Coping power

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C o l l a n a
d i
P s i c o l o g i a
John E. Lochman, Karen Wells e Lisa A. Lenhart
Coping Power
Programma per il controllo di rabbia
e aggressività in bambini e adolescenti
Edizione italiana a cura di
Pietro Muratori, Lisa Polidori, Laura Ruglioni,
Azzurra Manfredi e Annarita Milone
Erickson
Presentazione
dell’edizione italiana
Furio Lambruschi 1
I Disturbi del Comportamento
Chi opera nell’ambito dei servizi di Neuropsichiatria infantile e di consultazione psicologica per l’età evolutiva avrà avuto modo di osservare come
negli ultimi decenni i cosiddetti disturbi «esternalizzanti» (quelli cioè in cui
i bambini imparano a dirigere verso l’esterno, sotto forma di oppositività, di
impulsività, di iperattività e di rabbia le loro emozioni critiche) siano gradualmente diventati tra i più importanti e impegnativi problemi clinici. Questi
bambini, come sappiamo, mettono a dura prova tutte le sponde relazionali con
le quali entrano in contatto, tutti coloro che, a vario titolo, hanno «il piacere»
di incontrarli: in primo luogo, ovviamente, i genitori e i familiari che giungono
usualmente in consultazione assai provati e con una malconcia percezione di
sé in termini di autostima e di autoefficacia nel loro ruolo genitoriale; gli insegnanti, i compagni e tutto il mondo della scuola, oltre che i diversi contesti
educativi che frequentano (centri educativi pomeridiani, associazioni sportive,
parrocchie, ecc.); e, infine, anche gli operatori dei servizi sanitari e sociali ai
quali possono eventualmente accedere.
1
Psicologo, psicoterapeuta (UO di Neuropsichiatria Infantile AUSL di Cesena), direttore SBPC
(Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva).
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Coping power
Dal punto di vita nosografico, il Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali (DSM IV-TR; American Psychiatric Association, 2004)
prevede due distinte categorie per i problemi esternalizzanti, entrambe incluse
nel gruppo dei «Disturbi da Comportamento Dirompente»: il Disturbo Oppositivo-Provocatorio e il Disturbo della Condotta (tabelle 1 e 2). In particolare,
quella di Disturbo Oppositivo-Provocatorio, è diventata una delle diagnosi
più comuni tra i bambini dell’età prescolare, indipendentemente dal gruppo
etnico e culturale di riferimento, con una prevalenza che va addirittura dal 4
al 16,8 % (Egger e Angold, 2006; Lavigne et al., 2009).
Questi disturbi sono relativamente stabili (come si usa dire attualmente,
life course persistent) e comportano un significativo peggioramento del funzionamento del minore in diversi ambiti di vita: scolastico (scarso rendimento, deficit
attentivo, fallimento scolastico, espulsione), familiare (conflittualità verbale,
aggressività fisica, fughe) e sociale (emarginazione, ingresso in gruppi dissociali)
(Loeber, Farrington e Waschbusch, 1998; Aguilar et al., 2000; American Psychiatric Association, 2004). Si possono chiaramente porre in continuità con il
comportamento delinquenziale, aggressivo e di grave rischio in adolescenza (Fergusson, Horwood e Lynskey, 1994; Tolan e Gorman-Smith, 1998; Broidy et al.,
2003); inoltre, gli adolescenti che iniziano ad avere problemi comportamentali
nel corso dell’infanzia, finiscono per commettere atti molto più seri e violenti e
sono responsabili di un numero enormemente più alto di reati giovanili, rispetto
agli adolescenti senza una precedente storia di Disturbo della Condotta (Loeber,
Farrington e Waschbusch, 1998; Tolan e Gorman-Smith, 1998; Farrington et al.,
2003; Thornberry et al., 2003;). Sebbene, poi, molti adolescenti devianti riescano
a modificare il loro itinerario di sviluppo con il passaggio all’età adulta, gli individui che evidenziano problemi della condotta già nell’infanzia è più probabile
che sviluppino da adulti un disturbo antisociale di personalità, i cui costi sociali
sono notoriamente tra i più elevati (Moffitt e Caspi, 2001; Moffit et al., 2002).
