulturbesitz
(SPB), organismo che amministra i musei nazionali della città di
Berlino. Infine, tra i documenti avuti da Lampis, illuminanti si sono dimostrati anche il promemoria per la giunta provinciale firmato da Luigi Cigolla, datato 3 marzo 2002, in cui vengono sintetizzate le motivazioni contrarie all’acquisto, e due lettere di Riccardo Cebulli, l’esperto di Finarte incaricato dall’Assessorato italiano di presentare un parere sulla collezione Marzona. La prima
lettera, datata 12 gennaio 20025, anticipa i criteri che Cebulli seguirà per la stesura del parere: la suddivisione della collezione secondo tre correnti di tendenza (Pop Art, Minimal e – come le accomuna egli stesso – “arte povera-concettuale”) e l’importanza della datazione ritenendola “la conditio sine qua non per l’individuazione
dell’origine dell’idea”. Quello che appare assolutamente arbitrario – un imperdonabile errore da parte di un esperto – è la scelta di dimenticare completamente la corrente della Land Art e di
introdurre, invece, una corrente artistica non pertinente rispetto
alla raccolta in analisi e verso la quale Marzona non ha mai dimostrato un particolare interesse collezionistico: la Pop Art. I dubbi sulle competenze specifiche di Cebulli potrebbero quindi essere avanzati; come sottolinea Angela Vettese in un’intervista raccolta da Severino Perelda “in effetti la maggior parte delle transazioni in proposito avviene tra Londra e New York. Forse si sarebbe
dovuto chiedere una valutazione a una sede di Christie’s una Sotheby’s
di area anglosassone, cioè ai leader del mercato specifico”6.
Lo scritto di Cebulli manifesta uno scetticismo globale verso la
qualità e il rilievo della collezione che induce a “sconsigliarne l’acquisizione da parte di un museo, come quello di Bolzano, che certamente ha la possibilità di acquistare opere di qualità inconfutabile,
tenendo soprattutto conto della sua collocazione geografica, e quindi della sua responsabilità nel costituirsi come polo di interesse e di
richiamo culturale per il pubblico anche di oltre confine, consentendo la conoscenza dell’arte contemporanea italiana della seconda
metà del XX secolo”. In quella stessa sede Cebulli afferma quindi di
non aver “riscontrato opere degne di rilievo, per qualità o per data”,
concludendo la comunicazione affermando che vedrebbe “l’acquisto di questa collezione più indicato per un privato piuttosto che per
un museo”. La seconda lettera di Cebulli, datata 7 febbraio 2002 indirizzata all’attenzione di Lampis, prende le mosse dagli articoli pubblicati dalla stampa locale in seguito al parere negativo espresso sull’eventuale acquisizione della collezione Marzona. In questa sede Cebulli
si lancia in una difesa delle proprie competenze, vantando amicizie
di rango che gli avrebbero facilitato le conoscenze della materia. “Ho
vissuto in prima persona la Biennale ’64 dove l’amico Leo Castelli,
mio concittadino, mi aveva illustrato le opere dei pop americani, alcuni dei quali ho conosciuto e frequentato”. Ancora una volta rifiuta di prendere atto del fatto che non gli è stato richiesto di valutare
una collezione di opere collegate al movimento della Pop Art. Antonio Lampis è l’attuale direttore del settore della ripartizione 15, Cul-
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NOTE
BREVI
NOTE
BREVI
tura Italiana della Provincia Autonoma di Bolzano – Alto Adige.
