Anno XV - Numero 85 - 18 dicembre 2009
Questa Traviata
Zeffirelli alla ricerca della perfezione,
con qualche polemica
A Pag.
2
La storia dell’opera
Nata da una intuizione,
derisa nel debutto veneziano,
osannata da un secolo e mezzo
A Pag.
6
Il personaggio storico
La vita dissoluta
di Alphonsine Plessis,
la giovane donna
che affascinò Parigi
A Pag.
8e9
Due protagoniste
dell’opera
La Camelia,
fiore senza profumo
A Pag.
13
La Tubercolosi,
malattia romantica
A Pag.
14 e 15
LA TRAVIATA
d i G i u s e p p e Ve r d i
La Traviata
2
In questa Traviata destinata a rimanere nella storia,
ha cercato il personaggio ideale
Zeffirelli perfezionista
non ha voluto la Dessì
D
opo il grande successo di due anni
fa (era il 20 aprile
2007) con il Teatro Costanzi tutto esaurito pur
anche per le recite aggiunte - come è capitato
anche in questa occasione – si è voluto riproporre l’allestimento
de La Traviata realizzato in quell’occasione da
Franco Zeffirelli per
l’Opera di Roma. Una
Traviata che lo stesso
Zeffirelli ha definito «la
più
vicina
alla
perfezione» delle otto da
lui realizzate in 51 anni. Infatti, l’86enne regista fiorentino si confrontò per la prima volta
con questo titolo verdiano nel 1958.«Ne ho sposate tante e le ho amate tutte,
ma questa volta nell’età
matura ho trovato quella
che si avvicina alla perfezione e che credo rimarrà
nella storia». «Essa – continua Zeffirelli – è più vicina delle altre a quella del
mio debutto con questo titolo, ma rispetto a quella è
stata affinata, migliorata,
da una parte ripulita e dall’altra arricchita di tanti
particolari sui quali ho riflettuto in tutti questi anni.
L’ho pensata come un flash
back. Anche Verdi comincia l’opera con una musica
greve, triste, che contiene
tutta la storia».
Come nella tradizione di
Zeffirelli si tratta di un
allestimento ricco, sontuoso, che vuole cogliere
tutto il fascino e l’elegan-
za di quella Parigi ottocentesca che fece da
sfondo alla vera storia di
una prostituta d’alto bordo del periodo quale fu
Alphonsine
Plessis,
amante anche dello scrittore francese Alexandre
Dumas figlio, il quale ne
fece la protagonista del
proprio romanzo Dame
aux Camèlias, da cui Verdi e Francesco Maria Piave trassero il libretto de
La Traviata.
La polemica
E proprio la maniacale
ricerca di perfezione di
Zeffirelli, ha innescato
~ ~ La Copertina ~ ~
Giovanni Boldini - Ritratto della Marchesa Casati (1913)
Galleria Nazionale d’Arte Moderna - Roma.
Il G iornale dei G randi Eventi
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Andrea Marini
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una polemica della vigilia, che ha riportato i titoli dei giornali indietro
nel tempo, quando i retroscena della lirica infiammavano le cronache,
alimentando le attese dei
singoli spettacoli ed il
mito dei personaggi.
Così questa volta è stato il fermo “No” di Zeffirelli al soprano Daniela Dessì a scatenare
il battibecco a distanza.
Il regista non ha voluto
questo soprano, che
avrebbe dovuto cantare come Violetta insieme al marito Fabio Armiliato (Alfredo) il 27 e
31 dicembre in due recite speciali in forma di
gala, perché l’ha ritenuta
«troppo matura e troppo
formosa» per calarsi nei
panni della giovanissima
protagonista che muore
consunta dalla Tubercolosi. Alphonsine Plessis,
infatti, con il proprio fascino e la propria prorompente femminilità,
divenne protagonista del
demi mond parigino a
soli 16 anni, morendo
poi per il mal sottile a 23.
Una aderenza alla realtà
ed un amore per la giovinezza che a ben vedere il
maestro toscano ha sempre perseguito per certe
sue regie, si pensi solo ai
17 anni di Leonard Whiting ed ai 16 di Olivia
Hussey nel film Romeo e
Giulietta del 1968. «Per
Violetta ci vuole una cantante giovane, anche un
tantino inesperta, che sappia trasmettere la freschezza del personaggio», dice
Zeffirelli. Offesa si è ritenuta la Dessì, la quale,
nella sua corporatura robusta e florida di seno,
ha tenuto a precisare di
essere dimagrita di ben 6
kg, minacciando querele
ed annullando anche la
propria partecipazione,
nel ruolo di Alice, al Falstaff – sempre con la regia di Zeffirelli – che
aprirà la prossima stagione dell’Opera di Roma il 23 gennaio 2010.
Andrea Marini
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Stagione 2010 al Teatro Costanzi
23 - 31 Gennaio
FALSTAFF
di Arrigo Boito
Asher Fisch
Direttore
Interpreti
Renato Bruson, Ruggero Raimondi, Juan Pons, Alberto Mastromarino,
Carlos Álvarez, Pierluigi Dilengite, Luca Salsi, Carlo Di Cristoforo Patrizio Saudelli,
Taylor Stayton, Daniela Dessì, Mina Yamazaki, Laura Giordano,
Gladys Rossi, Elisabetta Fiorillo, Rossana Rinaldi, Francesca Franci
16 - 23 Marzo
Direttore
Interpreti
MEFISTOFELE
di Arrigo Boito
Renato Palumbo
Orlin Anastassov, Francesco Palmieri, Stuart Neill, Amarilli Nizza,
Teresa Romano, Anda-Louise Bogza, Letizia Del Magro, Amedeo Moretti
1 - 11 Aprile
Direttore
Interpreti
TOSCA
di Giacomo Puccini
Fabrizio Maria Carminati
Svetla Vassileva, Anda-Louise Bogza, Nadia Vezzù, Francesco Grollo,
Carlo Guelfi, Alberto Mastromarino, Franco Giovine
18 - 28 Maggio
Direttore
Interpreti
MADAMA BUTTERFLY
di Giacomo Puccini
Daniel Oren
Xiu Wei Sun, Raffaella Angeletti, Marco Berti, Pier Luigi Dilengite
Mario Bolognesi, Francesca Franci, Armando Gabba, Carlo Striuli,
Angelo Nardinocchi
17 - 24 giugno
MANON
di Jules Massenet
Alain Guingal
Direttore
Interpreti
Annick Massis, Sylwia Krzysiek, Massimo Giordano,
Paolo Battaglia, Alfredo Zanazzo
Stagione Estiva alle Terme di Caracalla
15 luglio - 5 agosto
Direttore
Interpreti
28 luglio - 8 agosto
AIDA
di Giuseppe Verdi
Daniel Oren
Daniela Dessì, Giovanna Casolla, Fabio Armiliato
RIGOLETTO
di Giuseppe Verdi
Steven Mercurio
Direttore
1 - 6 ottobre
Direttore
Interpreti
ROBERTO DEVEREUX
di Gaetano Donizetti
Bruno Bartoletti
Gian Luca Terranova, Carmela Remigio, Alberto Gazale, Sonia Ganassi
4 - 11 novembre
Direttore
Interpreti
ADRIANA LECOUVREUR
di Francesco Cilea
Maurizio Arena
Martina Serafin / Giovanna Casolla, Marcello Giordani,
Katia Lytting / Agnes Zwierko, Alessandro Guerzoni
~~
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi, 18 - 31 dicembre 2009
LA TRAVIATA
Melodramma in 3 atti
Libretto di Francesco Maria Piave da Alexandre Dumas figlio
Musica di Giuseppe Verdi
Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853
Seconda versione: Venezia, Teatro San Benedetto, 6 maggio 1854
Maestro concertatore e Direttore
Maestro del Coro
Regia e scene
Costumi
Coreografia
Disegno Luci
Violetta Valery
Andrea Giorgi
Franco Zeffirelli
Raimonda Gaetani
Vladimir Vassiliev
Agostino Angelini
Personaggi / Interpreti
Flora Bervoix
Annina
Alfredo
Germont
Gastone
Barone Douphol
Marchede D’obigny
Dottor Grenvil
Gianluigi Gelmetti
Giuseppe
Domestico di Flora
Commissionario
Myrtò Papatanasiu 18, 20, 22, 31 /
Cinzia Forte 19, 23, 29 / Mina Yamazaki 27, 30
Katarina Nikolic 18, 20, 22, 27, 30 /
Anastasia Boldyreva 19, 23, 29, 31
Antonella Rondinone 18, 20, 29, 31 /
Mariella Guarnera 19, 22, 23, 27, 30
Antonio Gandìa 18, 20, 22, 29 /
Roberto De Biasio 19, 23, 30 / Stefan Pop 27, 31
Carlo Guelfi 18, 20, 22, 27, 30 /
Dario Solari 19, 23, 29, 31
Gianluca Floris 18, 20, 22, 29, 31 /
Cristiano Cremonini 19, 23, 27, 30
Angelo Nardinocchi 18, 20, 22, 29, 31 /
Gianpiero Ruggeri 19, 23, 27, 30
Andrea Snarski 18, 20, 22, 29, 31 /
Matteo Ferrara 19, 23, 27, 30
Carlo Di Cristoforo 18, 20, 22, 29, 31 /
Luca Dell’Amico 19, 23, 27, 30
Giuseppe Auletta, Luigi Petroni, Maurizio Rossi
Riccardo Coltellacci, Fabio Tinalli
Andrea Buratti, Francesco Luccioni, Antonio Taschini
ORCHESTRA, CORO E CORPO DI BALLO DEL TEATRO DELL’OPERA
Allestimento del Teatro dell’Opera
G
Il
La Traviata
Giornale dei Grandi Eventi
rande attesa per questa Traviata
firmata da Franco Zeffirelli, la
quale riprende l’allestimento realizzato dal regista fiorentino per l’opera
di Roma nell’aprile 2007, che andò in
scena per 10 repliche. Anche questa volta tutto esaurito già da un paio di mesi.
Una grande visione del capolavoro verdiano, ultimo titolo della cosiddetta
“Trilogia Popolare”, destinato a passare
alla storia. Si tratta dell’ottavo allestimento originale nella carriera dell’86en-
ne Zeffirelli, che con questo titolo si approcciò per la prima volta 51 anni fa, nel
1958. Allestimento che lo stesso regista
definisce «vicino quasi alla perfezione».
E proprio la ricerca di perfezione ha generato alla vigilia qualche polemica, per
la decisione di Zeffirelli di non volere il
soprano Daniela Dessì «troppo matura e
troppo corpulenta», lontana dal personaggio di una donna giovane, consunta
dalla tubercolosi (il personaggio storico
cui l’opera si ispira, Alphonsine Plessis,
morì, infatti, a soli 23 anni). La Dessì,
stizzita, ha deciso di non cantare neppure come Alice nel Falstaff – sempre con
la regia di Zeffirelli - che il 23 gennaio
prossimo aprirà la nuova stagione dell’Opera di Roma. Su quello che è stato
per tanti anni il “suo” podio, torna, invece, il direttore Gianluigi Gelmetti, il
quale, come suo solito, guarderà ad una
piena aderenza alla partitura, lasciando
da parte qualsiasi ricerca d’eccesso di
virtuosismo da parte dei cantanti.
3
Le Repliche
Sabato 19 dicembre, h. 18.00
Domenica 20 dicembre, h. 16.30
Martedì 22 dicembre, h. 20.30
Mercoledì 23 dicembre, h 20.30
Domenica 27 dicembre, h. 16.30
Martedì 29 dicembre, h. 20.30
Mercoledì 30 dicembre, h. 20.30
Giovedì 31 dicembre, h. 18.00
Torna La Traviata di Zeffirelli, con qualche polemica
La vicenda si svolge a Parigi e dintorni, tra l’agosto
1850 circa ed il febbraio successivo.
