B-NOTES Riassunto di “Che cosa è il cinema” Per studenti di “Teoria e analisi del linguaggio cinematografico” Margherita A. Terrasi André Bazin visse tra il 1918 e il 1958, precisamente 30 anni. Scrisse veramente tanto, quasi come se sapesse di avere poco tempo per farlo. Fondatore, con Jacques Doniol-Valcroze, dei prestigiosi “Cahiers du Cinéma” (1952), è stato il padre spirituale dei registi della “Nouvelle Vague”. - Riassunto con annotati riferimenti agli appunti ed ai saggi da studiare. Riassunto di Che cosa è il cinema Parte prima Ontologia e linguaggio 1 – Ontologia dell’immagine fotografica Bazin esemplifica quello che lui chiama « complesso della mummia », parlando della tendenza degli antichi egizi ad imbalsamare il corpo dei faraoni ed a proteggerli al meglio dai saccheggi utilizzando addirittura delle statuette, simulacri del corpo, poste accanto al sarcofago, per assicurare la pace allo spirito del faraone. Ciò era fatto per mantenere nel tempo immutata l’immagine del faraone, esattamente come per Luigi XIV esisteva l’usanza di farsi ritrarre. Questo « complesso della mummia » lo possiamo trovare anche in chi si scatta una fotografia. La fotografia, con la sua nascita, ha dato pace a quella che era la continua ricerca di realismo nella pittura, secondo Bazin, e le ha permetto di avere maggiore sfogo estetico, allontanandosi dalla simulazione della realtà. La fotografia quindi si è sostituita, come procedimento meccanico, alla pittura nella creazione di quello che effettivamente è un “calco” di luce del modello, ossia la rappresentazione più fedele della realtà. Bloccando l’immagine, il momento, essa ferma il tempo. Così anche per il cinema, che diventa un calco vivente, una effettiva rappresentazione della realtà nei film dei Lumière, perché si trattava di vedute che inquadravano nella sua totalità la realtà (ad es. La sortie des usines). 2 – Il mito del cinema totale Il cinema non deve quasi nulla allo spirito scientifico, i suoi padri non sono scienziati (eccetto Marey). Edison, Niepce, Muybridge, Leroy, Joly, Deménij, Louis Lumière sono dei monomani, degli sconsiderati, dei bricoleurs, degli industriali ingegnosi. La scoperta del cinema non è avvenuta solo grazie alle scoperte tecniche che l’hanno permesso. Al contrario, una realizzazione approssimativa e complicata dell’idea precede quasi sempre la scoperta industriale che ne consente l’applicazione pratica. Muybridge riesce nel 1877 e nel 1880 a realizzare un complesso che gli permetterà di impressionar, con l’immagine di un cavallo al galoppo, la prima sequenza cinematografica, ma ha dovuto accontentarsi del collodio umido su lastra di vetro (istantaneità, emulsione secca, supporto flessibile). Marey, dopo la scoperta nel 1880 della gelatina di bromuro d’argento, costruì col suo fucile fotografico una vera e propria macchina da presa a lastre di vetro. Anche dopo l’esistenza in commercio della pellicola di celluloide lo stesso Lumière tenterà dapprima di impiegare pellicole di carta. 1 Sadoul nota quindi che niente si opponeva alla realizzazione di un fenachisticopio o di uno zootropio fin dall’antichità. Mentre abbiamo modo di sorprenderci che, per il cinema fotografico, la scoperta preceda le condizioni tecniche indispensabili alla sua realizzazione, bisognerebbe spiegare come l’invenzione abbia messo tanto a spuntare. Il cinema fotografico avrebbe potuto innestarsi su un fenachisticopio, nel 1890, immaginato fin dal XVI secolo. Il ritardo è inquietante. L’immaginazione di questi “profeti” identifica l’idea cinematografica a una rappresentazione totale e integrale della realtà. alla restituzione perfetta del mondo esterno col suono, il colore e il rilievo. Reynaud dipingeva da tempo le sue figurine e i film di Méliès sono colorati a stampo. Gli inventori non evocano altro che un cinema integrale che dia la completa illusione della vita da cui siamo ancor oggi lontani. Il mito direttore del cinema è quindi quello che domina tutte le tecniche di riproduzione meccanica della realtà che nacquero nel XIX secolo dalla fotografia al fonografo. Se il cinema alla nascita non ebbe tutti gli attributi del cinema totale di domani, fu dunque proprio suo malgrado. Gli autentici primitivi del cinema sono ad imitazione integrale della natura. « Il cinema non è ancora stato inventato! » afferma Bazin. Quelli che avevano meno fiducia nello sviluppo industriale del cinema erano stati gli stessi Edison e Lumière. Edison si accontentò del suo cinetoscopio 1 [kinetoscopio] , e Lumière ha rifiutato a Méliès la vendita del proprio brevetto perché pensava di poter ottenere maggior profitto sfruttandolo lui stesso, ma come un oggetto del qualche il pubblico si sarebbe da un giorno all’altro stancato. Marey servì il cinema incidentalmente: aveva in mira un altro obbiettivo ed una volta raggiunto quello si è sentito soddisfatto2. Bernard Palissy e altri maniaci, pionieri disinteressati, non sono né industriali, né scienziati, ma gente posseduta dalla propria immaginazione. Il cinema è nato dalla convergenza della loro ossessione, dal mito del cinema totale. 3 – Vita e morte della sovrimpressione Il fantastico al cinema è consentito solo dal realismo irresistibile dell’immagine fotografica, siccome è essa ad imporci la presenza dell’inverosimile, a introdurlo nell’universo delle cose visibili. Ciò che piace al pubblico nel fantastico cinematografico è il suo realismo (un film a disegni animati quindi perde ogni interesse), la contraddizione fra l’oggettività irrecusabile dell’immagine fotografica e Il cinetoscopio era stato sfruttato fino a quel momento in ambito popolare: era un’attrazione. I film di Edison potevano essere visti, uno alla volta, al prezzo di un nichelino (da qui nasce il termine Nickelodeon). 2 L’invenzione del cronofotografo, che permetteva di fissare fotograficamente le varie fasi di un movimento a scopo di studio. 1 2 il carattere incredibile dell’avvenimento. Non è un caso che il primo a comprendere le possibilità artistiche del cinema, Méliès, fosse un prestigiatore. Vanno presi in considerazione tre film americani usciti subito dopo la guerra, che rivelano la relatività del realismo e della credibilità dei trucchi: Here Comes Mr. Jordan; Tom, Dick, and Harry; Our Town. In Here Comes Mr. Jordan è stato lasciato quasi integralmente al pubblico il compito di interpretare intellettualmente l’immagine, a partire dall’azione, come a teatro. Tre personaggi sono in scena, tra cui un fantasma che è visibile solo ad uno dei due. Lo spettatore non deve perdere di vista questi rapporti. Il sogno resta il pezzo di bravura del fantastico cinematografico, quasi sempre rappresentato con la sovrimpressione. In Tom, Dick, and Harry, si è preferita l’accelerazione per illustrare i sogni di Ginger Rogers e la deformazione di certi personaggi con un trucco ottico e una costruzione drammatica che tiene conto della psicologia moderna. Nonostante ciò la sovrimpressione non rappresenta affatto ciò che sono realmente le allucinazioni o i sogni, o un fantasma. Però in questo film, secondo Bazin, lo humor di cui sono impregnati i sogni non toglie nulla al realismo psicologico di questa commedia. In Our Town abbiamo una ragazza in coma, che sognando di essere morta, assiste mentalmente a certi momenti della proprio vita passata ai quali il suo fantasma ha appena preso parte. lo spettro appare il leggera sovrimpressione, vestito di bianco. Avviene qui qualcosa di anormale, la nostra inquietudine proviene dal fatto che questo era per la prima volta un vero fantasma, logico con sé stesso, trasparente agli oggetti ed alle persone situate dietro di lui, che traversa in modo naturale le cose e le persone. Gli svedesi avevano utilizzato in abbondanza la sovrimpressione. L’America, mettendo in atto il procedimento del dunning3, ha reso inaccettabile certi impieghi della sovrimpressione. Fino ad ora era facile sovrapporre sue fotografie che restavano trasparenti. Grazie al dunning, all’impiego della pellicola bipack (due strati di orto e pacro separati da uno strato di filtro rosso) e ad un miglioramento della messa a punto dei mascherini, è adesso possibile ottenere una sovrapposizione opaca di due fotografie. Queste proprietà sovrannaturali sono indispensabili alla verosimiglianza. La sovrimpressione non può far altro che suggerire l’immaginario, ma il suo valore descrittivo nell’evocazione del soprannaturale risulta insufficiente. 4 – A proposito di Why we fight La guerra ha rivalorizzato il reportage e il documentario. Una messa in scena reale e che avviene una sola volta. La guerra lascia indietro l’arte dell’immaginazione che intendeva ricostruirla. Bazin accenna ad un « complesso di Nerone », ossia la 3 Un metodo su bipack utilizzato per la costruzione di mascherini mobili (da Carrol D. Dunning’s). 3 tendenza degli esseri umani ad essere attratti dalla distruzione e dal dolore, pur ripudiandoli idealmente. L’uomo moderno avverte la necessità di partecipare alla Storia. La Storia non è un balletto perfettamente regolato in anticipo, conviene sparpagliare sul suo passaggio il maggior numero di macchine da presa per essere sicuri di coglierla sul fatto4. Il cameraman correva altrettanto pericolo dei soldati di cui era incaricato di filmare la morte, anche a costo della sua vita. Viviamo in un mondo che tende a trasmutare la propria immagine, i cinegiornali sono uno dei mezzi più diffusi, il mondo è spogliato davanti all’obbiettivo delle telecamere. Parliamo dei film della serie Why we fight5: essi ebbero il merito di introdurre un tono nuovo nell’arte di propaganda, misurato, convincente senza violenza, didattico e coinvolgente. Un genere nuovo: il documentario ideologico di montaggio. Frank Capra presenta una doppia originalità: nessuna delle riprese che li compongono è stata realizzata in vista di questi film. Sono film astratti, puramente logici. Hanno stabilito una perfezione che è difficile venga superata, perché si servono di materiali di repertorio, documenti storici e più concreti. I migliori documentari di montaggio non erano altro che racconti, questi sono un discorso. Le teorie del cine-occhio di Dziga Vertov6 cominciano a verificarsi in un senso che il teorico non aveva neppure previsto, visto che gli archivi dovevano essere così completi da contenere un avvenimento intimo come la danza dello scalp di Hitler al Carrefour de Rethondes. Il principio è il prestito alle immagini della struttura logica del discorso e al discorso stesso la credibilità e l’evidenza dell’immagine fotografica. Lo spettatore ha l’illusione di assistere ad una dimostrazione visiva, mentre non è altro che la rappresentazione di fatti univoci che stanno insieme solo grazie alle parole che li accompagnano. L’essenzialità è nella colonna sonora. Questi film si basano su un 4 Negli appunti viene accennato il fatto che, effettivamente, il guadagno derivava, più che dalla vendita delle armi, dallo sfruttamento industriale del cinema e dalla circolazione dei film di quel tempo. 