ffAfABABfIBAIOO IBOIb O bb EERT b ERT RT EIRT IN N IN II N I I RISORSE, RISORSE, RISORSE, RISORSE, CONFLITTI, CONFLITTI, CONFLITTI, CONFLITTI, CONTINENTI CONTINENTI CONTINENTI CONTINENTI E EEE NAZIONI NAZIONI NAZIONI NAZIONI Dalla Dalla Dalla Dalla rivoluzione rivoluzione rivoluzione rivoluzione industriale industriale industriale industriale alle alle alle alle guerre guerre guerre guerre irachene, irachene, irachene, irachene, dal dal dal dal Risorgimento Risorgimento Risorgimento Risorgimento alla alla alla alla conferma conferma conferma conferma della della della della Costituzione Costituzione Costituzione Costituzione repubblicana repubblicana repubblicana repubblicana FIRENZE FIRENZE FIRENZE FIRENZE UNIVERSITY UNIVERSITY UNIVERSITY UNIVERSITY PRESS PRESS PRESS PRESS sommario manuali umanistica – 3 – ii sommario sommario iii fabio bertini Risorse, conflitti, continenti e nazioni Dalla rivoluzione industriale alle guerre irachene, dal Risorgimento alla conferma della Costituzione repubblicana Firenze University Press 2006 sommario iv Risorse, conflitti, continenti e nazioni : dalla rivoluzione industriale alle guerre irachene, dal Risorgimento alla conferma della Costituzione repubblicana / Fabio Bertini. – Firenze : Firenze university press, 2006. (Manuali. Umanistica; 3) http://digital.casalini.it/8884535115 ISBN-10: ISBN-13: ISBN-10: ISBN-13: 88-8453-511-5 (online) 978-88-8453-511-5 (online) 88-8453-512-3 (print) 978-88-8453-512-2 (print) 909.8 (ed. 20) Storia moderna e contemporanea - Sec. 19.-21. © 2006 Firenze University Press Università degli Studi di Firenze Firenze University Press Borgo Albizi, 28 50122 Firenze, Italy http://epress.unifi.it/ Printed in Italy sommario Sommario Premessa ix Parte prima L’Europa e i suoi interlocutori dall’industrializzazione alla crisi irakena 1. Industria mercati e politica nell’Ottocento 1.1. Industrializzazione e controllo delle risorse 1.2. Treni, vapori, mercati 1.3. Conservazione e rivoluzione 3 7 9 2. Rappresentanza, Nazione e Stato nell’Ottocento 2.1. Censitario e universale: la questione elettorale in Europa 2.2. Stato-nazione e Patria: la crisi degli imperi multietnici 19 26 3. La stretta europea sulle risorse mondiali: verso una grande guerra 3.1. Francia e Inghilterra: controllo dell’Asia e scoperta dell’Africa 3.2.Verso lo sparo di Sarajevo 37 43 4. Asia, America, Europa tra sclerosi e modernizzazioni 4.1. L’Europa e il declino dei grandi imperi asiatici 4.2. L’alba del nuovo Giappone e la crisi europea 51 57 5. Sviluppo e politica nel secondo Ottocento europeo 5.1. Un nuovo ciclo economico per l’agricoltura e per l’industria 63 sommario vi 5.2. Radici ideali e organizzazione politica tra Ottocento e primo Novecento 6. La Grande Guerra e lo sconvolgimento sociale e politico europeo 6.1. La prima guerra mondiale, gli stati e le masse 6.2. Rivoluzione egualitaria, rivoluzione “reazionaria”, totalitarismo 65 71 77 7. Stati, risorse, progetti planetari: la “carta” della guerra 7.1. Economia e modelli di Stato dopo la prima guerra mondiale 7.2. Il nuovo militarismo tedesco: una società in guerra 7.3. Hitler e il progetto di guerra totale 93 99 103 8. Dal mondo dei blocchi all’Europa 8.1. Spartizione del pianeta e guerra della paura 8.2. Decolonizzazione,Terzo mondo, Nord e Sud della terra 8.3. L’identità europea tra il vecchio e il nuovo 111 118 143 9. Neoliberismo, globalizzazione, terrorismo planetario 9.1. Fine del sistema comunista e inquietudine islamica 9.2. Parabole incrociate: Stato sociale e radici della globalizzazione 9.3. Modelli di sviluppo, scontro di valori, verso il terzo millennio 10. Bibliografia parte prima 153 157 161 169 Parte seconda La storia italiana dal Risorgimento alla conferma della Costituzione repubblicana 1. Il Risorgimento: coscienza nazionale in un mondo che cambia (1815-1849) 1.1. Restaurazione e cultura costituzionale 1.2. Economia, cultura liberale e rivoluzione 1.3. Programmi democratici e intellettualità costituzionale 1.4. 1847-1849: la guerra italiana, la resistenza repubblicana all’Austria e alla Francia 183 188 192 196 sommario 2. La conquista dello Stato nazionale e costituzionale (1849-1860) 2.1. L’isolamento dell’assolutismo e il confronto delle idee patriottiche 2.2. Il Piemonte e lo Stato costituzionale moderno 2.3. La guerra franco-piemontese e l’azione dei democratici vii 205 207 212 3. Classe dirigente e Paese reale: responsabilità e compromesso dei liberali (1861-1882) 3.1. Il governo degli ottimati (la destra storica) 219 3.2. Il decisionismo laico-razionalista, il sentimento popolare, la democrazia, i limiti della destra. 223 3.3. Il governo pragmatico (La sinistra storica e il trasformismo) 228 4. La modernizzazione e le vocazioni della classe dirigente (1882-1900) 4.1. Colonialismo e protezionismo 235 4.2. La vocazione del decisionismo: il fragile liberalismo e Crispi 240 4.3. La vocazione degli ottimati e la crisi di fine secolo 248 5. Trasformazione sociale e politica tra l’età giolittiana e la guerra (1901-1918) 5.1. L’età giolittiana. Riformismo e antiriformismo 5.2. Il soldato-massa alla guerra (l’Italia nel conflitto mondiale) 6. Il compromesso delle vocazioni: elitarismo, decisionismo e fascismo (1918-1927) 6.1. L’autoliquidazione dello Stato liberale 6.2. Il fascismo al governo: una rivoluzione contro il diritto dei liberali 253 263 273 284 7. Trionfo del decisionismo e fragilità del sistema: lo stato totalitario (1927-1943) 7.1. Il fascismo e il controllo dell’economia nella crisi 7.2. Mussolinismo e fascismi, afascismo e antifascismo 7.3. Realtà e immagine dell’imperialismo italiano 7.4. Crisi economica, crisi militare e crisi politica del fascismo 293 296 302 307 8. Rinascita della Patria, costruzione della democrazia, vocazioni persistenti (1943-1970) 8.1. Pluralismo nella Resistenza, guerra di liberazione e rinascita della Patria 311 viii sommario 8.2. Coordinate politiche ed economiche del dopoguerra italiano 8.3. Il tempo dello sviluppo 320 327 9. Dagli anni Sessanta alle inquietudini ed ombre di fine secolo 9.1. Stato regolatore e programmazione 9.2. La recessione, le nuove tensioni, l’autunno caldo 9.3. L’epilogo dei vecchi partiti e l’emergenza morale 331 335 347 10. Bibliografia parte seconda 363 Indice dei nomi 383 PREMESSA Questo manuale di Storia contemporanea raccoglie e sistema organicamente i materiali di molte lezioni svolte nelle aule universitarie e in altre occasioni didattiche riguardanti allievi e uditori di tutte le età. Si giova pertanto del consiglio e del confronto di più soggetti, sempre stimolante e tale da sollecitare chiarezza espressiva e consapevolezza. È quanto chi scrive spera di aver trasferito in queste pagine, insieme a un’esperienza di ricerca ormai lunga e anch’essa fonte di suggestioni e riflessioni. L’impianto, come si vedrà, muove dalla convinzione che sia tempo di considerare la storia in un’ottica europea e, più in genere internazionale, sottraendosi alle tentazioni etnocentriche e nazionalistiche, senza dimenticare però il bisogno di considerare a fondo la storia nazionale. Come risolvere l’apparente ossimoro? Ho cercato di farlo dividendo il volume in due parti. Nella prima si sviluppano i temi in una chiave europea e mondiale, così che il caso italiano vi compare con i tempi e i modi di tutti gli altri paesi, secondo il rilievo assunto in quella prospettiva. Nella seconda, il caso italiano si ingrandisce e prende forma, fruendo delle coordinate imposte dalla prima parte, con piena attenzione alle movenze nazionali della politica, della società e dell’economia. Ciò costituisce una proposta di metodo didattico ma non vincola la possibilità di svolgere il lavoro alternando le due parti in modo sincrono, secondo una prassi più che consolidata dell’insegnamento. L’altra notazione da fare riguarda il rapporto tra l’aspetto politico-ideologico delle questioni e i caratteri sociali ed economici delle vicende. È mia convinzione che non vi sia una prevalenza a priori, rispettivamente, della struttura o della sovrastruttura. Non vi è una scaturigine materialista che determina idee e concezioni, né vi è un tradursi soggettivo immediato delle idee nella prassi di uomini e paesi premessa a prescindere dalle cose e dalle situazioni.Vi è un continuo amalgama delle categorie, un insieme inscindibile cui far riferimento, un’interazione che si traduce in forme della politica, in tipi di militanza, in modi di produzione, in atteggiamenti etici, in volontà e reazione, in avvenimenti degli individui, dei gruppi, degli Stati, delle conglomerazioni di Stati. E tuttavia è indubitabile che l’antico conflitto per le risorse determina gran parte delle vicende, in una dialettica continua e perenne con l’aspirazione alla pace che appare il grande e continuo antagonista sconfitto, ma non perdente in prospettiva, del cammino storico. Anche questo determina la composizione del manuale come tentativo di svolgere un quadro planetario con modalità comparative e insieme perseguendo la logicità cronologica come prima, ma non unica, manifestazione dell’amalgama storico. Da sola essa non basta e un manuale di storia contemporanea non è un oggetto passivo. Contiene sempre e comunque una prospettiva. In questo caso, il riconoscimento della complessità come chiave interpretativa, la convinzione che, ad ogni modo, non è possibile la definizione di una verità sola e assoluta, la consapevolezza che farsi interpreti degli avvenimenti implica la rivelazione della propria visione del mondo. Ed è quanto affido alle pagine di questo libro che spero rivelatrici di un senso condivisibile della cittadinanza. industria, mercati e politica parte prima L’Europa e i suoi interlocutori dall’industrializzazione alla crisi irakena l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi industria, mercati e politica 1. Industria, mercati e politica nell’Ottocento* 1.1. Industrializzazione e controllo delle risorse Tra Settecento e primo Ottocento, macchinismo e rivoluzione industriale avevano improntato società e cultura in Europa. Ingranaggi, meccanismi e modelli comparivano nella grande Encyclopédie degli illuministi – anche se molte manifatture continuarono a produrre utilizzando vecchi metodi produttivi e lavoro a domicilio – così che la tecnica andò influendo sul