Tabella 1
Il Disturbo Oppositivo-Provocatorio
Disturbo Oppositivo-Provocatorio
Nel corso della prima infanzia il comportamento oppositivo e negativistico è parte del normale sviluppo,
come espressione della volontà del bambino di diventare autonomo e di porre fine al rapporto simbiotico
che lo ha legato alla mamma fin dalla nascita. Egli vuole andare alla scoperta del mondo, fare nuove
esperienze, che sono propedeutiche per l’acquisizione dell’identità e dell’autocontrollo, ed è per questo
motivo che manifesta segni di ribellione ogni qualvolta qualcuno cerca di ostacolarlo; questo processo
avviene in particolare tra i 18 e i 36 mesi di età e, soprattutto, durante l’adolescenza. Quando il comportamento ostile, anziché svanire lentamente, persiste nel tempo e in forme accentuate, tanto da creare
serie difficoltà relazionali, dapprima nell’ambiente familiare poi in quello sociale, viene considerato e
definito «Disturbo Oppositivo-Provocatorio» (DOP).
Presentazione dell’edizione italiana
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L’oppositività caratterizzata da disobbedienza, ostilità e da comportamenti provocatori, sintomi nucleari
del disturbo, è prevalentemente rivolta verso gli adulti o, comunque, verso chi è dotato di autorità, in
particolare non rispettando i limiti e le regole imposte, rifiutando qualsiasi possibile compromesso, non
accettando rimproveri e punizioni.
Criteri diagnostici del DOP secondo il DSM-IV-TR
Una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio che dura almeno da 6 mesi, durante
i quali sono stati presenti 4 (o più) dei seguenti sintomi:
1) spesso va in collera;
2) spesso litiga con gli adulti;
3) spesso sfida attivamente o si rifiuta di rispettare le richieste o regole degli adulti;
4) spesso infastidisce deliberatamente le persone;
5) spesso accusa gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento;
6) è spesso suscettibile o facilmente irritato dagli altri;
7) è spesso arrabbiato e rancoroso;
8) è spesso dispettoso e vendicativo.
Questi comportamenti patologici sembrano essere associati in modo significativo a meccanismi di
«disimpegno morale» (Bandura, 1999) per cui, solitamente, i soggetti con questo disturbo non si considerano oppositivi e provocatori, ma giustificano il proprio comportamento come risposta a richieste
o circostanze reputate irragionevoli; sembra, infatti, che alla base delle loro esperienza ci sia una percezione «distorta» dell’altro, percepito come ostile, iniquo e pronto all’aggressività e alla competitività
(Lochman e Dodge, 1994).
Tabella 2
Il Disturbo della Condotta
Disturbo della Condotta
Con l’espressione «Disturbo della Condotta» si definiscono quei bambini o giovani, più spesso maschi,
che hanno in modo costante, come caratteristica peculiare del loro comportamento, atteggiamenti di
tipo oppositivo-provocatorio, condotte aggressive verso persone, animali o cose, e condotte antisociali
come furti, vandalismo, fughe. La diagnosi di Disturbo della Condotta viene fatta solo quando questi
comportamenti hanno caratteristiche di quantità, intensità e frequenza particolarmente rilevanti.
Criteri diagnostici del DC secondo il DSM-IV-TR
Una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali degli altri o le principali
norme o regole societarie appropriate per l’età vengono violati, come manifestato dalla presenza di tre
(o più) dei seguenti criteri nei 12 mesi precedenti, con almeno un criterio presente negli ultimi 6 mesi.
Aggressioni a persone o animali
  1)Spesso fa il prepotente, minaccia o intimorisce gli altri.
  2)Spesso dà inizio a colluttazioni fisiche.
  3)Ha usato un’arma che può causare seri danni fisici ad altri (ad esempio, un bastone, una barra, una
bottiglia rotta, un coltello, una pistola).
  4)È stato fisicamente crudele con le persone.
  5)È stato fisicamente crudele con gli animali.
  6)Ha rubato affrontando la vittima (ad esempio, aggressione, scippo, estorsione, rapina a mano
armata).
  7)Ha forzato qualcuno ad attività sessuali.
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Coping power
Distruzione della proprietà
  8)Ha deliberatamente appiccato il fuoco con l’intenzione di causare seri danni.
  9)Ha deliberatamente distrutto proprietà altrui (in modo diverso dall’appiccare il fuoco).
Frode o furto
10)È penetrato in un edificio, un domicilio o un’automobile altrui.
11)Spesso mente per ottenere vantaggi o favori o per evitare obblighi (cioè raggira gli altri).
12)Ha rubato articoli di valore senza affrontare la vittima (per esempio, furto nei negozi, ma senza
scasso; falsificazioni).
Gravi violazioni di regole
13)Spesso trascorre fuori la notte nonostante le proibizioni dei genitori, con inizio prima dei 13 anni.
14)È fuggito di casa di notte almeno due volte mentre viveva a casa dei genitori o di chi ne faceva le
veci (o una volta senza ritornare per un lungo periodo).
