L'ESERCITO PONTIFICIO NEL 1867 www.museomentana.it - www,collezioni-f.it F@MIGLI@ PONTIFICI@ a) Guardia Nobile di Sua Santità, tutta formata di gentiluomini dello Stato Pontificio; in circa 70 uomini, comandati dai due Principi romani, un Barberini ed un Altieri. b) La Guardia Palatina d’onore, circa 500 uomini, reclutata in tutte le classi della borghesia romana e tra i proprietari, i negozianti e capi d’arte. c) I Volontari Pontifici di riserva, tutti italiani, anzi quasi tutti romani; circa 400 uomini tra cui molti patrizi, e poi negozianti, impiegati e professionisti. Era un battaglione formato da 4 compagnie, comandato dal capitano Fischietti del 1. linea. I quattro capitani erano i principi di Sarzina e Lancellotti, il Duca Salviati e il Marchese Giovanni Naro Patrizi Montoro, Vessillifero ereditario (tenente generale) di Santa Chiesa. d) La Guardia Svizzera (120 uomini, circa). e) Gl’Invalidi, con quartiere ad Anagni. f) La compagnia di disciplina, che, ottenute dal comandante Papi le armi, si battè eroicamente insieme ai zuavi, gendarmi e finanzieri nel fiero attacco dato dal Cadorna a Civitacastellana. La Guardia di polizia, la piccola marina, il corpo di finanza e quello degli ufficiali di amministrazione, composti tutti d’italiani. E questi quattro corpi presero attivissima parte alle campagne del 1867 e 1870, e gli ultimi due anche campagne e fatti d’armi del 1859 e 1860. De Merode, proministro alle armi. Lamoricière. Kanzler Gendarmi 1.863 tutti italiani, molti romagnoli. Artiglieria 996 tutti italiani, eccettuati ben pochi. Genio 157 tutti italiani, non pochi romani. Cacciatori 1.174 tutti italiani, moltissimi romani. Linea 1.691 tutti italiani, molti romani. Zuavi 3.040 esteri, con un buon numero d’italiani, fra cui non pochi romani. Legione Romana o d’Antibo 1089 con molti italiani, specialmente di Corsica e Nizza, e molti savoiardi. Carabinieri esteri 1.195 con un certo numero di italiani. Dragoni 567 quasi tutti italiani, non pochi romani. Treno 166 tutti italiani, non pochi romani. Sedentari (Veterani) 544 in maggioranza italiani. Infermieri 119 italiani, meno pochi esteri. Squadriglieri 1.023 tutti italiani, e, nella maggior parte della provincia romana. Totale 13.624 5.324 stranieri dicui 3000 francesi, 700 belgi, 900 olandesi, 1.200 tedeschi e austriaci, 1000 svizzeri, 300 canadesi; vi erano poi inglesi, russi, spagnoli, portoghesi, americani del nord; 3 turchi, 4 tunisini, 3 siriaci, un marocchino, 2 brasiliani, un peruviano, un messicano; 2 svedesi del capo nord e un neozelandese Il 21 Settembre 1870 a piazza San Pietro il reggimento degli Zuavi contava: 1.172 olandesi, 760 francesi, 563 belgi, 297 tra canadesi – inglesi irlandesi, 242 italiani, 86 prussiani, 37 spagnoli, 19 svizzeri, 15 austriaci, 13 bavaresi, 7 russi e polacchi, 5 badesi, 5 statunitensi, 4 portoghesi, 3 essinai, 3 sassoni, 3 wuttemburghesi, 2 brasiliani, 2 ecuatoriani, 1 peruviano, 1 greco, 1 monegasco, 1 cileno, 1 ottomano, 1 cinese. NYPL Image ID: 1535582 Italy. Papal States, 1860-1868 La Marina Pontificia Lo Stato della Chiesa riunisce sotto un'unica amministrazione la Marina da guerra, quella di Finanza e la direzione generale dei piroscafi sul Tevere, che comprendeva quattro navi a vapore. Nel 1823 si contano la goletta San Pietro, armata con dodici pezzi d'artiglieria; un cutter, adibito a guardaporto a Civitavecchia; una feluca e uno scappavia. La Finanza, con i suoi timonieri, sottotimonieri e marinai, contrasta il contrabbando lungo le coste adriatiche, con dodici barche guardacoste, armate con due spingarde ciascuna, ripartite in due squadriglie agli ordini di due ufficiali di Marina: otto in Adriatico e quattro nel Tirreno. Negli anni Quaranta si ha un miglioramento strutturale con Alessandro Cialdi, di Civitavecchia, che dapprima organizza e dirige una spedizione in Egitto, risalendo il Nilo, poi, nel 1842, conduce a Roma dall'Inghilterra tre navi a ruote per la navigazione controcorrente sul Tevere, allora importante via commerciale con i suoi due approdi di Ripa Grande e Ripetta al centro di Roma. A questi tre piroscafi, presto se ne aggiunge un quarto, il Roma che, sotto il comando di Cialdi, prende parte, nel 1848, alla prima guerra d'indipendenza. Durante la Repubblica Romana, il Roma si distingue nelle acque d'Ancona, sfruttando il vapore nei periodi di bonaccia, per contrastare la flottiglia a vela austriaca che stringe d'assedio la città adriatica. Nel 1856 vengono unificate la Marina da Guerra, la Marina di Finanza e la Marina del Tevere sotto la denominazione di Marina Militare Pontificia. Nel 1860, agli ordini del tenente colonnello Cialdi, la Marina pontificia ha un certo miglioramento, grazie soprattutto all'entrata in servizio della pirocorvetta Immacolata Concezione, della quale restano oggi una scialuppa al Museo della scienza e della Tecnica di Milano, ed un modello in scala ridotta e la bandiera, conservati a Museo Storico Vaticano del Palazzo Lateranense. http://www.marina.difesa.it/storiacultura/storia/storianavale/Pagine/pontificia.aspx Il papa-re Pio IX benedice le sue truppe in Piazza San Pietro il 25 aprile 1870. La discalia manoscritta specifica che si tratta di 20.000 svizzeri e francesi, e che questa fu l'ultima bendizione prima della Breccia di Porta Pia, l'8 settembre di quell'anno. L'immagine originale, scansita da Emiliano Burzagli, fa parte dell'Archivio privato della famiglia Burzagli Francesco Saverio de Mérode autore ignoto, riproduzione da foto ottocentesca, ritratto di De Merode, opera il cui autore è morto da più di 70 anni, acquisita da scanner Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Federico Francesco Saverio de Mérode (Bruxelles, 26 marzo 1820 – Roma, 12 luglio 1874) è stato un arcivescovo cattolico belga. Fu un grande protagonista dell'urbanizzazione di Roma capitale. Biografia Figlio del conte Félix de Mérode, ministro di Leopoldo I del Belgio fu educato dapprima presso il collegio gesuita di Namur poi all'oratorio di Juilly. Nel 1839 entrò nell'Accademia militare di Bruxelles. Nel 1844, attratto dalla carriera delle armi, ottenne di servire nella Legione straniera francese come ufficiale presso lo stato maggiore particolare del generale Thomas Robert Bugeaud in Algeria e si distinse nei combattimenti della Cabilia e nell'Aurès ottenendo la decorazione della Legione d'Onore. In questa occasione conobbe Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière. Verso la fine del 1845 rientrò in Belgio con il grado di tenente. Nel 1848 scelse però la carriera ecclesiastica: prese gli ordini, e, caduta la breve Repubblica romana del 1849, partecipò attivamente alla restaurazione dello Stato pontificio. Cappellano militare dei francesi, si fece notare da Pio IX che lo creò Cameriere segreto e monsignore, utilizzandolo molto nei rapporti con la Francia del Secondo Impero, alla quale per nascita e per cultura il de Merode era legato. In quegli anni '50-'60 lo Stato pontificio era "protetto" da Napoleone III contro le spinte risorgimentali e sembrava ancora possibile la restaurazione del papa-re e una qualche modernizzazione dello Stato della Chiesa. A quest'ultima il de Merode era particolarmente interessato, avendo come modello i grandi rivolgimenti - e i grandi affari - che Haussmann stava apportando a Parigi. Col tempo il suo ascendente sul Papa crebbe, nonostante il conflitto sempre vivo con il cardinale Antonelli che, man mano che si stringeva l'accerchiamento del Regno d'Italia e si affievoliva la protezione francese, rappresentava nelle gerarchie vaticane le posizioni più moderate e trattativiste mentre monsignor de Merode - sostenuto dai Gesuiti - rappresentava le posizioni più conservatrici del potere temporale. Il politico De Merode fu comunque nominato, il 18 aprile 1860, viceministro della guerra, incarico che tenne fino al 20 ottobre 1865[1], sostenendo la guerriglia sanfedista dei briganti ciociari ed una politica di dura repressione interna di ogni movimento liberale[2]. Notava Gregorovius alla fine del 1863: « Alcuni giorni fa i Francesi ad Albano hanno inseguito fino a Castel Gandolfo 24 carabinieri pontifici belgi, che commettevano eccessi. Ne hanno uccisi due e feriti 7[...] Merode si è recato a Castel Gandolfo per assistere alle esequie di questi miserabili, come se fossero caduti sul campo dell'onore. Merode è ancora potente; domina il centro dei legittimisti e fa scorrere verso Roma i rivoli del denaro. Possiede perciò ambedue le chiavi per il cuore di Pio IX. » Ma era ormai evidente che il dominio temporale era agli sgoccioli: ci voleva maggior duttilità, per trattare con i governi dei Savoia, e alla fine de Merode fu sostituito, proprio su richiesta dei francesi, e con dispiacere del papa, che continuò ad utilizzarlo come proprio rappresentante personale e il 22 giugno 1866 lo creò arcivescovo titolare di Mitilene. L'immobiliarista Le delusioni politiche non impedirono comunque al de Merode di perseguire il proprio progetto di "hausmaniser Rome", progetto al quale si dedicò anzi totalmente, una volta libero dagli incarichi politici[3]. Le sue principali operazioni immobiliari furono condotte nell'area tra le Terme di Diocleziano e la vallata di San Vitale. Alle