ATTO I – Mese di Agosto – La bella e famosa
relazione del cognato. Violetta, non senza intima
lotta, accetta di sacrificare la propria felicità, ma
ad un patto: lei abbandonerà Alfredo in cambio
della promessa che quando il dolore avrà sopraffatto la sua cagionevole salute, la verità venga rivelata all’amato. Germont accetta commosso. Rimasta sola Violetta si appresta a scrivere
una mendace lettera ad Alfredo, ma è da questo sorpresa. Trai due
scoppia una forte eccitazione che culmina nella straziante richiesta d’amore «amami Alfredo…». Violetta fugge poi verso Parigi, lasciando la
lettera per Alfredo, che dopo averla letta cade disperato tra le braccia
dal padre, per poi staccarsene deciso a scoprire il presunto amante di
Violetta.
Scena II – La festa in casa di Flora è al culmine quando giunge Violetta al braccio del barone Douphol. Alfredo è al tavolo da gioco e finge indifferenza, vincendo alle carte anche il rivale. La tensione è alta. Violetta rimasta sola con Alfredo lo vorrebbe far allontanare, ma per non svelare la verità, è costretta ad ammettere di amare Douphol e di aver giurato a questo di non rivederlo più. Alfredo, irato, denuncia pubblicamente la condotta della donna e le getta ai piedi una borsa con denaro.
Giunge il padre che rimprovera Alfredo per il gesto.
La Trama
mondana Violetta Valery, amante del barone Douphol, ha dato nella
sua casa un fastoso ricevimento per una raffinata compagnia di gaudenti aristocratici e compiacenti signorine. Un po’ disorientato gira Alfredo Germont, introdotto dall’amico Gastone visconte di Letorières
con il proposito di conoscere l’affascinante padrona di casa. Violetta
confida all’amica Flora Bervoix di voler annegare nell’ebbrezza il dolore e le pene che le reca la salute. Gastone le presenta Alfredo. Quando
Violetta per sdrammatizzare propone un brindisi collettivo, Alfredo
brinda a lei, invitandola a ballare. Mentre i due si recano nel salone contiguo, una crisi di tosse frena Violetta che viene assistita da Alfredo. L’eco dei valzer funge da lontana colonna sonora alla conversazione dei
due: alle profferte d’amore di lui, si alternano le ricuse divertite di lei,
che dona ad Alfredo il suo fiore preferito, una camelia, promettendo di
rivederlo quando sarà appassita. Alla fine della festa, Violetta, rimasta
sola, s’accorge di essere per la prima volta seriamente innamorata.
ATTO II – Gennaio dell’anno successivo, in una casa di campagna presso
Parigi – Alfredo e Violetta vivono felici fuori Parigi, lontani dalla mondanità. Ma Alfredo viene a sapere dalla cameriera Annina che Violetta
– ormai privata delle munifiche elargizioni di tanti protettori – ha dovuto vendere i gioielli per pagare le spese della nuova vita. Il giovane
apre gli occhi e parte per Parigi in cerca di soldi. Violetta, rimasta sola,
riceve l’inaspettata visita del padre di Alfredo, Giorgio Germont, il quale le chiede di troncare la relazione che rischia di portare il figlio alla rovina. Violetta dimostra all’uomo di aver venduto i propri gioielli pur di
non chiedere denaro all’amante. Germont, mortificato, la scongiura di
rinunciare ad Alfredo per salvare il fidanzamento della figlia, che rischia di saltare da quando il futuro sposo ha appreso della scandalosa
ATTO III – In febbraio a casa di Violetta – La musica del preludio ripor-
ta alla festosità del I Atto. Violetta è invece a letto, malata di tisi e senza
speranza. Riceve una lettera di Germont, che le annuncia – secondo i patti - di aver rivelato la verità ad Alfredo, che sta per raggiungerla.
Violetta piange e rilegge più volte la lettera, ma teme che egli giunga
troppo tardi.
Ma la fedele Annina le annuncia l’arrivo di Alfredo, che si getta tra le
braccia di Violetta. La donna vorrebbe alzarsi, ma non ce la fa. Arriva anche il vecchio Germont. Pochi istanti di apparente vigore per
Violetta, che poi cade esanime tra le braccia di Alfredo, unico amore
della sua vita.
ama in cifre
Popolazione equivalente servita:
3.169.000
Area servita dalla raccolta:
kmq 1.285
Km lineari di strade servite:
3.370
Totale rifiuti raccolti:
Raccolta differenziata:
t/anno 1.760.732
t/anno 343.493
Automezzi:
2.342
Sedi:
77
Isole Ecologiche e Centri di Raccolta:
13
Stabilimenti e impianti:
10
L’ambiente
in buone mani.
www.amaroma.itwww.amaroma.itwww.amaroma.itwww.amaroma.it
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La Traviata
Antonio Gandìa, Roberto De Biasio e Stefan Pop
L’
Alfredo Germont,
stregato da Violetta
amato Alfredo, avrà al voce dei tenori Antonio Gandìa
(18/20/22/29), Roberto De Biasio (19/23/30) e Stefan Pop
(27/31).
Considerato uno dei più interessanti giovani tenori spagnoli, Antonio Gandìa, dopo gli studi al Conservatorio di Valenzia si è perfezionato con Alfredo Kraus alla Escuela Superior “Reina Sofia” di Madrid. Nel 2000 ha debuttato al Teatro Real di Madrid nel Rosenkavalier
(Strauss), ricevendo nel 2004 il primo premio assoluto al Concorso Internazionale “Francisco Viñas” di Barcellona. Interprete di Orombello in Beatrice di Tenda al Teatro alla Scala di Milano, è stato recentemente impegnato a Cosenza ne La Traviata (Verdi).
Roberto De Biasio, siciliano, ha debuttato nel 2006 al Teatro Donizetti di Bergamo nel ruolo di Edgardo in Lucia di Lamermoor (Donizetti). Ha interpretato ruoli come il Conte di Leicester in Maria
Stuarda, Gennaro in Lucrezia Borgia e Cassio ne l’Otello all’Opera
di Roma diretto da Riccardo
Muti. La prima mondiale di Titania la rossa di Liberovici, testo e
regia di Albertazzi, lo ha impegnato nel personaggio di Oberon al Teatro Municipale di Paicenza. Ha cantato nel ruolo di
Pinkerton ne La Madama Butterfly presso la Kyoto Concert Hall.
Lavora con registi e direttori di
fama internazionale.
Nato in Romania, il tenore Ste- Myrtò Papatanasiu e Antonio Gandìa
fan Pop, è vincitore di numerosi
premi in concorsi internazionali di canto, tra cui “Sigismund Goduta” 2007, “Hariclea Darclée” 2007, “Martian Negrea” 2008, “Ionel Perlea”, “Sabin Dragoi” 2009. Quest’anno è stato impegnato, tra l’alto,
nella prima assoluta di Colinda balada op. 46 di Gyorgy Kurtag con
l’Orchestra Filarmonica Transilvania Cluj-Napoca. Per la prima volta
canta all’Opera di Roma.
Carlo Guelfi e Dario Solari
I
Il vecchio Germont, contrario
alla relazione del figlio
baritoni Carlo Guelfi (18/20/22/27/30) e Dario Solari
(19/23/29/31), si alterneranno nell’interpretazione di Germont,
padre di Alfredo.
Nato a Roma, il baritono Carlo Guelfi, ha studiato canto con lo zio
paterno Renato Guelfi. Nel 1983 vinse il Concorso Internazionale
“Aureliano Pertile”.Da allora ha iniziato un’intensa e brillante carriera che lo ha portato a collaborare con i maggiori teatri del mondo, fra
i quali il Teatro Alla Scala,
l’Opera di Roma, il Comunale di Firenze, La Fenice
di Venezia, l’Arena di Verona, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Metropolitan, la Carnegie
Hall di New York, la Staatsoper di Vienna, l’Opernhaus di Zurigo, la
Staatsoper di Monaco, il
Festival di Salisburgo, il
Teatro Real di Madrid ed il
New National Fondation
di Tokyo. Fra gli impegni
recenti si segnalano La battaglia di Legnano alla Car-
Carlo Guelfi
5
Myrtò Papatanasiu, Cinzia Forte e Mina Yamakazi
I
L’affascinante Violetta Valery,
amante di tanti uomini
soprano Myrtò Papatanasiu (18/20/22/31), Cinzia Forte
(19/23/29) e Mina Yamakazi (27/30) si alterneranno nel ruolo di
Violetta.
Myrtò Papatanasiu, soprano di nazionalità greca, si diploma in canto al Conservatorio di Salonicco. Ha perfezionato i suoi studi a Milano sotto la guida di Roberto
Coviello. Il debutto, giovanissima, all’Opera di Salonicco con Il
Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi. Ha interpretato molte volte il ruolo di
Carolina ne Il matrimonio segreto
di Cimarosa all’Opéra di Montecarlo, al
Regio di Torino e all’Opéra Comique di
Parigi. Al Teatro dell’Opera di Roma torna con il ruolo di
Violetta ne La Traviata, dopo il debutto
nel 2007 nella produzione di Zeffirelli, Myrtò Papatanasiu
ruolo interpretato
anche alla Welsh National Opera con la regia di Mc Vicar. Ha debuttato all’Accademia Santa Cecilia di Roma
in una nuova produzione di Daniele Abbado di Così fan
tutte (Fiordiligi).
Cinzia Forte, napoletana di nascita e romana di adozione, ha vinto numerosi concorsi internazionali, tra cui il
“Giacomo Lauri Volpi” di Latina e il Concorso “A. Belli” di Spoleto. Dopo il debutto al Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, è stata invitata dai più prestigiosi teatri internazionali, tra cui
il Teatro alla Scala, il Covent Garden di Londra, Royal Concertgebouw e Nederlandese Opera di Amsterdam, il New National Theatre di Tokyo. Il suo repertorio comprende opere di autori come Bellini, Donizetti e Rossini. A Roma torna al Teatro dell’Opera dopo
aver interpretato con successo Marie ne La fille du régiment (Donizetti).
Mina Yamazaky, soprano giapponese naturalizzata in Italia, si è
imposta all’attenzione internazionale cantando in importanti teatri
fra i quali, il Grossenfestspielhause di Salisburgo, New National
Theatre di Tokyo, Den Norske Opera di Oslo, La Fenice di Venezia,
il Teatro Lirico di Cagliari e il Massimo di Palermo. Nel suo repertorio titoli come La Bohème, La Traviata, Madama Butterfly, Don Giovanni, Turandot, Il Trovatore, Pagliacci e Carmen. Ha collaborato con
direttori d’orchestra di fama internazionale (Aprea, Rizzi Brignoli,
Gelmetti, Lombrad, Kazushi Ono). All’Opera di Roma ha già cantato in Die Zauberflöte e La Bohème.
negie Hall di New York. All’Opera di Roma ha cantato ne Il Tabarro e Gianni Schicchi (2002).
Nato a Montevideo, in Uruguay, il baritono Dario Solari, ha studiato canto alla Scuola Nazionale di Arte Lirica del suo paese e nel
1999, su invito di Katia Ricciarelli, si è trasferito in Italia, perfezionandosi sotto la guida di Paolo Washington. Vincitore di numerosi
concorsi, ha debuttato nel 2001 tenendo alcuni concerti e cantando
opere come La Rondine di Puccini e Die Zauberflöte di Mozart. Ha interpretato il ruolo di Figaro nel Barbiere di Siviglia di Rossini, all’Opéra di Montecarlo, al Filarmonico di Verona ed al Massimo di
Palermo. Hanno fatto poi seguito ruoli come Silvio (Pagliacci), Sharpless (Madama Butterfly) e Marcello (Bohème) all’Opera di Roma. Per
l’inaugurazione della stagione 2004 dell’Opera di Roma ha debuttato il ruolo di Cloteau nella prima assoluta di Marie Victoire di Respighi, diretto da Gianluigi Gelmetti. Nel 2006 è tornato a Roma con
Maria Stuarda nel ruolo di Lord Guglielmo Cecil.