linguaggio, sul costume, sulla mentalità. La “rivoluzione industriale” proponeva, intanto, il passaggio a forme organizzate e accentrate di processi produttivi con uso elevato di tecnologia, mentre dettava un aspetto politico-economico fondamentale: la capacità della manifattura industriale di orientare e indirizzare attraverso le politiche nazionali il funzionamento e i prezzi dell’agricoltura. In Inghilterra, il vero e proprio processo poteva datarsi dal 1770 all’incirca, con i brevetti e le macchine a vapore, con l’accelerazione impressa alla produzione del cotone e con l’indotto del ferro e, in conseguenza, del carbone e del coke. Ne derivarono mutamenti significativi nella distribuzione della ricchezza tra agricoltura e industria, tra città e campagna, e sulla qualità della vita.Vi furono un aumento delle costruzioni navali, delle strade percorribili da grossi carichi, degli in* Licenziando queste lezioni di Storia contemporanea, ho desiderio di ringraziare l’amica Alessandra Staderini per i preziosi suggerimenti, Filippo Boni per il lavoro iconografico, Maria Grazia Parri per l’apporto redazionale. Ma un pensiero particolarmente grato va ai tanti studenti dei corsi fiorentini di Scienze Politiche e di quelli pratesi di Relazioni Industriali, oltre agli altri della sezione di Dogaia, che con l’attenzione, le osservazioni, i suggerimenti, la passione, in tanti anni, hanno stimolato al chiarimento e all’approfondimento. A tutti loro e a quelli che verranno il più caro saluto. Industrializzazione in Inghilterra l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi vestimenti in studi per nuovi mezzi di trasporto, di illuminazione, e della disponibilità dei capitali. Dal 1780 in poi, l’Inghilterra registrò indici crescenti della produzione industriale, rispetto a quella agricola, ampliando spedizioni di carbone, estrazione di rame, offerta di tessuti lavorati, di vestiario, di cotone. L’industria del cotone alla fine del secolo era la nuova grande industria più affermata, mentre un’industria vecchia come quella del ferro ebbe grande slancio. In tal modo, l’Inghilterra esercitò un ruolo guida nei processi di sviluppo del sistema cui apparteneva e cioè del sistema che, imperniato sull’economia europea, controllava un’area assai più vasta estesa anche all’Asia e, nonostante la crescita delle sue ex colonie, all’America. L’Inghilterra era alla testa dello sviluppo, in quanto era la prima a sperimentare il bisogno di incrementare la produzione e soddisfare una domanda crescente. Il tasso demografico incrementato dal Settecento e le migliori condizioni di vita, insieme all’offerta allettante di prodotti, chiedevano appunto risorse alimentari crescenti e vestiario migliore. Qui erano le ragioni degli stimoli all’agricoltura e all’industria. Le antiche vie delle spezie che avevano fatto la ricchezza degli esportatori europei e delle manifatture continentali, tra il Medio Evo e il Rinascimento, divenute poi le vie dei grandi traffici coloniali di zucchero, tabacco, pellicce e schiavi, dovevano servire a dare le tante cose utili a una nuova domanda. In primo luogo le fibre tessili per il cotone.Verso la metà del XIX secolo, giungevano a centri come Liverpool fibre di quel materiale dall’America, dall’India e dall’Egitto, per essere poi smistate alle manifatture dell’isola britannica e a quelle continentali. Ed era tanto e tale il traffico di quel prodotto che ne esistevano borse d’acquisto tanto nei luoghi americani della produzione e dello smercio che in Europa. Poi altri prodotti, come il carbone, specialmente richiesto dopo l’invenzione della macchina a vapore, ma anche, per mezzo di essa, rintracciabile ad ancora maggiore profondità, oggetto di ricerche scientifiche in tutti i paesi europei, tanto nella forma fossile che in quella artificiale. Oggetto anch’esso di uno smercio calcolabile nel 1800 a 100 milioni di tonnellate fu un po’ il materiale protagonista per decenni. Intorno poi, completavano il quadro il legname per le costruzioni civili e navali, per l’accensione dei forni e così via, e ancora il grano e i prodotti alimentari. L’industrializzazione si accompagnò ad una ricerca delle risorse che, dapprima estratte sul territorio nazionale e dai territori dipendenti, divenne sempre più incalzante. Bisognava garantirsi l’uso delle risorse non rinnovabili e quella sarebbe stata la necessità da coprire per tutto il tempo seguente. Il carbone stesso era l’esempio di una risorsa naturale o ar- industria, mercati e politica tificiale prodotta da risorse naturali che bruciava in enormi quantità e non era rinnovabile con gli stessi tempi. Risorse, viaggi per procurarsene, difesa dei mezzi di trasporto, accompagnarono l’affermazione di un bisogno di potenza che dipendeva ormai da una necessità perenne. Un grande sommovimento mutava i caratteri del sistema di vita sociale ed economico europeo. La proprietà fondiaria non era più l’elemento maggiormente connotativo della ricchezza delle nazioni, delle élites dominanti e dei gruppi dirigenti. Ormai la finanza era più fortemente attratta dai grandi investimenti che si concentravano intorno alle ferrovie, alla navigazione e alle grandi infrastrutture. Il funzionamento dell’industria e dei commerci spostava flussi di denaro internazionale e giustificava tentativi di supremazia, più che delle dinastie, com’era avvenuto un tempo, dei gruppi di interesse di cui, naturalmente, le Case regnanti erano autorevoli e cospicui componenti. In altri termini, le guerre si sarebbero fatte per un insieme complesso in cui rientravano le vecchie motivazioni che si legavano alla parte agraria e fondiaria dei ceti dominanti, ma si sarebbero fatte anche per la supremazia finanziaria, dovendo però tenere conto che, nel sistema indotto dalla nuova economia, occorreva tenere conto di tecnici, lavoratori e ceti intermedi, i quali, come le rivoluzioni osservate avevano dimostrato, avevano già rivelato capacità di elaborazione e associazione. Ciò che valeva per l’Inghilterra valse man mano per tutti i paesi che si modellarono economicamente sul sistema industriale del largo consumo, che faceva riferimento soprattutto a tre elementi: il cotone, il carbone e l’acciaio, ma anche, in modo speculare alla razionalizzazione e all’incremento con mezzi moderni, l’agricoltura. Fu così per la Francia che almeno in parte, accolse il modello inglese in modo non passivo – poiché produsse invenzioni di macchine, sistemi di lavoro e organizzazione produttiva – anche se dovette comunque ricorrere a tecnici inglesi. La prima differenza importante però consisté nel più marcato intervento dello Stato a promuovere gli sviluppi. La messa in opera di sistemi finanziari e bancari adeguati allo sviluppo capitalistico fece parte di questo processo e fu anzi occasione di nuove importanti fortune. La prima fase di industrializzazione fu improntata fatalmente al settore tessile, e naturalmente dovette misurarsi con la concorrenza inglese. La concatenazione di conflitti, tensioni, trattati che riguardò l’Inghilterra e la Francia dalla guerra americana alla Rivoluzione francese era già indicativa di un intreccio di questioni che si collegavano a quegli sviluppi. La necessità di garantirsi spazi e libertà commerciali, nel continente europeo e nei mari, di garantirsi le rotte davanti all’azione delle piraterie, specialmente in aree come quella delle Antille, era cruciale per Industrializzazione francese e ragioni di conflitto Industrializzazione e mercato in Germania Altre industrializzazioni verso le guerre moderne l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi la strategia economica francese. La Rivoluzione francese, che intendeva eliminare i vincoli feudali all’industrializzazione, determinò una impasse provvisoria, ma aprì anche una stagione di estremo favore per la manifattura e il suo sviluppo, e così fu ancora di più negli anni napoleonici. La presenza di due potenze interessate allo stesso modello di sviluppo economico le pose però in collisione e penalizzò in buona sostanza la Francia: vi furono perdite di importanti mercati di sbocco e di transito come San Domingo, scomparsa di mercati come quello stesso americano che avevano dato grande risultato fino alla rivoluzione, difficoltà estreme nel reperimento delle materie prime per la grave inferiorità sui mari. Ciò anche se non si interruppe la continuità di un processo di rivoluzione industriale che comunque rimase per rilanciarsi dopo la caduta di Napoleone, creando nel complesso solide basi finanziarie e bancarie e strutture industriali importanti. In Germania, alla fine del Settecento, erano presenti elementi di in­ dustrializzazione, ma il quadro politico assai più frammentato rese più tardi i processi. Se vi fu attenzione alla Francia e ad altri paesi­ “in cammino”, l’Inghilterra fu anche qui il modello di riferimento, per quanto avvantaggiata in termini di concorrenza, specialmente nel settore tessile. La Germania si giovò di forte disponibilità di materie prime, in particolare del carbone e del ferro, ma soltanto nel lungo periodo, anche se già alla fine del Settecento c’erano buoni impianti produttivi nella Ruhr e industrie esportatrici nella Renania, nella Vestfalia e in altri territori. Il controllo delle miniere, intensamente seguito dalle autorità in modo capillare e predominante, fu importante fino alla prima metà dell’Ottocento. Restarono i ritardi dovuti alla frammentazione politica almeno fino a quando gli stati tedeschi, nel 1834, non composero la prima lega doganale, lo Zollverein, una sorta di mercato di libero scambio interno.Teorizzato dall’economista List, esprimeva l’esigenza di rafforzare un’area debole davanti ai paesi già inseriti nella rivoluzione industriale e di colmare, con un proprio mercato. lo svantaggio. Fino ad allora, la mancanza di un’economia di mercato e la frammentazione, in assenza di un proprio retroterra coloniale, rappresentarono elementi di ritardo. Prima ancora però le riforme in Prussia, ai primi dell’Ottocento consentirono almeno di alleviare il peso veramente forte delle permanenze feudali. Con proprie modalità si svilupparono anche altri casi, come il Belgio, la Svizzera, e i Paesi Bassi, ma il senso del discorso non cambia, perché ciò rientrava nel determinarsi di aree ad alto sviluppo che, per sostenersi, avevano bisogno di partecipare al controllo delle risorse e di eserciti e marine militari per la difesa dei diritti sui mercati e l’acquisizione di nuove fonti di approvvigionamento. Del resto, se le guerre industria, mercati e politica dei francesi in Europa avevano ragione nello scontro tra l’assolutismo e la rivoluzione, molti loro risvolti riguardarono il controllo delle risorse, delle miniere e delle materie prime. Ma il nemico più grande fu l’Inghilterra, in uno scontro ininterrotto sui mari, ma soprattutto sul piano delle rispettive capacità di resistenza economica. In un certo senso, per questo, le guerre del periodo napoleonico furono le prime guerre dell’età nuova dell’industrializzazione. 