28 - Trieste Artecultura - maggio 2014 Nello specchio del tempo e della scena La strenua umanità de La traviata di Pierpaolo Zurlo Così come ci sono opere senza tempo, che paiono non invecchiare mai, esiste anche un altro tipo di opera: quella che non diventa mai madre e che nemmeno nasce come figlia. È questo l’eclatante caso di una delle più celebri partiture (se non “la” più celebre) del repertorio: La traviata, andata in scena con grande successo al Teatro Lirico “G.Verdi”. Sembrano nascere, queste composizioni, (quasi) dal nulla, senza un antecedente e prive d’un conseguente: rappresentano il momento massimo di tensione espressiva, quasi al calor bianco, e bruciano tutta la loro sorgiva carica d’emotività rimanendo poi sospese in un austero isolamento, pregno di significato. Ce n’è pochi, di questi capolavori, nella storia della musica (per il teatro) occidentale: L’Orfeo di Monteverdi, Le nozze di Figaro e il Don Giovanni di Mozart, il Tristan und Isolde di Wagner, il Boris Godunov di Mussorgsky. E questa, per l’appunto. Con Le nozze di Figaro, altra creazione controversa, condivide anche un ulteriore aspetto, non di secondaria importanza: il fatto che sia stata ideata per andare in scena in abiti moderni, condizionando in questo modo tutto l’aspetto – alquanto vetusto – della ricezione dell’opera d’arte da parte del pubblico, abituato (allora) a vedere a teatro tutto un armamentario di parrucche, pepli, cimieri, colonne, templi e tutto il restante catalogo di arcaismi varii che contribuivano a distanziare l’oggetto d’arte dall’uditorio. Ne La traviata è invece il pubblico a guardarsi rappresentato in scena, allora come oggi. E proprio su questo peculiare aspetto ha agito l’ormai “classica” regia di Henning Brockhaus, creata di concerto con lo scenografo ceco Josef Svoboda (1920-2002) nel 1992: un’enorme parete di specchi che s’alza nel corso del Preludio e che rimane inclinata per tutta la durata degli accadimenti, facendo vedere le scene di riflesso e consentendo al pubblico di percepire visivamente i cantanti come fossero sospesi in una storia che non è più la loro. Tranne poi farla raddrizzare – la parete – nella struggente scena dell’ormai prossima fine di Violetta, a ridosso del finale, per colmarsi dell’intero teatro, che in essa si specchia, completamente illuminato e muto, inerte testimone d’una piccola tragedia umana che sembra a questo punto essere frutto diretto della sua (nostra) più totale indifferenza. Di quell’indifferenza che può trasformare una piccola tragedia umana (realmente accaduta, tra l’altro) in una metafora di portata universale: quella che ai “valori” (morali) d’una società – che nel caso de La traviata è quella borghese di metà XIX secolo – oppone il fatale e feroce isolamento di chi quei valori infrange. Per quanto singolare possa sembrare, fu proprio quest’aspetto, l’estrema modernità ed attualità dell’opera, a siglarne l’insuccesso (a Venezia, a La Fenice, il 6 marzo 1853) e poi il successo, a poco più d’un anno di distanza (sempre a Venezia, ma nel più piccolo Teatro San Benedetto, il 6 maggio 1854). Anche se andò in scena con abiti retrodatati al 1700 circa, come da libretto, il lessico musicale che Verdi utilizza in quest’opera è talmente eversivo rispetto alle consuetudini dell’epoca da non poter lasciare indifferenti pubblico e 28 - Trieste Artecultura - maggio 2014 critica. In modo singolare chi ne percepì immediatamente l’estrema novità fu, paradossalmente, chi la recensì sull’Italia Musicale: che era il giornale del concorrente editoriale di Ricordi, il Lucca, e quindi pregiudizialmente sfavorevole, almeno in teoria. Eppure, così si può leggere: « La traviata è la migliore o almeno la più progressiva delle opere moderne (…) perché a noi assistendo a quest’opera ne par come d’assistere al dramma stesso di Dumas, tanto che non sembra nemmeno musica (corsivo nostro). (…) Verdi è inventore di un nuovissimo genere di musica, egli ha moltiplicato i suoi mezzi e vuole che essa sia capace di esprimere non solo i pensieri e i sentimenti in generale, ma anche tutte le loro modificazioni ». Un anno dopo, quando l’opera ebbe il successo travolgente che ancor oggi le si tributa, divenne quel che è: un’opera borghese a sfondo verista. Distanziandosi, ma pur legandosi alla Luisa Miller (1849) che la precede di poco: opera borghese, quella, ma a sfondo romantico; e da Stiffelio (1850), anch’esso d’ambientazione moderna e fortemente anticipatore di molte delle peculiarità vocali de La traviata. Non “figlia” loro, però: altra declinazione, ma nuova e irreversibile, d’un 29 - Trieste Artecultura - maggio 2014 medesimo sguardo che si china pietoso sulla difficoltà del vivere moderno. Ed è proprio quest’umana pietas