15)Marina spesso la scuola, con inizio prima dei 13 anni di età.
In base all’età di esordio il disturbo è inoltre classificato in due sottotipi:
– esordio nella fanciullezza: sono bambini che mostrano di frequente aggressioni fisiche contro gli altri
e relazioni disturbate con i coetanei, possono aver avuto un Disturbo Oppositivo-Provocatorio o un
Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività nella prima fanciullezza e di solito hanno sintomi che
soddisfano pienamente i criteri per il Disturbo della Condotta prima della pubertà, anche se spesso
permangono nel corredo sintomatologico elementi caratteristici dei quadri clinici precedenti. L’esordio
precoce sembra correlato a una maggiore probabilità di presentare un Disturbo della Condotta persistente e di sviluppare, in età adulta, un Disturbo Antisociale di Personalità (DPA) o disturbi correlati
all’abuso di sostanze (Pardini, Frick e Moffitt, 2010);
– esordio in adolescenza: i comportamenti aggressivi e le relazioni con i compagni appaiono più adeguate,
sebbene il tipo di gruppo dei coetanei frequentato possa essere un fattore centrale nell’insorgenza
di questa forma di DC e rispetto alla probabilità di avere un Disturbo della Condotta persistente o di
sviluppare da adulto un Disturbo Antisociale di Personalità.
Nella pratica clinica la distinzione tra i due disturbi non è sempre facile in
quanto queste due modalità espressive sintomatologiche costituiscono spesso
un continuum evolutivo e condividono fattori di rischio individuali e familiari.
Infatti, i bambini e adolescenti con disturbi del comportamento rappresentano
un gruppo molto eterogeneo che può variare per tipologia e severità dei problemi
di condotta, decorso, evoluzione e prognosi. Questa eterogeneità suggerisce che
i meccanismi causali sottostanti ai loro comportamenti antisociali e aggressivi
siano diversi e che, quindi, rispondano a strategie di intervento differenti.
Lo sviluppo dei comportamenti dirompenti può essere influenzato da
fattori predisponenti di tipo temperamentale, legati a elevati livelli di aggressività e di impulsività (Moffitt e Caspi, 2001; Silverthorn, Frick e Reynolds,
2001), deficit nei meccanismi di regolazione emotiva e del controllo inibitorio (Dodge e Pettit, 2003; Frick e Morris, 2004), variabili di tipo familiare,
come clima domestico conflittuale e/o genitori incapaci di utilizzare strategie
educative adeguate (Bowlby, 1988; Anderson et al., 2003; Emiliani, Melotti
e Palareti, 1998).
Presentazione dell’edizione italiana
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Il trattamento dei disturbi del comportamento
I disturbi del comportamento rappresentano una sfida particolarmente
difficile e complessa, non tanto in termini di inquadramento diagnostico
(purtroppo in questa specifica area psicopatologica il profilo sintomatologico
è di una evidenza «schiacciante» e, di solito, abbastanza facilmente obiettivabile sul piano comportamentale), quanto piuttosto in termini di «aggancio»,
di costruzione di una adeguata alleanza di lavoro con il bambino e con la
famiglia, e quindi di trattamento. Per quanto il loro andamento sia persistente nel corso del ciclo di vita, dal Disturbo della Condotta nell’infanzia al
comportamento violento e alla criminalità adulta, può più facilmente essere
interrotto nelle fasi iniziali dello sviluppo, quando i modelli comportamentali
e i corrispondenti stili cognitivi e di regolazione emotiva sono più facilmente
plasmabili (Tremblay, 2006). L’ottica preventiva sembra risultare la più valida
nell’ostacolare l’organizzazione in comportamenti aggressivi cronici, essendo
stati ormai identificati con certezza alcuni fattori di rischio biologico, psicosociale e familiare. Tuttavia, la letteratura indica anche come risulti difficile in
questo ambito strutturare specifici ed efficaci protocolli terapeutici che tengano
conto dell’origine complessa del disturbo. È ormai indiscussa, comunque, la
maggior efficacia terapeutica di interventi multimodali espletati a diversi livelli:
familiare, individuale, scolastico, socioambientale.
