Lezione di Alberto Bentoglio Appunti di Margherita A. Terrasi (2015-2016) Programma di storia del teatro 2016: Luca Ronconi il lavoro teatrale. Seguire il corso non è obbligatorio, può essere sostituito con un programma per non frequentanti, completamente diverso, che non centra nulla con il lavoro per frequentanti. Come si svolge la prova d’esame Una prova scritta, domande aperte (6 domande), sarà fatta durante lo svolgimento degli esami, per studenti frequentanti e una diversa per studenti non frequentanti. Luca Ronconi è stato per 10 anni direttore del Piccolo Teatro di Milano, uno dei più importanti teatri della città. Parlarne è stata una scelta affettiva, più che altro. Questo sarà un corso che metterà in luce il suo lavoro. Cosa vuol dire lavorare in teatro. Entrare nell’officina, il lavoro artigianale del regista. Le ragioni che l’hanno posto al centro dell’interesse degli studi della regia del Novecento. Sito di Alberto Bentoglio http://users.unimi.it/bentoglio/ Sito ufficiale di luca ronconi http://www.lucaronconi.it/mostra_ronconi_home.asp Luca Ronconi Nasce in Tunisia, ritorna molto presto a continuare gli studi in Italia e a 20 anni si iscrive ad una delle più importanti scuole di arte drammatica a Roma, adesso diretta da Silvio D’Amico. Alcuni suoi compagni di corso erano personaggi importanti, come Vittorio Gassman. Dopo il 1933, Ronconi nasce come attore e si occupa solo poi di regia: si diploma subito e inizia a fare l’attore di compagnia (per circa 10 anni). Durante la sua formazione e i primi 10 anni di lavoro, vive il ruolo di attore di teatro, assieme a registi come Luigi Squarzina. Decide di dedicarsi a un’altra professione, la regia, che in Italia arriva molto tardi rispetto al resto d’Europa. Recitazione, scenografia, musiche, costumi, luci, traduzione del testo, adattamenti, il regista è colui che coordina tutti questi elementi. C’era allora l’idea di “attore mattatore” che fa ciò che desidera, che interpreta il testo con decisioni personali rispetto a quella che era la volontà di chi l’ha scritto. Nel dopoguerra si impone in Italia attraverso due figure, che sono Giorgio Strehler e Luchino Visconti. Essi aprono la strada alla regia. Ronconi, negli anni Sessanta, trova già la figura del regista presente, ma appartiene a un mondo di persone che tiene di grande importanza la figura del regista. Egli è una persona molto colta e che desidera andare oltre, spingersi in un ambito che non è tutto suo. Inizia con molta fatica a fare spettacoli, che vanno molto male, perché cerca di sperimentare una serie di linguaggi che non hanno una storia, però questi anni di sperimentazione sono ciò che accade con un po’ tutti i giovani, che poi trovano la propria strada. Ronconi inoltre lavora anche come attore, perciò ha un momento di crescita teatrale e arriva a un punto di svolta. L’Orlando Furioso Nel 1969, prende il testo di Ariosto e lo mette in scena, la svolta in cui Ronconi diventa un regista conosciuto, apprezzato e discusso. Dice basta al teatro borghese, che noi vediamo al di là di una quarta parete, vuole un teatro cooperativo, che sia più vicino alla società (Dario Fò: il teatro politico, di denuncia degli altri nei suoi confronti). Ronconi è molto interessato alla sperimentazione dei linguaggi e il clima del 1968 gli permette di trovarsi un mondo di riflessione e riscrittura teatrale. È fra i firmatari di una protesta contro il teatro borghese (con Carmelo Bene, ecc.). Vuole che l’Orlando furioso diventi qualche cosa che apporti novità nel teatro italiano. La prima rappresentazione avviene a Spoleto. Uno spettacolo che si svolge nelle piazze (come Piazza Duomo). Macchine sceniche costruite per muovere gli spettatori e gli attori. Grazie a queste macchine “ronconiane” il pubblico è invitato a seguire il movimento degli attori (l’Orlando furioso richiedeva 20 macchine). Questo spettacolo viene riproposto con un adattamento televisivo, cosa che permette a tutti di vedere quello spettacolo, che era uno spettacolo molto lungo, trasmesso in 4 serate, 4-5 puntate e la trasmissione televisiva ebbe un grande successo. Grandi macchine, grandi meccanismi e una recitazione nuova. Per allora questa era una forte scossa. Visione di uno spezzone, in cui Mariangela Melato interpreta Olimpia, che inizia a raccontare la sua vicenda a Orlando e racconta di come lei, figlia del conte d’Olanda, si era innamorata del duca, non volendo rinunciare alla parola data al suo futuro sposo, sceglie la morte. Il re cerca di uccidere la famiglia di Olimpia, possiede un’arma avveniristica, un archibugio. La recitazione è molto respirata, che ricorda l’aria di un cantante lirico, comica, ma commovente. Lo spettacolo era molto impegnativo. Esistono 2 dvd con lo spettacolo intero, ma si potrà trovare anche su YouTube. Ronconi è conosciuto adesso per gli anni Settanta, in cui ha avuto la sua consacrazione come regista che attira l’attenzione di critici, intellettuali. I suoi spettacoli sono molto particolari, sempre con Mariangela Melato, Gassman, tanti attori. Ronconi è anche visto come direttore di strutture. Organizza a Prato un grande laboratorio teatrale dove sperimenta molti di questi lavori, sperimenta una serie di possibilità di lettura del testo drammaturgico (biennio 1976-79, coincide con la presenza di Ronconi a Prato). Il gruppo di persone con cui lavora Ronconi: un architetto, Gae Aulenti, inizia a lavorare sullo spazio scenico; Dacia Maraini, guida il gruppo sul linguaggio; Umberto Eco, che non ha mai scritto per il teatro, un grande intellettuale e romanziere. La Biennale di Venezia è famosa per il cinema, artisti di nuova generazione. C’è anche una Biennale Teatro, che inizia negli anni Ottanta e dura 2 anni, diventa una struttura semi-pubblica, allora finanziata dallo Stato tramite il fondo unico per lo spettacolo. Ronconi faceva discutere ogni volta che faceva un nuovo spettacolo. Frequenta in tutta la sua vita il teatro d’opera, teatro fatto dai cantanti. Arriva alla Scala ed inizia a far capire che anche nel teatro d’opera è necessaria la regia. Si confronta quindi con il genere del melodramma, che era un genere non ancora toccato o contaminato con la regia (il pubblico della lirica è conservatore e ama vedere sempre le stesse cose). Gli viene fatta fare La valchiria di Wagner. Alberto Bentoglio Fan page di Facebook; Servizio di Liste di Distribuzione (canale tramite il quale vengono inviate e-mail, con iniziative, esami, ecc.). Gli anni Ottanta (con la Biennale di Venezia) erano stati caratterizzati da una serie di spettacoli di grande successo che avevano interessato pubblico e critiche, mentre gli anni Novanta hanno visto un Ronconi più libero, che si occupa di regia, sia musicale, che teatrale, senza collaborare con nessuna istituzione. Ronconi in questi anni fa molte regie, di moltissimi autori, perché egli già dagli anni Ottanta si vuole confrontare con tutti gli autori, affronta i classici del teatro, ma anche autori contemporanei, che erano viventi e che lui ha addirittura avuto modo di conoscere. Un repertorio letterario che va a recuperare da grandi classici non più messi in scena, ad esempio l’Orlando furioso. Alcuni fra questi spettacoli hanno un grande successo, altri hanno una vita travagliata. Si diceva che R era un dilapidatore, perché i suoi spettacoli erano sempre costosissimi, perché hanno una struttura scenotecnica molto complessa (per le prove, per le ore di allestimento, per i costumi della scena, ecc.). ciò derivava dal teatro barocco, proprio perché lo spettatore doveva stupirsi per la complessità scenica. Ronconi è legato a delle compagnie di giro, formazioni teatrali che girano le singole piazze (le città italiane) portando i giro lo spettacolo, il teatro di tournee. Questo per lui diviene un problema, perché i suoi spettacoli sono intrasportabili, perché molto impegnativi tecnicamente e soprattutto perché molti di questi richiedono dei costi di spostamento inaffrontabili. Spettacoli con molti cambi di scena e che richiedono dei costi di trasporto insostenibili. Gli anni Novanta vedono Ronconi invece legato ai teatri stabili, che garantiscono a R la realizzazione di spettacoli anche più costosi, che non devono girare, perciò abbassando i costi. Dagli anni Novanta fino al 2015 Ronconi sarà sempre legato ai teatri stabili. Due sono i grandi teatri stabili che lo ospitano, a Torino (‘88) e a Roma (‘94), per occuparsi della direzione artistica. Dal ’99 al Piccolo Teatro di Milano. I teatri stabili sono teatri che hanno un legame molto stretto con il territorio. La Lombardia ha 2 teatri stabili, a Milano e a Brescia. Essi devono dimostrare di essere delle grandi strutture e nascono nel 1947, con il primo che è il Piccolo Teatro di Milano, il secondo a Genova e il terzo a Torino. È un organismo pubblico, finanziato quindi dal Ministero. Esempio di teatro privato è il San Babila, teatro nuovo e di varietà. Un teatro privato deve fare un teatro che piaccia al pubblico e deve fare degli incassi che gli permettano di vivere, un teatro pubblico ha delle priorità diverse, ma il profitto se c’è è reinvestito nell’oggetto sociale (ossi nella prossima stagione o nel personale). L’atteggiamento artistico di Ronconi cambia radicalmente, in primo luogo perché lavora per un servizio pubblico, in quanto deve confrontarsi con dei budget diversi, secondo perché deve favorire l’utilità di questo teatro, che deve essere importante come la scuola, la metropolitana, deve essere un servizio che i cittadini utilizzano, come si utilizza un trasporto pubblico. Ha perciò delle responsabilità diverse, deve incontrare un pubblico. Come tutte le cose pubbliche, il pubblico risente anche della temperie politica, quindi il teatro pubblico è anche a contatto diretto con questioni di carattere politico. Gli spettacoli di Torino e di Roma sono importanti e numerosi. Gli ultimi giorni dell’umanità Ronconi a questo punto è fra i registi più famosi d’Italia. L’autore è Karl Kraus, autore di inizio Novecento austriaco. È la prima grande sfida che R fa per un teatro pubblico. R predilige delle sfide che lo portino fuori. Sala del Lingotto di Torino: nel 1989 la Fiat dismette questa fabbrica, perciò Torino si trova con questa grande città industriale inutilizzata, perciò cerca di fare qualche cosa che attiri i torinesi sul luogo del Lingotto. Il testo, se messo in scena tutto insieme, durerebbe un giorno intero. Un testo lungo che R mette in scena in questo luogo, creando uno spettacolo che richiama quell’idea della gestione dello spazio utilizzata nell’Orlando furioso. decide di creare intorno a questo binario la maggior parte delle scene di questo spettacolo e organizzare delle macchine e delle altre parti dello spettacolo, cosa che sarebbe stata impossibile da fare su un palcoscenico. Per questo spettacolo lavorano oltre 60 attori, per oltre 500 personaggi (alcuni sono personaggi che dicono solo 2 battute). Questo spettacolo straordinario dà l’idea della ricerca che R attua in questo periodo, per le possibilità di scrittura, si scenica che registica. Metteva in scena testi considerati non rappresentabili. TRAMA: il tema è la guerra, il primo conflitto mondiale, attraverso una messa in scena molto forte, con tutta quella che era la realtà crudele della guerra. La scenografia, gli elementi che sono all’interno di questa rappresentazione sono locomotive, automobili, autocarri, dirigibili, ecc. Il pubblico seguiva lo svolgersi della vicenda in piedi. Lo spettacolo cambiava molto a seconda di dove il pubblico si posizionava. Ogni spettatore poteva seguire lo spettacolo idealmente. Ronconi aveva fatto un curioso riferimento, al teatro del Medioevo, perché nel teatro medievale molti spettacoli sacri erano messi in scena con le stesse modalità, ad esempio la Via Crucis. Fa questo riferimento di un teatro capace di appassionare il pubblico e di rileggere lo spazio scenico sia in orizzontale, sia in verticale. Sito di Luca Ronconi Un sito molto preciso, ha poche voci: www.lucaronconi.it Il sito da risposte che non vengono date a lezione. Gli ultimi giorni dell’umanità sono un evento importante e Ronconi si deve confrontare con una notorietà che fino ad allora gli era stata lontana. Gli attori recitano passando sulla testa degli spettatori. Ronconi fa un’altra scelta, forse la più importante di questo periodo. Qui R mette in atto la sua scelta di mettere in scena delle opere non teatrali. Nel periodo romano i suoi più grandi spettacoli sono Quel pasticciaccio brutto de Via Merulana e la messa in scena de I fratelli Karamazov. Sono testi di romanzi, che devono essere riscritti. Anche gli stessi attori devono recitare parti non teatrali. La messa in scena di uno spettacolo attraverso la sceneggiatura. Il periodo romano si conclude con uno spettacolo particolare, perché è un testo di Pirandello: Questa sera si recita a soggetto (1998); l’ultimo spettacolo che R mette in scena a Roma. Lo mette in scena prima di tutto perché si tratta di Pirandello, ove l’aspetto meta-teatrale è predominante, poi anche perché i protagonisti sono Massimo Popolizio e Giovanni Crippa (due degli attori che avremmo ospiti). Pirandello è stato un autore frequentato poco da Ronconi. In realtà questa rappresentazione è stata un unicum. Mette in scena le difficoltà, il lavoro che un regista prova con i suoi attori, che devono rappresentare la vicenda. Pirandello, in questo periodo è affermatissimo, va in Germania e sperimenta questa idea di mettere in scena qualche cosa. Riflette su questo testo sulla figura del regista. La vicenda è di una storia di gelosia che termina tragicamente. Anni Novanta, conclusione del percorso di R con il testo di Pirandello, meta-teatrale. Ronconi si sposta a Milano. Giorgio Strehler, era stato per tutta la vita il padrone di casa di Il Piccolo Teatro, fino all’anno della sua morte. La sua poetica artistica era la linea guida. Paolo Grassi, operatore culturale, una persona che sapeva di teatro, ma che non saliva mai sul palcoscenico. Sergio Escobar che controllava l’economia del Teatro. Nuovo teatro, nuovo viso per Milano, in un momento non semplice, per varie ragioni. Il teatro ha 3 sale, Sala Grassi, Sala Studio e Sala Strehler. Spettacoli adatti a palcoscenici che sono molto diversi (frontali o centrali). Strehler aveva pensato queste sale per la sua poetica. La messa in scena del Faust, sale legate anche alla scuola del teatro. Si apre un’altra pagina per Ronconi, perché dovrà dirigere anche la scuola del Piccolo Teatro. R ha da affrontare la grande eredità legata al personaggio straripante di Strehler, e Sergio Escobar che economicamente deve far tornare il pareggio di bilancio e deve occuparsi anche di tutti gli altri elementi. Il pubblico di Strehler, i grandi attori di Strehler, un mondo di teatro che era cresciuto con il pubblico di Milano, con tutto ciò Ronconi si deve confrontare. Sceglie di non cercare una continuità con il presente, ma di proporre scelte registiche che aveva sempre portato avanti nel corso della sua carriera. Sin da subito l’arrivo di questo personaggio crea una nuova pagina nella vicenda del Piccolo Teatro che inizia a fatica ad abituarsi al nuovo percorso. Il pubblico Milanese risponde in maniera positiva ai suoi spettacoli. Nel 2006, in coincidenza con le Olimpiadi invernali, R torna a Torino ove inscena 5 importanti spettacoli, alcuni ospitati successivamente anche al Piccolo Teatro. Ciò dimostra la grande capacità amministrativa di questo personaggio. Santa Cristina, meraviglioso posto in Umbria, vicino a Gubbio, ove Ronconi passava tutta la sua vita quando non stava a Milano. È veramente una seconda attività. Dal 2003 (o già prima) come Ronconi produce degli spettacoli con questo centro teatrale, con attori giovani, studenti di teatro. Spettacoli che vengono prodotti, attività durata fino alla fine dell’attività di Ronconi. Luca ronconi – La conquista del piccolo teatro Ronconi non rifiuta i testi tradizionali, ma neanche quelli moderni, o gli autori del Piccolo Teatro. Un percorso aperto a tutti i generi, perché alcuni di questi testi sono legati alla tradizione teatrale, altri a quella del cinema. Spettacoli impegnativi che nulla avevano a che fare con quello che Brecht chiamava il teatro digestivo. Ospite 1: Roberta Carlotto; È un’amica di Luca Ronconi. Centro Teatrale Santa Cristina Nasce nel 2002, da un’idea che Ronconi si portava da anni appresso, per avere un luogo che gli desse la possibilità di sperimentare. Moltissimo del suo lavoro era rivolto ai giovani, non aveva nulla di certo da insegnare, ma era un lavoro continuo. Da Santa Cristina sono uscite una serie di sollecitazioni e di spettacoli di gente che con R ha lavorato tantissimo. È stata una fucina continua. Mariangela Melato dal primo giorno condivise l’idea di far parte di questo gruppo. La M è stata generosissima nell’offrirsi sempre come figura legata a Santa Cristina, per attirare l’attenzione su Ferrara, sul Teatro Comunale di Ferrara. Il primo spettacolo è un testo del Seicento di Andreini: Amor nello specchio. Ronconi amava prendere dei testi che non avevano una ricca tradizione di rappresentazione. Aveva una passione per il Barocco e anche per la musica barocca. Monte dei Cocci: monte ove venivano appoggiati tutti i cocci della città, luogo perforato nel corso degli anni, da alcuni e Damiani, lo scenografo, ci ha fatto un teatro di tufo, che non ha mai avuto una vera vita. La proprietà di questo luogo è di Ronconi. Dove ha potuto ha anche acquistato dei terreni perché non si sognassero di costruire qualcosa di fronte. Si parte dall’idea che quella fosse la sua casa. Il rapporto con le istituzioni era una cosa un po’ cercata, ma non voleva neanche sovrapporre le varie istituzioni. Teatro Cinelli Le uniche cose particolari fatte con l’Umbria è l’inaugurazione del Teatri Cinelli, grandissimo industriale del cashmere italiano, il quale ha un modello di vita democratico al suo interno, gli operai lavorano e mangiano insieme ai dirigenti, tappezzato di scritte di Leopardi, Mozart, Goethe, e ad un certo punto si è costruito anche un teatro. Si è prodotta un’operina dal testo di un artista africano, con musicisti dal vivo, con un’operazione un su commissione. Come funziona il Teatro di Ferrara? Il Teatro era nato integralmente attorno a Ronconi. Era rivolto ai giovani, il lavoro era rivolto su particolari testi. Il Teatro aveva una figura fissa, che lavorava sul corpo, sulla scenografia. Un luogo dove si entrava la mattina alle 9 e si preparavano i testi fino a sera. Di anno in anno il progetto diventava diverso. La costante in tutti questi anni come supporto economico era l’Accademia. La scelta dei ragazzi partiva dai diplomati in Arte drammatica. Ogni anno Ronconi metteva le favole di Andersen, le raccontava in modo molto struggente, ci si era anche commosso. Non erano esclusivamente testi teatrali, poteva affrontare la narrativa, come la poesia, come altri testi narrativi, tutto ciò che si potrebbe studiare a livello umanistico. “La scuola d’estate” Un testo non ancora spettacolo. I ragazzi più giovani, scelti da Ronconi sono entrati a far parte di un progetto su Pirandello: uno spettacolo, o saggio. Questo spettacolo è stato fatto a Spoleto, poi a Milano, a Roma, a Firenze. Uno spettacolo che volendo ancora di potrebbe riprendere. Otto-nove giorni, con il regista di Santa Cristina che ha girato lo spettacolo come fosse un film. Riprese ripensate per la televisione. Qual è il metodo? Ronconi non aveva un metodo. Ciò che attirava degli spettacoli era il lavoro sui testi fatto da Ronconi. Leggere insieme il significato di quel testo, che era sempre un significato nascosto, che stava dentro le parole. I testi messi in scena erano invenzione di una drammaturgia che arrivavano alla conoscenza sempre più approfondita del testo e di quello che nascondeva. Ogni volta che affrontava un testo, la cosa che chiedeva era di condividere con lui il rischi di ciò che si faceva. Film: La scuola d’estate; Regista: Jacopo Quadri; Lettura del testo a tavolino, lettura in cui il regista sta su un paio di frasi veramente per tanto tempo. Gli attori giovani che accompagnano quelli degli anni precedenti. Era l’anno in cui si poteva cominciare a lavorare agli spettacoli successivi, ma per Ronconi non era necessario. La progettualità a lungo corso nel progetto di Pirandello si poteva vedere, non c’era una committenza che richiedeva un teatro organizzato. Produzioni - Pornografia; - Sei personaggi in cerca d’autore; - Il gabbiano; - ecc. Gli spettacoli dipendevano molto dalle programmazioni del Piccolo Teatro, o di qualsiasi altro teatro. I giovani arrivavano dopo la scuola. Non c’era la possibilità di inventare macchine teatrali molto impegnative. Per R qualsiasi oggetto letterario era possibile farlo diventare spettacolo, se c’era una necessità che lui sentiva. In Pornografia (testo di un autore polacco, che approfondiremo più avanti) c’era una possibilità che nasceva con il festival di Spoleto. Almeno un anno di sperimentazione e di prove. Uno degli aspetti in cui è nato veramente come la possibilità di essere uno spettacolo con attori anche di un certo rilievo. Ronconi sceglieva i testi liberamente. C’erano delle motivazioni che lo portavano a scegliere? Si muoveva molto liberamente rispetto a questa domanda. Pornografia era un testo completamente scomparso dall’editoria contemporanea, non era certo un titolo nato per invogliare una programmazione consueta. Anche se il titolo riporta al sesso, il libro parla di della vecchiaia, della perdita della vecchiaia della vitalità e l’osservazione dei giovani per ritrovarla. Qualche aneddoto sul suo modo di regia e le figure artistiche e tematiche dalle quali era più attratto. Le persone che lavoravano meglio erano i tecnici e gli attori. I movimenti scenici dei suoi spettacoli seguivano una certa logica. A seconda dei testi lui poteva essere un traduttore, uno scrittore, ma da quel punto di vista erano scelte molto personali, era un intellettuale molto forte. L’idea dello scienziato come di intellettuale per lui era fondamentale. Non c’è un punto di arrivo, ma solo un punto di partenza. Nel film raccontava di una delle cose che lo avevano segnato, della storia di un’attrice che faceva l’accademia, la quale va dal parrucchiere, si veste di tutto punto, entra nel Tevere e si suicida. Era molto inquietante da quel punto di vista. La sua fascinosa semplicità nascondeva anche questo lato. L’Accademia di Arte drammatica di Roma è stata l’unica a sovvenzionare l’attività del Teatro di Santa Cristina. Non esiste una regola che richiama nazionali o meno. il bando è stato aperto a tutti, sono arrivate mille domande, delle quali ne sono state selezionate 200. Poi è morto Ronconi, perciò su questo è stata rifatta la domanda e hanno voluto continuare in 120. Ronconi aveva già fatto molti testi teatrali, messo in scena spettacoli di gran popolarità, come Medea, Baccanti, Rane, quello del Prometeo incatenato non è il primo incontro tra R e il teatro greco. Possibili domande dell’esame scritto: Parla del Prometeo, Baccanti e Rane, come è stato fatto nella lezione, di… ecc. Qual è il rapporto di Ronconi con il teatro antico? Dice: “Mi impressiona il suo rapporto con la contemporaneità… quando il teatro diventa drammaturgia del soggetto la cosa si fa povera, il ché non vuol dire che non sia bella…”. Le Baccanti di Siracusa verranno riportate per tre volte in scena. Anche per Siracusa possiamo dire che sia stata una riflessione di Ronconi sul suo stesso lavoro. Possiamo vedere le Baccanti di Siracusa come un interpretazione nuova dell’opera. Il teatro greco antico, è quello di Atene nel V secolo a.C. Il teatro ateniese si distingue per il coinvolgimento della vista. Il pubblico è composto per la maggior parte da membri della cittadinanza ateniese, aveva un valore di formatura politica, intellettuale e religiosa. Chi assisteva a queste rappresentazioni veniva incontro a desideri di intrattenimento, ma si doveva interrogare sul significato dell’esistenza, nella quale un’azione umana poteva cadere nella superbia e nell’errore. La cultura greca antica si presta a un messaggio politico, che l’autore voleva trasmettere sui suoi personaggi, che avevano un nome comico o delle caratterizzazioni che li facevano corrispondere a dei tipi fissi. Le origini di queste forme teatrali vengono fatte risalire alle improvvisazioni di cori di celebranti durante specifiche festività ateniesi. Dal ditirambo, un narratore che da semplice narratore si trasformava in attore. Il coro della tragedia era in origine cantato da cori caprini. C’era la possibilità che ci fosse un premio per la tragedia e questo era il capro, appunto. Diversamente dalla tragedia, la commedia deriva dal canto, la falloforie, festività in cui il corteo festeggiava con l’esaltazione di linguaggi osceni, legati alla sfera sessuale. Le presentazioni degli spettacoli avvenivano durante le dionisie e le lenee, che scandivano i mesi invernali del teatro greco. I poeti tragici e i poeti comici concorrevano tra di loro con tre titoli. La tragedia di solito ha: un prologo (per introdurre l’argomento), la parodo (il canto del coro), I episodio (entrata dell’attore sulla scena - uscita), lo stasimo (il coro che canta da solo sulla scena – poi diventerà semplicemente uno spettacolo di virtuosismo), durava per 4 episodi e poi la tragedia si concludeva con l’esodo (il canto con cui il coro usciva dall’orchestra). La commedia di solito ha: prologo, parodo, agone (confronto tra attori), parabasi (punto in cui il coro da solo sulla scena, cantando, si rivolgeva direttamente al pubblico, infrangendo l’illusione teatrale, introducendo la falloforia, con scherzi, ecc.), terminava con l’esodo. L’INDA Nel Settecento e Ottocento nasce un’attenzione per i fatti archeologici. L’archeologo trentino Paolo Orsi si dedica a questo. Propone in nome di Ettore Romagnoli, un importante grecista, al Conte Gargallo, di riportare le presentazioni del teatro greco antico a Siracusa. Da qui nascerà l’istituzione de l’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Nasce seguendo le più recenti scoperte. Questo nuovo tipo di grecità sarà molto importante per l’istituto del Dramma Antico, perché ne evidenzierà l’impresa scenica. Già nell’ultima messa in scena si avrà una scenografia con grandi masse volumetriche colorate. Le versioni dei drammi vengono anche ripresentate con scritti di scrittori famosi. Saranno portati in scena da Ronconi anche qua al Piccolo. Il Prometeo incatenato di Eschilo, le Baccanti di Euripide e le Rane di Aristofane. Nel Prometeo incatenato gli uomini sono indicati solo come destinatari del dono di Prometeo. La storia si svolge nella città nella quale P aveva donato il fuoco. Dai temi politici-religiosi, si passa a quelli estetico culturali. La trilogia va vista come la conseguenza di un’idea. Si può partire dalle Rane, che rappresenterebbero un viaggio a ritroso e che spinge a chiedersi se sia ancora possibile fare cultura e teatro e infine ci si rivolge al dono del fuoco da parte di Prometeo. Rapporto tra umano e non umano (divino – Prometeo – umano – Rane, perché Dioniso è rappresentato in maniera becera). Lo statuto di Dioniso è molto ambiguo, perché non si capisce se sia lo stesso dio nelle Baccanti o se sia un sacerdote, perché spesso egli parlerà del dio in terza persona. La linea interpretativa che vede un progressivo decadimento della divinità all’interno della storia della società umana. Il racconto di Aristofane, rispetto agli altri, è completamente de-sacralizzato. La scena del dramma delle Rane, propone una periferia cittadina, con automobili e personaggi che sono dei “relitti umani”. Fa una sorta di predica sull’utilizzo degli uomini buoni della città, caricature che ripropongono personaggi politici famosi anche oggi (Berlusconi, Fini e Bossi). Alla fine R decide di togliere queste caricature, infatti nella presentazione dello spettacolo si vedranno solo dei cartelloni vuoti. Il tema delle Rane è visto da Ronconi come lo specchio della società di oggi. Decadimento del potere e colui che è al potere si sottomette. Da Prometeo si può passare alle Baccanti che derivano