Pagina a cura di Martina Proietti – Foto: Corrado M. Falsini
La Traviata
6
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Storia dell’opera
Derisa al debutto ambientato nel ‘600,
osannata alla ripresa 14 mesi dopo
«L
Fanny Salvini Doa Traviata, ieri
natelli, il tenore
sera, fiasco. La
Ludovico Graziacolpa è mia o dei
ni nel ruolo di Alcantanti?...Il tempo giudifredo ed il baritocherà», scrisse Verdi, dono Felice Varesi in
po la disastrosa prima al
quello di GerTeatro La Fenice di Vemont, si rivelaronezia il 6 marzo 1853.
no
inadeguati,
Come il debutto, la stenon in voce e non
sura di Traviata, non fu
a loro agio in
tranquilla. Verdi durante
un’opera così paril proprio soggiorno a
ticolare e fuori daParigi, città dove si era
gli schemi, e ditrasferito con Giuseppivennero gli elena Strepponi alla fine del
menti
negativi
1851 per fuggire alle
della serata. Le
chiacchiere degli abitanti
cronache riportaIl Teatro La Fenice di Venezia in una litografia del 1854
di Busseto, nel febbraio
rono come notizia
1852 ebbe modo di assiprincipale le risate
tis del 1 gennaio 1853
deva la figura della prostere presso il Théâtre du
del pubblico veneziano,
Verdi scrisse: «A Venezia
tagonista, Marguerite
Vaudeville al dramma di
nel vedere la giunonica
faccio la Dame aux CameGautier, ispirata ad
Alexandre Dumas figlio,
protagonista morire di
lias che avrà per titolo, forAlphonsine Duplessis,
la Dame aux camélias, reconsunzione: «La Traviase, Traviata. Un soggetto
famosa cortigiana paristandone positivamente
ta ha fatto un fiascone e,
dell’epoca. Un altro forse
gina che morì, venticolpito.
peggio, hanno riso», disse
non l’avrebbe fatto per i cotreenne, l’anno prima
Poco dopo essere tornato
Verdi. «Eppure, che vuoi?
stumi, pei tempi e per mille
dell’uscita del romanzo,
dalla capitale francese,
Non ne sono turbato. Ho
altri goffi scrupoli [...].
nel 1848. Si pensò così di
Verdi il 4 maggio 1852
torto io o hanno torto loro?
Tutti gridavano quando io
cambiare i nomi dei profirmò un contratto con la
Per me credo che l’ultima
proposi un gobbo da mettetagonisti (Marguerite diFenice di Venezia con il
parola sulla Traviata non
re in scena. Ebbene ero felivenne Violetta Valery,
quale si impegna a scrice di scrivere il Rigoletvere un’opera per il
to».
carnevale successivo
Trovato il soggetto, il
ed a consegnare il temusicista mise mano
sto poetico – il cui aualla partitura proprio
tore doveva essere
nello stesso periodo
scelto e pagato da
in cui stava compleVerdi – entro la fine
tando Il Trovatore,
dell’estate. La deciche sarebbe andato
sione sul soggetto si
in scena a Roma al
rivelò, però, più diffiTeatro Apollo il 19
cile del previsto ed il
gennaio 1853 e che
compositore fu coavrebbe
riscosso
stretto a chiedere una
grande successo coproroga sulla conseme il Rigoletto l’11
gna del libretto.
marzo 1851. Terzo e
A fine estate Piave
ultimo “tassello” delstava scrivendo un tela cosiddetta “Trilosto, probabilmente
gia popolare”, La
quello dell’Ebrea, tratTraviata fu scritta,
to dalla Juive de Co- Fanny Salvini Donatelli (1815-1891)
Lodovico Graziani (1820-1885)
quindi, tra Roma e Primo Alfredo alla Fenice
stantine di Gautier e Prima Violetta alla Fenice
Venezia. Mentre il
Parfait, che terminò
sia quella di ieri sera. La rilibrettista Francesco MaArmand e Georges Duin ottobre a Sant’Agata,
vedranno e vedremo!». Il
ria Piave modificava alval cambiarono in Alfrequando improvvisamencompositore, infatti, crecune parti del libretto
do e Giorgio Germont).
te Verdi s’infiammò per
deva molto nel valore
perché giudicate troppo
Accettando il titolo di
quella Dame aux camélias
dell’opera, così come l’anoiose per il pubblico,
Traviata scelto dalla cendi Alexandre Dumas fiveva pensata (ambientaVerdi si trovò alle prese
sura (che rifiutò quello
glio che vi aveva narrato
ta nell’Ottocento, quasi a
con i problemi della sceldi Amore e morte richiesto
in chiave romanzesca la
denunciare l’ipocrisia di
ta dei cantanti. La ricerca
dal compositore), Verdi
propria storia d’amore
certa società del tempo,
di una «donna di prima
e Piave pensarono di lacon una celebre mantecon una trama priva di
forza» per la protagonisciare che la storia fosse
nuta parigina.
intrighi e di duelli e con
sta, come chiesto al disimile al dramma, riduQuesto dramma in cinun suo contesto “privarettore della Fenice Carcendo i personaggi seque atti, ritenuto scabroto” e domestico, tutte
lo Marzari, si concluse
condari per dare magso dalla critica per la sua
novità per l’epoca): «Un
con un insuccesso ed il
gior risalto ai tre protaforte carica autobiografisoggetto dell’epoca. Un aldisastroso debutto del 6
gonisti. In una lettera alca e per la sua disarmantro forse non l’avrebbe fatto
marzo 1853. Il soprano
l’amico Cesare De Sancte contemporaneità, ve-
per i costumi, pei tempi e
per mille altri goffi scrupoli…Io lo faccio con tutto il
piacere. Tutti gridavano
quando proposi un gobbo
da mettere in scena. Ebbene, io ero felice di scrivere il
Rigoletto». Con le critiche non del tutto sfavorevoli, Verdi decise di
cercare una compagnia
vocale all’altezza per il
secondo allestimento,
vietando, intanto, le repliche dell’opera fino al
reperimento di un cast di
suo gradimento.
Il secondo debutto
La Traviata venne, dunque, ripresa, con alcuni
cambiamenti di lieve entità, il 5 maggio 1854 al
Teatro San Benedetto
sempre a Venezia, dopo
aver contemplato l’ipotesi di portare l’opera a
Roma. Questa volta Verdi scelse i cantanti che
più si adattavano alle
singole parti: Maria
Spezia,
Francesco
Landi come Alfredo e
Filippo Coletti come
Papà Germont. Il debutto del nuovo cast,
il 6 maggio 1854, fu
un immediato, grandissimo, successo, che
portò Verdi ad esclamare: «Tutto quello che
esisteva per la Fenice
esiste ora pel S. Benedetto. Allora fece fiasco; ora
fa furore. Concludete
voi!». Con pochissimi
cambiamenti, non tali
da ribaltare il giudizio precedente in così
poco tempo, La Traviata piacque, con i
suoi personaggi “normali”, con una protagonista ritenuta scandalosa, con una ambientazione quasi dimessa e
non ridondante, riscuotendo un successo particolare: nel giro di quattordici mesi aveva fatto
cambiare idea al medesimo pubblico ed iniziò
da qui ad essere rappresentata in tutta Italia ed
in Europa, senza smettere mai di essere discussa
e criticata.
M. M.
Il
La Traviata
Giornale dei Grandi Eventi
«L
7
Analisi Musicale
Una perfetta simbiosi tra drammaturgia e musica
a Traviata ha
fatto un fiascone
e peggio, hanno
riso. Eppure, che vuoi?
Non ne sono turbato. Ho
torto io o hanno torto loro?
Per me credo che l’ultima
parola sulla Traviata non
sia quelle d’jeri sera. La rivedremo e vedremo! Intanto, caro Mariani, registra il
fiasco…». Scriveva così
Verdi al direttore d’orchestra Angelo Mariani
il giorno dopo il contrastato debutto di Traviata
alla Fenice di Venezia, il
6 marzo 1853.
Nonostante i fischi e il
“riso”,il musicista mostrava una composta serenità, segnale della propria convinzione di aver
licenziato un’opera di rilievo. Ed ebbe ragione,
perché ben presto Traviata non solo rinacque, ma
si impose come uno dei
massimi capolavori del
nostro teatro e uno dei titoli più popolari del suo
repertorio.
I motivi del successo
stanno tanto nella impostazione drammaturgica
del lavoro, quanto nella
partitura musicale.
«Sono solo un uomo di teatro» dichiarò una volta
Verdi, rifiutando l’etichetta di illustre musicista.
Lavorando sul libretto
che Francesco Maria Piave aveva tratto da La dame aux camelias di
Alexandre Dumas figlio,
il musicista riuscì a costruire un’affascinante
tragedia sull’amore e
sulla morte, mescolando
genialmente, leggerezza
e drammaticità, lirismo e
tensione.
Domina il valzer, la danza tipica dei salotti ottocenteschi. Ed è sul ritmo
ternario del valzer che si
incrociano i bicchieri nel
brindisi forse più famoso
del teatro italiano. In «Libiamo ne’ lieti calici», si
coglie la freschezza e la
passionalità dell’amore
di Alfredo ma si intravede anche il primo segnale di turbamento di Violetta. Inizia nell’allegria
e nella frenesia della
mondanità parigina l’opera per virare immedia-
tamente dopo con una
delle più grandi scene
mai concepite.
Follie, follie…
Il lungo, incredibile monologo di Violetta è, in effetti, un capolavoro perché ci regala l’immagine
di una donna che apparentemente felice, vive un
dramma interiore fortissimo,
combattuta tra
una esistenza
frivola e il desiderio di abbandonarsi all’amore per un uomo
e, attraverso lui,
“redimersi”.
Violetta attacca
con una frase
fatta di dubbi,
poche note incorniciate
da
pause: «E’ strano! E’ strano!».
Sola, nella sua
casa improvvisamente fredda
e
silenziosa,
Violetta si interroga e si lascia
andare a una sottile speranza d’amore: «Ah fors’è
lui che l’anima». Un amore
misterioso, «croce e delizia
al cor». C’è, nella donna,
la paura di abbandonarsi
al sentimento. Di qui la
reazione: «Follie, follie»
con una autocommiserazione ma anche con la determinazione di cambiare
registro. «Povera donna»
canta Violetta su una scala discendente da fa a do.
E qui, aprendo una parentesi, vale la pena ricordare che in Falstaff allorché Quickly, nella prima
scena del secondo atto, si
reca da Falstaff come
messaggera d’amore in
nome di Alice (per un falso appuntamento, una
trappola nei confronti del
vecchio libertino), commiserandone il presunto
innamoramento, usa la
stessa frase sulle medesime note: un’autocitazione ironica che mostra tutto l’umorismo del vecchio Verdi.
Tornando a Traviata, al
patetismo segue l’allegro
brillante in cui Violetta
cerca di ritornare quella
di prima: «Sempre libera
degg’io folleggiare di gioia
in gioia». La scrittura si fa
impervia, virtuosistica,
gli abbellimenti servono
a rendere magistralmente il carattere svolazzante
della donna, così come
nel Barbiere di Siviglia le
acrobazie vocali di Rosina ne restituivano i capricci e la determinazione. E’ stato spesso sostenuto che la parte di Violetta richiederebbe due
grandi interpreti in quanto Verdi le ha affidato
una scrittura particolarmente complessa e variata: impervia e svolazzante per rendere la leggerezza della donna; intensa e lirica per svelarne i
sentimenti più sinceri e
profondi.