Ciononostante, nella cultura italiana, la diffusione di programmi d’intervento multimodali, che prevedano quanto meno la presa in carico parallelamente
del bambino e dei suoi caregiver, è ancora piuttosto limitata. Su tale ritardo
hanno certamente pesato la dominanza di alcune posizioni culturali, modelli
scientifici e prospettive psicoterapeutiche, che ha caratterizzato il nostro Paese
per diversi decenni. A questo riguardo, i miei ricordi relativi alla fine degli anni
Settanta e ai primi anni Ottanta, periodo in cui cominciavo ad avvicinarmi
alla psicoterapia cognitivo-comportamentale con il paziente adulto e con il
bambino, sono connotati da emozioni e da immagini contrastanti. Da un
lato, ricordo una sensazione di grande entusiasmo per la percepita ricchezza
ed efficacia del repertorio tecnico cognitivo-comportamentale, insieme ai tanti
stimoli concettuali che stavano allora emergendo, non solo dai nuovi modelli
clinici cognitivisti, ma anche dall’ambito della developmental psychopathology
(Cicchetti, 1984) e della teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969; 1973; 1979;
1980; 1988). Dall’altro, però, si avvertiva chiaramente un senso pervasivo di
frustrazione e di dolore nell’osservare tanti piccoli pazienti carichi di sofferenza
emotiva, seguiti unicamente (o quasi) entro un setting terapeutico individuale,
spesso a più sedute settimanali, talvolta per anni, con procedure ben poco
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Coping power
definite e soprattutto con una penosa sensazione di stigma e di connotazione
patologica unicamente focalizzata su di loro e perpetrata nel tempo. Sotto l’egida
del «setting pulito», qualcuno finiva addirittura per considerare «inquinanti» per
il setting terapeutico i vissuti, le considerazioni, i dati provenienti dai genitori,
che al più avrebbero dovuto/potuto seguire un loro percorso ben distinto e
autonomo con un altro collega. In quest’ottica, la presenza dei genitori all’interno del setting terapeutico, ben lungi dal rappresentare una preziosa risorsa,
poteva addirittura essere vissuta come spiacevole intralcio.
Da allora, fortunatamente, molte cose sono cambiate nel nostro modo di
leggere e osservare la psicopatologia infantile e quindi di affrontarla operativamente. Insieme alle idee bowlbiane, anche la nascita e lo sviluppo dell’approccio sistemico familiare ha certamente contribuito a mitigare quella impropria
visione «bambinocentrica» che per anni ha informato la costruzione del setting
di lavoro e la pianificazione operativa degli interventi clinici in età evolutiva.
Sono apparse sempre più evidenti la complessità e le difficoltà che si
pongono nella definizione dei disturbi psichici in età evolutiva e come tale
definizione sia ampiamente influenzata da una miriade di variabili di carattere
culturale, sociale e familiare (Sheperd, Oppenheim e Mitchell, 1971; Bond e
McMahon, 1984; Kolko e Kazdin, 1993; Matsuura et al., 1993; Zahner et al.,
1993), nonché dalle caratteristiche peculiari di questa fase del ciclo di vita individuale. Tutto ciò fino al punto da porre legittimi dubbi, soprattutto nella prima
infanzia, sulla possibilità di inquadrare i problemi che giungono all’attenzione
del clinico in termini di vera e propria psicopatologia individuale, chiaramente
riconoscibile come malfunzionamento personale del bambino (Emde, 1989;
National Center For Clinical Infant Programs, 1994; Ammaniti, 2001).
Sappiamo che i sintomi del bambino sorgono in un periodo di profonde
e ampie trasformazioni maturative, che rendono la sua organizzazione comportamentale, cognitiva ed emotiva non ancora chiaramente riconoscibile in
forma definita e stabilizzata. Inoltre, i bambini non vengono in terapia per conto
proprio. I loro segni di sofferenza vengono definiti e portati in consultazione
dagli adulti significativi per il bambino, mostrando spesso con evidenza la loro
situazionalità e dipendenza dal contesto relazionale e dalle turbolenze che lo
attraversano. È noto, ad esempio, che bambini con paragonabile gravità «oggettiva» dei sintomi, giungono o meno in terapia in funzione principalmente
del livello d’ansia genitoriale riguardo ai comportamenti del figlio (Sheperd,
Oppenheim e Mitchell, 1971; Bond e McMahon, 1984). Sappiamo anche che,
tendenzialmente, i bambini vengono percepiti come più disturbati in momenti
particolari di crisi del ciclo di vita familiare o del legame della coppia coniugale
(Kolko e Kazdin, 1993). Per non parlare, poi, della evidente situazionalità con
Presentazione dell’edizione italiana
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cui, talora, si presentano alcune formazioni sintomatiche, per cui è possibile che
un bambino mostri un comportamento gravemente oppositivo e provocatorio,
o di rifiuto del cibo con la madre, ma non con altre figure di riferimento. A chi
appartengono, dunque, tali problematiche? Al bambino o alle caratteristiche
particolari della relazione che egli è stato in grado di costruire con la madre
stessa? In altri termini, i disturbi dell’età evolutiva sono stati sempre più riconosciuti come disturbi delle relazioni.