dall’arrivo di Dioniso, la fuga delle donne dalla città, che vanno a baccheggiare. Nelle Rane, Dioniso scenderà all’Ade per riportare in vita uno di quei poeti Eschilo o Euripide ai quali era legata la grandezza culturale di Atene. Nel genere umano è riconosciuto un desiderio di bellezza. Ronconi inizia a lavorare in due spazi: quello di Siracusa e quello del Piccolo Teatro di Milano. Sono tre spettacoli proposti in tre stagioni differenti: per il palcoscenico di Siracusa all’aperto e per il teatro Strehler. Le Baccanti erano in scena rappresentate da 50 attrici, quindi un gruppo di donne, di molte scuole, che riempivano un ingombro spaziale voluminoso. Il Prometeo incatenato racconta della vicenda di Prometeo che ha dato il fuoco e quindi viene punito, avremo poi il protagonista Franco Branciaroli. Il terzo spettacolo, le Rane, era più difficile da mettere in scena, perché era allora un modo di fare satira, oggi nessuno riconoscerebbe i personaggi dell’attualità di allora. Il genere della commedia è molto diverso, legato a interpretazioni e attualità politica. Ospite: Marco Rossi Direzione tecnica (realizzazione delle scenografie). Infinities La Bovisa, è un grande edificio da poco dismesso dalla Scala che lo utilizzava per contenere costumi e scenografie, era un luogo non teatrale e la Scala lo lasciava perché andava a occupare altri spazi. Nasceva come uno studio cinematografico, trasformatosi per poi finire occupato e incendiato. Nel caso di Infinities si vede come il lavoro fatto sul testo riesca a determinare anche lo spazio, inteso in modo più ampio, che prevede il luogo dell’azione scenica, ma anche lo spazio dello spettatore. La scrittura per il teatro non ha determinato la realizzazione di un luogo dove questa rappresentazione fosse peculiare. La scrittura non ha mai trasformato il teatro. Quindi, per assurdo, Ronconi avrebbe dovuto plasmare il proprio teatro, il proprio spazio. Ronconi, questo diaframma tra spazio tra rappresentazione e pubblico, legato anche alla struttura dell’edificio, lo fa sparire. Si tratta di uno spazio che così per come è stato costruito ha cristallizzato alcune condizioni della messa in scena. Nella messa in scena di qualunque spettacolo, lui sceglieva gli attori, lo spazio ove veniva rappresentato il testo, che aveva sempre la sua individualità e la sua storia. Il suo lavoro sullo spazio parte da un pragmatismo assoluto. Fare spettacoli al Piccolo richiede una mano d’attenzione come se quel teatro avesse memoria e ricordo di altri registi, di altre sensibilità. Infinities non ha testo, non ha teatro, non ha pubblico, rende consapevoli di una serie di scelte del regista, che solitamente non si percepiscono. Il teatro che sia un posto più o meno fortunato nella sua visibilità, nella sua sistemazione in sala possono nascere dei problemi e si deve decidere su cosa mettere l’accento. Da un punto di vista scenico, rendere più facile o faticosa la percezione del palcoscenico. Infinities John D. Barrow Regia di Luca Ronconi Milano, Bovisa 2002 Il testo e la scelta del luogo sono andate di pari passo. Barrow ha scritto 5 pezzi su dei paradossi dell’infinito: tutti i paradossi che nascono dalla possibilità di vivere in maniera infinita: l’ordine di grandezza degli infiniti; la replicazione infinita (infinite repliche di un evento); il dibattito fra la posizione che affermava l’esistenza dell’infinito come concetto e i matematici che vi si opponevano; i paradossi sui viaggi nel tempo. Su questa base si trattava anche di scegliere il luogo ove poter collocare questi paradossi, l’elemento che ha fatto quadrare il cerchio è stato l’intervento della Scala, con la Bovisa. È riuscito ad assegnare questo laboratorio, questo spazio: c’era un primo spazio chiamato “la miniera” dalla Scala, su due lati contrapposti c’erano dei box, che si prestavano benissimo a mettere in scena il paradosso dell’albergo infinito. All’interno di questo spazio c’era l’uso del carro-ponte, un carro elevatore che serviva a sollevare le scene, una specie di alveare. Un albergo infinito con infiniti ospiti che rende sempre possibile la loro collocazione nelle stanze. C’era un pannello che indicava la collocazione degli ospiti. Si passava attraverso una piccola porta celata nella muratura, per andare in un altro ambiente, completamente nero, con attori con delle maschere, perché in un mondo ove la vita è infinita sono tutti vecchi. Ci sono poi gli armadi del teatro alla Scala, modificati un po’, in questo spazio si rappresentava la replicazione infinita. Se un evento è accaduto ci saranno infinite repliche di quell’evento, vi comparivano attori tutti con la stessa maschera. Dalla stanza degli armadi si passava alla falegnameria, ove veniva smacchinato il legname, era lo spazio della disputa del concetto di infinito. Da questa zona si passava ancora a un altro spazio, molto luminoso, con treno adagiato, come a sfondare una parete, e una lunghissima libreria a terra. Qui veniva messo in scena il paradosso sui viaggi nel tempo. Perché c’era una libreria stesa a terra? in una situazione come questa si cerca di lavorare su delle iperbole. Il problema era cercare di riuscire a ricostruire delle immagini, che poi possano creare forma di straniamento e di curiosità. La libreria serviva sia perché poteva sembrare una libreria venuta da chissà dove e poi perché serviva da composizione scenica, una passerella, una delimitazione dell’azione scenica. Il problema era segnalare la presenza dell’attore e renderlo percepibile. In teatro lo stesso movimento andava accentuato. Il pubblico dove stava? dove erano il pubblico e gli studenti del politecnico? In questo spettacolo la durata poteva essere infinita. C’erano a disposizione 40 attori, 5 spazi, 5 canovacci per un pubblico di 50 persone, ciascuna sequenza dura 15 min, questo spettacolo quindi doveva essere acceso. Nella stanza numero 1 gli spettatori entrano, vedono un’azione con 40 attori. Finiscono i 15 min ed entrava il secondo gruppo. Il primo gruppo, si apre una porta segreta e entra nello spazio 2. Gli attori si dividono tra il primo spazio e il secondo spazio. Saranno 25 nello spazio 2. Entra il terzo gruppo, stesso meccanismo, si inizia negli armadi. Questo avviene anche per gli attori, gli attori si distribuiscono, fin quando tutti e 5 gli spazi non sono occupati sia dal pubblico che dagli attori. Glia attori continuano a spostarsi di luogo in luogo, perché nell’oggetto dello spettacolo ci sono varie possibilità, ci sono gli spettatori pigri che entrano nello spazio 1 e restano lì, però non vede la stessa cosa. All’interno c’era la possibilità per il pubblico di rimanere indietro in un luogo e gli attori assicuravano a ciascuno una visione diversa da quello che avevano visto gli altri spettatori. C’era una regia, all’interno di questa macchina, con un direttore di scena con 5 monitor, che gli davano la posizione del pubblico e degli attori e c’era una campanella-segnale che riallineava il tempo di tutti coloro che erano all’interno di questa macchina. Come faceva il pubblico a sentire? I singoli spazi erano insonorizzati l’uno rispetto all’altro, erano contigui, ma isolati. Lo spettacolo poteva essere infinito, il pubblico poteva rientrare quante volte voleva. Faceva 5-6 cicli, poteva anche durare tutto il giorno. Lo spettatore sceglieva se stare da una parte o dall’altra, c’era l’esercizio di libertà. Alcuni attori, per motivi tecnici avevano delle maschere, alcuni erano vincolati al loro ruolo, altri giravano. C’era un transito dei protagonisti, i tecnici erano fermi. Nella stanza degli armadi c’erano due protagonisti che si alternavano, per cui c’erano 20 maschere degli sbalzi e 20 del protagonista. Si dovevano conoscere più parti, ma cambiava anche l’interlocutore. C’erano sì 5 spazi con 5 testi, però erano altrettanto importanti gli snodi e i confini degli spazi, perché lo spettatore doveva essere guidato da una sala all’altra. Perciò i passaggi andavano progettati. Lezione extra della prof.ssa di drammaturgia, Cambiaghi. La vita è sogno è la prima produzione di Ronconi ed è la prima volta che il nuovo millennio si apre con una rappresentazione drammatica. Il testo è uno dei capolavori della drammaturgia barocca del ‘600, un testo già caro a Ronconi, sul quale aveva già svolto un triennio (‘76-‘79), sulle modalità dello spettacolo teatrale, sul lavoro dell’attore e della regia. L’ha giudicato alla fine del laboratorio troppo complesso. R torna a considerare questo testo e a tentarne una messa in scena significativa, lui sa che questo è il suo biglietto da visita per il pubblico milanese. Lo dice chiaramente quando spiega “Perché non iniziare la parabola milanese con un classico”, rappresentare un classico è un modo per avvicinarci ed allontanarci ad un tempo passato. A Ronconi dà molti spunti: a partire dalla equivalenza è il titolo, che rimanda al nucleo climatico del principe di Polonia, Sigismundo, rinchiuso in una torre dal padre, che poi gli offrirà di mostrargli se sarà un buon regnante, andando contro alla profezia che ne diceva il contrario, in caso contrario sarebbe tornato nella torre come se tutto fosse stato un sogno. Il principe viene infatti riportato nella torre, così egli pensa che si trattasse tutto di un sogno. Nella vita è bene cercare di reagire correttamente, perché tutto è effimero e transitorio ed è quindi meglio reagire bene. Noi assistiamo ad una proiezione di un episodio della nostra vita che ci rende protagonisti, tra sogno e teatro c’è una stretta ambivalenza. Ronconi decide di dare un titolo alla stagione 2000-2001 chiamandola Progetto sogno: la vita è sogno e i sogni sono. Quindi se la vita è sogno, i sogni devono essere vissuti come tali. R dice: “Il sogno è una forma di conoscenza come il teatro, maturata con l’esperienza […] questo testo non poteva non affascinarmi”. Il testo è fortemente anti-naturalistico. R ci pone davanti a quella che è una sua tipica scena, un accumulo di elementi strettamente teatrali che si animano componendosi davanti agli occhi dello spettatore, quindi uno spazio scenico vuoto, ma animato da pedane, da macchine, sempre sotto all’occhio dello spettatore, così che esso sia sempre sollecitato a riconoscere che si tratta di uno spettacolo teatrale, così che la finzione si sveli davanti ai nostri occhi. Il marchingegno teatrale proposto come festa per gli occhi, come elemento di meraviglia per lo spettatore. Lo spettacolo parte con il secondo filo narrativo, con la storia di Rosaura che arriva a cavallo di un ippogrifo per cercare il padre e il fratello che l’ha abbandonata. Ronconi sceglie di mantenere la traduzione in versi, fa un ippogrifo con l’immagine di un cavallo che porta a terra il suo cavaliere, Rosaura. Siamo quindi di fronte ad uno spettacolo fortemente teatrale. Ronconi è considerato il regista dei ritmi rallentati, perciò il ritmo dei suoi spettacoli sono lenti. La scena dell’ippogrifo ci fa notare che Andrea Jonasson, la moglie di Ronconi, è l’attrice che interpreta Rosaura. Ronconi conserva la versione originale di Calderon e adotta una versione pensata più che per la scena, per la lettura, questo perché gli interessa restituire quello che allo spettatore arriva attraverso il significato semantico della parola. Rosaura è una giovane che cerca il padre e cerca il fratello Astolfo che l’ha abbandonata. Nel testo di Calderon, il travestimento di Rosaura, viene fuori in una certa battuta. In questo caso invece, prima ancora che R abbia detto la sua prima battuta, lo spettatore ha capito di avere davanti un personaggio travestito. Questo è procedimento che guida tutta l’opera, l’essenza della storia di Sigismondo, interpretato da Massimo Popolizio, che poi è nel II atto. Calderon mette in scena l’esperimento della giornata da re della quale abbiamo parlato. Tuttavia per Ronconi questo apologo ha un senso se si evidenzia come rappresentazione interna, ossia se il suo valore è evidenziato nel senso dell’equivalenza attribuita allo spettacolo. R trasmette quindi l’idea che gli sta a cuore. L’esperimento è sottolineato da un’ambientazione da clinica psichiatrica, i cortigiani travestiti da ospedalieri, al centro della scena c’è un letto che si trasformerà in un palco, ove vi sarà il confronto tra Sigismondo svegliato e i cortigiani. La lettura di questa scena rende inequivocabile la presenza di uno spettatore interno. Alcuni attori si fingono spettatori. Coglie il filo del testo che gli interessa e lo mette in scena. Clarino, interpretato da Riccardo Bini, è un altro personaggio tipico del ‘600 ed aveva un significato comico e buffonesco, dice battute interessanti in cui dichiara di essere uno spettatore che ama stare alla finestra, cerca di soddisfare i suoi bisogni elementari e portare al termine la giornata con la minor fatica “Io sono lo spettatore della vita, al quale basta stare alla finestra”. Clarino qui corre con una sedia, si mette intorno al palco e rimarrà sempre in scena, sempre con la sua sedia, spostandosi per vedere meglio, segnalando allo spettatore che quella è la spia di una finzione nella finzione. Il letto-palco, il palchetto con la sedia, la presenza delle macchine, la tipica scenografia con elementi che animano la scena. Non si può mai dire “Siamo nella reggia!” a Ronconi non interessa l’ambientazione, ma che lo spettatore riesca a collocare lo spettacolo secondo la prospettiva suggeritagli dal regista. Nel suo monologo Sigismondo dice che si è trovato improvvisamente retto sul trono. Viene innalzato da una macchina, facendo capire allo spettatore qual è la sua condizione psicologica. Il secondo tipo di osservazioni riguarda il rapporto con la traduzione e il ritmo della recitazione. Uno come Ronconi avrebbe potuto commissionare una traduzione e metterla a spettacolo. R invece pensa che il valore archetipico e rappresentativo in senso teatrale guadagni dal fatto di mantenere la struttura in versi. Ciò consente al regista di lavorare a diversi tipi di recitazione. Clarino ha un tipo di recitazione ritmica, che si avvicina alla prosa ritmata e R chiede a Bini una recitazione vivace. Completamente diversa è la recitazione di Popolizio e della Jonasson. Popolizio è uno degli interpreti che ha saputo mantenere al meglio il tipico ritmo della parola ronconiana: recitazione fortemente pausata che tende ad individuare la parola chiave della frase. Il teatro secondo R deve suggerire dei percorsi interpretativi, dei grumi di significato. Nella recitazione dei due c’è un lavoro di spezzatura del ritmo, il verso è frammentato nelle sue componenti. La recitazione di Sigismondo ha un cambiamento di ritmo spesso molto evidente, proprio in connessione con la scelta dell’attore di assecondare una precisa linea di letture e di interpretazione del personaggio. La Jonasson ha un procedimento leggermente diverso, lei non lavora sulle parole chiave ma sulla frammentazione del verso. Rosaura è restituita tramite questo ritmo frantumato. Il lavoro di R porta Sigismondo alla consapevolezza del disinganno: vivere la propria vita con qualcosa di effimero, quindi conservare ciò che c’è di buono, perché non ci si possa pentire di ciò che si è fatto. Sigismondo si trova all’interno di una vera e propria guerra civile e vive un’esperienza che crede sia vera esperienza di vita, ma effimera. Clarino sta nel suo osservatorio, in mezzo ad un cespuglio e una pallottola vagante lo ferisce, è l’unico personaggio che muore nella scena (chi non investe la propria vita la perde). Clarino resta comunque in scena. Ronconi sfrutta la scena della battaglia che restituisce con un campo di grano, una grande scena di massa, di teatro, realizzata sempre con questi codici. Suggeriscono l’atmosfera grazie alla luce. Ronconi abbina le luci agli elementi. Fa parte dell’idea di Ronconi di “festa del teatro”, crea una meraviglia pur dichiarandola finta. Clarino muore, ma resta in scena. Ronconi fa indicare al padre Basilio, Franco Branciaroli, il re, di riappacificarsi con suo figlio andando direttamente incontro al proprio destino. Alla fine dello spettacolo, tutti i personaggi escono di scena smontandola e lasciano in scena solo Sigismondo e Clarino, morto (cosa che non c’è in Calderon e che per Ronconi riserva una sorpresa al suo spettatore). La parte di Clarino spiazza perché esce di scena come glielo fa fare Calderon, però il Clarino di Ronconi è lo spettatore di teatro che rimane a teatro anche se non fa più parte della scena. Alla fine tutti i personaggi trovano una loro collocazione, un finale fasullo, ove le cose tornano a posto, ma i contrasti restano aperti. R fa in modo che il monologo di Sigismondo, che vuole rappacificarsi, resti a metà e la seconda parte la fa recitare da Clarino, sdraiato, morto, ma interprete del teatro, per eccellenza il regno delle morti finte, che quindi permette al personaggio di parlare come spettatore interno, che chiede la clemenza del pubblico e richiede l’applauso. Ospite: Diego Dalla Palma. “Il profeta del makeup made in Italy”. Dice di aver basato la sua vita sua queste parole: - Atipicità: non lasciandosi condizionare dagli altri. - Luccicanza: il brillio che hanno le persone che trascurano dei periodi di tormento e sofferenza. o Cultura; o Carisma; o Dolore addomesticato; o Originalità; - Coraggio. Comincia a lavorare a teatro (quando faceva televisione) con Strehler, al teatro della scala. Ha fatto il truccatore e il costumista Dice che Mariangela Melato affermava che “Una vita imperfetta è molto più interessante di una vita perfetta”. Ospiti: Angelo Ferro (direttore di palcoscenico) e Beppe Rossi (capomacchinista e scenografo del Piccolo). Persone tra i primi nomi fatti da Ronconi riguardo al corso sul suo lavoro. Che cos’è il direttore di palcoscenico e cosa fa? Responsabile della disciplina della compagnia, responsabile della cura tecnica della scena. Garanzia per il regista che la sua opera venga riprodotta senza sballature. È partito con una base di studi classici e, dopo aver lasciato la facoltà di Scienze politiche, ha cominciato il lavoro a teatro. Gli ultimi giorni dell’umanità: da un punto di vista tecnico si è ritrovato di fronte a spazi sconosciuti. Hanno dovuto adattarsi (tutti i tecnici che erano abituati a lavorare sui palcoscenici). Ronconi si è affidato alla potenzialità del Piccolo Teatro. È stato un lavoro massacrante, che aveva occupato giornate intere. Differenze fra Strehler e Ronconi: Strehler ha fatto il Faust aveva avuto bisogno di molte settimane di preparazione, egli era il maestro dell’immagine, della tecnica, delle luci, sperimentava molto. Per Ronconi in ogni spettacolo si parla di una squadra di 16-18 macchinisti, ha un grande gruppo alle spalle, sperimentava e ricercava, se voleva fare una cosa si impegnava fino all’ultimo per portarla a compimento. Gli spettacoli di Ronconi sono difficili da portare in giro, perché necessitano di spazi che non si trovano in tutti i teatri. Una delle caratteristiche di Ronconi è quella di mettere scomodo l’attore o il cantante, non si pone limiti. Lolita Lolita è stato il secondo spettacolo di Ronconi al Piccolo. Ronconi ha preso Lolita dalla sceneggiatura di Vladimir Nabokov e ha detto di immaginarsi come se fosse un film e come si muove la macchina da presa si muove il palcoscenico. Succedono 1300 cose durante lo spettacolo: entrano una serie di macchine, un salotto da una parte entra e la cucina esce dall’altra. Tutto ciò che usciva andava riproposto su altri binari, con altre sequenze. Era un orologio che se si inceppava bloccava lo spettacolo. Lo spettacolo in cui sono stati utilizzati più mezzi tecnici. Lo spettacolo è nato da una sceneggiatura non piaciuta a Kubrick, rimasta nel cassetto, e che Ronconi ha deciso di rappresentare a teatro. È nato uno spettacolo che era un compendio di possibilità tecniche. Ogni oggetto doveva muoversi (tramite una serie di corde – a terra erano segnati dei binari) nel momento giusto, coincidendo ad una certa battuta. I protagonisti sono: Franco Branciaroli: Humbert Humbert; Laura Marinoni: la mamma di Lolita; Antonio Zanoletti; Giovanni Crippa; Elif Mangold; Manuela Mandracchia; Massimo Popolizio: commediografo; A Ronconi è stato più volte proposto di fare del cinema, ma lui aveva un occhio talmente particolare, per lo spazio soprattutto, la sua capacità di comunicazione non era grande, perciò lo si doveva conoscere. La scenografia era molto di sostegno alla sceneggiatura in un momento di difficoltà si sapeva che lui avrebbe trovato una soluzione. Ospite: Paolo Pierobon Attività teatrale (Il gabbiano, Santa Giovanna dei macelli, Pornografia, La Celestina e Lehman Trilogy) e attività televisiva (Squadra anti-mafia). Ha fatto 9 spettacoli di fila, in luoghi molto importanti. Luca Ronconi era estremamente viscerale e emotivo. Adesso sta lavorando al Danton. Ronconi aveva con la recitazione un rapporto profondo. La recitazione dei suoni, non delle parole è stata un’esperienza fondamentale per lui. Il metodo Ronconi è estremamente metamorfico, cambiava tantissimo da un’opera all’altra. Sperimentava un po’ tutti i metodi, anche riuscendo a metterli in crisi. Non mancavano le tensioni in prova. Ha fatto 4 regie continue andando in dialisi due volte alla settimana, non era mai fermo, mai esausto. Tra cinema e teatro cambia tutto, ma ci sono molte cose in comune. In teatro devi sapere che certe battute e certi movimenti vadano al bersaglio. Spessissimo in un set necessiti di una consapevolezza narrativa. Il lavoro teatrale è pagato tre volte meno di quello al cinema. Ci si crea anche un mini-pubblico dietro la telecamera. Sui set fanno tutto e forse poi si occupano degli attori. Spesso ci sono attori cinematografici che in pellicola rendono moltissimo e poi in una grande sala non ci riescono. Allo Strehler è diverso da altri teatri, fino a metà sala si sente anche senza amplificazione, poi c’è una zona di 4 file dove non sentono nulla. Facendo teatro è consigliabile aver dietro un lavoro sulla voce e sul corpo. Fare cinema vuol dire anche che quando fai una cosa stupida quella resta indelebile. Il passaggio dal tavolino alle prove in piedi richiede un cambio, è un momento libero, o in cui Ronconi vige sulla recitazione? Spesso uno beccava la lettura giusta e poi va sul palcoscenico ed è un disastro. Negli ultimi anni R era talmente compulsivo che non vedeva l’ora di salire sul palco, perciò prima si doveva imparare le battute e poi salire sul palco direttamente. Spesso le intenzioni prese sul tavolino erano smentite sul palco, proprio perché il teatro era fatto sul palco. Si doveva entrare nella libertà di interpretazione, poi decideva lui che direzione dare all’interpretazione. Se ne fregava anche della punteggiatura. Quando pensi le cose nella vita non sono tutte dette nella stessa maniera. Parliamo di impulsi, il linguaggio viene dopo. La battuta era protetta da un impulso, perciò davanti al pubblico si è protetti. Una specie di partitura fisica che quando la si ha impostata porta un godimento puro a fare lo spettacolo. In Santa Giovanna dei macelli avevano una specie di braccio di ferro, un dolly, lui era seduto sul dolly e questo veniva alzato da due disgraziati (i precedenti ospiti) che lo tirarono su fino in galleria, in alto, tenuto solo da un bidone tondo. Se soffrivi di vertigini ti faceva salire in ogni caso. La scomodità è importante, secondo lui, perché ti fa uscire più autentico nella tua performance. Per andar bene bisogna farsi un pochettino male, come una cosa sportiva. Tutto partiva dal corpo. Il teatro deve essere come la peste e ti deve entrare nei nervi, metafora alla base del pensiero di Artaud. Se si guardano alcuni video di R, in lui c’era tantissimo cinema (Lolita, es.). Lui era un patito di cinema (guardava anche tanti cartoni animati), ma considerava il montaggio una scorrettezza nei confronti di chi guarda, trovava il teatro più onesto, perché non manipolava le immagini. La cinepresa ce l’ha il pubblico a teatro. Il pubblico segue il movimento degli attori. Il concetto di innovativo a cosa è legato? Per lui è qualcosa di fatto bene. Ronconi era particolarmente ossessivo, come personalità. C’era tanto di ciò che sapeva dentro il suo teatro. Lehman Trilogy È una storia, epopea, di una famiglia ebrea che arriva in America dalla Germania e dal commercio del cotone arrivano ad essere una delle più grandi holding esistenti sulla faccia della terra. Il patriarca, Philippe Lehman, pensa soltanto al lavoro e deve decidere con chi sposarsi. La scena di presentazione parla anche di un nano che fa il gioco delle carte, per capire qual è l’azzardo da fare, la cosa su cui investire “basta girare la carta giusta”. Il cambio dal mondo patriarcale al monto americano. Philippe Lehman decise di vincere, di tenere il controllo. Tiene un’agenda sulla quale è scritta tutta la sua vita (14 pagine a memoria). Si tratta di un tema, che è quello economico, che potrebbe essere noioso, ma qui viene trattato in una maniera che lo rende più interessante e anche divertente. Quanto c’è di improvvisazione e quanto di provato? Non c’è nulla di improvvisazione, l’unico tipo di improvvisazione è la struttura del discorso, il tempo che viene messo in mezzo alle parole. Quando in platea parte la tosse l’attore si sente frustrato (la cosa peggiore è chi si soffia il naso nel momento peggiore). Quando si è massimamente preparati si concede la partita al pubblico, in modo da avere il massimo riscontro con esso. Se si fa morire la risata, si è troppo al servizio del pubblico, la risata deve fungere al ritmo dello spettacolo. Tutto ciò che viene preparato non va modificato a seconda del pubblico, ma lo spettacolo deve seguire la sua struttura. Cosa succede quando sul palcoscenico si ha una turba di memoria? Della maggior parte degli errori se ne accorgono gli attori, per via di una sudorazione eccessiva, ma il pubblico se ne accorge molto meno. I vuoti di memoria, dire “paso di fiori”, invece di “vaso di fiori”, spesso vengono mascherati, oppure qualcuno ti butta la battuta. In La compagnia degli uomini c’era un suggeritore che dava le battute con l’auricolare. Lehman, 6 ore di spettacolo, come lo si rende ogni sera perfetto? Il problema del teatro è il rimanere vivi in replica. Dopo un po’ ci si abitua ed è la morte del teatro questa qua. Ogni sera è una cosa diversa, perché le persone cambiano, anche il giorno dopo. Un testo non si finisce mai di capire. Nelle prove si entra a teatro alle 17.00 e si esce all’1. Quanto porta Ronconi nel bagaglio personale? Tutto ciò che è pertinente al personaggio. Se si è in un periodo in cui si è particolarmente scontrosi e si deve interpretare un personaggio solare, non è detto che non possa servire. Ronconi usava tutto. Dopo l’approccio con Ronconi è cambiato l’approccio con il cinema? Sì, ha fatto 9 spettacoli con Ronconi, mi sono visto più svelto, dopo l’esperienza con lui. Perché per l’impegno non c’era una cosa estrema che facesse. A lui interessavano di più proprio i materiali non teatrali. Gli è successo di avere una nuova consapevolezza. La cosa più difficile è starsene immobili e seduti, essere visionari al tempo stesso. meno c’è pensiero è più c’è immaginazione, meglio è. Perché i pezzi vanno un po’ sognati, più che pensati. Lolita Il testo è di Nabokov, autore russo che lascia la Russia, va negli Stati Uniti e pubblica Lolita nel 1955, che viene subito messo all’indice. Diventa lettura proibita. È interessante la scelta che fa Ronconi, che non legge il romanzo, ma legge la trascrizione cinematografica, la sceneggiatura di Nabokov, pubblicata per l’occasione (siccome era stato sollecitato da Kubrik per farne un film). Nabokov si lamenta del risultato della pellicola di Kubrik. La prima proiezione era stata del 1962. A Ronconi interessa la sceneggiatura, il lavoro di Kubrik, ma una scelta ripudiata dal regista. Quindi, la mette in scena nella maniera più integrale. Nello spettacolo è personificato lo stesso Nabokov che fa la parte dello scrittore che inscena la sua sceneggiatura. Prende spunto per creare un personaggio che fa un po’ da cantastorie, da narratore. Ronconi fa una scelta particolare, mette in scena la sceneggiatura e l’autore che segue