1.2. Treni, vapori, mercati La rivoluzione nei trasporti fu l’altra faccia della rivoluzione economica. Fino all’inizio del XIX secolo prevalevano ancora le tradizionali forze muscolari dell’animale o dell’uomo, con i loro ritmi immutabili. Portare una cassa di materiali lavorati dalla Toscana in Germania poteva comportare un mese e mezzo di viaggio su strade disagevoli, oltre che costi molto elevati. Nel corso di quel secolo, la ferrovia e la navigazione a vapore mutarono profondamente il quadro, prima di tutto sul piano della velocità, poi, ammortizzati gli impianti, sul piano dei costi. Aperta la prima linea ferroviaria in Inghilterra, nel 1825, i chilometri di binari si moltiplicarono ovunque, modificando scenari geografici e soprattutto abitudini mentali e organizzazione del lavoro. In più, poi, il settore delle costruzioni ferroviarie costituì un nuovo grande campo di investimento, mobilitando risorse tecniche e capitali, e dando impulso al sistema azionario su larga scala e ai grandi gruppi internazionali di tipo bancario. Fu così in Inghilterra e in Europa, ma anche negli Stati Uniti, dove si dovevano coprire enormi distanze continentali. La ferrovia e la navigazione a vapore collegarono man mano i territori che ricadevano sotto la conquista europea, e servirono ad integrare le economie, consentendo il trasporto veloce di grandi quantità di merci. Fu uno dei motivi che indirizzarono i paesi colonizzati a produrre un solo tipo di merce, come in una unica grande catena di produzione che, organizzata su larga scala, consentiva economie maggiori nel trasporto. Consentendo il popolamento intensivo in America, l’accelerazione di fenomeni migratori in Asia e in Africa, e il trasporto veloce delle truppe per compiere le colonizzazioni, i nuovi e più potenti mezzi di trasporto svolsero una funzione politico-economico-sociale. Così fu in America latina e in Africa, dove le ferrovie servivano prima di tutto ai grossisti esportatori di prodotti agricoli e minerari, e in India per gli scopi commerciali e militari degli inglesi. Sulle rotte prima dominate dai grandi convogli a vela spagnoli, portoghesi, inglesi, olandesi, le nuove navi amplificarono il volume di merci La rivoluzione su strada­ ferrata La rivoluzione per vapore­ e per mare Nuove rotte e nuova agricoltura l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi trattate e le velocità di trasporto. Soltanto che ora, alla metà dell’Ottocento, bisognava rivedere la dimensione e la profondità dei porti, la loro organizzazione interna, la qualità e la dislocazione dei magazzini, come avvenne, ad esempio, intorno al 1849, a Marsiglia, Genova, Livorno, per la sola area alto mediterranea. Tuttavia, la marina a vapore fece maggiore fatica a superare la concorrenza della marina a vela di quanto ne facesse la ferrovia a lasciarsi alle spalle i sistemi precedenti. Ciò perché il guadagno offerto dal viaggio in ferrovia sulla trazione animale era assai superiore rispetto a quello che si poteva riscontrare con la navigazione a vapore rispetto a quella a vela. Il commercio internazionale trasse vantaggio anche dai sistemi di co­municazione telegrafica che davano una capacità di movimento ai capitali ed ai sistemi borsistici assai superiori di quella precedente, contribuendo a quello che, nel XIX secolo divenne con sempre crescente evidenza un “commercio mondiale unificato”. E di questo fenomeno fece parte anche la mobilità fortemente accelerata delle persone, con flussi migratori importanti, legati strettamente alle nuove condizioni che si determinavano nell’intreccio tra nuove occasioni e forme del mercato del lavoro industriale, e le nuove modalità della produzione agricola. La navigazione a vapore stimolò la ricerca di rotte più adatte e percorsi più rapidi, dando luogo alle grandi iniziative di collegamento che si realizzarono rispettivamente con il Canale di Suez e con il Canale di Panama. Del resto, la prima idea di un progetto per il Canale di Suez fu avviata da Napoleone, durante la campagna d’Egitto, salvo poi la stasi determinata dagli insuccessi e dal controllo inglese. Occorsero decenni ed il Canale fu aperto nel 1869, ma di esso si parlò intensamente molto prima e specialmente da quando, nel 1854, l’impresa apparve veramente realizzabile per il superamento delle difficoltà egiziane. Così fu anche per il Canale di Panama, i cui progetti statunitensi si fecero concreti attorno al 1855. Rimuovendo quei due blocchi alla circolazione rapida delle merci, si abbandonavano finalmente le vecchie rotte che per secoli avevano privilegiato il Capo di Buona Speranza e lo Stretto di Magellano, consentendo invece percorsi, non soltanto molto più brevi, ma svolti attraverso porti più ricchi e popolati, con la conseguenza di ridare slancio, nel caso di Suez, al commercio dell’Europa con l’Asia e con l’Australia, e di tornare a fare del Mediterraneo un centro dinamico dell’economia. Analogamente Panama favoriva rapidi collegamenti tra l’Atlantico e il Pacifico. Tutto questo, mentre rafforzava il ruolo dell’Europa nell’area mediterranea, destava un’attenzione assai più forte ai territori africani che si affacciavano sui percorsi legati a Suez, aprendo la via a un nuovo industria, mercati e politica colonialismo.Vi furono infatti grandi aspettative per la navigazione, la costruzione di ferrovie locali, la copertura di esigenze militari, perfino per l’industrializzazione che doveva provvedere a tutto questo. Anche l’agricoltura aveva le sue opportunità nel provvedere più largamente ai bisogni di operai e militari impegnati nella colonizzazione, ma doveva in compenso prevedere la concorrenza dei nuovi mercati. Nonostante la spinta a modernizzarsi, e a divenire cliente dell’industria per i prodotti chimici, restava comunque arretrata e perdente. In ogni caso, la manodopera occorrente – divenuta eccedente nei settori più avanzati – e quella incapace di mantenersi nei settori arretrati finirono per costituire a un importante flusso di emigrazione che contribuiva alle fortune della navigazione. Questo fenomeno fu una via di fuga dalla miseria, ma anche una fonte di ricchezza per i paesi che vedevano tornare le “rimesse” degli emigranti, e fu un canale di colonizzazione culturale quando le migrazioni si diressero su zone colonizzate a basso livello di “difesa culturale”. Fu così uno strumento di omogeneizzazione dei sistemi mondiali al sistema europeo contro cui talvolta lottarono con grande energie le forze autoctone. 1.3. Conservazione e rivoluzione Il conflitto di vecchie e nuove forze tra modernizzazione e stasi implicò conflitti tra gli stati europei, e tra l’Europa e le aree mondiali, ma determinò anche scontri sociali, sviluppi ideologici e rivendicativi, riflessi politici decisivi nei singoli paesi, e tutto questo richiese risposte politiche e istituzionali. All’inizio dell’Ottocento, l’esperienza napoleonica aveva proposto, sotto forma di monarchia imperiale, un modello di dittatura fondato sul mandato popolare che affermava definitivamente la presenza politica della borghesia. Il sistema elettorale chiamava al voto tutte le classi sociali anche se con limitazioni tecniche importanti, e lo Stato, fortemente centralizzato, offriva ai cittadini, con il nuovo Codice napoleonico, la certezza del diritto. Quel modello si aggiunse agli altri che si erano determinati storicamente fino ad allora, tra i quali: il modello inglese della monarchia costituzionale (senza un rigido testo scritto); il modello repubblicano con diverse varianti: quello costituzionale e federale americano; quello democratico giacobino del 1793, fondato sull’eguaglianza e sul suffragio universale, per quanto mai attuato; quello repubblicano moderato e censitario, senza sovranità popolare, del Direttorio del 1794; quello spagnolo di Cadice del 1812, di tipo monarchico-costituzionale moderato, con elezioni a tre gradi di suffragio. Modelli di Stato e linguaggi della politica 10 Francia e Inghilterra Il bipolarismo inglese Impero asburgico e Santa Alleanza l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi Sopravviveva solidamente il modello assolutistico dell’antico regime, tuttora rappresentato dai vecchi imperi, anch’esso con varianti: il modello fondato sulla rappresentanza degli interessi nazionali (caso asburgico), quello fondato sull’autocrazia (caso russo), quello ottomano di un forte dominio su base religiosa con privilegio ad alcune nazionalità ed a forte arretratezza economica. Con la caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna, tra il 1814 e il 1815, tra quei poli si determinarono equilibri e si aprì un confronto che ebbe a protagoniste, da una parte le grandi potenze assolutistiche, Austria e Russia, dall’altra, le potenze ad orientamento liberale, Inghilterra e Francia. L’equilibrio fu garantito sul piano politico con accordi precisi di sistemazione delle aree di influenza in Europa. Quanto alla Francia, ricondotta ai propri confini pre-rivoluzionari, non tornò all’assolutismo, ma ebbe un assetto monarchico-costituzionale con prevalente potere del re, Luigi XVIII. Il peso esercitato dai ceti finanziari e dalle nuove classi create dalla rivoluzione industriale, però, fu determinante nel definirsi degli assetti interni, così che il potere monarchico, passati i primi anni e specialmente morto Luigi XVIII, ebbe una sostanziale fragilità e fu sottoposto alle forti pressioni della cultura rivoluzionaria e della memoria napoleonica. A suo modo, anche l’Inghilterra, che pure non vide in discussione l’assetto monarchico-costituzionale, conobbe