Certo è che Violetta è
uno dei personaggi più
totalizzanti del teatro
melodrammatico. Come
Don Giovanni, costituisce il motore di ogni
azione e di ogni sentimento. O è in scena o è
evocata dagli altri.
Amami, Alfredo
Tutti noi frequentatori di
teatro lirico, abbiamo le
nostre debolezze. A volte
inconfessabili, ma vere,
autentiche. Pagine che ci
fanno venire la pelle d’o-
ca. A quanti sfugge una
lacrimuccia
quando
Mimì giace nel suo letto
di morte, oppure quando
Cio-cio-san, altra figura
incommensurabile, la più
grande eroina pucciniana, si pugnala.
Chi scrive prova una
strana emozione quando
Violetta grida il suo amore così grande
e così impossibile: «Amami
Alfredo!». E’
una
pagina
brevissima,
ma preparata
in maniera talmente geniale
da Verdi da
diventare
il
fulcro di tutta
l’opera: il momento del sacrificio, della
dichiarazione
d’amore e dell’abbandono.
Tutto in due
parole, in pochi istanti consumati
fra
pause,
singhiozzi, imbarazzi, fino allo
slancio immenso che trascende l’amore di Violetta per Alfredo. E’, semplicemente, l’invocazione
dell’Amore in sé, universale, globale, disperato
eppure immortale.
Di fronte a questa grandezza, a questa superba
donna che sa mettersi da
parte per non turbare l’esistenza dei Germont, gli
altri personaggi sono piccoli piccoli. A cominciare
da Alfredo che non sa vedere al di là del proprio
naso, che non capisce
Violetta, che ha reazioni
estreme e infantili: il tenore pieno di sé e baldanzoso cui Verdi affida
qualche pagina di spessore, ma senza una particolare simpatia.
Come in molte opere ottocentesche («L’opera è
quello spettacolo in cui il tenore cerca di portare a letto
il soprano e il baritono glielo impedisce», ammoniva
George Bernard Shaw)
spetta al baritono, ovvero a Giorgio Germont,
vestire i panni dell’inter-
locutore e del censore di
Violetta. L’aria «Pura siccome un angelo» è di notevole bellezza: nella sua
falsa moralità, Germont
cerca di intenerire Violetta con il riferimento alla
innocenza della sorella
di Alfredo. Ed è magistrale l’idea di Verdi di
contrapporre al lirismo
disteso di questa pagina,
la risposta nervosa, ansimante di Violetta, su frasi interrotte e spezzate:
«Non sapete quale affetto,
vivo, immenso, m’arda in
petto». Quando Violetta,
piegata alle richieste, accetta di andarsene, Verdi
costruisce un andantino
cantabile che è il canto
d’addio alla vita, quella
sognata: «Dite alla giovine
sì bella e pura». Il trionfo
di Germont viene suggellato dalla successiva
aria «Di Provenza il mare,
il suol» rivolta al figlio
per consolarlo della partenza della donna e per
riportarlo nella propria
casa. Il secondo atto di
Traviata è costruito con
un senso del teatro davvero geniale, con una forte tensione emotiva.
La seconda parte dell’atto è il momento della resa dei conti. La superficialità di Alfredo emerge
in tutta la sua stupidaggine con il celebre
“schiaffo”: «A testimon vi
chiamo che qui pagata io
l’ho». E’ lo stesso Germont a difendere Violetta ed il concertato conclusivo rappresenta una
sorta di glorificazione
della povera donna.
Il terzo atto regala l’accorata lettura della lettera
(«Teneste la promessa, la disfida ebbe luogo») e lo
struggente «Addio del passato». Poi la morte che, come spesso accade nel Romanticismo, è una sorta
di catarsi, di liberazione.
Violetta diventa un’eroina, si spegne fra le braccia
del suo Alfredo e riscatta
con una coraggiosa morte
una vita che la società
borghese non le aveva
consentito di cambiare,
obbligandola a rimanere
cortigiana.
Roberto Iovino
8
La Traviata
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La storia di Alphonsine Plessis,
«I
Dall'infanzia infelice alla morte solitaria: la
n vendita elegante
mobilio intarsiato e
scolpito, tappezzerie, gioielli, argenterie, diamanti…».Così recita il
manifestino dell'asta cui
furono messi gli averi di
Alphonsine Plessis, alias
Marie du Plessis, colei
che venne trasfigurata da
Alexandre Dumas figlio
in Marguerite Gautier ed,
infine, fasciata nel costume di Violetta Valery da
Giuseppe Verdi.
Era il 27 febbraio1847. Si
era appena spenta in solitudine ad appena 23 anni,
la cortigiana più ammirata dell'opulenta Parigi di
Luigi Filippo. Fu uccisa
da una forma particolarmente grave di tubercolosi, un terribile flagello che
all'epoca mieteva circa
sette vittime ogni dieci
persone malate.
L'asta ebbe luogo nello
stesso appartamento dove Alphonsine morì, al
numero 15 del boulevard
de la Madeleine, palazzo
che oggi non esiste più a
Parigi, snaturato da successive costruzioni.
In quella «splendida fogna
purificata dalla morte» come ebbe a definirlo Dumas ne La dame aux came-
Ritratto di Alphonsine Plessis
lias, si aggirarono le signore della buona società, scegliendo qui un
trumeau, là una tappezzeria o un cofanetto d'argento, magari contrassegnato dal monogramma
di qualche antico amante
di Alphonsine.
Alla schiera di questi
amanti appartenne lo
stesso Dumas che, nel
1844, grazie all'amico Eugene Dejazet, conobbe la
femme fatale ad una festa.
Ritiratasi dal salone per
un accesso di tosse,
Alphonsine ricevette l'appassionata dichiarazione
di Alexandre; nacque una
relazione che durò circa
un anno, finché il giovane
scrittore, che per lei aveva
speso una fortuna, non fu
più disposto a tollerare
che lei mantenesse relazioni con i suoi ricchi
amanti Stackelberg e
Perrigaux. «Io non sono
né così ricco per amarvi come vorrei - le scrisse nella
lettera d'addio - né così
povero per essere amato come voi vorreste».
Dumas apprese della sua
morte pochi giorni dopo
e scrisse di getto il romanzo che poi, una volta trasposto in versione teatrale, diede il via alla sua
brillante carriera di drammaturgo.
Un'infanzia infelice
Al di là delle rarefatte
idealizzazioni romantiche, quello che sappiamo
sulle origini di Alphonsine ci conduce a una vicenda di desolante squal-
lore. L'umile nascita nel
Théâtre des Italiens o al
borgo di Nonnant, in
Jockey Club, non aveva
Normandia, la madre
rivali per bellezza, elefuggita di casa, il padre,
ganza, vivacità e spirito.
Marin, un alcolizzato che
Raggiunto quindi un
la picchiava, poi il lavoro
nuovo status sociale, dedi lavandaia, il concubicise, probabilmente su
naggio - favorito dal pasuggerimento del suo
dre- con un vecchio liberaristocratico amante, di
tino, che destò un tale
cambiare il nome di batscandalo da costringerla a
tesimo con il più casto
rifugiarsi nell'anonimato
«Marie» e di fare del codi Parigi, dove trovò l'imgnome Plessis un predipiego di commessa in un
cato aristocratico con
negozio d'abbigliamento.
l'aggiunta del «du». Forse non fu una scelta a caEra indubbiamente una
so, poiché la famiglia du
splendida ragazza: un riPlessis, era una delle
tratto di Vienot, conserpiù antiche e nobili di
vato nel castello di
Francia e fu la stessa
Champflour, ci tramanda
che diede i natali al
un ovale perfetto, capelli
Cardinale di Richelieu,
neri come il carbone, petal secolo, appunto, Artinati a tirebouchon, lineamenti di rara finezza sotmand Jean du Plessis de
Richelieu.
to due sopracciglia ad arNon sappiamo quanto
co quasi geometriche. Dal
questo nome d'arte fosse
suo passaporto sappiamo
preso sul serio dagli
che era alta circa un mearaldisti da salotto, tuttro e sessantacinque, ma
tavia, come presentaera considerata un po'
zione, sortiva certamentroppo alta e sottile per i
canoni dell'epoca.
Dissimulava questa
figurina slanciata con
ampi vestiti di colore
chiaro.
A causa del suo scarso rendimento sul lavoro fu licenziata, ma
ormai
Alphonsine
aveva imparato a
confidare nella propria bellezza.
Si vestì con ricercatezza e si mise ad aspettare la grande occasione della sua vita. Alexandre Dumas figlio
Fu così che conobbe il
te un buon effetto.
giovane e facoltoso conte
Come si evince dall'eAntoine de Guiche. Si tralenco dei libri di sua
sferì in una villa in rue
proprietà messi all'asta,
Mont-Thabor dove, quasi
in pochissimo tempo
come in My Fair Lady, il
suo Pigmalione le pose al
Alphonsine si era creata
servizio modiste, inseuna discreta cultura e
gnanti di galateo, ballo,
vasti interessi: leggeva
portamento e dizione, che
Lamartine,
Hugo,
le scrostarono quanto di
Goethe e de Musset (del
plebeo ancora le rimaneresto suo ammiratore) e
va indosso, per farne una
sapeva anche arrangiarsi al pianoforte. Prese
squisita mattatrice dei saalcune lezioni di piano
lotti più alla moda.
persino da Franz Liszt,
Un nuovo status
che nel 1846 divenne
per un breve periodo
Alphonsine raccolse gli
suo amante. Il grande
insegnamenti ricevuti al
virtuoso lasciò un compunto che, alla fine,
movente ricordo di
ovunque apparisse, all'OAlphonsine, come di
pera, al Café de Paris, al
una donna di grande
Il
La Traviata
Giornale dei Grandi Eventi
9
la vera Signora delle Camelie
a parabola di una meteora del gran mondo
della Madeleine, donandole cavalli e carrozze.
Costui le mandava ogni
giorno fasci di fiori, dai
quali lei prese l'abitudi-
Guarita dalla polmonite,
Alphonsine si recò a
Londra con il suo ultimo
amante, Perrégaux, che
la sposò il 21 febbraio
1846, contro il volere della famiglia, con il solo rito civile. Alphonsine fu
molto felice di avere assunto un titolo e una rispettabilità sociale. Poté
finalmente esibire legittimamente le armi dei
conti Perrégaux sugli
sportelli della sua carrozza, ma il matrimonio
durò poche settimane e
non fu comunque riconosciuto in Francia. Le
sue condizioni di salute
decaddero allora rapida-
getali, ma nulla si poté
per salvarle la vita. Il 3
febbraio 1847 Alphonsine Plessis esalò l'ultimo
respiro.
Riposa ancor oggi nel cimitero monumentale di
Montmartre in un classicheggiante sarcofago di
marmo fatto erigere per
lei dal Perregaux, che riporta questo semplice
epitaffio: «Ici repose
Alphonsine Plessis, nee
le 15 Janvier 1824, decedee le 3 Fevrier 1847 . De
Profundis.»
Dei suoi averi, circa due
terzi finirono all'asta per
saldare i debiti con i creditori, il restante fu ereditato dalla sorella di lei,
Delphine, che viveva in
Normandia. La diretta
discendente di costei si
chiama Eugénie Mariette
e vive ancora in Normandia, sposata ad un
agricoltore. Della sua più
famosa antenata possiede alcuni oggetti che furono trasmessi di gene-
ne di staccare una camelia per appuntarsela sul
seno. Questo fiore delicato e senza profumo era
uno dei pochi che i suoi
polmoni malati riuscivano a sopportare. Per venticinque giorni al mese
indossava una camelia
bianca, per gli altri cinque, rossa. Dopo il 1845,
conclusa la storia con
Dumas, la sua malattia
andò peggiorando, contrasse una polmonite e
fu presa in cura dal dot-
mente; tornò a Parigi
nell'appartamento donatole da Stackelberg dove
si rifugiò, sola, abbandonata dagli amici e assediata dai creditori, assistita solo dalla fedele cameriera Clotilde. Ricevette le cure del Dottor
Casimir J. Davaine (famoso per i suoi studi sul
carbonchio) che le prescrisse clisteri di chinino
e del dottor Clomel che
le impose una dieta a base di pane e minestre ve-
razione in generazione:
un paio d'orecchini, uno
spillone, una collana ed
un medaglione.