questa vicenda. Si aggiunge una doppia attenzione, perché da un lato Ronconi dice che per non tradire la lingua di Nabokov sceglie di farla recitare in inglese, tradotta in diretta da Galatea Ranzi. Ronconi dice di non voler tradire la lingua di Nabokov, ma allo stesso tempo vuole sottolineare la sua difficoltà linguistica facendo tradurre Lolita da una seconda Lolita. Ronconi mette in scena le didascalie (parti del testo teatrale dove l’autore descrive quel che succede in scena: ci sono opere di Pirandello dove la didascalia esplicita è più lunga del testo. Perché l’autore sente la necessità di bloccare la situazione e inscenare ciò che ha scritto – didascalie esplicite [cosa fa il personaggio] e implicite [cosa deve fare il personaggio]). Lolita è una sceneggiatura e le sceneggiature sono ricchissime di didascalie. Ronconi dà la possibilità di leggere e recitare tutte le didascalie del testo a Nabokov. Il Prometeo incatenato, Le baccanti, Le rane Collaborazione di Ronconi con l’INDA. Tre spettacoli che si alternano. La scelta è data anche da caratteristiche legate al luogo della rappresentazione. Con il Piccolo Teatro le mettono in scena con lo stesso regista. Non è pensabile fare due spettacoli con lo stesso tema l’uno dietro l’altro al Piccolo Teatro (rispetto al Teatro greco di Siracusa), quindi arrivano Il Prometeo, poi Le baccanti, poi Le rane. Le baccanti ha come protagonista Massimo Popolizio, che reciterà nella parte di Dioniso, le protagoniste, le baccanti, un grande coro composto da una quarantina di attrici che rappresentano la vicenda, triste storia della morte di Penteo assassinato dalle baccanti. La scelta di Ronconi è quella di mettere sul palcoscenico un’opera corale, ove sono importantissimi i movimenti del coro delle baccanti. Diventa un grande spettacolo di movimenti di massa. Il palcoscenico era nudo, non aveva alcuna particolare costruzione scenica. Le baccanti hanno il tirso in mano, una lunga parrucca, vestite con costumi che non hanno tempo, sono di fantasia e nessun elemento dell’antichità greca. La scelta di Ronconi è quella di un realismo molto forte. Il trucco era pensato per uno spazio molto ampio (come il Teatro di Siracusa), quindi andando vicino sembrano un po’ grossolane. Le rane è stato caratterizzato dalla scelta di attualizzazione, con le immagini di Berlusconi, Bossi, ecc., che alla fine vengono tolti. Le rane le ricordiamo come terzo spettacolo ma non ne vediamo o analizziamo nulla. La scelta della commedia è legata all’attualizzazione della politica dei tempi che però infine Ronconi non fa. Il Piccolo Teatro è legato a uno spettacolo di Goldoni che ha fatto fortuna ed è l’Arlecchino, di Giorgio Strehler. Le cose molto messe in scena, molto rappresentate creano una consuetudine attraverso la quale si pensa di rappresentare Goldoni. Rappresenta un Settecento un po’ ballettistico. G ha scritto tantissime opere in dialetto veneziane, ha condotto tutta la sua vita a Venezia. Tutto questo per dire che Ronconi quando si confronta con Goldoni si trova di fronte ad una serie di modalità recitative accelerate e con l’uso delle maschere della commedia dell’arte che son vecchie di 200 anni, un mondo che allora aveva un significato e poi ne ha significato una riproduzione un po’ carnevalesca. Il significato delle maschere, che arriva da Carlo Goldoni, arriva dalla tradizione, quindi Ronconi si confronta anche con la scelta di dover mettere in scena le maschere di Arlecchino, Pulcinella, ecc. Ronconi mette in scena un’opera che coincide quasi con il suo debutto registico. Firma il dittico de La putta onorata e de La buona moglie, poi quella di Arlecchino, la maschera di Arlecchino è fonte di sperimentazione. Il caso vuole che il primo spettacolo che lo vede come futuro regista è un testo di Goldoni. I giovani interpreti erano tutti appena usciti dalla scuola di Santa Cecilia, l’accademia teatrale. Questo spettacolo ha pochissimo successo, le critiche sono feroci, perché Ronconi inizia a togliere delle cose, mostra un Goldoni un po’ scomodo, che non c’entra niente con la tradizione goldoniana. Andando avanti negli anni, 24 anni dopo, abbiamo un altro testo di Goldoni, La serva amorosa, Ronconi è un regista già affermato. Questa è un’opera minore, per interprete Annamaria Guarnieri. Si vede lontananza rispetto a come Goldoni veniva messo in scena. Ronconi mette in scena una Venezia come un luogo dove sono accatastati molti mobili ottocenteschi. C’è un interesse diverso rispetto a quello che c’è invece per gli altri autori. Il Piccolo era legato ad altri importanti spettacoli strelheriani. Mettere in scena un’opera di Goldoni era sicuramente una sfida. Il titolo già dice il tipo di rappresentazione proposta: I due gemelli veneziani. L’attore di Goldoni era così bravo da poter interpretare più di un personaggio. Una vicenda di commedia, si tratta di un canovaccio, un elenco di cose e situazioni che servivano all’autore per produrre l’opera. Il testo era debole e l’interpretazione molto forte. Il protagonista era Massimo Popolizio, che interpretava i due gemelli veneziani. Cancella tutto quel modo di fare Goldoni, che secondo Ronconi non era corretto. Diceva che tutto il set ballettistico che il teatro aveva portato avanti non era Goldoni, è invece un autore che fa ridere, che fa pensare, ha dentro di sé una malinconia, un senso di morte che lui aveva portato in scena. Tutti i protagonisti recitano senza maschera, ciò cambia il modo di fare teatro e di mettere in scena Goldoni, in una cornice particolare, come quella del piccolo teatro. C’è il tentativo di mettere in scena qualcosa di diverso. Ultimo spettacolo, Il ventaglio, un testo del Goldoni tardo, negli anni in cui egli ha lasciato Venezia e va a Parigi. Mentre è a Parigi scrive pochissimi testi e tra questi vi è Il ventaglio. La vicenda è legata al ventaglio, che viene perso dalla protagonista, ritrovato dall’antagonista e con uno sconquasso generale poi la storia termina con un lieto fine. La psicologia dei personaggi è molto presente, Goldoni lentamente abolisce l’uso delle maschere, sostituendole a dei caratteri. La serva amorosa diventa Mirandolina, la donna che diventa un carattere. Scelta un po’ unica, per più ragioni: è messo in scena nel grande Teatro Strehler, uno spazio molto ampio, il lavoro di Ronconi è definito cinematografico. Insieme agli attori vicini a Ronconi c’è Giulia Lazzarini, che è stata una delle grandi attrici di Strehler. Scegliere questa attrice per Il ventaglio era una scelta molto forte. 2007, viene messo in scena Il ventaglio, è uno spettacolo che ha un grande successo e che, possiamo dire, si allontana da quell’idea di Settecento di rime e merletti, che ormai era già superato. Ronconi mette il punto fermo, mostra che questo autore ha molto più da dire rispetto a ciò che si era rappresentato fino a quel momento. La tonalità della scena è grigia, lontana da quella che era normalmente inscenata secondo la tradizione goldoniana. L’ambientazione e la recitazione sono un po’ sgradevoli. Ospite: Chiara Marsilli Laureata, ha studiato molto il teatro. Ronconi è stato per anni maestro di intere generazioni di attori. Marsilli parla un po’ di quelle che sono state le sue ricerche: Inizia parlando della Scuola del Piccolo Teatro, 1986, che nasce perché nei primi anni ’80 il Piccolo ha un momento di grande crescita e il Comune di Milano, decide di affidare al Piccolo l’ex Teatro Fossati, teatrino del 1900, in disuso da moltissimi anni. Strehler stabilisce quindi in questa zona la Scuola. Per collegare il Teatro alla Scuola, decide di stabilire la scuola proprio lì accanto. Il Teatro Studio è a pianta centrale, ha delle balconate di ferro, che lo rendono particolarmente adatto sia per il teatro di ricerca, che per essere vissuto da dei ragazzi che devono imparare il mestiere del teatro. I ragazzi hanno la biblioteca, le sale prove, gli uffici e poi possono arrivare direttamente al Teatro. C’è questo pensiero di continuità che ricorda Ronconi tra il teatro e l’insegnamento. Sono triennali e a ingresso singolo. Vengono selezionati una 30ina di allievi e per i tre anni di studio studiano solo questi 30 allievi, poi verranno aperte le selezioni per il prossimo corso. Si crea un sentimento di gruppo molto forte. Per sottolineare questa personalità, ogni corso viene definito con il nome di un grande regista o drammaturgo (il corso Brecht, ad esempio). Uno degli ultimi spettacoli di Strehler è stato Elvira, o la passione teatrale. Uno spettacolo che poteva essere fatto proprio in quello spazio. Spettacolo meta-teatrale. Luca Ronconi e l’insegnamento Il rapporto tra Ronconi arriva da molto lontano. Si diploma all’Accademia di Arte Drammatica, negli anni ’60 l’Accademia va incontro ad una serie di cambiamento di insegnanti, quindi vengono richiamati una serie di vecchi allievi a recitare. L’attività didattica è un qualcosa che parte da lontano e che lo accompagnerà in maniera sia professionale che personale. Tra i suoi incarichi didattici abbiamo: il Laboratorio di Prato (grande lab in cui si mettono insieme attori già affermati), nel 1988 accetta l’incarico di direttore artistico allo stabile di Torino, lì, pochi anni dopo fonda la Scuola. Preparava giovani interpreti facendoli esercitare con letture e saggi ed inserendoli fin dall’inizio in una completa esperienza teatrale. La didattica si prolunga anche nella preparazione di alcuni spettacoli. La necessità di non avere soltanto lezioni teoriche o culturali e la stretta connessione fra la scuola e lo stabile. In questo senso il collegamento tra le due è importantissimo per la crescita di professionisti. Lo stesso spirito con il quale Strehler aveva fondato la Scuola del Piccolo qualche anno prima. Nel ’94 Ronconi è nominato direttore artistico del Teatro di Roma, mentre nel ’99 diventa direttore del Piccolo Teatro a Milano. Con la direzione artistica del Piccolo egli si incarica anche nel ruolo di direttore e insegnante della scuola. Qual è il metodo di Ronconi? Lui per tutta la sua vita ha sempre affermato di non avere un metodo. La sua risposta standard era che non aveva un metodo. Diceva che nei confronti dell’insegnamento non è buono avere un metodo, perché era come avere una ricetta, che seguita poteva sempre essere perfetta. Quello che faceva era regolarsi, di volta in volta, in base alle persone che si trovava di fronte. Credeva molto nel fatto che il teatro è un mestiere che si può imparare soltanto tramite la pratica. L’insegnamento di Ronconi parte dalla sua esperienza, la pratica didattica non era scissa dal suo essere artista e regista. Lui quello che utilizzava per i suoi spettacoli era lo stesso atteggiamento che metteva nell’insegnamento. Spesso era un arricchimento reciproco. Gli piaceva molto il rapporto generazionale, credeva che fosse un momento di crescita forte. Rubacchiava ai suoi studenti, non ha lasciato manuali, però ha rilasciato tante interviste, ci sono tantissime testimonianze di suoi studenti. Ha cominciato a lavorare a 30, per terminare ad 80, quindi si è lasciato dietro tantissime persone. Il “non metodo” di Ronconi è credere nella necessità di formare attori che siano attori nella vita, che vogliano vivere di quello ed usa spesso il confronto con il mondo della musica. Notoriamente la carriera di un musicista di conservatorio è dura. Perché l’attore invece dovrebbe salire sul palcoscenico ed essere in grado di fare un lavoro difficile? Anche il teatro di prosa necessitava di una sua scuola. Riguardo al talento lui diceva che non era sufficiente a costruire un attore, perché non era un materiale, ma una capacità che si affina con la ricerca, la dedizione, la tecnica. Ronconi voleva dare agli studenti degli strumenti, che servissero per crescere. Ronconi lavora sul testo come regista e ci lavora anche come insegnante. Come regista parte dalla drammaturgia scritta, però sempre da qualcosa non scritto da lui. Il teatro dei registi di Roberto Alonge, in questo testo egli distingue i registi poeti della scena e i registi scopritori di enigmi. Ronconi rientra nella categoria di scopritore di enigmi: legge un testo, ne individua la struttura e lo traduce in tre dimensioni sul palcoscenico. Riesce a scoprire quello che agli occhi di un lettore disattento passa inosservato. Il regista Ronconi e i suoi attori si rivolgono costantemente al testo per fare teatro. Tre capacità: intelligenza linguistica, ritmica e psicologica. Le variazioni di ritmo servono per attirare l’interesse del pubblico. La psicologica era una delle sue genialità, riuscire a capire il perché un personaggio dicesse delle parole e quale fosse la causa delle parole. L’attore deve riuscire ad utilizzare la voce come un vettore. Come si svolgevano le lezioni? L’imitazione, l’esempio, la lettura dei testi, un continuo suggerimento. In aula si tirava fuori ogni possibilità del testo e dell’attore. Il distacco? Ronconi è stato attore. “Non dovete soffrire, dovete rappresentare la sofferenza”. “Non dovete rappresentare l’innamoramento, ma capire da cosa nasce l’innamoramento e riflettere sul vostro rapporto con esso”. Più che di personaggi parlava di funzioni. La letteratura era un territorio liquido che permetteva agli interpreti di adattarsi ad un personaggio. Cosa che lui aborriva, perché era molto mentale nella recitazione. Nei suoi attori cercava un’intelligenza, più che una cieca recitazione del personaggio. “Non guardate dentro di voi, perché benché vada ci troverete solo la merda”, con questa sua ironia cercava l’adesione alle sue tecniche. Si parla di diverse tecniche. Percorso? Ronconi mette in atto le stesse modalità che usa per affrontare un testo. L’ansia di dover arrivare ad un obbiettivo, il confronto con il pubblico pagante, non c’è all’interno della scuola. Nella scuola l’errore è ammesso, si ricerca, si cresce. A volte voleva rifare i testi, dopo averli già fatti negli anni ’90. La scuola non andava mai bene, non era quello ciò di importante, ma era il fatto di continuare a cercare “Se volete avere tutto subito, potete avere subito, ma non tutto”. “Che tipo di attori volete essere?” era una domanda che poneva spesso. Il rapporto con il proprio corpo, come era richiesto da Ronconi, oppure lo delegava ad altri? Per fare l’attore serve una coscienza del proprio corpo, magro, grasso, bello, brutto, la forza non è in quanto è il corpo, ma nella sua consapevolezza. Ronconi non se ne curava personalmente e anzi spesso si lamentava della poca consapevolezza del proprio corpo. Nella scuola di faceva molta danza, meditazione, zen. La contemporaneità della mente di Ronconi, senza gli attori Ronconi stesso non sarebbe andato da nessuna parte. Ospite: Roberta Zanoli Si è laureata con Dario del Corno, grande grecista e traduttore di tragedie greche. È stata la persona che ha guidato e guida tutt’ora la scuola del Piccolo Teatro, istituzione alla quale Ronconi teneva moltissimo. Giovanni Crippa è anche il coordinatore didattico della scuola, perciò la parte didattica può essere raccontata anche in modo approfondita da Giovanni, uno degli attori che hanno attraversato la vita artistica di Ronconi, che lo aveva espressamente scelto come docente e come coordinatore didattico, perché Ronconi aveva una grande attenzione alla formazione. La pedagogia teatrale è più presente in R che non in Strehler. Non il lavoro sull’allievo e la messa in scena, ma il piacere dello scambio, della formazione, che per Ronconi era fondamentale. Negli anni ’70 si aveva l’impressione che le scuole di teatro non avessero una grande importanza. Il discorso sulla formazione era preso anche dall’idea dell’attore che studia per poter durare nel tempo. Questo era il principio fondamentale. Lui diceva sempre che per raggiungere questa capacità non utilizzava alcun metodo, ma una ricerca continua, una pluralità di metodi, un approccio sempre diverso. Aveva il dono del tempo e il tempo è veramente un dono, soprattutto per un regista come Ronconi, sempre pieno di impegni. Il ginnasio era una palestra, ove poter provare. Dove comprendere quale porzione di testo reggeva alla verifica del testo. Gli studenti dovevano andare a tentativi, provando e riprovando, sperimentando modi diversi. Lui aveva la pazienza di ascoltare, non l’ha mai visto arrabbiarsi in una rappresentazione scolastica (anche se abbiamo visto quanto potesse essere rigido per quanto riguardasse le rappresentazioni teatrali). Non dava mai risposte, ma dava la possibilità all’allievo di porsi delle domande, un grande privilegio per un allievo, perché partiva dalla consapevolezza delle domande che si doveva porre. Si alzava all’alba, le lezioni iniziavano alle 10 di mattina e lui era già lì alle 8. Una cosa che l’ha colpita è una sua riflessione sul perché gli interessava tanto insegnare “Per me il teatro è stato ciò che mi ha permesso di conoscere […] insegnare agli altri la conoscenza in sé stessi è la parte fondamentale del teatro”. La costante ricerca dello smascheramento. Gli allievi attori cercano sempre il mascheramento, quello che loro credono di essere. Il lavoro fondamentale del maestro, secondo Ronconi, era lo smascheramento, la ricerca di sé. Era molto disponibile verso la scuola e verso i giovani. Lo spazio per l’insegnamento era sempre prioritario, questo non per un desiderio di essere vicino ai giovani, ma per realizzarsi completamente nella sua professione. Uno dei tratti distintivi di Ronconi era il rispetto enorme per il lavoro altrui, di chiunque, a maggior ragione quello dei colleghi. Ogni disciplina aveva per lui pari dignità. Era fondamentale il concetto di “scuola per attori”, ma nel momento in cui si stabilivano le discipline di movimento, canto, acrobazia, queste discipline avevano pari dignità. Lui pensava che la Scuola del Piccolo dovesse avere una connotazione molto forte. Ogni disciplina doveva essere come una sorta di vaso comunicante, perché tutto doveva convogliare nella durata nel tempo dell’allievo. I docenti dovevano assistere alle sue lezioni, dargli una mano a seconda delle problematiche su questo o quell’allievo, perché l’acrobazia permette di superare la soglia di paura che si ha. Ciascuno deve andare oltre al limite dal quale si era partiti. Ronconi aveva una grande attenzione ad ogni singolo allievo. Era importante che l’allievo trovasse la propria strada. Secondo lui la scelta nelle selezioni non era solo della Scuola, ma anche dell’allievo per la scuola. Quando un allievo veniva accettato o rifiutato, dipendeva anche dal suo modo di intendere il teatro. Non interveniva mai, se non in maniera assolutamente delicata, laddove gli serviva che la materia tecnica si adattasse a seconda dell’allievo. È entrato nella scuola in punta di piedi, ha poco a poco con il lavoro giornaliero portato la scuola verso la sua idea di didattica. Non c’era autoritarismo, ma autorevolezza secondo cui nessuno di loro poteva non aderire alla sua idea. Tutti i docenti che lavoravano erano amici di Strehler, o persone assunte da lui. Il rapporto umano che Ronconi aveva con gli allievi. Lei prima di cominciare a lavorare con Ronconi lo vedeva come qualcosa di irraggiungibile (anche se sono le persone che gravitano intorno a queste persone che le allontanano dagli altri). Ronconi avrebbe preferito mille volte fare lezione che non fare una conferenza stampa. La cosa che a lui premeva era fare lezione. Quelli dell’ultimo corso, che hanno avuto la fortuna di incrociare Ronconi e la sfortuna di perderlo subito. Voleva scegliere i suoi allievi. Aveva la dialisi tre volte alla settimana e veniva da un lungo periodo di ospedale. Appena dimesso dall’ospedale, era solo un’ora dopo a fare gli esami. Un allievo ha detto una cosa che fa riflettere sul rapporto umano: «Perché quando mi chiedeva di provare a leggere una battuta era come se mi dicesse, “Mi permetti di conoscerti?”». Lui aiutava gli allievi a conoscersi. Quali erano le cose che lo colpivano di un ragazzo o una ragazza? Tutti erano ripresi, perché altrimenti non ci si ricordava tutti i provini (tra 1000 persone). Anche qua era l’intelligenza che colpiva Ronconi. Spesso tra i pre-requisiti nelle selezioni ci sono l’aver frequentato questa quella scuola di teatro. A Ronconi interessava il modo in cui l’allievo si poneva davanti a un testo. Ci possono essere allievi con un ottimo livello di preparazione, ma che si ha la sensazione che non riusciranno ad andare oltre. Una ragazza al provino, il secondo, ha una pagina di un romanzo, lui chiedeva di leggere, questa comincia a leggere, lui la interrompe, le fa delle domande e questa ragazza ci riprova, ma alla fine per lui andava bene, perché lei aveva la consapevolezza di non riuscire ad arrivare a quel punto. La tipologia dell’attore è quello che ci mette la testa, che sa di cosa sta parlando, che ha curiosità, che lavora insieme al regista del testo. La scuola d’estate La lezione era quasi un piccolo spettacolo. Lui suggerisce delle cose, ma dice agli allievi che non devono imitarlo. In tutto questo c’era una sorta di assoluta lontananza da qualsiasi psicologismo. Parlava di tecnica “non confondere il cuore con i polmoni”, una tecnica che desse l’idea di cuore infranto. Aveva la consapevolezza costante che il gioco teatrale era fatto con il pubblico: come ci si metteva in relazione con lui, come giocare i tranelli col pubblico. Lo spettatore deve essere formato esattamente come l’attore. La funzione dello spettatore non può e non deve essere quella di passivo testimone, ma di attivo co-autore dell’evento. Gli attori forniscono al pubblico una serie di materiali che il pubblico stesso è poi chiamato a montare secondo la propria coscienza. Ogni spettatore così poteva vedere uno spettacolo diverso. Non esiste un solo spettacolo, ma una molteplicità di spettacoli che si ricreano nella mente dello spettatore. Ronconi non faceva mai leva sull’emotività dello spettatore, non gli interessava colpire l’emotività dello spettatore, ma che lo spettacolo la colpisse. R diceva: “Io non pretendo che lo spettatore stia attento per tutto il tempo dello spettacolo, capita ed è normale un calo di attenzione, ma mi importa che al termine dello spettacolo possa diventare a sua volta autore dello spettacolo, ricombinando in sé quello che ha visto”. È convinto che il pubblico possa seguirlo, cogliendo e riassemblando gli elementi che più gli interessano. Spettacolo che si forma e si ritrasforma nel singolo spettatore. Pensava al pubblico anche nella gestione dello spazio. Una grandissima attenzione alla posizione del pubblico e a come il pubblico recepirà quello che verrà detto. La Scuola esige anche una serie di verifiche che fanno parte di un percorso scolastico. Sono stati fatti dei saggi, dei veri e propri spettacoli. La Scuola è triennale, si tratta di stare per 8 ore al giorno, per 6 giorni nella scuola. Dalle materie di recitazione a quelle tecniche come canto, allenamento della voce, psicologia, ecc. Tendenzialmente si creano dei momenti di verifica. Una lezione aperta che permettesse di vedere il percorso fatto dagli allievi (non lo “spettacolino” che era un’idea che Ronconi detestava), i cambiamenti, i miglioramenti, i peggioramenti, le crisi (perché l’attore lavora su sé stesso), la sensazione di non riuscire ad avanzare. Questi momenti servono anche ai docenti per confrontarsi, spesso capita che un docente riesca più di un altro a trarre delle cose dagli allievi, perché magari ce n’è uno che non riesce a dare il massimo e invece lavora bene con un altro docente. Questo per via dei modi diversi di approcciarsi ad un testo. Ronconi trovava una chiave di comunicazione con tutti gli allievi. Come la scuola ha cambiato corso, con la nuova direzione? Per posizione lei ha visto il percorso e dice che sta seguendo il corso di Ronconi, di preparare gli attori non per il Piccolo Teatro di Milano, non all’epoca di Ronconi, ma degli attori che ancora una volta possano trovarsi sul mercato, siccome viene richiesta una grande versatilità dell’attore. Il Piccolo ha un suo modo di fare teatro, ma Ronconi non ha mai cercato di formare i suoi attori per i suoi spettacoli (e li trovava a volte degli attori adatti per i suoi spettacoli). Ci sono momenti in cui è il testo a scegliere l’attore? Noi vediamo l’attore come una persona, non lo spersonalizziamo in base al testo. R trovava che molto spesso in Italia gli attori di successo tendono sempre a fare un solo personaggio, e questo personaggio è l’attore stesso. L’attore doveva diventare l’ente attraverso cui leggere il personaggio, perché è molto più interessante che vedere l’attore interpretare sé stesso. perché l’attore possa cogliere il personaggio, Ronconi affermava l’importanza di cercare di attribuire ad un allievo una parte che non gli è congegnale. D’Amato diceva sempre che: “Anche un orologio rotto fa l’ora giusta due volte al giorno”. L’attore deve essere a sua volta scopritore di enigmi, in situazioni in cui è difficile dare il meglio di sé stessi, ma l’importante è sforzarsi perché questo avvenga. In che cosa Ronconi era differente da Strehler? Indubbiamente entrambi usavano il teatro per conoscere la realtà. La differenza che intravedeva era che mentre Strehler era dentro le cose che faceva, Ronconi ne era fuori. Quindi nell’uno passionalità, nell’altro passione. In Ronconi crede che ci fosse una maggior generosità, perché S nel suo insegnare agli allievi aveva sempre un occhio allo spettacolo che avrebbe fatto, mentre R insegnava puramente per il divertimento di insegnare, aveva una maggior passione per la pedagogia teatrale. A Ronconi piaceva ogni tipo di futuro “purché rispondesse al mio bisogno di conoscerlo e non al mio piacere di viverlo”. Ospite: Giovanni Crippa Attore del Piccolo Teatro. Coordinatore della didattica della Scuola del Piccolo Teatro. Con Marco Sciaccaluga, Giovanni ha debuttato nella sala del Teatro dell’Arte (Parco Sempione), il 6 dicembre del ’75. Nel ’95 comincia la sua collaborazione con Ronconi. Comincia con il teatro di Genova, poi continua con il Franco Parenti. Con Griffi fa la Trilogia del Teatro nel Teatro. Ha sempre incontrato maestri con progetti abbastanza ambiziosi. Ronconi era qualcuno che faceva di tutto per sganciarsi da questa idea di teatro commerciale, dando la dignità che compete comunque a quel tipo di teatro. Questa sera si recita a soggetto è lo spettacolo che ha fatto di più nella sua vita. è arrivato a Luca Ronconi nel ’95 (40 anni, all’incirca). A teatro ha cominciato a vedere Lo strano interludio, uno spettacolo che lo ha davvero incuriosito. Riconosceva un modo di affrontare il teatro completamente diverso, un modo che poteva dare un senso di repulsione, però superato quel momento si capisce che l’interesse è continuamente suscitato e stimolato. Con Gli ultimi giorni dell’umanità, è rimasto folgorato, si è sentito catturare completamente. Tutto quello che pensavo fosse stato possibile fare soltanto nei sogni, era lì. Arrivò alle prove con la gamba dolorante, perché si era fratturato una tibia. Debuttarono il 20 febbraio, intorno all’Epifania. Ricorda l’entusiasmo con cui gli parlava, perché lui gli apriva dei mondi, delle possibilità interpretative incredibili. Aveva una profondità di lettura pazzesca, dava degli appoggi, delle radici vere. La battuta era sostenuta da qualcosa di profondo. La sua recitazione era un po’ espressionista. Per lui il teatro era un’esperienza di conoscenza complessa. Attraverso questa esperienza è interessante rispettare la matrice filosofica del teatro, non tutti i racconti sono miti, quali diventano miti, quelli che riescono a dare un senso all’interpretazione. Quello che importa è cercare di contribuire a quest’esperienza di conoscenza. Più si conosce e più si è in grado di progredire, anche se a guardare il suo teatro, questa idea è molto messa in discussione. Forse, proprio perché denuncia la relegazione della cultura, non solo del teatro, in subordine, dove nella vita prevale quasi sempre la rincorsa al potere. Con Ronconi ha fatto 25-26 spettacoli. Tornando al primo spettacolo fatto al Piccolo: La vita è sogno. Ronconi era convinto dell’importanza del teatro nella società. È uno spettacolo biglietto da visita: i temi sono quelli