le tensioni indotte dal quadro economico-sociale mosso dall’impetuosa industrializzazione. Poté però trasformare quelle tensioni in una normale dialettica politica – pure se non mancarono episodi di repressione e fermenti rivoluzionari – per la forza di istituzioni più avanzate di tutte le altre europee sotto il profilo dei diritti civili. Sotto il profilo dei leaders e dei protagonisti della lotta politica, della rappresentanza parlamentare, i conservatori vengono riferiti spesso a Burke e alla matrice controrivoluzionaria seguita al 1789. In realtà il caso inglese mostra come le divisioni nella élite politica risalissero alle differenze religiose ed al contrasto degli interessi dell’età moderna: tendenzialmente i tories esprimevano le aspettative della campagna – di cui erano portatori per via delle leggi elettorali i soggetti nobili – e i whigs le aspettative della città, e specialmente del commercio londinese, qui rappresentato dai più autorevoli mercanti. Il partito tory aveva trovato coesione nella “lotta nazionale” inglese contro i francesi eredi della rivoluzione, e da questo trasse forza a lungo, almeno fino a quando dal continente non si fece più forte la sfida del liberalismo aperta dai moti del 1820 e ancor più poi dal successo liberale in Francia del 1830. L’Austria si vedeva confermato il predominio sull’Europa centroorientale e sull’Italia, divisa in Stati assoluti sotto dinastie diverse (salvo industria, mercati e politica 11 lo Stato pontificio, di forma teocratica). Influiva anche su gran parte dell’area germanica, organizzata in una confederazione di Stati ancora numerosi (nonostante il ridimensionamento da circa 300 a poche decine), tra cui la Prussia, che aveva partecipato autorevolmente alle guerre contro Napoleone ed era condizionante. Nella Confederazione tedesca, infatti, l’Austria esercitava la presidenza, ma politicamente vi erano un grande equilibrio ed autonomia pressoché assoluta sul piano interno e internazionale degli Stati. In più, poi, l’Austria era il perno del sistema di controllo che, sotto il nome di Santa Alleanza, raggruppava la Russia, la Prussia e vari altri Stati via via associatisi, per impedire qualsiasi tentativo rivoluzionario nazionale. Inventata in tal modo dallo zar Alessandro I, quell’alleanza, cui fecero riferimento tutti gli Stati assoluti, compresi alcuni regni italiani, fu determinante, intervenendo contro i focolai di rivoluzione nel 1820-1821 e nel 1830-31. In Europa, però, si svilupparono, dopo il Congresso di Vienna, fermenti nazionalistici e insofferenze delle classi che si sentivano escluse dalla modernizzazione avviata nell’Europa occidentale o che la temevano. Il legame caratterizzò ovunque, in maniera epocale, un insieme di aspirazioni nazionali, democratiche, liberali, costituzionali, estremamente diverse tra loro, ma tali da dar luogo ad una sintesi rivoluzionaria fortemente incisiva e pericolosa per gli assetti esistenti. Ciò si verificò principalmente negli Stati assoluti, ma non risparmiò neppure quelli liberali, tanto che, nella stessa Inghilterra, tra il 1819 e il 1820, gravi tensioni sociali, sull’onda della crisi economica, portarono all’attenuazione provvisoria delle libertà civili ed a cruente repressioni delle agitazioni. I fenomeni agirono su larga scala. In America latina, specialmente dopo che la crisi spagnola per l’invasione napoleonica nel 1808 aveva dato slancio al movimento indipendentista per l’autogoverno, dal 1817 aveva preso slancio il grande movimento rivoluzionario di Simon Bolivar, ed altri territori, come il Brasile, conseguirono la liberazione dal vecchio colonialismo. Proprio in Spagna, tra le truppe che avrebbero dovuto partire per intervenire in quelle terre scoppiò invece la prima scintilla della rivoluzione europea del 1820-1821. Protagoniste le società segrete, eredi della massoneria – e in esse i giovani ufficiali portatori di aspirazioni economiche e politiche, desiderosi di affermare forme di governo costituzionale – quei moti interessarono, dopo la Spagna anche gli Stati italiani dove esistevano eserciti organizzati, come il regno delle Due Sicilie e il Regno di Sardegna. Ovunque fallì il tentativo di coinvolgere le case regnanti nella trasformazione dal regime assoluto al regime costituzionale, mentre la Aspirazioni nazionali, modernizzazioni contraddittorie, cospirazioni 12 La rivoluzione e il conflitto nel mondo costituzionale e liberale l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi segretezza delle organizzazioni non favorì la comprensione dei moti da parte di altri gruppi sociali. Inoltre, giocò un ruolo determinante la divisione dei rivoluzionari tra moderati, che tendevano a far partecipare una minima parte della popolazione, e i democratici, intesi ad una partecipazione più ampia ed a forme di distribuzione della terra. I moti furono sconfitti per l’intervento della Santa Alleanza guidata dall’Austria – con larga partecipazione degli altri Stati, compresi Francia e Piemonte – ma lasciarono un forte segno, specialmente per il richiamo all’idea di costituzione, per il largo uso di simbologie rivoluzionarie, per la circolazione della stampa. L’idea rivoluzionaria si sviluppò poi in Grecia in ambienti nazionalistici e volenterosi di rinnovamento economico contro il dominio ottomano. Alla difesa della rivoluzione, iniziata anch’essa nel 1821, contribuirono molti volontari europei provenienti dalle altre rivoluzioni sconfitte e alcuni governi che vedevano nella crisi dell’Impero ottomano un’occasione di espansione marittima e commerciale nel Me­diterraneo di grande rilievo. La spietata repressione turca alimentò sentimenti di rivalsa cristiana che compattarono ulteriormente l’opinione pubblica europea e che, con il concorso interessato delle potenze, consentirono nel 1832 di giungere alla resa turca. Quando la Grecia divenne indipendente, la rivoluzione era tornata a vincere anche nell’Europa occidentale. In Francia, infatti, il conflitto tra la monarchia e le forze liberali che ambivano ad un ruolo più influente del Parlamento, iniziato subito dopo la concessione della prima Costituzione del 1818, giunse a un punto di rottura nel luglio del 1830. In quella lotta si riflettevano le aspirazioni dei ceti finanziari per un più grande sviluppo industriale e commerciale e la cultura dei liberali moderati. Le tre giornate del luglio 1830 rovesciarono così il vecchio ordine, coinvolgendo anche la popolazione parigina ed anzi vedendola riproporre toni giacobini che alcuni degli stessi organizzatori della rivoluzione videro subito con preoccupazione. Ne sortì un regime costituzionale a base parlamentare, anche se su base elettorale molto contenuta, in un quadro fondamentalmente moderato ed elitario. Il liberalismo costituzionale emerso dopo la Restaurazione, e specialmente quello dei dottrinari, aveva rappresentato un grande punto di riferimento per l’Europa, specialmente per il tentativo di coniugare dinastia e ideali civili e politici della Rivoluzione francese non giacobina. La rivoluzione del 1830, però, metteva in evidenza un ceto liberale fortemente lacerato da contraddizioni, diviso sul modello istituzionale tra orientamenti repubblicani e monarchici, incerto davanti alle riforme, per quanto deciso nel perseguire uno spazio assai più importante al mondo degli affari e della finanza che la Restaurazione aveva sacri- industria, mercati e politica 13 ficato. Poiché però intese proteggere la ristrettezza del sistema censitario, quel gruppo dirigente, deluse le aspettative di tutte quelle forze nuove che, dando vita a importanti forze nuove sociali e politiche, volevano invece essere rappresentate. Comunque il successo liberale indusse a muoversi analoghi ambienti interessati alla modernizzazione in altri Stati assoluti, intrecciandosi alle aspirazioni nazionali. Fu così nel Belgio – che poté ottenere l’indipendenza dal regno olandese –, in diversi staterelli tedeschi, contro gli ordinamenti feudali. In Svizzera, dove presero più forza le tendenze riformatrici, e in Polonia, dove il tentativo di indipendenza dalla Russia conobbe sanguinosissime repressioni. Altri tentativi vi furono in Italia, nel Ducato di Parma, in quello di Modena e nello Stato Pontificio, anche qui con sanguinose repressioni e con l’intervento della Santa Alleanza. Indipendentemente da quei fatti, si erano sviluppate altre esperienze in Russia, con il moto decabrista del 1825, di cui diremo, condotto da giovani ufficiali desiderosi di modernizzazione, costituzionalisti e insieme nazionalisti. La rivoluzione, per quanto generalmente perdente a parte i casi francese e belga, si era ripresentata con forza ed aveva avuto anzi un assetto europeo. Al suo solito modo, intanto, l’Inghilterra aveva affrontato una dura battaglia interna tra innovatori e conservatori, il cui esito era consistito nell’affermarsi di un’iniziativa radicale per le riforme e l’attenuazione del potere aristocratico. Quella fase poteva considerarsi densa dal punto di vista ideologico, ma anche matura sotto il punto di vista sociale, per la presenza sempre più massiccia di un proletariato urbano costituito dai lavoratori della manifattura in grado ormai di avanzare rivendicazioni. Tutto questo produsse, nel mondo dei tories, una divaricazione tra chi intendeva mantenere un atteggiamento di rigida conservazione dell’esistente, compreso un orientamento protezionista sul grano che stava a cuore agli agricoltori e chi, invece, era più aperto al mutamento politico e liberista sul grano, secondo un atteggiamento più caro all’industria. Liberalismo e liberismo produssero una divisione nel campo tory, fino a determinare un’osmosi con settori del partito avverso, quello dei whigs, a formare una coalizione che ebbe il suo primo successo con la riforma del 1832 che ridisegnava i collegi elettorali. La riforma elettorale del 1832, detta dei “borghi putridi” per indicare un predominio ingiustificato delle campagne nei vecchi collegi elettorali, servì a togliere agli aristocratici il potere che veniva loro dal controllo delle campagne, mentre assumevano rilievo gli elettori dei grandi centri manifatturieri derivati dalla rivoluzione industria- La “rivoluzione elettorale” in Inghilterra e il “polo liberale” 14 L’Inghilterra e la questione politica