All’epoca dei fatti prestava già servizio presso l’Amministrazione in
qualità di assistente principale dell’allora assessore Luigi Cigolla. Lampis, interpellato sulla questione, ha dichiarato che: “Il mancato acquisto
è stato determinato da valutazioni finanziarie, di coerenza artistica con
il progetto museale ancora in fieri e di capacità di spesa della Provincia in quel determinato frangente temporale”7 e, in quella stessa
comunicazione, concludeva fornendo un giudizio di pertinenza tra
la collezione e il Museion: “Posso comunque ricordare che ben difficilmente può concepirsi l’avvio di un museo che intendeva porsi
come nuovo nel panorama museale europeo con l’acquisto in blocco di una collezione privata, la cui attrattività era peraltro molto discussa e comunque rispondente a criteri organizzativi piuttosto risalenti rispetto a quelli dell’avvio del nuovo Museion”8. Lampis, al quale è stato richiesto direttamente un parere qualitativo sulla collezione, ammetteva però che si trattava di un “ottimo archivio, qualche
pezzo notevole, il resto di media importanza. La collezione risponde a criteri privati e per questo non adatta a mio avviso per una istituzione museale, men che meno per accompagnare la nascita di un
Nuovo Museo”, ribadendo inoltre ancora una volta il fatto che “Museion ha fatto benissimo a non impegnare tante risorse per una collezione già preconfezionata e costruita secondo un gusto personale,
per quanto buono potesse essere”9. Le risposte di Lampis difendono tuttora con convinzione la posizione assunta dall’Assessorato italiano del quale egli stesso faceva parte. Egli non menziona mai la diatriba storico-artistica sollevata da questa possibilità di acquisto. Per tornare comunque alla voce riguardante la capacità di spesa della Provincia, occorre ricordare che essa non era affatto azzerata ma sicuramente doveva essere destinata in primis ai lavori legati alla messa
in cantiere della nuova sede, il cui concorso era stato aperto nel 2000.
Vi è un altro fatto da ricordare: ovvero che la Provincia aveva da poco concluso l’acquisizione, su proposta dell’Assessorato di Lingua Tedesca, di un’altra collezione privata. Non attraverso il versamento di
una somma di denaro ma attraverso un istituto di antica memoria: il
baratto. Si trattava della collezione messa insieme da Siegfried Unterberger,
il quale aveva ceduto centoventisette quadri di artisti tirolesi, dalla fine dell’Ottocento in avanti ma realizzati principalmente all’inizio del
Novecento, tra cui spicca il nome del ben quotato Franz von Drefegger. Questa cessione avvenne in cambio di un maso sopra Sinigo e dodici ettari di terreno (il tutto valutato 7,118 miliardi), a cui venne aggiunta una somma di denaro di novecento milioni di lire, al fine di arrivare alla valutazione pari a otto miliardi di lire complessive
della stima del fondo di quadri10.
Per quanto riguarda l’orientamento spiccatamente storico delle
opere della collezione Marzona, che erano in effetti state realizzate
tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, come è stato ricordato Museion dovrebbe in realtà per statuto occuparsi della promozione,
valorizzazione, raccolta di arte dagli anni Cinquanta in avanti, quindi la collezione in oggetto rientrava nel lasso temporale d’interesse.
Hapkemeyer, altro fondamentale protagonista della vicenda, stava
passando dalla posizione di vicedirettore a quella di secondo diret-
tore di Museion e aveva assunto una posizione di segno opposto
rispetto a quella di Cigolla e Lampis. Fu infatti Hapkemeyer a proporre l’acquisto, tenendo i contatti tra l’istituzione e il collezionista
che conosceva già dal 199211. Come egli stesso ha dichiarato: “Io ero
favorevole all’acquisto. Sarebbe stata la grande chance per Museion
anziché arrampicarsi lentamente, di fare un salto repentino”12.
L’inclusione di tale collezione rientrava nel progetto che Hapkemeyer aveva in mente, volto a scolpire un profilo deciso per la giovane istituzione, assecondando un carattere specifico paragonabile a
quello del vicino Mart (Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di
Trento e Rovereto), che si è imposto come leader per quanto riguarda il futurismo, grazie al notevole fondo del natio Fortunato Depero.
“La mia idea era quella di creare un centro che indagasse sull’impiego del linguaggio nell’arte contemporanea. Io avevo questa idea
di un posizionamento del museo, dicevo sempre che bisognava
dare un volto al museo, non bastava dire: noi facciamo il contemporaneo.