Terme di Diocleziano il cardinale ottenne - ancora regnante Pio IX - di far attestare la nuova stazione centrale di Roma (aperta nel 1863) e acquistò Villa Strozzi, sui cui terreni sorse poi il Teatro dell'Opera. Lungo la valle di San Vitale fu tracciato il collegamento tra la stazione ferroviaria e il centro direzionale dell'epoca (via del Corso). Le prime strade urbanizzate in questa zona furono Via Torino, Via Firenze, Via Napoli e Via Modena, e per quest'area il nuovo Comune di Roma fece propria, nel marzo 1871, la convenzione edilizia già stipulata con il De Merode. L'urbanizzazione di questa zona fu quindi l'oggetto della prima convenzione urbanistica approvata a Roma dal nuovo Stato sabaudo. L'arteria (oggi via Nazionale), fino all'altezza di via dei Serpenti sulla sinistra e di via della Consulta sulla destra, si chiamò per i primi anni, appunto, via de Merode, come tutto il quartiere intensivo costruito attorno. L'altra importante operazione immobiliare del cardinale fu ai Prati di Castello, di fronte al Porto di Ripetta, dove de Merode, in società con altri, acquistò nel 1870 Villa Altoviti e altri terreni. La convenzione relativa a questa urbanizzazione fu firmata nel 1873. Per favorire il popolamento del quartiere la società fece anche costruire a proprie spese un nuovo ponte di ferro, che avrebbe dovuto essere provvisorio ma che durò fino al 1901, quando fu aperto Ponte Cavour. Dei propri progetti urbanistici De Merode, venuto a morte nel 1874, non poté vedere che l'avvio. Note 1. ^ Per un'accurata descrizione dell'attività del de Merode come "proministro delle armi" si veda il capitolo Monsignor Francesco de Merode proministro delle armi in Roma, in Giubileo ai mercenari del settembre 1864 e di altre epoche, Torino 1865, pp. 135-138. 2. ^ Per un ritratto del de Merode visto con occhi a lui contemporanei si veda Emilio Cardinali, I briganti e la corte pontificia, Livorno 1862 pp. 59-61. 3. ^ Incarichi che del resto il monsignore belga aveva sempre saldamente connesso alla intraprendente gestione dei propri affari economici: « Ad imitazione del primo ministro [Antonelli] egli conformava le alte vedute di stato alla manìa d'arricchire. In mezzo alle assorbenti sue cure avea tratto a se la fornitura generale di tutte le carceri e delie darsene e tante innovazioni v'introdusse che parea dovessero per la prima volta essere fondate. » (op. cit., p. 61) 4. . Voci correlate • Giacomo Antonelli • Prati (rione di Roma) • Stazione Termini • Teatro Costanzi • Urbanistica a Roma tra il 1870 e il 2000 Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière o de la Moricière (Nantes, 1806 – Prouzel, 1865) è stato un generale e politico francese. Discendente da un'antica famiglia bretone fedele ai vecchi ricordi e alle antiche virtù, compì gli studi nella sua città natale;, fu ammesso al Politecnico; entrò nella scuola militare di Metz, dove ne uscì come luogotenente in seconda nel Reggimento del Genio il 31 gennaio 1829. Nel 1830 fu nominato capitano degli Zuavi e nello stesso anno partecipa alla spedizione d'Algeria. Viene nominato colonnello degli zuavi nel 1837. Nel 1843 viene nominato generale di divisione. Dal 1846 è protagonista di una rapida ascesa politica che lo porta, nel 1848 a diventare Ministro della guerra e vice-presidente dell'Assemblea legislativa. Nel luglio 1849 compie una missione in qualità di ambasciatore straordinario presso lo zar di Russia. Viene arrestato il 2 dicembre 1851 in quanto oppositore del colpo di stato di Luigi-Napoleone Bonaparte. Costretto all'esilio, rimane per 5 anni prevelentemente in Belgio. Nel 1860 si mette a disposizione dell'esercito pontificio dove tenta invano di opporsi all'invasione delle Marche e dell'Umbria da parte dell'esercito sabaudo. Viene sconfitto nella famosa battaglia di Castelfidardo. Su richiesta di monsignor de Mérode organizzò comunque il corpo degli Zuavi pontifici. La Moricière rientra quindi in Francia per finire i suoi giorni nel suo castello di Prouzel. Per ringraziarlo dei suoi servizi, papa Pio IX fece erigere per lui un cenotafio nella Cattedrale di Nantes[1], inaugurato nel 1879, mentre la città di Costantina gli dedicò un monumento[2] inaugurato nel 1909, ma che sarà portato in Francia alla fine della guerra d'Algeria e posato a Saint-Philbertde-Grandlieu, la città di origine della sua famiglia. Fonti Le livre d'Or de l'Algérie, Narcisse Faucon, Challamel et Cie Éditeurs Librairie Algérienne et Coloniale 1889. Note 1. ^ presentazione del cénotaphe 2. ^ vedi statue au sabre Altri progetti Wikimedia Commons contiene file multimediali su Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière Georges de Pimodan Un article de Wikipédia, l'encyclopédie libre. Georges de la Vallée de Rarecourt, marquis de Pimodan (29 janvier 1822 Échenay - 18 septembre 1860 Castelfidardo) est un officier français légitimiste au service de l'Autriche et des États pontificaux. Il est le fils de Camille, capitaine de cavalerie et de son épouse, née Claire Fauveau de Frénilly. Il fait ses études au collège de jésuites de Fribourg. Admis à Saint-Cyr, il refuse de prêter le serment de fidélité au régime de Louis-Philippe et poursuit ses études militaires en Autriche où il est en 1847 sous-lieutenant aux chevau-légers de l’Empereur. Georges de Pimodan Il est envoyé en garnison à Vérone alors sous domination autrichienne. Lors de la révolte en 1848 de la Lombardie, Vénétie et des duchés de Parme et de Modène soutenue par Charles-Albert de Sardaigne, il fait preuve de bravoure. Il est nommé capitaine et aide de camp du général Joseph Radetzky commandant en chef des troupes autrichiennes en Italie. Il part ensuite, sous les ordres du général Jelačić combattre la révolte hongroise dirigée par Kossuth. Lors de la bataille de Moor il prend presque seul une batterie ennemie. Parti en reconnaissance et fait prisonnier à Peterwardin, il est condamné à mort et ne doit la vie qu’à la défaite de l’armée hongroise d'Arthur Gorgey le 23 août 1849. Il est nommé major et comte. En 1851, il publie Souvenirs de la guerre de Hongrie sous le prince Windischgraetz et le ban Jellachich dans La Revue des Deux Mondes repris ensuite chez Allouard et Kaeppelin sous le titre Souvenirs des campagnes d'Italie et de Hongrie . A trente trois ans, il est nommé colonel. Il démissionne, rentre en France et épouse, le 29 mars 1855, Emma de Couronnel, fille d’un gentilhomme de Charles X. Fervent catholique, il rejoint les rangs de l’armée pontificale en avril 1860, sous les ordres de Lamoricière. Il est nommé chef d’état-major. Il participe aux combats de défense des frontières des états pontificaux et est promu général le 3 août. En septembre 1860, les troupes papales commandées par Lamoricière se portent sur Ancône, et sont arrêtées par le feu de l’artillerie piémontaise postée sur les hauteurs de Castelfidardo. Pimodan est chargé de les attaquer et trouve la mort. Pie IX conféra le titre de duc à ses descendants. Famille • Son fils Gabriel (16 décembre 1856-1924) fut un historien et un poète. Il publia entre autres une vie de son père, Poésies (1875) et Histoire d'une vieille maison le Château d'Echenay (1882). Il fut conseiller général de la Haute Marne et maire d'Échenay. • Son autre fils Claude Emmanuel Henri Marie (1859-1931) fut attaché militaire à la légation française au Japon. Il publia Promenades en Extrême-Orient où il relate ses voyages entre 1895 et 1898 (Paris Honoré Champion 1900). Il épousa vers 1895 Georgina de Mercy-Argenteau, dernière descendante de la famille Mercy-Argenteau, seigneur d'Ochain à Clavier en Belgique. Bibliographie • Gabriel de Pimodan : Vie du Général de Pimodan (1822-1860) publié par les soins de la duchesse de Pimodan, avec 12 phototypies H.T Librairie ancienne Champion 1929 • Les Gloires militaires contemporaines de la France Paris Maison de la Bonne Presse vers 1890 • Marquis de Ségur : Les martyrs de Castelfidardo, édition Tolra, Paris 1891 Hermann Kanzler Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Hermann Kanzler (Weingarten, 28 marzo 1822 – Roma, 6 gennaio 1888) è stato un militare tedesco, che fu il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate dello Stato pontificio durante la presa di Roma del 1870. Dal 1865 era pro-Ministro delle Armi e Comandante supremo delle forze pontificie. L'esperienza in Germania Kanzler nacque in una cittadina nei pressi di Karlsruhe da Max Anton, un impiegato dell'amministrazione fiscale del Granducato di Baden. Più tardi la famiglia si trasferì a Bruchsal, dove il ragazzo trascorse la sua giovinezza. Cominciò il suo servizio come tenente nel corpo dei Dragoni a Karlsruhe, dopodiché, vista la sua marcata militanza cattolica, entrò nelle file dell'esercito pontificio. Nel dicembre 1843 rassegnò definitivamente le sue dimissioni dall'esercito granducale. Nell'esercito pontificio Kanzler entrò nell'esercito del Papa nel 1845 col grado di capitano; combatté nel 1848 contro l'impero austriaco nel corso della I guerra d'indipendenza e nel 1859 fu nominato colonnello del primo reggimento dell'esercito pontificio; in seguito, l'anno successivo, fu promosso generale dall'allora comandante in capo Lamoricière, in riconoscimento delle sue