del mutamento sociale l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi le. Ormai si fronteggiavano uno schieramento conservatore ed uno schieramento liberale, anche se, fuori da questo schema, cresceva la forza delle classi non rappresentate in Parlamento che ambivano invece ad avere deputati. Dalle prime forme di associazioni dei lavoratori per il mutuo soccorso, alle forme più sindacali come le Trade Unions, si andava sviluppando un tessuto molto intenso di organizzazione con o senza l’apporto di filantropi delle classi più elevate. Il crescente pauperismo, e l’elevato numero di scioperi, consigliavano infatti ai gruppi dirigenti diversi tipi d’intervento, compreso quello dei liberali che premevano per un pieno raggiungimento del liberismo granario perché almeno il pauperismo fosse contenuto da prezzi minori del pane. In tal modo, l’Inghilterra mostrava capacità di rinnovamento. Il fatto poi che si unisse ad essa, nel “polo liberale”, la Francia prefigurò una situazione sicuramente nuova. I tanti esuli, infatti, che le rivoluzioni avevano prodotto, specialmente in Polonia, Germania, e Italia, e quelli che negli anni successivi sarebbero usciti dai loro paesi, avrebbero trovato asilo in Inghilterra, Francia, o Svizzera, tutti paesi in cui erano garantiti i diritti civili. La sconfitta di tante rivoluzioni non chiudeva la partita, ma in un certo senso l’apriva, perché i rivoluzionari avrebbero teso ad agire con collegamenti internazionali, anche se con profonde divisioni ideologiche e strategiche tra di loro. Le nuove sconfitte dei rivoluzionari accelerarono il tramonto delle organizzazioni legate alla segretezza elitaria delle forme “post-massoniche” e collocarono l’iniziativa nel più ampio contesto sociale legato al rinnovamento europeo. Ancora una volta fu in Inghilterra che fu possibile verificare l’allargamento. Lì, infatti, andarono prendendo capo aspirazioni di tipo socialistico, alcune delle quali fondate su presupposti cristiani, e ad un allargamento della base sociale della politica. Il movimento cartista, in particolare, chiedeva il suffragio universale, la paga per i deputati, e altre forme di protezione di tipo sindacale e politico per gli operai. Su quelle basi il movimento ottenne un largo consenso, da una parte alimentando il tentativo di rivalsa dei ceti più conservatori che avevano mal digerito la riforma del 1832; dall’altra, spingendo i gruppi più avanzati dell’establishment politico a cercare forme ordinate di superamento del disagio sociale. In questo senso agì anche lo sviluppo di un sistema di società operaie costruito per affermare la mutua assicurazione che, assumendo un carattere sindacale ed operando in accordo con le classi imprenditoriali più avanzate, seppe dare ai lavoratori risposte adeguate al loro tenore di vita. Questo sistema, delle Trade Unions, fu alternativo al Cartismo, più radicale nelle sue richieste politiche, e servì a ridimensionarlo, in particolare dal industria, mercati e politica 15 1847, quando parve fortemente influenzato dalle idee comuniste che, attraverso gli esuli, provenivano a Londra dalla Germania. Gli anni trenta e i primi anni quaranta dell’Ottocento furono un periodo di ricostruzione delle organizzazioni politiche, di messa a punto delle teorie economiche, di ricerca dell’aggregazione, in rapporto ai grandi sviluppi dell’economia. Dove vi era la libertà di stampa si sviluppava alacremente la dialettica dei giornali, dove non c’era la si desiderava con passione. Ovunque moderati e democratici affilavano le armi per la ripresa, ovunque gli arresti e il controllo di polizia intervenivano con frequenza. Londra era il centro di aggregazione e di confronto delle correnti democratiche in esilio. Il serrato dibattito tra i democratici polacchi, italiani e tedeschi vi assunse la forma di una discussione tra i portatori di una visione democratica ispirata alla proprietà con funzione sociale, quale era l’opinione mazziniana fondata su una visione etica della società futura, e i sostenitori di un mutamento ancora più forte, ispirati al superamento della proprietà privata, quali erano i comunisti, rapidamente orientati da Marx ed Engels. Tutti quei gruppi erano però decisamente repubblicani e rivoluzionari, testimoni con l’esilio di sofferenze nazionali.Tutti furono superati rapidamente dagli avvenimenti che accaddero nel 1847, quando in Polonia contro il predominio austriaco e negli Stati italiani per l’affermazione della libertà di stampa ed il rinnovamento istituzionale si svilupparono grandi manifestazioni di piazza e grandi tensioni. Fu quello l’inizio di un triennio rivoluzionario estremamente intenso che trovò ancora in Francia il suo principale baricentro nel 1848. Il regime orleanista nato in Francia con la rivoluzione del 1830 aveva deluso. Prigioniero degli affari, incongruente con i principi di libertà, inadeguato al grande slancio economico si trovò contro tanto importanti gruppi dirigenti dell’economia che le giovani forze socialiste democratiche che esigevano il suffragio universale e una più aperta politica sociale. Nel febbraio del 1848, quel regime crollò ancora più velocemente del precedente e lasciò il posto ad una coalizione di forze socialiste, liberali e monarchiche abbastanza variegata e abbastanza divisa da lacerarsi in fretta. Proprio l’applicazione del suffragio universale, anzi, fu l’arma decisiva perché l’Assemblea Costituente avesse un deciso volto conservatore di cui approfittò specialmente un erede di Napoleone, Luigi Bonaparte, per affermare, superando la concorrenza di altri gruppi conservatori, un’idea politica originale. Egli recuperava il primo “bonapartismo”, fondandosi sulla gloriosa memoria storica e su un intenso sentimento nazionale, tornan- Gli anni trenta e quaranta dell’Ottocento: la costruzione della politica in Europa Il triennio della rivoluzione e delle riforme in Europa (1847-1849) 16 La diffusione del moto­ l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi do al principio dell’investitura popolare ad personam, per coniugare politica di grandezza nazionale, formazione di un potere forte e ristretto, sviluppo sociale, e soddisfazione dei bisogni popolari. Fondò attraverso il referendum a suffragio universale un rapporto fiduciario con la nazione, ma gli dette una base di consenso clericale e controrivoluzionaria. Così, la Rivoluzione del 1848, inizialmente anti-monarchica e antiliberale, sfociò abbastanza presto nella dittatura prima e nell’Impero poi di Luigi Bonaparte. Non scomparve per questo un’opinione liberale che anzi ebbe qualche influenza nelle scelte di politica internazionale, come l’appoggio all’indipendenza italiana, e che comunque trovava interesse al grande slancio del sistema bancario e affaristico, vedendo anzi con soddisfazione il “liberalismo” degli ultimi anni imperiali. La dialettica francese però si configurò come più radicale di quella inglese, dove il legittimismo, borbonico o orleanista, finì per assorbire buona parte del ceto liberale, mentre ebbe assai più forza la presenza alternativa dei repubblicani e dei radicali, come se operasse una scissione profonda e risalente alla Rivoluzione francese di un vecchio mondo liberale mai veramente composto. Le forze provenienti in origine dal liberalismo – che finirono per assumere la definizione di democratiche, nelle varie accezioni – si identificarono prevalentemente in forze rivoluzionarie che, rispettose della proprietà, puntavano specialmente al mutamento deciso del sistema istituzionale. I democratici ebbero una grande capacità di collegamento sul piano internazionale, potendo contare in molti casi sulla rete di società segrete consolidata da decenni, tentando, tra l’altro, di allargare il proselitismo verso ceti che i liberali monarchici temevano. Subito dopo la rivoluzione di Parigi, però, il moto si era già esteso rapidamente in tutta Europa. Si era esteso in Italia, dove le truppe austriache furono cacciate da Milano e da Venezia nel febbraio del 1848 e dove il re di Sardegna, che da poco aveva concesso come altri sovrani italiani la costituzione, si pose alla testa di una guerra contro l’Austria, destinata a rapido insuccesso. Proprio l’esito infelice dell’iniziativa monarchica dette slancio ai democratici, che conquistarono il potere in diverse città e stati (Venezia, Toscana, Stato Pontificio). Si trovarono di fronte allora, in diversi casi, tanto i vecchi costituzionali che i reazionari, ma soprattutto truppe straniere. Al nord e in Toscana fu l’Austria a riportare il regime assoluto, nello Stato Pontificio fu l’esercito francese. Assunse valore emblematico l’esperienza della Repubblica romana, guidata direttamente da Mazzini e Garibaldi, per il valore che assunse di Assemblea costituente, industria, mercati e politica 17 italiana e repubblicana, riuscendo a offrire un testo basata sul suffragio universale di taglio avanzatissimo. Il moto si sviluppò anche in Germania, dove alimentò speranze di unificazione nazionale divise tra desiderio di monarchia costituzionale e aspettativa repubblicana, elemento questo di divisione e di sconfitta davanti alla capacità del sovrano di cavalcare le tensioni nazionaliste e pan-germaniche affioranti nell’opinione pubblica; in Austria, il movimento determinò la fine politica del cancelliere Metternich; in Ungheria, una lunga esperienza di autonomia si infranse sugli scontri di nazionalità con gli slavi e sulle divisioni tra i moderati e i democratici. 