Abbiamo inoltre imparato a evitare improprie operazioni relazionali con
il bambino e con la sua famiglia che possano porci, anche indirettamente, in
contrapposizione al ruolo genitoriale o metterlo in qualche modo in discussione. La madre e il padre andrebbero sempre posti in una posizione di autori­tà
e di competenza riguardo al proprio figlio e il terapeuta dovrebbe cercare di
unirsi a loro nell’esplorare modalità utili a una graduale trasformazione del
comportamento e delle reazioni emotive del figlio. All’interno della relazione
terapeutica, sia i genitori sia il figlio dovrebbero sentire riconosciuti i propri
bisogni di salute e le proprie ferite aperte, in una prospettiva che, ben lungi
dal designare vittime da un lato e colpevoli dall’altro, ponga co­stantemente
la sua attenzione a quello spazio intermedio denso di significati rappresentato
dalla relazione.
Gli aspetti genetici, temperamentali e neurobiologici, come già osservato, svolgono certamente un ruolo nello sviluppo dei disturbi esternalizzanti,
predisponendo il bambino a una qualche forma di reattività o di deficit autoregolativo innato. Questo, tuttavia, prenderà «pieghe» assolutamente diverse
in funzione del contesto di relazione che andrà a incontrare, connotato da
quote più o meno rilevanti di sicurezza o insicurezza e quindi da salute o da
patologia. Nella costruzione di itinerari di sviluppo connotati da sicurezza, le
competenze dell’adulto (in termini di sensibilità e responsività genitoriale e
di libertà nel proprio «stato mentale») tendono ad assumere maggior rilievo
rispetto alle caratteristiche atipiche, temperamentali e neurobiologiche del
bambino (van Ijzendoorn et al., 1992). Sicurezza e coerenza nello stato mentale
del genitore si riflettono fondamentalmente nell’avere a disposizione un ampio
e flessibile range di risposta comportamentale ed emotiva in grado di accogliere
e di abbracciare anche deficit o eccessi di segnalazione da parte del bambino.
Gradualmente, dunque, abbiamo imparato a leggere i sintomi del bambino
collocandoli all’interno delle sue relazioni d’attaccamento e del suo contesto
di vita. Abbiamo imparato a collocare la coppia genitoriale, fin dalle prime fasi
di assessment, al centro dell’attenzione terapeutica, nel suo rapporto con il
bambino, da un lato, e con la propria storia, dall’altro (Lambruschi, 2004).
Abbiamo imparato a strutturare i formati del setting terapeutico in modo
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Coping power
flessibile e variegato in funzione delle risorse e dei vincoli familiari, potendo
prevedere momenti di interazione con l’intero sistema familiare, fasi di lavoro
individuale con il bambino, interventi sulla relazione madre-bambino, sedute
con entrambi i genitori come coppia genitoriale (o con uno di essi).
Il Coping Power
Il programma Coping Power è stato sviluppato da Lochman e collaboratori a partire da un originario programma denominato Anger Coping
Program. Insieme all’Incredible Years Program di Webster-Stratton e collaboratori (Webster-Stratton, 1992; 2000; Webster-Stratton e Hammond, 1997;
Webster-Stratton, Reid e Hammond, 2001) è uno dei pochi programmi con
caratteristiche di complessità e di provata efficacia nel trattamento del comportamento dirompente in età scolare. Tale programma pone infatti le sue
basi teoriche nel contextual social-cognitive model di Lochman e Wells (2002a),
un modello ecologico dell’aggressività in età infantile, che appare correlata
a una serie di fattori del contesto familiare e sociale (problemi del quartiere
di residenza, depressione materna, scarso supporto sociale, conflitti genitoriali, basse condizioni socioeconomiche), i quali, oltre ad avere un’influenza
diretta sui problemi esternalizzanti dei bambini, ne possono indirettamente
aggravare le caratteristiche influenzando alcuni processi cardine, quali le
pratiche educative genitoriali, le abilità sociali e la regolazione emotiva dei
bambini (Lochman et al., 2008). Fattori di rischio biologici come complicanze
neonatali, fattori genetici, testosterone, anomali livelli di serotonina, fattori
temperamentali, possono portare a disturbi della condotta nel bambino, ma
solo quando sono presenti importanti fattori di rischio ambientali, come stile
educativo particolarmente duro o, al contrario, scarsa guida educativa, ambiente familiare avverso, rifiuto materno, maltrattamento, abuso familiare,
condizioni socioeconomiche particolarmente svantaggiate. A partire dalla
predisposizione biologica e temperamentale, e dalle esperienze maturate nel
loro contesto sociale e all’interno delle loro relazioni primarie, i bambini con
problemi di aggressività sviluppano quindi una modalità distorta e deficitaria
di elaborazione dell’informazione sociale: essi infatti tendono a percepire e
a valutare i segnali sociali prevalentemente in maniera ostile e a reagire in
modo aggressivo (Lochman e Dodge, 1994). Inoltre, presentano difficoltà
anche relativamente al problem solving interpersonale: sono meno efficaci
degli altri bambini nel generare un numero sufficiente di soluzioni adattive
al problema percepito e considerano l’aggressività come una modalità per
Presentazione dell’edizione italiana
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modulare le emozioni e come la strategia più efficace per regolare le relazioni
interpersonali (Lochman e Lenhart, 1993; Lochman e Wells, 2003).