Il ricordo di quest'icona
romantica non si è mai
spento: la tomba di
Alphonsine Plessis è ancor oggi una delle più visitate del cimitero monumentale parigino e ogni
giorno visitatori e ammiratori vi lasciano fiori
freschi. Naturalmente,
camelie.
Andrea Cionci
tor David Ferdinand Koreff, un medico alla moda che si occupava di
magnetismo animale,
sull'onda degli studi di
Mesmer, e che era anche
un valente letterato.
L'aggravarsi
della malattia
La Tomba di Alphonsine Plessis
cuore e di grande intelligenza.
Ciò che colpisce è la velocità con cui questa giovane era riuscita a imparare tutto ciò, considerando che, appena giunta a Parigi, era pressoché analfabeta.
Fu a un certo punto il
padre del giovane de
Guiche a interporsi per
concludere la chiacchierata relazione il rampollo e la cortigiana. Si racconta della nascita di un
figlio, che la nobile famiglia avrebbe poi preso in
affidamento. Marie co-
Marie Duplessis a teatro, acquerello
minciò quindi a collezionare altri amanti e
ricchi protettori.
Nel romanzo, Dumas attribuisce i suoi desideri
febbrili alla malattia di
petto che aveva contratto
nell'ambiente povero in
cui era nata. Questa credenza parrebbe supportata dall'effettiva possibilità che l'ipossia, dovuta
a una carenza d'ossigeno
per insufficienza respiratoria, possa produrre deliri o suggestioni a carattere erotico.
Sicuramente Alphonsine
aveva una gran voglia di
vivere, di bruciare
nel fasto, nello
sperpero, nella
concupiscenza di
essere amata e
vezzeggiata, quei
pochi anni che
forse presentiva le
sarebbero rimasti
da vivere.
A Chantilly fece
perdere la testa al
visconte Edouard
Perrégaux, che divenne
praticamente suo schiavo; alle terme di
Bagnères incontrò
l'anziano ambasciatore di Russia,
conte di Stackelberg, che poi la insediò nel lussuoso
appartamento
La Traviata
10
P
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Lo scrittore autore del romanzo Dame aux Camèlias
Alexandre Dumas: figlio d’arte … e del bel vivere
scrive i suoi primi versi,
adre della Dame
decide di abbandonare il
aux Camèlias e figlio
collegio e si immerge
de Les trois Mounella vita oziosa e galansquetaires, Alexandre Dute che solo la Parigi demimas nasce a Parigi il 27
siècle riesce ad offrire ai
luglio 1824 dall’omonigiovani scrittori in erba.
mo Dumas maestro del
Sulla rotta delle frequenromanzo storico e da una
tazioni mondane è il pasua vicina di pianerottodre a mostrargli la stralo, Catherine Laure Labay, ricamatrice.
Quella del piccolo Alexandre è
un infanzia difficile: viene dichiarato figlio naturale di genitori sconosciuti e viene
spedito in istituto, per poi essere
riconosciuto all’età di sette anni,
dal padre che affronta una lunga
battaglia legale
per l’affidamento, strappandolo
alla giovanissima
sarta. L’evento
resta impresso
per sempre nella Alexandre Dumas
mente di Dumas,
da, e Alexandre si tuffa
che nelle sue opere maninei caffè alla moda, nei
festa un profondo disateatri più in voga, nei sagio descrivendo scenari
lotti di Balzac, Liszt, Lusfamiliari in preda alla diset. Ma con il genitore il
sgregazione, al malesserapporto non è sempre
re, all’incomunicabilità.
sereno: il ragazzo non gli
All’età di diciassette anni
I
perdona l’abbandono e
non gli risparmia prediche moraliste e paternalistiche. I due abitano insieme, e quando il “giovane” è in giro, di fronte
ad amici e conoscenti descrive il “vecchio” come
«un bambinone» che «ho
avuto quando sono nato».
Solo poco dopo, verso la
metà del secolo, lascerà
definitivamente la casa
di rue Joubert.
Nel
1844
incontra
Alphonsine Plessis (alias
Marie Duplessis), la cocotte d’alto bordo appassionata di camelie che
quattro anni dopo ispirerà il suo romanzo più
conosciuto: la Dame aux
Camélias. Un amore breve, intenso e soprattutto
oneroso, tanto da spingere Dumas a scrivere alla
ragazza una lettera in cui
si dice costretto a lasciarla: «Cara Marie, non sono
abbastanza ricco per amarvi
come vorrei, né abbastanza
povero per essere amato come voi vorreste». Pochi anni dopo, trasporta la sua
piccola grande storia
personale in un romanzo
e questo in un testo teatrale (1852), poi ripreso
dal librettista Francesco
La strana storia della “Loterie des lingots d’or”
Quando Dumas reclamizzava l’Eldorado
l 1851 è l’anno in cui si apre una curiosa parentesi nella vita di Alexandre Dumas figlio. Il giovane romanziere si mette, infatti, alla testa della
controversa Societé des Lingots d’Or,
un’organizzazione voluta da Napoleone III per promuovere una grande lotteria destinata a raccogliere fondi per
consentire agli operai disoccupati ed ai
parigini meno abbienti di emigrare verso le miniere della California. L’obiettivo malcelato di questa Loterie era in
realtà l’esilio forzato - nascosto dalla
prospettiva di un’avventura verso la
corsa all’oro - di tutti quei personaggi
che il regime del nuovo Imperatore
considerava “indesiderabili”: i rivoltosi
del ’48, i veterani della garde républicaine, i Montagnardi (i repubblicani eredi
di Marat), gli aristocratici decaduti, i
banchieri finiti in rovina. La ricerca dell’Eldorado americano, per molti dei
3000 migranti, finiva sul ponte delle navi prima di passare Capo Horn: durante le soste in Sud America accadeva
spesso che equipaggio e passeggeri
contraessero la febbre gialla. Coloro
che riuscivano a sbarcare vivi a San
Francisco si trovavano a dover fronteggiare condizioni di vita che avevano
ben poco a che fare con il sogno americano ed erano costretti ad elemosinare,
a svolgere lavori infimi, a prostituirsi
(come accadde alla scrittrice Fanny Loviot, che nel 1853 nel suo Les pirates chinois racconta dell’odissea del viaggio in
nave, durato cinque mesi, e della vita
di strada nella città della West Coast).
Non è chiaro il motivo per cui l’autore
della Dame aux Camèlias si fosse offerto
(o fosse stato voluto) per propagandare
la lotteria. Quello che resta di questa
particolare vicenda è tutto nelle 16 pagine della brochure esplicativa redatta
da Dumas per invogliare i parigini a
partecipare al gioco ed ad affidarsi al rischio: «l’intervento negli affari umani di
questo invisibile, misterioso potere che
gli increduli chiamano fatalità, i credenti Provvidenza, gli indifferenti caso». E gli astuti … imbroglio.
J. M.
Tomba di Alexandre Dumas nel cimitero di Monmartre a Parigi
Maria Piave come soggetto per la Traviata di
Verdi.
I romanzi Le Docteur Servan (1849), Antonine
(1849), Tristan le Roux
(1850), Trois Hommes forts
(1850), Le Régent Mustel
(1852), Contes et Nouvelles
(1853), La Dame aux perles
(1854) seguono a ruota la
Signora delle Camelie e testimoniano la grande carica vitale di uno scrittore che vive la crisi del romanzo storico e l’affermarsi del naturalismo
francese.
Negli anni successivi,
Alexandre affronta con il
suo stile brillante temi
assai controversi per l’epoca come la posizione
sociale della donna, il divorzio, l’adulterio, la ricerca della paternità.
Delle 19 pièces teatrali
che in questo periodo nascono dalla sua penna facile, e che spesso lo rendono scandaloso agli occhi della buona società,
ricordiamo Diane de Lys
(1853), Le Demi-Monde,
(1855), La Question d’Argent (1857) Le Fils Naturel
(1858), Un Père Prodigue
(1859), L’Ami des Femmes
(1864), Francillon (1887).
Grande ammiratore della scrittrice “protofemminista” George Sand,
Dumas si spinge spesso a
sud di Parigi per farle visita nella sua casa di
Nohant. La chiama affettuosamente “chère maman”, e nel 1864 si mette
spontaneamente all’opera per trasformare il suo
romanzo Le Marquis de
Villemer in un testo teatrale.
Nel 1874 è eletto all’Accademia Nazionale di
Francia ed insignito della
Légion d'honneur. Victor
Hugo, che da vent’anni
disertava le sale dell’Accademia, vi ritorna appositamente per votare a
suo favore.
Coccolato da un più che
discreto successo, può
godersi la tranquillità
nelle tante proprietà
sparse nei dintorni di Parigi, ed è nella sua villa
delle Yvelines, a Marlyle-Roi, che si spegne serenamente il 2 novembre
del 1895. Le sue spoglie
riposano nel cimitero di
Montmartre, insieme a
quelle di tanti talenti della letteratura.
Jacopo Matano
Il
La Traviata
Giornale dei Grandi Eventi
11
Rigoletto, Il Trovatore, La Traviata
S
La “Trilogia popolare” nell’esperienza verdiana
in dalle prime biografie critiche su
Giuseppe Verdi, un
problema dibattuto è stata l’individuazione delle
diverse fasi stilistiche.
L’articolazione in “tappe
successive” costituisce, in
realtà, solo un espediente
per facilitare e schematizzare l’analisi di una produzione musicale.
In generale, a proposito
del teatro verdiano, si
parla di quattro fasi, i cui
confini non sono in taluni casi univoci.
E il secondo di questi momenti è rappresentato dalla cosiddetta “Trilogia popolare”. Ponte di passaggio fra il prima e il dopo, a
dimostrazione di una continuità di pensiero e di
una estrema coerenza costruttiva e creativa.
Verdi, è noto, non ha lasciato scritti teorici di
estetica. Il suo pensiero
sul teatro emerge, nitido
e chiaro dalle opere stesse e dalle lettere ai suoi
librettisti, dove si parla
di “parola scenica”, di situazioni, del coraggio
che un artista dovrebbe
avere di non fare né poe-
«..l
sia né musica quando il
dramma lo richiede.
Autentico uomo di teatro, Verdi amò sperimentare.
La centralità del
personaggio
La trilogia è il frutto di
una sperimentazione e,
insieme, la preparazione
in vista della “terza”,
straordinaria fase, quella
delle opere più complesse, che va dai Vespri Siciliani (1855) fino ad Aida
(1872), dove potremmo
dire si assiste ad una fusione dei caratteri delle
fasi precedenti: la coralità tipica della prima fase e l’approfondimento
del carattere dei personaggi.
Verdi approda al Rigoletto dopo una lunga militanza nel teatro risorgimentale, scolpito in maniera granitica, con masse corali poderose, con
personaggi-simboli di
una umanità dominatrice o succube. Frasi gettate al pubblico dell’epoca
come messaggi inequivocabili. In Ezio, console
romano, che esorta Attila
a tenere per sé l’Universo
ma a lasciare l’Italia, si
identificavano tutti i patrioti del tempo.
Poco importava in questo clima approfondire i
sentimenti del console,
studiarne la psicologia, i
moti dell’animo. Era un
italiano che combatteva
per la causa. E questo bastava.
Dopo la sconfitta di Carlo Alberto nella Prima
Guerra d’Indipendenza e
il crollo delle illusioni,
Verdi si indirizzò verso
altri temi, in realtà già
toccati in precedenza (di
qui la difficoltà citata, di
classificare e ordinare): i
drammi individuali analizzati attraverso figure
di forte spessore.