18 l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi rappresentanza, nazione e stato 19 2. Rappresentanza, Nazione e Stato nell’Ottocento 2.1. Censitario e universale: la questione elettorale in Europa Nei primi decenni dell’Ottocento, laddove esistevano (Svezia, 1809; Spagna, 1812; Norvegia, 1814; Olanda, 1815; Francia, 1830; Belgio, 1831), tutti i sistemi elettorali erano fortemente ristretti. In generale, i liberali temevano la prepotenza, l’immaturità e l’instabilità emotiva delle masse. Così puntavano, di volta in volta, su un voto selezionato: delle élites (Sieyès), delle classi agiate (Benjamin Constant), della proprietà (Guizot). L’inglese J.S. Mill teorizzava “No representation without taxation”: niente voto per chi non paga le tasse, se si voleva una società che portasse tutti i cittadini a pagare le tasse in quanto percettori di entrate sufficienti. Temevano tutti che il suffragio universale fosse strumento di distruzione del sistema costituzionale e fonte di delusione per le masse stesse, una volta rappresentate. Quando avvenivano i fatti del 1848-1849, era ormai divenuto maturo un po’ ovunque il problema della rappresentanza. Nella stessa Inghilterra, tutto il resto dell’Ottocento fu impegnato dalla battaglia per l’allargamento del suffragio. La citata riforma del 1832, dovuta a un governo di tories liberali e whigs, se aveva cambiato i collegi elettorali, aumentava di poco il numero degli elettori ed anzi, manteneva il diritto al voto plurimo per chi aveva proprietà in più collegi elettorali (votava la proprietà, non l’individuo), mentre rimaneva il sistema maggioritario e uninominale. In Inghilterra, il liberalismo nell’Ottocento ebbe sufficiente forza per condizionare il predominio avversario, specialmente sul piano degli allargamenti elettorali, e poi fu a lungo forza di governo. Si trattava di un liberismo in parte proveniente dalla formazione whig e in parte dallo stesso mondo conservatore, che trovò in Palmerston, dagli anni cinquanta, e in Gladstone, dal 1865, le sue guide e che esercitò una ve- I liberali e il voto La rappresentanza e i collegi elettorali; l’Inghilterra e il voto 20 Il voto in Belgio e Olanda e la formazione­ del sistema politico italiano­­ Bismarck e lo sviluppo­ dell’egemonia prussiana l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi ra e propria egemonia, basandosi anche sull’appoggio del sindacalismo delle Trade Unions e su quello dei radicali. La chiave della formula consisteva nel rappresentare un fronte di parte della classe dirigente liberista e più moderna, della borghesia e dell’aristocrazia operaia, aperto a dare soddisfazione a parte delle aspirazioni irlandesi alla rappresentanza e all’autonomia. Tuttavia, se il suffragio universale era una parola d’ordine dei radicali, la prima riforma significativa, preparata dal liberale Russell, fu condotta in porto dal conservatore Disraeli che, nel 1867, raddoppiò il numero di votanti maschi, coinvolgendo nel voto le classi medie e strati della classe operaia più qualificata, la cosiddetta “aristocrazia operaia”, sulla base del salario ricevuto e sulla base dell’alfabetizzazione dell’elettore. Ciò avvenne allargando il diritto ai proprietari di case nei borghi ed agli inquilini con affitti da almeno 10 sterline. Decisiva, poi, fu l’azione del liberale Gladstone che, nel 1872, introdusse il voto segreto, elemento sicuro di democratizzazione, e, nel 1884, abbassò il limite degli affitti a 5 sterline, migliorando ancora le circoscrizioni elettorali, e introdusse l’obbligo dell’istruzione elementare. Inaugurò intanto una modalità, nuova per l’Europa, della comunicazione elettorale, con un forte contatto diretto con gli elettori, pur rimanendo l’usanza del voto plurimo. Nel 1918, poi, il voto sarebbe stato esteso alle donne. In Belgio, il bipartitismo precedente al 1848 fu superato ad opera dei liberali che cominciarono a governare facendo riforme, con uno schema politico che vedeva i conservatori (facenti capo all’area fiamminga), i liberali dottrinari (più moderati, facenti capo all’area francofona), e i liberali progressisti (più riformatori, ma facenti capo anch’essi all’area francofona). Andò similmente in Olanda, dove i liberali erano al potere e dove il suffragio era piuttosto ampio. In Piemonte, dove la guerra perduta non impedì il rimanere del regime costituzionale, il Parlamento fu censitario e l’elezione si svolgeva con il doppio turno e il ballottaggio. Una volta che lo Stato italiano fu operante come unitario dal 1861, il sistema elettorale fu ricalcato su quello piemontese e, inizialmente, assai ristretto. Soltanto nel 1882, l’ampliamento del voto voluta dalla sinistra storica di Depretis, con l’estensione a tutti i maggiori di 21 anni, che sapessero leggere e scrivere, oppure a coloro che pagassero un censo di 19,80 lire, portò gli elettori da circa 600.000 unità a 2 milioni. Erano favorevoli le forze democratiche, ma anche i clericali e i conservatori illuminati. Fu sperimentato lo scrutinio di lista, con meno collegi di più elettori. Nei territori tedeschi si svolse un processo difficile, un percorso istituzionale che, attorno alla centralità prussiana, coinvolse un mon- rappresentanza, nazione e stato 21 do complesso e diviso. Il modello prevalente, negli stati, consisteva nel predominio dell’aristocrazia fondiaria su un mondo a bassa mobilità sociale nelle campagne e ad elevata vitalità borghese nelle città e nelle aree manifatturiere. Spiccava la Prussia, per le riforme moderatamente antifeudali, contrarie alla servitù della gleba, amministrative di von Stein del 1807, in chiave di equilibrio tra mantenimento del sistema assoluto e capacità di innovazione. Nel caso prussiano, la teoria dello “Stato cristiano patrimoniale” che affidava al Sovrano di diritto divino uno Stato medievale, ebbe grande successo ed alimentò gran parte dell’ideologia della destra “junkeriana”. Questa, legata alla proprietà terriera, coltivò simili aspetti e li sostenne a lungo. Una volta avviata l’industrializzazione in Renania e Baviera, si avviò il percorso dello Zollverein, non senza contraddizioni, evidenziate da rivolte nel 1830. Ad Hambach, nel 1832, la nazionalità vestì le parole d’ordine delle riforme e dell’unificazione tedesca. Alla forza del liberalismo, si contrappose un forte nazionalismo patriottico, emerso nel periodo di grandi rivoluzioni del 1848-1849, come elemento di ricomposizione conservatrice. Quel sentimento fu avvertito specialmente a partire dalla guerra per lo Schleswig e l’Holstein contro la Danimarca, nel 1864, ma già da tempo la Prussia era divenuta il referente dell’ipotesi della “piccola Germania”, contro quella della “grande Germania” che prevedeva invece il predominio dell’Austria. Del primo progetto fu alfiere Bismarck, leader della destra conservatrice già dal 1846, ma nemico dei privilegi nobiliari e feudali. Egli contò specialmente dopo il 1859, quando appoggiò Guglielmo I nel suo progetto di monarchia costituzionale fondato sul riconoscimento delle prerogative regali in un sistema di monarchia rappresentativa, in uno Stato dalla forte impronta militare. In Prussia (e in genere nel mondo tedesco, laddove vi fosse un sistema costituzionale) si dibatté a lungo sui poteri del Parlamento, essendovi i liberali convinti dei poteri del Parlamento nell’approvazione del bilancio (alla maniera inglese) ed i conservatori, per i quali, invece, il Parlamento non aveva la necessaria capacità di rappresentanza popolare. La rappresentanza popolare era invece, per i conservatori, garantita dalla Corona, cui spettava di dare la fiducia al governo. Il conflitto si rivelò pienamente in occasione della discussione sul bilancio legato alla riforma militare, nel 1859-1860. Bismarck riuscì a scavalcare il Parlamento a maggioranza liberale, governando nel 1866, anno di guerra contro l’Austria, in esercizio provvisorio appoggiato dalla Corona. Eppure, per il Parlamento dell’Impero tedesco, dopo l’unificazione del 1870, si scelse di puntare sul suffragio universale, e ciò fu do- Le istituzioni del nuovo­ stato tedesco 22 La Germania da Bismarck a Guglielmo II l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi vuto specialmente a Bismarck, che vedeva nelle masse legittimiste un baluardo contro i liberali, anche se, nel Parlamento della Prussia, restò operante il sistema dei tre ordini, relativi alle classi di imposizione, specchio delle gerarchie sociali. La Costituzione tedesca, dopo il 1870, risultò complessa, in quanto manteneva operante all’interno i vecchi stati. Vi fu così un livello costituzionale dei singoli Stati, con proprie istituzioni, ed un sistema generale, comunque dominante, in cui un Parlamento eletto a suffragio universale (il Bundestag), conviveva con un Senato di rappresentanti degli stati (il Bundesrat), ma in cui la Corona (e con essa il governo) aveva poteri forti. Lo Stato tedesco diveniva sintesi costituzionale del modello prussiano, militarista e burocratico, con un forte predominio dell’esecutivo sul Parlamento, con l’autonomia dei diversi Stati componenti. Bismarck integrava modernizzazione e cultura dell’antico regime, esaltando la forza produttiva e la potenza militare. Governando, Bismarck sfidò prima la grande penetrazione della Chiesa con la battaglia del kulturkampf, insieme di lotta culturale e politica contro il partito cattolico del Zentrum, contro le organizzazioni di base collegate, contro l’insegnamento religioso, contro i gesuiti, tra il 1872 e il 1878. Poi, affrontò con fermezza la forza crescente del Partito socialdemocratico, alleandosi dal 1878 proprio con il Partito del Zentrum. Intanto, avviò una politica di forte protezionismo, ed emanò una legislazione repressiva che restò in vigore fino al 1890. Contemporanemente, però, volle provvedimenti sull’assicurazione sociale – per gli infortuni e per l’invalidità e la vecchiaia – su cui ci soffermeremo. Abolito definitivamente il kulturkampf, nel 1886-1887, Bismarck non riuscì a conservare la fiducia del nuovo sovrano Guglielmo II oltre il 1890, anche per l’evidente crescita del Partito socialdemocratico, tutt’altro che ostacolato dalle leggi antisocialiste, abolite in quello stesso anno e indirizzato, dal congresso di Erfurth del 1891, verso la larga prevalenza dei riformisti contro la minoranza rivoluzionaria. Uscito di scena Bismarck, si sviluppò il tentativo della Corona di accrescere il proprio potere sull’esecutivo e sul Parlamento. La “politica personale” di Guglielmo II assunse presto i tratti marcati dell’imperialismo. Centrale fu il progetto di potenziamento della marina da guerra che, suscitando l’allarme dell’Inghilterra, innescò la corsa al riarmo in tutte le maggiori potenze. Cemento di questa politica fu l’esasperato nazionalismo, fondato sul mito della Grande Germania e dell’unificazione di tutti i popoli di sangue tedesco a spese dei popoli slavi. Una politica estera spavalda, specialmente contro la Francia, aiutò la crescita di quel nazionalismo nelle masse popolari, al punto perfino rappresentanza, nazione e stato 23 di coinvolgere, nel 1913, lo stesso partito