L’idea era che noi siamo questi e siamo diversi da Rovereto, Modena, Bologna, Salisburgo, Graz e così via. Al tempo furono scritti diversi pareri, la Provincia aveva accolto favorevolmente questa
occasione. Marzona aveva chiesto 12 milioni di marchi e la Provincia gliene aveva messi a disposizione 10 con la possibilità di ridurre il numero di opere. Poi c’è stata una seduta in giunta in cui
io e l’allora direttore abbiamo difeso posizioni diverse. È stato un
disastro perché arrivano due dal museo e uno parlava a favore e
uno contro”13. L’Amministrazione museale era quindi spaccata: lo
storico direttore si era convinto del fatto che si trattasse di opere
di formato modesto e fragili, essendo per lo più opere su carta,
che non valevano quindi i soldi stanziati; mentre Hapkemeyer, che
stava per succedergli, desiderava contare su una base storica dalla quale poi operare per rilanciare il museo come polo dell’arte concettuale e, nella fattispecie, della relazione tra arte e parola. Non
soltanto Museion dimostrava un fronte per nulla compatto ma anche la Provincia era spaccata nei suoi due distinti uffici: quello di
cultura tedesca a favore dell’acquisto e quello di cultura italiana che
sosteneva una posizione opposta. Si stava delineando quello che
venne in seguito definito dalla stampa come uno “scontro etnico”
che vedeva appunto contrapposte le due anime linguistiche della città di Bolzano. L’Assessorato di Lingua Italiana, in pratica, non
sembrava disposto ad accettare di favorire un altro acquisto promosso dall’Assessorato di Lingua Tedesca, oltre a quello appena
concluso con Unterberger. Non sembrava quindi possibile trovare un accordo. Si trattava certamente di un grosso acquisto e bisognava andare a fondo nella questione e confrontarsi con esperti del settore che potessero stabilire se l’acquisto era degno e commisurato alla sua rilevanza storica, perciò vennero richieste due distinte éxpertises da parte dei due Assessorati. Tuttavia, anche una
volta ottenute le due perizie, esse non riuscivano ancora a mettere d’accordo o a sanare le cose. Infatti anche in questo caso le strade si biforcavano senza possibilità di un punto di contatto: una perizia fu totalmente positiva, mentre l’altra commissionata alla milanese Finarte riteneva che la collezione non valesse la cifra che
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NOTE
BREVI
la Provincia stava per elargire sottolineando quanto la collezione
non fosse costituita da opere degne per rilievo di qualità o per data. Non è stato possibile reperire la perizia favorevole richiesta dall’Assessorato di Lingua Tedesca, né la stampa ne fa riferimento.
In un’intervista rilasciata a Severino Perelda, Siena afferma che
“Non sono proprio così rivoluzionari né sensazionali, gli anni ’60.
[...] Non comprendo questa ostinazione ad acquistare, nonostante molti pareri sfavorevoli. È assurdo. Se non li compriamo
noi, si paventa che saranno ceduti ad altri, ma non vedo dove
siano questi altri”14.
La narrazione storico-artistica, le pratiche curatoriali degli ultimi vent’anni e l’attuale collocazione della collezione lo smentiscono
su tutti i fronti: in questo caso gli “altri” c’erano ed erano i Musei
di Stato della capitale tedesca. Il 24 maggio del 2008 viene inaugurata la nuova sede di Museion, progettata dallo studio associato KSV- Krüger Schuberth Vandreike di Berlino, vincitori del concorso internazionale, come si diceva, bandito nel 2000. La mostra
di apertura è curata dalla nuova direttrice Corinne Diserens e si intitola “Sguardo periferico & corpo collettivo”. Nel testo elaborato
da Diserens, dal titolo “Domande poste da un’apertura”, la direttrice difende le scelte storiche compiute per questa vasta mostra
tematica affermando che “L’esposizione copre un periodo che va
dagli anni Cinquanta ai nostri giorni. Ma si richiama anche ad alcune esperienze delle avanguardie storiche dell’inizio del ventesimo secolo, in particolare le avanguardie russe, polacche, tedesche...
che hanno alimentato le avanguardie americane degli anni Sessanta.