5 1942-1945 6 « Il Kinoglaz, ... "ciò che l'occhio non riesce a vedere", ... il microscopio e il telescopio del tempo, ... il negativo del tempo, ... la possibilità di vedere senza confini né distanze, ... "la vita colta sul fatto" ... non in quanto tale, ma per mostrare gli uomini senza maschera e senza trucco, per coglierli con l'occhio della cinepresa nel momento in cui non stanno recitando, per leggere i loro pensieri messi a nudo dalla cinepresa ... [per Kinoglaz si sottintendono] ... tutti i mezzi cinematografici, tutte le invenzioni cinematografiche, tutti i procedimenti e i metodi capaci di scoprire e mostrare la verità ... Il Kinoglaz come possibilità di rendere visibile l'invisibile, di rendere chiaro ciò che è oscuro, palese ciò che è nascosto, di smascherare ciò che è celato, di trasformare la finzione in realtà, di fare della menzogna verità. Il Kinoglaz come fusione della scienza e della cinecronaca allo scopo di lottare per la decifrazione comunista del mondo, come tentativo di mostrare sullo schermo la verità: la cineverità » - Dziga Vertov, 1924. 4 abuso dei valori, della psicologia, della credenza e percezione. Lo spirito utilizza gli elementi frammentari di questi film e ricostruisce gli eventi, come se fossero stati ripresi davvero. Il cinema dà alle scienze storiche un potere supplementare. 7 5 – Morte ogni pomeriggio Bazin comincia parlando di Pierre Braunberger, elogiando le capacità di montaggio di Myriam Borsoutsky, evidenziandone l’ultimo film La course de taureaux8, che mostrava un torero ed un toro dal vivo e il toro aveva i suoi primi piani senza il bisogno di essere sostituito da una testa impagliata. Paris 1900 e La course de taureaux non sono un « cine-occhio », sono opere « moderne » esteticamente contemporanee del découpage9 di Citizen Kane, della Règle du jeu, di The little foxes e di Ladro di biciclette. Non ha in questo film lo scopo di suggerire rapporti simbolici e astratti fra le immagini10. Esso deve pervenire alla verosimiglianza fisica del découpage e insieme alla sua malleabilità logica. Myriam puntava al realismo fisico, alla verosimiglianza del découpage. Non è più il cine-occhio, ma l’adattamento della tecnica del montaggio all’estetica della camérastylo. L’esperienza del teatro filmato ci ha fatto prendere coscienza del ruolo della presenza reale. La presenza reciproca, il confronto in carne ed ossa dello spettatore e dell’attore non è un semplice accidente fisico ma un fatto ontologico costitutivo dello spettacolo in quanto tale. La corrida è ancor meno cinematografica del teatro, può avere un valore documentario o didattico. Bazin sostiene che il film restituisca l’essenzialità di una vera corrida: la morte. Per questo l’arena è qualcosa di più della scena teatrale. Il cinema raggiunge, o costruisce il suo tempo estetico solo sulla base del tempo vissuto, della « durata » bergsoniana, irreversibile e qualitativa per essenza. Io non posso ripetere un solo istante della mia vita, ma uno qualsiasi di questi istanti il cinema può ripeterlo indefinitamente davanti a me. In rapporto alla morte si definisce il tempo qualitativo della vita, è l’ultimo istante. Due momenti della vita sfuggono radicalmente a questa concessione della coscienza: l’atto sessuale e la morte. Negazione assoluta del tempo oggettivo: istante qualitativo allo stato puro. Come la morte, l’amore si vive e non si rappresenta, perciò è definito la piccola morte, o almeno non lo si rappresenta senza la violazione della sua natura. L’oscenità. Solo il cinema può rappresentare il passaggio impercettibile 7 Articoli del 1945-1946 1951 9 Il termine indica il « copione di montaggio », ovvero il taglio o la scansione della sceneggiatura in inquadrature. Il termine francese insiste di meno sulla parte letteraria e più su quella della scansione, del taglio. 10 Come la famosa esperienza di Kulešov col primo piano di Mozžukin: l’immagine dell’attore quando era messa accanto ad immagini diverse, faceva sembrare che egli stesse esprimendo emozioni diverse. 8 5 tra un’agonizzante ed un cadavere. Ne abbiamo un esempio nel 1949 in un cinegiornale che documenta le repressioni anticomuniste a Shangai. Ad ogni spettacolo quegli uomini erano di nuovo vivi. Spettacolo intollerabile per la sua oscenità ontologica. La ripresa della messa a morte di un toro è altrettanto emozionante dello spettacolo dell’istante reale che riproduce. Gli conferisce una solennità supplementare. Sullo schermo il torero, Manolete, muore ogni pomeriggio. 6 – Il mito di Stalin nel cinema sovietico La « messa in scena » di personaggi storici viventi pare aver assunto un’importanza centrale solo con Stalin, afferma Bazin. Fin dalla guerra egli appariva sullo schermo in film storici che non erano montaggi di attualità. Vediamo l’attore Gelovani incarnare Stalin in molti dei film ove lo vediamo protagonista. Ne Il giuramento è stata mutilata una scena in cui George Bonnet ballava il lambert walk e anche una in cui compariva Hitler. Ne La battaglia di Stalingrado apparivano Hitler, Churchill e Roosevelt. Queste « composizioni » erano meno convincenti di quelle di Stalin. Lo spettatore moderno prova un certo disagio quando un attore rende un personaggio storico celebre, anche se morto. Questo imbarazzo può esser compensato dell’aspetto prodigioso dello spettacolo e dall’ammirazione per la prestazione dell’attore. La compensazione è più dubbia se si tratta di personaggi contemporanei e viventi. In genere non si tratta mai di contemporanei politici. L’audacia del cinema sovietico può essere considerata come un’applicazione lodevole del materialismo storico. Sensazione delle responsabilità dell’uomo davanti alla Storia. Vediamo Stalin in tre film sovietici recenti: Il terzo colpo; La battaglia di Stalingrado; Il giuramento. Nei primi due l’opposizione fra il campo di battaglia ed il Cremlino, paragona il disordine apocalittico della lotta militare con il silenzio laborioso dell’ufficio di Stalin. Nel secondo la serenità pensosa è opposta all’atmosfera isterica dello stato maggiore di Hitler. Di fatto si preferisce rappresentare il generalissimo in ricognizione motorizzata al fronte piuttosto che al suo tavolo da lavoro. Ci vuole una singolare fiducia del soldato nei suoi capi, logica in una guerra autenticamente socialista. Si attribuisce a Stalin un genio militare ipernapoleonico e il principale merito della concezione della vittoria. Stalin decide da solo, nel film, Vasilevskij è sempre lì, ma non dice una parola e fa solo il confidente. Una concezione centralizzatrice. Immagine amorfa della guerra, un cataclisma umano. Al vertice c’è lo spirito unico ed onnisciente per il quale questo apparente caos si ordina e si risolve in una decisione infallibile. Presentazione degli avvenimenti che contiene una verità se si decide di conservare non i fatti ma una sorta di schema semplificato. Attributi non psicologici, ma solo ontologici di Stalin, un generale infallibile. 6 Questi film sovietici pretendono di essere realistici. Stalin è visto come un dio familiare, una trascendenza incarnata. La sua biografia si deve identificare con la Storia, perché un uomo non vale che alla luce della Storia. Non si può ridurre l’uomo a non essere che Storia, senza compromettere reciprocamente questa Storia con la soggettività presente dell’individuo. La Storia postula un idealismo esacerbato, un manicheismo assoluto dove le forze antistoriche derivano direttamente dal Diavolo e il tradimento dal possesso. In questa prospettiva non possiamo sottovalutare la rappresentazione di Stalin, perché essa implica che l’identificazione si è ormai definitivamente compiuta fra Stalin e la Storia, che le contraddizioni della soggettività non si pongono più per quanto lo riguarda. Egli è la Storia incarnata. La sua psicologia si riduce alle qualità più conformi all’allegoria. Ne Il giuramento, nella scena del trattore, arriva alla Piazza Rossa il primo trattore agricolo costruito in URRS, la macchina di colpo si blocca. Il meccanico è disperato, quando arriva Stalin e capisce subito che il problema sta nelle candele. Il cinema è per essenza incontestabile come la Natura e come la Storia. 11 7 – Appendice In questa appendice Bazin discute della constatazione, rispetto al suo articolo del 1950 [qua sopra] su « Esprit », da parte di Chruščëv, che pompa rigorosamente la figura di Stalin affermando « Se Stalin diceva una qualsiasi cosa, s’immaginava che sarebbe stato così. Dopotutto era un genio e a un genio basta gettare uno sguardo per poter dire immediatamente come dovranno andare le cose. ». 8 – Pasticcio e posticcio o il nulla per dei baffetti In questo articolo Bazin esamina Il dittatore di Charlie Chaplin. Adolf Hitler aveva commesso un grande errore imitando Charlot, dando inizio ad una truffa all’esistenza che l’altro non dimenticherà. Doveva pagarla cara. La dialettica è sottile: 1 – Hitler prende a Charlot i baffetti; 2 – Charlot si riprende i baffetti, ma questi baffetti sono diventati nel frattempo dei baffetti alla Hitler. Hinkel12 è la catarsi ideale di Hitler. Charlot non uccide il suo avversario con il ridicolo. Crea di fronte a lui un dittatore perfetto, assoluto, necessario, nei cui confronti siamo liberi da ogni impegno storico e psicologico. Ci inquieta ancora l’incertezza della morte di Hitler, afferma Bazin. Non ci libereremo di lui che quando non ci sentiremo più impegnati nei suoi confronti, quando lo stesso odio non avrà più senso. Hinkel non ci 11 12 Articolo del 1950. Personaggio, imitazione di Hitler, ne Il dittatore. 