della dissoluzione della vita nel sogno. La vita viene dissolta nel sogno e spesso diventa un’autorappresentazione. In più ha il coraggio, simbolicamente, di dire: “beh, io vorrei che un certo tipo di spettatore cambiasse”. Sia con gli allievi, che con gli attori faceva un lavoro didattico. Diceva: “è bene cercare di formare anche un pubblico diverso, che non venga a teatro per essere semplicemente uno spettatore passivo, ma per essere co-autore della serata” (in Infinities, come ne La vita è sogno). Propone infinite possibilità di accessi, di scelte, di ramificazioni. Era come se l’attore prendesse per mano lo spettatore e lo invitasse sul palcoscenico a condividere quest’esperienza di conoscenza, rompe drasticamente con tutte le convenzioni teatrali. Continuo passare tra buio e luce e posizione dei piani. Rosaura che cerca la sua identità, Rodolfo che si strappa dal petto il volto, l’identità, di Rosaura. R diceva che bisognava vincere questa tirannia dell’intenzione, noi abbiamo l’intenzione, ma in realtà quello che esce eccede. Tutto quello che non facciamo, per controllare tutto, molto spesso esce in modo esagerato. Partiva sempre dalle cose concrete, diceva “Mi strapperò Rosaura dal petto” e quando Rosaura riuscirà a recuperare il suo medaglione, si rimetterà la sua maschera in faccia. Scardina le convenzioni del teatro per sondare qualche cosa che possa dare un piacere diverso da quello che sarebbe recuperare certi stilemi. Il personaggio si chiude in un’identità rigida difficile da muovere, Ronconi essendo un relativista, che aveva una fissazione per il movimento. I carri che fanno riferimento ad un teatro medievale, che ha un rapporto con la religione. Sui carri delle carte geografiche, sulle quali si punta di possedere questa terra e si vedono tutti questi personaggi spinti assolutamente da passioni fini a sé stesse, un tema della vanità della vita, molto particolare di quell’epoca (che viene dopo una rivoluzione pazzesca, ove il mondo non è più al centro dell’universo). C’è questa tensione verso l’infinito, annunciata anche da Giordano Bruno. Gli attori erano costretti in una specie di partitura legati agli oggetti. Lui tra tutti era quello più avvantaggiato, perché era sempre sulla sua seggiolina. Una volta che uno capisce che la scomodità può essere usata come fonte di energia per dare forza al personaggio e che i corpi comunicano molto più che le battute, è arrivato a capire il sistema di Ronconi. Goldoni, I gemelli veneziani. Interpretazione di Arlecchino, dove non c’era la maschera, era una lettura molto difficile e molto diversa dalla tradizione. Molto importante è il rapporto padre e figli. Questo tema del rapporto interpersonale, padre e figlio, è un tema da Ronconi molto indagato. Lui si è presentato con questo spettacolo a Milano. Il mondo ne La vita è sogno si sta dissolvendo in realtà virtuale: vita e sogno, vita e teatro. La stagione dopo propone Candelaio e Lolita. I gemelli sono stati concepiti assieme a questi due spettacoli. Infinities era un invito allo spettatore a condividere questa esperienza, ma era importante che lo spettatore fosse co-autore, ossia che sia poi lui a montare ciò che gli è stato dato dall’autore. Ronconi si ricordava perfettamente nomi, situazioni, ecc. Tutti questi stimoli, questi pezzettini dati allo spettatore, li deve ricombinare all’infinito. Questo gioco lo faceva nei suoi spettacoli, usava un divano che si era già visto in un altro spettacolo, perché lo spettatore lo ricollegasse allo spettacolo precedente. Tutto si interseca ed ha ramificazioni infinite. L’uso dell’anacoluto, una sospensione. Sono banalità, però spesso noi vediamo l’attore che recita il personaggio come se il personaggio sapesse già la parte. Nel momento in cui riesci ad utilizzare la voce come difficoltà della ricerca dei personaggi, delle loro passioni, delle loro follie, questo invece di essere un ostacolo diventa un vantaggio, uno strumento di comunicazione molto efficace. I personaggi non rispondono più delle maschere, ma affondano le loro radici più profondamente. C’è questa perdita di identità, un altro dei temi che possiamo trovare. In Danza macabra disse a Crippa, “Ma se ti vestissi da astronauta?”, aveva di quelle idee stravaganti. Aveva una curiosità inesauribile. Ha affrontato temi di qualsiasi tipo. Per il poco tempo che passava nella sua casa in Umbria, stava sempre nella sua serra a piantare le rose. Aveva avuto un sacco di cani e due asinelli, amava gli animali. Crippa ha il ruolo di formare gli insegnanti in modo che aderiscano al metodo di formazione degli attori della scuola. Ronconi diceva che l’attore migliore era quello che faceva la scelta migliore. Se il regista diceva che dal testo dovevano uscire certe cose, l’attore doveva fare in modo che ciò avvenisse nel modo migliore. I 100 candidati che hanno lavorato con lui, dovevano interagire con lui e lui gli ha dedicato ogni giorno, un quarto d’ora per uno. Alla fine, la sera sono usciti e lui è crollato sul tavolo. Ospiti: Anna Piletti e Nicholas Vitaliano. Nuovo autore importante è Shakespeare. Qualche cosa abbiamo già visto, siccome si tratta di un autore molto frequentato da Luca Ronconi. I due spettacoli sono Sogno di una notte di mezza estate e Il mercante di Venezia. Gli spettacoli di Ronconi avevano la possibilità di essere conosciuti dal grande pubblico. Uno S e un R visti da un angolo un po’ nuovo. La promozione culturale è un mestiere inventato da un signore chiamato Paolo Grassi. Come suo nucleo funzionava in questo modo: il Piccolo essendo un teatro nuovo, aveva necessità di formare un pubblico ex novo, che a Milano non c’era. Perché i cittadini non erano educati al teatro, che era vissuto come un simpatico divertimento, che là iniziava e là finiva. Grassi ebbe l’intuizione di intendere il teatro come un servizio alla città, doveva esserci un teatro in ogni città che fosse un teatro stabile. Un teatro d’arte per tutti. Serviva perciò una promozione basata su tanti fattori. La politica dei prezzi: noi siamo riusciti a venire a teatro con dei prezzi ridotti, politica attuata per portare a teatro i giovani. Abbonamenti specializzati su categorie di lavoratori, studenti, pensionati. Innovazione nel campo degli orari in cui gli spettacoli andavano in scena: gli spettacoli iniziano alle 19:30, perché così facendo, permetteva ai lavoratori e agli operai, con gli orari anticipati, di venire a teatro a un orario normale, per poter andare il giorno seguente a lavorare. Il percorso del teatro quartiere: Il teatro quartiere era un’altra delle geniali iniziative, che portava il teatro nelle periferie di Milano. I tendoni da circo utilizzati erano edificati in periferia e vi venivano portati gli spettacoli della stagione. La produzione culturale però prevede anche altri fattori. Sempre per il pubblico studentesco, vengono da tempo attuati dei percorsi legati agli spettacoli in scena. Bisogna legare il teatro a delle attività alla spiegazione del significato dello spettacolo. Anna Piletti fa questo lavoro da anni, è attualmente la personificazione della promozione del Piccolo Teatro. “L’attore viene da voi” fu una delle tante intuizioni di Paolo Grassi. Ci sono molte teorie della comunicazione e delle promozione culturale. Grassi diceva che la comunicazione è fatta da uomini e donne, la relazione è tutto. Questa fiducia nella relazione tra persone è la base del lavoro del promotore. La promozione del Piccolo Teatro passa attraverso un’ossatura formativa, complessa che ha a che fare con quello che abbiamo fatto con Ronconi. Può essere più o meno strutturata: abbiamo provato a coinvolgere artisti, insegnanti. La finestra di dialogo tra pubblico e attore è sempre aperta. La virtualità è importante, tuttavia i social media non sono tutto, il contatto è importante. Grassi voleva che gli attori si alzassero, andassero in fabbrica o nei licei a parlare con il loro pubblico. Il lavoro teatrale di Luca Ronconi al piccolo Teatro Ronconi diceva che “Lo spettacolo non si spiega”, rispondendo a questo atteggiamento grassiano. Per Ronconi lo spettatore poteva anche distrarsi e anche non capire. Ferventi credenti nell’idea che la consapevolezza porti ad una maggiore, migliore fruizione, ha avuto un’oscillazione. Come lavorare sugli spettacoli di Ronconi? La Piletti è arrivata poco prima del suo progetto Shakespeariano. Un po’ di statistiche: Il teatro Studio e Grassi ha una capienza di 400 mentre lo Strehler ne ha 300. Sono sale enormi. Per Sogno di una notte di mezza estate: il 75% del 14.700 persone come totale di pubblico organizzato (persone che vengono a teatro), 11.300 erano giovani e studenti under 25. Per Il mercante di Venezia: su un totale di 15.200, giovani under 25, un totale di 13.000 persone. Cerchiamo di costruire percorsi di accesso che abbiamo anche base cartacea, un dossier che possa accompagnare gli spettatori. Anche un percorso per docenti, oltre che per studenti. Come si lavora su uno spettacolo in termini di educazione al teatro? Pensa che il teatro sia un grande territorio di interdisciplinarietà. Il modo di Ronconi di lavorare su Shakespeare ci ha consentito di intersecare forme e discorsi sul teatro. Discorsi di pedagogia della comunicazione teatrale. Il teatro è un insieme di segno teso a comunicare. I luoghi deputati: Atene Sogno di una notte di mezza estate, di William Shakespeare, regia di Luca Ronconi, scene Margherita Palli. Ronconi in modo un po’ sornione parlava di Shakespeare. Non si cita mai la Tempesta di Strehler, ma sempre Arlecchino. Shakespeare entrò dal 48-49 al Piccolo. Se guardassimo la teatrografia di Ronconi vediamo che S è presente ma non dominante. Anche la facilità che il pubblico si rispecchiasse nelle metafore seduttive di S. questa facilità non invogliava Ronconi a metterlo in scena. Così R decide di mettere in crisi lo spettacolo, perché nella sua visione di “sogno” va contro tutta una sorta di immaginario ormai largamente condiviso di questo testo. Che cosa è restato? Ronconi spesso partiva da un progetto di scena, da un’idea una sorta di potente iconogramma che portava poi nell’analisi del testo. Al di là dell’impatto visivo, la Piletti ricorda le prove, all’interno del complesso intreccio del sogno, ci sono le varie storie d’amore, vengono apparecchiate una serie di relazioni di amore-odio. Elena e Ernia erano raffigurate come due ciliegie appese allo stesso picciolo. Il linguaggio di Shakespeare è funzionale alla comunicazione. Sia nell’adesione ai canoni rinascimentali, sia nella deviazione da questi, S aveva un obiettivo: non gli interessava rispettare le unità aristoteliche, ma la comunicazione. Anche quando dei contenuti appaiono altissimi, la loro funzione è sempre quella di comunicare qualcosa al pubblico. Ronconi ha preso alla lettera un principio del teatro Elisabettiano, altamente convenzionale. Ci si interrogava su come dovessero essere le scene. In Inghilterra bastava che un uomo uscisse con il cartello “Foresta” perché il pubblico capisse che si trattava di una foresta. Siccome non pensava di fare uno spettacolo di magie, a che serviva l’apparenza della foresta. In fondo amplifica, con la progettualità e la capacità tecnica del teatro, elementi in movimento. Queste lettere, che compongono i cartelli elisabettiani, identificano una geografia simbolica sono anche oggetti scenici funzionali, praticabili. Questo è uno dei principi della semiotica teatrale, diventano un segno. Un tavolo messo in scena per convenzione, il tavolo può diventare una barca, un letto e noi ci crediamo. Un sogno anti-magico, simbolico, che sembrava essere creato per ragionare sui luoghi della letteratura, e sul funzionamento della macchina scenica. Uno dei giochi che facevano con i docenti o con gli studenti è una riflessione, estesa nei loro contributi, sulla potenza dei luoghi. Nel momento in cui Ronconi costruisce questa scenografia, che cosa si pensa, anche riflettendo sulla propria esperienza? È ricondotto al tema amoroso, però non è Giulietta e Romeo, Ronconi diceva di immergere l’amore in una vasca di candeggina, quello è l’amore nel Sogno di una notte di mezza estate. Il matrimonio comunque ha a che fare con lo stato di diritto, perché Egeo si reca a corte da Teseo per far valere i propri accordi matrimoniali alla figlia. I luoghi sono portatori di significato, indicati così come nel sogno strutturalista più acceso. La foresta è uno dei luoghi più psicologici, la foresta è selvaggia, luogo dove succedono le cose che succedono nel sogno, nella dimensione dell’eros, dell’immaginazione, della magia. Concretezza e capacità di comunicare tramite la recitazione, attraverso il gioco con un tappeto sonoro. Strehler ha un’acustica pessima, perciò gli attori vanno sempre microfonati. La riflessione su COME diffondere il suono, anche perché gli effetti dovrebbero avere una portata allucinatoria. È tutto molto astratto, tutto molto distante e molto vicino. Ha consentito di avvicinarsi ad elementi di comunicazione shakespeariani e al teatro elisabettiano. Hanno lavorato su questi luoghi facendoli diventare luoghi fisici e luoghi dell’immaginario. L’amore è in candeggina, come frutto dell’obbligo, come della coercizione e della violenza, è stato smontato completamente. Il primo gesto che vediamo in scena è un gesto di violenza, poi un altro elemento interessante è che gli elementi di continuità sono costituiti dal fatto che le due coppie si riflettono negli stessi attori: il re e la regina di Atene e il re e la regina delle fate. Il lavoro che fa Ronconi su S è simile a quello fatto su Goldoni, ossia il tirare fuori da un classico qualche cosa di nuovo. Ronconi accoglie le strutture, scrosta e va all’essenziale, quelle che sono le ossatura comunicative di questi testi. La Luna ha un ruolo fondamentale nella storia, qui è evocata tramite lettere. Una dichiarazione di Ronconi dice che: non gli interessava che gli attori dicessero belle parole, perché molta della musicalità dell’inglese andava persa. Soprattutto gli attori dovevano aver chiara l’espressione emotiva e il significato. La sessualità era esplicita, messa in scena con una veridicità e grossolanità estrema. Ospite: Claudio Longhi Un personaggio molto vicino a Luca Ronconi, iniziando come assistente alla regia. Un prestigioso collega che insegna all’università di Bologna. Uomo di teatro che ci parla come professore e come regista che ha mosso i suoi primi passi proprio accanto a Ronconi. Crede che sia necessario parlare di Ronconi. Un giorno, parlando di un’attrice a lui molto cara, alla quale forse lui ha dovuto molto per la formazione, Annalisa Fabbri, fece una considerazione che probabilmente varrà anche per lui: “il teatro italiano dimentica in fretta”. Claudio Mendolesi, in uno dei suoi libri più belli (Sottotitolo: Sei invenzioni sprecate del teatro italiano). È come se si faticasse a tesaurizzare quello che è stato inventato o scoperto, è come se non esistesse una tradizione forte, ma dei lampi di genio che collassano su sé stessi. Il primo a capire Ronconi è stato in qualche modo lui stesso. lui l’ha conosciuto all’inizio degli anni Novanta, nella concisione all’arrivo di Roma e poi quello a Milano. Chiacchierando del suo percorso lui diceva che si era divertito molto, si chiedeva cosa fosse rimasto del suo lavoro. Luca Ronconi è stato una grande innovazione del nostro teatro. È importante riflettere prima che la sua lezione si perda, per cercare di capire quali cammini egli ci abbia indicato per gli anni a venire. Crede che sia difficilissimo spiegare che cosa sia la regia. O si arriva a considerazioni estremamente generiche, oppure diventa molto difficile capire il cosa. C’è una strana schizofrenia tra l’immagine di Luca nel passato e ciò che egli stava sviluppando nel suo laboratorio. L’immagine passata di Ronconi fu soprattutto quella de “Il dio delle macchine”, questo grande ingegnere della macchineria teatrale. Una sorta di reinvenzione della macchineria barocca. Basta vedere il suo rapporto con Giambattista Andreini. L’impatto che ha avuto sull’invenzione degli spazi è stato molto forte. Venendo da quell’immaginario di immagine pubblica di Ronconi, quando cominciavano le prove egli della scena non parlava mai. In genere tendeva a minimizzare tutto, diceva che in scena in realtà non c’era nulla, un sipario che va. Una lotta corpo a corpo con la parola. Per Longhi questa schizofrenia era molto interessante, soprattutto una dichiarazione su cosa fosse un regista. Questa grande avventura pratese di Ronconi, che lo vede impegnato in una serie di spettacoli fondamentali. Ragionando con Mariagrazia Gregori, Ronconi disse che “Il regista è chi partiva da materiali anche non necessariamente teatrali e trova un modo teatrale di comunicarli”. È insomma chi organizza teatralmente dei materiali e che trova il modo di raccontarli teatralmente. Nel ’69 lancia l’Orlando furioso, che è un poema, non un testo teatrale. Così conquista la sua fama di regista di grido internazionale. A Milano esplode nel caso clamoroso di Quel che sapeva Mesie, Lolita e Infinities. Secondo lui a teatro si poteva recitare anche l’elenco del telefono. Voleva fare una sorta di montaggio di articoli di giornale, di fare in metropolitana un’annata del corriere della sera. È come se ci fosse da parte sua una sorta di vocazione alla scrittura teatrale, che non trova nello sfogo diretto della scrittura di copioni. Voleva partire da materiali non teatrali per portarli a teatro. Quando fece la prima messa in scena per Pasticciaccio brutto di Via Garulana, voleva non trasporre direttamente il romanzo. La scelta qui fatta è diversa da quella dell’Orlando, perché lì c’era un drammaturgo che piegava il poema a prendere una forma teatrale. Come se i personaggi continuamente si descrivessero. Una sorta di pseudo forma teatrale era stata mantenuta. Invece per il Pasticciaccio era stato mantenuto tutto. Lo spettacolo durava 5 ore, tantissimo materiale era stato tagliato, ma non era stato riscritto. Perché egli fa questa scelta? Egli diceva sempre : “La prima grammatica, per chi scrive per il teatro, sono le convenzioni rappresentative, un drammaturgo scrive rispettando una serie di convenzioni. Quando i drammaturghi non mantengono quelle convenzioni i loro testi non vengono rappresentati”. Un caso clamoroso è quando mette in scena Gli ultimi giorni dell’umanità. Craws disse che “Ho scritto questo testo per un teatro che sta su Marte”, perché irrappresentabile per via delle convenzioni rappresentative. Queste convenzioni sono dettate da chi? Ronconi dice che chi ha il coltello dalla parte del manico è il regista. Con il teatro italiano si può parlare di regia in senso stretto, al tempo del dopo guerra, la regia è arrivata, ma il potere contrattuale è stato dato ai registi. A Milano con Strehler, poi con Ronconi. I registi hanno invaso il campo a tal punto da far retrocedere il territorio dei drammaturghi. La regia si esercita su drammaturgie già esistenti, un atto interpretativo. In Inghilterra invece chi ha il potere sono i drammaturghi. La regia ha invaso il campo. In qualche modo la regia detta le convenzioni rappresentative, qualche cosa di estremamente concreto. Luca, quando parlava di convenzioni rappresentative utilizzava la categoria di patto drammaturgico: patto stipulato con attori, registi e chi paga perché le cose vengano fatte. Il Pasticciaccio durava 5 ore, con due intervalli. Tutti erano spaventati, perché erano 5 ore di spettacolo e con una lingua di Garda. Il teatro era pieno murato all’inizio, poi agli intervalli c’era un calo di pubblico ed alla fine dello spettacolo ancora il teatro pieno. La vita è sogno era divisa in tre parti, era presentata al teatro Strehler. Il teatro all’inizio era pieno e alla fine dello spettacolo si registrava sempre un consistente calo di pubblico, passa un anno e Ronconi va in scena con Lolita, una sceneggiatura cinematografica, tante piccole scene che duravano una serie di minuti. Spettacolo complessissimo, con 17 binari, macchine che andavano avanti e indietro. Quello che accadeva era che andava avanti pezzettino per pezzettino. Sono arrivati a farlo tutto di fila all’ante generale. In generale Lolita durava 7 ore e mezzo. Sono saltate tre ore e mezzo di spettacolo, la sera prima lo spettacolo durava 3 ore e mezzo. Perciò fu un incubo, perché era stata tagliata tutta la parte dell’amica di Lolita. Impressionò tantissimo la scelta di tagliare. Ronconi non si spaventava davanti alle durate. Qui decide di tagliare perché a Milano c’è la metropolitana. La metropolitana è una convenzione, perché si deve sapere come il pubblico venga a vedere lo spettacolo. Per gli spettatori il problema era tornare a casa. Tutto quel sistema di condizionamenti materiali, strutturali, ecc. L’osservazione di Ronconi è che “Oggi un regista ha molte più possibilità di far leva sulle convenzioni rappresentative, molto più del drammaturgo”. Il teatro dell’assurdo, dell’angoscia e del soffocamento, due o tre personaggi chiusi dentro una stanza che si massacrano chiusi in una stanza e si massacrano. C’è questa sorta di chiusura. Artificio per permettere che si sviluppi il dialogo teatrale. “Se noi ci pensiamo, questo modello […] è molto forte anche nella drammaturgia contemporanea […] scena fissa, stanza chiusa […] come mai questa moda di drammaturgia? […] se, da giovane drammaturgo scrivi un testo con scene mobili o più personaggi, nessuno te li rappresenta. Io posso fare uno spettacolo con più di 40 attori com’era il Pasticciaccio invento uno spazio ibrido dentro il quale vivono più spazi contemporaneamente”, “Io da regista me lo posso permettere, un drammaturgo non se lo potrebbe permettere”, “Ho fatto il pasticciaccio per dimostrare che è possibile raccontare teatralmente in modo più ricco, molto più vario di quanto le convenzioni ci permettano”. Lo spettacolo infinito era il sogno della sua vita, uno spettacolo che lo spettatore non può dominare complessivamente, perché appunto è molto più complesso di lui. Il suo sogno è il dare corpo alla complessità della contemporaneità. Il grande maestro Brecht, con il quale Ronconi ha avuto un rapporto terribile. Ha sempre detto di avere per il suo teatro un’avversione profonda. Diceva che Brecht ha un messaggio troppo univoco, vuole dimostrare qualche cosa, per Ronconi il teatro è molto più complesso, è un insieme di significati. Per altro c’era un forte legame, grazie alla Marisa Fabbri, la più grande attrice brechtiana e la più grande musa ispiratrice di Ronconi. Lo straniamento di Brecht è un attore che fa la parodia del personaggio. Ronconi invece parlava di oggettivazione, non tirarsi addosso il personaggio, ma dire “il personaggio è questo qua”. Avversione profonda e debito inconfessato. Uno degli scritti fondamentali di Brecht è estremamente illuminante per capire Ronconi e si chiama Teatro scientifico. Egli dice che dal suo punto di vista è possibile rappresentare il mondo del teatro soltanto se si sa accettare la sfida della complessità. Se voglio riuscire a spiegare cosa sta succedendo devo rendere il teatro divertimento, non una lezione, ma nel divertimento esso deve essere un teatro scientifico, che usa il mezzo per restituire una realtà. Brecht dice che non vuole “complicare le cose, il mondo è complicato”. In dieci metri per otto ci si deve far stare il mondo. La grande sfida è utilizzare il teatro per raccontare qualche cosa di estremamente complesso, come diceva anche Italo Calvino il “saper accettare la sfida della complessità”: accettando l’arcaicità del teatro, usandolo nella sua inattualità, il teatro è un linguaggio che va lento, perché se io sono a teatro e voglio raccontare qualcosa ad una stanza, dura più tempo rispetto ad un’inquadratura cinematografica. Necrogious ha detto che “Il teatro è una lentezza che serve come antidoto alla velocità del mondo presente”. Ronconi ha sempre cercato e rincorso la complessità della contemporaneità, creando linguaggi che la potessero trasmettere ad un pubblico teatrale. Con Infinities si partì con una sorta di gara partendo dallo far scrivere a degli scienziati un testo scientifico-teatrale. Un’opera difficile per Ronconi, perché alla fine si ritrovava gli scienziati che imitavano il testo teatrale. Davanti alla follia della donna che parla della figlia femmina dicendo che è un peccato perché non essendo un maschio non può andare in guerra e morire da eroe, vediamo il senso di straniamento che dava Gli ultimi giorni dell’umanità. Il lavoro dell’attore è il lavoro di un ladro, perché deve rubare tutto ciò che gli sta attorno e restituirlo. Deve dipingere la situazione, restituirla nella sua realtà più oggettiva. Ronconi si avvicinerà a Brecht con Santa Giovanna dei Macelli. Il rapporto di Ronconi con gli attori era terribile. Fortemente conflittuale, che per un verso era sedotto dall’attore e per altro verso aveva una sorta di demone demiurgico che lo portava a sovrapporsi all’attore. Marisa Fabbri è morta nel 2003, a distanza di 7-8 anni, R mette in scene Itaca, con un ruolo che sembrava scritto per la Fabbri. Con la Lehman Trilogy si vedeva dietro Ronconi. Ronconi aveva serie difficoltà con il linguaggio, era al limite della dislessia. Quando cominciava a parlare non spiegava mai nulla. Si capiva tutto vedendolo leggere. Il suo strumento di comunicazione era “farlo”. Si sta anche delle ore a parlare di una battuta e poi la si recita, per vedere se l’attore ha capito. Secondo Luca il teatro è una forma di comprensione fisica, non è mai una lezione, ma parla un’altra lingua, quella del corpo. Anche se io faccio una lezione la sto spiegando fisicamente. Tra i critici esisteva anche la recitazione ronconiana: lenta, strana e con una sorta di cantato, con una sorta di musicalità del linguaggio. Il fatto che gli attori registrassero Luca portava ad un suono di questo genere. Il problema era il cercare di capire il procedimento mentale che lo portava a recitare in quel modo. C’è una sorta di sindrome di chi stava davanti, peraltro c’era una cosa che lui ti chiedeva. L’artefazione era tale per cui vedevi lui che recitava e capivi che quei suoni lì erano i suoni suoi. Luca è il primo che si è posto il problema di cosa vuol dire recitare in italiano. Quello che noi chiamiamo recitazione dell’arte drammatica, è stata plasmata su testi che non erano stati scritti in italiano originale, passano dalle traduzioni francesi, che riproducono la sintassi francese, in francese tu hai l’obbligo di anteporre il soggetto al significato, noi italiani possiamo omettere il soggetto. L’italiano è una lingua di avvocati fatta per ingannare il prossimo, che ha una libertà sintattica che dà la possibilità di ricostruire la frase a proprio favore. Se si recita su testi con logica francese, hai una battuta con necessariamente un inizio, un mezzo e una fine. Bisogna quindi tirare fuori gli inganni all’interno della battuta. Ronconi voleva togliersi dal meccanismo francese della battuta e disarticolarla tirando fuori tutti i piani che c’erano dentro. Di Pirandello non amava la quantità di trattini (l’asintassia), una disarticolazione del linguaggio. Ha un linguaggio fortemente parlato. Uno strano paradosso, perché una recitazione che nasceva per il parlato, quando veniva restituita diventava uno stravolgimento sintattico che portava ad una sorta di suono melodico. Nasceva tutto dalla volontà di Ronconi di restituire ciò che il personaggio pensava. [Appunti recuperati da Michele Gritti] Ospite: Silvia Tisano Del teatro Elfo Puccini. Due spettacoli di Ronconi di Shakespeare al Piccolo: 1. Sogno di una notte di mezza estate; 2. Il mercante di Venezia. Sogno di una notte di mezza estate Tre storie che si intersecano. Metateatro = viene messa in scena una rappresentazione all’interno dello spettacolo. Spettacolo complesso. Teatro elisabettiano = teatro senza scenografia. Questione spaziale = molti cambiamenti di scena. Margherita Palli = scenografa dello spettacolo Scenografia essenziale, 3 parole: luna, Atene, foresta. Le lettere poi vengono spostate e in alcune scene sono utilizzate come oggetti di scena. Lettere di dimensioni diverse, illuminate, colorate, i luoghi sono portatori di significato. Molte scene sono ambientate al buio illuminate solo dalla luce delle lettere. Presenza della musica (non frequente negli spettacoli di Ronconi). Testo che è stato musicato più volte. Sogno di una notte di mezza estate è stato un po’ una sfida per Ronconi, a Milano. Questo spettacolo è l’emblema dell’Elfo (affronta una tradizione ben presente a Milano). Attori - 24 attori - Molti giovani - Gli attori interpretano più personaggi. Nello spettacolo di Shakespeare erano previsti 4 attori. Critica - Quasi tutti erano concordi sulla bellezza dello spettacolo. - Normalmente Ronconi riceveva molte critiche per il suo amore per le macchine. Forse la semplicità di questo spettacolo ha aiutato a mettere tutti d’accordo. I costumi sono di Marros (stilista internazionale), che firma i costumi per lo spettacolo. Atene = costumi chiari (luccichii). Foresta = costumi colori più sani. Ospite: Franco Branciaroli. Attore che abbiamo la possibilità di vedere in alcuni spettacoli memorabili. A quando risale il tuo incontro con Luca Ronconi? L’incontro fu nella sua casa al mare a Frigene. La sua conoscenza con lui fu occasionale. Un giorno, ero già un attore giovane e abbastanza ben voluto sui palcoscenici, una sera, io avevo una casa a Roma, squilla il telefono e sento la sua voce impacciata. Mi invita a partecipare al suo spettacolo. Mi parla del laboratorio di Prato, mentre mangiavamo al ristorante. A Prato c’era questo capannone e vi si allestiva questo testo. C’era la sua cooperativa che mi odiava, siccome c’era uno che doveva fare Sigismondo, ma che non andava. Io ero un estraneo all’interno della cooperativa. L’ho conosciuto perché il suo amministratore si era rifiutato di contattarmi. Dovette quindi muoversi lui in persona. Da lì nacque un rapporto molto profondo e interessante, che mi aprì al mondo della drammaturgia e del teatro. Luca Ronconi è uno dei più grandi riformatori teatrali del dopoguerra. Con l’Orlando Furioso per la prima volta costruì uno spettacolo dove lo spettatore non aveva la prospettiva galileiana, lo spettacolo decidevi tu dove vederlo. Questa struttura non venne assolutamente capita. 