audaci azioni a Pesaro ed Ancona contro l'esercito piemontese nel corso della II guerra d'indipendenza. Nell'ottobre 1865 divenne comandante supremo delle forze armate pontificie e proministro delle armi. Il 3 novembre 1867 comandò l'esercito papale a Mentana e sovrintese la difesa di Roma nel settembre 1870. Dopo il 1870 Dopo la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papa, Kanzler continuò ad essere nominalmente proministro fino al 1888 e rimase ad esercitare le sue funzioni di comandante in capo delle truppe e le armi papali, anche se solo simbolicamente. Al generale fu conferito anche il titolo nobiliare di barone von Kanzler. Sposò una donna dell'antica famiglia comitale romana dei Vannutelli, che di lì a poco avrebbe dato alla Chiesa due cardinali. Fu a lungo nel consiglio del Campo Santo Teutonico e fu amico del direttore dell'ente, Anton de Waal. Il figlio di Kanzler, il barone Rudolf Kanzler (nato il 7 maggio 1864) fu l'archeologo capo della Santa Sede e, fin dal 1896, fu membro della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra; considerato il "più abile conoscitore della topografia di Roma antica", ebbe una parte di primo piano negli scavi effettuati sotto la Basilica di San Pietro e nelle catacombe. Bibliografia • „Meyers grosses Konversations-Lexikon“, edizione 1908, pagina 583 • „Die Streiter für den apostolischen Stuhl im Jahre 1867“ (pagina 7), Andreas Niedermayer, Verlag für Kunst und Wissenschaft, Frankfurt, 1867 • „Roms letzte Tage unter der Tiara – Erinnerungen eines römischen Kanoniers“ (pagina 20 e segg.), Klemens August Eickholt, Päpstlicher Offizier a.D., Herder Verlag, Freiburg, 1917 • „Franz Josef Buss und die katholische Bewegung in Baden“ (pagina 349), Julius Dorneich, Herder Verlag, Freiburg, 1979 • „Das badische Offizierskorps 1840–1870/71“ (pagina 204), Karl-Heinz Lutz, Kohlhammer Verlag, Stuttgart, 1997 • „Die Katholische Kirche unserer Zeit und ihre Diener in Wort und Bild“, Band 1 (paginan 142, 579 e 671), Allgemeine Verlagsgesellschaft, Berlin, 1899 Pierre Louis Charles de Failly Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Pierre Louis Charles Achille de Failly (Rozoy-sur-Serre, 21 gennaio 1810 – Compiègne, 15 novembre 1892) è stato un generale francese. Generale di divisione, sconfisse Giuseppe Garibaldi a Mentana (1867) ed ebbe in seguito un ruolo significativo al comando del V Corpo d'armata dell'Armata d'Alsazia (nota anche come Armata di Châlons) comandata da Patrice de Mac-Mahon, nel corso della guerra franco-prussiana (1870). Da non confondere con Pierre Louis de Failly (172418..?), deputato della nobiltà del bailaggio di Vitry-le-François. La famiglia Figlio di Louis Charles conte di Failly e di Sophie de Mons de Maigneux (a volte riportata nei documenti come Desmons); si sposò nel 1857 con Felicité de Frézals de Bourfaud, nata a Compiègne il 19 aprile 1821. Carriera militare Diplomato alla École Spéciale Militaire de Saint-Cyr nel 1828, ebbe il suo battesimo del fuoco a Parigi, nel massacro della rue Transnonain, il 15 aprile 1834, guadagnandosi una reputazione di crudeltà. Promosso colonnello nell'agosto 1851, generale di brigata dal 29 agosto 1854, partecipò alla guerra di Crimea e ne tornò generale di divisione. Magenta e Mentana Dopo la campagna d'Italia il de Failly fu nominato grand'ufficiale della Legion d'Onore. Nel 1867, venne nominato comandante generale del piccolo corpo di spedizione francese inviato a fermare l'azione di Garibaldi su Roma, anche se affidò a dei sottoposti l'azione che portò alla battaglia di Mentana. Rimasto a Roma, fu lui che dopo Mentana telegrafò a Parigi: «i nostri fucili Chassepot hanno fatto delle meraviglie», frase poco felice per la quale fu criticato. La guerra franco-prussiana Senatore dell'Impero, nel 1870 assunse il comando del V Corpo d'armata della Armata d'Alsazia. Gli venne rimproverata la condotta alla battaglia di Reichshoffen, il 6 agosto 1870, quando non offrì sufficiente assistenza al suo comandante Mac-Mahon. Il 30 agosto 1870, si fece sorprendere dai prussiani alla battaglia di Beaumont, subendo importanti perdite. In effetti egli era giunto in ritardo in città poiché raggiunto in ritardo dai portaordini, e seppe proteggere la ritirata verso la Mosa in modo non insoddisfacente, alla luce delle sfavorevoli sproporzioni di forze con il nemico. Egli venne, comunque, sostituito dal generale Emmanuel Félix de Wimpffen nel corso della ritirata da Beaumont a Sedan. Sicuramente pesò la sconfitta a Beaumont, probabilmente la cttiva fama guadagnata a Reichshoffen. In ogni caso era considerato un favorito dell'imperatore, il quale, in quei giorni di estrema difficoltà, doveva pur offrire qualche capro espiatorio ad una opinione scalpitante pubblica. Fatto prigioniero alla battaglia di Sedan, di ritorno dalla prigionia in Germania scampò alla corte marziale e si ritirò a vita privata. Pubblicò un libro di memorie intitolato Campagne de 1870. Opérations et marches du 5ème corps jusqu'au 31 août (Bruxelles, 1871). Onorificenze Grand officier della Legion d'Onore Medaille Commémorative de la Campagne d'Italie de 1859 Croce di Mentana Altri progetti Wikimedia Commons contiene file multimediali su Pierre Louis Charles de Failly Zuavi pontifici Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. « Uniti e compatti vi siete battuti su diversi campi di battaglia: vi sovvenga che il sangue sparso è legame più forte di un giuramento » (Generale Athanase de Charette nell'Ordine del Giorno del 13 Agosto 1871 della Legione dei Volontari dell'Ovest) Il Battaglione degli zuavi pontifici fu creato il 1º gennaio 1861 sul modello dei corpi di Zuavi dell'esercito francese. Divenuto reggimento il 1º gennaio 1867, il corpo era costituito da volontari, in maggioranza francesi, belgi e olandesi, venuti a difendere lo Stato pontificio minacciato dalle guerre condotte dal Piemonte per l'Unità d'Italia. La sua storia si identifica con l'ultimo decennio di vita dello Stato della Chiesa (1860-1870). Il reggimento fu licenziato il 21 settembre 1870, dopo la presa di Roma. La creazione del corpo degli zuavi pontifici Nel 1860 la sorte dello Stato pontificio appariva assai critica, nel disinteresse delle potenze cattoliche d'Europa. Fu allora che il cameriere segreto del papa Pio IX monsignor Francesco Saverio de Mérode, ex militare della Legione straniera francese divenuto proministro delle armi del papa, decise di fare appello al generale de Lamoricière perché riorganizzasse l'esercito pontificio e ne prendesse il comando. Il de Lamoricière accettò la proposta di comandare l'Esercito Pontificio, rispondendo che "un figlio non può non rispondere alla chiamata di un padre". Per aumentare gli effettivi, Lamoricière ricorse all'arruolamento volontario, facendo appello agli stati cattolici. Belgi e francesi costituirono un battaglione di tiratori franco-belgi agli ordini del visconte Louis de Becdelièvre, al quale si deve l'uniforme del corpo, ispirata a quella degli zuavi, ma adattata alla temperatura di Roma[1]. L'idea trovò il sostegno di monsignor de Merode e del papa in persona, sicché questi tiratori furono chiamati zuavi pontifici anche prima della creazione ufficiale del corpo[2]. Con la sconfitta delle truppe pontificie alla battaglia di Castelfidardo, il 18 settembre 1860, lo Stato pontificio si trovò ridotto al solo Lazio. Il disastro fece allora affluire i volontari a Roma: il battaglione degli zuavi pontifici fu così costituito da una parte dei tiratori franco-belgi e dagli irlandesi del Battaglione san Patrizio, ai quali si erano aggregati, prima della battaglia, i pochi "crociati" di Henri de Cathelineau[3]. Provenienza degli effettivi Fino al 1864 il battaglione degli zuavi contava dai 300 ai 600 uomini. La forza salì a 1.500, poi a 1.800, fino a raggiungere le 3.200 unità poco prima della caduta di Roma. Tra il 1861 e il 1870 si avvicendarono nel corpo oltre 10.000 nuovi arruolati, provenienti da 25 diverse nazioni. I più numerosi erano gli olandesi, i francesi e i belgi, ma vi si trovavano anche svizzeri, tedeschi, italiani, canadesi e anche americani.[4] Su 170 ufficiali, 111 erano francesi e 25 belgi. Il loro cappellano era monsignor Jules Daniel, di Nantes, assistito da due belgi, monsignor Sacré e monsignor de Wœlmont. La paga era di cinquanta centesimi al giorno, una razione di minestra, pane e caffè.