Anno XV - Numero 85 - 18 dicembre 2009 Questa Traviata Zeffirelli alla ricerca della perfezione, con qualche polemica A Pag. 2 La storia dell’opera Nata da una intuizione, derisa nel debutto veneziano, osannata da un secolo e mezzo A Pag. 6 Il personaggio storico La vita dissoluta di Alphonsine Plessis, la giovane donna che affascinò Parigi A Pag. 8e9 Due protagoniste dell’opera La Camelia, fiore senza profumo A Pag. 13 La Tubercolosi, malattia romantica A Pag. 14 e 15 LA TRAVIATA d i G i u s e p p e Ve r d i La Traviata 2 In questa Traviata destinata a rimanere nella storia, ha cercato il personaggio ideale Zeffirelli perfezionista non ha voluto la Dessì D opo il grande successo di due anni fa (era il 20 aprile 2007) con il Teatro Costanzi tutto esaurito pur anche per le recite aggiunte - come è capitato anche in questa occasione – si è voluto riproporre l’allestimento de La Traviata realizzato in quell’occasione da Franco Zeffirelli per l’Opera di Roma. Una Traviata che lo stesso Zeffirelli ha definito «la più vicina alla perfezione» delle otto da lui realizzate in 51 anni. Infatti, l’86enne regista fiorentino si confrontò per la prima volta con questo titolo verdiano nel 1958.«Ne ho sposate tante e le ho amate tutte, ma questa volta nell’età matura ho trovato quella che si avvicina alla perfezione e che credo rimarrà nella storia». «Essa – continua Zeffirelli – è più vicina delle altre a quella del mio debutto con questo titolo, ma rispetto a quella è stata affinata, migliorata, da una parte ripulita e dall’altra arricchita di tanti particolari sui quali ho riflettuto in tutti questi anni. L’ho pensata come un flash back. Anche Verdi comincia l’opera con una musica greve, triste, che contiene tutta la storia». Come nella tradizione di Zeffirelli si tratta di un allestimento ricco, sontuoso, che vuole cogliere tutto il fascino e l’elegan- za di quella Parigi ottocentesca che fece da sfondo alla vera storia di una prostituta d’alto bordo del periodo quale fu Alphonsine Plessis, amante anche dello scrittore francese Alexandre Dumas figlio, il quale ne fece la protagonista del proprio romanzo Dame aux Camèlias, da cui Verdi e Francesco Maria Piave trassero il libretto de La Traviata. La polemica E proprio la maniacale ricerca di perfezione di Zeffirelli, ha innescato ~ ~ La Copertina ~ ~ Giovanni Boldini - Ritratto della Marchesa Casati (1913) Galleria Nazionale d’Arte Moderna - Roma. Il G iornale dei G randi Eventi Direttore responsabile Andrea Marini Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. Stampa Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma) Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore Le fotografie sono realizzate in digitale con fotocamera Kodak Easyshare V705 Visitate il nostro sito internet www.giornalegrandieventi.it dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale una polemica della vigilia, che ha riportato i titoli dei giornali indietro nel tempo, quando i retroscena della lirica infiammavano le cronache, alimentando le attese dei singoli spettacoli ed il mito dei personaggi. Così questa volta è stato il fermo “No” di Zeffirelli al soprano Daniela Dessì a scatenare il battibecco a distanza. Il regista non ha voluto questo soprano, che avrebbe dovuto cantare come Violetta insieme al marito Fabio Armiliato (Alfredo) il 27 e 31 dicembre in due recite speciali in forma di gala, perché l’ha ritenuta «troppo matura e troppo formosa» per calarsi nei panni della giovanissima protagonista che muore consunta dalla Tubercolosi. Alphonsine Plessis, infatti, con il proprio fascino e la propria prorompente femminilità, divenne protagonista del demi mond parigino a soli 16 anni, morendo poi per il mal sottile a 23. Una aderenza alla realtà ed un amore per la giovinezza che a ben vedere il maestro toscano ha sempre perseguito per certe sue regie, si pensi solo ai 17 anni di Leonard Whiting ed ai 16 di Olivia Hussey nel film Romeo e Giulietta del 1968. «Per Violetta ci vuole una cantante giovane, anche un tantino inesperta, che sappia trasmettere la freschezza del personaggio», dice Zeffirelli. Offesa si è ritenuta la Dessì, la quale, nella sua corporatura robusta e florida di seno, ha tenuto a precisare di essere dimagrita di ben 6 kg, minacciando querele ed annullando anche la propria partecipazione, nel ruolo di Alice, al Falstaff – sempre con la regia di Zeffirelli – che aprirà la prossima stagione dell’Opera di Roma il 23 gennaio 2010. Andrea Marini Il Giornale dei Grandi Eventi Stagione 2010 al Teatro Costanzi 23 - 31 Gennaio FALSTAFF di Arrigo Boito Asher Fisch Direttore Interpreti Renato Bruson, Ruggero Raimondi, Juan Pons, Alberto Mastromarino, Carlos Álvarez, Pierluigi Dilengite, Luca Salsi, Carlo Di Cristoforo Patrizio Saudelli, Taylor Stayton, Daniela Dessì, Mina Yamazaki, Laura Giordano, Gladys Rossi, Elisabetta Fiorillo, Rossana Rinaldi, Francesca Franci 16 - 23 Marzo Direttore Interpreti MEFISTOFELE di Arrigo Boito Renato Palumbo Orlin Anastassov, Francesco Palmieri, Stuart Neill, Amarilli Nizza, Teresa Romano, Anda-Louise Bogza, Letizia Del Magro, Amedeo Moretti 1 - 11 Aprile Direttore Interpreti TOSCA di Giacomo Puccini Fabrizio Maria Carminati Svetla Vassileva, Anda-Louise Bogza, Nadia Vezzù, Francesco Grollo, Carlo Guelfi, Alberto Mastromarino, Franco Giovine 18 - 28 Maggio Direttore Interpreti MADAMA BUTTERFLY di Giacomo Puccini Daniel Oren Xiu Wei Sun, Raffaella Angeletti, Marco Berti, Pier Luigi Dilengite Mario Bolognesi, Francesca Franci, Armando Gabba, Carlo Striuli, Angelo Nardinocchi 17 - 24 giugno MANON di Jules Massenet Alain Guingal Direttore Interpreti Annick Massis, Sylwia Krzysiek, Massimo Giordano, Paolo Battaglia, Alfredo Zanazzo Stagione Estiva alle Terme di Caracalla 15 luglio - 5 agosto Direttore Interpreti 28 luglio - 8 agosto AIDA di Giuseppe Verdi Daniel Oren Daniela Dessì, Giovanna Casolla, Fabio Armiliato RIGOLETTO di Giuseppe Verdi Steven Mercurio Direttore 1 - 6 ottobre Direttore Interpreti ROBERTO DEVEREUX di Gaetano Donizetti Bruno Bartoletti Gian Luca Terranova, Carmela Remigio, Alberto Gazale, Sonia Ganassi 4 - 11 novembre Direttore Interpreti ADRIANA LECOUVREUR di Francesco Cilea Maurizio Arena Martina Serafin / Giovanna Casolla, Marcello Giordani, Katia Lytting / Agnes Zwierko, Alessandro Guerzoni ~~ La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi, 18 - 31 dicembre 2009 LA TRAVIATA Melodramma in 3 atti Libretto di Francesco Maria Piave da Alexandre Dumas figlio Musica di Giuseppe Verdi Prima rappresentazione: Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853 Seconda versione: Venezia, Teatro San Benedetto, 6 maggio 1854 Maestro concertatore e Direttore Maestro del Coro Regia e scene Costumi Coreografia Disegno Luci Violetta Valery Andrea Giorgi Franco Zeffirelli Raimonda Gaetani Vladimir Vassiliev Agostino Angelini Personaggi / Interpreti Flora Bervoix Annina Alfredo Germont Gastone Barone Douphol Marchede D’obigny Dottor Grenvil Gianluigi Gelmetti Giuseppe Domestico di Flora Commissionario Myrtò Papatanasiu 18, 20, 22, 31 / Cinzia Forte 19, 23, 29 / Mina Yamazaki 27, 30 Katarina Nikolic 18, 20, 22, 27, 30 / Anastasia Boldyreva 19, 23, 29, 31 Antonella Rondinone 18, 20, 29, 31 / Mariella Guarnera 19, 22, 23, 27, 30 Antonio Gandìa 18, 20, 22, 29 / Roberto De Biasio 19, 23, 30 / Stefan Pop 27, 31 Carlo Guelfi 18, 20, 22, 27, 30 / Dario Solari 19, 23, 29, 31 Gianluca Floris 18, 20, 22, 29, 31 / Cristiano Cremonini 19, 23, 27, 30 Angelo Nardinocchi 18, 20, 22, 29, 31 / Gianpiero Ruggeri 19, 23, 27, 30 Andrea Snarski 18, 20, 22, 29, 31 / Matteo Ferrara 19, 23, 27, 30 Carlo Di Cristoforo 18, 20, 22, 29, 31 / Luca Dell’Amico 19, 23, 27, 30 Giuseppe Auletta, Luigi Petroni, Maurizio Rossi Riccardo Coltellacci, Fabio Tinalli Andrea Buratti, Francesco Luccioni, Antonio Taschini ORCHESTRA, CORO E CORPO DI BALLO DEL TEATRO DELL’OPERA Allestimento del Teatro dell’Opera G Il La Traviata Giornale dei Grandi Eventi rande attesa per questa Traviata firmata da Franco Zeffirelli, la quale riprende l’allestimento realizzato dal regista fiorentino per l’opera di Roma nell’aprile 2007, che andò in scena per 10 repliche. Anche questa volta tutto esaurito già da un paio di mesi. Una grande visione del capolavoro verdiano, ultimo titolo della cosiddetta “Trilogia Popolare”, destinato a passare alla storia. Si tratta dell’ottavo allestimento originale nella carriera dell’86en- ne Zeffirelli, che con questo titolo si approcciò per la prima volta 51 anni fa, nel 1958. Allestimento che lo stesso regista definisce «vicino quasi alla perfezione». E proprio la ricerca di perfezione ha generato alla vigilia qualche polemica, per la decisione di Zeffirelli di non volere il soprano Daniela Dessì «troppo matura e troppo corpulenta», lontana dal personaggio di una donna giovane, consunta dalla tubercolosi (il personaggio storico cui l’opera si ispira, Alphonsine Plessis, morì, infatti, a soli 23 anni). La Dessì, stizzita, ha deciso di non cantare neppure come Alice nel Falstaff – sempre con la regia di Zeffirelli - che il 23 gennaio prossimo aprirà la nuova stagione dell’Opera di Roma. Su quello che è stato per tanti anni il “suo” podio, torna, invece, il direttore Gianluigi Gelmetti, il quale, come suo solito, guarderà ad una piena aderenza alla partitura, lasciando da parte qualsiasi ricerca d’eccesso di virtuosismo da parte dei cantanti. 