7 ispira né odio, né pietà, né collera, né paura: Hinkel è il nulla di Hitler. Disponendo della sua esistenza Charlot gliel’ha ripresa per annientarla. Il ricordo in noi di Hitler dalla tribuna di Monaco è più forte della parodia; esso disinnesca l’operazione. Hitler si è imitato, in certi campi, con più genio di Charlot, e detiene ancora qui la matrice della propria personalità. Nei film di Capra, Hitler ha incontestabilmente una realtà più ideale, meno accidentale ancora di Hinkel. Quest’ultimo diventa l’essere accidentale. Un furto ontologico che poggia in ultima analisi sull’effrazione dei baffetti. Chaplin senza baffetti non è più Charlot e bisognava che Hinkel provenisse sia da Hitler che da Charlot, uno e l’altro, per essere niente. Charlot ha atteso il tempo dovuto, ma ha saputo riprendersi il suo bene. 13 8 – Introduzione a una simbolica di Charlot Charlot è un personaggio mitico, un eroe per milioni di uomini come lo erano Ulisse e Orlando. La continuità di Charlot non può essere colta se non attraverso i film che egli abita. Il pubblico lo riconosce dal viso e soprattutto dai baffetti a trapezio e dalla camminata da anatra piuttosto che dall’abito che, neppure qui, fa il monaco: in numerose comiche Charlot porta lo smoking o il frac elegante da miliardario. Le costanti interne del personaggio sono più difficili da descrivere: cerca di aggirare la difficoltà invece che risolverle, una soluzione provvisoria gli basta come se l’avvenire non esistesse per lui. Nessuna situazione lo lascia mai disarmato. C’è una soluzione per tutto, benché il mondo degli oggetti non sia fatto per lui. La funzione utilitaria degli oggetti si riferisce ad un ordine umano previdente per l’avvenire. Gli oggetti non servono a Charlot come servirebbero a noi. La società non lo integra mai se non per un malinteso. Egli usa gli oggetti con una goffaggine ridicola (es. a tavola), o sono gli oggetti stessi a rifiutarsi. La sua esigenza di semplicità ed efficacia è tutta diretta verso la chiarezza il più possibile ellittica della gag, ma una volta conclusa Charlot non la tira per le lunghe. Giunge ad una specie di perfezione limite, densità suprema dello stile. Egli aveva bisogno del cinema per liberare al massimo la comicità dalle servitù dello spazio e del tempo imposte dal palcoscenico e dal circo. 13 Articolo del 1945. 8 I migliori film di Chaplin possono essere rivisti più volte senza che il piacere ne sia diminuito, al contrario. La forza comica, esaurita alla prima visione, lascia il posto a un piacere molto più raffinato che è l’attesa e il riconoscimento di una perfezione. Charlot spinge fino all’assurdo la sua tendenza a non superare l’istante. Per un secondo la minaccia sarà illusoriamente scartata. Egli è l’immaginazione senza limiti davanti al pericolo. Invece che risolvere il problema egli sopprime le apparenze. I riflessi di difesa pervengono in Charlot a un riassorbimento del tempo da parte dello spazio. Sprofonda nelle apparenze come un granchio nella sabbia. Il distacco supremo nei confronti del Tempo biografico e sociale egli lo esprime con un gesto familiare e sublime: la pedata all’indietro. Bazin ci vede il riflesso di un’attitudine vitale: Charlot non ama prendere di fronte la difficoltà, preferisce attaccarla di sorpresa voltandole le spalle. La pedata all’indietro esprime, d’altra parte, la cura costante che egli ha di non essere attaccato al passato, di non portarsi niente dietro. Quando Charlot ha con un oggetto un rapporto di durata, ha un crampo meccanico, un’abitudine superficiale in cui si dissolve la coscienza della causa iniziale del movimento (es. Tempi moderni: egli continua ad avvitare dei bulloni immaginari). Non c’è esempio di meccanizzazione che gli faccia brutti scherzi. L’azione di Charlot, a differenza di quella dell’uomo-della-Società, è fatta di una successione di istanti: a ciascuno di essi basta la sua fatica. Ma per pigrizia egli riproduce negli istanti successivi la soluzione che conveniva in un momento dato. Il suo peccato capitale è la « ripetizione ». Charlot è totalmente indifferente alle categorie del sacro (la vita religiosa). I suoi più vecchi film sono una summa anticlericale (es. Il pellegrino). Non c’è però alcuna volontà sacrilega. Ma è peggio: una specie di riduzione al nulla di ciò che giustifica questi personaggi, le loro credenze e atti. Charlot non ha nulla contro di essi, può persino imitare i riti dell’Ufficio domenicale, mimare un sermone per sviare i sospetti della polizia. Il sacro è sempre presente nella vita sociale, ma egli lo rifugge, la stessa categoria non esiste per lui. La sua comicità nasce dagli sforzi che gli capita di compiere per rifarci il verso. 14 9 – Montaggio proibito Bazin comincia la discussione accennando ad alcuni film per ragazzi del tempo, cercando veri film che non siano cortometraggi adatti ad un pubblico infantile. Come Rousseau afferma, la letteratura per ragazzi non è inoffensiva. Universi immaginari che non hanno niente di puerile. Gli autori della vera letteratura infantile non sono 14 Articolo del 1948. 9 dunque che raramente educativi (Jules Verne è forse il solo). Sono poeti la cui immaginazione ha il privilegio di essere rimasta sulla lunghezza d’onda onirica dell’infanzia. È facile sostenere che la loro opera è adatta solo agli adulti. Non è edificante, ma si tratta di un punto di vista pedagogico e non estetico. Il fatto che anche un adulto vi trovi un piacere, forse più completo rispetto al bambino è un segno del valore dell’opera. Confrontando Une Fée pas comme les autres15, e Ballon rouge16, il proposito di Bazin è quello di analizzare alcune leggi del montaggio nel loro rapporto con l’espressione cinematografica e con la sua ontologia estetica. L’uno e l’altro dimostrano perfettamente le virtù e i limiti del montaggio. Cominciando con il film di Tourane, constata che si tratta di una straordinaria illustrazione dell’esperimento di Kulešov. Egli cerca di rifare Walt Disney con dei veri animali. Noi leggiamo sull’anatomia degli animali solo gli stati d’animo che abbiamo loro più o meno attribuito sulla base di certe somiglianze esteriori con l’anatomia o il comportamento dell’uomo. L’antropomorfismo non è condannabile a priori. Nel caso di Tourane si tratta del livello più basso. Insieme il più falso scientificamente e il meno trasposto esteticamente. I suoi animali non sono addestrati, sono addomesticati. Non realizzano mai quello che li si vede fare. Loro restano immobili nella posizione in cui li ha piazzati per la durata della ripresa, l’ambiente circostante, il travestimento, il commento bastano già a conferire all’andatura della bestia un senso umano, che il montaggio poi amplia. L’azione apparente e il suo senso non esistono. Era necessario fare questo film « in montaggio ». Se gli animali fossero stati addestrati, l’attenzione sarebbe caduta non sulla storia, ma alla loro prodezza. Il montaggio mantiene lo spettacolo nella sua irrealtà necessaria. Ballon rouge – di Lamorisse – invece non deve e non può dover nulla al montaggio. Il palloncino rosso compie davanti alla macchina da presa i movimenti che gli vediamo compiere. Si tratta di un trucco, l’illusione nasce qui dalla realtà, non dai prolungamenti dati dal montaggio. Il palloncino di Lamorisse ci 15 16 Jean Tourane, 1957 (The Secret of Magic Island). Albert Lamorisse, 1956. 10 rimanda alla realtà. L’illusione è qui più perfetta, ma non irrivelabile. L’importante non è che il trucco sia invisibile ma che ci sia trucco o no. Questa storia deve tutto al cinema perché essenzialmente non gli deve niente. Il montaggio, che si ripete essere l’essenza del cinema, è qui il procedimento letterario e anti cinematografico per eccellenza. Lamorisse ha speso 500.000 franchi di palloncini rossi per non mancare di doppioni. In Crin Blanch17 più cavalli componevano un cavallo unico. Il ragazzino reclutato da Lamorisse non aveva mai avvicinato un cavallo. Più di una scena, fra le più spettacolari, è stata girata quasi senza trucchi e sfidando il pericolo. È il trucco, il sotterfugio, a permettere all’immaginario di integrare la realtà e sostituirvisi. Noi possiamo credere alla realtà degli avvenimenti pur sapendoli truccati. Non importa che l’animale che vediamo trascinale il piccolo Folco sia il falso Crin Blanch e neppure che lo stesso Lamorisse in questa operazione pericolosa abbia doppiato il ragazzo, afferma Bazin, ma quando la macchina da presa si è fermata e non ha mostrato in maniera inconfutabile la prossimità fisica del cavallo e del bambino. Ciò avrebbe autentificato tutte le inquadrature precedenti. Lamorisse doveva legare con una stessa inquadratura i due protagonisti. Bisogna solo che l’unità spaziale dell’avvenimento sia rispettata nel momento in cui la sua rottura trasformerebbe la realtà nella sua semplice rappresentazione immaginaria. Nelle note, Bazin aggiunge l’esempio di Where no Vultures Fly18, del quale ricorda una sequenza indimenticabile: è la storia, veridica, di una giovane coppia che creò ed organizzò in Sud Africa una riserva di animali, vivendo con il figlio in piena brousse. Il bambino, nella scena descritta, si allontana all’insaputa dei genitori, s’imbatte in un giovane leoncino momentaneamente abbandonato dalla madre. Il bambino ignaro del pericolo prende in braccio il leoncino per portarlo con sé. La leonessa se ne accorge e lo segue. Il gruppo arriva in vista dell’accampamento da dove i genitori, angosciati, vedono il figlio arrivare, seguito dalla leonessa. Fino ad ora tutto in montaggio parallelo. All’improvviso ci vengono offerti nello stesso totale i genitori, il bambino e la belva (la leonessa era stata semi-addomesticata). Questa inquadratura diventa quindi autentica. 17 18 Lamorisse, 1952-53. Harry Watt, 1951. 11 « Quando l’essenziale di un avvenimento dipende da una presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, il montaggio è proibito. ». 