a rendere ancor oggi questo « sogeto (sic) dell’epoca » (come in un improbabile italiano Verdi stesso scrive a Cesare De Sanctis il 1 gennaio 1853) vitale e credibile in ogni suo dettaglio. Anche in quelli più violentemente attaccati, a suo tempo: come l’implacabile – e a volte chiassoso – ritmo ternario che pervade l’intera partitura e che oggi si può legittimamente leggere per come Verdi lo intendeva, e cioè indifferente, superficiale specchio musicale d’un’epoca indifferente e superficiale. Che contrasta pesantemente, nei suoi apparentemente allegri (in realtà solo frivoli) ritmi di walzer più o meno veloci e polke varie, con il fragile equilibrio di silenzi, squarci laceranti a piena orchestra e cullante diradarsi di strumenti isolati che appartiene all’altra musica, quella delle emozioni e dei sentimenti. Della verità, in ultima analisi. Questi aspetti strumentali, che poi costituiscono l’ossatura principale dell’opera, sono quelli che l’abile direttore, Gianluigi Gelmetti, è riuscito a rendere in tutta la loro struggente bellezza, giocando sui contrasti, sui colori, sulle densità, fin dalle primissime misure: dirigendo con impeto, quando serviva, e con incalzante semplicità, quando necessitava, per non sgualcire la trasparente, inconsistente dolcezza delle ampie campiture melodiche che rendono così incisiva quest’opera. Dando alla pagina da cui sembra germogliare (ma a ritroso) tutta la narrazione – il “Prendi quest’è l’immagine de’ miei passati giorni” che è anche l’epilogo dell’opera – quell’austerità minacciosa e raccolta che lascia comprendere che chi muore in scena non è una peccatrice (come alla società borghese avrebbe sicuramente fatto piacere pensare) ma un eroe. E che degli eroi ha la nobiltà. E che Violetta Valéry, alter-ego di Marie Duplessis (al secolo Alphonsine Rose Plessis) morta nel 1847 a soli 23 anni, sia per Verdi una nobile figura non vi è alcun dubbio: ha sorpreso perciò la lettura forzatamente volgare, da postribolo o lupanare più che da cortigiana, impressa dal regista – fortunatamente nel solo primo atto – alla protagonista, Jessica Nuccio. Che ha assecondato questa visione ma è stata senz’altro molto più a suo agio nei due successivi atti, dove ha compiutamente costruito una credibile figura a tutto tondo, passando – e qui sta la grande difficoltà di quest’opera – dai delicati toni discorsivi a quelli più intensamente drammatici con un disinvoltura raffinatissima. Per quanto si possa comprendere come l’atteggiamento “caricato” del primo atto costituisca forte, volutamente accentuato motivo di contrasto con quello più umano che segue, rimane sempre purtroppo un inesplicabile fastidio nel veder alterata una figura che mantiene sempre, anche nei momenti di maggior, apparente frivolezza, un distacco, una misteriosa malinconia che la lettura registica non ha minimamente lasciato definirsi. 29 - Trieste Artecultura - maggio 2014 Migliore – e più pertinente – la resa d’insieme data nel secondo e nel terzo atto, favorita anche dal cruciale e, per Violetta, funesto scontro fra lei e Germont padre, uno straordinario Vitaliy Bilyy che ha donato timbro vocale pieno e incisivo ad una difficile figura, sottraendola abilmente alle pastoie della prevedibile, dignitosa leziosaggine borghese. Ogni pagina che Verdi scrisse per questo protagonista, ché tale risulta essere alla fine Giorgio Germont, venne curata, riscritta, migliorata proprio per dare massimo risalto e profonda, mesta autorità a questa voce d’un mondo costantemente atterrito dal “dire” degli altri e che solo alla fine dell’opera, con Violetta morente, è in grado di “cantare” il suo dolore nel constatare il danno procurato. Vitaliy Bilyy, con un’ottima pronuncia tra l’altro, ha saputo costruire un Germont ragguardevole per profonda maturità vocale ed interpretativa. Cosa invece non avvenuta al giovane, forse troppo giovane, Merunas Vitulskis, che ha esibito un bel timbro ed una buona presenza di palcoscenico, ma ha mancato di definire quell’amara duplicità che è la dannazione del suo personaggio, risultando stentoreo e deciso anche laddove il suo ruolo vocale, per come l’ha scritto Verdi, richiederebbe indecisione, mezzetinte e ossessiva infantilità. Intensa la scena del giuoco di carte, nel secondo atto, ma troppo caricata la cabaletta “O mio rimorso, o infamia”, che è – al contrario – tormentata e assai poco eroica, avendo come argomento il cruccio per il danaro che langue. Spettacolo sontuoso, in tutto l’insieme e in quasi tutti i suoi dettagli, con un coro elegante e vigoroso, i bei costumi di Giancarlo Colis, le piacevoli coreografie di Valentina Escobar e una regia che ha saputo trascinare il pubblico ad un trionfo di applausi. Pienamente e tutti meritati.