3 Le Repliche Sabato 19 dicembre, h. 18.00 Domenica 20 dicembre, h. 16.30 Martedì 22 dicembre, h. 20.30 Mercoledì 23 dicembre, h 20.30 Domenica 27 dicembre, h. 16.30 Martedì 29 dicembre, h. 20.30 Mercoledì 30 dicembre, h. 20.30 Giovedì 31 dicembre, h. 18.00 Torna La Traviata di Zeffirelli, con qualche polemica La vicenda si svolge a Parigi e dintorni, tra l’agosto 1850 circa ed il febbraio successivo. ATTO I – Mese di Agosto – La bella e famosa relazione del cognato. Violetta, non senza intima lotta, accetta di sacrificare la propria felicità, ma ad un patto: lei abbandonerà Alfredo in cambio della promessa che quando il dolore avrà sopraffatto la sua cagionevole salute, la verità venga rivelata all’amato. Germont accetta commosso. Rimasta sola Violetta si appresta a scrivere una mendace lettera ad Alfredo, ma è da questo sorpresa. Trai due scoppia una forte eccitazione che culmina nella straziante richiesta d’amore «amami Alfredo…». Violetta fugge poi verso Parigi, lasciando la lettera per Alfredo, che dopo averla letta cade disperato tra le braccia dal padre, per poi staccarsene deciso a scoprire il presunto amante di Violetta. Scena II – La festa in casa di Flora è al culmine quando giunge Violetta al braccio del barone Douphol. Alfredo è al tavolo da gioco e finge indifferenza, vincendo alle carte anche il rivale. La tensione è alta. Violetta rimasta sola con Alfredo lo vorrebbe far allontanare, ma per non svelare la verità, è costretta ad ammettere di amare Douphol e di aver giurato a questo di non rivederlo più. Alfredo, irato, denuncia pubblicamente la condotta della donna e le getta ai piedi una borsa con denaro. Giunge il padre che rimprovera Alfredo per il gesto. La Trama mondana Violetta Valery, amante del barone Douphol, ha dato nella sua casa un fastoso ricevimento per una raffinata compagnia di gaudenti aristocratici e compiacenti signorine. Un po’ disorientato gira Alfredo Germont, introdotto dall’amico Gastone visconte di Letorières con il proposito di conoscere l’affascinante padrona di casa. Violetta confida all’amica Flora Bervoix di voler annegare nell’ebbrezza il dolore e le pene che le reca la salute. Gastone le presenta Alfredo. Quando Violetta per sdrammatizzare propone un brindisi collettivo, Alfredo brinda a lei, invitandola a ballare. Mentre i due si recano nel salone contiguo, una crisi di tosse frena Violetta che viene assistita da Alfredo. L’eco dei valzer funge da lontana colonna sonora alla conversazione dei due: alle profferte d’amore di lui, si alternano le ricuse divertite di lei, che dona ad Alfredo il suo fiore preferito, una camelia, promettendo di rivederlo quando sarà appassita. Alla fine della festa, Violetta, rimasta sola, s’accorge di essere per la prima volta seriamente innamorata. ATTO II – Gennaio dell’anno successivo, in una casa di campagna presso Parigi – Alfredo e Violetta vivono felici fuori Parigi, lontani dalla mondanità. Ma Alfredo viene a sapere dalla cameriera Annina che Violetta – ormai privata delle munifiche elargizioni di tanti protettori – ha dovuto vendere i gioielli per pagare le spese della nuova vita. Il giovane apre gli occhi e parte per Parigi in cerca di soldi. Violetta, rimasta sola, riceve l’inaspettata visita del padre di Alfredo, Giorgio Germont, il quale le chiede di troncare la relazione che rischia di portare il figlio alla rovina. Violetta dimostra all’uomo di aver venduto i propri gioielli pur di non chiedere denaro all’amante. Germont, mortificato, la scongiura di rinunciare ad Alfredo per salvare il fidanzamento della figlia, che rischia di saltare da quando il futuro sposo ha appreso della scandalosa ATTO III – In febbraio a casa di Violetta – La musica del preludio ripor- ta alla festosità del I Atto. Violetta è invece a letto, malata di tisi e senza speranza. Riceve una lettera di Germont, che le annuncia – secondo i patti - di aver rivelato la verità ad Alfredo, che sta per raggiungerla. Violetta piange e rilegge più volte la lettera, ma teme che egli giunga troppo tardi. Ma la fedele Annina le annuncia l’arrivo di Alfredo, che si getta tra le braccia di Violetta. La donna vorrebbe alzarsi, ma non ce la fa. Arriva anche il vecchio Germont. Pochi istanti di apparente vigore per Violetta, che poi cade esanime tra le braccia di Alfredo, unico amore della sua vita. ama in cifre Popolazione equivalente servita: 3.169.000 Area servita dalla raccolta: kmq 1.285 Km lineari di strade servite: 3.370 Totale rifiuti raccolti: Raccolta differenziata: t/anno 1.760.732 t/anno 343.493 Automezzi: 2.342 Sedi: 77 Isole Ecologiche e Centri di Raccolta: 13 Stabilimenti e impianti: 10 L’ambiente in buone mani. www.amaroma.itwww.amaroma.itwww.amaroma.itwww.amaroma.it Il Giornale dei Grandi Eventi La Traviata Antonio Gandìa, Roberto De Biasio e Stefan Pop L’ Alfredo Germont, stregato da Violetta amato Alfredo, avrà al voce dei tenori Antonio Gandìa (18/20/22/29), Roberto De Biasio (19/23/30) e Stefan Pop (27/31). Considerato uno dei più interessanti giovani tenori spagnoli, Antonio Gandìa, dopo gli studi al Conservatorio di Valenzia si è perfezionato con Alfredo Kraus alla Escuela Superior “Reina Sofia” di Madrid. Nel 2000 ha debuttato al Teatro Real di Madrid nel Rosenkavalier (Strauss), ricevendo nel 2004 il primo premio assoluto al Concorso Internazionale “Francisco Viñas” di Barcellona. Interprete di Orombello in Beatrice di Tenda al Teatro alla Scala di Milano, è stato recentemente impegnato a Cosenza ne La Traviata (Verdi). Roberto De Biasio, siciliano, ha debuttato nel 2006 al Teatro Donizetti di Bergamo nel ruolo di Edgardo in Lucia di Lamermoor (Donizetti). Ha interpretato ruoli come il Conte di Leicester in Maria Stuarda, Gennaro in Lucrezia Borgia e Cassio ne l’Otello all’Opera di Roma diretto da Riccardo Muti. La prima mondiale di Titania la rossa di Liberovici, testo e regia di Albertazzi, lo ha impegnato nel personaggio di Oberon al Teatro Municipale di Paicenza. Ha cantato nel ruolo di Pinkerton ne La Madama Butterfly presso la Kyoto Concert Hall. Lavora con registi e direttori di fama internazionale. Nato in Romania, il tenore Ste- Myrtò Papatanasiu e Antonio Gandìa fan Pop, è vincitore di numerosi premi in concorsi internazionali di canto, tra cui “Sigismund Goduta” 2007, “Hariclea Darclée” 2007, “Martian Negrea” 2008, “Ionel Perlea”, “Sabin Dragoi” 2009. Quest’anno è stato impegnato, tra l’alto, nella prima assoluta di Colinda balada op. 46 di Gyorgy Kurtag con l’Orchestra Filarmonica Transilvania Cluj-Napoca. Per la prima volta canta all’Opera di Roma. Carlo Guelfi e Dario Solari I Il vecchio Germont, contrario alla relazione del figlio baritoni Carlo Guelfi (18/20/22/27/30) e Dario Solari (19/23/29/31), si alterneranno nell’interpretazione di Germont, padre di Alfredo. Nato a Roma, il baritono Carlo Guelfi, ha studiato canto con lo zio paterno Renato Guelfi. Nel 1983 vinse il Concorso Internazionale “Aureliano Pertile”.Da allora ha iniziato un’intensa e brillante carriera che lo ha portato a collaborare con i maggiori teatri del mondo, fra i quali il Teatro Alla Scala, l’Opera di Roma, il Comunale di Firenze, La Fenice di Venezia, l’Arena di Verona, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Metropolitan, la Carnegie Hall di New York, la Staatsoper di Vienna, l’Opernhaus di Zurigo, la Staatsoper di Monaco, il Festival di Salisburgo, il Teatro Real di Madrid ed il New National Fondation di Tokyo. Fra gli impegni recenti si segnalano La battaglia di Legnano alla Car- Carlo Guelfi 5 Myrtò Papatanasiu, Cinzia Forte e Mina Yamakazi I L’affascinante Violetta Valery, amante di tanti uomini soprano Myrtò Papatanasiu (18/20/22/31), Cinzia Forte (19/23/29) e Mina Yamakazi (27/30) si alterneranno nel ruolo di Violetta. Myrtò Papatanasiu, soprano di nazionalità greca, si diploma in canto al Conservatorio di Salonicco. Ha perfezionato i suoi studi a Milano sotto la guida di Roberto Coviello. Il debutto, giovanissima, all’Opera di Salonicco con Il Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi. Ha interpretato molte volte il ruolo di Carolina ne Il matrimonio segreto di Cimarosa all’Opéra di Montecarlo, al Regio di Torino e all’Opéra Comique di Parigi. Al Teatro dell’Opera di Roma torna con il ruolo di Violetta ne La Traviata, dopo il debutto nel 2007 nella produzione di Zeffirelli, Myrtò Papatanasiu ruolo interpretato anche alla Welsh National Opera con la regia di Mc Vicar. Ha debuttato all’Accademia Santa Cecilia di Roma in una nuova produzione di Daniele Abbado di Così fan tutte (Fiordiligi). Cinzia Forte, napoletana di nascita e romana di adozione, ha vinto numerosi concorsi internazionali, tra cui il “Giacomo Lauri Volpi” di Latina e il Concorso “A. Belli” di Spoleto. Dopo il debutto al Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto, è stata invitata dai più prestigiosi teatri internazionali, tra cui il Teatro alla Scala, il Covent Garden di Londra, Royal Concertgebouw e Nederlandese Opera di Amsterdam, il New National Theatre di Tokyo. Il suo repertorio comprende opere di autori come Bellini, Donizetti e Rossini. A Roma torna al Teatro dell’Opera dopo aver interpretato con successo Marie ne La fille du régiment (Donizetti). Mina Yamazaky, soprano giapponese naturalizzata in Italia, si è imposta all’attenzione internazionale cantando in importanti teatri fra i quali, il Grossenfestspielhause di Salisburgo, New National Theatre di Tokyo, Den Norske Opera di Oslo, La Fenice di Venezia, il Teatro Lirico di Cagliari e il Massimo di Palermo. Nel suo repertorio titoli come La Bohème, La Traviata, Madama Butterfly, Don Giovanni, Turandot, Il Trovatore, Pagliacci e Carmen. Ha collaborato con direttori d’orchestra di fama internazionale (Aprea, Rizzi Brignoli, Gelmetti, Lombrad, Kazushi Ono). All’Opera di Roma ha già cantato in Die Zauberflöte e La Bohème. negie Hall di New York. All’Opera di Roma ha cantato ne Il Tabarro e Gianni Schicchi (2002). Nato a Montevideo, in Uruguay, il baritono Dario Solari, ha studiato canto alla Scuola Nazionale di Arte Lirica del suo paese e nel 1999, su invito di Katia Ricciarelli, si è trasferito in Italia, perfezionandosi sotto la guida di Paolo Washington. Vincitore di numerosi concorsi, ha debuttato nel 2001 tenendo alcuni concerti e cantando opere come La Rondine di Puccini e Die Zauberflöte di Mozart. Ha interpretato il ruolo di Figaro nel Barbiere di Siviglia di Rossini, all’Opéra di Montecarlo, al Filarmonico di Verona ed al Massimo di Palermo. Hanno fatto poi seguito ruoli come Silvio (Pagliacci), Sharpless (Madama Butterfly) e Marcello (Bohème) all’Opera di Roma. Per l’inaugurazione della stagione 2004 dell’Opera di Roma ha debuttato il ruolo di Cloteau nella prima assoluta di Marie Victoire di Respighi, diretto da Gianluigi Gelmetti. Nel 2006 è tornato a Roma con Maria Stuarda nel ruolo di Lord Guglielmo Cecil. Pagina a cura di Martina Proietti – Foto: Corrado M. Falsini La Traviata 6 Il Giornale dei Grandi Eventi Storia dell’opera Derisa al debutto ambientato nel ‘600, osannata alla ripresa 14 mesi dopo «L Fanny Salvini Doa Traviata, ieri natelli, il tenore sera, fiasco. La Ludovico Graziacolpa è mia o dei ni nel ruolo di Alcantanti?...Il tempo giudifredo ed il baritocherà», scrisse Verdi, dono Felice Varesi in po la disastrosa prima al quello di GerTeatro La Fenice di Vemont, si rivelaronezia il 6 marzo 1853. no inadeguati, Come il debutto, la stenon in voce e non sura di Traviata, non fu a loro agio in tranquilla. Verdi durante un’opera così paril proprio soggiorno a ticolare e fuori daParigi, città dove si era gli schemi, e ditrasferito con Giuseppivennero gli elena Strepponi alla fine del menti negativi 1851 per fuggire alle della serata. Le chiacchiere degli abitanti cronache riportaIl Teatro La Fenice di Venezia in una litografia del 1854 di Busseto, nel febbraio rono come notizia 1852 ebbe modo di assiprincipale le risate tis del 1 gennaio 1853 deva la figura della prostere presso il Théâtre du del pubblico veneziano, Verdi scrisse: «A Venezia tagonista, Marguerite Vaudeville al dramma di nel vedere la giunonica faccio la Dame aux CameGautier, ispirata ad Alexandre Dumas figlio, protagonista morire di lias che avrà per titolo, forAlphonsine Duplessis, la Dame aux camélias, reconsunzione: «La Traviase, Traviata. Un soggetto famosa cortigiana paristandone positivamente ta ha fatto un fiascone e, dell’epoca. Un altro forse gina che morì, venticolpito. peggio, hanno riso», disse non l’avrebbe fatto per i cotreenne, l’anno prima Poco dopo essere tornato Verdi. «Eppure, che vuoi? stumi, pei tempi e per mille dell’uscita del romanzo, dalla capitale francese, Non ne sono turbato. Ho altri goffi scrupoli [...]