[5] Gli zuavi franco-belgi Per quanto riguarda i francesi, più di un terzo del totale provenivano dai dipartimenti delle attuali regioni della Bretagna[6] e dei Paesi della Loira; altri contingenti non trascurabili provenivano da Nîmes e dal Massiccio Centrale. I belgi fiamminghi e gli olandesi erano spesso di estrazione popolare e attratti da alte paghe, mentre la nobiltà era ben rappresentata tra i francesi e i volontari belgi francofoni[7]. Questi ultimi, in particolare, si dicevano mossi dall'attaccamento alla Chiesa cattolica romana e accreditavano l'impegno militare come una crociata per difendere la capitale del cattolicesimo e la libertà del papa contro il rivoluzionario Garibaldi e il re anticlericale Vittorio Emanuele II, ma certamente il loro impegno religioso era tutt'uno con lo schieramento politico sul fronte legittimista. Alcuni vantavano, per esempio, tra i loro antenati e avi alcuni contro-rivoluzionari che combatterono nelle Guerre di Vandea, come il generale de Charette o Henri de Cathelineau. Gli zuavi dell'Impero Britannico In Inghilterra e nei paesi soggetti alla Gran Bretagna la propaganda cattolica era mal vista dai protestanti e anglicani, che, naturalmente, accusavano di "papismo" gli ambienti cattolici. Nonostante ciò ebbe un notevole successo, riscuotendo volontari in più da arruolare tra le fila degli Zuavi pontifici. Un esempio è il Canada. Gli zuavi canadesi Nel Québec, la provincia francofona e cattolica del Canada, la notizia della proclamazione del regno d'Italia nel 1861 era arrivata nel bel mezzo di un'intensa lotta ideologica tra la Chiesa appoggiata dalla maggioranza conservatrice del paese, e i "Rouges", minoranza di radicali liberali che propugnava idee di laicità, suffragio universale, libero scambio e annessione agli Stati Uniti, che veniva assimilata al fronte antipapista in Italia. L'arcivescovo di Montréal, Ignace Bourget, aveva lanciato un appello alle diocesi di tutto il mondo, assai gradito a Roma, perché finanziassero la solidarietà con il papa attraverso sottoscrizioni, e in questo quadro venivano incoraggiati anche gli arruolamenti di giovani nel corpo degli zuavi. Dopo la battaglia di Mentana la campagna fu intensificata, e nel 1868 erano complessivamente 388 i canadesi partiti alla volta di Roma. Nello Stato pontificio, le loro operazioni militari si limitarono generalmente a lunghi pattugliamenti nella campagna romana a caccia di briganti[8]. Nessuno zuavo canadese fu ucciso in combattimento. Di quelli che non tornarono, uno si fece monaco, due si arruolarono nell'esercito francese e 9 erano morti di malattia. E tuttavia una nuova città, Piopolis, fu fondata nel 1871 per ospitarvi i reduci della campagna d'Italia, e nel 1899 l'ex cappellano del battaglione fondò un'Associazione degli zuavi del Québec, organizzazione paramilitare che rimase in vita fino al 1984, quando formò la guardia d'onore per la visita di Giovanni Paolo II; dopo, si sciolse per mancanza di partecipanti[9]. Gli zuavi olandesi In Olanda la propaganda cattolica ebbe molto successo e furono molti i giovani che partirono per Roma per difendere il pontefice Pio IX. Si trattava per lo più di gente semplice ed anche povera, al massimo benestante, non appartenente a famiglie aristocratiche. Gli olandesi erano, poi, il gruppo maggiore negli Zuavi pontifici, sebbene la maggior parte di loro, erano solo soldati semplici e non rivestivano alcuna carica importante (erano pochi infatti gli ufficiali olandesi). Tra i tanti olandesi che morirono, quello più conosciuto è Pieter Jansz Jong, caduto nella Battaglia di Montelibretti. Attualmente, in Olanda esiste una squadra di calcio chiamata "Zouaven", stemma bianco-rosso con chiavi decussate, dedicata agli Zuavi pontifici e a Oudenbosch c'è un museo solo sugli Zuavi pontifici olandesi. Le vicende militari Il comando, affidato al colonnello de Becdelièvre, passò presto al colonnello Allet, uno svizzero da lungo tempo al servizio del papa. La linea intransigente e belligerante sostenuta dall'ideatore de Merode e dai gesuiti sembrò sconfessata nel 1865: con la convenzione di settembre la Francia s'impegnava infatti a ritirare le proprie truppe entro due anni, e il 25 settembre de Merode fu sostituito, come proministro delle armi, dal generale Hermann Kanzler. Continuava tuttavia la guerriglia garibaldina (Garibaldi era visto, dai papalini in generale e dagli Zuavi in particolare, come l'Anticristo), sostenuta sottobanco dai piemontesi, e fu con le camicie rosse che gli zuavi dovettero sostenere diversi scontri a difesa delle frontiere del Lazio, fino a quello decisivo del 1867. La campagna del 1867 e Mentana Per approfondire, vedi la voce Battaglia di Mentana. A fine settembre 1867 i garibaldini tentarono l'invasione dello Stato pontificio, convinti di dare la spallata finale al pericolante dominio papalino suscitando l'insurrezione di Roma. In questo contesto, un attentato alla caserma Serristori, in Borgo, provocò la morte di 25 degli zuavi che vi erano acquartierati, oltre a quella di alcuni civili. La sollevazione popolare della città tuttavia non vi fu. Il 26 ottobre Garibaldi occupò Monterotondo e lì si fermò, nonostante alcune scaramucce dirette verso la città, lasciando che un corpo di spedizione francese sbarcato a Civitavecchia il 29 raggiungesse Roma. Nel frattempo - il 27 ottobre Vittorio Emanuele II emanava il proclama che disapprovava l'azione garibaldina, e non pochi dei circa 8.000 effettivi di Garibaldi disertavano l'azione. La controffensiva pontificia, il 3 novembre, fu guidata dal generale Hermann Kanzler, a capo di una forza di circa 8.000 uomini costituita da carabinieri pontifici, zuavi e volontari francesi della legion d'Antibes. La battaglia si concentrò a sud di Mentana, mentre Garibaldi cercava di spostare i suoi uomini verso Tivoli, per sciogliere lì la spedizione, e i papalini la ebbero vinta. Il 6 novembre le truppe franco-pontificie sfilavano vittoriose a Roma e il popolo gridava "Viva Pio IX, viva la Francia, viva gli zuavi, viva la religione!". In seguito Pio IX fece erigere un monumento in ricordo dei caduti pontifici del 1867 nel Cimitero del Verano.Nel 2008 un Associazione di parte Pontificia scrisse una lettera al Sindaco di Monterotondo Lupi chiedendo di sostituire le lapidi degli zuavi nel locale cimitero in quanto c'è la scritta "mercenari del Papa". Il primo cittadino girò la richiesta al Direttore del Museo nazionale della Campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma che fornì ampi riferimenti storici sulla definizione riferita agli Zuavi. Tutto è rimasto invariato. Non è da dimenticare ciò che successe poco prima della Campagna del 1867 quando gli zuavi si ritrovarono a soccorrere la popolazione di Albano Laziale colpita dal colera. Giunti ad Albano Laziale 42 zuavi comandanti dal sergente Serio, napoletano, trovarono il paese in situazioni drastiche, nella piazza principale erano ammucchiati morti in stato di decomposizione. Il giorno seguente arrivò il tenente de Resimont che con il suo sergente maggiore de Morin volle dare l'esempio raccogliendo un cadavere e portandolo nel cimitero. Così durante il giorno e la notte gli zuavi diedero sepoltura ai cadaveri che si trovarano per le strade del paese. Li raggiunsero anche altri zuavi tra cui de Charette, de Troussures e de Veaux (che morirà a Mentana). Seguì poi l'arrivo del generale Kanzler che non solo portò il messaggio di gratitudine di Pio IX agli zuavi ma donò alcune onorificenze a chi più si distinse per la sua abnegazione (come de Resimont, Tuccimei, de Morin, ...) . Furono 6 gli zuavi morti ad Albano soccorendo la popolazione colpita dal colera. La caduta di Roma La guerra franco-prussiana del 1870 provocò la ritirata delle truppe francesi e consentì l'invasione dello Stato pontificio da parte dell'esercito italiano al comando del generale Raffaele Cadorna. A fronte dei 70.000 italiani, gli effettivi pontifici non superavano i 13.000, di cui 3.000 zuavi. Kanzler decise perciò di concentrare le proprie forze nella difesa di Roma. Ai primi colpi di cannone, il 20 settembre, il papa chiese al generale di cessare il fuoco. Nei combattimenti morirono soltanto 11 zuavi. Attilio Vigevano ricorda un fatto singolare che accadde al maggiore de Troussures, lo zuavo che si ritrovò a comandare i suoi commilitoni a Porta Pia. Sembra infatti che durante il combattimento ebbe un presentimento della sua morte in Francia che avvenne qualche mese dopo nella Battaglia di Loigny: «...Parrebbe che il maggiore de Troussures, indicando sulla via Salara la chiesa di Trasone e Saturnino e la zona delle antiche catacombe estendesi oltre la tomba del tribuno Peto, dicesse di udire le voci dei cristiani seppelliti vivi nelle catacombe di Crisando e Dario, chiamarlo perché li raggiungesse...»