C’era già stata l’esperienza shakesperiana del
Macbeth con un personaggio affascinante nella
sua crudeltà quale Lady
Macbeth. E c’era stata
anche Luisa Miller.
In Macbeth , del resto, la
“novità” non era solo
ravvisabile
nell’argomento, ma nel rapporto
fra parola e musica e nel-
Piccolo dizionario delle forme chiuse
Ahi! le cabalette
e Cabalette! Apriti o terra! Io
però non ho tanto orrore delle
cabalette e se domani nascesse
un giovine che me ne sapesse fare qualcheduna del valore per esempio del “Meco tu
vieni o misera” oppure “Ah perché non
posso odiarti” andrei a sentirle con tanto di
cuore…».
Scriveva così Verdi e Ricordi nel novembre
1880 parlando del rifacimento del Simon
Boccanegra. Le cabalette! Apriti o cielo! Era
l’epoca in cui, sotto l’influenza del rigoroso teatro wagneriano, si guardava con severità alle vecchie “formule” del teatro italiano. La cabaletta, in voga essenzialmente
nel primo Ottocento, era una breve aria vivace e di carattere in genere virtuosistico
che concludeva una scena. Era una delle
cosiddette “forme chiuse”, quei pezzi cioè
con un inizio e una coerente conclusione
musicale che hanno caratterizzato tutto il
teatro italiano dal Settecento più meno fino
al Falstaff (e anche successivamente) e che
Wagner ha decisamente avversato.
L’opera seria italiana (quella comica sin
dall’inizio ha evidenziato una maggiore
varietà strutturale) si è per buona parte
della sua esistenza basata sulla contrapposizione dialettica fra due entità: il recitativo
e l’aria. Il primo più tendente, appunto, alla recitazione aveva la funzione di sviluppare l’azione, far progredire la vicenda; la
seconda più lirica, più vocalmente impegnativa, costituiva il momento statico della
scena, esprimeva i sentimenti dell’interprete, le sue reazioni di fronte agli avvenimenti.
Nel corso del tempo le due forme si sono
trasformate (il recitativo ha lasciato il posto
ad una struttura più articolata e complessa, l’aria si è sviluppata in molteplici direzioni), ma hanno continuato a caratterizzare il nostro teatro, spesso mescolandosi e
collegandosi più strettamente fra loro o
con altre forme: ad esempio il coro (sempre
più importante nell’Ottocento, come elemento introduttivo della vicenda), oppure
i pezzi d'insieme per giungere ai grandi
concertati che l’opera seria ha ereditato dal
teatro comico. Si pensi ai capolavori di
Rossini, agli scoppiettanti finali dei primi
atti del Barbiere di Siviglia o dell’Italiana in
Algeri.
R. I.
l’esplorazione del “fantastico” (si pensi al mondo
delle streghe, ma anche
agli spettri) mai affrontato in precedenza dal musicista di Busseto.
La trilogia attinse a queste esperienze e le approfondì.
In Rigoletto, Trovatore e
Traviata il musicista pone al centro un personaggio visto sotto due aspetti diversi: in Rigoletto, ad
esempio, convive il
buffone di corte e il padre preoccupato della incolumità della figlia; nella Violetta di Traviata c'è
la cortigiana leggera e
frivola ma c'è anche la
donna innamorata capace di sacrificare la propria esistenza per l'amato, in Azucena del Trovatore convive la madre affettuosa (anche se di un
figlio “adottato”) e la
donna in cerca di vendetta. Personaggi complessi,
dunque, che Verdi rende
con genialità in una
struttura teatrale nella
quale se teoricamente le
forme chiuse sopravvivono, in pratica sono talmente collegate sul piano drammatico e musicale da scorrere con
continuità.
Le Forme chiuse
E’ proprio l’aspetto formale (unito naturalmente alla bellezza di certe
pagine che non a caso
hanno reso “popolari” le
tre opere) a risultare particolarmente importante.
Tutto il teatro italiano,
come è noto, si è sempre
strutturato secondo una
successione di forme
chiuse, essenzialmente
arie e recitativi, con le
opportune trasformazioni nel corso del tempo.
Verdi non sfugge alla
tradizione fino al Falstaff
che segna invece il superamento del rapporto
dialettico aria/recitativo
a favore di una sorta di
arioso continuo.
La trilogia dunque non
rinuncia alle forme chiuse, ma le combina e soprattutto le integra in
maniera drammaturgica-
mente geniale, tanto da
“nasconderle”.
Si prenda in Rigoletto, la
celebre scena in cui il
buffone arriva a corte per
scoprire dove hanno nascosto la figlia. C’è una
lunga parte introduttiva
(il vecchio recitativo) in
cui Rigoletto passeggia,
scherza con i vari cortigiani, fa alcune domande
per capire le complicità e
le responsabilità. Poi
quando viene a sapere
che la ragazza è davvero
lì con il Duca, urla ai costernati cortigiani «Io vo’
mia figlia!» e si lancia in
una imprecazione violenta, «Cortigiani, vil
razza dannata». A quel
punto inizia l’aria. Ebbene fra i due momenti c’è
una separazione musicale, ma non drammaturgica. L’azione si sviluppa
ininterrotta e la cesura
musicale diventa quasi
impercettibile.
Un altro esempio straordinario si trova nel Trovatore. Si tratta della scena del Miserere che offre
un'idea estremamente
precisa del concetto
drammaturgico verdiano. La scena propone tre
canti di natura diversa
che prima si susseguono
e poi si accavallano. C'è
Leonora che canta in primo piano il suo dolore
per la condanna a morte
di Manrico: un canto in
tonalità minore, affranto,
spezzato, rotto ritmicamente; da un lato arriva,
lontano, il canto dei detenuti, un «Miserere» accompagnato solo dal rintocco delle campane; e
poi prorompe, in tonalità maggiore, il canto di
Manrico, anch'egli assente dalla scena, rassegnato ormai alla morte. I
tre momenti, se presi
staccati, non appaiono di
particolare interesse; ma
la loro unione dà origine
ad una scena di indubbio effetto.
E’ il taglio, la concezione
di scene come Miserere
che dà la misura della genialità di un musicista e
della sua «vocazione»
teatrale.
Roberto Iovino
La Traviata
12
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La Traviata nei giornali dell’epoca
Critiche per un capolavoro
Debutto - 6 marzo 1853,
Teatro La Fenice
T
Gazzetta di Venezia,
7 marzo 1853
ra pel grande rumore, che ne han
menato i giornali a
Parigi, e per quella furia
di repliche, che ne hanno
dato all'Apollo, crediamo che i lettori sappiano
non pur a memoria il
soggetto, ma abbiano
sulle dita fino alle parole
di questo dramma: poich'esso non è altro, che la
Dame aux camèlias del
Dumas figlio, un po' raffazzonato, il dramma, alla foggia delle opere, e
trasferito a' tempi del
grande Luigi, per cavarne un po' più di grandezza e di lustro nelle decorazioni. Noi siam dunque sollevati dal disturbo di farne una più minuta esposizione; il che è
bene per più d'un motivo, tra gli altri per questo “che la poca fatica a
tutti è sana”
II Piave ebbe il talento di
trarre, come a dire, il sugo, il midollo, di stillare
l'estratto, se non lo spirito, di quel grande composto, pur mantenendo
tutte le più belle situazioni della favola, accrescendole anzi con la opportuna Introduzione
del padre a tal sito, dove
nell'originale l'opera sua
non appariva, ma, con
effetto minore, era soltanto narrata; allargando infine felicemente alcun episodio, com'è di
quelle mascherate graziose, ch’ei tirò dentro al
festino, e che cantano altresì i migliori versi del
libro.
Avvegnacchè,
quanto a questi, secondo
altre volte notammo, ei
sa farli; iI che non importa altrimenti che l'estro debba sempre ri-
bandonare la gaia vita
per quell'amore. In tutti
questi luoghi ha pari bellezza, la bellezza antica,
quella che si usava e piaceva ai tempi della
buon'anima del Rossinl,
e risulta, non da sottigliezze di dotto ragionamento, ma dalla originalità del pensiero, dalla
soavità e vivezza del canto, che ti tocca le fibre, e
ti fa muovere d’in sullo
scanno. Ha, fra le altre, il
motivo
del brindisi,
ed
una frase
del duetto, che si
ripete poi
a pertichino del tenore
di
dentro,
nell'ultimo tempo
della caManifesto prima esecuzione della Traviata
vatina, di
spondergli a un modo.
tal gusto e sapore, di tale
Il prim'atto comincia con
peregrinità d'accento, da
una veglia sontuosa in
non poterli appien deficasa la Violetta, così il
nire; poiché la parola,
Piave chiama la Margheche raggiunge pure i più
rita; una cena ed un brinalti ed astrusi concepidisi. Seguita appresso un
menti dell'anima umana,
duetto tra soprano e tee li raffigura, non ha vanore, la Salvini-Donatelli
lore a rappresentare e
e il Graziani in cui succerender sensibili le forme,
de la dichiarazione d'anè meno più semplici,
more, che fa Alfredo a
della musica. La Salvinicolei; poi la cavatina delDonatelli cantò que’ pasla donna, la quale non sa
ancora risolversi d'ab-
«N
precipizio. Nessuno degli altri cantanti trovavasi in piena sanità e sicurezza di gola, quantunque ognuno renda giustizia alla rispettiva loro
bravura.
Laonde, pur concedendo
che la musica fu magnificamente dall'orchestra
sonata, tanto che in un
delizioso preludio dell'atto terzo ella meritò
che si levasse un grido
universale di bravi, con
tal fusione ed accordo di
suono l'eseguirono i violini, che mossi pareano
da un solo archetto,
aspetteremo a giudicare
il rimanente dell’opera,
a non mettere il piede in
fallo, ch'ella sia meglio
cantata; e per intanto,
qui rompiamo l'articolo,
salutando il benigno lettore…..
Tommaso Locatelli
Curiosità
L’ironia di Verdi, che cita se stesso
Una simpatica poesia
“editoriale”
Il Caffaro, Genova,
13 marzo 1890
el mezzo del
teatro Genovese/ Mi ritrovai con la Traviata
oscura,/ Allestita in un
modo assai cortese.
Ma la Traviata avea tanta
paura/ Che finì per cantare in assabese, /E questo
fu per tutti una sventura.
Poiché c'era il baritono
Sammarco/ E'1 tenore
Giuseppe Russitano/ Che
sostennero bene il loro incarco.
E con entrambi, il pubblico sovrano,/ D'applausi e
di chiamate non fu par-
si d’agilità, che molti per lei scrisse il
maestro, con una
perizia e perfezion
da non dirsi: ella
rapì il teatro, che,
alla lettera, la subissò d'applausi. Quest'atto ottenne il
maggior trionfo al
maestro; si cominciò a chiamarlo, prima ancora che si alzasse la tela, per
una soavissima armonia di violini, che preludia allo spartito; poi al
brindisi, poi al duetto,
poi non so quante altre
volte, e solo e con la donna, alla fine dell'atto.
Nel secondo mutò fronte
ahimè la fortuna. Imperciocché nella guisa medesima che dell'arte oratoria fu detto ch'ella tre
cose richiede; azione,
azione, azione, tre cose
egualmente in quella della musica si domandano:
voce, voce, voce. E nel
vero un maestro ha un
bello inventare, se non
ha chi sappia e possa eseguire ciò che egli crea. Al
Verdi toccò la sventura
di non trovar ieri sera le
sopraddette tre cose, se
non da un lato solo: onde
tutti i pezzi, che non furono cantati dalla Salvini-Donatelli, andarono,
per dirla fuor di figura, a
co,/ Ma l'opera era monca
e il caso strano./ A un certo punto un cavaliere antiquo/ Sulla ribalta venne
ad avvertire/ Che la Traviata aveva un male iniquo,/Da impedirle perfin
di proseguire/ Sicché l'opera andò nel modo obliquo/ Ch'io non vi dico, ne
vi posso dire./Il teatro era
pieno come un uovo/ E
c’era folla di signore belle,/ Fatto piacente, ma
non certo nuovo.