. nel 1848. Si pensò così di Verdi il 4 maggio 1852 torto io o hanno torto loro? Tutti gridavano quando io cambiare i nomi dei profirmò un contratto con la Per me credo che l’ultima proposi un gobbo da mettetagonisti (Marguerite diFenice di Venezia con il parola sulla Traviata non re in scena. Ebbene ero felivenne Violetta Valery, quale si impegna a scrice di scrivere il Rigoletvere un’opera per il to». carnevale successivo Trovato il soggetto, il ed a consegnare il temusicista mise mano sto poetico – il cui aualla partitura proprio tore doveva essere nello stesso periodo scelto e pagato da in cui stava compleVerdi – entro la fine tando Il Trovatore, dell’estate. La deciche sarebbe andato sione sul soggetto si in scena a Roma al rivelò, però, più diffiTeatro Apollo il 19 cile del previsto ed il gennaio 1853 e che compositore fu coavrebbe riscosso stretto a chiedere una grande successo coproroga sulla conseme il Rigoletto l’11 gna del libretto. marzo 1851. Terzo e A fine estate Piave ultimo “tassello” delstava scrivendo un tela cosiddetta “Trilosto, probabilmente gia popolare”, La quello dell’Ebrea, tratTraviata fu scritta, to dalla Juive de Co- Fanny Salvini Donatelli (1815-1891) Lodovico Graziani (1820-1885) quindi, tra Roma e Primo Alfredo alla Fenice stantine di Gautier e Prima Violetta alla Fenice Venezia. Mentre il Parfait, che terminò sia quella di ieri sera. La rilibrettista Francesco MaArmand e Georges Duin ottobre a Sant’Agata, vedranno e vedremo!». Il ria Piave modificava alval cambiarono in Alfrequando improvvisamencompositore, infatti, crecune parti del libretto do e Giorgio Germont). te Verdi s’infiammò per deva molto nel valore perché giudicate troppo Accettando il titolo di quella Dame aux camélias dell’opera, così come l’anoiose per il pubblico, Traviata scelto dalla cendi Alexandre Dumas fiveva pensata (ambientaVerdi si trovò alle prese sura (che rifiutò quello glio che vi aveva narrato ta nell’Ottocento, quasi a con i problemi della sceldi Amore e morte richiesto in chiave romanzesca la denunciare l’ipocrisia di ta dei cantanti. La ricerca dal compositore), Verdi propria storia d’amore certa società del tempo, di una «donna di prima e Piave pensarono di lacon una celebre mantecon una trama priva di forza» per la protagonisciare che la storia fosse nuta parigina. intrighi e di duelli e con sta, come chiesto al disimile al dramma, riduQuesto dramma in cinun suo contesto “privarettore della Fenice Carcendo i personaggi seque atti, ritenuto scabroto” e domestico, tutte lo Marzari, si concluse condari per dare magso dalla critica per la sua novità per l’epoca): «Un con un insuccesso ed il gior risalto ai tre protaforte carica autobiografisoggetto dell’epoca. Un aldisastroso debutto del 6 gonisti. In una lettera alca e per la sua disarmantro forse non l’avrebbe fatto marzo 1853. Il soprano l’amico Cesare De Sancte contemporaneità, ve- per i costumi, pei tempi e per mille altri goffi scrupoli…Io lo faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando proposi un gobbo da mettere in scena. Ebbene, io ero felice di scrivere il Rigoletto». Con le critiche non del tutto sfavorevoli, Verdi decise di cercare una compagnia vocale all’altezza per il secondo allestimento, vietando, intanto, le repliche dell’opera fino al reperimento di un cast di suo gradimento. Il secondo debutto La Traviata venne, dunque, ripresa, con alcuni cambiamenti di lieve entità, il 5 maggio 1854 al Teatro San Benedetto sempre a Venezia, dopo aver contemplato l’ipotesi di portare l’opera a Roma. Questa volta Verdi scelse i cantanti che più si adattavano alle singole parti: Maria Spezia, Francesco Landi come Alfredo e Filippo Coletti come Papà Germont. Il debutto del nuovo cast, il 6 maggio 1854, fu un immediato, grandissimo, successo, che portò Verdi ad esclamare: «Tutto quello che esisteva per la Fenice esiste ora pel S. Benedetto. Allora fece fiasco; ora fa furore. Concludete voi!». Con pochissimi cambiamenti, non tali da ribaltare il giudizio precedente in così poco tempo, La Traviata piacque, con i suoi personaggi “normali”, con una protagonista ritenuta scandalosa, con una ambientazione quasi dimessa e non ridondante, riscuotendo un successo particolare: nel giro di quattordici mesi aveva fatto cambiare idea al medesimo pubblico ed iniziò da qui ad essere rappresentata in tutta Italia ed in Europa, senza smettere mai di essere discussa e criticata. M. M. Il La Traviata Giornale dei Grandi Eventi «L 7 Analisi Musicale Una perfetta simbiosi tra drammaturgia e musica a Traviata ha fatto un fiascone e peggio, hanno riso. Eppure, che vuoi? Non ne sono turbato. Ho torto io o hanno torto loro? Per me credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quelle d’jeri sera. La rivedremo e vedremo! Intanto, caro Mariani, registra il fiasco…». Scriveva così Verdi al direttore d’orchestra Angelo Mariani il giorno dopo il contrastato debutto di Traviata alla Fenice di Venezia, il 6 marzo 1853. Nonostante i fischi e il “riso”,il musicista mostrava una composta serenità, segnale della propria convinzione di aver licenziato un’opera di rilievo. Ed ebbe ragione, perché ben presto Traviata non solo rinacque, ma si impose come uno dei massimi capolavori del nostro teatro e uno dei titoli più popolari del suo repertorio. I motivi del successo stanno tanto nella impostazione drammaturgica del lavoro, quanto nella partitura musicale. «Sono solo un uomo di teatro» dichiarò una volta Verdi, rifiutando l’etichetta di illustre musicista. Lavorando sul libretto che Francesco Maria Piave aveva tratto da La dame aux camelias di Alexandre Dumas figlio, il musicista riuscì a costruire un’affascinante tragedia sull’amore e sulla morte, mescolando genialmente, leggerezza e drammaticità, lirismo e tensione. Domina il valzer, la danza tipica dei salotti ottocenteschi. Ed è sul ritmo ternario del valzer che si incrociano i bicchieri nel brindisi forse più famoso del teatro italiano. In «Libiamo ne’ lieti calici», si coglie la freschezza e la passionalità dell’amore di Alfredo ma si intravede anche il primo segnale di turbamento di Violetta. Inizia nell’allegria e nella frenesia della mondanità parigina l’opera per virare immedia- tamente dopo con una delle più grandi scene mai concepite. Follie, follie… Il lungo, incredibile monologo di Violetta è, in effetti, un capolavoro perché ci regala l’immagine di una donna che apparentemente felice, vive un dramma interiore fortissimo, combattuta tra una esistenza frivola e il desiderio di abbandonarsi all’amore per un uomo e, attraverso lui, “redimersi”. Violetta attacca con una frase fatta di dubbi, poche note incorniciate da pause: «E’ strano! E’ strano!». Sola, nella sua casa improvvisamente fredda e silenziosa, Violetta si interroga e si lascia andare a una sottile speranza d’amore: «Ah fors’è lui che l’anima». Un amore misterioso, «croce e delizia al cor». C’è, nella donna, la paura di abbandonarsi al sentimento. Di qui la reazione: «Follie, follie» con una autocommiserazione ma anche con la determinazione di cambiare registro. «Povera donna» canta Violetta su una scala discendente da fa a do. E qui, aprendo una parentesi, vale la pena ricordare che in Falstaff allorché Quickly, nella prima scena del secondo atto, si reca da Falstaff come messaggera d’amore in nome di Alice (per un falso appuntamento, una trappola nei confronti del vecchio libertino), commiserandone il presunto innamoramento, usa la stessa frase sulle medesime note: un’autocitazione ironica che mostra tutto l’umorismo del vecchio Verdi. Tornando a Traviata, al patetismo segue l’allegro brillante in cui Violetta cerca di ritornare quella di prima: «Sempre libera degg’io folleggiare di gioia in gioia». La scrittura si fa impervia, virtuosistica, gli abbellimenti servono a rendere magistralmente il carattere svolazzante della donna, così come nel Barbiere di Siviglia le acrobazie vocali di Rosina ne restituivano i capricci e la determinazione. E’ stato spesso sostenuto che la parte di Violetta richiederebbe due grandi interpreti in quanto Verdi le ha affidato una scrittura particolarmente complessa e variata: impervia e svolazzante per rendere la leggerezza della donna; intensa e lirica per svelarne i sentimenti più sinceri e profondi. Certo è che Violetta è uno dei personaggi più totalizzanti del teatro melodrammatico. Come Don Giovanni, costituisce il motore di ogni azione e di ogni sentimento. O è in scena o è evocata dagli altri. Amami, Alfredo Tutti noi frequentatori di teatro lirico, abbiamo le nostre debolezze. A volte inconfessabili, ma vere, autentiche. Pagine che ci fanno venire la pelle d’o- ca. A quanti sfugge una lacrimuccia quando Mimì giace nel suo letto di morte, oppure quando Cio-cio-san, altra figura incommensurabile, la più grande eroina pucciniana, si pugnala. Chi scrive prova una strana emozione quando Violetta grida il suo amore così grande e così impossibile: «Amami Alfredo!». E’ una pagina brevissima, ma preparata in maniera talmente geniale da Verdi da diventare il fulcro di tutta l’opera: il momento del sacrificio, della dichiarazione d’amore e dell’abbandono. Tutto in due parole, in pochi istanti consumati fra pause, singhiozzi, imbarazzi, fino allo