1. grandi regie tradizionali strutturalmente, il triste ritorno alla regia, al chiuso. Lo Stato avrebbe dovuto sbaraccare tutto il teatro di prima e affidare il nuovo teatro alla riforma di Ronconi, invece per mancanza di soldi, hanno costretto R a tornare a fare grandi spettacoli, grandissimi, ma che rientrano in certi limiti. Non divenni mai uno del suo gruppo, perché lui aveva uno strano atteggiamento sadico, con gli attori che stavano nel suo gruppo. venivano ciclicamente puniti, eliminati e richiamati. Io non mi ci accostai mai, infatti facevo con lui uno spettacolo saltuariamente. Quando l’hai incontrato eri già attore formato, è cambiato qualche cosa nel tuo metodo d’attore, Ronconi ti ha arricchito? Ho avuto un cambiamento gigantesco. Ronconi era miliardario, talmente ricco che i teatri se li comprava. Paolo Poli recitò per lui in Trionfo. A lui non importava nulla dei critici, nemmeno li faceva entrare. Carmelo Bene accettò la regia di un altro, proprio perché Trionfo gli permise di fare un altro importante spettacolo. Giovanni Testori, un incontro tra un autore e un drammaturgo, egli voleva applicare le leggi dello strutturalismo francese. Ronconi da ciò trae la sua recitazione ronconiana. È come se mi avesse ricreato la carriera, perché ti dà un’autonomia recitativa impressionante. Con lui si era stretti a sondare tutto il testo e venivano fuori delle cose meravigliose. Io lo devo ringraziare molto perché mi ha fornito un caricatore di proiettili che prima non avevo, ha modificato anche il mio modo di recitare. Io ho passato 40 anni ininterrotti dove la sera alle nove io stavo sul palcoscenico. Un ragazzo mediamente colto che viene prelevato dal teatro. 70 testi imparati a memoria, replicati 120 volte, che non avete idea di cosa accada con il testo, Medea io l’ho replicato 250 volte. Ogni sera ripetevo a memoria questo capolavoro assoluto dell’umanità. Sono un privilegiato. Non c’è più gente come Ronconi. Se si va a teatro si vedrà una mediocrità dilagante. La Medea del 1996, che ha avuto un grande impatto, hai avuto un ruolo importante. Lo rifarò, anche se sono grasso. Avevo tacco da 10, scarpe nere, aperte e sopra una sottoveste nera anni ’50, riccioli e mi aveva fatto depilare le sopracciglia. Questo era perché voleva mostrare Medea non come una proto-femminista, ma come una paurosa divinità, come un mistero insondabile, si veniva a creare un triangolo di comprensione. C’era il coro che per convenzione teatrale non sapeva che è un uomo, ma voi sì. Si creava un fatto di pericolo gravissimo per il coro, che non sapeva che la femminilità di Medea è una maschera. Si creava una tensione continua tra Medea, il coro e il pubblico. Questo creava una potenza che un’attrice femmina avrebbe raggiunto in altro modo. Non vinse mai il premio della tragedia, perché ad un certo punto lei deve ammazzare i figli ed è un continuo “no”, “sì”, il dio che prova il dolore umano. Si presenta in scena come un mostro, ciononostante oscilla tra questo dolcissimo modo coi figli e questa ferocia, umano-divinità. Questo travestimento veniva fuori senza equivoci. Pochi anni dopo, 4, sei protagonista de La vita è sogno, che è il primo spettacolo di Ronconi come direttore del Piccolo Teatro. Com’era l’avventura di entrare al Piccolo Teatro casa di Strehler? Io ebbi un grande disastro con Strehler, perché ero giovane e sciocco. Io che stavo a Torino ero andato a casa una domenica sera e siccome mi compravo La Stampa di notte, mi cade l’occhio sul mio cognome in prima pagina. Era scritto: “Branciaroli: Strehler se ne deve andare”. Una conferenza stampa a Milano, c’era un giornalista, era l’epoca delle “mani pulite”, lì ne uscì un casino. Così io non potei più nemmeno girare intorno al teatro. Quando Ronconi entra a teatro io pensai che non ci sarei più andato comunque. C’ero rimasto molto male. Poi ci fu la telefonata di Ronconi, che mi ha invitato a prendere un caffè. Mi propone di fare la parte, come spalla di Popolizio. Così lui gli ha offerto di fare Humbert Humbert di Lolita. Ha preso il nemico numero uno, la moglie, li ha messi insieme e li ha posti con un pugno sul tavolo molto chiarificatore, per me anche molto imbarazzante, perché quando entrai lì dentro l’aria si tagliava con il coltello. L’anno successivo, con Lolita, è stata un’esperienza molto complessa, abbiamo avuto Angelo Ferro, ed altri del piccolo, il tuo personaggio era protagonista. La delusione fu che non prese una bella Lolita di 12 anni, ma una canadese di 60 chili che mi fece venire il male alla spalla. Questo testo era di Nabokov, una sceneggiatura cinematografica che N aveva stilato come film di Kubrik, mai usato. N ci teneva molto a questa sceneggiatura e quando Ronconi la fece, il figlio di Nabokov fu molto felice. Ronconi ha fatto forse la Lolita più bella, molto più di quella di Kubrik. Lo fa proprio con dei nabokoviani. L’unica delusione, che non ho mai capito, è il fatto che abbia evitato un eros diretto, con una ragazzina di 12 anni. Nabokov, annovera tra i tre scrittori preferiti Joice, Borges e Rob Gries, un sadico dichiarato, come Nella casa di Hong Kong (in cui c’è una ragazzina che viene legata e mangiata), la moglie di Rob Gries è una sadica dichiarata e si era vestita da Lolita a cena. L’unico sentore che non è stato ben capito è il fatto che non fu calcato un pedale su questa cosa. Per il prezzo tanto discusso delle scenografie? Non è che lo spettacolo di Ronconi costi, ma è la struttura intellettuale italiana. Per l’Italia il teatro è quel luogo dove se si ride è meglio, non è visto come una forma di conoscenza, questo perché è molto più difficile. Piano piano muore perché è un’arte che deve essere finanziata. Il teatro è sempre stato pagato dal principe. Nei paesi europei come la Germania il teatro è finanziato. Non girano gli altri spettacoli perché non sono finanziati, per quelli gli spettacoli di Ronconi paiono più costosi. Sono stati uno shock i tempi dei suoi spettacoli? Ci ha rovinato la prima, perché in genere non li finiva gli spettacoli, ma non fu uno shock, io ero abituatissimo a fare spettacoli lunghi. Attraverso il teatro tu capisci come sei fatto, lo spettacolo che vagheggiava Ronconi era uno spettacolo infinito. Per lui la sala era una prigione. Spesso durante le prove diceva: “Guardate che io ho 80 anni, questa per me è la fine della storia, ma per voi sarà possibile rivedere il nuovo, anzi potreste essere proprio voi gli autori di un nuovo modo di fare il teatro”. Lo spettacolo del 2002, delle tre tragedie greche. Dopo aver fatto Lolita, arriva la punizione, saltano fuori le tre tragedie greche e lui mi propone di fare Prometeo. Lo doveva fare De Francovich il Prometeo. Squilla il telefonino ed è Ronconi che mi dice che De Francovich non faceva il Prometeo. Quindi contratto con lui per una paga piena alle prove. Poi ho capito perché: quando arrivo alle prove vedo una torre, un traliccio con una specie di poltrona a 15 metri. Lì ho capito perché De Francovich non ha voluto fare il Prometeo. Quando arriviamo a Siracusa questa era una statua enorme, ed io ero costretto lì per due ore, legato a 15 metri all’aperto. Arrivavo fino al limite alto del teatro greco. C’è una ragione a questa scomodità dell’attore? Per lui quella scenografia era fondamentale, perché le sue scene erano talmente importanti che l’attore non poteva starsene con le mani in tasca a subire. Nella torre io mi sono incendiato e non me n’ero accorto, io facevo l’animale, l’uomo belva e le palle nere con dentro l’olio mi avevano incendiato la camicia. I suoi spettacoli sono sempre stati così. Al lago di Zurigo ha fatto lo spettacolo sul lago. Gli spettatori erano su delle zattere. Il sindaco per dispetto non glielo fece fare. Lì mi sono venuti davvero i capelli bianchi. Anche quando li fa al chiuso, che secondo me è stata una sconfitta, li fa sempre punitivi. Non era un grande amante del pubblico, lui voleva sfinirlo fino a farlo andare via. Se tu vuoi divertirti paghi. Aveva in realtà questa mentalità aristocratica. C’era un’attenzione nel lavorare con i giovani attori? Da noi non c’è corrispettivo, far la scuola degli attori è un po’ come venire alla scuola dei poeti. Le antiche scuole di teatro c’erano Grassi, Ferrante, ecc. se tu vuoi fare l’attore devi fare dizione, poi, sei un attore? Boh. Io però ti ho dato quel che serve. È come se dessero per scontato che sei un attore. Gli attori escono e non sanno dizionare, non sanno parlare, per via di questo fatto che il testo non c’è più. Io ho fatto l’attore per non andare a fare il soldato, perché mi aspettavano i 24 anni, c’era la scuola del Piccolo e io parlavo con l’erre moscia. Volevano bocciarmi, però entrai con una presa in giro. Avendo questo professori molto in gamba, cominciai a leggere e piano piano nasce la passione, poi scatta il mistero, tu credi di vergognarti, poi sali e ti vien da dire “Oh, ma lo sai… arrivi. Eh, arrivi giù. Quando parli, arrivi giù”, piano piano vai, ma il perché arrivi giù nessuno lo sa. Ci sono persona al bar che quando parlano tu le ascolti, mentre altra no, non perché dicano cose più intelligenti, ma non lo sai. C’è qualcosa che sfugge. L’attore non è che nasce, un quarto di voi ce l’ha questa cosa, il destino non l’ha portato lì, ma ce l’ha. Ogni arte ha bisogno di un manufatto, c’è solo un’arte che non ha bisogno di manufatti: è l’attore, perché tu sei la tela. Un manufatto di imitazione. Ospite: Maria Paiato. In scena in Franco Parenti, con Amuleto, un monologo di circa un’ora e un quarto. Ciononostante ha voluto essere qua per testimoniare il suo lavoro con Ronconi. Il suo lavoro era un lavoro che la vede protagonista soprattutto nell’ultimo periodo di attività di Ronconi. Ultimo spettacolo è stato Il silenzio dei comunisti. Per trovare degli spettacoli legati al Piccolo vediamo La modestia, Santa Giovanna dei macelli, Il panico e Celestina (2014). Quattro titoli in cui la vediamo protagonista, di quattro regie importanti che il maestro ha fatto al Piccolo. Quando è stato il tuo primo incontro con Luca Ronconi? Il mio primo incontro con Ronconi io l’ho avuto in Accademia, come insegnante. Io ho fatto cinque anni di ragioneria, poi ho scoperto il teatro, ma non lo vedevo come il mio mondo. Quando ho osservato la regia di Ronconi ammetto di non aver capito niente. Poi è successo che sono entrata in Accademia e lo avuto come insegnante. È stato un approccio un po’ distante, molto intimidito da parte mia. Stavo sempre nel mio posticino. Poi ci siamo diplomati. Massimo Popolizio è diventato da subito l’attore di riferimento di Ronconi. Io ricordo che andavo a teatro ed ero incantata da quello che vedevo. Vedevo questo spazio enorme e gli attori che correvano in scena, abbastanza insolito, perché di solito il palcoscenico è limitato. Ciò dava la sensazione di un teatro enorme. Ero assolutamente affascinata, poi andavo nei camerini, lo salutavo timidamente e gli dicevo che mi sarebbe piaciuto tanto lavorare con lui. Mi sono strutturata come attrice nei 20 anni a venire. Ronconi era un uomo proprio che ti metteva in discussione, ti metteva ogni giorno in difficoltà, ti faceva sempre capire che c’erano modi differenti di recitare. Come attrice non sapevo come avrei potuto finire. Quando l’ho incontrato da più grande ero già un poco più sicura. Lavorare con Ronconi significava avvicinarsi al testo in maniera molto sospettosa, cercando tra le parole, tra le righe, tra le frasi, altri significati. Ne La Celestina lui diceva sempre che non aveva mai le idee chiarissime su quello che voleva. Le sue prove erano di un livello enorme, però era vero, arrivavamo un giorno alle prove e ci diceva di farle in un certo modo, poi il giorno dopo lo chiedeva in un altro modo. Luca non diceva “cerchiamo insieme” ma lo faceva fare a te. Si credeva di non riuscire a sintonizzarsi. Aveva una grande velocità di pensiero. Lui facendo il suo lavoro prendeva energia, nonostante gli anni e nonostante la dialisi che lo vampirizzava. Era una mente che è difficile ritrovare. Quando abbiamo lavorato insieme nel progetto di Torino, io stavo facendo la parte di una professoressa. Lui stava facendo Peccato che fosse puttana. Io andavo lì ogni tanto a tirargli la giacca, quindi lui sapeva di me. Il mio personaggio era fatto in Russia, quindi siccome si parlava di comunismo hanno pensato a me. Io lavorai con Ronconi sul piano del monologo. Mi mancava l’esperienza di lavorare con Ronconi o con gli altri attori. Da lì, ci testavano in un qualche modo. Lui si trovò bene con me e quindi mi sono trovata in questo mondo meraviglioso che era il Piccolo teatro di Milano. Da lì sono partiti quattro anni di incanto, molto importanti per me. Modestia e Panico sono di Spregelburd, un autore contemporaneo, argentino. Volevo portarti su Santa Giovanna dei macelli, una delle opere più celebri di Brecht, che ti ha introdotto come attrice brechtiana. Strehler l’aveva messo in scena con una sua attrice, che è Valentina Cortese. Una grande sfida. Il primo Brecht di Ronconi… Santa Giovanna nemmeno io ci credevo che mi avesse pensata per questa cosa. Non è mai stato un autore battutissimo da Ronconi, che si è divertito a riproporlo proprio nel tempio di Brecht qui a Milano. Non si prendeva sul serio. C’è una qualità proprio da cartoon dello spettacolo. Vuol far venire fuori la parte più giocabile. Nella lettura di Ronconi c’era un po’ questa donna imbevuta di idee, ma senza mai averle per davvero testate su di sé. Era uno spettacolo vedere durante le prove vedere come lui recitava. Non vedevamo l’ora che recitasse lui, perché ci apriva un mondo. Era molto realistico, nella sua recitazione era tranquillo e vispo. Vediamo i bozzetti di Margherita Palli e i costumi di Gianluca Sbicca, che vedremo entrambi in futuro. La recitazione non ti sembrava un po’ forzata? Io credo che ogni lettura sia legata al suo tempo. Con Strehler c’era anche un altro momento storico, delle lotte politiche, un contesto completamente diverso. Invece, Ronconi secondo me, oltre a voler sfidare questo testo, voleva prenderlo in giro. Ci sono dei segni che lo rendono molto attuale. La Celestina Abbiamo dovuto con il tempo memorizzare gli scalini, le altezze, evitando le botole, però adesso rivedendo le immagini, per quello che mi riguarda, il personaggio nella sua costruzione era molto a metà, mancava tutto il trucco e il parrucco. Luca cercava sempre di più la qualità “sulfurea” del personaggio. poi è arrivato il truccatore ed ha aggiunto questa qualità in più. La Celestina è una strega, siamo nel 1500, c’erano le pozioni magica, tutto l’armamentario di chi aveva un rapporto con il diavolo. C’era una pendenza tremenda, si doveva recitare, cantare. Io avevo una quantità di Polase, di integratori, che i primi giorni ho rischiato l’infarto, perché ci voleva una preparazione da atleta. Ronconi chiedeva molto, energeticamente dovevi dare di più ed ancora di più. Com’era il lavoro che faceva Ronconi con i giovani, con la scuola, dal punto di vista pedagogico? Non erano liberi, era giusto essere propositivi con lui e sicuramente dovevi essere libero di essere nella tua ricerca, però lui aveva una sua idea, di voler provare per quel giorno. Potevano capitare prove nelle quali la battuta veniva sezionata, non era semplice. Se non otteneva quello che voleva lo cercava in molti modi, spostava anche il tiro della sua richiesta. Parlare di Ronconi è difficilissimo, perché è un’esperienza che andava vissuta. Era irripetibile e nutriente al massimo. Ricordo che in quei 20 anni che mi arrivavano solamente i racconti dei colleghi, io mi immaginavo un gigante. Un mostro di bravura. Quando mi hanno chiamata per i comunisti mi sono bloccata alla porta e mi ci hanno praticamente tirata dentro. Passiamo all’Amuleto (si svolge per buona parte in una università). C’è qualche cosa che ti è rimasto del suo lavoro e che magari ti riesce in uno spettacolo molto diverso? Io ho sempre sognato di lavorare con Ronconi, a me piaceva quella recitazione, quel modo di trattare la parola. Mi piace quello che nasconde la parole. Mi aveva instillato il dubbio. Questa pagina scritta è come se avesse cento modi differenti di affrontare il personaggio, la scrittura. Le frasi, le battute, il gusto di scardinarle, di aprirle. Per esempio l’Amuleto inizia con “Questa sarà una storia del terrore […] ma in fondo la storia di un crimine atroce”, in fondo è la storia di un crimine atroce? O in fondo io vi farò vedere questo crimine atroce. L’autore è un cileno morto a 53 anni, un ribelle, ha vissuto da ragazzo i momenti del colpo di stato in Cile, i desaparecidos. Lui è scappato in Spagna, ha vissuto lì per poco tempo, è stato incarcerato, torturato, ma ha avuto la fortuna di riuscire a scappare. Amuleto racconta la storia di una donna innamorata della poesia che arriva a Città del Messico. Lei è innamorata dei ragazzi della facoltà di filosofia, fa qualsiasi cosa per loro. Quando succede il massacro lei è in bagno a leggere la poesia e, grazie a questo suo vizio non si accorge che sta succedendo il disastro. Però questo poliziotto salta il suo bagno per guardarsi allo specchio e da lì, lei decide di rimanere là dentro chiusa per preservarsi come testimone di ciò che sono stati quei ragazzi, per poter dare loro degna sepoltura. Rimane chiusa nel bagno per 18 giorni senza mangiare (un personaggio realmente esistito), quando l’hanno ritrovata era fuori di sé, non capiva più niente, perdendo la connotazione di tempo e spazio. Ella ha anche visioni tremende sulla carneficina. È uno spettacolo molto difficile, perché non succede niente, io sono in piedi ferma e quando finisce lo spettacolo non riesco nemmeno più a piegare le gambe. È tutto demandato alla parola. Una parola molto dilatata e limpida. È un romanzo sulla poesia, il luogo nel quale non puoi pretendere di avere delle solidità. Ospite: Gianluca Sbicca. Per circa 15 anni ha firmato tutti i costumi degli spettacoli di Ronconi. Ha fatto anche i costumi dello spettacolo Questa sera si recita a soggetto di Pirandello. Come è avvenuto il tuo incontro con Luca Ronconi? Io, Luca Ronconi, l’ho conosciuto lavorandoci. È con lui che ho cominciato a fare il lavoro di costumista. Egli mi ha avviato al lavoro. Io l’assistente l’ho fatto due volte, ed ho iniziato a lavorare con lui. Ero uno studente dell’Accademia di Brera, ma non sono mai riuscito a fare la tesi per il troppo lavoro. Leggendo il tuo curriculum vedo nomi importanti, che cosa c0entra la moda con il lavoro del costumista teatrale? Ci sono delle grandi differenze, all’inizio lavoravo con Simone Valsecchi e cofirmavamo gli spettacoli. Inizialmente c’era il duplice binario tra spettacolo e moda. La moda serve a fare bello un cliente o una persona, il costume teatrale invece abbruttisce a volte le persone. Ronconi ha lavorato con moltissimi stilisti, ma generalmente usava lo stilista come se fosse un guardarobiere. Voleva fare la stessa cosa con Sogno di una notte di mezza estate. Gli portammo un libro, la storia dei primi dieci anni di attività di Antonio Marras. Lui l’ha convocato. Ronconi ha trovato uno stilista che gli ha fatto i disegni, un costumista quindi. Per varie ragioni Simone diede forfait e io rimasi da solo a lavorare. Posso dirvi che c’erano due cose dello stile di Antonio, che lui pretendeva e che sono state cambiate da Ronconi. Era molto polemico sui costumi, che non erano la parte che privilegiava dello spettacolo, ma sceglieva pure i tessuti. Cosa vuol dire che drammaturgicamente un costume può essere importante? Faccio l’esempio del costume di Maria in Celestina. Il costume racconta qualche cosa che non può essere raccontato in altro modo. L’attrice non è riuscita a trovare il personaggio fin quando non era vestita con il suo costume. Il trucco de La Celestina non è stato facile da costruire. Ronconi voleva trovare qualcuno che facesse le parrucche e il trucco come lo voleva lui. È stato chiamato Mario Signoretti (premio Oscar con Le Moulin Rouge). L’idea era un calvo con sopra questa parrucca povera di capelli. Questo trucco impiegava un’oretta. Nel Teatro della Scala ci sono persone addette al trucco ed al parrucco, ma mai un costumista potrebbe intervenirvi… Io ho sempre pensato anche al trucco ed alle parrucche, a seconda degli imput dati dal regista. Ci sono determinate opere che non possono essere fatte a meno che non si abbiano 60 coristi. Ronconi non amava molto il gruppo tutto uguale. Io avevo coristi che erano l’uno vestito diverso dall’altro. Anche le calzature quindi fanno parte di un settore simile… Per Il candelaio, la prima fatta al Bellini di Palermo, lasciando il teatro bruciato, così com’era. Il palcoscenico era tutto quanto rivestito da porte. I tre protagonisti, per essere isolati da tutti gli altri avevano dei coturni (scarpe che sono 20 cm, di origine greca). Certe volte anche la scarpa fa il personaggio. La trilogia classica di Prometeo, Baccanti e le Rane… Quei tre spettacoli hanno debuttato a Siracusa, in un teatro all’aperto, monumentale, meraviglioso. Siamo partiti da una coproduzione dell’INDA. Il secondo giorno, Ronconi ci chiama e ci dice “Ho sbagliato tutto, il tessuto non va bene”. Abbiamo dovuto rifare i costumi per tutti. Eravamo talmente ai ferri corti con le sarte, che nemmeno ci parlavano. Questo spettacolo è stato ripreso a Milano. La cosa bella è che c’era comunque l’interazione con l’acqua, le oceanine recitavano sempre con i piedi nell’acqua. Per stare in piedi le attrici si bevevano degli shottini di vodka, tutte le sere. Ronconi non ha mai amato i disegni, perché i disegni erano una cosa, mentre in scena era diverso. Io ho sempre provato a collimare R con i disegni utilizzando le foto degli attori. Facevo le foto in mutande degli attori e delle attrici e su quelli io disegnavo. Su per giù la proporzione era quella. Il suo metodo preferito era quello di riempire una sala intera di costumi di repertorio. Ci chiudevamo di mattina e ci dedicavamo ai costumi. Convocavamo gli attori, uno alla volta e si ricercava, si adattava il costume. Spesso e volentieri è successo che le immagini che cercavo facessero venire in mente nuove idee anche a Ronconi. Normalmente per il budget, se ne hai uno molto ricco, uno se li realizza e addirittura se li compra i costumi. Siccome i budget sono sempre meno, le sartorie si riprendono i costumi una volta finito lo spettacolo, quindi se lo spettacolo viene poi ripreso, si devono noleggiare i costumi. Poi è gentilezza della sartoria non affittare un determinato teatro. Spesso e volentieri, siccome a Ronconi piacevano determinati materiali o tagli, si finiva per tornare sempre nelle stesse sartorie. Io ogni spettacolo che facevo con lui imparavo qualcosa. Uno dei problemi dei costumi è anche lo stoccaggio, a volte i teatri non hanno abbastanza posto, quindi il teatro è anche un po’ obbligato al noleggio. Nel caso del noleggio, vi capita poi di toccarli i costumi che noleggiate, durante le prove tu vivevi lo spettacolo con Luca Ronconi dell’inizio alla fine, oppure andavi in sartoria e poi andavi a teatro a spettacolo concluso? Quando tu chiedi ad una sartoria di affittarti un costume è a carico della sartoria il mettere in tagli il costume. Con R non è mai successo, se si usava un costume di repertorio era perfetto così. Li utilizzavamo come fossero dei disegni e di solito, finita la prova, io avevo sei o sette costumi. Decidevo l’ibrido da fare tra questi sette costumi. Le tute della Lehman Trilogy sono nate da 25 stand di roba, dagli anni dell’Ottocento agli anni ’80. Stand divisi per annate, per uomini e per donne. Ho raccolto il maggior numero di cose, abbiamo provato i costumi, ma vedevo che non era così felice Ronconi. Mi chiama e lui mi allunga la mano e mi dice “Ti fidi di me? Questo spettacolo ha bisogno di un’idea forte… una tuta”. Io dico, “Mah, magari prima le vediamo”, io vado al Decathlon. Fortunatamente in ascensore ho trovato il suo assistente che mi consigli di guardare tra le tute da sub. Poi lavorandoci è stata mia l’idea di mantenere i costumi storici sotto. Era come se io avessi fatto una specie di primo piano all’attore. Ciò ci ha permesso di attraversare tutti gli anni, i decenni dello spettacolo. Io dovevo restare a tutte le prove. Nel momento in cui R sceglieva i materiali, lui ne aveva una certa conoscenza? Al 90% lui aveva già fatto uno spettacolo con quel materiale. Riusciva a capire l’effetto di un dato materiale in scena. Con lui ho fatto veramente di tutto, abbiamo fatto uno spettacolo con i costumi integralmente in carte, una carta speciale anti-strappo. Facciamo un primo esperimento con questa carta e lui dice “Eh, ma fa il rumore della carta”, perciò abbiamo dovuto proporre il tessuto, con dei gomitolini di carta, carta dipinta a mano, ecc. Io dovevo stare alle prove, era un tacito patto. Spesso e volentieri capivo determinate cose di un costume solo vedendo gli attori provare. Ad esempio la necessità di una tasca per nascondere una pistola. Perché la tuta nella Lehman Trilogy? Perché semplicemente è uno spettacolo scritto a mo’ di romanzo e quei personaggi lì, ad un certo punto, muoiono, ma continuano a rimanere in scena. Io non potevo mantenere una linea storica. I costumi dovevano essere credibili nel 1800 come nel 2014. Facendo le cose nere diventano uno strano ibrido. L’effetto è quello degli smoking strani, danno una grande eleganza, che però storicamente non posso ricondurre ad un’epoca. Qual è stato il suo percorso di studi a Brera? Ho fatto scenografia, son di Perugia ed ho sempre fatto studi artistici, però facevo decorazione e pittura. Dopo un anno, ho scelto Brera, che era l’unica università senza test di ingresso. Tra tutte le materie, quella di cui sapevo meno era scenografia. Per la parte tecnica di modellistica e di tagli, capisco se una cosa è tagliata bene o no perché ho avuto esperienza sul campo. Anche voi leggevate i testi? Assolutamente sì, faceva lo stesso discorso testuale che faceva con gli attori. Questa sera si recita a soggetto l’ho ridisegnato 6 