Chiasso alla fine e suon di
man con elle; Sicchè ancora intontito me ne trovo…/ E quindi uscimmo
a riveder le stelle».
«E’ assai selvaggio, molto silenzioso, riservato quanto mai, troppo diffidente. Il suo
esteriore è austero, quasi sgarbato… saluta
appena, non visita alcuno, lascia intrigare
per lui, non dice motto
e rumina. Uno strano
Italiano». Così Jules
Lecomte descrisse,
nel 1855, Verdi. Uno
strano Italiano, burbero, austero, un
“orso” solitario.
Capace, tuttavia, anche di una sottile e Frédéric Chopin
divertente ironia e provvisto, soprattutto, di una simpatica autoironia che affiora, qua e là, nella sua produzione
musicale.
Un esempio significativo, tratto dall’estremo capolavoro del nostro compositore, quel Falstaff che nel 1893 chiuse,
nel segno del sorriso, una carriera essenzialmente indirizzata verso il tragi-
co. Dunque, siamo nel secondo atto, al
povero Falstaff, “Don Giovanni” mancato e un po’ troppo attempato, viene
tesa una trappola, un
finto appuntamento
con la giovane e bella
Alice. A condurre il
gioco è la matura
Quickly che dipinge
lo stato di ansia della
fanciulla “innamorata” usando la frase
«Povera donna»: parole intonate esattamente sulle stesse
note sulle quali si autocommisera Violetta nel primo atto di Traviata nella sua
grande e straordinaria scena: una scaletta discendente che da fa conduce a do.
Verdi insomma si autocita prendendosi
in giro e ispirandosi addirittura ad una
delle sue eroine più grandi e affascinanti. Uno strano Italiano davvero.
R. I.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
La Traviata
13
La “Rosa del Giappone”: fortuna e coltura della Camelia
Romantico fiore d’amore senza profumo,
ma anche carnosa pianta del thé
O
rigini leggendarie
ed alterne fortune
fanno della Camelia un fiore “storico”
e, per i popoli dell’Estremo Oriente da cui proviene, un fiore “sacro”.
La prima ad attecchire in
Europa (Inghilterra), nella prima metà del 1700,
fu la Tsubachi, (in giapponese = pianta dalle lucenti foglie) che fu battezzata con il nome di
Camellia japonica da Linneo, in omaggio al gesuita originario della Moravia Georg Joseph Kamel
(1661-1706), per i suoi
importanti studi di botanica e per aver introdotto
la pianta in Europa importandola dal Giappone nel 1730. In Italia, invece, nel 1794, attecchì la
C. celebratissima (Giardini
della Reggia di Caserta)
ed altre, importate o ottenute da incroci, si andarono ben presto affer-
mando. Comunque, la
Camelia divenne popolare per merito della letteratura e del teatro: intorno al 1848, infatti,
Alessandro Dumas figlio
scrisse il romanzo La dame aux camélias, di cui
operò un adattamento
per il teatro poco dopo,
rappresentandolo
nel
febbraio 1852. Un anno
dopo Giuseppe Verdi,
entusiasta, ne musicò il
libretto adattato da Francesco Maria Piave con il
titolo La Traviata. Solo
dopo le due Guerre mondiali questa pianta si affermò definitivamente
negli USA, dove nacquero numerose Associazioni di “cameliofili”,
attive ancora oggi nell’organizzazione di Mostre e Premi.
Il genere Camellia, (fam.
Ternstroemiaceae o Teaceae), consta di circa 80
specie, riconducibili, secondo alcuni, ad un massimo di 15 od anche meno.
Quattro sono, comunque, le specie più affermate: 1) la C. japonica. L.,
da cui è derivata la maggior parte delle varietà,
con fiori di
grande effetto,
a petali di colore variante
dal bianco al
rosa al rosso,
(anche sfumato o screziato),
riuniti in forma
talvolta
scapigliata,
talvolta perfetta e foglie coriacee, lucide,
ovali, appuntite. 2) la C. sinensis, o Kuntze, con fiori bianchi e foglie piccole, ottuse, seghettate: coltivata a cespuglio, è la pianta da
cui si ricava il the. In Italia viene coltivata soprattutto sul Lago Maggiore
a scopo decorativo. 3) la
C. sasanqua (o sasangua),
Thunb., (dal giapponese
“sazank-wa”= fiore del
the di montagna), a fiori
bianchi, rossi o multicolori e foglie ottuse, intagliate. 4) C. oleifera, Abel.,
coltivata in Cina per i semi oleosi, a fiori bianchi,
piccoli e foglie acuminate e dentellate. Le due ultime specie sono le uni-
che ad essere profumate.
Oggi sul mercato è comparsa la camelia gialla, la
C. chrisantha, per anni
inutilmente vagheggiata;
molto richieste sono pure le nuovissime camelie
“miniatura”, a foglie e
fiori molto piccoli.
Fiori senza profumo
I fiori di Camelia presentano forme molto diverse, che sono state raggruppate secondo queste
denominazioni: semplice
(Foto 1), semidoppia (Foto 2), doppia regolare
(Foto 3) e irregolare,
doppia a rosa (Foto 4),
peoniforme (Foto 5) e
anemoniforme (Foto 6).
Le camelie si moltiplicano per: seme, talea, propaggine, margotta e innesto e si piantano in autunno (sasanqua: settembre- ottobre) o in primavera (japonica: marzoaprile), in qualunque tipo di terreno, purché
non calcareo, meglio se
leggermente acido (pH
5,5-6,5).
Non necessitano in genere di fertilizzanti: tutt’al
più, in piccole quantità,
di concimi a lenta cessione; in compenso, essendo piante d’altura, beneficiano di pacciamature
estive a base di foglie,
torba o paglia, per tenere
il terreno umido e pulito
da infestanti.
Apparentemente facili
da coltivare, in realtà lo
sono solo se l’ambiente si
avvicina a quello originario: clima temperatoumido, terreno ben drenato, semiombreggiato e
riparato dai venti. La
pianta, infatti, non sopporta gli eccessi di sole,
di acqua e di vento.
Perché la camelia presenti, inoltre, una bella
forma complessiva e «l’aria e la luce la attraversino», (come si raccomandano gli appassionati),
sono importanti le potature leggere prima dell’inizio della nuova vegetazione, mentre piccole potature dei rametti morti
risultano utili lungo tutto il corso dell’anno. Per
la forma ottenuta possono essere variamente
usate in giardino le arbustive per siepi, macchie
sottobosco e spalliere
(purché il graticciato di
sostegno risulti scostato
dal muro di 10-15 cm) e
le arboree per boschetti e
ombrelle tappezzanti; le
precoci, invece, di forma
più ridotta, sono perfette
in vasi, anche pensili.
Piante sempreverdi
Fioriscono in inverno
Le camelie sono piante
sempreverdi, alte fino a
10 m, molto longeve e
gratificanti, «perché sorridono d’inverno quando tutte le altre intristiscono»: sasanqua e sinensis fioriscono infatti da ottobre a
marzo avanzato, perché
più resistenti alle basse
temperature; japonica da
febbraio a maggio inoltrato, perché più sensibile al freddo e alle gelate:
per una fioritura ottimale sarà utile, però, anche
un diradamento dei boccioli, specie quando si infittiscono alle estremità
dei rami.
Comunque, una sapiente
scelta scalare dei colori e
dei tempi di fioritura
darà al giardino, d’inverno, un aspetto scenografico spettacolare. «Prendete questo fiore..» «Perché?» «Per riportarlo»
«Quando?» «Quando sarà
appassito» «O ciel! Domani?» «Ebben, domani»
Francesco Saccardo
Docente di Orticoltura e Floricoltura
Università della Tuscia - Viterbo.
fig. 1 - fiore semplice
fig. 2 - fiore semidoppio
fig. 3 - fiore doppio
fig. 4 - doppia rosa
fig. 5 - peoniforme
fig. 6 - anemoniforme
La Traviata
14
Il
Giornale dei Grandi Eventi
L’affezione fatale a Violetta, reintrodotta dai flussi migratori
N
Tubercolosi, malattia romantica
ora in pericolosa recrudescenza
on poche malattie
hanno improntato diverse epoche
della storia dell’umanità.
Così, se nel Medioevo
aleggiava lo spettro angoscioso della peste, la tubercolosi percorre e suggestiona l’epoca del Romanticismo. Nell’800, anche a seguito dell’identificazione nel 1882 da parte
di Koch del bacillo responsabile della malattia,
l’interesse per la stessa
crebbe consensualmente
alla sua diffusione. Essa,
che Leopardi in “A Silvia”
chiama «…chiuso morbo…», visse nello stretto
ambito di persone o
gruppi, magari nuclei familiari, ma mai diede luogo a manifestazioni generalizzate (cosa che, invece, non può dirsi, ad
esempio, né della peste,
del colera o tifo). Il fatto,
quindi, che la tubercolosi
fosse nello stesso tempo
malattia sociale, senza
avere i crismi dell’epidemia, la rese quasi “diversa” agli occhi dei contemporanei che si sono susseguiti nel considerarla come “fenomeno”. Non a
caso, come si comprese in
seguito, essa allignava nei
soggetti che, per la vita
grama e stentata che conducevano, disponevano
di difese immunitarie
spesso non idonee. Pur se
il quadro clinico aveva
possibilità di svilupparsi
nell’arco di anni, era altresì innegabile che colui
che ne fosse affetto veniva ben presto a sapere del
contagio a seguito della
semplice osservazione
della presenza di sangue
nell’espettorato (emottisi). Ciò senza che vi fosse
possibilità alcuna di qualche pietosa bugia, verso
una malattia dall’esito
mortale procrastinabile,
ma sicuro (i casi di positiva risoluzione erano rarissimi). Da qui poteva risultare non eccessivamente arduo l’accostamento di chi solitario affrontava questa battaglia,
al prototipo dell’ “Eroe
rato solo nel 1946 dall’inromantico”. Una malattia
troduzione della streptoche dopo le massicce
micina e poi dell’isoniazicampagne sociali di prede nel 1952. La malattia è
venzione e cura durante il
dovuta ad almeno tre
Ventennio era stata di fatspecie di Mycobacterium:
to sconfitta, ma che ora
il M..tuberculosis (il veccomplice anche l’HIV e la
chio bacillo di Koch), il M.
sua caduta di difese imbovis ed il M. africanum. Il
munitarie ed i massicci
M. tubercolosis è un bacilflussi migratori, si sta rilo, aerobio obbligato, a
diffondendo nei Paesi occidentali dove
la scomparsa
del problema
ha determinato negli ultimi
anni un rilassamento delle
misure sanitarie di controllo. Un rilassamento anche
dell’opinione
pubblica se si
pensa che – secondo l’Osservatorio di Pavia - le principali edizioni
dei TG italiani
hanno dedicato alla malattia
solo tre notizie
in tutto il 2006.
In Italia, invece, la comune
tubercolosi
colpisce 7 italiani e 100-150
Polmone colpito da tubercolosi
stranieri ogni
100 mila abilenta crescita, con un temtanti e sono già 8 i casi nel
po di generazione dalle
nostro Pese di Super12 alle 18 ore.