slancio immenso che trascende l’amore di Violetta per Alfredo. E’, semplicemente, l’invocazione dell’Amore in sé, universale, globale, disperato eppure immortale. Di fronte a questa grandezza, a questa superba donna che sa mettersi da parte per non turbare l’esistenza dei Germont, gli altri personaggi sono piccoli piccoli. A cominciare da Alfredo che non sa vedere al di là del proprio naso, che non capisce Violetta, che ha reazioni estreme e infantili: il tenore pieno di sé e baldanzoso cui Verdi affida qualche pagina di spessore, ma senza una particolare simpatia. Come in molte opere ottocentesche («L’opera è quello spettacolo in cui il tenore cerca di portare a letto il soprano e il baritono glielo impedisce», ammoniva George Bernard Shaw) spetta al baritono, ovvero a Giorgio Germont, vestire i panni dell’inter- locutore e del censore di Violetta. L’aria «Pura siccome un angelo» è di notevole bellezza: nella sua falsa moralità, Germont cerca di intenerire Violetta con il riferimento alla innocenza della sorella di Alfredo. Ed è magistrale l’idea di Verdi di contrapporre al lirismo disteso di questa pagina, la risposta nervosa, ansimante di Violetta, su frasi interrotte e spezzate: «Non sapete quale affetto, vivo, immenso, m’arda in petto». Quando Violetta, piegata alle richieste, accetta di andarsene, Verdi costruisce un andantino cantabile che è il canto d’addio alla vita, quella sognata: «Dite alla giovine sì bella e pura». Il trionfo di Germont viene suggellato dalla successiva aria «Di Provenza il mare, il suol» rivolta al figlio per consolarlo della partenza della donna e per riportarlo nella propria casa. Il secondo atto di Traviata è costruito con un senso del teatro davvero geniale, con una forte tensione emotiva. La seconda parte dell’atto è il momento della resa dei conti. La superficialità di Alfredo emerge in tutta la sua stupidaggine con il celebre “schiaffo”: «A testimon vi chiamo che qui pagata io l’ho». E’ lo stesso Germont a difendere Violetta ed il concertato conclusivo rappresenta una sorta di glorificazione della povera donna. Il terzo atto regala l’accorata lettura della lettera («Teneste la promessa, la disfida ebbe luogo») e lo struggente «Addio del passato». Poi la morte che, come spesso accade nel Romanticismo, è una sorta di catarsi, di liberazione. Violetta diventa un’eroina, si spegne fra le braccia del suo Alfredo e riscatta con una coraggiosa morte una vita che la società borghese non le aveva consentito di cambiare, obbligandola a rimanere cortigiana. Roberto Iovino 8 La Traviata Il Giornale dei Grandi Eventi La storia di Alphonsine Plessis, «I Dall'infanzia infelice alla morte solitaria: la n vendita elegante mobilio intarsiato e scolpito, tappezzerie, gioielli, argenterie, diamanti…».Così recita il manifestino dell'asta cui furono messi gli averi di Alphonsine Plessis, alias Marie du Plessis, colei che venne trasfigurata da Alexandre Dumas figlio in Marguerite Gautier ed, infine, fasciata nel costume di Violetta Valery da Giuseppe Verdi. Era il 27 febbraio1847. Si era appena spenta in solitudine ad appena 23 anni, la cortigiana più ammirata dell'opulenta Parigi di Luigi Filippo. Fu uccisa da una forma particolarmente grave di tubercolosi, un terribile flagello che all'epoca mieteva circa sette vittime ogni dieci persone malate. L'asta ebbe luogo nello stesso appartamento dove Alphonsine morì, al numero 15 del boulevard de la Madeleine, palazzo che oggi non esiste più a Parigi, snaturato da successive costruzioni. In quella «splendida fogna purificata dalla morte» come ebbe a definirlo Dumas ne La dame aux came- Ritratto di Alphonsine Plessis lias, si aggirarono le signore della buona società, scegliendo qui un trumeau, là una tappezzeria o un cofanetto d'argento, magari contrassegnato dal monogramma di qualche antico amante di Alphonsine. Alla schiera di questi amanti appartenne lo stesso Dumas che, nel 1844, grazie all'amico Eugene Dejazet, conobbe la femme fatale ad una festa. Ritiratasi dal salone per un accesso di tosse, Alphonsine ricevette l'appassionata dichiarazione di Alexandre; nacque una relazione che durò circa un anno, finché il giovane scrittore, che per lei aveva speso una fortuna, non fu più disposto a tollerare che lei mantenesse relazioni con i suoi ricchi amanti Stackelberg e Perrigaux. «Io non sono né così ricco per amarvi come vorrei - le scrisse nella lettera d'addio - né così povero per essere amato come voi vorreste». Dumas apprese della sua morte pochi giorni dopo e scrisse di getto il romanzo che poi, una volta trasposto in versione teatrale, diede il via alla sua brillante carriera di drammaturgo. Un'infanzia infelice Al di là delle rarefatte idealizzazioni romantiche, quello che sappiamo sulle origini di Alphonsine ci conduce a una vicenda di desolante squal- lore. L'umile nascita nel Théâtre des Italiens o al borgo di Nonnant, in Jockey Club, non aveva Normandia, la madre rivali per bellezza, elefuggita di casa, il padre, ganza, vivacità e spirito. Marin, un alcolizzato che Raggiunto quindi un la picchiava, poi il lavoro nuovo status sociale, dedi lavandaia, il concubicise, probabilmente su naggio - favorito dal pasuggerimento del suo dre- con un vecchio liberaristocratico amante, di tino, che destò un tale cambiare il nome di batscandalo da costringerla a tesimo con il più casto rifugiarsi nell'anonimato «Marie» e di fare del codi Parigi, dove trovò l'imgnome Plessis un predipiego di commessa in un cato aristocratico con negozio d'abbigliamento. l'aggiunta del «du». Forse non fu una scelta a caEra indubbiamente una so, poiché la famiglia du splendida ragazza: un riPlessis, era una delle tratto di Vienot, conserpiù antiche e nobili di vato nel castello di Francia e fu la stessa Champflour, ci tramanda che diede i natali al un ovale perfetto, capelli Cardinale di Richelieu, neri come il carbone, petal secolo, appunto, Artinati a tirebouchon, lineamenti di rara finezza sotmand Jean du Plessis de Richelieu. to due sopracciglia ad arNon sappiamo quanto co quasi geometriche. Dal questo nome d'arte fosse suo passaporto sappiamo preso sul serio dagli che era alta circa un mearaldisti da salotto, tuttro e sessantacinque, ma tavia, come presentaera considerata un po' zione, sortiva certamentroppo alta e sottile per i canoni dell'epoca. Dissimulava questa figurina slanciata con ampi vestiti di colore chiaro. A causa del suo scarso rendimento sul lavoro fu licenziata, ma ormai Alphonsine aveva imparato a confidare nella propria bellezza. Si vestì con ricercatezza e si mise ad aspettare la grande occasione della sua vita. Alexandre Dumas figlio Fu così che conobbe il te un buon effetto. giovane e facoltoso conte Come si evince dall'eAntoine de Guiche. Si tralenco dei libri di sua sferì in una villa in rue proprietà messi all'asta, Mont-Thabor dove, quasi in pochissimo tempo come in My Fair Lady, il suo Pigmalione le pose al Alphonsine si era creata servizio modiste, inseuna discreta cultura e gnanti di galateo, ballo, vasti interessi: leggeva portamento e dizione, che Lamartine, Hugo, le scrostarono quanto di Goethe e de Musset (del plebeo ancora le rimaneresto suo ammiratore) e va indosso, per farne una sapeva anche arrangiarsi al pianoforte. Prese squisita mattatrice dei saalcune lezioni di piano lotti più alla moda. persino da Franz Liszt, Un nuovo status che nel 1846 divenne per un breve periodo Alphonsine raccolse gli suo amante. Il grande insegnamenti ricevuti al virtuoso lasciò un compunto che, alla fine, movente ricordo di ovunque apparisse, all'OAlphonsine, come di pera, al Café de Paris, al una donna di grande Il La Traviata Giornale dei Grandi Eventi 9 la vera Signora delle Camelie a parabola di una meteora del gran mondo della Madeleine, donandole cavalli e carrozze. Costui le mandava ogni giorno fasci di fiori, dai quali lei prese l'abitudi- Guarita dalla polmonite, Alphonsine si recò a Londra con il suo ultimo amante, Perrégaux, che la sposò il 21 febbraio 1846, contro il volere della famiglia, con il solo rito civile. Alphonsine fu molto felice di avere assunto un titolo e una rispettabilità sociale. Poté finalmente esibire legittimamente le armi dei conti Perrégaux sugli sportelli della sua carrozza, ma il matrimonio durò poche settimane e non fu comunque riconosciuto in Francia. Le sue condizioni di salute decaddero allora rapida- getali, ma nulla si poté per salvarle la vita. Il 3 febbraio 1847 Alphonsine Plessis esalò l'ultimo respiro. Riposa ancor oggi nel cimitero monumentale di Montmartre in un classicheggiante sarcofago di marmo fatto erigere per lei dal Perregaux, che riporta questo semplice epitaffio: «Ici repose Alphonsine Plessis, nee le 15 Janvier 1824, decedee le 3 Fevrier 1847 . De Profundis.» Dei suoi averi, circa due terzi finirono all'asta per saldare i debiti con i creditori, il restante fu ereditato dalla sorella di lei, Delphine, che viveva in Normandia. La diretta discendente di costei si chiama Eugénie Mariette e vive ancora in Normandia, sposata ad un agricoltore. Della sua più famosa antenata possiede alcuni oggetti che furono trasmessi di gene- ne di staccare una camelia per appuntarsela sul seno. Questo fiore delicato e senza profumo era uno dei pochi che i suoi polmoni malati riuscivano a sopportare. Per venticinque giorni al mese indossava una camelia bianca, per gli altri cinque, rossa. Dopo il 1845, conclusa la storia con Dumas, la sua malattia andò peggiorando, contrasse una polmonite e fu presa in cura dal dot- mente; tornò a Parigi nell'appartamento donatole da Stackelberg dove si rifugiò, sola, abbandonata dagli amici e assediata dai creditori, assistita solo dalla fedele cameriera Clotilde. Ricevette le cure del Dottor Casimir J. Davaine (famoso per i suoi studi sul carbonchio) che le prescrisse clisteri di chinino e del dottor Clomel che le impose una dieta a base di pane e minestre ve- razione in generazione: un paio d'orecchini, uno spillone, una collana ed un medaglione. Il ricordo di quest'icona romantica non si è mai spento: la tomba di Alphonsine Plessis è ancor oggi una delle più visitate del cimitero monumentale parigino e ogni giorno visitatori e ammiratori vi lasciano fiori freschi. Naturalmente, camelie. Andrea Cionci tor David Ferdinand Koreff, un medico alla moda che si occupava di magnetismo animale, sull'onda degli studi di Mesmer, e che era anche un valente letterato. L'aggravarsi della malattia La Tomba di Alphonsine