[10] Riferisce sempre Attilio Vigevano un altro aneddoto: gli zuavi, durante il combattimento, si fermarono ad intonare il loro canto preferito,quello dei Crociati di Cathelineau: «Intonato dal sergente Hue, e cantato da trecento e più uomini, l'inno echeggiò distinto per alcuni minuti; il capitano Berger ne cantò una strofa ritto sulle rovine della breccia colla spada tenuta per la lame e l'impugnatura rivolta al cielo quasi a significare che ne faceva omaggio a Dio; presto però illanguidì e si spense nel ricominciato stridore della fucilata, nel raddoppiato urlio, nel tumulto delle invettive»[11] Il loro reggimento fu licenziato l'indomani. Prima di partire per ritornare in patria, gli zuavi, per l'ultima volta, si ritrovarono in Piazza San Pietro a salutare Pio IX. Ecco il racconto dello zuavo irlandese O'Clery: «Quando tutti i soldati furono schierati, rivolti verso il Vaticano e pronti a partire, il colonnello Allet fece un passo avanti e, con la voce rotta dall'emozione, gridò: "Mes enfats! Vive Pie Neuf! ". Un poderoso evviva proruppe dalla truppa. Proprio in quel momento il Papa apparve al balcone, e, levando le mani al cielo, pregò: "Che Iddio benedica i miei figli fedeli! ". L'entusiasmo di quel momento supremo fu indescrivibile. Con un frenetico Eljen! uno zuavo ungherese sfoderò la spada e subito, con un simultaneo struscio di acciaio, migliaia di spade sguainate brillarono al sole. La scena fu assolutamente commovente. Al pensiero di lasciare il Santo Padre, lacrime di amarissimo rimpianto solcarono le guance di quegli uomini, che avevanoo sfidato la morte in tante disperate battaglie. Le trombe diedero l'ordine di avanzare e, nel muoversi, la testa della colonna lanciò un ultimo triste grido di "Viva Pio IX!" che, riecheggiato fila dopo fila, fu ripetuto da tutto l'esercito e dalla folla radunatasi per assistere alla partenza. »[12] Dopo ciò i francesi venivano imbarcati alla volta di Tolone. Nella nave che li riportava in patria il colonnello Allet distribuì ad ognuno a piccoli lembi la bandiera del reggimento in modo che ogni zuavo potesse portare con sè un ricordo di quel periodo trascorso a Roma in difesa dello Stato Pontificio. Rivolse anche un ultimo saluto: «Zuavi! Trasmettendovi gli addii del generale de Courten io mi associo pienamente agli elogi che egli vi fa e che voi avete così bene meritato. Se c'è qualcosa che possa attenuare il dolore della nostra seprazione è il ricordo dei dieci anni che abbiamo passati insieme. Tempi migliori risplenderanno per voi; quanto a me io applaudirò da lontano i vostri successi e il mio cuore sarà sempre con voi. Se ho fatto qualcosa di buono è presso di voi che io vengo a cercare la mia ricompensa e io l'avrò piena ed intera se vivo nel vostro ricordo. Addio signori! La sorte ci divide, ma lo stesso sentimento ci unirà sempre: la devozione e la fede nella causa che noi abbiamo servita dieci anni insieme»[13] Gli zuavi pontifici alla guerra franco-prussiana «...Bella fu la condotta degli zuavi pontifici in Francia: fede ed amor di Patria sposandosi alla combattività produssero un eroismo tanto più elevato in quanto sventurato.»[14] Al ritorno in Francia Charette[15] offrì i propri servigi alla difesa nazionale, che lo autorizzò a fondare un corpo franco lasciandogli libertà d'azione e l'uniforme da zuavo, ma a condizione di cambiare il nome in Légion des volontaires de l'Ouest. La Legione partecipò onorevolmente alla guerra (memorabile fu la Battaglia di Loigny dove gli zuavi combatterono eroicamente) e fu sciolta il 13 agosto 1871, dopo essere stata consacrata al Sacro Cuore di Gesù dal de Charette con queste parole: «All'ombra di questa bandiera tinta dal sangue delle nostre più nobili e care vittime, io generale Barone de Charette, che ho l'insigne onore di comandarvi, consacro la Legione dei Volontari dell'Ovest, gli zuavi pontifici, al Sacro Cuore di Gesù, e con tutto il cuore e con tutta la mia fede di soldato io dico e prego tutti voi di ripetere con me: Cuore di Gesù salvate la Francia!»[16] Sempre il de Charette salutò per l'ultima volta la Legione, quando fu sciolta (sebbene il ministro della guerra Ernest Courtot de Cissey aveva proposto alla Legione di entrare nell'esercito regolare), nell'Ordine del Giorno del 13 agosto 1871: «(...) egli (il ministro della guerra) ci aveva offerto la più bella ricompensa nazionale alla quale potessimo ambire proponendo a noi, corpo di Volontari, di far parte dell'esercito regolare. Ben forti sono le ragioni che ci consigliano a rinunziare all'onore che ci viene offerto. Ma venuti in Francia come zuavi pontifici, non ci crediamo in diritto di vincolare la nostra libertà, nè di introdurre nell'esercito un'uniforme che non ci appartiene: io ho dunque domandato il licenziamento. Voi tornate ai vostri focolari, ma il vostro compito non è finito. Uniti e compatti vi siete battuti su diversi campi di battaglia: vi sovvenga che il sangue sparso è legame più forte di un giuramento: se la Francia farà appello di nuovo al patriottismo de' suoi figli, voi tutti accorrerete alla prima chiamata, il ministro fa assegnamento sopra di voi, ed io ne sono sicuro. Arrivederci, miei cari camerati, col cuore profondamente commosso io mi separo da voi. Non è senza dolore che si estingue un'esistenza di undici anni, in cui tutto era comune, gioie, dolori e sacrifici. Ciò nullameno non ci lasciamo abbattere: ancor ci rimangono due grandi cose: la fede nella nostra causa, che è pur quella della Chiesa e della Francia e la speranza del trionfo. Serbiamoci degno della causa, Dio ci darà il trionfo. Generale de Charette»[17] Alcuni figli di zuavi combatterono nella Prima Guerra Mondiale, tanto che su di loro fu scritto anche un libro con il titolo "Régiment des Zouaves Pontificaux. Franco-belges, Zouaves, Volontaires de l'Ouest et leurs familles pendant la guerre de 1914-1918." Ideologia del corpo « Oh, com'è bella -gridavam - la morte / Per la Fede degli Avi; oh! quale sorte / Perir con l'armi in pugno / Pei patrii monti e le valli natie, / Da estranei fanti e cavalli calpestati.[18] » Sul piano diplomatico ed economico la creazione del corpo degli zuavi pontifici è legata alla linea più tradizionalista della Curia romana dell'epoca, che trovava eco negli ambienti cattolici conservatori e legittimisti di tutto il mondo. In tutto il mondo occidentale, numerosi preti lanciarono appelli ad arruolarsi in questo corpo, e gli zuavi morti apparivano agli occhi di molti come martiri moderni.[19] Sul piano militare rappresentavano uno dei migliori reggimenti dell'Esercito Pontificio, se non l'elitè vera e propria. La loro disciplina fu frutto soprattutto del loro primo comandante de Becdelievre che ebbe a dire: «(...) il vero coraggio si mostra nelle prove giornaliere della vita militare più ancora che sul campo di battaglia»[20]. Mentre il loro valore e il loro eroismo fu dovuto principalmente ai principi che li animarono. Significativo è ciò che dice lo studioso Lorenzo Innocenti: «(...) furono il "baluardo del Trono e dell'Altare" e contribuirono in maniera determinante con il loro volontariato mistico - contrapposto alla fede laica dei garibaldini e a quella monarchica delle truppe dell'esercito piemontese - a ritardare di qualche anno l'annessione dello Stato della Chiesa al resto d'Italia.»[21]. Lo stesso testo del giuramento prestato dai soldati è abbastanza rappresentativo delle motivazioni che li animavano: « Je jure à Dieu Tout-Puissant d'être obéissant et fidèle à mon souverain, le Pontife Romain, Notre Très Saint Père le Pape Pie IX, et à ses légitimes successeurs. Je jure de le servir avec honneur et fidélité et de sacrifier ma vie même pour la défense de sa personnalité auguste et sacrée, pour le maintien de sa souveraineté et pour le maintien de ses droits. » (Giuro a Dio onnipotente d'essere ubbidiente e fedele al mio sovrano, il Pontefice romano, nostro Santo Padre il papa Pio IX, e ai suoi legittimi successori. Giuro di servirlo con onore e fedeltà e di sacrificare la mia vita per la difesa della sua persona augusta e sacra, per il mantenimento della sua sovranità e per il mantenimento dei suoi diritti. ) Gli zuavi, in particolare, suscitarono un impegno finanziario non trascurabile da parte dei cattolici, soprattutto in Francia: oltre al già citato esempio di finanziamento da parte di ricchi nobili, va notato che gli ufficiali dovevano spesso provvedere a proprie spese all'equipaggiamento (ciò può spiegare perché queste truppe godessero di un equipaggiamento relativamente moderno, come i noti fucili Remington mod.1868). Note 1. ^ L'uniforme degli zuavi pontifici non entusiasmò la curia, dove un cardinale ebbe a dire, considerando i calzoni a sbuffo, - "È proprio un'idea da francesi, vestire i soldati del papa da musulmani." - ma l'idea piacque a Pio IX. 2. ^ Questa affluenza di truppe straniere creò anche non pochi problemi. Si veda in Carlo Belviglieri, Storia d'Italia dal 1814 al 1866, vol. V, Milano 1868, p. 228: « Lamoricière fece levare ad Antonelli il portafogli della guerra e conferirlo al De Mérode (con che cominciò l'antagonismo tra il cardinale italiano ed il prelato belga); dispose i quadri, gli armamenti, istituì i zuavi pontifici, ed infine cimentossi a stabilire la militar disciplina; difficile impresa tra le antiche truppe pontificie, difficilissima tra i nuovi venuti, perché quelli di gran nome aveano tutti i pregiudizi, le pretensioni, l'arroganza aristocratica; gli altri, e massime gli irlandesi, erano un'affamata bordaglia e ad ogni istante commettevano scandali, risse, ruberie, tanto che si dovette venire alla risoluzione di rinviare i più riottosi, ed infine di fucilarne. Ciò nondimeno il fermo volere ottenne più di quanto era sembrato possibile. » 3. ^ Henri comte de Cathelineau (1813-1891) fu un generale di brigata francese al seguito del generale vandeano e legittimista Louis Auguste Victor de Ghaisne de Bourmont. Giunto a Roma per sostenere i domini minacciati del papa creò qui, su richiesta di Pio IX, un ordine militare detto "Croisés de Cathelineau", che ebbe pochi mesi di vita, e i cui membri residui confluirono nel corpo degli zuavi pontifici. 4. ^ Il 21 settembre 1870, quando gli Zuavi pontifici si ritrovarono per l'ultima volta in Piazza San Pietro, tra le loro fila c'erano: 1.172 olandesi, 760 francesi, 563 belgi, 297 tra canadesi - inglesi - irlandesi, 242 italiani, 86 prussiani, 37 spagnoli, 19 svizzeri, 15 austriaci, 13 bavaresi, 7 russi e polacchi, 5 del Baden, 5 degli Stati Uniti, 4 portoghesi, 3 essiani, 3 sassoni, 3 wuttemburghesi, 2 brasiliani, 2 equadoregni, 1 peruviano, 1 greco, 1 cittadino monegasco, 1 cileno, 1 ottomano ed 1 cinese. 