Tenendo quindi presenti i molteplici fattori di rischio collegati allo sviluppo di comportamenti aggressivi, Lochman e collaboratori hanno sviluppato il
Coping Power, che prevede un intervento di gruppo per i bambini e un parallelo programma di parent training per i genitori. Numerosi studi confermano
l’efficacia del programma nel ridurre i comportamenti aggressivi e l’abuso di
sostanze nei ragazzi anche a distanza di tre anni (Lochman e Wells, 2004);
inoltre, successive analisi hanno evidenziato significativi miglioramenti del locus
of control interno e delle abilità sociali dei ragazzi, associati a una diminuzione
degli errori attributivi e delle aspettative ostili e a una maggiore coerenza delle
pratiche educative genitoriali (Lochman e Wells, 2002a; 2002b). Tali risultati
sono stati confermati anche nell’applicazione del Coping Power in contesti
clinici europei (van de Wiel et al., 2007; Zonnevylle-Bender et al., 2007).
Coping Power – Bambini
Il programma Coping Power, nella componente rivolta ai bambini,
prevede l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali e attività volte al
potenziamento di diverse abilità, quali intraprendere obiettivi a breve e a lungo
termine, organizzare efficacemente lo studio, riconoscere e modulare i segnali
fisiologici della rabbia, riconoscere il punto di vista altrui (perspective taking),
risolvere adeguatamente le situazioni conflittuali, resistere alle pressioni dei pari
ed entrare in contatto con gruppi sociali positivi. Il role play e l’interazione con
i pari sono i principali strumenti utilizzati dal programma allo scopo di incrementare la generalizzazione al di fuori del setting terapeutico delle competenze
acquisite. La scelta del lavoro in gruppo permette ai bambini di fare esperienza
«in vivo» di apprendimento di abilità interpersonali e competenze sociali, inoltre
il rinforzo sociale del gruppo dei pari è in larga misura più efficace di quello
dell’adulto in situazione diadica (Lochman e Lenhart, 1993).
Uno degli aspetti caratteristici e unici di questo tipo di intervento è l’inclusione di attività che prevedono l’induzione di un certo grado di attivazione
affettiva; il bambino quindi può apprendere tecniche di controllo della rabbia
proprio mentre è emotivamente attivato. Come è stato sottolineato precedentemente, le difficoltà di problem solving dei bambini aggressivi tendono a essere
più marcate proprio quando i bambini si trovano in uno stato di attivazione
emotiva. Per questo motivo vengono proposti degli esercizi di role play in risposta a una provocazione che offrono al bambino la possibilità di modulare la
rabbia proprio mentre è affettivamente coinvolto. Ciò dovrebbe incrementare
18
Coping power
la generalizzazione degli effetti del trattamento. Ad esempio, tra gli esercizi
più interessanti, il Coping Power prevede un’attività in cui un bambino viene
intenzionalmente deriso dal resto del gruppo: mentre i bambini lo prendono
in giro il bambino può muoversi su un «tappeto» su cui è disegnato un grande
«termometro della rabbia» allo scopo di graduare il livello di emozione esperita.
Inoltre, con l’aiuto del terapeuta, cerca di mettere in pratica opportune strategie
e autoistruzioni che lo aiutino a fronteggiare la rabbia in maniera adattiva.