volte. Sono impazzito. La prima volta che ho conosciuto Federico mi ha letto tutto il testo. Con Ronconi c’era un’analisi del testo riferita a quello che dovevo fare io. Scenografie, scene e costumi. Spesso anche molti artisti che han lavorato con Ronconi hanno firmato scene, costumi e la regia. Non hai mai pensato di avere anche una creatività tua nella realizzazione della scena? Con Ronconi neanche morto. Adesso ho una sensibilità diversa. È una cosa che faccio con più fatica. Se con i costumi più o meno so cosa fare, con le scene ho delle competenze un po’ arrugginite. È una cosa che faccio pensandoci, mentre chiunque mi chiede un costume e glielo faccio, con le scene ci metto di più. Quanto è importante il fattore comodità con i costumi? In un qualsiasi battibecco tra lui e l’attore, l’avrebbe avuta vinta l’attore. Cercava sempre di tirarsi fuori dalle discussioni e sapeva che se c’era un problema insormontabile, si cambiava tutto dall’inizio, altrimenti se era un problema superabile si indignava. Ci sono delle cose in Sogno di una notte di mezza estate, come una gonna con 5 metri di strascico. Con lui era fondamentale, dargli già dal primo giorno di prova una cosa che lui poi avrebbe mandato in scena. Se tu gli cambiavi qualche cosa lo mandavi fuori di testa. Strehler pretendeva dai suoi costumisti che gli attori fossero con il costume già completato. Coi tempi degli spettacoli di R riuscivate a sistemare questa richiesta? Negli anni ormai lo facevamo in automatico senza che lui lo chiedesse. Non l’ha mai chiesto per delle cose fondamentali, mi ha chiesto ad esempio di avere la camicia con i colli rigidi. Perché il costume doveva favorire la postura, era la sua prima richiesta. A volte erano una dolorosa necessità. Il costume lo legava alla battuta dell’attore. Siccome non si può fare un costume morphing cercavamo di rendere tutti gli stati d’animo in un solo costume, basico, in genere con una scala cromatica grigia, che era la preferita di R. negli ultimi anni gli piaceva il verde. La tua esperienza e la differenza che c’è tra il costume per un attore, che però può essere indagato nel minimo dettaglio dalla macchina da presa… Abbiamo fatto una videoinstallazione nella Reggia di Venaria a Torino, normalmente serve un occhio di riguardo per un film, perché il più piccolo particolare potresti trovartelo su di uno schermo di 4 metri. Per me non ha mai funzionato la scusa del “tanto si vede da lontano”, ho sempre fatto un lavoro di fino. Forse anche per l’attore, che deve indossarlo, magari gli sa di falso… Dipende, perché si possono fare dei costumi che palesemente sono finti, ma perché serve farlo così. Se invece è un errore, lo leggi come un errore. Santa Giovanna dei macelli è stato uno spettacolo particolare… Si è uno spettacolo che ho patito abbastanza, perché è nato in un modo ed è finito in scena in un altro. La prima cosa richiestami è che i costumi fossero tutti dipinti a mano. Egli voleva l’illustrazione. Un libro di Norman Rockwell. Ho dovuto disegnare i vestiti con tutta quella tavolozza di colori. Le divise delle suffragette erano in pittura, ma poi siamo finiti ad utilizzare i vestiti in cashmere di Armani. Tutte le immagini viste oggi saranno caricate sul sito www.gianlucasbicca.com . È vero che la sartoria teatrale è fatta da sartorie esterne? C’è da fare un distinguo tra la passione e il business, tutti i teatri d’Italia non ce l’hanno più la sartoria teatrale. Anche se fanno produzioni, le fanno con sartorie esterne, per via del costo proibitivo. Se io arrivo con un lavoro esterno, tutti i soldi che porto in dote li posso sfruttare per chiedere una lavorazione in un’altra sartoria. Ospite: Carlo Torresani. Un amico dell’università, che oggi rappresenta il Teatro alla Scala e ci permette di aprire una finestra sul teatro di Ronconi che abbiamo voluto solo nominare. A lui devo dire grazie, perché ci ha portato a vedere dei bellissimi spettacoli alla Scala ad un prezzo accettabile. Ronconi come regista lirico al teatro alla Scala, il luogo ove Ronconi ha fatto più allestimenti. È ancora oggi un privilegio poter entrare a vedere gli spettacoli della Scala. Ronconi definì questo teatro come il più grande teatro lirico, perché gli altri sono di routine. Lavorare alla Scala è il confronto con la tradizione. Diffonde il repertorio lirico, che è un repertorio chiuso, non c’è una produzione lirica attuale tale da considerarsi aperta. È un repertorio di tradizione. Ronconi lascio una dichiarazione anche in proposito di questo repertorio morto. Il merito storico dei registi è quello di aver portato avanti per 20 anni l’agonia del teatro lirico, ossia, hanno permesso che continuasse a vivere. Nel testo melodrammatico la parte più variabile è quella della messa in scena. È una tradizione che ha delle coordinate facilmente scardinabili. La scenografia e i costumi possono mettere in agonia uno spettacolo, forzandolo sotto forme nuove, vedendo quali sono gli spettacoli che sopravvivono. Ronconi è stato negli ultimi 35 anni il regista al quale il Teatro alla Scala ha affidato il maggior numero di regie. È impossibile trovare altro regista al quale siano state affidate questo numero di regie. Uno di questi titoli è il trittico di Puccini. Non basta il numero degli spettacoli: in un teatro come un teatro lirico, l’avventura implica il lavoro di un migliaio di persone, risorse umane, intellettuali e artistiche, per non dire economiche. È un teatro che ogni stagione cerca di proporre titoli e allestimenti nuovi. Diventa ancora più importante se consideriamo il numero di recite, 271 recite degli spettacoli di Ronconi negli ultimi 30 anni (271 repliche). Un altro aspetto dell’investimento che la Scala fa su Ronconi è il numero delle riprese. Il Teatro alla Scala è un teatro di cartellone e non di repertorio. Ci accorgiamo che poche sono le stagioni in cui viene ripreso un titolo prodotto nelle stagioni precedenti. Ciò è dovuto al fortissimo sforzo produttivo, che caratterizza un periodo molto vasto. Periodo in cui si sono alternati grandissimi nomi: il Falstaff, sempre con la regia di Strehler. Più vicino a noi abbiamo l’apertura anche ad altri registi di fama internazionale come Cassari. C’è un investimento così ampio su Ronconi, perché egli è ritenuto adatto. Egli diceva che la Scala è il teatro della memoria e che la fisicità del teatro, la tradizione, il rapporto molto particolare con la città di Milano ed il rapporto con il proprio pubblico erano rapporti che, appunto, lo rendevano unico. Non ci fu una omogeneità di direzione del teatro, non c’era lo stesso sovrintendente, direttore artistico, ecc. Va anche segnalato il fatto che Ronconi assume a 360° il carico della gestione artistica, essendo capace di gestire tante attività. Era anche assorbito dalle attività al Piccolo Teatro. Figure importanti per il teatro si succedono a due autori di grandissimo peso come Riccardo Muti. L’importanza riconosciuta da Ronconi per la crisi artistica del teatro è riconosciuta da lui come le differenze dal teatro della Scala. Guardando l’arco temporale dei titoli affidati a Ronconi, passiamo da Wagner a Mozart. Ronconi è anche su questo aspetto molto eclettico, nel suo repertorio (che sceglie anche, siccome egli si propone) abbiamo L’Orfeo di Rossi (opera barocca 1642), un titolo sconnesso perché il teatro alla Scala abbia le caratteristiche. Il titolo più recente è Samstag aus Licht di Stockhausen, compositore contemporaneo, di rottura rispetto alla tradizione. Non è la prima volta che la Scala ospita musiche di contemporanei, ma è la prima volta che lo fa con sforzo produttivo così imponente. Le sue opere sono messe in scena in una settimana (Donnerstag aus Licht e Samstag aus Licht). Ronconi sapeva individuare spazi scenici inusuali, come in questo caso e come nel caso della prosa (citando i più famosi: l’Orlando furioso, Gli ultimi giorni dell’umanità e Infinities). Egli forza anche lo spazio scenico tradizionale. Porta agli estremi l’utilizzo tecnico e artistico del palcoscenico. Lo fa con la Scala, il più evidente è il titolo più ripreso di Ronconi: Il viaggio a Reims (di Ottavio Dantone). Egli era capace di forzare gli strumenti espressivi, sia gli attori, che il palcoscenico. In questo arco temporale di repertorio, dalla nascita del melodramma, 45 anni prima, alla fine del melodramma, in mezzo ci sono autori tipici del repertorio scaligero, ossia autori che sono stati prodotti dal Teatro alla Scala, come Verdi, come Rossini, fra i più clamorosi. È assolutamente da sottolineare che i suoi primi due titoli sono due titoli wagneriani, estranei al repertorio scaligero, perché la Scala non commissionava mai un’opera a Wagner, poi perché il teatro del Settecento che si occupava del repertorio di Wagner era il Teatro di Bologna. Il teatro depositario è il Festival di Bairoit, teatro costruito esattamente in funzione degli spettacoli di Wagner. La tradizione tedesca dettava legge. L’unico teatro capace di questo coraggio, immaginazione, affida ad un regista giovane, dal punto di vista della sua esperienza lirica, dei titoli del repertorio wagneriano, con tradizione rappresentativa tedesca, legati alla tradizione mitologica, leggendaria tedesca. Ronconi storicizza invece che mitizzare la vicenda. Gli vengono affiancati due grandi scenografi, gli spettacoli hanno un successo clamoroso, non sarà mai sopito l’aspetto un po’ polemico, innovativo di Ronconi, che forza sempre, non ha mai una regia accomodante, né consolatoria. I due spettacoli diventano un caso incredibile. Ronconi era importante, capace di incidere nella vita di un teatro, degli spettatori che hanno avuto la fortuna di vedere i suoi spettacoli, ma anche di incidere nei più grandi festival lirici. La Tetralogia sono quattro giornate. In questo spettacolo siamo un po’ lontani da quella che è la reale rappresentazione della Tetralogia. È un progetto un po’ incompleto… Sicuramente è molto provocatorio. Il terzo titolo affidato a Ronconi ha la provocazione addirittura all’interno della scelta del titolo. Si intuisce che anche dal punto di vista della partitura musicale il punto di vista era di rottura. Con il Wozzeck il pubblico cominciò a fischiare e il regista dovette salire sul palcoscenico. A Ronconi viene affidato ulteriore titolo provocatorio che ebbe un successo straordinario. Margherita Palli, la scenografa, esce dalla bottega di Gae Aulenti, un architetto. Mostra ai laboratori Ansaldi, in cui vedremo molte delle cose che sono state spiegate adesso. 11:30 in Via Borgognone, 4. Mercoledì. Nel Wozzeck c’era questo enorme tappeto mobile che scorreva in un moto continuo. Il tessuto musicale aveva momenti di silenzio unicamente tra un atto ed un altro. Non c’era alcuna interruzione musicale. In questo caso, Ronconi chiede alla scenografa di inventare una scena nuova, che facesse entrare ed uscire dal palcoscenico gli elementi che potevano servire per quella scena. Non è solo un espediente tecnico, questo tappeto mobile ha una doppia inclinazione, verso la platea. Quindi c’è un’inclinazione verso lo spettatore e diagonale. Come mai Ronconi volle evidenziare il disequilibrio? Questo è uno di quei titoli, in cui fin dall’aprirsi del palcoscenico è facilmente intuibile capire come va a finire (come una sfera su un piano inclinato). La scena in movimento, espediente tecnico di entrata ed uscita, ma anche la scena che si muove, elemento caratteristico della tavolozza espressiva del regista. Ronconi forza molto il testo, fino a compiere delle operazioni lecite di taglio del testo originario. Nel caso della prosa, questa modalità di lavoro può avere una logica. Nel teatro musicale non ce n’è la possibilità, non è modificabile. Può chiedere solo al direttore di velocizzare o rallentare se proprio c’è un buon rapporto con il direttore. È un tema non modificabile. Nelle regie liriche di Ronconi, facendo accadere più cose contemporaneamente, ma siccome egli non può nell’opera lo fa modificando lo spazio scenico. Nella messa in scena di certi titoli della tradizione, alcuni critici come Massimo Mila, definiva il “salotto buono” quel tipo di messa in scena in un salotto in cui la borghesia faceva musica, la riproduzione con buoni costumi, elementi che permettevano allo spettatore di capire subito ciò che vedeva. Una delle caratteristiche è la frantumazione dello spazio scenico. La prospettiva centrale, tipica della messa in scena tradizionale. Il punto di vista dello spettatore non era quello di vedere un piano rialzato, ma o dal basso o dall’alto. Ronconi forza la dimensione temporale. Per esempio con l’Aida, un colossal, che Ronconi mise in scena proprio come colossal, con elementi che identificano l’antico Egitto, che fa uscire da dei macchinisti travestiti da schiavi. Colloca il punto di vista dello spettatore come se fosse all’interno del palcoscenico. Fa vedere lo sforzo, la fatica che si fa per l’arrivo del Faraone, che appare già dentro il proprio sarcofago. Non c’è una scena in cui non ci sia qualcosa che non si muove. È uno spettacolo di un difficoltà tecnica straordinario, poi le dimensioni della sfinge, l’altezza della sfinge sono impressionanti. Un altro esempio è Lodoiska, in cui vediamo le fiamme che salgono dal basso, che però entrano anche a lato. Perché lo spettatore è come se fosse coricato e vedesse la scena da sopra. Ad un certo punto i personaggi devono cadere in verticale, che per lo spettatore è come se cadessero di lato. La fiaba Zar Saltan, alcuni attori sono visti dall’alto, in una diversa prospettiva. Ronconi chiedeva uno sforzo virtuosistico a questi cantanti. Cionondimeno si vede anche a questo proposito, che nonostante Ronconi fosse consapevole di non poter pretendere lo stesso che pretendeva con gli attori di prosa, chiede ad un cantante inglese se sapeva parlare il francese e questo gli rispondeva di sì, ma come un inglese, Ronconi correggeva al cantante la pronuncia francese come se fossero degli attori. Aveva un’attenzione, anche nella lirica, per la lettura dei testi. Utilizzo delle nuove tecnologie. Ci sono spettacoli d’opera dove erano utilizzati filmati… Un piccolo aneddoto del Guglielmo Tell di Rossini: per non demandare ad un pittore di dipingere i fondali, scelse dei posti in montagna, in Svizzera, molto simili a quelli dell’epoca e disse “Li dipingiamo”, dipingiamo nel senso li fotografiamo, li registriamo. Questo poi andava proiettato all’interno del teatro, con le luci che non coprissero la riproduzione, dietro al palcoscenico, con delle lenti ottiche. All’epoca andavano ancora utilizzate delle cineprese a pellicola e come se si fosse in una sala cinematografica. Parliamo di un palcoscenico di legno in cui tutto vibrava, con problemi tecnici straordinari. Ospite: Maurizio Porro. Ha avuto la fortuna di essere molto amico di Luca Ronconi e anche di Mariangela Melato, che con Ronconi ha fatto spettacoli importanti. In particolare gli chiediamo di raccontarci un po’ la sua Melato e il suo Ronconi. Gli anni Novanta sono Affare Makropulos (‘93) e Il lutto si addice ad Elettra (‘97). I primi anni del Duemila sono Quel che sapeva Maisie, Amor nello specchio, La centaura, Nora o la prova di casa di bambola. Un percorso molto noto, ma non così ricco di spettacoli, rispetto a Branciaroli, Pierobon o Popolizio. Ci siamo incontrati nel segno di una carriera improntata ad essere sempre sghemba, sempre nuova. Nello stupire, sfidare il pubblico ed il teatro. Ronconi era nato per la sfida col teatro, al contrario di Strehler che amava l’idea platonica, l’artigianalità del teatro. Ronconi scappò dalla sala perché pensava che il teatro potesse dare delle emozioni in più, rispetto a ciò che veniva rappresentato. Egli fece l’attore, annoiandosi pazzamente, ha fatto qualche film: Le baccanti, ecc. dei titoli trash che non era qualcosa che lo soddisfacesse molto. Fuggiva dall’ambiente, dai contesti. Mi ha raccontato di aver fatto cose diaboliche al Lago di Costanza, di aver costretto gli attori a raggiungere a nuoto le postazioni. Era sadico nei confronti degli attori. Il lato della sfida appartiene anche alla sfida tecnologica del teatro. Era un uomo coltissimo, egli ha letto tutto quello che poteva trovare in casa, aveva delle ghiottonerie, che riprendeva nel teatro, era tipico nel fare cose di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Se guardiamo gli spettacoli Quel che sapeva Maisie, questo durava 4 ore. Erano testi lunghissimi, per cui, lui amava molto spingere fino al massimo del possibile la dimensione dell’attore che si proponeva al pubblico. Non gli interessava la missione didascalica del teatro, diceva che non voleva insegnare, ma semmai gettare un po’ di scompiglio nella testa delle persone. Non pretendeva che dopo lo spettacolo uno cambiasse idea e risolvesse il problema della guerra nel mondo, ma dopo alcuni spettacoli gli piaceva che nelle persone restassero i suoi spettacoli, per la loro spettacolosità e particolarità. La cosa interessante sulla sua carriera è che la chiave del cambiamento avviene proprio nei suoi ultimi anni, in cui lui era molto malato. La situazione ha condizionato il suo fisico, ma mai la sua mente. Se non avesse avuto il teatro, diceva, si sarebbe ucciso. Il teatro l’ha salvato nel senso che gli ha dato una ragione di vita. in un qualche modo si è rimesso in sesto. Era un uomo disponibilissimo, che aveva un grande senso dello humor. Era una persona molto spiritosa e nel corso del tempo aveva sentito il bisogno di tornare alla parola. C’era un incrinarsi della fiducia nella parola. Il corpo dell’attore era messo in scena. Egli, essendo un uomo che viveva in modo molto pregnante l’epoca, ha avuto molti periodi condizionati dal cinema e dagli effetti speciali. Lui faceva effetti speciali artigianali. Lui prendeva delle pagine del romanzo di L’affare Makropulus e le trasportava sulla scena. Nel caso di quest’ultimo, egli chiese a Mariangela Melato, quando è tornata a lavorare con Ronconi, di fare una signora di 364 anni, una commedia completamente sconosciuta allora. Sospendere lo spazio-tempo fra lei e il pubblico, fra lei e la propria psicologia. Fece questo personaggio in modo assolutamente verosimile. In Quel che sapeva Maisie doveva fare una bambina, in sincronicità con gli altri personaggi. Ronconi non voleva criticare l’ipocrisia del sistema vittoriano, ma voleva che questa bambina fosse rappresentata in coazione di ripetizione di ciò che accadeva a questa bambina nel romanzo. Rappresentava il crollo della famiglia, ma Ronconi non lo faceva per questo, ma per il rivolgersi a qualcosa, dal punto di vista spirituale. Questa era una Melato traballante per via della sua malattia. Era Mariangela che lavorava con Ronconi o gli sottostava? Era un tacito accordo, nel senso che a volte gli spettacoli sono faticosi, sembra che non funzionino e invece poi alla fine funziona sempre tutto. Il loro rapporto era anche legato al sadismo che Ronconi usava sugli attori, non solo Mariangela. Lei era molto ligia, capiva esattamente dove voleva andare a parare Luca. Lei lo ascoltava e lo ubbidiva e dove aveva qualche buco culturale ci arrivava con intelligenza molto prensile. A volte le chiedevo se non avesse paura di non capire ciò che voleva Ronconi e lei mi rispondeva che c’era lei sul palcoscenico poi. In ogni caso lei aveva grandissima attenzione. C’era una grandissima stima reciproca. Anche quando pochi anni fa fece uno spettacolo a Genova, La centaura, lei era la centaura, aveva addosso una pelle animale, per cui doveva cambiarsi sempre. Nonostante dicesse “Mai più”, poi ritornava. Era veramente un rapporto di “tentiamo di fare questa cosa insieme”. Momenti di rabbia di furore, di provocazione teatrale e meta-teatrale. Mariangela era stata anche attrice strehleriana. Non così presente al Piccolo, perché non era legata in modo esclusivo al Piccolo, ma al teatro stabile di Genova. Le scene di Quel che sapeva Maisie sono di Margherita Palli, le prove sono state fatte a tavolino e Mariangela a volte contraddiceva anche Ronconi, è una presenza obbediente, ma non passiva. È una bambina di sei anni, però ha solo il grembiulino, non ha cose sciocche che servono per identificare un’età. È stata l’ultima delle vere prime donne del teatro. Ha avuto la fortuna di lavorare con Dario Fo, poi con Visconti, poi con Strehler e poi con Ronconi. È stata un’esperienza d’amore attesa a lungo. Anche proprio per la sua discendenza milanese è stata chiamata a recitare qui. Con la regia di Strehler fece solo a Milano. Una delle pochissime attrici che ha attraversato la storia del teatro e delle patologie teatrali, dei protagonisti di un’ideologia teatrale molto prepotente. Ronconi è un conoscitore pazzesco di cinema, nonostante non ne avesse fatto. Aveva una passione sviscerata per il cinema e anche per gli stereotipi del cinema, amava raccontare che cosa voleva dire il linguaggio delle immagini. Ha fatto sono l’Orlando furioso per la televisione, che è bellissimo. Non ha mai detto che avrebbe voluto fare qualche cosa al cinema, probabilmente perché ha avuto una brutta esperienza d’attore. Su questo spettacolo devo dire che c’è una cosa che farà stupire, perché questo signore è Gabriel Garko che fece quest’unica esperienza teatrale e fu distrutto. Moltissimi ricordano Mariangela con le performance della Wertmüller di signora/signorina snob, con Ricci. Questo tema di popolarità e simpatia immediata è il film che le ha reso di più. Faceva film in Francia e in Italia ha fatto dei film bellissimi. La sua carriera è stata molto variopinta. Passò vent’anni di vita a pagare la penale a Galilei e Giannini, che non perdonavano a nessuno di aver lasciato la ditta. In Italia le attrici che superano i 40 è difficile piazzarle per qualche ruolo. Si sentiva un po’ trascurata, che avrebbe avuto diritto ad avere anche qualche altra occasione. Diceva che non c’era un film che le dispiaceva di aver fatto. Il cinema italiano non offre delle parti importanti o sostanziali a donne che hanno superato i 40. È diventata poi un’attrice più teatrale che cinematografica. Nei camerini era attorniata da gente che le voleva bene pur non conoscendola, a qui faceva tenerezza anche non conoscendo la sua storia. Ospite: Valentina Penzo. Quel che sapeva Maisie Henry James, Ottocento, nasce nel 1843, a New York, e muore nel 1896. Lo spettacolo è stato prodotto dal teatro stabile di Genova, in collaborazione con il Piccolo Teatro. Si tratta di uno spettacolo lungo più di 4 ore, che a fianco di Mariangela Melato vede anche altre attrici femminili: Anna Maria Guarnieri (grande attrice ronconiana, che era stata interprete della serva amorosa di Goldoni) e Galatea Ranzi. Oggi parliamo di un altro spettacolo, di Brecht. Un po’ una sfida che Ronconi fa anche con sé stesso. Rapporto tra Brecht e il Piccolo Brecht negli anni immediatamente successivi, nel 1933 scappa fortunosamente negli Stati Uniti, con l’ascesa di Hitler. È un testo molto politico, anche nato dalla sua ideologia un po’ marxista. Ronconi dice che è un incontro che ha sempre rimandato, ma ora gli pare che non sia più il caso di rimandare. Brecht è legato alla figura di Strehler. La sua prima rappresentazione italiana. Perciò la relazione è fortissima, tanto che a sessant’anni dalla prima è ripreso da Michieletto. Una recitazione straniata, che evita allo spettatore l’immedesimazione, che non mira a far entrare nella scena lo spettatore, ma lo porta ad assumere un atteggiamento critico. Ronconi alla fine deve confrontarsi con la regia di Strehler, che ha sempre affrontato i precetti di Brecht. Gli vuol ricordare sempre allo spettatore che vede una finzione, che deve rimanere distante da quello che vede, ad esempio indicando una struttura con un cartello. Se il pubblico si immedesimava partiva con i sentimenti, con la compassione per quello che vedeva. Lo spettatore brechtiano deve essere straniato, per capire il messaggio. Santa Giovanna dei macelli: quando ero giovane, dice, non la capivo, volevo fare uno spettacolo con Maria Paiato e Paolo Pierobon. È la storia di Giovanna d’Arco ambientata nel Novecento. È stata l’occasione per sperimentare e rinnovare il linguaggio teatrale. Questo lavoro lui lo intraprende con gli stessi interpreti in spettacoli molto diversi. È un testo che lo interessa, anche per il tema economico. È ambientato nella Chicago del 1999, in crisi economica, un imprenditore cerca di salvare le sue finanze mettendo alle strette tutti i suoi operai dei macelli. Giovanna è una missionaria che cerca di convertire l’imprenditore in nome di Dio. Una ragazza ingenua che non parla davvero con gli operai, ma con la figura dell’operaio che viene proiettata sugli schermi. I tagli riguardano i song, non ci sono parti cantate dagli attori. L’intento da Brecht era ironico, ha scritto quest’opera per prendere in giro Giovanna d’Arco. Ronconi mantiene l’intento ironico e mette come commento musicale delle musiche di Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi. Rispetta il vero senso del testo di Brecht, molto di più di quanto facesse Strehler, che l’ha messo in scena congelando l’idea dei cartelli. Cos’è un song brechtiano? Una canzone che si identifica con il personaggio. Ronconi si confronta con il lavoro di Brecht, ha un continuo coinvolgimento dello spettatore, anche a livello intellettuale. “Ci si rivolge all’intelligenza, non al gusto. Non credo alla funzione didattica di Brecht, ma nemmeno all’intrattenimento”. Com’erano le scene, o i costumi? La cosa molto particolare sono le scenografie molto complesse. È un colosso di bilanciamenti. Queste scenografie sono studiate al millimetro. Qui tutti gli spostamenti erano studiatissimi, c’era una vera e propria partecipazione fisica dei tecnici. Pierobon era issato su un dolly, seduto su di una scatola di latta, e lo spettatore vedeva quello che faceva il macchinista. Queste scatole di latta, della carne che veniva commerciata, al centro della vicenda, fanno parte del progetto scenografico di Margherita Palli. Dobbiamo notare come Ronconi andasse al di là di quelli che erano i limiti tipici dello spazio scenico. In questo spettacolo il boccascena non era un limite. Pierobon andava quasi sopra le prime file della platea, c’era un primo livello, un secondo livello, sul quale c’era uno schermo. L’attrice recita davanti alla cinepresa e lo spettatore vede la sua immagine alle sue spalle. Ci sono più piani praticabili e si intravedono sotto dei carrelli su cui venivano trasportate delle scatole di latta. I produttori di carne erano proprio dentro le scatole. Per gli attori era una continua sfida. Gli attori erano all’interno delle scatole perché Ronconi voleva mettere i produttori all’interno del proprio prodotto. Giovanna parla a questi schermi, dei veri e propri soggetti. C’è un solo attore che interpreta gli operai, un operaio ripetuto più volte. Ella parla con la sua idea di operaio. Giovanna si ammala e disperata torna da Mauler. I maggiori attori: Fausto Aresi, Maria Paiato e Paolo Pierobon. I bozzetti di Margherita Palli: vediamo i disegni scenografici, la suddivisione dello spazio, l’utilità per gli attori del boccascena, gli schermi che scorrevano su delle rotaie. Non è stato uno degli spettacoli più apprezzati, è stato più una prova, siccome era uno spettacolo crudo, ha avuto un po’ di contrasto. Questi personaggi possono sembrare semplici, ma non è così. Erano personaggi molto ambigui. Una cosa che abbiamo visto nel video è l’immagine finale, che è quella che fa trasparire il suo intento ironico: tante Giovanne ripetute all’infinito, come un esercito. Abbiamo visto la scena in cui Giovanna riconosce Mauler, come Giovanna d’Arco in Schiller riconobbe il Re all’accampamento. Mauler fa delle azioni ma non sa se le ha fatte perché lui stesso voleva. Ronconi die che non sarebbe giusto dividere i due personaggi in due, Mauler è affascinante perché è doppio. Non capisce perché ha comprato carne, se per Giovanna o per una lettera. Giovanna appare come ingenua, ma anche il fatto che elle prova dei sentimenti d’affetto per Mauler. Ambiguità che è un po’ il messaggio dell’opera. La battuta finale racconta dell’anima doppia che è celata nell’uomo. “L’uomo ha due anime: una bassa e una alta”. È un’attrice molto amata nel panorama teatrale italiano. Ha vinto un premio Donatello per il film di Nanni Moretti, Mia madre. È un’attrice molto eclettica, che ha recitato con tantissimi importanti attori che poi hanno fatto la storia del teatro. Poi non ha disdegnato la televisione, alla cui crescita e sviluppo ha contribuito, attraverso la produzione di romanzi sceneggiati, che hanno avuto grandissimo successo. Si è dedicata anche al cinema, appunto. Presentazione di Castellani La nostra storia inizia a Berlino nel 1928, quando uno scrittore ed un musicista uniscono la loro arte, il loro interesse per la vita moderna della Germania: nasce così l’Opera da tre soldi. Lo spettacolo tedesco di maggiore successo, che diventa un simbolo. Vediamo Brecht appena trentenne, era un uomo molto attento ai nuovi media ed ai linguaggi artistici. Voleva fondare la propria immagina ed era attento anche a tutte le varie contaminazioni tra le arti. La musica è esito della collaborazione con Kurt Weill, il compositore. Vediamo una locandina dello spettacolo. Ci sono multipli talenti che partecipano a questa impresa e grazie al loro connubio, nasce qualche cosa che ottiene un grande successo. Con spirito modernizzatore si cerca di rispondere ad una società nuova attraverso i nuovi media, linguaggi nuovi. Potremmo dire che Brecht quasi dimentica questo momento di grande successo negli anni Venti, il suo teatro con la guerra si sposta su altri temi. Quando Strehler va a trovarlo a Berlino e gli chiede consigli per la realizzazione di un suo allestimento dell’Opera da tre soldi che dovrà debuttare a Milano, al Piccolo Teatro. A questo spettacolo, il 10 febbraio 1956, è presente l’autore medesimo. La rappresentazione ha luogo esattamente il giorno del suo compleanno. È un momento in cui B si riavvicina alla sua opera e ci sono attestazioni che affermano che Brecht ebbe un’epifania e riconobbe quella mano di regista come l’unica alla quale potesse passare il testimone. Morirà pochi mesi dopo, nel 1956. Troverà in Strehler il suo successore. In un biglietto scrive a quest’ultimo: caro Strehler vorrei poterle lasciare ogni mio dramma, dal primo all’ultimo. Perciò possiamo dire che questo testimone è qualche cosa che fonda il Piccolo Teatro. Nelle tappe che seguono con il lavoro di Strehler vedremo protagonista anche Giulia Lazzarini. L’anima buona di Sezuan, un’opera che S ama moltissimo e per la quale crea due allestimenti (con Andrea Jonasson come protagonista). Nella stagione successiva un dramma didattico L’eccezione e la regola. Il culmine del suo lavoro su Brecht è Vita di Galileo, con Giulia Lazzarini che interpreta i panni di Virginia, la figlia di Galileo. Poi abbiamo Santa Giovanna dei macelli, spettacolo che la critica giudicò eccezionale nella sua qualità. L’importanza di Brecht per Strehler non sta soltanto nel repertorio drammatico, ma egli è presente sempre nel teatro di S, anche in altri spettacoli. La lettura che da S al teatro brechtiano la infonde anche nei suoi successori. 