5. ^ Patrick Keyes O'Clery, La rivoluzione italiana, Edizioni Ares, pg.654 (Nota 1) 6. ^ Dal seminario di Nantes proveniva, ad esempio, il volontario Giuseppe Luigi Guérin del corpo de' Zuavi pontificii franco-belgi, la cui biografia pubblicata in Roma nel 1862 è un ottimo esempio dell'ideologia che animava queste truppe. 7. ^ Il duca de La Rochefoucauld-Doudeauville e suo fratello il duca de La Rochefoucauld-Bisaccia, ad esempio, sostennero finanziariamente l'impresa equipaggiando completamente 1.000 uomini. 8. ^ Con i quali del resto le truppe papaline furono spesso conniventi, considerandoli un punto di resistenza agli invasori italiani. Si veda in Il brigantaggio nelle province napoletane - Relazioni della Commissione d'inchiesta della Camera de' Deputati, Napoli 1863, p. 84 e passim: « Nei mesi d'agosto e settembre dell'anno 1862 scorso erano a Forzino ad Anagni a Rissa molte truppe papaline e squadriglie di briganti sotto la direzione dell ispettore della polizia pontificia. » 9. ^ Per una trattazione più ampia del tema "zuavi canadesi" si veda la voce francese. 10. ^ Attilio Vigevano, La Fine dell'Esercito Pontificio, Albertelli, pg.544 11. ^ Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio, Albertelli, pg.571 12. ^ Patrick Keyes O'Clery, La Rivoluzione italiana, Edizioni Ares, pg.722 13. ^ Piero Raggi, La Nona Crociata, Libreria Tonini Ravenna, pg.37 14. ^ Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio, pg.764 15. ^ Athanase de Charette de la Contrie (1832-1911), pronipote di François-Athanase Charette de La Contrie, era un militare professionista. Operò in Austria e in Italia, come tenente colonnello degli zuavi pontifici agli ordini di Allet. Divenuto generale dopo il ritorno in Francia, partecipò con onore alla guerra franco-prussiana, ma si rifiutò di intervenire nelle repressione della Comune di Parigi, non certo per simpatia ideologica, ma perché rifiutava di battersi contro altri francesi, come aveva già mostrato nel 1859, dimettendosi dall'esercito austriaco quando questo era divenuto avversario della Francia durante la Seconda guerra di indipendenza italiana. 16. ^ Piero Raggi, La Nona Crociata, Libreria Tonini Ravenna, pg.38 17. ^ Piero Raggi, La Nona Crociata, Libreria Tonini Ravenna, pg. 39 18. ^ Antonmaria Bonetti, Il Volontario di Pio IX, pg. 77 19. ^ Mentre gli zuavi pontifici venivano visti dai liberali e risorgimentali come veri e propri "mercenari", molti ambienti cattolici e legittimisti, invece, li rivalutarono parlandone come "nuovi crociati". Un esempio è il libro "I martiri di Castelfidardo" di De Segur dedicato ai caduti pontifici della Battaglia di Castelfidardo. Un altro esempio è ciò che scrisse Santa Teresina del Gesù Bambino: «Sento nell'anima mia il coraggio di un Crociato, di uno Zuavo pontificio (...) (Storia di un'anima, manoscritto B, lettera a Suor Maria del sacro Cuore) » 20. ^ L.A. de Becdelièvre, Souvenirs de l'armée pontificale, Lecoffre fils, pg.189 21. ^ L.Innocenti, Per il Papa Re, pg.I (Introduzione) Bibliografia • Anonimo, Olderico ovvero il zuavo pontificio, racconto del 1860 pubblicato in La Civiltà cattolica anno duodecimo, vol. XI della serie quarta, Roma 1861, pp. 26–41; episodio romanzato e lacrimevole della sconfitta dell'esercito pontificio a Castelfidardo. • Teodoro Salzillo, I fatti d'arme delle prodi legioni pontificie nella invasione garibaldesca di ottobre e novembre 1867 del Patrimonio di San Pietro, Roma, 1868 • Emilio Faldella, Storia degli eserciti italiani, Bramante editrice, 1976 • Piero Raggi, La Nona Crociata, Libreria Tonini Ravenna, 2a edizione • Lorenzo Innocenti, Per il Papa Re, Esperia Editrice, 2004 • Antonmaria Bonetti, Il Volontario di Pio IX, Centro librario Sodalitium, 2007 • Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio, Albertelli, 1995 Voci correlate • Athanase de Charette • Questione romana • Terza guerra di indipendenza italiana • Hermann Kanzler • Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière Altri progetti Wikimedia Commons contiene file multimediali su Zuavi pontifici Zouaves pontificaux Un article de Wikipédia, l'encyclopédie libre. Créé le 1er janvier 1861 sur le modèle des troupes de zouaves de l'armée française, dont l'uniforme exotique est très populaire au milieu du XIXe siècle, le bataillon des zouaves pontificaux, devenu régiment au 1er janvier 1867 est constitué de volontaires, majoritairement français, belges et hollandais, venus défendre l'État pontifical dont l'existence est menacée par la réalisation de l'Unité italienne au profit du Piémont. Leur histoire s'identifie avec la dernière décennie de l'État du Saint-Siège (1860-1870). Le régiment est licencié le 21 septembre 1870 à la suite de la disparition des États pontificaux. La création du corps des zouaves pontificaux En 1860 le sort de l'État pontifical paraît critique. Les puissances catholiques se désintéressent de la question, aussi le camérier secret du pape Pie IX, Mgr Xavier de Mérode, ancien militaire devenu proministre des armes, décide de faire appel au général de Lamoricière pour réorganiser et commander l'armée pontificale. Pour augmenter les effectifs, Lamoricière recourt à l'enrôlement volontaire et fait appel aux États catholiques. Belges et Français constituent un bataillon des tirailleurs franco-belges sous les ordres du vicomte Louis de Becdelièvre. Celui-ci veut personnellement les doter de l'uniforme inspiré des zouaves, et adapté à la chaleur romaine. Assez mal accueilli par Lamoricière qui a bien d'autres problèmes plus urgents, il a le soutien de Mgr de Merode et du Pape lui-même ; les tirailleurs sont donc appelés zouaves pontificaux avant même la création officielle du corps. Les Piémontais écrasent les Pontificaux à la bataille de Castelfidardo (18 septembre 1860) et l'État du pape se trouve réduit au seul Latium. Le désastre fait affluer les volontaires à Rome : le bataillon des zouaves pontificaux est constitué d'une partie des tirailleurs franco-belges et des Irlandais du bataillon de Saint-Patrick, auxquels s'étaient ajoutés, avant la bataille, les quelques « croisés » d'Henri de Cathelineau. Caractéristiques des zouaves pontificaux Les effectifs et l'origine géographique Jusqu'en 1864, les zouaves comptent entre 300 et 600 hommes puis l'effectif monte à 1 500 hommes puis 1 800 avant d'atteindre le maximum de 3 200 hommes peu avant la chute de Rome. Entre 1861 et 1870, il y a plus de 10 000 nouveaux engagés issus de 25 nationalités différentes. Les plus nombreux sont les Hollandais, les Français et les Belges mais on trouve aussi des Suisses, des Allemands, des Italiens, des Canadiens et même des Américains. Sur 170 officiers, on compte 111 Français et 25 Belges. Leur aumônier est Mgr Jules Daniel, un Nantais, assisté par deux Belges, Mgr Sacré et Mgr de Wœlmont. Pour les Français, les départements constituant les actuelles régions de la Bretagne et des Pays de Loire représentent plus du tiers du total. Cette affluence masque les apports non négligeables du Nord, de la région de Nîmes, et du sud du Massif Central. Si Belges néerlandophones et Hollandais sont souvent d'origine populaire, la noblesse est bien représentée chez les Français et les volontaires belges francophones. Le duc de La Rochefoucauld-Doudeauville et son frère, le duc de La Rochefoucauld-Bisaccia soutiennent financièrement l'entreprise en équipant complétement 1000 hommes. Leur point commun est leur attachement à l'Église catholique romaine : leur combat est vu comme une croisade pour défendre la capitale du catholicisme et la liberté du pape contre le révolutionnaire Garibaldi et le roi anticlérical Victor-Emmanuel II. Leur engagement religieux est souvent inséparable de leur engagement politique : nombreux sont les Français qui se réclament du légitimisme. L'uniforme[ De couleur gris-bleu, il se compose d'une courte veste à soutaches rouges au col dégagé, un grand pantalon bouffant retenu par une large ceinture rouge et un petit képi à visière carrée. Les officiers portent des soutaches noires. La tiare et les clés croisées de Saint-Pierre sont gravées sur les boutons de cuivre. Les officiers portent des bottes et les soldats des molletières jaunes. Il a été prévu une coiffure de grande tenue, sorte de colback en faux astrakan de laine noire, sans visière, à calot de drap rouge; une courte fourragère, terminée par un gland pendant à droite, le tout en laine rouge, en fait le tour. Pour les officiers, le talpack est en astrakan véritable et le calot porte un nœud hongrois en soutache d'or. La tenue des zouaves pontificaux n'enthousiasme pas la Curie, un cardinal a ce mot : « c'est bien une idée de Français d'habiller en musulmans les soldats du pape » mais l'idée plut à Pie IX. La solde est élevée d'où le qualificatif de mercenaire utilisé par leurs adversaires pour les discréditer. Un corps remis en question Le commandement est confié de nouveau au colonel de Becdelièvre mais il est rapidement remplacé par le colonel Allet, un Suisse depuis longtemps