10 – L’evoluzione del linguaggio cinematografico La rivoluzione tecnica dalla pista sonora corrisponde veramente a una rivoluzione estetica? Sembrava, nel 1928, che l’arte del cinema muto fosse estremamente adatta allo « squisito impedimento » del silenzio e che il realismo sonoro non potesse quindi gettarlo nel caos. Certi valori del cinema muto rimangono in quello parlato, ma principalmente, più che il « muto » e il « parlato », si tratta di opporre delle famiglie di stili, concezioni diverse dell’espressione cinematografica. Distinguerò, scrive, nel cinema dal ’20 al ’40 due grandi e opposte tendenze: i registi che credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà. Per « immagine » intendo tutto ciò che alla cosa rappresentata può aggiungere la sua rappresentazione sullo schermo. La plasticità dell’immagine e le risorse di montaggio – organizzazione delle immagini nel tempo. Lo stile della scenografia, il trucco, la recitazione (limitata), l’illuminazione e l’angolazione. Creando il « montaggio parallelo » Griffith pervenne a esprimere la simultaneità di due azioni lontane nello spazio. Con il « montaggio accelerato » Gance ci dà l’illusione dell’accelerazione di una locomotiva (moltiplicando inquadrature sempre più brevi). Infine, il « montaggio delle attrazioni » di Ejzenštejn potrebbe definirsi come il rafforzamento del senso di un’immagine, mediante l’accostamento di un’altra immagine diversa. Raramente utilizzato, quest’ultimo, anche dal suo creatore, ma si può considerare vicina la pratica diffusa dell’ellissi, del paragone o della metafora. Questi ultimi due personaggi non mostravano l’avvenimento, vi alludevano soltanto. Attingevano alla realtà che volevano descrivere, ma il significato finale del film risiedeva molto più nell’organizzazione degli elementi che nel loro contenuto oggettivo. Il cinema predispone di procedimenti per imporre allo spettatore la propria interpretazione dell’avvenimento rappresentato. Poi abbiamo quei registi che credono che l’immagine non conti prima di tutto per ciò che aggiunge alla realtà, ma per ciò che ne rivela. Quelli della « realtà ». Per questi il mutismo del film costituiva di fatto un’infermità. Parliamo di Stroheim, Murnau o Flaherty (ma anche Griffith al di fuori del montaggio) che nei loro film ricercavano la crudeltà e la bruttezza del mondo. 19 Per il primo ho utilizzato un’immagine di Ottobre (1928) di Ejzenštejn, mentre per il secondo ne ho utilizzata una di Greed (1924) di Stroheim. 19 12 Dal 1930 al 1940 sembra essersi affermata nel mondo, soprattutto in America, una certa comunità d’espressione nel linguaggio cinematografico, il trionfo a Hollywood di generi come: la commedia americana, il « burlesque », il film di danza e di varietà, i polizieschi e di gangster, il dramma psicologico e di costume, il film fantastico e d’orrore e il western. Il secondo cinema del mondo è quello francese: affermatosi in una tendenza che si può grossolanamente definire del realismo nero o poetico (dominato da Feyder, Renoir, Carné e Duvivier). Queste due produzioni sono sufficienti a definire il cinema parlato d’anteguerra. Una totale riconciliazione dell’immagine e del suono. Si ha la sensazione, rivedendo quei film, che quest’arte avesse trovato il suo equilibrio perfetto, la sua forma di espressione ideale20. Tutti i caratteri della pienezza di un’arte « classica » (nel ‘38-‘39). La vera rivoluzione è avvenuta molto più a livello dei soggetti che a quello dello stile. Il cinema ha da dire al mondo (non si occupa della maniera di dirlo). Perfezione fondata da un lato sulla maturità dei generi drammatici, dall’altro sulla stabilizzazione dei progressi tecnici21. L’operatore ha potuto eliminare lo sfondo sfocato, generalmente di rigore. Si possono trovare esempi di uso della profondità di campo22. Nel 1938 si trova ovunque lo stesso tipo di découpage. Se chiamiamo convenzionalmente la categoria di film muti basati sulla plasticità « espressionista » o « simbolista », potremo qualificare la nuova forma di narrazione come « analitica » e « drammatica », nelle inquadrature noteremmo: la verosimiglianza dello spazio, è sempre determinata la posizione del personaggio; le intenzioni e gli effetti del découpage sono esclusivamente drammatici e psicologici. I cambiamenti dei punti di vasta della macchina da presa non aggiungono nulla all’avvenimento. Essi si limitano a presentare la realtà in una maniera più efficace. Il découpage di Carné rimane al livello della realtà che egli analizza, non è altro che una maniera di guardarla bene. Questa pratica del montaggio aveva le sue origini già nel cinema muto (per es. con Griffith in Broken Blossoms23), che introduceva già quella concezione sintetica del montaggio: 1. La storia veniva descritta attraverso una successione di inquadrature il cui numero variava poco (circa 600); 2. Tecnica caratteristica era il campo-controcampo. Questo tipo di découpage è stato rimesso in causa da Orson Welles. La fama di Citizen Kane24 non sarà mai troppa. Grazie alla profondità di campo, scene intere 20 Bazin accenna ad alcuni film di quel periodo: Jezebel (1938) di Wyler, Stagecoach (1939) di Ford e Le jour se lève (1939) di Carné. 21 Gli anni ’30 sono stati quelli del suono e della pellicola pancromatica contemporaneamente. 22 Possibile da ottenere in studio, al prezzo di qualche prodezza. Perciò più che di un problema tecnico si trattava di una scelta stilistica. 23 1919 [immagine a destra]. 24 Orson Welles, 1941 (Quarto potere) [immagine piano-sequenza a pag.14]. 13 sono girate senza interruzione, a volte anche con la macchina da presa immobile. Gli effetti drammatici nascono ora tutti dallo spostamento degli attori nell’inquadratura. Egli non ha inventato la profondità di campo (come Griffith non ha inventato il primo piano). Tutti i primitivi del cinema l’hanno usata. La sfocatura dell’immagine non è apparsa che col montaggio. Essa era una servitù tecnica, come una conseguenza logica del montaggio. Se dovessimo cercare un precursore di Welles lo troveremmo in Renoir, per cui la ricerca della composizione in profondità corrisponde a una parziale soppressione del montaggio, sostituito dalle frequenti panoramiche e dalle entrate in campo. La disposizione di un oggetto in rapporto ai personaggi è tale che lo spettatore non può evitarne il significato. Significato che il montaggio avrebbe spezzettato in uno svolgersi di successive inquadrature. Il piano-sequenza non rinuncia al montaggio ma lo integra alla propria plasticità. Il racconto di Welles o di Wyler non è meno esplicito di quello di Ford, ma ha su quest’ultimo il vantaggio di non rinunciare agli effetti tratti dalla unità dell’immagine nel tempo e nello spazio. Non è per nulla indifferente infatti che un avvenimento sia analizzato per frammenti oppure rappresentato nella sua unità fisica. Una maniera più economica, semplice e sottile allo stesso tempo di valorizzare l’avvenimento. 1. La profondità di campo pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che ha con la realtà; 2. Implica un atteggiamento mentale più attivo, invece che uno spettatore che “segue la guida” del montaggio analitico, ne abbiamo uno che contribuisce alla messa in scena; 3. Dalle due precedenti, di ordine psicologico, ne deriva una di ordine metafisico. Il montaggio si oppone per natura all’espressione di ambiguità. Al contrario, la profondità di campo reintroduce l’ambiguità nella struttura dell’immagine se 14 non come una necessità, almeno come una possibilità. Citizen Kane, per questo, si dice che sia inconcepibile senza profondità di campo. Se il montaggio accelerato barava col tempo e con lo spazio, quello di Welles non cerca di ingannarci, ma si pone per contrasto come un condensato temporale di un cinema senza montaggio. I film neorealistici italiani di Rossellini e di De Sica sono meno spettacolari, ma mirano anch’essi ad annullare il montaggio e a rendere sullo schermo la continuità vera della realtà25. Jean Renoir, fu il solo le cui ricerche di regia si sforzino, fino a La regle du jeu26, di ritrovare, al di là delle facilitazioni del montaggio, il segreto di un racconto cinematografico capace di esprimere tutto senza spezzettare il mondo. Abbiamo introdotto quindi l’idea di un progresso dialettico, partito dagli anni ’40. Il parlato ha causato la morte di una certa estetica del linguaggio cinematografico, ma solo di quella che più lo allontanava dalla sua vocazione realistica. Il cinema degli ultimi dieci anni, dice Bazin, si rifà alla tendenza di Stroheim e Murnau. Esso non si limita a prolungare questa tendenza, ma vi attinge il segreto di una rigenerazione realistica del racconto, che ridiviene capace d’integrare il tempo reale delle cose (al quale il découpage classico aveva sostituito insidiosamente un tempo intellettuale e astratto). 27 11 – William Wyler o il giansenista della messa in scena La regia di Wyler ha una materia drammatica molto varia. Si constata una evidente predilezione per le storie psicologiche su sfondo sociale. La sicurezza del suo gusto non è infallibile, ma nessuno potrà mai coglierlo in flagrante delitto di abuso di fiducia nella forma. Wyler ha solo uno stile, ecco perché è al riparo dal pastiche28, anche di sé stesso. Egli non può avere imitatori, solo discepoli. Per esempio prendiamo The Little Foxes29, perché vi si trova subito una spinta verso il paradosso. Il film rispetta quasi integralmente il testo di Lillian Hellman. Se qualcuno dicesse che i nove decimi del film si svolgono nello stesso ambiente di un salone tipico del teatro, pensereste di aver ancora molto da imparare sul cinismo dei fabbricanti di teatro filmato, ma se aggiungesse inoltre che il découpage del film 25 Bazin porta gli esempi di Paisà e Germania anno zero di Roberto Rossellini e di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Zavattini voleva filmare novanta minuti della vita di un uomo al quale non succedeva niente. Luchino Visconti ha rivelato lo scopo fondamentale della sua arte ne La terra trema, film composto quasi unicamente di piani-sequenza. 26 1939 [immagine a destra]. 27 Articoli del 1950-1955. 28 Opera letteraria, artistica o musicale in cui l'autore ha deliberatamente imitato lo stile di un altro o di altri autori; tecnica compositiva che fonde insieme sottocodici, registri, lingue e stili diversi. 29 1939 [immagine a sinistra]. 