1972-73: nascono una serie di recital, canzoni di Brecht, che segneranno il Piccolo Teatro. I testi brechtiani risultano fecondi anche al di là dell’ortodossia brechtiana, con Ronconi che va al di là di quello che è detto dall’autore, con tutta quella modernità mediale e artistica, che è il centro della produzione di Brecht alla fine della Repubblica di Weimar. Il Piccolo Teatro propone per domani una nuova opera da tre soldi, con Damiano Michieletto, regista già affermato, che porta in scena una nuova Opera da tre soldi. Strehler negli ultimi anni aveva voluto mettere in scena La madre coraggio e proprio Giulia Lazzarini avrebbe dovuto interpretare la protagonista. Giulia Lazzarini intervistata da Alberto Bentoglio Brecht è arrivato in un momento particolare della tua carriera con Vita di Galileo… Sono al Piccolo Teatro perché è il teatro al quale sento di appartenere. Dalla televisione sono passata all’audizione con Strehler al Piccolo. Qui è cominciato tutto. Io adesso sono al Piccolo con la Montalcini, una lettura ridente e seriosa, di un personaggio meraviglioso che ha veramente vissuto cento anni e lasciato un grande segno nella vita di ognuno di noi. Io mi occupo di una scienziata e qui si fa l’Opera da tre soldi, io ho finito con la Vita di Galileo, uno scienziato, e poi sono passata con l’Opera da tre soldi. Ma che strana casualità. È come se la vita continuasse in un piccolo giro. Vi dirò che cosa ha significato per me fare il Galileo, poi cosa significa per me l’Opera da tre soldi. Mi telefona Strehler per fare l’Opera da tre soldi ed io che aveva visto la versione del ’56, l’ho trovata un’opportunità incredibile. Il Galileo è stato per me un punto fermo, dal quale sono partita. Un grande insegnamento per quanto riguarda il teatro epico. Questo insegnamento io l’ho trovato importantissimo. Nelle pericolosità che ci sovrastano, mi sembrava carino parlarvi di questo ultimo discorso che fa Galileo sulla scienza. Questa scoperta che è stata ritardata, per colpa dei potenti. Quando c’è stata Hiroshima, lo scoppio della bomba atomica, si capisce l’amarezza di Galileo nel vedere come la scienza poi venga utilizzata per malvagità. Questo manoscritto che lui era riuscito a scrivere e poi lo aveva messo in un mappamondo facendo uscire allo scoperto questa verità. Galileo fa l’abiura, nel XII quadro, quando Galileo esce ed il banditore dice che egli aveva abiurato (rinunciato a divulgare quello che lui aveva scoperto). Galileo aveva abiurato per paura della tortura, per i suoi allievi era stata considerata una vigliaccheria. Nel XIII quadro Galileo consegna il suo manoscritto all’allievo, che pensa che egli abbia abiurato per eroismo, per scrivere il manoscritto, ma alla fine si era sempre trattata di paura, che poi però gli aveva permesso di mettere per iscritte le sue teorie. Una piccola luce si vede anche nel buio più profondo. C’è sempre la speranza che l’uomo riesca a superare tutti gli arresti delle autorità, o del proprio tempo. Tocca all’Opera da tre soldi… Dopo aver fatto tanta televisione io torno con questa opera, da allora io sono parte di questo Piccolo Teatro, perché appartiene alla mia città, alla cultura a cui appartengo. Anche se non faccio parte di una compagnia, ma è una grande ospitalità comunque. Il Galileo durava 5 ore. Quest’opera durava tanto a sua volta e si doveva sostituire un attore che era stato male. Vediamo le fotografie dello sposalizio. C’è un filmato molto bello delle prove dove si vede Strehler al lavoro. L’esaltazione che da questo spettacolo credo che nessun altro spettacolo possa trasmetterla. Il giardino dei ciliegi è stato un altro spettacolo memorabile. Sono quei sacrifici e quelle avventure che vale la pena di vivere. Il teatro è un cerchio magico, ci si deve saltare dentro, non è un lavoro come un altro, richiede quella dedizione, quella voglia di giocare, stare insieme. Sono felice di quello che ho fatto. Ti chiediamo di ricordare in particolare il Ventaglio e il lavoro di Ronconi nel suo Goldoni… Con Luca ci si conosceva da sempre, perché abbiamo iniziato più o meno tutti insieme, con la televisione allora ci si incontrava tutti. Per me è stata una grande scuola l’incontro con tutti i grandi attori del momento. Lui aveva una sua metodologia di lavoro, una sua scuola, compagnia d’attori, persone con le quali aveva più affiatamento. Tolto il Ventaglio non sono riuscita molto a lavorare con lui. In questo plot meraviglioso sono entrata anche io. Lui lo fece a suo modo, con le sue violenze, i suoi significati. Io facevo questa zia, Goldoni in gonnella. Il ventaglio è uno degli ultimi spettacoli che fece Goldoni. Io aveva scritto degli appunti e dico, vediamo un po’ cosa può essere questo ventaglio. Luca mi aveva detto (siccome in quel periodo l’aristocrazia era in disfacimento e c’era una generazione di nuovi ricchi, i borghesi) che i borghesi andavano a credito con tutti e facevano credito, una società un po’ sbilanciata che Goldoni descrisse benissimo. Un cavaliere aveva il ventaglio di una ragazza, ma non poteva ridarglielo, lo diede a Giannina, la cameriera, perché ella lo desse a questa giovane, quindi tutti cominciano a pensare che lui l’avesse donato a quest’ultima. C’è questa necessità di aria, vento, per rompere la stasi. Una vita non vita, in cui non si sapeva bene cosa fosse la società. non governato, questo momento di fermo sfugge di mano, risvegliando desideri assopiti, scatenando la tempesta, che solo donna Gertrude, la più anziana, essendo l’unica che non ha nulla a che fare con il ventaglio, poi risolve, riportando il buonsenso. Ronconi aveva fatto in modo che ognuno avesse il suo luogo deputato, tutto a vista. Quando le persone scendevano era come se fossero per strada. Giannina aveva a che fare con tre ragazzi che la volevano. Questa cosa diviene una tempesta di equivoci e di violenze. Con delle tende la Palli aveva fatto in modo che cadesse tutto, le tende le finestre, i tavoli e gli attori non si sentissero più. Quando la zia esce, entrando dalla quinta, e chiede cosa fosse accaduto, quand’ella toccava qualche cosa, questa cosa tornava al suo posto. Ritornava la pace e si chiariva la situazione. Goldoni è amatissimo da S, che fece parecchi spettacoli sull’Arlecchino. Tu hai conosciuto Rita Levi Montalcini? No, no, è nata da Valeria Patera. Lo spettacolo raccontava di questa idea della Montalcini, incredibile, che era un’anticipazione del computer. Lei era una matematica. Mi fa piacere farla perché è un personaggio che io non ho conosciuto, fino all’ultimo, a cent’anni lei andava all’università, voleva essere ancora con loro, i ragazzi, i docenti, sentirsi ancora viva. Lei diceva che aveva avuto tanti amici, anche che non conosceva, un centinaio, però poi le persone che contano sono poche, perché non si può contenere tutto. In questo ultimo tratto del suo percorso, la sua prosecuzione nello studio delle problematiche sociali va avanti. Dice che è nata nel Novecento, ha dovuto viverci, ma le piace questo periodo, perché ha sancito tante nuove scoperte per il genere umano. L’attinenza è necessaria la conoscenza del cervello per comprendere la componente naturale dell’essere umano e le sue mutazioni, occorre considerare una nuova coscienza dell’Umanesimo. La vita è un esperimento non finito e ci occorre pensare in modo diverso, se vogliamo che l’umanità si salvi. [Appunti reperiti da Michele Gritti] Ospite: Stefano Massini Uno dei maggiori drammaturghi e uno dei più rappresentati. Consulente del Piccolo Teatro. Scrittore della Lehman trilogy. Come hai conosciuto Ronconi? Facevo degli studi come archeologo, che non c’entrano con la carriera teatrale. Ho sempre fatto teatro: mi interessavo di ciò che accadeva dietro alle quinte. Pensai subito alla regia. Feci l’assistente di registi stranieri in un teatro lirico a Firenze. Luca Ronconi stava provando nella sala prove affianco della mia. Entrai, disturbando le prove, e gli chiesi se potevo fargli da assistente alla regia. Fui chiamato, feci l’assistente alla regia nello spettacolo Fenix (a conclusione della stagione in cui Ronconi mise in scena Lolita). Fenix parlava di un bambino che si innamora di un adulto (casanova). Ronconi mi chiese di tenere un diario di bordo delle prove, lui lo lesse e mi chiese se avessi voglia di scrivere per il teatro. Così mi mise in testa l’idea di scrivere un testo teatrale. Scrissi un testo sulla detenzione di Van Gogh in un ospedale psichiatrico. Egli inviò il testo alla maggiore premiazione di Italia. Ronconi si poneva il problema dell’effetto del gesto teatrale: il suo creatore gli attribuisce un significato, ma il gesto teatrale ha un proprio spazio di creatività, lo spazio che c’è tra quello che sa l’autore e quello che penso il pubblico. L’autore/regista e gli spettatori giocano insieme. Ronconi era un amante del gioco teatrale. La parola crea conseguenze. Secondo Ronconi l’attore non deve immedesimarsi nel personaggio, ma starci un po’ fuori. Lo spettatore non deve credere totalmente a quel personaggio, altrimenti non attiva l’intelletto. Lehman trilogy l’ho scritto e glielo ho inviato. A lui è piaciuto subito e mi disse che prima o poi avrebbe voluto metterlo in scena. Come Luca Ronconi è intervenuto sul testo? Ogni cambiamento è stato concordato con me. Luca è rimasto fedelissimo al testo, ha compiuto solo dei tagli. Ronconi sceglieva lui a chi far dire una specifica battuta. Come si può classificare il tuo testo? Noi oggi siamo oltre la classificazione. Lehman trilogy è un continuo abbattimento del limite dei generi. Ospite: Margherita Palli Scenografa e insegnante alla Naba. Sito ufficiale www.margheritapalli.it . Qual è stata la tua occasione di incontro con Luca Ronconi e con Gae Aulenti? Lavorando alla Triennale ho incrociato la strada con Aulenti e il mio vantaggio è che si sapeva disegnare bene si trovava lavoro più facilmente. All’epoca le prove duravano molto di più. Io sono andata a Parigi nello studio di Gae come colorista. Avevo una buona mano per l’acquarello. Ho fatto un’audizione e sono tornata a Parigi. Ronconi mi ha chiesto di fare Fedra a Prato. Ho fatto gavetta come scultore, come segretaria di redazione, ecc. L’incontro è stato su uno spettacolo di prosa, nel ’73. Fedra, prodotto dallo stabile di Torino, fatto a Prato era stato richiesto a Ronconi. Io tornai a Parigi per qualche mese a lavorare e poi sono tornata a lavorare con lui. Ronconi, nella sua storia ha tanti scenografi con cui ha collaborato per lunghi periodi. Io credo che Luciano Damiani sia stato il più grande scenografo italiano, con il quale Ronconi abbia mai lavorato. A me chiedeva ovviamente delle cose che non aveva chiesto a nessun’altro. Luciano Damiani era lo scenografo del Galileo, o il Don Carlos (di Verdi). Ronconi aveva rotto una tradizione di presentazione, tu hai dovuto fare lo stesso o hai già trovato una strada? È sempre stato in controtendenza, non ha mai fatto degli spettacoli facili, nella lirica, o nel teatro. Amava più gli spettacoli di tradizione, immagini inquietanti, che facevano paura. Tu hai lavorato con lui nella prosa e nella lirica… Di mio sono uno spettatore di lirica. Sono cresciuta con la musica e amo molto la classica, mi piace anche andare a teatro ovviamente. Progettare uno spettacolo per Ronconi partiva sempre dalla pianta. Lui aveva sempre molto chiara la visione molto chiara degli attori e del palcoscenico. Una delle accuse che si fanno a Ronconi erano che cambiava molto, invece non è così, la pianta non la cambiava mai. Gli spettacoli di Ronconi visti dalle parti alte erano molto belli. Lavorava sempre su queste visioni in prospettiva (definite non correttamente “storte”). Chiedeva agli scenografi di avere delle visioni fantastica. Non tutti stanno al centro sala. Suor Angelica è stata l’ultima regia scaligera di Ronconi e l’immagine non ne rende assolutamente l’impressione di grandezza della statua. Questa idea, di questa grande statua, l’ha data già lui o nasceva da altro? Credo che ogni spettacolo abbia una sua storia, qualche volta era una immagine letteraria, un pensiero filosofico, o un colore (come per I fratelli Karamazov). Nel caso di Suor Angelica fa parte di un trittico. Si parla della morte di Angelica, che ha avuto un figlio illegittimo, che finisce in convento e quando scopre che il figlio era morto si avvelena. Suor Angelica non ha avuto un grande successo perché era un’immagine molto forte. Sembrava una Madonnina di quelle che si trovano nelle case, o nelle chiese. Ai piedi di lei c’era un’esperta di erbe. Tutto si svolgeva sul corpo della scultura. Da sotto il braccio usciva il bambino, quando lei aveva la visione dopo essersi avvelenata. Il lavoro che facciamo è in prosa e nella lirica un po’ diverso. Nel momento in cui il progetto è approvato dal regista viene presentato al direttore d’orchestra e al teatro. Inizia poi una fase abbastanza lunga di progettazione. C’è stato anche un grosso lavoro con l’ingegnere capo della Scala. Nei laboratori ci sono delle sguattere che studiano il progetto e lo elaborano. Tabarro, Suor Angelica, Tosca. come mai secondo te non si è pensato di riprendere questo trittico? Penso che l’Italia fa dei disastri nella cultura, lo dico da svizzera. Si conservano dei pezzetti di spettacoli a seconda di chi è il direttore dei lavori. Trovo sbagliato distruggere gli spettacoli storici, noi abbiamo pochissimo. Si doveva fare una nuova Tosca, quest’anno avevamo una Tosca che parlava di anti-clericaresimo, non era uno spettacolo tranquillizzante. Passiamo alla prosa: Lolita? È stato veramente uno spettacolo pazzesco. Questa sceneggiatura è stata usata per la prima volta da Ronconi. Nabokov ha dato l’autorizzazione a metterla in scena e noi abbiamo cominciato a cercare una ragazza che sapesse parlare l’italiano, ma avesse un accento americano. Abbiamo trovato questa ragazza che non parlava niente di italiano, questa ragazza era radiocomandata da Claudio Longhi, che aveva come dei segnali da vigile urbano e lei reagiva tra le cose che gli venivano dette e le cose che lui faceva. Era surreale la situazione ma era anche molto divertente. Abbiam fatto un grosso lavoro, e abbiamo lavorato con una ditta di post-produzione. Un lavoro incredibile. Dei modellini piccolissimi della scenografia. Era la storia di un grande viaggio attraverso l’America. Era molto romantico in un certo senso. Il pubblico era preso da questo filmone. Tutta la parte che nel film di Kubrik non c’è è in questo spettacolo. Era uno dei più complicati spettacoli che abbiamo fatto. Ti chiedo qualche cosa di Goldoni, I due gemelli veneziani. Quando abbiamo cominciato a progettarlo abbiamo parlato di specchio, di riflessione, e siamo arrivati a definire gli armati della bisnonna, gli armadi ottocenteschi. Con quelli si poteva costruire una specie di Venezia labirintica. La cosa divertente era che il pubblico vedeva i personaggi sdoppiati e vedeva anche il proprio riflesso. Era un grande gioco di riflessioni. Uno spettacolo non con tantissima roba, ma era complicato. C’erano dei momenti di affollamento all’interno dell’armadio anche piuttosto complicato. Avete fatto un po’ un’opera di sovvertimento, quindi… Credo che il Piccolo abbia avuto la fortuna di avere tre dei più grandi registi europei. Quando abbiamo fatto Il gigante della montagna, quando arrivavano i giganti si sentiva un gran rumore da cantiere, buttavamo giù le due pareti da sinistra e destra che spaccavano il carretto dei comici (in Strehler). Ronconi disse una volta ai suoi studenti “Io ho quasi ottant’anni, sono arrivato alla fine del mio percorso. Voi vivrete questi anni bui, ma alla fine potrete fondare un nuovo teatro”. Questa edizione dei Giganti va sicuramente messa nei pirandelli di Ronconi… Ogni tre anni questi spettacolo vengono rifatti da un regista. È un grande onore per un attore tedesco essere chiamato per fare gli Hedermann. Il palcoscenico di Salisburgo è largo più del doppio della Scala. Facevano le prime riprese video delle opere liriche. Io ho fatto delle tournee Carpi-Modena, ecc. Non capisco perché ci debba essere questa roba pazzesca di fare un sacco di spettacoli e un sacco di debutti. Quello era uno spettacolo molto complicato e non poteva avere debutti. Parlando degli spettacoli di Siracusa… I tre spettacoli di Siracusa sono nati dall’INDA. Uno era un teatro romano e l’altro un teatro degli anni Ottanta. Quando Ronconi ha accettato di fare questi spettacoli ha chiesto che una sera dopo l’altra si facessero gli spettacoli (non a distanza di una settimana). Nelle Rane c’era una visione quasi pasoliniana, con delle prostitute, nelle auto, i manifesti, ecc. La prima generale, quella di Prometeo è andata bene. La seconda sera, quando è partita la musica io ho sentito la musica un po’ rockettara, abbiamo dovuto smettere. Alla terza sera c’era tutto il mondo giornalistico. Abbiamo passato tutta la giornata con un collettivo gestito dalle varie attrici, che dicevano che i manifesti non andavano in scena. Ronconi ha detto di non metterli, perché se tutti i giornalisti che avevano visto quei manifesti alle prove e poi vedono che sono tutti neri ne parlerà tutto il mondo. Ho capito quando il teatro può fare ancora paura. Chiudiamo con qualche osservazione su Sogno di una notte di mezza estate… Eravamo partiti dal fatto che negli spettacoli Shakespeariani c’erano le scritte ed abbiamo deciso di comporre queste lettere, con attorno dei led. La luna era una scritta, però appariva anche la fotografia della luna. Il pavimento era materiale lucido, quindi rifletteva moltissimo le luci. Gli attori dovevano anche salirci sopra. In tutti e due gli spettacoli shakespeariani Ronconi aveva mantenuto la stessa regia. Ne Il mercante di Venezia abbiamo costruito delle bilancia giganti. [Appunti reperiti da Michele Gritti] Rafael Spregelburd, Panico. Nasce in Argentina nel 1870, è uno degli autori più tradotti e messi in scena, che iniziò come attore. Fondò una propria compagnia. Pratica delle residenze, strutture che si occupano di arti in generale e tramite bando chiamò vari artisti a confrontarsi con tematiche specifiche. Questa attività lo portò in Europa, ma poi tornò in Argentina. La vita, il teatro e altre catastrofi, catastrofe del periodo della sua drammaturgia. Il suo teatro è definito “teatro della catastrofe”: non c’è linearità, il caos è la base delle sue storie. Rifiuta la linearità tra causa-effetto. Eptalogia di Hieronymus Bosch: progetto nato dalla visione di una tavola di Bosch sui sette peccati capitali. Rafael ricerca in ognuno dei sette peccati un equivalente moderno. Lussuria Inappetenza: testo breve, 9 attori, figlio che si vuole perché tutti ce l’hanno. Invidia Stravaganza: 3 sorelle, 1 adottata, ma una ha una malattia genetica, Paese dell’Est, uno scrittore malato, una moglie ghost-writer. Superbia Modestia Avarizia Stupidità: 24 personaggi, Las Vegas, calcoli per diventare ricchi. Accidia Panico: vivi e morti uniti dal panico. Gola Paranoia: mondo fantascientifico, relazione con alieni, fiction. Ira Cocciutaggine: fine Marzo 1888, Valencia, 3 personaggi diversi, lo stesso giorno. Il progetto inizia nel 1886 e termina nel 2008. È un progetto unitario, ma è anche possibile scegliere una singola opera. Il Panico: nasce su commissione nel 2001 (anno della crisi dell’Argentina). Ronconi lo mette in scena nel 2013. È il prodotto di un lavoro avvenuto sulla scena. Importanti sono le biografie degli attori. Costruire grandi temi con i mattoncini della banalità. C’è un costante dialogo tra vita e morte. Questo contatto è rivelato dal caos. All’autore non interessa di trovare una finalità al suo teatro. C’è una compresenza di diverse situazioni. Il panico equivale all’Accidia (la pigrizia), che al tempo di Bosch era la pigrizia di non andare in chiesa, di non voler capire Dio. Non c’è una trama, ma diverse trame. 12 scene: 1) appartamento in affitto; 2) ricerca della chiave della cassetta di sicurezza del defunto; 3) danzatrice; 4) ricerca identità sessuale del figlio; Il palcoscenico era molto inclinato e giallo. I colori della scenografia erano giallo, bianco e nero (M. Rossi era lo scenografo). Ronconi decide di lavorare sui testi di Rafael al Centro Santa Cristina (Modestia al teatro Grassi, Panico al teatro Strehler, Inappetenza pensata per il teatro Studio, ma non fu messa in scena). Egli disse: “Non è l’argomento che fa la contemporaneità”. Ospite: Sergio Escobar. Direttore del Piccolo Teatro. Quando hai avuto modo di conoscere Luca Ronconi e in che occasione? Ronconi è irraccontabile, lo dicevo anche quando era vivo. La tua domanda mi porta inevitabilmente a dire che ho condiviso 35 anni di lavoro con Ronconi. Se dovessimo prendere la vera misura del tempo, come la prendeva lui, soprattutto nella fase finale della sua vita, dovrei dire che abbiamo condiviso 35 anni, ma 50 spettacoli. Quando sono costretto a fare i conti, un giorno, la sera, a Milano, Ronconi è morto, con ciò che mi è accaduto. 34 di questi spettacoli sono nati nel periodo tra il 1998 e il 2015. “Quello che dobbiamo avere è la consapevolezza dell’addio”, in questa frase c’è Ronconi, il senso di una nostalgia contemporanea, non per il passato, che lui ha sempre vissuto per ogni spettacolo. Ronconi, con il suo cinismo e sarcasmo, cercava ancora di prendere la distanza dalle sclerotizzazioni teatrali del tempo. A Reims c’è un’assenza di un’articolazione chiusa. Ronconi ha sempre odiato la parola “sperimentazione”, ha sempre invece praticato la parola “ricerca”. Una maturità nell’affrontare il testo che sarebbe poi stata la cosa più importante del suo lavoro. Secondo me l’oblio è la forma più sublime di memoria, tu sei quello che sei perché ti sei dimenticato il tuo passato, che è stato ciò che ti ha reso la persona che sei. Il teatro era la sua identità. Era in una costante ricerca di capire il teatro, come questa anacronistica forma di comunicazione potesse affrontare l’inaffrontabile, ma soprattutto lo “scandalo della parola” – il mostrarsi agli altri, manipolare gli altri, e con questo costruire la propria identità. L’idea della frammentazione, dell’impossibilità di capire, l’idea nella descrizione della Città invisibile di Calvino. Un metodo si insegna, un approccio si condivide. Il teatro è una cosa che si costruisce con la tecnica. La sua non era affatto solo irrequietezza, ma un disegno umanoteatrale assolutamente lucida e passionale. Quando è arrivato Ronconi a Milano, tutti dicevano “È arrivato l’anti-Strehler”. Il professor Bernardi è uno degli spettacoli passati meno alla fama, successe alla sua uscita che una signora di media età, affezionata frequentatrice del Piccolo, diceva “Ma caspita, ma sembrava uno spettacolo di Strehler, ma allora quest’uomo sa raccontare!”