socialdemocratico, che era divenuto da un anno il maggior partito del Paese, nel voto favorevole al potenziamento dell’esercito. La Francia rappresentò un caso “speciale” per gli sviluppi seguiti alla sua rivoluzione, nel febbraio del 1848. Stabilito che potevano votare tutti i francesi maggiori di 21 anni che godessero dei diritti politici, venne la sorpresa. L’applicazione del suffragio universale, voluta dalle sinistre socialiste, democratiche e radicali, portò all’effetto contrario, determinando la vittoria dei conservatori. Mentre le sinistre venivano ridimensionate e presto tornarono società segrete, si esprimeva la forte propensione al ritorno della monarchia. Quello monarchico era un mondo diviso tra diverse tendenze: quelle reazionarie rappresentate dal generale Cavaignac, e quelle populiste di Luigi Bonaparte, che raccoglieva l’eredità nazionale del grande zio Imperatore fondendola con le aspettative degli affaristi in nome di un facile anti-partitismo. Eletto presidente con amplissimo consenso, Bonaparte lo sfruttò per realizzare un potere sempre più ampio contro la sinistra e contro i reazionari puri. Rappresentò un autoritarismo populista, in cui il carisma dell’eletto dal popolo contro i partiti “falsificatori” della volontà popolare trovava forza nella sovranità popolare tramite il plebiscito a suffragio universale. Quando la Camera, a maggioranza moderata, spaventata dai successi elettorali amministrativi delle sinistre, limitò fortemente, nel maggio del 1850, il suffragio universale, il presidente Bonaparte cavalcò anch’egli la stessa paura, ma si fece alfiere, in nome del popolo, del suffragio universale stesso. Con un colpo di stato, il 2 dicembre del 1851, sciolse il Parlamento, fece arrestare o mandò in esilio i capi democratici, e sciolse le loro organizzazioni. Sottopose poi, nei giorni seguenti, a referendum popolare una nuova Costituzione che lo riconosceva Presidente per 10 anni con amplissimi poteri. Si assicurava così le basi del potere personale-istituzionale (accentramento del potere esecutivo, Corpo legislativo a suffragio universale senza iniziativa legislativa, Senato di nomina imperiale, Consiglio di Stato “in sintonia”). Il forte apparato repressivo del dissenso politico impiegò massicciamente polizia, carcere, esilio, confino nelle colonie. Nel dicembre del 1852, Bonaparte diveniva imperatore come Napoleone III. L’Impero napoleonico era contraddittorio: reazionario e basato, almeno nella fase iniziale, sul consenso popolare, conservatore ma fautore di una nuova élite socio-economica, restauratore e modernizzante. Offriva ampie opportunità alle forze economiche, all’alta finanza coinvolta, come il Credit Mobilier, in grandi operazioni finanziarie, alla speculazione interessata ai grandi investimenti strutturali La Francia tra rivoluzione, conservazione e autoritarismo L’Impero francese napoleonico tra modernizzazione, reazione e nazionalismo 24 La Terza repubblica e le tentazioni monarchiche in Francia l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi (Canale di Suez, metropolizzazione di Parigi); intanto curava il consenso sod­disfacendo settori strategici della società, perseguendo la massima occupazione nella manifattura e soddisfacendo le richieste degli agricoltori, garantendo inoltre le aspettative del mondo cattolico nella questione italiana. Nel quadro rientrava il fattore coagulante del nazionalismo, implicito nel richiamo al precedente di Napoleone il grande, e sviluppato con una politica d’impegno bellico, dalla guerra di Crimea nel 1854, all’alleanza con il Piemonte contro l’Austria, nel 1859, al tentativo d’egemonia in Messico nel 1864, al conflitto con la Prussia, nel 1870. Tutto questo non impedì che il blocco sociale di Napoleone III si incrinasse, specialmente dopo l’alleanza con il Piemonte che irritò i cattolici. La svolta fu evidente nel 1860, quando la crisi politica ed economica incrinò il blocco di potere e orientò Napoleone III verso il cosiddetto “Impero liberale”, fondato su nuove alleanze, compresa una parte della sinistra prima emarginata per compensare l’irrigidimento cattolico ed ora attratta con la legalizzazione degli scioperi, l’apertura al mutualismo, una maggiore liberalizzazione del sistema. Il nuovo corso non riuscì a garantire all’Imperatore un consenso adeguato né gli impedì di andare incontro alla perdente sfida finale accennata sopra con la Prussia di Bismarck. Una volta caduto l’Impero del Bonaparte, prese avvio la fase della cosiddetta Terza Repubblica. Non fu una scelta scontata, per le incertezze dei liberali e per la forza delle componenti monarchiche. Al crollo e all’invasione prussiana, seguì la capitolazione firmata dal moderato Thiers come capo del nuovo governo, ma rifiutata dalle forze democratiche parigine. Ne derivò l’esperienza della Comune di Parigi, nel 1871, in cui il fervore repubblicano e operaista ispirò una difesa estrema contro i tedeschi e, da un certo momento in poi contro le stesse truppe di Thiers. Nella Comune si svilupparono radicali programmi di trasformazione sociale e vi furono episodi di violenza popolare e anticlericale. A questi corrispose poi una non meno spietata repressione militare, quando l’esercito francese spalleggiato da quello tedesco riconquistò la capitale. L’Assemblea Nazionale Costituente eletta dopo il 4 settembre 1870 ebbe maggioranza monarchica articolata in diverse anime antagoniste, la borbonica e l’orleanista, a parte quel che restava del crollato ideale bonapartista. Monarchico, ma aperto alla Repubblica fu il primo presidente, Thiers, e monarchico fu il secondo, Mac Mahon, un militare filo-borbonico che non riuscì nella restaurazione che si prefiggeva. Fu così pure per gli orientamenti assolutamente nostalgici dell’antico regime del pretendente re, Chambord, inaccettabili per gli stessi fau- rappresentanza, nazione e stato 25 tori della Corona. In quell’impasse, con grande ritardo, la costituzione repubblicana fu approvata per un solo voto con l’alleanza di orleanisti e repubblicano-moderati. La Terza repubblica prevedeva un forte pre­sidenzialismo, con un Presidente in carica per sette anni che aveva potere di nomina dei ministri, potere di scioglimento delle Camere, e facoltà di proporre leggi; era un ruolo molto forte bilanciato da una Camera con propri poteri, eletta a suffragio universale, chiamata ad eleggere il Presidente, mentre il Senato era in parte per nomina a vita e in parte su designazione territoriale. Una volta fatta la scelta di mantenere il suffragio universale, per salvaguardare il sistema dalla pressione delle masse, fu preservato il collegio uninominale, mentre il Senato, su base territoriale e campagnola, aiutava anch’esso la protezione contro il prevalere di Parigi e delle città industriali. Tra il presidente in carica, Mac Mahon, e la Camera si sviluppò un duro conflitto nel 1877, con lo scioglimento d’autorità dell’Assemblea ma con un risultato a sinistra nelle nuove elezioni. L’ampia maggioranza repubblicana e riformista, condotta da Ferry e Gambetta, consentì un programma di riforme d’impronta anticlericale, prima tra tutte l’istituzione della scuola elementare obbligatoria e laica, mentre i radicali di Clemenceau, si battevano per una democrazia avanzata, con abolizione del Senato, decentramento, riforme sociali ed economiche condivisibili dai socialisti.Tra inquietudine e radicalizzazioni, prendevano forza i socialisti, anch’essi divisi tra i diversi filoni rivoluzionari e riformisti, i cui capi più prestigiosi furono Millerand e Jean Jaurès. L’anima conservatrice mai sopita trovava alimento nella crisi economica e in scandali governativi, per rilanciare le tentazioni antiparlamentari e un revanchismo della destra che dette vita all’effimero sogno di Boulanger di riproporre un populismo nazionalista e antiparlamentare, capace di far convergere monarchici, radicali estremisti, nazionalisti, questi ultimi a forte caratterizzazione antidemocratica e razzista. L’assassinio politico del presidente Sadi Carnot, nel 1894, fu l’occasione per una legislazione eccezionale e preludio del conflitto ideologico che, con il caso Dreyfus, ufficiale ebreo accusato ingiustamente di spionaggio, vide svilupparsi una campagna antisemita, nazionalista e conservatrice, controbattuta dalla cultura laica e razionalista della sinistra. Da lì presero vigore il rilancio laico del governo di difesa repubblicana di Waldeck-Rousseau, nel 1899, e l’azione anticlericale del ministero Combes, tra il 1902 e il 1906, che condusse alla limitazione dell’insegnamento cattolico, alla rottura delle relazioni con il Vaticano, alla legge sulla separazione tra Stato e Chiesa. L’unità anticlericale non impedì però la divisione nella sinistra che vide i socialisti della SFIO (Partito Socialista, Sezione Francese del- Destra, sinistra e scontro­ ideologico 26 Rivoluzione e reazione nella penisola iberica l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi l’Internazionale Operaia) all’opposizione e l’orientarsi del governo del radicale Clemenceau sulla repressione degli scioperi. In Spagna e Portogallo, la Restaurazione del 1814 aveva riportato i privilegi di nobiltà e clero e abolito la Costituzione di Cadice del 1812, moderata, ma sentita come propria dalla Nazione. Avviato il declino coloniale e superata la fase rivoluzionaria del 1820-21, le divisioni, tanto nell’esercito, dove si fronteggiavano liberali e conservatori, quanto nella società, continuarono a incidere. Sconfitta la rivoluzione e tornato il Re, si aprirono conflitti dinastici che rispecchiavano quel contrasto, dando luogo ai diversi partiti dei carlisti (reazionario) e liberale, per il quale militarono diversi democratici europei. La costituzione del 1834 innovò l’impianto costituzionale, con due Camere, ed il processo si svolse quasi parallelamente a quello che accadeva in Portogallo. Anche lì una rivoluzione militare, nel 1820 aveva rovesciato l’assolutismo, ed anche lì, nel 1823, la reazione aveva rovesciato la Costituzione, aprendo una lunga fase di alternanza tra i due momenti, intrecciata ai conflitti dinastici e risolta, nel 1834, con l’avvento di un re aperto alla Costituzione. Nuove inquietudini avrebbero trovato conclusione nel 1852, quando l’esercito impose una corretta vita costituzionale. La Spagna intanto aveva continuato nell’instabilità, sempre nell’incertezza tra assolutismo e costituzionalismo, tra rivoluzione e reazione, nell’incertezza dinastica, nella guerra tra i militari, schierati politicamente su fronti opposti. Soltanto nel 1868, la vittoria dell’ala progressista dell’esercito, con la fuga della regina Isabella II, e con il ripristino delle libertà costituzionali, parve costituire un punto d’arrivo. Ma già l’anno dopo, la soluzione monarchica e costituzionale, proposta che lasciava insoddisfatti i carlisti assolutisti e i repubblicani, rilanciò il disordine e le lotte civili, da cui emerse, nel 1873, la Repubblica, imposta da una maggioranza radicale. Fu un nuovo passaggio provvisorio, perché le divisioni dei repubblicani e dei militari riproposero il richiamo della monarchia borbonica, ed una nuova Costituzione a forte potere sovrano, nel 1876, che non avrebbe impedito il progressivo affondare di quanto rimaneva dell’Impero coloniale spagnolo e del prestigio internazionale del vecchio Stato. 