15 conta solo dieci movimenti di macchina e che la macchina da presa si limita quasi sempre a restare piantata senza muoversi davanti agli attori, la vostra opinione sarebbe definitiva: « Non ci mancava che questa! ». Eppure è su questi dati paradossali che Wyler ha realizzato una delle opere più puramente cinematografiche che siano state mai fatte. La scala ha la stessa funzione di un praticabile drammatico che si userebbe in uno spettacolo teatrale. Prendiamo la scena capitale del film The Little Foxes: la morte di Herbert Marshall. Bette Davis è seduta in secondo piano, frontale rispetto al pubblico, la testa al centro dello schermo; un’illuminazione tagliente accentua la macchia bianca del viso truccatissimo. In primo piano, come esca, Herbert Marshall, seduto di tre quarti. Le battute implacabili fra la moglie e il marito vengono scambiate senza che muti inquadratura, quindi segue la crisi cardiaca del marito che supplica la moglie di andargli a prendere le gocce in came ra. Marshall è costretto lui stesso ad alzarsi e salire le scale per prender e la medicina, questo sforzo lo ucciderà. Tutto l’interesse drammatico sta nella valorizzazione dell’immobilità. A teatro questa scena sarebbe stata costruita alla stessa maniera. Lo spettatore avrebbe provato lo stesso orrore per l’immobilità criminale di Bette Davis. Nonostante le apparenze però la regia di Wyler si serve al massimo dei mezzi che gli offrono la macchina da presa e l’inquadratura. La videocamera non segue la vittima, ma rimane immobile, permettendo ad essa di uscire e entrare nuovamente in campo. La morte di Marshall non è ben distinguibile siccome il regista ha chiesto al suo operatore, Gregg Toland30, di non mettere a fuoco su tutta la profondità di campo. È qui la macchina da presa ad organizzare l’azione. Ne I migliori anni della nostra vita 31, si presentava un soggetto originale. Il romanzo in versi di MacKinlay Kantor, da cui Robert Sherwood ha tratto la sceneggiatura. Non fu rispettato come il lavoro precedente. Goldwyn e Wyler hanno voluto fare di questo film un’opera tanto civica quanto artistica, attraverso una storia romanzata, ma verosimile, si trattava di esporre uno dei problemi sociali più dolorosi del dopoguerra americano. In questo film lo scrupolo etico della realtà ha trovato la sua trascrizione estetica nella messa in scena. Wyler ha cercato di trovare degli equivalenti estetici nella regia. Bazin aggiunge, citerò il realismo della scenografia costruita a dimensioni reali e nella sua interezza. Gli attori portavano vestiti simili a quelli che i loro personaggi avrebbero portato nella realtà, e i loro visi non erano più truccati che in città. Scrupoli insoliti ad Hollywood. 30 Direttore della fotografia anche in Citizen Kane (1941), Toland sarà anche di grande aiuto a Welles per la comprensione delle apparecchiature cinematografiche. 31 1946 [immagine a pag. 17]. 16 Non è con pezzi di carne o alberi in scena alla Antoine32 che si definisce il realismo, ma con i mezzi d’espressione che una materia realistica permette all’artista di scoprire. La tendenza realistica ha conosciuto alterne fortune, ma le forme che ha potuto prendere sono sopravvissute solo in proporzione dell’invenzione estetica che essa implicava. Non c’è uno, ma dei realismi. Come captare e trasmettere al meglio la realtà attraverso lo schermo. Al cinema non può essere altro che una rappresentazione della realtà. Il problema estetico comincia con i mezzi di questa rappresentazione. Il regista che fa il découpage per noi, fa al posto nostro la discriminazione che ci spetta nella vita reale. Accettiamo inconsciamente la sua analisi perché essa è conforme alle leggi dell’attenzione, ma essa ci priva del privilegio della libertà, virtuale, di modificare ad ogni istante il nostro sistema di découpage. Questa tecnica « soggettivizza » l’avvenimento all’estremo poiché ogni particella è dovuta al partito preso del regista. Grazie alla profondità di campo lo spettatore ha la possibilità di fare a meno da sé dell’operazione finale del découpage. Wyler ha intenzione di cercare un realismo il più semplice possibile. Un proposito sensibilmente diverso da quello di Welles o di Renoir. Quest’ultimo utilizzava la regia simultanea e laterale soprattutto per rendere sensibile l’interferenza degli intrighi, come appare nella festa al castello in La regle du jeu. Welles cerca a volte una sorta di oggettivismo tirannico, a volte uno stiramento sistematico della realtà in profondità. Wyler ha scelto tutt’altra cosa: rendere totalmente e simultaneamente presenti l’ambiente e gli attori di modo che l’azione non sia mai una sottrazione, ma la più perfetta neutralità. Wyler vuol permettere allo spettatore di: 1. Vedere tutto; 2. Di scegliere « a suo gradimento », rassicurando lo spettatore e lasciandogli il modo di osservare, di scegliere e di farsi un’opinione grazie alla lunghezza delle inquadrature. La sua profondità di campo vuol essere liberale e democratica. Toland utilizzò una tecnica diversa: nell’illuminazione Wyler André Antoine, regista e attore di teatro francese della fine dell’Ottocento, famoso per il minuzioso realismo delle sue messe in scena. 32 17 ne ha richiesta una più neutra possibile, non estetica, neppure drammatica, luce onesta che illumini a sufficienza l’attore e l’ambiente che lo circonda. Gli obiettivi usati in I migliori anni della nostra vita, sono più conformi alla geometria di una visione normale, a causa della loro focale lunga, tendevano a schiacciare la scena 33. Tutto tende alla neutralità, questa messa in scena si definisce tramite la sua assenza. Un universo rigorosamente conforme alla realtà, ma anche modificato il meno possibile dall’ottica della macchina da presa. Più l’immagine tende ad identificarsi con la realtà, più il problema psicotecnico dei raccordi diviene complesso. Egli doveva ridurre al minimo il numero delle inquadrature utili alla chiarezza del racconto. I migliori anni della nostra vita ha 190 inquadrature all’ora, approssimativamente 500 inquadrature, per un film di 2 ore e 40’ (i film moderni ne comportano in media da 300 a 400 all’ora). Lo stesso découpage è singolarmente ridotto: l’inquadratura e la sequenza tendono ad indentificarsi. Molte scene sono trattate in una sola e unica inquadratura fissa (piano-sequenza).34 In Wyler l’estetica del découpage rimane costante, i procedimenti di racconto mirano ad assicurargli efficacia drammatica. Sarebbe ingenuo confondere questa neutralità con un’assenza di arte. Questo film è stato girato senza una sceneggiatura preliminare. Creato sulla base di un découpage drammatico di cui ciascuna scena doveva trovare sul set la sua soluzione tecnica. La messa in scena è stata nella sua interezza concentrata sull’attore. L’originalità di Wyler sta nella scoperta di alcune leggi che gli sono proprie e nell’utilizzazione della profondità di campo come coordinata supplementare. Bazin prende in esame una scena, quella della rottura tra Dana Andrews e Teresa Wright: La sequenza si svolge in un bar. Fredric March si appoggia al pianoforte fingendo di interessarsi agli esercizi musicali del sergente invalido che impara a suonare con gli uncini. Il campo della macchina da presa parte dalla tastiera in primo piano, prende March in campo americano, abbraccia tutto il locale e lascia vedere distintamente, sullo sfondo, Dana Andrews nella cabina telefonica. Abbiamo due poli drammatici e tre personaggi. L’azione in primo piano è secondaria, anche se interessante, mentre l’azione vera e propria, svolta decisiva dell’intrigo, 33 Orson Welles ricercava nella sua fotografia, invece, le luci contrastate, violente e insieme sfumate. Gli obiettivi deformavano fortemente la prospettiva ed egli traeva partito dagli effetti di fuga del décor. 34 La profondità doveva condurre ugualmente Welles a identificare l’inquadratura alla sequenza, ma egli ne fa un uso estremamente variato: le inquadrature lunghe si oppongono al cinegiornale e soprattutto l’astrazione temporale delle serie di dissolvenze incrociate che riassumono lunghi brani di racconto. 18 si svolge in un piccolissimo rettangolo in fondo al locale. Fredric March è il tratto d’unione fra le due scene drammatiche, che di tanto in tanto volta la testa. Lo spettatore è obbligato a immaginare che cosa stia succedendo nella cabina. Lo spettatore è obbligato a dividere l’attenzione tra gli uncini ed il telefono. La diversione del pianoforte gli permette sia di far durare per il tempo necessario un’inquadratura che sarebbe stata interminabile e monotona, sia organizzando drammaticamente l’immagine e letteralmente a ricostruirla grazie a questa introduzione del polo d’azione parassita. All’azione reale si sovrappone l’azione propria della messa in scena. Dividere contro il suo volere l’attenzione dello spettatore. Egli ha però prudentemente girato delle inquadrature che permettessero allo spettatore di capire qual è l’azione principale. Si noterà l’importanza della direzione degli sguardi all’arrivo di Teresa Wright, distinta per il vestito bianco. Gli sguardi costituiscono in Wyler lo scheletro della messa in scena. Lo spettatore non ha che da seguirli per capire le intenzioni del regista. Wyler incarna il contrario di Welles: non è venuto all’improvviso, ma ha sgobbato a lungo su western misconosciuti. È attraverso il mestiere che è diventato un artista. La messa in scena è sempre in funzione dello spettatore. Il cinema, secondo Bazin, è uno stato estetico della materia, una modalità del racconto-spettacolo. La « purezza » o meglio, il « coefficiente » cinematografico di un film dev’essere calcolato sull’efficacia del découpage. Wyler non ha mai snaturato il carattere delle sue messe in scena, quindi fa chiaramente apparire il fatto cinematografico in tutta la sua purezza. Il cinema comincia quando la cornice dello schermo o la prossimità della macchina da presa, o del microfono, servono a valorizzare l’azione e l’attore35. Wyler non ha scelto altro che di realizzare in cinema quello che costituisce l’essenziale della messa in scena teatrale. 36 35 Volevo aggiungere una piccola nota che va riferendosi al piccolo saggio « Conta di più una bella voce o un buon microfono? Orson Welles, il talento, la tecnica » di Elena Dagrada. Il riferimento va a The Lady from Shanghai, di Welles, alla scena in cui O’Hara si ritrova ad un tavolo a bere con Bannister e con i due marinai: un marinaio-filosofo e Goldie, un fool scespiriano che vive con una scimmietta in spalla. In questa scena un juke-box suona una canzone semplice, Please Don’t Kiss Me, Leitmotiv dell’intera colonna sonora del film. Questa canzone, che piace ai marinai, ispira una conversazione riguardo alle capacità canore, che appaiono metaforicamente come una discussione sulle posizioni di forza tra Bannister (che ha i mezzi per ottenere ciò che vuole, quindi il “microfono”) e O’Hara-Welles (che ha una “bella voce”). 36 Articoli del 1948. 