[...] Si tratta piuttosto di sottolineare ciò che oggi è ancora in gioco di queste sperimentazioni. Di aggiornare alcune connessioni che
hanno resistito alle rotture storiche e sociali successive”15.
Se si analizza la lista di opere in mostra nel catalogo, diverse
opere provengono proprio dalla collezione Marzona, opere che
la Provincia di Bolzano aveva deciso di non acquistare ma che, a
distanza di qualche anno, vengono richieste in prestito ai musei
di Berlino: Marcel Broodthaers, Le drapeau noir, 1968, Hans
Haacke, Condensation Cube, 1972, Richard Hamilton, D’après Duchamp, 1968, Gordon Matta-Clark, Genoa (A W-Hole House Rooftop Atrium Cult), 1973, Robert Morris, Arena with Maze, 1973, Charlotte Posenenske, Vier verzinkte Elemente Serie D, 1967, e un libro
d’artista di Carl Andre, One Hundred Sonnets del 1963.
Museion ha perduto irrimediabilmente la possibilità di potere
contare sulla collezione Marzona dovendo ricorrere a prestiti richiesti
a istituzioni straniere. A quanto pare questi anni Sessanta sono stati sensazionali e irripetibili, almeno dal punto di vista di Diserens,
direttrice lampo nella storia dell’istituzione. Ma a volte i lampi, oltre che spaventare, illuminano.
Eleonora Charans
1. Come recitano il secondo e terzo comma del secondo articolo dedicato a “Finalità ed attività”: 2. Scopo della Fondazione sono la promozione e la valorizzazione dell’arte contemporanea, dell’arte dagli anni ’50 e dell’arte moderna. 3. A tal
fine la Fondazione si occupa della raccolta, conservazione, ricerca, presentazione
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e mediazione di arte contemporanea, a partire dagli anni ’50, e di arte moderna,
con particolare riguardo all’arte contemporanea. La Fondazione è punto di incontro di arte internazionale nonché istituzione di sostegno per l’arte altoatesina. La Fondazione mira ad aumentare la raccolta esistente attraverso acquisti di opere d’arte, e
sostiene il dibattito sull’arte moderna e contemporanea attraverso la ricerca, l’organizzazione di manifestazioni nonché eventi di tipo formativo, collaborando con altre
istituzioni artistiche, collezioni ed istituti di formazione. Fonte HYPERLINK, http://www.museion.bz.it” www.museion.bz.it.
2. Sono gli anni di mostre quali “Il gesto veloce: Achille Perilli - Hans Staudacher” (1994),
“Oltre la tela: Lucio Fontana - Arnulf Rainer” (1995), “Afro: la soluzione lirica” (1995),
“Markus Lüpertz. Il mito mediterraneo” (1995), “Gerhard Richter. Pittura” (1996), “Alberto Burri” (1998), “Matt Mullican” (2001), “Raymond Pettibon” (2003), “Hamish Fulton” (2005), “Roni Horn” (2006), e di collettive quali “Flirts. Arte e pubblicità” (2004),
“Light Lab” (2005) e “Deutsche Wandstücke” (2006).
3. La mancata consultazione dei documenti è stata esplicitata in una e-mail che faceva seguito a una mia richiesta di accesso inviata in data 14 settembre 2009, indirizzata al dott. Antonio Lampis.
4. Come riporta testualmente la lettera di Lampis riguardo al diritto di accesso esso
“sugli atti interni può essere esercitato solo qualora gli stessi siano posti a base di un
provvedimento finale a rilevanza esterna”.
5. Documento pubblicato per esteso dal quotidiano “Alto Adige” il 23 gennaio 2002.
6. Severino Perelda, Marzona, Vettese dice sì, in “Alto Adige”, 29 gennaio 2002.
7. Antonio Lampis, e-mail all’Autrice datata 15 settembre 2009.
8. Ibidem.
9. Intervista scritta ad Antonio Lampis, 12 ottobre 2009.
10. Si vedano gli articoli apparsi su “Alto Adige” il 15 e il 18 febbraio 2001.
11. Anno in cui il Museion organizzò una mostra su Lawrence Weiner. Inoltre Marzona negli anni a seguire prestò opere all’istituzione.