Un’altra interessante attività focalizzata sul problem solving in situazioni sociali comporta un’attività di role play di situazioni conflittuali, anche
mutuate dall’esperienza di vita dei bambini stessi, in cui si aiuta il bambino a
identificare e a sperimentare le diverse soluzioni alla situazione. Tale attività
può essere eventualmente videoripresa in modo da valutare insieme al gruppo
le alternative emerse nel corso del role play ed eventualmente suggerirne di
nuove. Successivamente viene proposto ai bambini di valutare le conseguenze
positive e negative alla situazione presentata. I bambini sono inoltre invitati
a riconoscere come la stessa situazione può essere interpretata in modi diversi
chiedendo loro di identificare le diverse ragioni del comportamento di una
persona. L’obiettivo ultimo di questi esercizi, non è tanto cosa fare in diverse
situazioni, piuttosto quello di promuovere la loro capacità di autoriflessione,
di come pensare in situazioni difficili. In questo senso, possono assumere un
valore straordinario nel promuovere le capacità di mentalizzazione dei bambini
con problemi di comportamento, perché offrono loro la possibilità di esplorare, in forma di gioco, il rapporto tra i loro pensieri, i loro sentimenti e i loro
comportamenti, di capire quali cose possono dire a se stessi per modulare la
propria esperienza emotiva, fornendo inoltre materiale prezioso che può essere
ripreso nei colloqui individuali.
Coping Power – Genitori
La componente del Coping Power rivolta invece ai genitori ha le sue radici
nel modello del parent training. I parent training sono una forma di intervento
altamente strutturato e manualizzato, usualmente realizzati in un setting di
gruppo, proliferati in ambito statunitense a partire dagli anni Settanta, rivolti a
genitori accomunati dall’esperienza di relazione con un figlio con problematiche
specifiche. Si propongono di incrementare le abilità quotidiane del genitore
nella gestione quotidiana del figlio, di ridurre il livello di stress genitoriale e
familiare e di incrementare le capacità genitoriali nella soluzione dei problemi.
I diversi programmi ideati si sono via via focalizzati su contenuti diversi (ad
esempio, una maggiore conoscenza dello sviluppo tipico del bambino, il senso
Presentazione dell’edizione italiana
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di autoefficacia dei genitori, le abilità comunicative con il bambino, lo sviluppo di adeguate strategie educative e di gestione del comportamento del figlio,
ecc.), integrando tecniche diverse (discussioni di gruppo, homework, role play,
tecniche di rinforzo, video-feedback, ecc.). L’applicazione si è gradualmente
estesa a una varietà di disturbi e problematiche dell’età evolutiva: generiche
problematiche di tipo educativo, ADHD, Disturbi della Condotta e Disturbi
Oppositivo-Provocatori, alcuni disturbi internalizzanti e somatoformi, Disturbi
Generalizzati dello sviluppo, Ritardo Mentale e altri tipi di disabilità; non ultimo, i parent training sono stati ampiamente utilizzati in ambito psicosociale
con l’intento di recuperare le funzioni genitoriali nelle famiglie con bambini
a rischio di trascuratezza o maltrattamento. A questo riguardo Barth e collaboratori (2005) riportano dati impressionanti (difficilmente immaginabili,
pur con le dovute proporzioni, nella realtà italiana): oltre 800.000 famiglie a
rischio trattate ogni anno con questi programmi.
Inizialmente le modalità di conduzione dei diversi modelli di parent training
erano particolarmente direttive, pedagogiche, potremmo dire «istruttive», in gran
parte volte alla trasmissione diretta di competenze teoriche e comportamentali,
con il conduttore nel ruolo di esperto che offre al genitore validi consigli su come
gestire nel modo migliore il proprio figlio. Gradualmente il posizionamento del
conduttore nel gruppo si è trasformato, assumendo maggiormente la funzione
di una sorta di coach della funzione genitoriale, un esperto nei problemi del
bambino che deve però possedere buone capacità relazionali, comunicative e
di mediazione con le famiglie (Webster-Stratton e Herbert, 1994), oltre che di
attivatore di competenze elaborative e riflessive nel genitore (Pezzica e Bigozzi,
2010). L’efficacia di diversi programmi di parent training è ormai riconosciuta e
supportata da rigorosi studi empirici, da ampie metanalisi focalizzate sugli esiti
di alcuni tra i più famosi di tali programmi (Cedar e Levant, 1990; Thomas e
Zimmer-Gembeck, 2007) e, ancor più recentemente, da importanti metanalisi
sull’efficacia differenziale delle varie componenti presenti nei più conosciuti
programmi: conoscenze sullo sviluppo infantile, positiva interazione con il
bambino, responsività e sensibilità, comunicazione emotiva, comunicazione
volta alla disciplina, disciplina e gestione del comportamento, promozione
di competenze sociali, di comportamenti prosociali e di abilità scolastiche e
cognitive del bambino (Kaminski et al., 2008). Nel nostro Paese, solo recentemente, all’interno di un rinnovato contesto culturale e scientifico, gli interventi
di supporto alla genitorialità nella loro forma più strutturata di parent training
hanno finalmente iniziato a espandersi (si veda, ad esempio, Vio, Marzocchi
e Offredi, 1999; Niccolai, 2004; Benedetto, 2005; Giuliani e Iafrate, 2006;
Barkley, 2007; Menazza, Bacci e Vio, 2010). Ciò anche sotto l’impulso dei
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Coping power
protocolli di intervento previsti dalle nuove direttive ministeriali, regionali e
aziendali nel trattamento di specifici quadri psicopatologici dell’età evolutiva.