19 Parte seconda Il cinema e le altre arti 1 – Per un cinema impuro Vi è un ricorso sempre più significativo al patrimonio letterario e teatrale nel cinema. Il rispetto della letteratura poliziesca, originale, si fa sempre più imperativo. Sono in gioco dei valori nuovi. Il cineasta non si contenta più di saccheggiare Corneille, La Fontaine o Molière, ma si propone invece di trascrivere sullo schermo, in una quasi-identità, un’opera di cui riconoscere a priori la trascendenza. In quel periodo era facile che un regista cadesse nella tentazione di rappresentare un testo teatrale (che rispetto al romanzo aveva meno margine interpretativo). Bazin si chiede se il cinema potesse vivere senza letteratura e teatro, o se stesse diventando un’arte subordinata. Il problema è quello dell’influenza reciproca delle arti e dell’adattamento in genere. Afferma che il cinema è giovane rispetto alle altre arti37. L’evoluzione del cinema, come quella di un bambino, è stata condizionata dall’esempio degli altri, delle altre arti. Il cinema si impone come la sola arte popolare in un tempo in cui lo stesso teatro, arte sociale per eccellenza, non raggiunge più che una minoranza privilegiata della cultura o del denaro. L’adattamento è una costante della storia dell’arte. È ammissibile che un’arte nascente abbia cercato di imitare quelle più anziane e quindi di trovare a poco a poco le proprie leggi e i propri temi; è meno comprensibile che essa metta un’esperienza sempre maggiore al servizio di opere estranee al suo genio, come se le capacità d’invenzione fossero in ragione inversa dei suoi poteri di espressione. La critica considera questo passo come una decadenza del cinema, da quando vi si è introdotto il parlato. Zecca38 e i suoi colleghi non rischiavano di essere influenzati da una letteratura che non leggevano più di quanto non facesse il pubblico al quale si rivolgevano, ma lo furono dalla letteratura popolare dell’epoca, alla quale si deve, col sublime Fantômas, uno dei capolavori dello schermo. Se i prestiti evidenti di ciò che sussisteva in Francia di un teatro popolare nelle fiere e nei boulevard non ha provocato contestazioni estetiche, è innanzitutto perché non esisteva ancora una critica cinematografica. Bazin fa l’esempio del film a episodi, Les Vampires39 di Feuillade. Afferma che questo film non aveva didascalie e appunto per questa ragione gli spettatori facevano scommesse su quali fossero i buoni e quali i cattivi. Il film era diviso in episodi perciò chi lo guardava restava deluso dal non poter subito sapere come sarebbe continuata la storia. Sia il romanzo di appendice 37 Puntualizzo che il cinema è stato considerato arte molto più in velocemente della fotografia. Ferdinand Zecca. Autore del film in programma Histoire d’un crime, 1901. 39 1915 [immagine a destra]. 38 20 che il film a episodi hanno bisogno di provare la potenza del fascino attraverso la sua interruzione, assaporando la deliziosa attesa della novella che si sostituisce alla vita quotidiana. È vero che la storia dell’arte evolve nel senso dell’autonomia e della specificità. Il concetto di « arte pura » si riferisce a una realtà estetica tanto difficile da definire quanto da contestare. Si tratta di quasi un luogo comune affermare che il romanzo contemporaneo americano si sia ispirato al cinema. Lasciamo da parte libri in cui il prestito è ben visibile, come Loin de Rueil di Raymond Queneau. Il problema è di sapere se l’arte di Dos Passos, Caldwell, Hemingway o Malraux dipende dalla tecnica cinematografica. Noi non lo crediamo affatto, per la verità. Senza dubbio i nuovi modi di percezione imposti dallo schermo, come il primo piano, o strutture di racconto come il montaggio hanno aiutato il romanziere a rinnovare i suoi accessori tecnici. Ma i riferimenti cinematografici sono nello stesso tempo ricusabili: aggiungono al bagaglio di procedimenti con cui lo scrittore costruisce il suo universo particolare. L’originalità di Espoir40 di Malraux è di rivelarci ciò che sarebbe il cinema se si ispirasse ai romanzi « influenzati » dal cinema. Concludiamo che bisognerebbe piuttosto invertire la proposizione abituale e interrogarsi sull’influenza della letteratura moderna sui cineasti. Il critico letterario ha ancora dei pregiudizi imprudenti su quello che è il cinema, dal fatto che la sua materia prima è la fotografia non consegue che esso sia essenzialmente votato alla dialettica delle apparenze e alla psicologia del comportamento. Il cinema, se è vero che trova oggetto solo all’esterno, ha però mille maniere di agire sulla sua apparenza per eliminare da esso ogni equivoco e farne il segno di una sola realtà interna. Le immagini dello schermo suppongono un rapporto di causalità necessaria e senza ambiguità fra i sentimenti e le loro manifestazioni. Tutto è nella coscienza e la coscienza può essere conosciuta. Se si tiene a un’influenza del cinema sul romanzo bisogna supporre il riferimento a un’immagine virtuale che esiste solo dietro le lente d’ingrandimento del critico e in rapporto ad un certo punto di vista. Vedremo negli adattamenti come Brighton Rock, The Fugitive e Power and the Glory41, un fattore possibile di progresso del cinema. I veri ostacoli non sono di ordine estetico, non dipendono dal cinema come arte, ma come fatto sociologico e come industria. La Certosa di Parma42 è accompagnato dalla definizione « Dal celebre romanzo di cappa e spada », che vien fuori dalla bocca dei mercanti di pellicola che non hanno mai letto Stendhal. Basta questo per condannare il film di Christian-Jaque? Sì nella misura in cui esso ha tradito l’essenza dell’opera e in cui riteniamo che questo 40 1937. John Boulting (1948), John Ford (1949), William K. Howard (1932). 42 1947 [immagine a sinistra]. 41 21 tradimento non fosse fatale. No, se consideriamo che questo adattamento è di qualità superiore al livello medio dei film e che costituisce un’introduzione seducente all’opera di Stendhal. È assurdo indignarsi per le degradazioni subite dai capolavori della letteratura sullo schermo, almeno in nome della letteratura. Per quanto siano approssimativi gli adattamenti, non possono fare torto all’originale per la minoranza che lo conosce e lo apprezza. Quanto agli ignoranti, o si accontenteranno del film, o avranno voglia di conoscere il modello (il romanzo). Tanto di guadagnato per la letteratura. Tutte le statistiche editoriali registrano un aumento delle vendite delle opere dopo un loro adattamento cinematografico. Poi ci sono due differenti modi di trattare le opere: 1. Curare una trasposizione fedele dell’originale, scegliendo un romanzo famoso che aumenterà automaticamente la qualità del film (es. Carmen, La Certosa di Parma, L’idiota); 2. Fare un’interpretazione del romanzo, traducendo il libro sullo schermo (La sinfonia pastorale, Il diavolo in corpo, Il diario di un curato di campagna). I registi « adattano » semplificando, che è limitato dal tempo. Il tradimento è relativo e la letteratura non ci perde niente. Quando si gira Madame Bovary43 ad Hollywood per quanta sia la differenza estetica tra il libro di Flaubert e il film, quest’ultimo sarà sempre un film americano standard che ha solo il torto di intitolarsi nuovamente Madame Bovary. La fedeltà di Renoir va molto più allo spirito che alla lettera dell’opera. Sarebbe preferibile che tutti i registi avessero del genio. Il buon adattamento deve riuscire a restituire l’essenziale della lettera e dello spirito. Sono quelli che meno si curano di fedeltà in nome di pretese esigenze dello schermo a tradire la letteratura e il cinema. La fedeltà efficace di Cocteau o Wyler non dipende da una regressione, ma dallo sviluppo dell’intelligenza cinematografica. Per rispettare il teatro non basta fotografarlo. La conquista del repertorio teatrale è una prova di maturità del cinema. È certo che una sceneggiatura originale è preferibile a un adattamento, come pensando molti nostalgici del cinema. Ma si tratta di voti platonici e di visioni dello spirito che non cambiano in niente l’evoluzione del cinema. Non possiamo agire sul fatto che il cinema faccia sempre più ricorso alla letteratura. Se il cinema non ci darà più capolavori come La corazzata Potëmkin, Aurora44, Hallelujah, Scarface, Accadde una notte o Ombre rosse, non è perché i registi odierni non abbiano del talento, ma piuttosto perché il genio e il talento sono relativi e si sviluppano solo in riferimento ad una congiuntura storica. Racine senza Fedra è un anonimo o una visione dello spirito. Solo Chaplin ha saputo attraversare un terzo 43 44 Jean Renoir, 1933 [immagine a destra]. Friedrich W. Murnau, 1927 (Sunrise). 22 secolo di cinema, grazie al suo genio, ma al costo del rinnovamento del suo stile. Il genio, meno flessibile e meno cosciente del talento, fa spesso degli straordinari fallimenti (quelli di Stroheim, di Gance e di Pudovkin). Nel 1938 il linguaggio del cinema ha subito tante evoluzioni tra le quali possiamo anche osservare il fenomeno delle vedette, attori che spiccano sul panorama cinematografico per la loro fama e le loro prestazioni. 2 – Teatro e cinema In questo capitoletto, Bazin introduce quella che è la critica maggiore al « teatro filmato », che si è fatto mano a mano accettare con film del calibro di Piccole volpi, Macbeth, Enrico V, Amleto e I parenti terribili. Una commedia americana non era meno « teatrale » di una qualche pièce de boulevard, non ricorreva ad alcun artificio cinematografico. La maggior parte delle scene sono in interni e il découpage usa quasi integralmente il campo-controcampo per valorizzare il dialogo. Wyler portò al cinema Piccole volpi (The little foxes), che era un esempio di teatro filmato. In America non c’è mai stato pregiudizio per il teatro firmato. Si trattava piuttosto di un teatro « cinematografico », che si limitava a generi ben precisi. La crisi di soggetti di Hollywood l’ha spinta a ricorrere spesso al teatro scritto, ma nella commedia americana il teatro, invisibile, era presente. In Europa, non abbiamo metri di paragone, eccezion fatta per Marcel Pagnol. L’apporto del teatro di boulevard al cinema è stato disastroso. Quando trionfava Méliès, che aveva visto nel cinema solo un perfezionamento del meraviglioso teatrale, il trucco era per lui il prolungamento della prestidigitazione. Basta poi guardare Max Linder per capire quanto egli deve alla sua esperienza teatrale. Quando a Charlot è evidente che la sua arte consiste in una messa a punto della tecnica della comicità da music-hall. Solo lo schermo poteva permettergli di raggiungere quella perfetta matematica della situazione e del gesto, in cui il massimo di chiarezza si esprime al minimo tempo. Il cinema ha permesso la metamorfosi di situazioni teatrali che senza di esso non sarebbero mai arrivate ad uno stato adulto. Il cinema ha creato dei fatti drammatici nuovi. Boireau servitore farà le pulizie fino a quando la casa non cadrà in rovina, mentre Onésime, sposo migratore, continuerà il suo viaggio di nozze fino ad imbarcarsi per l’orizzonte nel suo inseparabile baule di vimini45. L’azione si sviluppa in maniera implacabile fino ad autodistruggersi. Il cinema comico è la rinascita della farsa classica. Fra il 1905 e il 1920, la farsa ha raggiunto uno splendore unico in tutta la sua storia. 