. Ronconi scelse una strada più calda (paradossalmente) di quella di Strehler, perché pretendeva di andare più a fondo nella parola del teatro. È un approccio completamente diverso “Il sogno che inseguo da una vita […] presentare uno spettacolo infinito […] capace di eccedere nel tempo e nello spazio le facoltà percettive del pubblico […] che possa essere colto da ogni singolo spettatore solo per frammenti e che riviva nella memoria”. Quando morì, dicevo, molti hanno scritto “È finito il teatro di regia”, io chiesi loro “Mi dite che cos’è il teatro di regia?”: il teatro in cui il regista nega il valore del testo, dell’attore, della parola? Allora è un bene che sia finito. Quando è morto Ronconi io pensai che fosse morto un grande regista. Ronconi ha avuto un amore per i suoi attori. Usava gli attori come delle macchine, secondo le critiche. Non nego che alcuni attori mediocri siano diventati, o abbiano pensato di essere graditi al regista perché recitavano alla ronconiana, in realtà non c’era niente di più che lui odiasse più di questo. La cosa più affascinante erano le letture a tavolino sul testo. Ronconi conosceva tutto, aveva letto tutto e si ricordava tutto. Questo gli dava uno spessore, una capacità di non cadere in trappole. Aveva una libertà e responsabilità individuale formidabile. Si sedeva con gli attori a tavolino, leggeva il testo e quando incominciava a lavorare sulla materia della parola era impressionante. Non ha mai modificato un testo, neanche quando gli sono arrivati sul tavolo testi come Infinities che non avevano nulla del linguaggio teatrale. Voleva il testo che avesse la potenza delle parole della scienza. Era impressionante come Infinities fosse nella rappresentazione del testo più facile. Su altri testi, più classici, o più conosciuti, accadeva che tu ti sedevi, lui leggeva e tu capivi il senso del testo, poi lui girava sul senso delle parole, che davano al testo una dimensione sconosciuta persino all’autore. Se pensiamo a Il mercante di Venezia, lui fece un lavoro rispettoso nel testo, non sopra il testo. Un effetto sensazionale sugli attori. Attori molto importanti erano venuti allo spettacolo preparatissimi per la Lehman trilogy, hanno scoperto dimensioni nascoste quando si sono messi a tavolino a lavorare con lui. Le parole diventavano materia. Era l’uomo più pettegolo e statico che io abbia mai conosciuto in vita mia. Non si muoveva dal suo ufficio eppure sapeva tutto quello che succedeva in teatro. Pensando un oggetto intensamente e trasferendolo ad un pezzo della parola che lo definisce si ottiene una tecnica teatrale eccezionale. Il suo lavoro si è mosso nello spazio e nel tempo: usò spazi non teatrali, perciò divenne famoso – come con l’Orlando furioso – uno spazio alternativo rispetto a quello tradizionale. Il teatro non è solo istino ma necessita anche di denaro. Lo Strehler lo amo molto, ma è lo spazio più anti-teatrale che si possa concepire, un proscenio immenso, uno spazio ristretto per la prosa, tant’è vero che Ronconi sentì la necessità di riempirlo attingendolo con La vita è sogno. A Panico c’era il teatro assolutamente vuoto, con un piano inclinato, perché piaceva a Ronconi perché dava l’idea di uno spazio non definito, egli applicò questa sua ricerca spasmodica nello spazio senza nulla togliere a Margherita Palli. Fu un grande interpretatore degli spazi, mai nessuna scenografia fu predisposta senza una macchina che servisse a riempire lo spazio. Sparisce qualsiasi elemento composito. La scenografia è il venir meno della macchinosità, il piano inclinato (la sensazione della precarietà). Parlando un giorno mi disse “Ero stufo che chi stava in platea non vedesse i piedi degli attori”. La sua era un’interpretazione fisica, teatrale. Il professor Bernardi è una storia morale, della coscienza di un ebreo, nell’epoca di Hitler. Fatto nel 2005. Una commedia fatta di dialogo stretto, di botta e risposta, dibattimento sul tema etico, dentro uno spazio così dilatato come lo Strehler. Lui invece di intimizzare il teatro, fece esattamente l’inverso, disse “Questo è uno spazio sproporzionato”, ci sono dei momenti fortemente condizionali dati dalle dimensioni spaziali, abbassò l’altezza, dilatando ulteriormente lo spazio orizzontale. Io lo definii un “abisso orizzontale”. Fece questa dilatazione in modo che senza penalizzare la necessaria interlocuzione tra gli attori, l’interpretazione apparisse naturalistica e che le parole cadessero nel vuoto prima di arrivare allo spettatore. La solitudine profonda che c’era anche nel testo, lui seppe tradurla ampliando la dimensione spaziale, di scenografia e di peso di significato della parola. Frammenti che non venivano raccolti eppure tutto sembrava naturalistico, perché erano frammenti che arrivavano alla memoria dello spettatore. Nell’aspetto temporale, invece, era un uomo sospettoso e bugiardo. C’era questa dimensione del sospetto che dietro una cosa ci fosse qualcos’altro che non aveva capito, che era anche bella da vivere insieme. La dimensione del tempo è sempre stata presente nel suo lavoro. Chi non vive nel tempo è perché ha un fottuta paura della morte. L’ultimo spettacolo che fece a Spoleto, che secondo me, fu una grande umiliazione e non c’entrava niente con il suo lavoro. Lehman trilogy era un testo che identificava abbastanza bene il suo lavoro. Si parlava della Lehman Brothers, non del suo fallimento, ma era un’interpretazione della dimensione del tempo storico e del tempo della cronaca. Si parte dal finale, dalla morte, e da lì si ricostruisce la storia con una temporalità limitata che crea epoche, culture ed arriva alla spiegazione del perché il fallimento della Lehman non sia affatto spiegato dalla cronaca, né casuale. Il testo riuscì a rendere tutto più comprensibile. Il teatro secondo Ronconi era conoscenza, ma che tipo di conoscenza: sapere le cose, oppure la capacità critica. Lo spettacolo è una cosa che tu ricostruisci nella tua memoria. Le ragioni della inevitabilità, che stava in una dimensione temporale che poco centrava con il risultato finale dello spettacolo. Vorrei chiederti del suo rapporto con i giovani e con la scuola… La cosa più vergognosa è scaricare sulla nuova generazione delle responsabilità che non si vogliono condividere. L’approccio che lui aveva sul testo era identico al loro, era la voglia di capire con loro e per loro, il guardare il mondo con l’occhio di un bambino e la responsabilità di un adulto. Tante persone di età inferiore alla sua sono diventate dei grandissimi interpreti con una vita autonoma e non soltanto per lui. Ognuno ha la sua vita ed esperienze. Io ho avuto la fortuna di avere dei grandi maestri, che si distinguevano dai cialtroni esclusivamente per questo. [Appunti reperiti da Michele Gritti] Come hai conosciuto Luca Ronconi? Ho fatto più di venti spettacoli con Ronconi. Non avevo visto i suoi spettacoli. Mi ha superato in molto. L’ho conosciuto all’Accademia di Arti drammatiche, non ero però un insegnante. Ho partecipato a una tournee da giovanissimo dove c’era anche Ronconi. Lui mi ha fermato. Grazie a lui ho conosciuto moltissimi altri attori. L’attore: paura di non saper fare; voglia di dimostrare di saper fare. Non ero suo amico, no ho sempre avuto troppa soggezione, ne parlo da attore. In Quello che sapeva Maisie abbiamo fatto le prove a tavolino. C’erano anche Mariangela e Garko, Ronconi si rapportò in momenti diversi con persone diverse. Verso Peer Gynt è uno spettacolo messo in scena a Roma. Lì il palco diventa una platea, platea e galleria diventano palco. Ebbe molta fortuna a Roma. Lo spettacolo girò per l’Europa, a Cracovia. Alcune idee di Ronconi si rapportano in momenti di contrasto con gli attori, attraverso l’anno lui metteva un motore creativo negli attori. Lo spettacolo andò benissimo, vinse anche un premio. Luca comunicava con le altre persone attraverso il teatro. I Teatri Stabili (Torino, Roma, Milano) hanno influenzato il tuo modo di recitare e il tuo rapporto con lui? Uno spettacolo nato in una città non poteva nascere in un’altra città. Ogni città ha bisogno di un tipo di spettacolo, siccome ogni città ha un pubblico diverso. Roma ha degli spettacoli tipicamente romani. Milano aveva un grande rispetto della città e di Strehler. Ronconi venne a Milano con la consapevolezza di trovarsi nella città più importante dal punto di vista teatrale. Il teatro di Strehler portava con sé delle difficoltà tecniche. In La vita è sogno c’erano degli errori nella messa in scena, ma Ronconi imparò da questi errori. Io ebbi una rottura di 6 anni, in cui non ho più lavorato con lui, ho lavorato ad un progetto a Torino e sono tornato con la Lehman trilogy. Ronconi aveva fatto della sua debolezza, la malattia, un punto di forza. Faceva 5 ore di prove al giorno, doveva aiutare gli attori a capire quello che voleva in minor tempo, cambia anche il suo rapporto con l’attore. “Pietro, rispetto a ciò che è scritto c’è molto di non scritto!” Non mette in scena quello che si sa, ma quello che non si sa. Il suo lavoro con Ronconi ha influenzato il suo lavoro da regista? Ho fatto il regista in 2 occasioni su commissione. Io non ho scelto il testo. Il committente mi da il testo e devo risolvere i problemi del testo stesso. Nel lavoro con gli attori, mi ha aiutato il mio lavoro negli spettacoli di Ronconi. Lolita, I gemelli veneziani, ecc. Lolita che nasceva come sceneggiatura cinematografica ed è stata resa a livello drammaturgico. Ronconi ne dilata i tempi. Tanti oggetti si spostavano, quindi bisognava aspettare che si spostassero. L’attore non aveva il controllo su niente, mentre tutto la scena si muoveva. Causa uno scalpore mediatico internazionale. I gemelli veneziani: in scena al teatro Grassi (teatro stupendo) non ti devi sforzare per guardare la scena. Il professor Bernardi: scena allungata, tetto abbassato, non serviva il microfono. Questo teatro è trasversale, fatto da persone giovani e non, non generazionale. Ultimi giorni dell’umanità: Lingotto, seggioline che mi alzavano a 20 metri. Girava su sé stesso. Il meccanismo che fa girar la seggiola si blocca con me a testa in giù. Mi calano e mi tolgono le cinture dei tecnici vestiti da soldati. Teatro antico di Siracusa: due spettacoli con Ronconi (Le baccanti e Le rane). Feci palestra per il ruolo di Dioniso. L’Ade è lo specchio del degrado della città (Le rane). Il caso dei manifesti ebbe scalpore mediatico internazionale. Qual è stata la tua esperienza di doppiatore? Ho doppiato, ma non sono un doppiatore. Ho doppiato Voldemort. Quando ero piccolo la parola doppiatore non era una cosa bella. I giovani associano molto gli attori alla voce dei doppiatori. La tua opinione sul teatro contemporaneo? Non ho un’opinione. So che oltre il teatro che ho fatto non esisterò più. Il teatro sta cambiando. Hai un ricordo di Ronconi come attore? Con Ronconi il testo si esprime. In alcuni momenti andavo stretto. Più regole ci sono però e più sei libero. Cos’è per te l’attore? Per fare l’attore bisogna studiare, è un lavoro non è un modo di essere. La dignità dell’attore è data dal fare tutto. Alcuni gli dicevano che non ero bravo. Ronconi si è vendicato poi con alcuni di questi. Soffriva molto nel fare l’attore. Regista: ti fa vedere come si deve recitare; ti spiega come devi recitare. Ronconi ha assorbito moltissimo da altri attori, ha rubato il modo di essere delle persone. L’incontro di oggi è dedicato ad un aspetto particolare di Ronconi, ossia come spettatore privilegiato. Molto spesso parliamo di teatro, io e Giovanni, una conoscenza straordinaria che mi ha permesso di apprezzare tutto quello che hai scritto e fatto con Ronconi. Cosa è stato per te incontrare Luca Ronconi? Sono un insegnante di storia dell’arte, ma certamente alcuni spettacoli di Ronconi sono tra le cose che più o raccontato nella mia esistenza, come spettatore. Lo studio dei meccanismi del sapere e della comunicazione sono stati fondamentali. Ancora adesso faccio riferimento a queste esperienze. Ronconi è stato un eroe del lavoro, come pochissime altre persone che ho conosciuto sulla faccia della terra. è in un qualche modo il lavoro che gli ha permesso di allungargli la vita. In ogni modo era una persona che poteva essere buffa nella vita privata, ma per lui non esisteva realmente una vita personale, per lui esisteva il lavoro e per lui il lavoro era la vita. Cresciuto nella Milano di Strehler, per me Ronconi ha significato un grande shock. Ricordo con affetto Il giardino dei ciliegi di Strehler. Mi ero innamorato di quel modo di rappresentare la scenografia, mi ero abituato in quel modo. Questa metodologia mi si è andata incrinando. Franco Quadri è una persona che mi ha insegnato ad andare a teatro, mi ha insegnato anche altre cose. Nella Milano del mondo della critica teatrale questo regista, che allora era più giovane di quanto sia io adesso, appariva circonfuso di un alone magico, molto diverso da quello che io, come tantissimi altri bambini, o ragazzi, potevano vedere. Gli spettacoli di Strehler avevano delle tenute lunghissime. La messa in scena era intensamente partecipata da tutto la collettività che veniva a teatro. Questi spettacoli diventavano degli spettacoli dell’obbligo (meravigliosamente). Erano gli spettacoli che non si perdevano perché c’erano mille modi per vederli e la comunità milanese si riconosceva laica, c’era una religione del lavoro. Rispetto a questo atteggiamento le produzioni di Ronconi erano quelle che bisognava afferrare un po’ come si fa al tiro a segno. Non era facile per un adolescente milanese andarle a vedere. Gae Aulenti era l’architetto che fece dei capolavori per il regista. Si era venuto a sapere che, rispetto al sistema di messa in prova, di tenitura dello spettacolo, c’erano anche spettacoli montati e smontati velocemente. L’anitra selvatica è stato uno dei capolavori dell’artista. Questa esperienza mi attrasse, volevo assolutamente andarlo a vedere. Lo spettacolo più straordinario dei tre di Prato fu Le baccanti. Marisa Fabri interpretava un pezzo delle baccanti, senza alcun virtuosismo da interpretazione, era come posseduta dal testo, come in un rito al quale si era ammessi soltanto in 24 persone. Per un diciassettenne significa tanto poter essere uno di quei 24. Vedo questi tre spettacoli, un’idea di spettacoli che non si svolgono in un luogo solo. Anche in quella occasione Ronconi violò il rapporto usuale platea-palcoscenico, facendo in modo che lo spettacolo fosse visibile soltanto dai palchi. Le baccanti si svolgevano in un ex orfanotrofio dismesso. Adattato al teatro. Il debutto di questo spazio, alla periferia di Prato, va contro le immagini accademiche della Toscana come luogo di bellezza diffusa, siccome si tratta di una zona industriale. L’ingresso di questo capannone industriale immetteva dentro la scenografia dello spettacolo, con un pavimento di specchi ed un soffitto di Tiepolo. Ancora oggi ho una passione per quello che ritengo il più grande storico dell’arte del XX secolo, che era Roberto Longhi. Egli aveva delle bestie nere, persone che odiava, una di queste era Tiepolo. Lo riteneva un artista falso, a lui poi dobbiamo anche l’interpretazione di Caravaggio come vertice della pittura Occidentale. Tiepolo tutto falso, Caravaggio tutto vero. Vediamo l’esaltazione della pittura della falsità. Se io ho un’idea non monolitica della tradizione figurativa italiana è per questo. Mi sono dedicato di cose per le quali era più facile parlare senza la costruzione di un modello, privilegiando questo punto di vista. Quel pomeriggio durava 10 ore La torre. Ronconi aveva la collaborazione del partito comunista, gli è stato concesso tutto questo proprio grazie all’appoggio da parte delle istituzioni. C’era quasi una sorta di godimento nella dissipazione delle strutture in Ronconi. C’era un’idea di colossalità, almeno fino ad un certo punto della sua carriera. Egli prova con una struttura pubblica dell’Emilia Romagna, mettendo in scena uno spettacolo di Maeterlinck, L’uccellino azzurro, lo spettacolo mi parve disastroso. In questo periodo egli fa molte messe in scene all’estero di lirica, di prosa. Cerca di inventare delle strutture nuove. Ricordo una Santa Giovanna di Shaw. C’era qualche cosa di difficile. Rimonta poi il rapporto con la Toscana e c’è una zona di spettacoli ove la radicalità dell’esperienza della fine degli anni Settanta non è più possibile. Gli anni Ottanta preparano l’Italia berlusconiana. La radicalità di pensiero e la presa civile ove “pubblico” non significa “povero”, il teatro è un luogo dove si indagano i meccanismi della comunicazione fra esseri umani. Era forte la componente formalista del lavoro di questo artista. Conta l’indagine sui meccanismi. Ronconi metteva a punto un modo cerebrale di recitare, che purtroppo ha anche provocato fenomeni di imitazione laddove i giovani attori non fossero dotati di profondità è diventata una sorta di cantilena. Egli non ha mai fatto del teatro politico la sua causa, non si è mai messo su quel piano. Il suo teatro è più intellettuale. Non ha mai utilizzato la musica per fare scena nel teatro in prosa. Ronconi non ha mai voluto strappare la lacrima allo spettatore. egli aveva un amore impressionante per gli oggetti e i mobili (lo ricordo piangere per la storia di una teiera). Aveva un’attrazione per il movimento degli oggetti. Per leggere altre pareri del professor Agosti vedere il suo articolo: http://users2.unimi.it/bentoglio/?attachment_id=1429 Ospite: Alberto Benedetto Direttore di produzione e di organizzazione. Ha a che fare con la macchina produttiva del Piccolo. Sono arrivato al teatro stabile di Milano in concomitanza con Ronconi, ma non ebbi alcun contatto con lui. Nel 1999 ero stagista, poi sono diventato direttore di produzione: in sostanza gestisco tutta l’organizzazione del teatro. Quando si costruisce una stagione teatrale si comprano gli spettacoli e si vendono gli spettacoli. I cartelloni di produzione sono stati appunti prodotti e comprati. Noi vendiamo durante la tournee gli spettacoli. Io mi riunisco con il direttore artistico, costruiamo la stagione, questa viene presentata al consiglio di amministrazione per la produzione e poi mi chiedono se è sostenibile economicamente. Questo perché ogni attività preclude dei contratti e io devo costruire a monte un budget di produzione. Devo contattare tutti gli attori, i collaboratori artistici, costruire i piani di lavoro con i tecnici, coordinarne la promozione, gestire tutta la macchina di un centinaio di persone per spettacolo e infine costruire una tournee. In tutto questo, io fondamentalmente ero la persona vicina a Ronconi da questo punto di vista. Non perdevo di vista le produzioni del Piccolo economicamente. Quindi nella scelta artistica c’era un tuo coinvolgimento anche dal punto di vista realizzativo? In quasi tutti i teatri ove Ronconi ha lavorato come attore sono falliti, a parte il Piccolo. Mi ha fatto ridere perché mi pare che il comune di Prato gli avesse dato una medaglia. Questo per dire che quando lui proponeva dei titoli mi tremavano le vene ai polsi. C’era un rapporto di forza con la persone con cui si collaborava, non potevi certo dirgli di no, ma potevi cercare comunque di ottimizzare i costi e anche di dire qualche no. Lui quando parlava del Piccolo diceva “Noi”, cosa alquanto rara, siccome di solito si sentiva più ospite che parte integrante del gruppo. Tutti i capisettore lo erano diventati sotto di lui. Devo dire che ho avuto la fortuna di stargli molto vicine, perciò si confrontava ed ascoltava, poi faceva quello che pareva, ma comunque tra di noi c’era uno scambio. È emersa l’impossibilità di portare in giro gli spettacoli di Ronconi, è stata una cosa difficile da gestire? Nel lavoro di Luca Ronconi lo spazio è drammaturgia. Lui spesso pensava a delle creazioni che nascessero in certi luoghi e che morissero in certi luoghi. Abbiamo tentato di portare in giro degli spettacoli, ma è stato troppo faticoso. Il suo ideale sarebbe stato quello di fare un unico spettacolo. La Lehman noi la poteremo a novembre a Torino ed a Roma, ha cinque giorni di montaggio, perché sotto il palcoscenico c’è tutto un sistema di elevatori complicatissimo. Un esempio è Infinities, spettacolo fatto all’interno degli ex laboratori della Scala, uno spettacolo che aveva senso solo lì, abbiamo provato a portarlo in Spagna, ma è sempre stato molto difficoltoso. Riguardo a Siracusa? Lì è stato uno dei momenti in cui abbiamo rischiato veramente di chiudere, per via dei costi folli. Onestamente sono gli unici spettacoli che io non ho seguito. Io ero con lui a Ferrara al centro di Santa Cristina. Diciamo che la prima creazione di questa associazione noi eravamo a Ferrara a fare questo spettacolo. Lui aveva deciso di piastrellare di specchi una strada di fronte al palazzo ducale, 60 mln di Lire, me le ricordo ancora. Siracusa, al di là del discorso dei costi, è stato uno degli ultimi episodi di censura politica del teatro italiano, perché per Le rane era stato pensato di mettere immagini stilizzate che richiamassero i politici del tempo e lì appunto scoppiò uno scandalo con un politico siciliano, che di recente è stato arrestato per traffico di stupefacenti. In passato ci sono stati moltissimi casi di censura politica, dati dalla visibilità. Il Piccolo si chiama così perché il fautore dell’idea di fondare un teatro municipale fu il sindaco Greppi, post prima guerra mondiale. Era un drammaturgo e c’era una regista che metteva in scena i suoi testi. L’idea di un teatro stabile, una novità nel panorama italiano. In Russia i teatri stabili sono definiti mali, vuol dire “piccolo”, o bolshoi che significa “grande”. Il termine Piccolo mutuava una cera idea di stabilità e municipalità. Qualsiasi opera teatrale è tutelata dal diritto d’autore, il giorno in cui dovesse venire un regista a chiedermi di mettere in scena un certo testo, la prima cosa da verificare è che il testo sia libero dai diritti. Per dire, per Pirandello non dobbiamo chiedere a nessuno i diritti, perché è morto da oltre i settant’anni. Per ottenere una riduzione del palcoscenico bisogna pagare il proprietario del palcoscenico per la riduzione. Lehman è l’ultimo spettacolo che ha fatto Ronconi da noi. Il testo è molto bello, però non è esattamente un testo teatrale, non c’è il nome del personaggi, cosa dice e via dicendo. Lì Ronconi ha fatto una riduzione straordinaria, ha dato voce ai personaggi, dando voce alle battute. Lo si può evincere dallo spettacolo. Anche Pornografia è stata ridotta egregiamente, per ogni testo letterario lo faceva. Io negli anni ho dovuto trattare economicamente per poter fare gli spettacoli, però in momenti di confidenza con Ronconi una volta gli dissi che mi dispiaceva che lui sarebbe stato ricordato solo come regista e non negli altri ambiti, perché le sue indicazioni per i costumi, per la scenografia, ecc. erano così precise che semplificava tantissimo i collaboratori. Brecht e il Piccolo Il libro Brecht e il Piccolo teatro è un testo di storia del teatro e di storia culturale. Tratta la questione dei diritti di Brecht e la sua diffusione in Italia, che non è stata una vicenda così semplice. Le varie compagnie libere italiane, appena possibile, hanno cercato di metterlo in scena. Quando leggete le lettere e i libri vi rendete conto che il linguaggio di tanti anni fa è simile al nostro, ma la mentalità era tutt’altra. Era un altro mondo dove tutto era molto più chiaro, tutto o bianco o nero, o giusto o sbagliato. In Brecht c’era la volontà di democrazia, della coscienza di classe, egli era il sacerdote del dogmatismo, assolutamente funzionale a quello che si era proposto il Piccolo teatro. Intorno alla questione dei diritti, nel rappresentare Brecht, quindi è scoppiata una grossa battaglia. Il teatro era al centro, siccome non c’era televisione, tutto ciò che si faceva a teatro aveva un’importanza fondamentale anche dal punto di vista mediatico. Il libro racconta di come tutto il teatro italiano credeva che il Piccolo teatro di Milano avesse l’esclusiva di Brecht in Italia. Questo si era in realtà guadagnato con Strehler un privilegio di consultazione, di essere il tempio dell’ideologia brechtiana in Italia. Nel 1956 si mette in scena L’opera da tre soldi, Brecht la vede, gli piace, torna in Germania e dice di aver visto a Milano un bellissimo spettacolo. Quando Brecht muore le persone che lo conoscevano raccontano di quanto gli fosse piaciuto lo spettacolo di Milano, così creano una sorta di imbuto, donando i diritti al teatro di Strehler. Un imbuto sostenuto da un’ideologia. Tutta la storia di Brecht in Italia è stata influenzata dalla messa in scena di Strehler, che metterà in scena quasi sette Brecht. In realtà i diritti li aveva ottenuti il teatro di Genova, ma quando i finanziatori lessero il testo pensarono che fosse contro di loro, perciò non permisero più di metterlo in scena in quel teatro. Alcune sono state anche coproduzioni, o scambi, penso al teatro di Genova o di Santa Cristina, che differenza c’è stata con il tuo lavoro? Non ci sono grandi differenze, anche perché con Ronconi non abbiamo fatto molte coproduzioni, abbiamo prodotto Quel che sapeva Maisie con Genova, anche perché era con la Melato. Per Infinities ci fu una sorta di coproduzione con Valentia, ma più per un problema economico. Un’istituzione come il Piccolo teatro è finanziata solo per il 50%, per il resto servono gli sponsor, non è semplicissimo. Lui non amava la coproduzione perché di solito era una cosa che portava lo spettacolo anche dalla parte del coproduttore. Ronconi ha tutelato la proprietà intellettuale dei propri spettacoli facendo la riduzione del testo teatrale? No. Tutto fa parte dai rapporti di forza, quindi ci sono attori più importanti e meno importanti, anche a livello di trattative. Questo per dire che normalmente quando scritturi un regista tratti una paga e all’interno della paga c’è anche il valore intellettuale della messa in scena. Se rimetti in scena una messa in scena del regista gliela devi comunque pagare. È questa la differenza tra proprietà letteraria e regia. Ronconi non si è mai fatto pagare per le riduzioni, almeno non da noi. Alcuni registi si mettono a fare la traduzione di Shakespeare e quello che tu immagineresti essere scevro da diritti tu lo devi pagare al regista per la produzione. Nel momento in cui si sfora dal budget come ci si rientra? Banalmente ci sono tanti modi: ogni budget era una grande lotta per mantenere dei margini. Bisognava pensare a tutto, sempre nei limiti del bilancio. La prima cosa è l’ipotesi di bilancio, perché non c’è la certezza di un finanziamento. Una delle tecniche che nel caso di sforamento del budget si può fare è quello di distribuire i costi nelle annate successive. Ronconi ha mai avuto problemi rispetto ai diritti d’autore? No, non ne ha mai avuti. Perché era talmente una figura prestigiosa, nell’ambito teatrale, che diventava quasi un onore. Hai la garanzia artistica sulla messa in scena del testo, hai un ritorno economico, quindi difficilmente qualcuno ti dirà di no. Entrano a far parte del budget le spese fisse o anche quelle che sono fuori dal budget? Non tutti gli attori saranno pagati a contratto… Il discorso è questo: certo che ci sono delle persone fisse, però non essendo costi fissi ci sono comunque. Io gestisco la parte mobile e quella produttiva. I collaboratori artistici sono chiamati, è come fare un film. Il budget è la parte un po’ del bilancio in generale. Fuori budget. In tanti spettacoli di Ronconi, come direttore di produzione e come semplice spettatore, c’è ne uno al quale ti sei affezionato? Lavorare con una persona come Ronconi è sempre stato molto faticoso, i registi non sono facili da gestire, spesso si comportano in maniera infantile, costruire un film o uno spettacolo è faticoso perché bisogna stare all’interno di un budget. Rispetto alla regia di Ronconi, quando andava in scena lo spettacolo c’era un ritorno di un certo tipo, che faceva dimenticare le fatiche, non era generosità era un valore indiretto dello spettacolo e ci si rendeva conto quando poi seguivi un altro regista e non ti tornava niente, rimanevano soltanto le fatiche ed il fastidio. C’era un problema con la compagnia perché c’era la Rai che voleva fare le riprese, ma non aveva un budget sufficiente. Una compagnia di quel genere lì era estremamente costosa. Fece una proposta di una paga più bassa agli attori che guadagnavano di meno, per far sì che i posteri potessero avere un ricordo di quello spettacolo straordinario. Andiamo a concludere con qualche informazione in più relativa all’esame. - I materiali li trovate sul mio sito bentoglio.unimi trovate nelle categorie Corso teatrale Luca Ronconi, quello è il vostro programma. Qui trovate una serie di materiale: un articolo di Giovanni Agosti, gli appunti su Siracusa, i programmi di sala, materiali relativi a Ronconi, gli appunti di Giovanni Crippa, abbiamo altri materiali, non c’è nulla di nuovo od in più. - L’esame via Sifa, ci si iscrive, solo scritto, le giornate d’esame sono quelle pubblicate sul Sifa. Il giorno dell’esame si verrà qui in aula, faremo la prova che durerà circa un’ore, se qualcuno ha bisogno di un pochino di tempo glielo si darà. Sarà un quadrifoglio, 4 pagine. - La prima domanda sarà destinata al volume di Roberto Alonge o quello con l’intervista; la seconda sarà relativa o al volume di Capitta o agli incontri dei quali si chiederà una domanda “dall’incontro con Margherita Palli, quali lavori importanti sono emersi? ecc.”; terza domanda su incontro e quarta lo stesso (quindi tre domande su incontri); poi una quinta domanda dedicata agli spettacoli visti al Piccolo teatro “quali elementi ti hanno interessato, ti sono piaciuti o no”, siccome non tutti sono andati a teatro, per questi casi, come sapete ci sono i video da vedere, sono tutti su YouTube e sono L’Orlando furioso, John Gabriel Borkman, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Fahrenheit. - Per 9 cfu la sesta domanda sarà dedicata agli incontri avvenuti l’undici Aprile, quindi la domanda su Alberto Benedetto non capiterà agli studenti che han fatto 6 cfu. L’altra domanda possibile sarà legata al testo di Lehman. - I risultati arriveranno via mail, come tutte le prove scritte e si potrà accettare o rifiutarlo, andando all’appello successivo e rifacendo la prova. La correzione la facciamo entro la chiusura delle iscrizioni all’appello successivo. - In ultimo, decidiamo insieme la giornata di Gennaio con lo spettacolo di Lehman trilogy, mandando delle mail a monografico.