12. Intervista inedita ad Andreas Hapkemeyer, Bolzano 7 ottobre 2009.
13. Ibidem.
14. Severino Perelda, Siena perché dico no, in “Alto Adige”, 15 novembre 2001.
15. “Sguardo periferico & corpo collettivo”, catalogo della mostra Museion Bolzano,
24 maggio - 21 settembre 2008, p. 10.
Proposta per un ecomuseo del Peloro1
La cuspide peloritana, corrispondente all’estrema propaggine nordorientale della Sicilia, si configura con evidenza come unità territoriale, fortemente caratterizzata dal suo essere “sponda” (occidentale) dello Stretto di Messina. Il Peloro è poco conosciuto, rispetto ad
altre località siciliane, e sostanzialmente fuori dai percorsi turistici: la
sua frequentazione è limitata al periodo estivo e alla popolazione
locale in senso lato. La sua marginalità rispetto a Messina – considerata essa stessa città di passaggio – è tanto più deprecabile se si
considera come esso potrebbe diventare una promettente e inaspettata
introduzione alla ricchezza paesaggistica e culturale della Sicilia.
Gli sforzi orientati al potenziamento in senso turistico del litorale rappresentano, di fatto, una valorizzazione di breve respiro e lo stesso Parco letterario “Horcynus Orca” non sembra essere riuscito a farsi portavoce dell’identità territoriale2: le iniziative
intraprese sembrano un po’ distanti dalla sensibilità della comunità locale, se è vero che un sito di grande bellezza, che spicca
per il suo carattere di unicità, soffre cronicamente di problemi qua-
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li incuria, abusivismo (che ha letteralmente snaturato l’antico borgo di Faro), turismo “colonizzatore”3. In sintesi, il decoro delle aree
urbanizzate e delle zone a vocazione naturalistica è compromesso da un “uso” spregiudicato del territorio. La filosofia ecomuseale,
incoraggiando la comunità locale a una riflessione sulle proprie
radici, potrebbe riattivare il senso di responsabilità nei confronti
dei luoghi della vita quotidiana e contribuire a inserire il Peloro
in un circuito turistico meno di passaggio o, peggio, di “uso”.
Nel corso di questa ricerca sono state rintracciate espressioni di una sensibilità tale da suggerire che un rapporto responsabile con il territorio sia possibile. Oltre alle potenzialità del Parco letterario “Horcynus Orca”, sinora forse non completamente espresse, diverse esperienze evidenziano come una
parte della popolazione sia interessata a celebrare le tradizioni e la memoria, proponendo una chiave di lettura personale del territorio4.
A Enti pubblici, quali la Regione Siciliana, la Provincia di Messina, l’Unione Europea, si deve la manifestazione “Spaday”5 (Torre Faro, 4-8 luglio 2007), durante la quale sono stati proposti diversi eventi culturali, ispirati al tema del mare come risorsa: la ricostruzione dell’antico borgo dei pescatori; l’esposizione “Pesci in
mostra”; l’esposizione di un esemplare di luntre (riconosciuto bene di particolare interesse etno-antropologico), la tradizionale barca d’attacco utilizzata per la pesca al pescespada lungo le coste siciliane dello Stretto, dal Cinquecento fino agli anni Cinquanta circa del secolo scorso; la pubblicazione dell’opuscolo Tra Scilla e Cariddi. Conoscere e gustare il pesce del Mediterraneo, 20076.
Territorio di riferimento e genius loci. La cuspide peloritana rappresenta un’unità territoriale definita da elementi geomorfologici e culturali. L’ambiente conserva in parte la sua originaria conformazione rispetto alla “falce” di Messina, dove paludi e saline sono scomparse a seguito di eventi naturali e massicci interventi umani. Tra i fattori culturali ricordiamo le attività
produttive e le tradizioni mitologiche, che popolano lo Stretto di
figure i cui attributi sono le enormi dimensioni, la mostruosità,
oppure la capacità di presiedere al controllo delle forze naturali
che si manifestano presso i territori di confine tra terra e mare7.