45 Boireau, personaggio comico impersonato da André Deed (in Italia Cretinetti); Onésime, personaggio comico impersonato da Ernest Bourbon nella serie diretta da Jean Durand. I personaggi risalgono a prima del 1915. 23 L’influsso inconscio del repertorio e delle tradizioni teatrali è stato decisivo per determinati generi cinematografici, ritenuti esemplari per purezza e « specificità ». Distinguiamo adesso il fatto « drammatico » dal fatto teatrale. Il dramma è l’anima del teatro, ma può accadergli di rivestire un’altra forma. Il problema comincia ad esistere realmente solo in funzione dell’opera d’arte impersonata neppure dall’attore, ma dal testo. Il più semplice resta la salutare paura del ridicolo e il più imperioso la moderna concezione dell’opera d’arte, che impone in rispetto del testo e la proprietà artistica. Il talento e a fortiori il genio non sempre sono universali, e niente può garantire l’equivalenza dell’originale e dell’adattamento, anche se firmato dall’autore. La ragione più comune di portare sullo schermo un’opera drammatica contemporanea è il successo che essa ha riportato sulla scena. Maggiore è la qualità dell’opera drammatica, più è difficile la dissociazione del drammatico dal teatrale di cui il testo realizza la sintesi. Si assisterà all’adattamento di romanzi per la scena ma mai all’operazione inversa. Come se il teatro si ponesse alla fine di un processo irreversibile di purificazione estetica. Il romanzesco include il drammatico in modo che questo possa esserne dedotto, l’inverso suppone un’induzione, cioè una creazione pura e semplice. In rapporto al dramma teatrale, il romanzo non è che una delle molteplici sintesi possibili a partire dall’elemento drammatico puro e semplice. Si potrebbe allora parlare di « ispirazione ». Renoir si è ispirato al dramma di René Fauchois, in Boudu sauvé des eaux, ma ne ha fatto un’opera superiore all’originale. Concepito in funzione delle virtualità del teatro, il testo le porta tutte il sé. Non si può decidere allo stesso tempo di essergli fedeli e di sviarlo dall’espressione alla quale tende. Una pellicola che infierisce ulteriormente e che pretende di insegnare la letteratura e il cinema è Medico per forza46. Il film non è altro che una sintesi di tutti gli errori suscettibili di snaturare il cinema come il teatro, e Molière per giunta. I costumi hanno l’aria di un travestimento grottesco. La scenografia realistica continua per tutto il film (vediamo il piccolo maniero di campagna del XVII secolo). Per il découpage: nella prima scena si cambia inquadratura ad ogni battuta. Così com’è permette agli allievi di non perdere niente, con « campi » e « controcampi » in primo piano, della mimica della Comédie Française. Dinanzi ad una « messa in scena » simile bisogna convenire che tutte le accuse contro il teatro filmato sono valide. Il fatto è che non è messa in scena. L’operazione è stata 46 Regia di Carlo Campogalliani, 1931 (dalla commedia di Moliére, Le Médicin malgré lui). 24 l’iniezione a forza del « cinema » nel teatro. Il tempo dell’azione teatrale non è lo stesso di quello dello schermo. Una trasposizione troppo spinta della scenografia teatrale è incompatibile con il realismo congenito al cinema. La maggiore eresia del teatro filmato è la preoccupazione di « fare cinema ». Il cinema deve necessariamente « essere più ricco » del teatro. Vi è un complesso di inferiorità del cinema nei confronti del teatro, perché un’arte più antica e più letteraria. La controprova a questi errori ci è fornita da Enrico V 47 e I parenti terribili 48. Olivier ha saputo risolvere la dialettica del realismo cinematografico e della convenzione teatrale. Non pretende di farcela dimenticare, ma la denuncia. Il film è la « rappresentazione » di Enrico V. La rappresentazione pretende di svolgersi ai tempi stessi di Shakespeare. Si tratta di un film storico sul teatro elisabettiano. Olivier ha eliminato l’ipotesi del realismo che si opponeva all’illusione teatrale. Lo sviluppo cinematografico trovava il suo alibi nella stessa opera teatrale. Il colore, un elemento essenzialmente non realista, contribuisce a rendere accettabile il trapasso all’immaginario e a permettere la continuità dalle miniature alla ricostruzione « realistica » di Azincourt. La « tranche de vie » non esiste a teatro (per quanto Antoine l’avesse lasciato credere). Il solo fatto di essere esposta sulla scena la separa dalla vita. La rappresentazione di un « melodramma » come I parenti terribili non suscita problemi tanto diversi da quelli della riduzione di un’opera classica. Se anche il dramma di Cocteau è dei più « realisti », il cineasta ha capito che non bisognava aggiungere niente alla scenografia, il cinema non doveva moltiplicarla, ma intensificarla. Non si tratta più in questo caso dell’ellissi di montaggio classica, ma di un fatto positivo della regia, che supera le possibilità di espressione del teatro49. La macchina da presa rispetta la natura della scenografia teatrale e si sforza soltanto di accrescerne l’efficacia. La vera unità di tempo e di luogo viene introdotta dalla macchina da presa grazie alla sua mobilità. Il cinema agisce solo come rivelatore facendo apparire dei dettagli che la scena lasciava in bianco. Nel découpage Cocteau ha dato prova della sua immaginazione. La nozione di « piano » si dissolve. Sussiste solo l’« inquadratura ». Egli ripete di aver pensato il film 47 Laurence Olivier, 1944. Jean Cocteau, 1948. 49 Quando i personaggi si spostano in carrozza da un appartamento ad un altro, noi non li vediamo in carrozza, ma li vediamo passare direttamente da una appartamento all’altro (come avveniva a teatro). 48 25 in 16 mm50, solo « pensato » perché avrebbe avuto difficoltà a realizzarlo così ridotto. Lo spettatore prova la sensazione di una presenza totale dell’avvenimento. Per virtù di una rapidità diabolica dello sguardo che attira l’attenzione. Il campo-controcampo diviene un dialogo secondo una sintassi elementare dell’interesse. Noi abbiamo tre analisi possibili della realtà: 1. Analisi logica e descrittiva; 2. Analisi psicologica interna al film; 3. Analisi psicologica in funzione dell’interesse dello spettatore. Spontaneo oppure provocato dal regista grazie a questa analisi. Tre punti di vista che sono sentiti come unici, ma in realtà implicano un’eterogeneità psicologica e una discontinuità materiale. Uno spezzettamento arbitrario che è rifiutato da Welles e da Wyler. Cocteau, pur restando fedele al découpage classico, gli conferisce un significato originale utilizzando solo inquadrature della terza categoria (il punto di vista dello spettatore). Si realizza la « macchina da presa soggettiva », il cinema era un avvenimento visto dal buco della serratura. Resta qui l’impressione della violazione del domicilio, la quasi oscenità del « vedere ». L’oggetto dell’inquadratura è guardare l’attrice, mentre essa guarda. Il cinema gli permetteva di cogliere il dramma da molteplici punti di vista. Denuncia le strutture sceniche, invece di nasconderle. Il paradosso è il rispetto del testo e delle strutture teatrali. Non si tratta di « adattare » un soggetto, ma di mettere in scena per mezzo del cinema un’opera di teatro. Il cinema accoglie tutte le realtà fuorché quella della presenza fisica dell’attore, a differenza del teatro che la trova come insostituibile. La sua genesi automatica distingue la fotografia radicalmente dalle altre tecniche di riproduzione. Il fotografo procede con l’intermediario dell’obiettivo ad una vera presa di impronta luminosa: a un calco51. È sempre sul piano dell’ontologia che l’efficacia del cinema prende origine. Falso è dire che lo schermo non possa metterci « in presenza » dell’attore. Lo fa alla maniera di uno specchio dal riflesso differito, la cui foglia di stagno trattenga l’immagine. È come se un inevitabile abbassamento di corrente, un misterioso cortocircuito estetico ci privasse al cinema di una certa 50 È un calibro di pellicola popolare ed economico, introdotto per la prima volta dalla Eastman Kodak nel 1923. 51 Come accennato all’inizio del primo capitolo. 26 tensione propria del palcoscenico. All’origine del disincantamento che segue il film si potrebbe certamente individuare un processo di spersonalizzazione dello spettatore. Lo spettatore deve avere la volontà di fare astrazione dalla volontà fisica degli attori. Tende ad identificarsi con il protagonista per un processo psicologico, che costituisce la sala in « folla » 52 e uniforma le emozioni. Quando sullo schermo appaiono delle donne lo spettatore soddisfa le sue aspirazioni sessuali tramite l’uomo protagonista. Il cinema placa lo spettatore, il teatro lo eccita. Il teatro anche quando fa appello agli istinti più bassi, impedisce fino ad un certo punto la formazione di una mentalità di folla, esige una coscienza individuale attiva. Il film non chiede che un’adesione passiva. Il cinema dispone di procedimenti di messa in scena che favoriscono la passività, o eccitano più o meno la coscienza. Teatro e cinema quindi tenderebbero solamente a suscitare due atteggiamenti mentali su cui i registi mantengono il controllo. Il teatro si dice abbia un processo catartico: si utilizza l’ambiguità fra le nozioni di recitazione e di realtà per portare il soggetto a liberarsi delle rimozioni di cui soffre. Il teatro e il cinema non sarebbero essenzialmente opposti. Entrano in causa le due modalità psicologiche dello spettacolo. Il teatro agisce in noi attraverso la partecipazione ludica ad un’azione. Al cinema al contrario restiamo dei contemplatori solitari, nascosti in una camera oscura. Non c’è teatro che dell’uomo, ma il dramma cinematografico può fare a meno degli attori. Alcuni dei capolavori del cinema si servono dell’uomo solo come accessorio. In Nanook53 o Man of Aran54 soggetto del film è la lotta dell’uomo e della natura. Non ci potrebbe essere paragone possibile con un’azione teatrale. Al teatro il dramma parte dall’attore, al cinema va dall’ambiente all’uomo. La macchina da presa libera il dramma da ogni contingenza di tempo e di spazio. In ogni modo, un’abile regia teatrale saprà servirsi della tosse e del fazzoletto (per La Dame aux Camélias). Se la regia cinematografica non si distinguesse da quella teatrale non ci sarebbe veramente più nessuna ragione di continuare a fare teatro. Chiariamo adesso la nozione di luogo drammatico. Non potrebbe esistere teatro senza architettura, il teatro non può confondersi con la natura. Il segno evidente di uno spazio privilegiato è il palcoscenico. In rapporto a questo luogo drammatico esiste la scenografia, che costituisce le pareti di quella scatola a tre lati. La scenografia teatrale non è che un elemento dell’architettura scenica, luogo chiuso. Questo luogo è un microcosmo estetico inserito a forza nell’universo. 