Plessis cuore e di grande intelligenza. Ciò che colpisce è la velocità con cui questa giovane era riuscita a imparare tutto ciò, considerando che, appena giunta a Parigi, era pressoché analfabeta. Fu a un certo punto il padre del giovane de Guiche a interporsi per concludere la chiacchierata relazione il rampollo e la cortigiana. Si racconta della nascita di un figlio, che la nobile famiglia avrebbe poi preso in affidamento. Marie co- Marie Duplessis a teatro, acquerello minciò quindi a collezionare altri amanti e ricchi protettori. Nel romanzo, Dumas attribuisce i suoi desideri febbrili alla malattia di petto che aveva contratto nell'ambiente povero in cui era nata. Questa credenza parrebbe supportata dall'effettiva possibilità che l'ipossia, dovuta a una carenza d'ossigeno per insufficienza respiratoria, possa produrre deliri o suggestioni a carattere erotico. Sicuramente Alphonsine aveva una gran voglia di vivere, di bruciare nel fasto, nello sperpero, nella concupiscenza di essere amata e vezzeggiata, quei pochi anni che forse presentiva le sarebbero rimasti da vivere. A Chantilly fece perdere la testa al visconte Edouard Perrégaux, che divenne praticamente suo schiavo; alle terme di Bagnères incontrò l'anziano ambasciatore di Russia, conte di Stackelberg, che poi la insediò nel lussuoso appartamento La Traviata 10 P Il Giornale dei Grandi Eventi Lo scrittore autore del romanzo Dame aux Camèlias Alexandre Dumas: figlio d’arte … e del bel vivere scrive i suoi primi versi, adre della Dame decide di abbandonare il aux Camèlias e figlio collegio e si immerge de Les trois Mounella vita oziosa e galansquetaires, Alexandre Dute che solo la Parigi demimas nasce a Parigi il 27 siècle riesce ad offrire ai luglio 1824 dall’omonigiovani scrittori in erba. mo Dumas maestro del Sulla rotta delle frequenromanzo storico e da una tazioni mondane è il pasua vicina di pianerottodre a mostrargli la stralo, Catherine Laure Labay, ricamatrice. Quella del piccolo Alexandre è un infanzia difficile: viene dichiarato figlio naturale di genitori sconosciuti e viene spedito in istituto, per poi essere riconosciuto all’età di sette anni, dal padre che affronta una lunga battaglia legale per l’affidamento, strappandolo alla giovanissima sarta. L’evento resta impresso per sempre nella Alexandre Dumas mente di Dumas, da, e Alexandre si tuffa che nelle sue opere maninei caffè alla moda, nei festa un profondo disateatri più in voga, nei sagio descrivendo scenari lotti di Balzac, Liszt, Lusfamiliari in preda alla diset. Ma con il genitore il sgregazione, al malesserapporto non è sempre re, all’incomunicabilità. sereno: il ragazzo non gli All’età di diciassette anni I perdona l’abbandono e non gli risparmia prediche moraliste e paternalistiche. I due abitano insieme, e quando il “giovane” è in giro, di fronte ad amici e conoscenti descrive il “vecchio” come «un bambinone» che «ho avuto quando sono nato». Solo poco dopo, verso la metà del secolo, lascerà definitivamente la casa di rue Joubert. Nel 1844 incontra Alphonsine Plessis (alias Marie Duplessis), la cocotte d’alto bordo appassionata di camelie che quattro anni dopo ispirerà il suo romanzo più conosciuto: la Dame aux Camélias. Un amore breve, intenso e soprattutto oneroso, tanto da spingere Dumas a scrivere alla ragazza una lettera in cui si dice costretto a lasciarla: «Cara Marie, non sono abbastanza ricco per amarvi come vorrei, né abbastanza povero per essere amato come voi vorreste». Pochi anni dopo, trasporta la sua piccola grande storia personale in un romanzo e questo in un testo teatrale (1852), poi ripreso dal librettista Francesco La strana storia della “Loterie des lingots d’or” Quando Dumas reclamizzava l’Eldorado l 1851 è l’anno in cui si apre una curiosa parentesi nella vita di Alexandre Dumas figlio. Il giovane romanziere si mette, infatti, alla testa della controversa Societé des Lingots d’Or, un’organizzazione voluta da Napoleone III per promuovere una grande lotteria destinata a raccogliere fondi per consentire agli operai disoccupati ed ai parigini meno abbienti di emigrare verso le miniere della California. L’obiettivo malcelato di questa Loterie era in realtà l’esilio forzato - nascosto dalla prospettiva di un’avventura verso la corsa all’oro - di tutti quei personaggi che il regime del nuovo Imperatore considerava “indesiderabili”: i rivoltosi del ’48, i veterani della garde républicaine, i Montagnardi (i repubblicani eredi di Marat), gli aristocratici decaduti, i banchieri finiti in rovina. La ricerca dell’Eldorado americano, per molti dei 3000 migranti, finiva sul ponte delle navi prima di passare Capo Horn: durante le soste in Sud America accadeva spesso che equipaggio e passeggeri contraessero la febbre gialla. Coloro che riuscivano a sbarcare vivi a San Francisco si trovavano a dover fronteggiare condizioni di vita che avevano ben poco a che fare con il sogno americano ed erano costretti ad elemosinare, a svolgere lavori infimi, a prostituirsi (come accadde alla scrittrice Fanny Loviot, che nel 1853 nel suo Les pirates chinois racconta dell’odissea del viaggio in nave, durato cinque mesi, e della vita di strada nella città della West Coast). Non è chiaro il motivo per cui l’autore della Dame aux Camèlias si fosse offerto (o fosse stato voluto) per propagandare la lotteria. Quello che resta di questa particolare vicenda è tutto nelle 16 pagine della brochure esplicativa redatta da Dumas per invogliare i parigini a partecipare al gioco ed ad affidarsi al rischio: «l’intervento negli affari umani di questo invisibile, misterioso potere che gli increduli chiamano fatalità, i credenti Provvidenza, gli indifferenti caso». E gli astuti … imbroglio. J. M. Tomba di Alexandre Dumas nel cimitero di Monmartre a Parigi Maria Piave come soggetto per la Traviata di Verdi. I romanzi Le Docteur Servan (1849), Antonine (1849), Tristan le Roux (1850), Trois Hommes forts (1850), Le Régent Mustel (1852), Contes et Nouvelles (1853), La Dame aux perles (1854) seguono a ruota la Signora delle Camelie e testimoniano la grande carica vitale di uno scrittore che vive la crisi del romanzo storico e l’affermarsi del naturalismo francese. Negli anni successivi, Alexandre affronta con il suo stile brillante temi assai controversi per l’epoca come la posizione sociale della donna, il divorzio, l’adulterio, la ricerca della paternità. Delle 19 pièces teatrali che in questo periodo nascono dalla sua penna facile, e che spesso lo rendono scandaloso agli occhi della buona società, ricordiamo Diane de Lys (1853), Le Demi-Monde, (1855), La Question d’Argent (1857) Le Fils Naturel (1858), Un Père Prodigue (1859), L’Ami des Femmes (1864), Francillon (1887). Grande ammiratore della scrittrice “protofemminista” George Sand, Dumas si spinge spesso a sud di Parigi per farle visita nella sua casa di Nohant. La chiama affettuosamente “chère maman”, e nel 1864 si mette spontaneamente all’opera per trasformare il suo romanzo Le Marquis de Villemer in un testo teatrale. Nel 1874 è eletto all’Accademia Nazionale di Francia ed insignito della Légion d'honneur. Victor Hugo, che da vent’anni disertava le sale dell’Accademia, vi ritorna appositamente per votare a suo favore. Coccolato da un più che discreto successo, può godersi la tranquillità nelle tante proprietà sparse nei dintorni di Parigi, ed è nella sua villa delle Yvelines, a Marlyle-Roi, che si spegne serenamente il 2 novembre del 1895. Le sue spoglie riposano nel cimitero di Montmartre, insieme a quelle di tanti talenti della letteratura. Jacopo Matano Il La Traviata Giornale dei Grandi Eventi 11 Rigoletto, Il Trovatore, La Traviata S La “Trilogia popolare” nell’esperienza verdiana in dalle prime biografie critiche su Giuseppe Verdi, un problema dibattuto è stata l’individuazione delle diverse fasi stilistiche. L’articolazione in “tappe successive” costituisce, in realtà, solo un espediente per facilitare e schematizzare l’analisi di una produzione musicale. In generale, a proposito del teatro verdiano, si parla di quattro fasi, i cui confini non sono in taluni casi univoci. E il secondo di questi momenti è rappresentato dalla cosiddetta “Trilogia popolare”. Ponte di passaggio fra il prima e il dopo, a dimostrazione di una continuità di pensiero e di una estrema coerenza costruttiva e creativa. Verdi, è noto, non ha lasciato scritti teorici di estetica. Il suo pensiero sul teatro emerge, nitido e chiaro dalle opere stesse e dalle lettere ai suoi librettisti, dove si parla di “parola scenica”, di situazioni, del coraggio che un artista dovrebbe avere di non fare né poe- «..l sia né musica quando il dramma lo richiede. Autentico uomo di teatro, Verdi amò sperimentare. La centralità del personaggio La trilogia è il frutto di una sperimentazione e, insieme, la preparazione in vista della “terza”, straordinaria fase, quella delle opere più complesse, che va dai Vespri Siciliani (1855) fino ad Aida (1872), dove potremmo dire si assiste ad una fusione dei caratteri delle fasi precedenti: la coralità tipica della prima fase e l’approfondimento del carattere dei personaggi. Verdi approda al Rigoletto dopo una lunga militanza nel teatro risorgimentale, scolpito in maniera granitica, con masse corali poderose, con personaggi-simboli di una umanità dominatrice o succube. Frasi gettate al pubblico dell’epoca come messaggi inequivocabili. In Ezio, console romano, che esorta Attila a tenere per sé l’Universo ma a lasciare l’Italia, si identificavano tutti i patrioti del tempo. Poco importava in questo clima approfondire i sentimenti del console, studiarne la psicologia, i moti dell’animo. Era un italiano che combatteva per la causa. E questo bastava. Dopo la sconfitta di Carlo Alberto nella Prima Guerra d’Indipendenza e il crollo delle illusioni, Verdi si indirizzò verso altri temi, in realtà già toccati in precedenza (di qui la difficoltà citata, di classificare e ordinare): i drammi individuali analizzati attraverso figure di forte spessore. C’era già stata l’esperienza shakesperiana del Macbeth con un personaggio affascinante nella sua crudeltà quale Lady Macbeth. E c’era stata anche Luisa Miller. In Macbeth , del resto, la “novità” non era solo ravvisabile nell’argomento, ma nel rapporto fra parola e musica e nel- Piccolo dizionario delle forme chiuse Ahi! le cabalette e Cabalette! Apriti o terra! Io però non ho tanto orrore delle cabalette e se domani nascesse un giovine che