Il mare ha condizionato le modalità di insediamento
nell’area: si pensi, ad esempio, alle strutture connesse alle funzioni strategico-militari del Capo, documentate dall’antichità fino alla seconda guerra mondiale; all’occupazione della laguna, sfruttata per la pesca e per l’allevamento dei mitili; alla necessità di conoscere a fondo i ritmi delle oscillazioni delle acque dello Stretto per programmare con efficacia la pesca.
L’esperienza di questo mare ha condotto alla progressiva specializzazione delle tecniche per la cattura dei grandi pesci, come lo spada: pensiamo alle tradizionali imbarcazioni d’avvistamento
(feluca) e d’attacco (luntre) e all’uso dell’arpione mobile.
Attualmente, il processo di adattamento alle condizioni ambientali sta producendo una fase avanzata della sperimentazione tecnologica, che punta allo sfruttamento delle correnti di marea come
fonti di energia rinnovabile: tale sperimentazione è in corso dal 2001,
con l’installazione del prototipo funzionante della turbina ad asse verticale Kobold, ancorata tra Ganzirri e Torre Faro8.
A questi temi si affianca la percezione dello Stretto come “illimite”, che divide e unisce allo stesso tempo, luogo di passaggio e di attraversamento, di incontro e di scontro… In questa prospettiva, si pensi anche alla sfida tecnologica più importante del
secolo scorso: l’attraversamento elettrico dello Stretto, di cui rimane significativa e monumentale testimonianza nella torre per
il sostegno dei cavi dell’alta tensione (il cosiddetto Pilone).
Insomma, il filo rosso, che unisce le emergenze – tangibili e no – potenzialmente valorizzabili in un’ottica ecomuseale,
è costituito dal rapporto inscindibile della cuspide peloritana
con il mare: non un mare qualunque ma quello che, con
D’Arrigo, potremmo definire il “duemari”.
Obiettivi del progetto. Il progetto propone la valorizzazione del territorio peloritano a partire dall’esperienza della ricerca partecipata sui luoghi della vita quotidiana (mappa di comunità), un approccio innovativo per il contesto in esame, che
potrebbe favorire la diffusione virtuosa di un atteggiamento etico nei confronti del territorio9. Finalità del progetto sono: ricostruire l’identità di luoghi e persone; promuovere una nuova considerazione per il paesaggio familiare e, dunque, un atteggiamento di generale rispetto per ciò che è patrimonio di
tutti; favorire il dialogo tra vecchie e nuove generazioni, indirizzato anche alla trasmissione di quei saperi che potrebbero
disperdersi nel tempo; potenziare la vocazione turistica del territorio, superandone l’ottica tradizionale.
Possibile struttura dell’ecomuseo. Il museologo francese H.
Rivière definisce l’ecomuseo “interpretazione dello spazio”. A Capo Peloro numerose emergenze monumentali o di interesse naturalistico evidenziano il legame intrinseco di questa terra con il
“duemari”, e ne diventano il simbolo anche per la loro speciale visibilità: la laguna di Ganzirri e Faro, il complesso detto Fortino degli Inglesi e la torre per il sostegno dei cavi dell’alta tensione (il Pilone) sono le “antenne” dell’ecomuseo, i nodi di una maglia di percorsi di esplorazione dal carattere multidisciplinare.