52 Mi viene in mente, solo per questo, il finale di The Crowd (1928), un film di King Vidor che dà molto bene l’idea di « folla ». [immagine a pag. 26] 53 Nanook of The North, di Robert J. Flaherty, 1922. [immagine a sinistra] 54 Di Robert J. Flaherty, 1934. [immagine a destra] 27 Nel cinema il principio è la negazione di ogni frontiera all’azione. Il concetto di luogo drammatico è estraneo a quello di schermo. Lo schermo lascia scorgere solo na parte dell’avvenimento. Quando un personaggio esce dal campo, sfugge al campo visivo. Al contrario di quello del palcoscenico, lo spazio dello schermo è centrifugo. Dato l’infinito del quale il teatro non ha bisogno non potrebbe essere spaziale, può essere solo quello dell’anima umana. Sulla scena e sullo schermo il problema posto è quello del realismo. L’illusione non si fonda nel cinema, o a teatro, su convenzioni tacitamente ammesse dal pubblico, ma sul realismo imprescindibile di quello che gli viene mostrato. Il relativo espressionismo tedesco ha fallito e confermerebbe questa ipotesi, proprio perché vediamo come Caligari55 ha voluto sottrarsi al realismo della scenografia sotto l’influsso del teatro e della pittura. L’universo dello schermo non può giustapporsi al nostro, vi si sostituisce necessariamente poiché il concetto stesso di universo è spazialmente esclusivo. Per un certo tempo, il film è l’Universo, il Mondo, o la Natura. Si può dire che tutti i film che hanno cercato di sostituire una natura fabbricata al mondo della nostra esperienza non ci sono riusciti. Da dove vengono quindi i successi di Nosferatu56 e di La passione di Giovanna d’Arco57? Appartengono alla stessa famiglia estetica e sotto le variazioni di temperamento dell’epoca si possono classificare nella direzione opposta a quella del « realismo », in certo « espressionismo ». Nosferatu è ambientato in un ambiente naturale (mentre il Caligari si sforza di nascere dalle deformazioni della luce e della scenografia). Il caso della Giovanna d’Arco è ancora più sottile, perché la parte della natura sembra inesistente. L’uso sistematico del primo piano e angolazioni insolite è fatto apposta perché finisca col distruggere lo spazio. L’opera di Dreyer cessa di avere qualcosa in comune con il teatro e si potrebbe anche dire con l’uomo. Più egli ricorreva all’espressione umana, più doveva riconvertirla in natura. Niente è meno realistico nel tribunale nel cimitero, o del portale col ponte levatoio, ma tutto è illuminato dalla luce del sole. Dettagli secondari e contrari all’estetica generale dell’opera che gli conferiscono però la sua natura cinematografica. Il problema estetico principale nella questione del teatro filmato è quello della scenografia. Nell’Amleto58 di Olivier e nel Macbeth59 di 55 Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari), Robert Wiene, 1920. [Immagine a destra] Nosferatu il vampiro, Friedrich Wilhelm Murnau, 1922. 57 (La passion de Jeanne d'Arc), Carl T. Dreyer, 1928. [Immagine a sinistra] 58 1948. 56 28 Welles il testo non appare superfluo o diminuito dalla parafrasi della regia; così appare paradossalmente nelle regie di Gaston Baty, che si è ingegnato a creare sulla scena uno spazio cinematografico riducendo in tal modo la sonorità del testo alla sole vibrazioni della voce dell’attore. L’essenziale al teatro è il testo. Non si tratta più di fuggire tutto quello che « fa teatro », ma di accusarlo con il rifiuto di facili soluzioni cinematografiche, o anche col sottolineare la parte teatrale. Il ritorno del teatro filmato è una conquista del realismo (dello spazio). Mentre l’uomo di teatro moderno cerca sovente di attenuare la coscienza della recitazione con una sorta di realismo relativo della messa in scena, il realizzatore di film scopre reciprocamente i mezzi di eccitare la coscienza dello spettatore e di provocare la sua riflessione. Per quanto cosciente o intelligente mi possa rendere un film, esso non fa appello alla mia volontà: tutt’al più alla mia buona volontà. Un film ha bisogno dei miei sforzi per essere compreso e gustato, ma non per esistere. Un meccanismo estetico complesso, ove l’effetto teatrale originale non è quasi mai diretto, ma conservato, ricostituito e trasmesso grazie ad un sistema di relais, di amplificazione, d’induzione, o d’interferenza. Il « teatro filmato » è giustamente denunciato come il peccato contro lo spirito del cinema. La vera soluzione consisteva nel comprendere che non si trattava di portare sullo schermo l’elemento drammatico di un’opera teatrale, ma la teatralità del dramma. Il soggetto è l’opera stesso nella sua specificità scenica. Se il successo del fatto teatrale presuppone un progresso dialettico della forma cinematografica, implica reciprocamente una rivalutazione del fatto teatrale. Quando Marcel Pagnol gira Topaze60 non nasconde affatto le sue intenzioni: fornire alla provincia il suo lavoro teatrale, per il prezzo di una poltrona di cinema, con attori di « classe parigina ». Nei programmi del boulevard una volta esaurito il successo, viene distribuito il film a quelli che non sono potuti andare a teatro. Il pubblico teatrale è rinnovato e si aspetta più e meno dal teatro. Si può persino dire che il miglioramento delle tournées provinciali è dovuto al cattivo teatro filmato. Cos’è un film come l’Enrico V ? Prima cosa Shakespeare per tutti, ma anche una luce smagliante proiettata sulla poesia drammatica dell’autore. La più abbagliante delle pedagogie teatrali. Certe opere drammatiche, e non fra le minori, soffrono praticamente da trenta o cinquant’anni di un disaccordo fra lo stile di messa in scena da esse richiesto e il gusto contemporaneo. L’handicap è dovuto soprattutto alla estinzione della razza del tragico tradizionale. Lo schermo ha modificato il nostro senso della verosimiglianza nell’interpretazione. Basta vedere un 59 60 1948. 1928. 29 film interpretato da Sarah Bernhardt61 o da Le Bargy per capire che ancora virtualmente vestivano i coturni e la maschera. Sono cambiati i tempi. Anche se il cinema ha volto a suo profitto l’estetica e la sociologia nel mostro sacro di cui viveva la tragedia sulla scena, può restituire qualcosa al teatro. Si può concepire una rivoluzione corrispondente della messa in scena che gli offrisse delle nuove strutture in accordo con il gusto moderno ed in proporzione di un grande pubblico di massa. Non ci sono opere teatrali che non possano essere portate sullo schermo. Per cineasti come Welles e Olivier il cinema non è altro che una forma teatrale complementare: la possibilità di realizzare la messa in scena contemporanea, quale essi la sentono e la vogliono. 62 3 – Un film bergsoniano: « Le Mystère Picasso »63 Questo film « non spiega niente ». Si distingue radicalmente dai film sull’arte più o meno direttamente didattici realizzati fino ad oggi. Il film di Clouzot non spiega Picasso, lo mostra. Vedere un artista al lavoro non può darci la risposta alla sua arte. Certo l’osservazione degli stadi intermedi può rivelare il cammino del pensiero o far conoscere i trucchi del mestiere, ma sono segreti irrisori. Picasso ha detto tutto di sé con il famoso « Io non cerco, trovo. ». Tutto il principio del film sta nell’attesa e nella sorpresa continua. Ogni tratto di Picasso è una creazione che ne comporta un’altra come la vita genera la vita. Sempre le decisioni di Picasso sviano la nostra attesa, in noi che cerchiamo di prevedere le sue mosse. È piacevole ed interessante vedere come il pittore abbia creato il suo quadro. Per Picasso gli stadi ricoperti o ridipinti del quadro erano quadri a loro volta, ma che bisognava sacrificare al quadro successivo. Il quadro non è che un momento della pittura. Il merito di Clouzot è di aver saputo far passare questi procedimenti e queste idee dalla loro forma sperimentale, episodica, alla pienezza dello spettacolo. Ai suoi occhi soltanto la creazione artistica costituisce l’elemento spettacolare autentico. L’azione non ha niente a che vedere con le trentasei situazioni drammatiche, è pura e libera metamorfosi. L’animazione non è pura trasformazione logica dello spazio, essa è di natura temporale. Un germogliamento. La forma genera la forma senza mai giustificarla. Clouzot nega di aver « accelerato » il lavoro di Picasso. Le riprese sono sempre state fatte a 20 fotogrammi al secondo. Bisogna distinguere fra trucco e falsificazione. Egli non cerca di ingannarci. Il cinema è fondato sul libero 61 [Immagine a sinistra] Articolo del 1951. 63 (Il mistero di Picasso) Clouzot, 1956. [Immagine a destra] 62 30 spezzettamento del tempo col montaggio, ma ogni frammento del mosaico conserva la struttura temporale realistica dei 24 fotogrammi al secondo. Ridicolo è obiettare a questo film la sua natura documentaristica. Ha avuto un’idea da grande regista ad utilizzare il colore. Materialmente è un film in bianco e nero, stampato su pellicola a colori, salvo quando lo schermo è occupato dalla pittura. Si imponeva come la successione della notte ed il giorno. Clouzot ricostruisce il processo mentale per cui quando noi guardiamo una tela dipinta ci immergiamo nel suo colore, perdendo la concezione del colore che ci circonda. 31