Valgano ad esempio l’ADHD e i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo sui quali
i servizi pubblici, nel rapporto con le relative associazioni di familiari, hanno
recentemente iniziato a investire importanti quote di risorse.
Il programma di parent training proposto da Lochman e collaboratori è
dettagliatamente manualizzato e strutturato in 16 incontri di gruppo. Accompagna i genitori lungo due anni scolastici, guidandoli nella costruzione e nel
successivo consolidamento di alcune fondamentali abilità nella gestione della
relazione educativa e affettiva con il proprio figlio:
– una più attenta organizzazione e gestione dei compiti scolastici, fornendo al
bambino un’adeguata guida, supporto e monitoraggio di tali attività;
– il riconoscimento e la gestione delle proprie aree personali di stress, anche
attraverso specifiche tecniche di rilassamento e di automonitoraggio cognitivo
ed emotivo;
– la capacità di condurre un’adeguata analisi funzionale del comportamento
del bambino (attraverso il modello ABC) promuovendo in tal modo un
miglioramento della relazione genitore-bambino;
– la capacità di rinforzare i comportamenti positivi e di portare gradualmente
a estinzione i comportamenti negativi meno gravi;
– la trasmissione al bambino di istruzioni in modo chiaro e concreto, evitando
verbalizzazioni torrenziali e razionalizzanti, poste in termini troppo vaghi,
dubitativi e incerti, con troppi comandi insieme o, come a volte accade,
urlati a distanza;
– la definizione di chiare regole e aspettative per il bambino e il loro monitoraggio nel tempo;
– la capacità di gestire in modo equilibrato la disciplina e la punizione;
– la preparazione e la pianificazione delle attività estive;
– la costruzione di un più sereno clima di coesione familiare, pianificando
adeguate e piacevoli attività condivise sia dentro sia fuori casa;
– l’apprendimento e l’utilizzazione del problem solving familiare nell’affrontare
situazioni di conflitto;
– la promozione di adeguate modalità di comunicazione familiare, anche
attraverso spazi strutturati di family meeting.
Un percorso parallelo
Gli autori sottolineano l’importanza di un utilizzo congiunto e parallelo
del programma di parent training e del programma di gruppo per bambini,
Presentazione dell’edizione italiana
21
anche sulla base dei dati di ricerca (Lochman e Wells, 2004). È davvero interessante osservare come analoghe abilità individuali e relazionali possano essere
specularmente apprese dai bambini e dai genitori, ciascuno entro il proprio
contesto di gruppo, andando a costituire circolarmente l’una il terreno sulla
quale l’altra è in grado più facilmente di svilupparsi.
Conclusioni
Va il merito alla dott.ssa Annarita Milone e ai suoi collaboratori del
Servizio per il trattamento di disturbi del comportamento in età evolutiva «Al
di là delle nuvole», dell’UO 3 dell’IRCCS Fondazione «Stella Maris» di Pisa
l’aver stabilito un fruttuoso rapporto scientifico con Lochman e collaboratori
del Dipartimento di Psicologia dell’Università dell’Alabama e l’aver introdotto
in Italia questo loro programma, sperimentandolo in modo scientificamente
rigoroso, ma al contempo con profonda umiltà e sensibilità emotiva. Già da
diversi anni, ormai, il «Pisa Group» si sta distinguendo come uno dei gruppi
italiani più stimolanti e competenti nell’ambito della diagnosi, del trattamento
e della ricerca sui disturbi oppositivo-provocatori e della condotta.
L’auspicio è che tale metodologia di lavoro possa trovare finalmente anche nel nostro dominio culturale una diffusione sempre più ampia ed estesa,
non solo a contesti clinici e educativi diversi, ma anche all’ambito della tutela
dei minori a rischio evolutivo e del disagio psicosociale, consentendoci così di
affrontare, o quanto meno di mitigare, la sofferenza di un numero crescente
di bambini e delle loro famiglie.
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