• La laguna di Ganzirri e Faro. L’esplorazione dei laghi non
può prescindere dalla conoscenza dei processi che hanno determinato la formazione della pianura costiera, lungo tutta la fascia litoranea che si estende tra Capo Peloro e la falce di Messina: un percorso di visita incentrato sull’ambiente naturale prenderà le mosse dalla fisiografia dello Stretto e giungerà, attraverso il processo di formazione della laguna, alla fruizione di quest’ultima come passeggiata di esplorazione lungo un percorso
autoguidato, servito da un centro di documentazione con finalità di educazione ambientale e attrezzato per l’osservazione degli animali che vi sostano stagionalmente10. Le escursioni in
barca, lungo i canali di bonifica ottocenteschi che collegano i
pantani superstiti, sono funzionali alla scoperta di una delle più
importanti questioni archeologiche relative a questo territorio –
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la localizzazione del santuario di Poseidon che alcune ipotesi di
lavoro collocano nell’area delle paludi – e alla conoscenza di leggende locali, come quella relativa alla città di Risa. Infine, esse
avvicinano i visitatori alla pratica dell’allevamento dei mitili, attività produttiva tipica della zona. Il Parco “Horcynus Orca” propone l’attraversamento dello Stretto a bordo delle barche dei pescatori, verso Scilla, il suo castello e l’antico borgo di Chianalea:
un’opportunità di fare esperienza da vicino di fenomeni naturali come i gorghi di Cariddi e, soprattutto, di superare la prospettiva con cui usualmente si effettua il traghettamento dalla penisola alla Sicilia: quella del suo carattere puramente funzionale al passaggio, in qualche modo del suo “uso”.
• Il Fortino degli Inglesi. Il Forte si presta a dare voce al genius loci del Peloro, essendone forse l’emergenza monumentale più rappresentativa. Nato in funzione del controllo delle coste e del passaggio, come le più antiche strutture sulle quali parzialmente si imposta, è il luogo più adatto allo svolgimento del
tema della centralità dello Stretto rispetto alla navigazione nel Mediterraneo; è inoltre forse la più nota delle torri che punteggiano la cuspide peloritana, un sistema di fortificazione della costa
che rappresenta un altro possibile percorso tematico. Un percorso archeologico è di fatto già esistente11 e ha come oggetto
il basamento a gradoni di età romana, sul quale si ipotizza sorgesse una torre, forse con funzione di segnale per i naviganti12.
• Il Pilone. Emerge dal livello del mare, proiettandosi sullo sfondo del Mar Tirreno e armonizzandosi inaspettatamente con l’ambiente grazie alla trasparenza dei tralicci che ne costituiscono l’ossatura: esso rappresenta la terza possibile “antenna” di un ecomuseo
del Peloro, innanzitutto per la sua visibilità. La sua stessa esistenza è legata a un’impresa – l’attraversamento elettrico dello Stretto – che, nelle parole dei protagonisti, ha un carattere quasi epico13. L’accessibilità del Pilone è condizionata dalle sue caratteristiche funzionali, che consentono essenzialmente l’ascesa, fino a
200 metri circa di altezza, e la discesa; un centro di documentazione dovrebbe poter illustrare le problematiche che hanno condotto a una riflessione pluridecennale sul progetto.
Il Parco “Horcynus Orca” propone, tra gli altri servizi, la visita
della piattaforma Kobold ancorata tra Ganzirri e Torre Faro a circa
200 metri dalla costa14. Le due emergenze, il Pilone e la piattaforma
Kobold, potrebbero costituire due momenti di un percorso incentrato sulla produzione di energia: uno sguardo alle conquiste del passato, rappresentate dall’interconnessione tra Sicilia e continente, di
cui il Pilone siculo e quello calabro conservano memoria, e a quelle del futuro, simboleggiate dalla turbina Kobold.
Restano infine da considerare le possibilità di valorizzazione del
“saper fare” locale, in riferimento alle attività produttive intimamente legate al territorio del Peloro: l’allevamento dei mitili nel complesso
lacuale di Ganzirri e Faro – citato sopra – e la caccia al pescespada.
Quest’ultima si svolge secondo tecniche antichissime: un confronto
tra uomo e natura ad armi (quasi) pari che ha una sua dimensione
etica, solo di recente messa parzialmente in discussione15.
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Come si è visto sopra, in occasione dell’evento Spaday
(2007) un esemplare di luntre è stato esposto al pubblico; la
mostra era arricchita da una serie di densi pannelli didattici
sulla storia della caratteristica imbarcazione e sull’evoluzione della tecnica di pesca, che si manifesta nella “motorizzazione” della feluca e nella caduta in disuso del luntre. Questi elementi potrebbero diventare il nucleo di una sezione permanente dedicata all’antica pratica della caccia allo spada.