2.2. Stato-nazione e Patria: la crisi degli imperi multietnici La questione della nazionalità Tutta l’Europa fu percorsa, nell’Ottocento, dalla questione delle nazionalità, insieme complesso di tensioni ideali e religiose, rivendicazioni economiche, e spinte sociali. In Inghilterra, con l’ampliarsi del sistema elettorale, verso la seconda metà dell’Ottocento, si affac- rappresentanza, nazione e stato 27 ciò in Parlamento una cospicua pattuglia di deputati irlandesi, condizionante per i governi. Esprimeva un problema nazionale fortemente sentito, che aveva aspetti religiosi e sociali.Vi erano grandi differenze tra il nord più industrializzato, l’Ulster, a forte presenza protestante e il sud, ad economia agricola arretrata e a popolazione contadina povera e cattolica contrapposta ai proprietari ricchi protestanti. Davanti alle tendenze autonomistiche del partito nazionalista di Parnell, si misurò l’azione del liberale Gladstone, già ricordato, con il Land Act del 1881, una legge per la riduzione degli affitti rurali che incontrò l’avversione dei protestanti. Tuttavia, l’ambizioso progetto governativo della Home Rule, che voleva dar vita a un Parlamento irlandese ed all’esproprio della grande proprietà a favore dei contadini, non riuscì per la forte opposizione nella Camera inglese, tale da spaccare perfino il Partito Liberale. Non era comunque un passaggio semplice, anche per il persistente problema della irrisolta questione irlandese. Il ventennio di governi conservatori seguito a Gladstone, tra il 1886 e il 1906, con i vari Randolph Churchill, Salisbury, Chamberlain, orientati al rafforzamento del quadro economico secondo i canoni liberisti classici, a parte la svolta protezionista del 1903, non poteva favorire allargamenti. Fu con la vittoria dei liberali libero-scambisti alleati ai laburisti, e con il governo di Asquith e Lloyd George che poterono avviarsi una maggiore democratizzazione e una più avanzata legislazione sociale. La scelta del Welfare State, sulla base di una tassazione progressiva dei redditi e dell’imposta sulle successioni apriva un duro conflitto istituzionale con la Camera dei Lords, ereditaria e attestata sulla difesa dei grandi interessi conservatori. Nel quadro rientrò anche l’ulteriore allargamento del voto, nel 1913, ma restò la fondamentale impossibilità a risolvere il problema irlandese che, spinto dalla battaglia indipendentista del movimento cattolico Sinn Fein, vide, dopo la riproposta di una nuova Home Rule, la reazione armata dei protestanti dell’Ulster e l’accendersi di una guerra civile. L’idea di Nazione, collegata in buona parte con l’idea di rappresentanza, aveva agitato più di tutti i popoli subordinati agli imperi. Rilanciata dalla Rivoluzione francese, si era presto collegata all’idea di Patria durante le guerre napoleoniche. Intorno alla triade Stato-Nazione-Patria, il dibattito era già aperto dal Settecento, e fu coltivato all’inizio dell’Ottocento, dai letterati con la riscoperta o l’invenzione delle leggende popolari, delle fiabe e così via. Dipinta come elemento naturale o intreccio di usi, storia, tradizioni, linguaggi – come fu specialmente nella teoria “tedesca” – o come scelta civile e consapevole dei popoli legata alle istituzioni e appunto alla cittadinanza, alla Liberalismo e sviluppo democratico in Inghilterra L’idea di Nazione 28 La Nazione e gli stati multietnici L’Impero ottomano e le nazionalità l’europa e il mondo dall’industrializzazione a oggi volontà popolare,– come nella teoria “francese” – la Nazione divenne un grande elemento di coagulo. Ovunque l’idea di Nazione, appunto come diritto all’anima di un popolo, o come sovranità popolare, suscitò grandi fermenti, specialmente nell’età napoleonica; in Francia, come affermazione di Patria e di grandezza, per sé e per gli altri popoli; in Spagna e in Russia, come resistenza patriottica all’attacco straniero; in Polonia, come orgoglio di una patria perduta; in Boemia, come rivendicazione del proprio vigore economico moderno; in Italia, come rivendicazione di libertà, indipendenza, unità nazionale. In Germania, poi, la Nazione divenne culto romantico, e insieme potente fattore di organizzazione sociale e culturale. Il caso dello Zollverein fu un’esemplificazione evidente di come inoltre si legasse ad una visione economica innovativa. Come mercato aperto all’interno, ma condizionato verso l’esterno, collegò infatti all’idea di Nazione forti elementi di protezionismo economico. Ciò rappresentava una novità rispetto all’identificazione di nazionalità e liberismo che si costruiva altrove negli stati in cerca di Risorgimento. Soprattutto, la questione delle nazionalità scosse alla radice gli stati cosiddetti assoluti, nei quali si identificavano le istituzioni e i rapporti sociali dell’antico regime, principalmente intorno alle grandi dinastie. Tra gli stati assoluti, l’Austria costituiva un modello di riferimento. Non era l’unico, perché sull’area europea gravitavano l’Impero ottomano e l’Impero russo. Queste entità avevano per caratteristica comune il dominio su popolazioni di nazione, religione, lingua diversa e risentirono, in misura maggiore o minore, del ribollente problema delle nazionalità, particolarmente acuito dalla questione delle rivendicazioni sociali ed economiche e dalle paure che ne conseguivano per le aristocrazie dominanti. L’Impero ottomano fu protagonista di un lento processo di disgregazione accelerato, tra il periodo napoleonico e i primi anni della Restaurazione, dalle rivolte dei Serbi. Poi, con la Restaurazione, fu la ribellione dei Greci ad allargare una falla importante nell’area mediterraneo-balcanica, contribuendo a determinare altre spinte di quel tipo. L’Impero che aveva avuto un dominio assai esteso e strategico, dai Balcani, al Medio Oriente, al Nord-Ovest africano, con l’importante colonia egiziana, conobbe una grave crisi. Influivano il sentimento di nazionalità e le insofferenze religiose dei popoli sottomessi, a loro volta però, in diversi casi, tendenti ad opprimere altre comunità nazionali e religiose. Agivano anche l’immobilismo sociale di una società bloccata in caste, in gran parte legate alle appartenenze religiose, e la mancata modernizzazione che rendeva insofferenti i gruppi dirigenti nazionali. La stessa Turchia era scossa da lotte tra modernizzatori e rappresentanza, nazione e stato 29 conservatori, con tentativi di riforme che cozzavano poi sull’impossibilità ad essere realizzate. Diversa era la situazione austriaca, anch’essa organizzata sulla base delle diverse nazionalità, non facilmente componibili.Accanto ai territori storici, la stessa Austria e la Slovenia, vi erano l’Ungheria e la Boemia, che potevano definirsi nazionalità di livello maggiore; i territori slavi, subordinati a queste ultime; le aree tedesche e quella italiana, la Lombardia e il Veneto, anch’esse in qualche modo maggiori, ma senza “dipendenze”; la Galizia, parte della Polonia, spettante all’Austria, paragonabile alla tipologia dei territori italiani. L’Impero era stato, nel Settecento, espressione di modernità, con un riformismo inteso a ridurre i privilegi nobiliari ed ecclesiastici che gli aveva procurato il favore delle nazionalità, oppresse, non tanto dalla corona, quanto dai poteri e dalle nobiltà locali. Per contrasto, nei territori dove l’Impero aveva tentato di imporsi, era emerso un argomento nazionalista utile a contrastare l’Austria e le riforme. Con l’Ottocento, l’Impero asburgico risentì delle pressioni al cambiamento che provenivano dalle nazionalità “maggiori”, desiderose di inserirsi nei processi di modernizzazione politica, sociale ed economica, e dalla crescente concorrenza esercitata all’interno del mondo tedesco dalla Prussia e dalla lega dello Zollverein. Ormai l’Austria era divenuta il baluardo ideologico contro le affermazioni di cittadinanza e sovranità popolare e contro le rivendicazioni nazionali, anche se il suo cancelliere, Metternich, aveva provato a favorire prudenti riforme all’interno e negli stati dominati o controllati. Non vi era riuscito che assai parzialmente, per le resistenze delle aristocrazie civili e religiose, mentre si faceva sempre più forte la pressione delle nazionalità soggette. In Ungheria, già nel 1830, si lavorava per un’alleanza tra piccola aristocrazia, borghesia urbana e popolo; in Germania, l’azione per lo Zollverein era espressione di un atteggiamento pan-tedesco rischioso per il predominio austriaco; in Boemia si ambiva al liberalismo moderno; nelle popolazioni slave emergeva una volontà nazionalista di avvicinamento alla Russia o al Principato di Serbia; in Italia l’Austria aveva già assunto un ruolo di simbolo della reazione e di contrasto al cambiamento. Le rivoluzioni del 1848-1849 videro infiammarsi la stessa Vienna contro i principî dello Stato assoluto e il manifestarsi di grandi iniziative nazionali in Italia, in Ungheria, nei territori tedeschi e, in parte, tra le popolazioni slave. Gli stessi rivoltosi ungheresi, una volta preso provvisoriamente il potere, dovettero misurarsi con i nazionalismi slovacchi, croati e rumeni. L’Impero asburgico davanti al problema delle nazionalità e delle riforme L’Impero asburgico, la guerra con l’Italia e il tentativo di riforma