me ne sapesse fare qualcheduna del valore per esempio del “Meco tu vieni o misera” oppure “Ah perché non posso odiarti” andrei a sentirle con tanto di cuore…». Scriveva così Verdi e Ricordi nel novembre 1880 parlando del rifacimento del Simon Boccanegra. Le cabalette! Apriti o cielo! Era l’epoca in cui, sotto l’influenza del rigoroso teatro wagneriano, si guardava con severità alle vecchie “formule” del teatro italiano. La cabaletta, in voga essenzialmente nel primo Ottocento, era una breve aria vivace e di carattere in genere virtuosistico che concludeva una scena. Era una delle cosiddette “forme chiuse”, quei pezzi cioè con un inizio e una coerente conclusione musicale che hanno caratterizzato tutto il teatro italiano dal Settecento più meno fino al Falstaff (e anche successivamente) e che Wagner ha decisamente avversato. L’opera seria italiana (quella comica sin dall’inizio ha evidenziato una maggiore varietà strutturale) si è per buona parte della sua esistenza basata sulla contrapposizione dialettica fra due entità: il recitativo e l’aria. Il primo più tendente, appunto, alla recitazione aveva la funzione di sviluppare l’azione, far progredire la vicenda; la seconda più lirica, più vocalmente impegnativa, costituiva il momento statico della scena, esprimeva i sentimenti dell’interprete, le sue reazioni di fronte agli avvenimenti. Nel corso del tempo le due forme si sono trasformate (il recitativo ha lasciato il posto ad una struttura più articolata e complessa, l’aria si è sviluppata in molteplici direzioni), ma hanno continuato a caratterizzare il nostro teatro, spesso mescolandosi e collegandosi più strettamente fra loro o con altre forme: ad esempio il coro (sempre più importante nell’Ottocento, come elemento introduttivo della vicenda), oppure i pezzi d'insieme per giungere ai grandi concertati che l’opera seria ha ereditato dal teatro comico. Si pensi ai capolavori di Rossini, agli scoppiettanti finali dei primi atti del Barbiere di Siviglia o dell’Italiana in Algeri. R. I. l’esplorazione del “fantastico” (si pensi al mondo delle streghe, ma anche agli spettri) mai affrontato in precedenza dal musicista di Busseto. La trilogia attinse a queste esperienze e le approfondì. In Rigoletto, Trovatore e Traviata il musicista pone al centro un personaggio visto sotto due aspetti diversi: in Rigoletto, ad esempio, convive il buffone di corte e il padre preoccupato della incolumità della figlia; nella Violetta di Traviata c'è la cortigiana leggera e frivola ma c'è anche la donna innamorata capace di sacrificare la propria esistenza per l'amato, in Azucena del Trovatore convive la madre affettuosa (anche se di un figlio “adottato”) e la donna in cerca di vendetta. Personaggi complessi, dunque, che Verdi rende con genialità in una struttura teatrale nella quale se teoricamente le forme chiuse sopravvivono, in pratica sono talmente collegate sul piano drammatico e musicale da scorrere con continuità. Le Forme chiuse E’ proprio l’aspetto formale (unito naturalmente alla bellezza di certe pagine che non a caso hanno reso “popolari” le tre opere) a risultare particolarmente importante. Tutto il teatro italiano, come è noto, si è sempre strutturato secondo una successione di forme chiuse, essenzialmente arie e recitativi, con le opportune trasformazioni nel corso del tempo. Verdi non sfugge alla tradizione fino al Falstaff che segna invece il superamento del rapporto dialettico aria/recitativo a favore di una sorta di arioso continuo. La trilogia dunque non rinuncia alle forme chiuse, ma le combina e soprattutto le integra in maniera drammaturgica- mente geniale, tanto da “nasconderle”. Si prenda in Rigoletto, la celebre scena in cui il buffone arriva a corte per scoprire dove hanno nascosto la figlia. C’è una lunga parte introduttiva (il vecchio recitativo) in cui Rigoletto passeggia, scherza con i vari cortigiani, fa alcune domande per capire le complicità e le responsabilità. Poi quando viene a sapere che la ragazza è davvero lì con il Duca, urla ai costernati cortigiani «Io vo’ mia figlia!» e si lancia in una imprecazione violenta, «Cortigiani, vil razza dannata». A quel punto inizia l’aria. Ebbene fra i due momenti c’è una separazione musicale, ma non drammaturgica. L’azione si sviluppa ininterrotta e la cesura musicale diventa quasi impercettibile. Un altro esempio straordinario si trova nel Trovatore. Si tratta della scena del Miserere che offre un'idea estremamente precisa del concetto drammaturgico verdiano. La scena propone tre canti di natura diversa che prima si susseguono e poi si accavallano. C'è Leonora che canta in primo piano il suo dolore per la condanna a morte di Manrico: un canto in tonalità minore, affranto, spezzato, rotto ritmicamente; da un lato arriva, lontano, il canto dei detenuti, un «Miserere» accompagnato solo dal rintocco delle campane; e poi prorompe, in tonalità maggiore, il canto di Manrico, anch'egli assente dalla scena, rassegnato ormai alla morte. I tre momenti, se presi staccati, non appaiono di particolare interesse; ma la loro unione dà origine ad una scena di indubbio effetto. E’ il taglio, la concezione di scene come Miserere che dà la misura della genialità di un musicista e della sua «vocazione» teatrale. Roberto Iovino La Traviata 12 Il Giornale dei Grandi Eventi La Traviata nei giornali dell’epoca Critiche per un capolavoro Debutto - 6 marzo 1853, Teatro La Fenice T Gazzetta di Venezia, 7 marzo 1853 ra pel grande rumore, che ne han menato i giornali a Parigi, e per quella furia di repliche, che ne hanno dato all'Apollo, crediamo che i lettori sappiano non pur a memoria il soggetto, ma abbiano sulle dita fino alle parole di questo dramma: poich'esso non è altro, che la Dame aux camèlias del Dumas figlio, un po' raffazzonato, il dramma, alla foggia delle opere, e trasferito a' tempi del grande Luigi, per cavarne un po' più di grandezza e di lustro nelle decorazioni. Noi siam dunque sollevati dal disturbo di farne una più minuta esposizione; il che è bene per più d'un motivo, tra gli altri per questo “che la poca fatica a tutti è sana” II Piave ebbe il talento di trarre, come a dire, il sugo, il midollo, di stillare l'estratto, se non lo spirito, di quel grande composto, pur mantenendo tutte le più belle situazioni della favola, accrescendole anzi con la opportuna Introduzione del padre a tal sito, dove nell'originale l'opera sua non appariva, ma, con effetto minore, era soltanto narrata; allargando infine felicemente alcun episodio, com'è di quelle mascherate graziose, ch’ei tirò dentro al festino, e che cantano altresì i migliori versi del libro. Avvegnacchè, quanto a questi, secondo altre volte notammo, ei sa farli; iI che non importa altrimenti che l'estro debba sempre ri- bandonare la gaia vita per quell'amore. In tutti questi luoghi ha pari bellezza, la bellezza antica, quella che si usava e piaceva ai tempi della buon'anima del Rossinl, e risulta, non da sottigliezze di dotto ragionamento, ma dalla originalità del pensiero, dalla soavità e vivezza del canto, che ti tocca le fibre, e ti fa muovere d’in sullo scanno. Ha, fra le altre, il motivo del brindisi, ed una frase del duetto, che si ripete poi a pertichino del tenore di dentro, nell'ultimo tempo della caManifesto prima esecuzione della Traviata vatina, di spondergli a un modo. tal gusto e sapore, di tale Il prim'atto comincia con peregrinità d'accento, da una veglia sontuosa in non poterli appien deficasa la Violetta, così il nire; poiché la parola, Piave chiama la Margheche raggiunge pure i più rita; una cena ed un brinalti ed astrusi concepidisi. Seguita appresso un menti dell'anima umana, duetto tra soprano e tee li raffigura, non ha vanore, la Salvini-Donatelli lore a rappresentare e e il Graziani in cui succerender sensibili le forme, de la dichiarazione d'anè meno più semplici, more, che fa Alfredo a della musica. La Salvinicolei; poi la cavatina delDonatelli cantò que’ pasla donna, la quale non sa ancora risolversi d'ab- «N precipizio. Nessuno degli altri cantanti trovavasi in piena sanità e sicurezza di gola, quantunque ognuno renda giustizia alla rispettiva loro bravura. Laonde, pur concedendo che la musica fu magnificamente dall'orchestra sonata, tanto che in un delizioso preludio dell'atto terzo ella meritò che si levasse un grido universale di bravi, con tal fusione ed accordo di suono l'eseguirono i violini, che mossi pareano da un solo archetto, aspetteremo a giudicare il rimanente dell’opera, a non mettere il piede in fallo, ch'ella sia meglio cantata; e per intanto, qui rompiamo l'articolo, salutando il benigno lettore….. Tommaso Locatelli Curiosità L’ironia di Verdi, che cita se stesso Una simpatica poesia “editoriale” Il Caffaro, Genova, 13 marzo 1890 el mezzo del teatro Genovese/ Mi ritrovai con la Traviata oscura,/ Allestita in un modo assai cortese. Ma la Traviata avea tanta paura/ Che finì per cantare in assabese, /E questo fu per tutti una sventura. Poiché c'era il baritono Sammarco/ E'1 tenore Giuseppe Russitano/ Che sostennero bene il loro incarco. E con entrambi, il pubblico sovrano,/ D'applausi e di chiamate non fu par- si d’agilità, che molti per lei scrisse il maestro, con una perizia e perfezion da non dirsi: ella rapì il teatro, che, alla lettera, la subissò d'applausi. Quest'atto ottenne il maggior trionfo al maestro; si cominciò a chiamarlo, prima ancora che si alzasse la tela, per una soavissima armonia di violini, che preludia allo spartito; poi al brindisi, poi al duetto, poi non so quante altre volte, e solo e con la donna, alla fine dell'atto. Nel secondo mutò fronte ahimè la fortuna. Imperciocché nella guisa medesima che dell'arte oratoria fu detto ch'ella tre cose richiede; azione, azione, azione, tre cose egualmente in quella della musica si domandano: voce, voce, voce. E nel vero un maestro ha un bello inventare, se non ha chi sappia e possa eseguire ciò che egli crea. Al Verdi toccò la sventura di non trovar ieri sera le sopraddette tre cose, se non da un lato solo: onde tutti i pezzi, che non furono cantati dalla Salvini-Donatelli, andarono, per dirla fuor di figura, a co,/ Ma l'opera era monca e il caso strano./ A un certo punto un cavaliere antiquo/ Sulla ribalta venne ad avvertire/ Che la Traviata aveva un male iniquo,/Da impedirle perfin di proseguire/ Sicché l'opera andò nel modo obliquo/ Ch'io non vi dico, ne vi posso dire./Il teatro era pieno come un uovo/ E c’era folla di signore