I riscontri positivi che hanno avuto in Italia alcune esperienze
di mappe di comunità (incremento dell’interesse nei confronti del
territorio di riferimento, rafforzamento dell’identità e dell’autostima)16 invitano quantomeno a tentare di saggiare la disponibilità della comunità locale in questo senso.
Alessandra Marucci
1. Questo lavoro riassume parte della mia tesi di Specializzazione (Scuola di Specializzazione in Archeologia classica e medievale “Dinu Adamesteanu” di Lecce,
A.A 2006/2007).
2. Il Parco, dedicato a Stefano D’arrigo, autore dell’omonimo romanzo (1975), interessa l’area dello Stretto tra Capo Peloro e Scilla e ha diverse sedi. Sull’argomento: Pandolfo F., Sindoni G., I luoghi del parco Horcynus Orca, Città e territorio. Documenti dell’Amministrazione Comunale di Messina, 5, 2003, p. 42.
3. Maggi M., Falletti V., Gli ecomusei. Cosa sono, cosa potrebbero diventare,
IRES Piemonte, Torino, 2000, in particolare pp. 30-33 (fonte: www.ires.piemonte.it).
4. Piccione P., Riccobono F., Giordano A., Irrera M., Terra, acqua, mito. Capo Peloro, le lagune di Ganzirri e Faro – racconto per immagini, Messina e la sua storia,
21 (Iconae, 3), Messina, 2003; PescaTurismo dello Stretto (a cura di), Lo Stretto di
Messina. Ambiente, Scienza e Mito, Messina, 2004; Buceti G., Gialò. I misteri del Peloro, Messina, 2004; www.ganzirri.it.
5. “Spaday: Progetto di comunicazione e promozione del settore della pesca e dell’acquacoltura nella provincia di Messina” (fonte: www.eventospaday.it).
6. Dipartimento di Scienze degli Alimenti e dell’Ambiente “Prof. G. Stagno d’Alcontres”,
Università degli Studi di Messina/Società di Ricerca Necton.
7. Aricò N., Illimite Peloro. Interpretazioni del confine terracqueo, Mesogea Ed., Messina, 1999, p. 16. L’Autore ricorda che l’etimologia del nome Peloro richiama “[…]
una sensazione grandiosa di natura che impaurisce”.
8. Fonte: www.horcynusorca.it.
9. Clifford S., Maggi M., Murtas D., Genius loci. Perché, quando e come realizzare
una mappa di comunità, (StrumentIRES, 10), IRES Piemonte, Torino, 2006, p. 4
(fonte: www.ires.piemonte.it).
10. Tale percorso potrebbe prendere le mosse dalla mostra permanente allestita
nell’ala sud-orientale del corpo di fabbrica ottocentesco del Fortino degli Inglesi, a
cura del Parco “Horcynus Orca”, e dedicata alla flora e alla fauna dello Stretto.
11. Fonte: www.horcynusorca.it.
12. Prestianni Giallombardo A.M., Il Peloro nell’antichità. Miti Scienze Storia, in Gentili B., Pinzone A., Messina e Reggio nell’Antichità: storia, società, cultura, Atti del
Convegno della S.I.S.A.C. (Messina – Reggio Calabria 24-26 maggio 1999), Pelorias
9, Giorgio Bretschneider Ed., Messina, 2002, part. 150-153; Aricò N., Illimite Peloro,
op. cit., pp. 19-20.
13. L’attraversamento elettrico dello Stretto di Messina, Società Generale Elettrica della Sicilia, Roma, 1958, pp. 7-22; 111; 131-132; 144-145; 155; 201.
14. Fonte: www.horcynusorca.it.
15. Pagano F., Pescespada, 2007 (fonte: www.ganzirri.it).
16. Clifford S., Maggi M., Murtas D., Genius loci, op. cit., pp. 1-11.
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