au service du Pape. La ligne intransigeante et belligérante défendue par Mérode et qu'incarne les zouaves paraît désavoué en 1865 : par la convention franco-italienne du 15 septembre 1864, l'Italie s'engage à respecter l'État pontifical et la France s'engage à retirer ses troupes dans les deux ans. Le 20 octobre 1865, le camérier secret se voit retirer son ministère au profit du général Hermann Kanzler. Mais si les Piémontais, en effet, ne peuvent plus bouger officiellement, ils soutiennent en sous-main le harcèlement que mènent Garibaldi et ses « chemises rouges ». C'est avec eux que les zouaves vont connaître divers « accrochages » dans la défense des frontières du Latium, jusqu'à l'affrontement de 1867. La campagne de 1867 et Mentana[modifier] Le retour des périls[modifier] Article connexe : Troisième guerre d'Indépendance italienne. Avec la cession de la Vénétie par l'Autriche battue par la Prusse en 1866 et le retrait des troupes françaises, l'aile radicale des patriotes italiens relance les projets d'annexion. Garibaldi déclare venu le temps de « faire crouler la baraque pontificale » et au Congrès international pour la paix à Genève le 9 septembre 1867, il qualifie la papauté de « négation de Dieu (…) la honte et la plaie de l'Italie ». Pour les zouaves, Garibaldi est vu comme l'Antéchrist. Il organise une petite armée de volontaires de 8 000 hommes et il essaie de rééditer l'expédition des Mille qui avait réussi en Sicile en 1860. En décembre 1866, Athanase de Charette de la Contrie devient lieutenant-colonel des zouaves toujours sous le commandement d'Allet.m En octobre, avec la complicité du gouvernement italien, les garibaldiens envahissent l'État pontifical et tentent d'organiser l'insurrection de Rome. Le 22 octobre, le projet de soulèvement échoue, faute d'un soutien populaire, et la destruction de la caserne Serristori, logement habituel des zouaves, par une mine souterraine fait peu de victimes. Les garibaldiens s'emparent de Monte Rotondo le 26 octobre tandis qu'un corps expéditionnaire français débarque à Civitavecchia le 29 pour venir au secours du Pape. La bataille de Mentana Le général Kanzler mène la contre-offensive pontificale. Le 3 novembre 1867, dans la localité de Mentana, les zouaves et les carabiniers pontificaux soutenus par la légion romaine (ou légion d'Antibes) constituée de volontaires français enfonce la petite armée de Garibaldi suivi de la brigade de l'armée française du général Polhès, qui armée du redoutable chassepot modèle 1866, fusil qui permet de tirer 12 coups à la minute, donne le coup de grâce. Ce sont les zouaves qui apparaissent comme les véritables vainqueurs de la journée : lors du défilé victorieux du 6 novembre, les généraux se découvrent à leur passage et la foule crie : « Vive Pie IX, Vive la France, Vivent les zouaves, Vive la religion ! ». Mentana assure à l'État pontifical un répit de trois ans qui va permettre la réunion du concile de Vatican I. La chute de Rome La guerre franco-allemande de 1870 provoque le retrait des troupes françaises et l'invasion de ce qui reste des États pontificaux par une armée italienne de 70 000 hommes sous le commandement du général Raffaele Cadorna. En face, les effectifs pontificaux ne dépassent pas 13 000 hommes dont 3 000 zouaves, aussi Kanzler choisit-il de concentrer ses efforts dans la défense de Rome. Le 20 septembre l'artillerie italienne bombarde les fortifications romaines. Le pape demande à Kanzler de cesser le feu dès les premiers coups de canon au grand dépit des zouaves souhaitant se battre. Onze zouaves seulement sont tués lors des combats. Le lendemain, le régiment des zouaves est licencié et les Français sont rapatriés à Toulon. La légion des volontaires de l'Ouest 1870-1871 De retour en France, Charette propose ses services au gouvernement de la Défense nationale qui l'autorise à fonder un corps franc en lui laissant toute liberté et l'uniforme de zouave mais à condition de changer le nom en Légion des volontaires de l'Ouest. Le nouveau corps se fait remarquer à la bataille d'Orléans (11 octobre). Les deux bataillons sont rattachés au 17e corps d'armée du général Louis-Gaston de Sonis à la mi-novembre. Le 2 décembre 1870, pendant la bataille de Loigny, les zouaves, sous la bannière du Sacré-Cœur, tentent de reprendre le village de Loigny dans une charge restée célèbre : Charette, blessé est fait prisonnier mais réussit à s'évader peu après. Le 11 janvier 1871, les zouaves chargent à nouveau, avec à leur tête le général Gougeard, et parviennent à reprendre aux Prussiens le plateau d'Auvours, tout proche du Mans. Dans l'afflux des mauvaises nouvelles, ces exploits locaux, qui n'ont pas d'influence sur la suite des évènements, impressionnent, en particulier, les militaires. Charette étant devenu général, il refuse que sa « légion » participe à la répression de la Commune de Paris, non par sympathie pour cette cause mais parce qu'il n'accepte pas de se battre contre d'autres Français : il l'a déjà montré en démissionnant de l'armée d'Autriche en 1859 au moment où celle-ci est opposée à la France. Finalement les Volontaires de l'Ouest sont toujours à Rennes en mai 1871. Le 28 mai, la légion des zouaves est consacrée au Sacré-Cœur de Jésus et, la guerre étant terminée, les bataillons sont dissous le 13 août. L'engagement des zouaves pontificaux Sur le plan diplomatique et idéologique, les zouaves pontificaux se rattachent à la ligne la plus dure de la Curie romaine de l'époque. Ils suscitent une mobilisation financière non négligeable de la part des catholiques, notamment en France, même les officiers doivent souvent payer leur équipement (ce qui peut expliquer qu'ils bénéficient d'un équipement relativement moderne). Dans toute le monde occidental, de nombreux prêtres lancent des appels à s'engager dans ce corps, et les zouaves morts au combat apparaissent aux yeux de beaucoup comme des martyrs modernes. De fait, le serment que prêtent les soldats est assez représentatif des motivations qui les animent : Je jure à Dieu Tout-Puissant d'être obéissant et fidèle à mon souverain, le Pontife Romain, Notre Très Saint Père le Pape Pie IX, et à ses légitimes successeurs. Je jure de le servir avec honneur et fidélité et de sacrifier ma vie même pour la défense de sa personnalité auguste et sacrée, pour le maintien de sa souveraineté et pour le maintien de ses droits. Principaux combats livrés par les zouaves pontificaux • Campagne de 1867 contre les garibaldiens o Combat de Bagnorea o Bataille de Montelibretti o Combat de Nerola o Combat de Farnese o Bataille de Mentana • Campagne de 1870 contre l'Italie o Siège de Civita-Castellana o Siège de Rome Liens internes Bataillon canadien des zouaves pontificaux Alphonse-Joseph van Steenkiste (1849-1919), Chevalier de l'Ordre de Saint Sylvestre ou de la Milice dorée, décoré de la Croix de Mentana et de la médaille Benemerenti. • Hildebrand de Hemptinne (1849-1913) Liens externes Photographies sur les zouaves Bibliographie • Père Bresciani, L'Epopée des zouaves pontificaux, H. & L. Casterman, [s.d.] • Philippe Boutry, Philippe Levillain (dir.), Dictionnaire historique de la papauté, Paris, Fayard, 2003 (ISBN 2-213618577); • Jean Guenel, La dernière guerre du Pape, les zouaves pontificaux au secours du Saint-Siège 1860-1870, Presses de l'Université de Rennes, 1998, ISBN 2-86847-335-0. • Maurice Briollet, Les Zouaves Pontificaux du Maine, de l'Anjou et de la Touraine, Laval, imprimerie R.Madiot 19631969. • Piero Crociani, Massimo Fiorentino, Massimo Brandani, La neuvième croisade 1860-1870, histoire, organisation et uniformes des unités étrangères au service du Saint-Siège, Hors-série n°13 de Tradition-Magazine, 2000 • (it) Emilio Faldella, Storia degli eserciti italiani, Bramante editrice, 1976 • (it) Lorenzo Innocenti, Per il Papa Re, Esperia Editrice, 2004 • (it) Piero Raggi, La Nona Crociata, Libreria Tonini Ravenna Bataillon canadien des zouaves pontificaux Un article de Wikipédia, l'encyclopédie libre. Le bataillon canadien des zouaves pontificaux est une unité de l'armée pontificale, formée peu avant la fin de l'existence des États pontificaux. Sa formation obéit tout autant à des considérations liées à la politique canadienne qu’à la situation italienne liée aux guerres d’unification par Garibaldi. les États pontificaux contrôlés par le pape s'opposaient pendant 16 siècles à l'unification des italiens en contrôlant une partie du territoire de l'Italie. Origines En effet, la nouvelle de la proclamation du Royaume d'Italie en 1861, ne laissant des États pontificaux que le Latium, autour de la ville de Rome, survint à un moment où, au Canada-Est (actuel Québec), majoritairement francophone et catholique, l’Église, appuyée par les éléments conservateurs, entreprenait une intense lutte idéologique visant à éliminer les « Rouges ». Les « Rouges » étaient les éléments les plus radicaux du courant de pensée libérale, héritier des Patriotes de 18371838, dont les idées de laïcité, suffrage universel, libre-échange et annexion aux États-Unis inquiétaient la hiérarchie et les catholiques conservateurs. C’est dans ce contexte qu’il faut comprendre l’appel à la solidarité avec le pape, lancé en 1861, par