belle,/ Fatto piacente, ma non certo nuovo. Chiasso alla fine e suon di man con elle; Sicchè ancora intontito me ne trovo…/ E quindi uscimmo a riveder le stelle». «E’ assai selvaggio, molto silenzioso, riservato quanto mai, troppo diffidente. Il suo esteriore è austero, quasi sgarbato… saluta appena, non visita alcuno, lascia intrigare per lui, non dice motto e rumina. Uno strano Italiano». Così Jules Lecomte descrisse, nel 1855, Verdi. Uno strano Italiano, burbero, austero, un “orso” solitario. Capace, tuttavia, anche di una sottile e Frédéric Chopin divertente ironia e provvisto, soprattutto, di una simpatica autoironia che affiora, qua e là, nella sua produzione musicale. Un esempio significativo, tratto dall’estremo capolavoro del nostro compositore, quel Falstaff che nel 1893 chiuse, nel segno del sorriso, una carriera essenzialmente indirizzata verso il tragi- co. Dunque, siamo nel secondo atto, al povero Falstaff, “Don Giovanni” mancato e un po’ troppo attempato, viene tesa una trappola, un finto appuntamento con la giovane e bella Alice. A condurre il gioco è la matura Quickly che dipinge lo stato di ansia della fanciulla “innamorata” usando la frase «Povera donna»: parole intonate esattamente sulle stesse note sulle quali si autocommisera Violetta nel primo atto di Traviata nella sua grande e straordinaria scena: una scaletta discendente che da fa conduce a do. Verdi insomma si autocita prendendosi in giro e ispirandosi addirittura ad una delle sue eroine più grandi e affascinanti. Uno strano Italiano davvero. R. I. Il Giornale dei Grandi Eventi La Traviata 13 La “Rosa del Giappone”: fortuna e coltura della Camelia Romantico fiore d’amore senza profumo, ma anche carnosa pianta del thé O rigini leggendarie ed alterne fortune fanno della Camelia un fiore “storico” e, per i popoli dell’Estremo Oriente da cui proviene, un fiore “sacro”. La prima ad attecchire in Europa (Inghilterra), nella prima metà del 1700, fu la Tsubachi, (in giapponese = pianta dalle lucenti foglie) che fu battezzata con il nome di Camellia japonica da Linneo, in omaggio al gesuita originario della Moravia Georg Joseph Kamel (1661-1706), per i suoi importanti studi di botanica e per aver introdotto la pianta in Europa importandola dal Giappone nel 1730. In Italia, invece, nel 1794, attecchì la C. celebratissima (Giardini della Reggia di Caserta) ed altre, importate o ottenute da incroci, si andarono ben presto affer- mando. Comunque, la Camelia divenne popolare per merito della letteratura e del teatro: intorno al 1848, infatti, Alessandro Dumas figlio scrisse il romanzo La dame aux camélias, di cui operò un adattamento per il teatro poco dopo, rappresentandolo nel febbraio 1852. Un anno dopo Giuseppe Verdi, entusiasta, ne musicò il libretto adattato da Francesco Maria Piave con il titolo La Traviata. Solo dopo le due Guerre mondiali questa pianta si affermò definitivamente negli USA, dove nacquero numerose Associazioni di “cameliofili”, attive ancora oggi nell’organizzazione di Mostre e Premi. Il genere Camellia, (fam. Ternstroemiaceae o Teaceae), consta di circa 80 specie, riconducibili, secondo alcuni, ad un massimo di 15 od anche meno. Quattro sono, comunque, le specie più affermate: 1) la C. japonica. L., da cui è derivata la maggior parte delle varietà, con fiori di grande effetto, a petali di colore variante dal bianco al rosa al rosso, (anche sfumato o screziato), riuniti in forma talvolta scapigliata, talvolta perfetta e foglie coriacee, lucide, ovali, appuntite. 2) la C. sinensis, o Kuntze, con fiori bianchi e foglie piccole, ottuse, seghettate: coltivata a cespuglio, è la pianta da cui si ricava il the. In Italia viene coltivata soprattutto sul Lago Maggiore a scopo decorativo. 3) la C. sasanqua (o sasangua), Thunb., (dal giapponese “sazank-wa”= fiore del the di montagna), a fiori bianchi, rossi o multicolori e foglie ottuse, intagliate. 4) C. oleifera, Abel., coltivata in Cina per i semi oleosi, a fiori bianchi, piccoli e foglie acuminate e dentellate. Le due ultime specie sono le uni- che ad essere profumate. Oggi sul mercato è comparsa la camelia gialla, la C. chrisantha, per anni inutilmente vagheggiata; molto richieste sono pure le nuovissime camelie “miniatura”, a foglie e fiori molto piccoli. Fiori senza profumo I fiori di Camelia presentano forme molto diverse, che sono state raggruppate secondo queste denominazioni: semplice (Foto 1), semidoppia (Foto 2), doppia regolare (Foto 3) e irregolare, doppia a rosa (Foto 4), peoniforme (Foto 5) e anemoniforme (Foto 6). Le camelie si moltiplicano per: seme, talea, propaggine, margotta e innesto e si piantano in autunno (sasanqua: settembre- ottobre) o in primavera (japonica: marzoaprile), in qualunque tipo di terreno, purché non calcareo, meglio se leggermente acido (pH 5,5-6,5). Non necessitano in genere di fertilizzanti: tutt’al più, in piccole quantità, di concimi a lenta cessione; in compenso, essendo piante d’altura, beneficiano di pacciamature estive a base di foglie, torba o paglia, per tenere il terreno umido e pulito da infestanti. Apparentemente facili da coltivare, in realtà lo sono solo se l’ambiente si avvicina a quello originario: clima temperatoumido, terreno ben drenato, semiombreggiato e riparato dai venti. La pianta, infatti, non sopporta gli eccessi di sole, di acqua e di vento. Perché la camelia presenti, inoltre, una bella forma complessiva e «l’aria e la luce la attraversino», (come si raccomandano gli appassionati), sono importanti le potature leggere prima dell’inizio della nuova vegetazione, mentre piccole potature dei rametti morti risultano utili lungo tutto il corso dell’anno. Per la forma ottenuta possono essere variamente usate in giardino le arbustive per siepi, macchie sottobosco e spalliere (purché il graticciato di sostegno risulti scostato dal muro di 10-15 cm) e le arboree per boschetti e ombrelle tappezzanti; le precoci, invece, di forma più ridotta, sono perfette in vasi, anche pensili. Piante sempreverdi Fioriscono in inverno Le camelie sono piante sempreverdi, alte fino a 10 m, molto longeve e gratificanti, «perché sorridono d’inverno quando tutte le altre intristiscono»: sasanqua e sinensis fioriscono infatti da ottobre a marzo avanzato, perché più resistenti alle basse temperature; japonica da febbraio a maggio inoltrato, perché più sensibile al freddo e alle gelate: per una fioritura ottimale sarà utile, però, anche un diradamento dei boccioli, specie quando si infittiscono alle estremità dei rami. Comunque, una sapiente scelta scalare dei colori e dei tempi di fioritura darà al giardino, d’inverno, un aspetto scenografico spettacolare. «Prendete questo fiore..» «Perché?» «Per riportarlo» «Quando?» «Quando sarà appassito» «O ciel! Domani?» «Ebben, domani» Francesco Saccardo Docente di Orticoltura e Floricoltura Università della Tuscia - Viterbo. fig. 1 - fiore semplice fig. 2 - fiore semidoppio fig. 3 - fiore doppio fig. 4 - doppia rosa fig. 5 - peoniforme fig. 6 - anemoniforme La Traviata 14 Il Giornale dei Grandi Eventi L’affezione fatale a Violetta, reintrodotta dai flussi migratori N Tubercolosi, malattia romantica ora in pericolosa recrudescenza on poche malattie hanno improntato diverse epoche della storia dell’umanità. Così, se nel Medioevo aleggiava lo spettro angoscioso della peste, la tubercolosi percorre e suggestiona l’epoca del Romanticismo. Nell’800, anche a seguito dell’identificazione nel 1882 da parte di Koch del bacillo responsabile della malattia, l’interesse per la stessa crebbe consensualmente alla sua diffusione. Essa, che Leopardi in “A Silvia” chiama «…chiuso morbo…», visse nello stretto ambito di persone o gruppi, magari nuclei familiari, ma mai diede luogo a manifestazioni generalizzate (cosa che, invece, non può dirsi, ad esempio, né della peste, del colera o tifo). Il fatto, quindi, che la tubercolosi fosse nello stesso tempo malattia sociale, senza avere i crismi dell’epidemia, la rese quasi “diversa” agli occhi dei contemporanei che si sono susseguiti nel considerarla come “fenomeno”. Non a caso, come si comprese in seguito, essa allignava nei soggetti che, per la vita grama e stentata che conducevano, disponevano di difese immunitarie spesso non idonee. Pur se il quadro clinico aveva possibilità di svilupparsi nell’arco di anni, era altresì innegabile che colui che ne fosse affetto veniva ben presto a sapere del contagio a seguito della semplice osservazione della presenza di sangue nell’espettorato (emottisi). Ciò senza che vi fosse possibilità alcuna di qualche pietosa bugia, verso una malattia dall’esito mortale procrastinabile, ma sicuro (i casi di positiva risoluzione erano rarissimi). Da qui poteva risultare non eccessivamente arduo l’accostamento di chi solitario affrontava questa battaglia, al prototipo dell’ “Eroe rato solo nel 1946 dall’inromantico”. Una malattia troduzione della streptoche dopo le massicce micina e poi dell’isoniazicampagne sociali di prede nel 1952. La malattia è venzione e cura durante il dovuta ad almeno tre Ventennio era stata di fatspecie di Mycobacterium: to sconfitta, ma che ora il M..tuberculosis (il veccomplice anche l’HIV e la chio bacillo di Koch), il M. sua caduta di difese imbovis ed il M. africanum. Il munitarie ed i massicci M. tubercolosis è un bacilflussi migratori, si sta rilo, aerobio obbligato, a diffondendo nei Paesi occidentali dove la scomparsa del problema ha determinato negli ultimi anni un rilassamento delle misure sanitarie di controllo. Un rilassamento anche dell’opinione pubblica se si pensa che – secondo l’Osservatorio di Pavia - le principali edizioni dei TG italiani hanno dedicato alla malattia solo tre notizie in tutto il 2006. In Italia, invece, la comune tubercolosi colpisce 7 italiani e 100-150 Polmone colpito da tubercolosi stranieri ogni 100 mila abilenta crescita, con un temtanti e sono già 8 i casi nel po di generazione dalle nostro Pese di Super12 alle 18 ore. TBC, ceppi multiresistenLa TB uccide ancora milioti genotipizzati. ni di persone e l’OrganizLa malattia zazione Mondiale della Sanità afferma, secondo Il termine “tubercolosue stime, che circa 9 milioni di nuovi casi insorgosi”(TB) descrive una mano ogni anno, con 2 miliolattia infettiva che sembra ni di decessi, in gran parte aver tormentato l’uomo (90 %) nei paesi in via di fin dall’era neolitica. Solsviluppo, anche se attualtanto nel 1865, però, Villemente se ne osserva una min ne riconobbe la