TBC, ceppi multiresistenLa TB uccide ancora milioti genotipizzati.
ni di persone e l’OrganizLa malattia
zazione Mondiale della
Sanità afferma, secondo
Il termine “tubercolosue stime, che circa 9 milioni di nuovi casi insorgosi”(TB) descrive una mano ogni anno, con 2 miliolattia infettiva che sembra
ni di decessi, in gran parte
aver tormentato l’uomo
(90 %) nei paesi in via di
fin dall’era neolitica. Solsviluppo, anche se attualtanto nel 1865, però, Villemente se ne osserva una
min ne riconobbe la trarecrudescenza anche nelle
smissibilità, mentre nel
comunità più progredite a
1882 Koch ne individuacausa della diffusione delva l’agente causale in un
le malattie da immunodebacillo. Nello stesso anno
ficienza (HIV) e dell’immiil nostro Forlanini ne
grazione di popolazioni
propose con lo pneumoprive di difese immunolotorace terapeutico – che
giche specifiche. Si reputa,
di fatto metteva “a ripoinoltre, che il 20–40% della
so” il polmone colpito - il
popolazione mondiale sia
primo rimedio efficace
affetta da M. tuberculosis e
per le forme polmonari,
che tale organismo sia rerimedio che venne supe-
sponsabile di oltre il 7%
dei decessi annui.
La diffusione
Oggigiorno quasi tutti i casi di TB sono acquisiti per
contatto inter–umano (da
persona a persona) attraverso i “nuclei di goccioline”
diffusi per via aerea. Micro
goccioline di saliva
e/o di muco, contenenti bacilli acidoresistenti che il malato
polmonare
diffonde nell’ambiente con la tosse,
lo starnuto o la semplice parola. Quando tali goccioline di
saliva si asciugano/essiccano o sono di dimensioni
appropriate, possono essere sospese
dalle correnti d’aria. Quando di diametro compreso tra
1 e 5 micron, tali
particelle possono
contenere 2 o 3 bacilli
tubercolari.
Particelle più voluminose impattano
sulla mucosa delle
vie aeree e vengono
rimosse dal sistema
muco-ciliare prima
di poter causare infezione. Particelle
più piccole sono, invece, in
grado di raggiungere gli
alveoli ed avviare l’infezione. Tale processo prevede
l’ingestione del bacillo tubercolare da parte dei macrofagi. L’equilibrio virulenza dei bacilli–attività
battericida del macrofago
determina la sopravvivenza o meno dell’agente patogeno e, quindi, l’eventuale infezione. Il bacillo
cresce lentamente all’interno del macrofago, pertanto
nessuna reazione immediata dell’ospite è riconoscibile; è necessario, infatti,
che cariche batteriche ingenti (circa 103–104 organismi) si sviluppino prima di
indurre una risposta cellulare. L’ingente moltiplicazione batterica determina
lisi macrofagica, con conseguente immissione di ba-
cilli liberi nei vasi linfatici e
da qui nel torrente circolatorio (diffusione ematogena).
La via ematica consente al
bacillo di raggiungere aree
ad elevata pressione parziale di ossigeno, quali gli
apici polmonari, i reni,
l’encefalo e l’osso, ove si
esplica ulteriore moltiplicazione del patogeno.
L’organismo può reagire
efficacemente ed allora il
focolaio infettivo polmonare viene circoscritto e va incontro a fibrosi (tubercoloma) ed a calcificazione; se
invece l’organismo è indebolito da denutrizione, disagiate condizioni di vita o
insufficienza immunitaria,
la lesione procede localmente distruggendo il polmone. A volte la diffusione
del bacillo è così rapida e
generalizzata che arriva a
coinvolgere più organi e a
produrre il quadro della
cosiddetta TB miliare. Soprattutto individui immuno–compromessi (anziani,
pazienti neoplastici, pazienti affetti da HIV), si
presentano con febbre, debolezza, anoressia e perdita di peso, quadro ad esordio insidioso. La tosse e la
dispnea sono relativamente poco frequenti, ma la
mortalità è elevata. Meno
frequenti sono le localizzazioni extrapolmonari: i
linfonodi (la vecchia
“scrofola” se interessati i
linfonodi del collo), le meningi, le ossa, l’apparato
urogenitale e quello gastrointestinale.
Ai fini diagnostici della TB
sono tipicamente utili le seguenti indagini: la radiografia del torace, il PPD test, i test sull’espettorato per
il riconoscimento del bacillo. La terapia standard, sia
negli adulti che nei bambini, prevede un regime di sei
mesi: i primi due (initiation
phase) con isoniazide, rifampicina o rifabutina, pirazinamide ed etambutolo,
seguiti da 18 settimane di
isoniazide e rifampicina.
Salvatore Valente
Direttore Scuola Specializzazione
Malattie dell'Apparato Respiratorio
Università Cattolica - Roma
Il
La Traviata
Giornale dei Grandi Eventi
N
15
La tubercolosi nell’opera
Violetta e Mimì, stessa morte per due eroine diverse
ella storia dell’opera le morti di
Violetta e di
Mimì sono senza dubbio
fra le più commoventi e
drammaturgicamente
forti.
Due figure così diverse,
accomunate da quel mal
sottile che non dà loro
scampo, condannandole
a consumarsi inevitabilmente. Una malattia, la
tisi, all’epoca tragicamente di moda, come
può esserlo oggi, purtroppo, il cancro. Mali
subdoli, che aggrediscono e divorano dentro,
lasciando scarse speranze di guarigione.
Verdi e Puccini scelgono
per le loro due eroine la
medesima fine, nel loro
letto, assistite dai loro
amati che, volontariamente o involontariamente, avevano lasciato
e che ritrovano proprio
nel momento estremo.
Parrebbe una medesima
scena, con Mimì che ricalca il tragico destino
di Violetta.
E
In realtà sono diverse
perché è nettamente differente ciò che precede.
La morte di Mimì è un
evento annunciato addirittura dal
primo atto quando la poveretta
entra nella soffitta
di Rodolfo quasi
senza fiato e il
giovane la soccorre pietosamente,
innamorandosene
immediatamente
(«Che viso d’ammalata», sospira ammirandola). Più
avanti, alla Barriera
d’Enfer,
informa l’amico
Marcello
della
grave malattia di
Mimì, «la povera
piccina è condannata» dice preso
da sconforto. Fra
leggerezza e tragedie, la trama di Bohéme accompagna il declino di Mimì e con esso
probabilmente la fine
dei sogni di un gruppo
di giovani bohemien.
In Traviata la morte assume ulteriori significati. E’ un atto di catarsi,
di liberazione per Vio-
letta ed è un atto di accusa tremendo nei confronti della società.
Mimì vive nel suo mondo fatto di fiori finti, dal
quale non può e non cer-
ca nemmeno di uscire.
E’ una ragazzina semplice e la sua scomparsa
getta certamente nel dolore Rodolfo e
i suoi compagni. Ma rientra in una sfera assolutamente privata
e intima. La
morte di Violetta ha, invece, un respiro
universale,
perché la giovane donna
ha avuto il coraggio della
ribellione e la
dignità del ritiro. Ha saputo amare davvero e in nome dell’amore
accettare l’estremo sacrificio della rinuncia.
Segna la sua condanna
quando
tranquillizza
Germont («Dite alla giovine, sì bella e pura»). La
morte giunge, dunque,
come una liberazione e
nello stesso tempo come
un terribile j’accuse contro il falso perbenismo
che consente alla società
di sfruttare una giovane
donna, ma non permette
alla giovane donna di
rientrare nei binari della
normalità.
Mimì non ha bisogno di
riscatto morale, Puccini
ce l’ha dipinta (falsando
Henri Murger) come una
ragazzina delicata che se
non va mai a Messa prega assai il Signor. La tisi
per Violetta è l’unica vera via d’uscita, la sua
morte pesa come un macigno su chi l’ha rifiutata
(Germont e con lui la società) o su chi non le ha
creduto (Alfredo). Mimì
muore, semplicemente.
Violetta muore e vince.
Mimì si spegne sommessamente stringendo il
manicotto di Musetta.
Violetta muore cercando
per l’ultima volta la vita
e urlando «Ma io ritorno a
viver, oh gioia».
Roberto Iovino
Il librettista Francesco Maria Piave
«El Maestro el vol cussì…»
ra figlio di un vetraio
di Murano Francesco Maria Piave, librettista di Verdi in diverse opere, nato a Venezia
nel 1810 ed avviato dal padre, come molti giovani
del suo tempo, alla carriera ecclesiastica. Mentre
continuava gli studi, si occupò con modesti lavori di
traduzione, correzioni di
bozze, stesura di articoli e
novelle. Si dilettava anche
nella composizione di canzoni e ballate, facendosi
presto notare nell’ambiente intellettuale veneziano
soprattutto per la sua abilità nell’improvvisare versi in dialetto.
Nel 1842 fu notato dal conte Alvise Mocenigo, allora
presidente degli spettacoli
Alla Fenice, il quale lo
chiamò come librettista ufficiale del Teatro. Incarico
che Piave mantenne insieme con quello di direttore
degli spettacoli e regista
stabile, fino al 1859, quan-
do Verdi lo fece entrare
come “direttore della messa in scena” alla Scala. Il
suo primo libretto fu il Duca d’Alba (1842) per Giovanni Pacini. A questo seguirono lavori anche per
Saverio Mercadante (La
schiava saracena, 1848), Federico Ricci (Crispino e la
comare, 1850) ed altri musicisti contemporanei: in
tutto, nella sua vita compose 61 opere musicate ed
11 incompiute, la produzione più prolifica fra i
poeti melodrammatici dell’epoca.
Per Verdi scrisse dieci libretti: I Due Foscari ed Ernani (1844), Macbeth (1847
e 1865), Il Corsaro (1848),
Stiffelio (1850), Rigoletto
(1851), Traviata (1853), Simon Boccanegra (1857),
Aroldo (rifacimento dello
Stiffelio) (1857) e La Forza
del destino (1862). A questi
si devono aggiungere nel
1846 la revisione dell’Attila di Temistocle Solera e
due libretti mai musicati:
Cromwell a cui Verdi preferì Ernani ed uno dal titolo sconosciuto, proposto
come alternativa alla Traviata.
Il rispetto e l’ammirazione
che il librettista nutriva
per verdi, lo resero disposto ad accettare il forte carattere del maestro. Famosa rimase la frase «El maestro el vol cussì…», che ripeteva ogni qualvolta fosse costretto ad apportare
modifiche ed a subire interventi d’ogni genere sui
libretti, a sopportare la
noiosa Busseto, a prestarsi
ai tradimenti ed ai malumori del compositore, il
quale peraltro gli fu legato
da profondo affetto e lo
stimò più che ogni altro librettista.
Nel 1867, paralizzato da
un’apoplessia, Francesco
Maria Piave si ritirò a vita
privata, trascorrendo gli
ultimi anni isolato ed in
condizioni finanziarie pre-
carie. Verdi costituì un fondo a favore della figlia
Adelaide e promosse insieme
con altri compositori ed all’editore Ricordi, un Album di romanze,
dalla cui vendita
fu tratto un ricavato a beneficio
della giovane.
Alla morte del poeta, avvenuta a Milano nel 1876,
Verdi si occupò anche delle cerimonie funebri.
Fedele seguace dei modelli del Romanticismo europeo, Piave aderì alla scuola avviata dal Romani, aggiornandola però con nuove esperienze linguistiche
derivanti dai contemporanei, come Manzoni e Bodio, dai quali spesso prendeva in prestito intere immagini. Trasse ispirazione
dagli scrittori romantici
come Victor Hugo (Ernani,
Rigoletto), Alexandre Du-
mas figlio (Traviata) e Bayron (I Due Foscari, Il Corsaro), semplificando all’estremo le loro trame ed accendendole di forti passioni, ispirate a valori religiosi e patriottici. Per questa
sua abilità nel costruire situazioni fu apprezzato da
Verdi, il quale non dava
importanza al valore dei
suoi versi, considerati dalla critica «grossolani ed approssimativi». Oggi, invece,
Piave è rivalutato anche
come poeta ingegnoso e
garbato.
Mi. Mar