trarecrudescenza anche nelle smissibilità, mentre nel comunità più progredite a 1882 Koch ne individuacausa della diffusione delva l’agente causale in un le malattie da immunodebacillo. Nello stesso anno ficienza (HIV) e dell’immiil nostro Forlanini ne grazione di popolazioni propose con lo pneumoprive di difese immunolotorace terapeutico – che giche specifiche. Si reputa, di fatto metteva “a ripoinoltre, che il 20–40% della so” il polmone colpito - il popolazione mondiale sia primo rimedio efficace affetta da M. tuberculosis e per le forme polmonari, che tale organismo sia rerimedio che venne supe- sponsabile di oltre il 7% dei decessi annui. La diffusione Oggigiorno quasi tutti i casi di TB sono acquisiti per contatto inter–umano (da persona a persona) attraverso i “nuclei di goccioline” diffusi per via aerea. Micro goccioline di saliva e/o di muco, contenenti bacilli acidoresistenti che il malato polmonare diffonde nell’ambiente con la tosse, lo starnuto o la semplice parola. Quando tali goccioline di saliva si asciugano/essiccano o sono di dimensioni appropriate, possono essere sospese dalle correnti d’aria. Quando di diametro compreso tra 1 e 5 micron, tali particelle possono contenere 2 o 3 bacilli tubercolari. Particelle più voluminose impattano sulla mucosa delle vie aeree e vengono rimosse dal sistema muco-ciliare prima di poter causare infezione. Particelle più piccole sono, invece, in grado di raggiungere gli alveoli ed avviare l’infezione. Tale processo prevede l’ingestione del bacillo tubercolare da parte dei macrofagi. L’equilibrio virulenza dei bacilli–attività battericida del macrofago determina la sopravvivenza o meno dell’agente patogeno e, quindi, l’eventuale infezione. Il bacillo cresce lentamente all’interno del macrofago, pertanto nessuna reazione immediata dell’ospite è riconoscibile; è necessario, infatti, che cariche batteriche ingenti (circa 103–104 organismi) si sviluppino prima di indurre una risposta cellulare. L’ingente moltiplicazione batterica determina lisi macrofagica, con conseguente immissione di ba- cilli liberi nei vasi linfatici e da qui nel torrente circolatorio (diffusione ematogena). La via ematica consente al bacillo di raggiungere aree ad elevata pressione parziale di ossigeno, quali gli apici polmonari, i reni, l’encefalo e l’osso, ove si esplica ulteriore moltiplicazione del patogeno. L’organismo può reagire efficacemente ed allora il focolaio infettivo polmonare viene circoscritto e va incontro a fibrosi (tubercoloma) ed a calcificazione; se invece l’organismo è indebolito da denutrizione, disagiate condizioni di vita o insufficienza immunitaria, la lesione procede localmente distruggendo il polmone. A volte la diffusione del bacillo è così rapida e generalizzata che arriva a coinvolgere più organi e a produrre il quadro della cosiddetta TB miliare. Soprattutto individui immuno–compromessi (anziani, pazienti neoplastici, pazienti affetti da HIV), si presentano con febbre, debolezza, anoressia e perdita di peso, quadro ad esordio insidioso. La tosse e la dispnea sono relativamente poco frequenti, ma la mortalità è elevata. Meno frequenti sono le localizzazioni extrapolmonari: i linfonodi (la vecchia “scrofola” se interessati i linfonodi del collo), le meningi, le ossa, l’apparato urogenitale e quello gastrointestinale. Ai fini diagnostici della TB sono tipicamente utili le seguenti indagini: la radiografia del torace, il PPD test, i test sull’espettorato per il riconoscimento del bacillo. La terapia standard, sia negli adulti che nei bambini, prevede un regime di sei mesi: i primi due (initiation phase) con isoniazide, rifampicina o rifabutina, pirazinamide ed etambutolo, seguiti da 18 settimane di isoniazide e rifampicina. Salvatore Valente Direttore Scuola Specializzazione Malattie dell'Apparato Respiratorio Università Cattolica - Roma Il La Traviata Giornale dei Grandi Eventi N 15 La tubercolosi nell’opera Violetta e Mimì, stessa morte per due eroine diverse ella storia dell’opera le morti di Violetta e di Mimì sono senza dubbio fra le più commoventi e drammaturgicamente forti. Due figure così diverse, accomunate da quel mal sottile che non dà loro scampo, condannandole a consumarsi inevitabilmente. Una malattia, la tisi, all’epoca tragicamente di moda, come può esserlo oggi, purtroppo, il cancro. Mali subdoli, che aggrediscono e divorano dentro, lasciando scarse speranze di guarigione. Verdi e Puccini scelgono per le loro due eroine la medesima fine, nel loro letto, assistite dai loro amati che, volontariamente o involontariamente, avevano lasciato e che ritrovano proprio nel momento estremo. Parrebbe una medesima scena, con Mimì che ricalca il tragico destino di Violetta. E In realtà sono diverse perché è nettamente differente ciò che precede. La morte di Mimì è un evento annunciato addirittura dal primo atto quando la poveretta entra nella soffitta di Rodolfo quasi senza fiato e il giovane la soccorre pietosamente, innamorandosene immediatamente («Che viso d’ammalata», sospira ammirandola). Più avanti, alla Barriera d’Enfer, informa l’amico Marcello della grave malattia di Mimì, «la povera piccina è condannata» dice preso da sconforto. Fra leggerezza e tragedie, la trama di Bohéme accompagna il declino di Mimì e con esso probabilmente la fine dei sogni di un gruppo di giovani bohemien. In Traviata la morte assume ulteriori significati. E’ un atto di catarsi, di liberazione per Vio- letta ed è un atto di accusa tremendo nei confronti della società. Mimì vive nel suo mondo fatto di fiori finti, dal quale non può e non cer- ca nemmeno di uscire. E’ una ragazzina semplice e la sua scomparsa getta certamente nel dolore Rodolfo e i suoi compagni. Ma rientra in una sfera assolutamente privata e intima. La morte di Violetta ha, invece, un respiro universale, perché la giovane donna ha avuto il coraggio della ribellione e la dignità del ritiro. Ha saputo amare davvero e in nome dell’amore accettare l’estremo sacrificio della rinuncia. Segna la sua condanna quando tranquillizza Germont («Dite alla giovine, sì bella e pura»). La morte giunge, dunque, come una liberazione e nello stesso tempo come un terribile j’accuse contro il falso perbenismo che consente alla società di sfruttare una giovane donna, ma non permette alla giovane donna di rientrare nei binari della normalità. Mimì non ha bisogno di riscatto morale, Puccini ce l’ha dipinta (falsando Henri Murger) come una ragazzina delicata che se non va mai a Messa prega assai il Signor. La tisi per Violetta è l’unica vera via d’uscita, la sua morte pesa come un macigno su chi l’ha rifiutata (Germont e con lui la società) o su chi non le ha creduto (Alfredo). Mimì muore, semplicemente. Violetta muore e vince. Mimì si spegne sommessamente stringendo il manicotto di Musetta. Violetta muore cercando per l’ultima volta la vita e urlando «Ma io ritorno a viver, oh gioia». Roberto Iovino Il librettista Francesco Maria Piave «El Maestro el vol cussì…» ra figlio di un vetraio di Murano Francesco Maria Piave, librettista di Verdi in diverse opere, nato a Venezia nel 1810 ed avviato dal padre, come molti giovani del suo tempo, alla carriera ecclesiastica. Mentre continuava gli studi, si occupò con modesti lavori di traduzione, correzioni di bozze, stesura di articoli e novelle. Si dilettava anche nella composizione di canzoni e ballate, facendosi presto notare nell’ambiente intellettuale veneziano soprattutto per la sua abilità nell’improvvisare versi in dialetto. Nel 1842 fu notato dal conte Alvise Mocenigo, allora presidente degli spettacoli Alla Fenice, il quale lo chiamò come librettista ufficiale del Teatro. Incarico che Piave mantenne insieme con quello di direttore degli spettacoli e regista stabile, fino al 1859, quan- do Verdi lo fece entrare come “direttore della messa in scena” alla Scala. Il suo primo libretto fu il Duca d’Alba (1842) per Giovanni Pacini. A questo seguirono lavori anche per Saverio Mercadante (La schiava saracena, 1848), Federico Ricci (Crispino e la comare, 1850) ed altri musicisti contemporanei: in tutto, nella sua vita compose 61 opere musicate ed 11 incompiute, la produzione più prolifica fra i poeti melodrammatici dell’epoca. Per Verdi scrisse dieci libretti: I Due Foscari ed Ernani (1844), Macbeth (1847 e 1865), Il Corsaro (1848), Stiffelio (1850), Rigoletto (1851), Traviata (1853), Simon Boccanegra (1857), Aroldo (rifacimento dello Stiffelio) (1857) e La Forza del destino (1862). A questi si devono aggiungere nel 1846 la revisione dell’Attila di Temistocle Solera e due libretti mai musicati: Cromwell a cui Verdi preferì Ernani ed uno dal titolo sconosciuto, proposto come alternativa alla Traviata. Il rispetto e l’ammirazione che il librettista nutriva per verdi, lo resero disposto ad accettare il forte carattere del maestro. Famosa rimase la frase «El maestro el vol cussì…», che ripeteva ogni qualvolta fosse costretto ad apportare modifiche ed a subire interventi d’ogni genere sui libretti, a sopportare la noiosa Busseto, a prestarsi ai tradimenti ed ai malumori del compositore, il quale peraltro gli fu legato da profondo affetto e lo stimò più che ogni altro librettista. Nel 1867, paralizzato da un’apoplessia, Francesco Maria Piave si ritirò a vita privata, trascorrendo gli ultimi anni isolato ed in condizioni finanziarie pre- carie. Verdi costituì un fondo a favore della figlia Adelaide e promosse insieme con altri compositori ed all’editore Ricordi, un Album di romanze, dalla cui vendita fu tratto un ricavato a beneficio della giovane. Alla morte del poeta, avvenuta a Milano nel 1876, Verdi si occupò anche delle cerimonie funebri. Fedele seguace dei modelli del Romanticismo europeo, Piave aderì alla scuola avviata dal Romani, aggiornandola però con nuove esperienze linguistiche derivanti dai contemporanei, come Manzoni e Bodio, dai quali spesso prendeva in prestito intere immagini. Trasse ispirazione dagli scrittori romantici come Victor Hugo (Ernani, Rigoletto), Alexandre Du- mas figlio (Traviata) e Bayron (I Due Foscari, Il Corsaro), semplificando all’estremo le loro trame ed accendendole di forti passioni, ispirate a valori religiosi e patriottici. Per questa sua abilità nel costruire situazioni fu apprezzato da Verdi, il quale non dava importanza al valore dei suoi versi, considerati dalla critica «grossolani ed approssimativi». Oggi, invece, Piave è rivalutato anche come poeta ingegnoso e garbato. Mi. Mar