l’évêque de Montréal, Mgr Ignace Bourget, sous forme d’une série de lettres pastorales, défendant l’intégrité des États pontificaux. Des manifestations antilibérales confondant Rouges canadiens et Chemises rouges italiennes se tinrent un peu partout dans la colonie. Dans la foulée de ce mouvement, l’évêque Guigues, d’Ottawa, suggéra au pontife que les diocèses du monde entier procèdent à des levées de fonds dans le but de financer une armée pontificale indépendante. Une intense campagne de propagande catholique suivit l’acceptation de ce plan par Rome. Volontaires et formation Certains journaux encouragèrent la jeunesse du pays à s’enrôler dans cette armée et, en 1861, Benjamin Testard de Montigny devint le premier zouave pontifical canadien. D’autres le rejoignirent dans les années qui suivirent. Enfin, en 1867, la nouvelle de la bataille de Mentana, où un zouave canadien avait été blessé, parvint au pays et déclencha une nouvelle vague de ferveur papiste. Un comité fut formé dans le but de former un bataillon entièrement canadien de zouaves pontificaux. En 1868, 135 hommes furent recrutés et expédiés à Rome. En tout, un peu plus de 500 zouaves furent recrutés et 388 Canadiens firent le voyage pour les États pontificaux. Activité Sur place, les opérations militaires se limitèrent généralement à de longues patrouilles dans la campagne romaine, à la chasse aux « bandits ». L’expédition romaine fut surtout, pour les zouaves, une occasion de mise en condition idéologique à travers une longue série de pèlerinages, cérémonies et processions. Parallèlement, une intense campagne de propagande était organisée dans la province de Québec (créée en 1867) pour assimiler la défense du pape à une cause nationale canadiennefrançaise. Le succès en est démontré par la disparition rapide des critiques dans la presse libérale. D’ailleurs, à cette époque, le parti libéral était en nette perte de vitesse au Québec. La victoire conservatrice aux premières élections fédérales, garantissant la pérennité du projet de Confédération canadienne, avait été largement facilitée par l’appui du clergé au parti conservateur. Le gouvernement canadien ne souleva donc aucune objection à cette expédition d’une légalité douteuse. Finalement, en 1870, la guerre franco-prussienne amena le départ des troupes françaises stationnées autour de Rome et qui formaient une force d’interposition entre les États pontificaux et l’Italie depuis 1864. Le 12 septembre, les troupes italiennes envahirent les États pontificaux. Le 20, le pape ordonna la reddition de ses troupes. Quelques unités de zouaves canadiens continuèrent le combat un certain temps après avoir reçu l’ordre de déposer les armes. Ils furent arrêtés et forcés de défiler à travers les rues avant que l'ambassade britannique puisse obtenir leur libération et leur renvoi au Canada. Malgré cette fin plutôt piteuse, un détachement de 212 zouaves reçut un accueil triomphal à Montréal, le 9 novembre. Certains ne revinrent pas : l’un se fit moine, deux s’engagèrent dans l’armée française et 9 étaient morts de maladie. Aucun zouave canadien ne fut tué au combat malgré quelques blessés légers. La défaite militaire se transforma néanmoins en un triomphe pour le clergé catholique au Canada et s’inscrit dans le processus de monopolisation du nationalisme canadien-français par l’idéologie cléricale-conservatrice qui devait dominer la province de Québec pour près d’un siècle. Une nouvelle ville, Piopolis (en l’honneur de Pie IX), fut fondée dans les Cantons de l’Est afin d’établir les anciens zouaves. En 1899, l’ancien aumônier du bataillon présida à la fondation d’une Association des zouaves du Québec, groupe paramilitaire arborant uniformes et armes de 1868. Chaque ville du Québec eut bientôt son association locale et, dès 1914, la fête de la Saint-Jean-Baptiste et toutes les célébrations catholiques et nationalistes, furent accompagnées d’un bataillon de zouaves avec uniformes et armes de 1868, fournissant à la fois la fanfare et le service de sécurité. L’Association commença à décliner avec le nationalisme conservateur dans les années 1960. Il restait suffisamment de zouaves pontificaux au Québec, en 1984, pour former une garde d’honneur pour le pape Jean-Paul II lors de sa visite à Montréal et ils demeurent encore actifs au sein du diocèse de Valleyfield1. Sources • Audy, Diane : Les zouaves de Québec au XXe siècle, Québec : Presses de l'Université Laval, 2003. • Hardy, René et Lodolini, Elio : Les zouaves pontificaux canadiens, Ottawa : National Museum of Man, 1976 • Rouleau, Charles Edmond, 1841-1926 : La papauté et les Zouaves Pontificaux, quelques pages d'histoire, Québec : Le Soleil, 1905 ( en téléchargement libre) • Rouleau, Charles Edmond, 1841-1926 : Souvenirs de voyage d'n soldat de Pie XI, Québec : L.J. Demers, 1881 ( en téléchargement libre) Notes et références 1. ↑ Chaire de recherche du Canada en patrimoine ethnologique, « La compagnie des zouaves de Salaberry-deValleyfield [archive] » Liens externes Régiment des zouaves pontificaux canadiens Rapide historique des zouaves pontificaux canadiens • [1] et [2] Récits de zouaves Le corps des cadets zouaves de Chicoutimi, 1924 (en)Uniforme des zouaves canadiens • Uniforme des zouaves canadiens Athanase de Charette Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Athanase de Charette (Nantes, 3 settembre 1832 – Saint-Père, Ille-et-Vilaine, 9 ottobre 1911) è stato un militare francese, tenente colonnello comandante degli Zuavi pontifici, poi comandante della legione dei Volontari dell'Ovest nella guerra franco-prussiana del 1870. I fratelli de Charette (al centro Athanase) detti "I Moschettieri del Papa" Biografia Athanase-Charles-Marie de Charette de la Contrie nacque da una famiglia nobile di forti sentimenti religiosi, che poteva contare fra i suoi antenati l'eroe vandeano François-Athanase Charette de La Contrie (suo padre ne era il nipote, mentre sua madre Louise, la contessa de Vierzon, era la figlia del duca di Berry e di Amy Brown Freeman). Verso la metà degli anni '40 entrò all'Accademia militare di Torino, ma nel 1848 lasciò il Piemonte, non volendo servire nel suo esercito poiché in disaccordo con la politica liberale ed anticlericale che aveva intrapreso il paese. Passò allora a servire, nel 1852, il Duca di Modena, come sottotenente di un reggimento austriaco di stanza nel Ducato, ma in seguito decise di lasciare l' incarico per lo stesso motivo: non voleva servire uno stato tradendo i suoi principi e valori. Legittimista quanto il suo antenato François de Charette, quando i suoi due fratelli chiesero di servire Francesco II per difendere il Regno delle Due Sicilie, decise di mettersi al servizio di Pio IX. Si arruolò, quindi, tra i franco-belgi (poi noti come Zuavi pontifici) e nella Battaglia di Castelfidardo mostrò la sua abilità nel combattere e il suo coraggio, venendo ferito. I successivi dieci anni li passò servendo fedelmente Pio IX, dal quale venne nominato tenente colonnello e messo al comando degli Zuavi pontifici; come tale difese lo Stato Pontificio nel 1867 a Mentana contro Garibaldi e nel 1870 contro l'esercito di Vittorio Emanuele II. Quando però Roma cade sotto le mani del Re d'Italia decide di servire la Francia, nella guerra franco-prussiana, con la stessa divisa da zuavo pontificio: fonda la "Legione dei Volontari dell'Ovest". Il loro vessillo porta le parole: "Coer de Jesus, sauvez la France!" ("Cuore di Gesù, salvate la Francia!") e consacra a Nantes la Legione con queste parole: « All'ombra di questa bandiera tinta dal sangue delle nostre più nobili e care vittime, io generale Barone de Charette, che ho l'insigne onore di comandarvi, consacro la Legione dei Volontari dell'Ovest, gli zuavi pontifici, al Sacro Cuore di Gesù, e con tutto il cuore e con tutta la mia fede di soldato io dico e prego tutti voi di ripetere con me: Cuore di Gesù salvate la Francia! » La Legione però si scioglie nonostante il ministro della guerra aveva proposto di far entrare gli Zuavi pontifici nell'Esercito Regolare, ma de Charette non accetta spiegando per quale motivo non decide di entrare nell'Esercito Regolare con l'ultimo Ordine del Giorno, del 13 agosto 1871: « (...) egli (il ministro della guerra) ci aveva offerto la più bella ricompensa nazionale alla quale potessimo ambire proponendo a noi, corpo di Volontari, di far parte dell'esercito regolare. Ben forti sono le ragioni che ci consigliano a rinunziare all'onore che ci viene offerto. Ma venuti in Francia come zuavi pontifici, non ci crediamo in diritto di vincolare la nostra libertà, nè di introdurre nell'esercito un'uniforme che non ci appartiene: io ho dunque domandato il licenziamento. Voi tornate ai vostri focolari, ma il vostro compito non è finito. Uniti e compatti vi siete battuti su diversi campi di battaglia: vi sovvenga che il sangue sparso è legame più forte di un giuramento: se la Francia farà appello di nuovo al patriottismo de' suoi figli, voi tutti accorrerete alla prima chiamata, il ministro fa assegnamento sopra di voi, ed io ne sono sicuro. Arrivederci, miei cari camerati, col cuore profondamente commosso io mi separo da voi. Non è senza dolore che si estingue un'esistenza di undici anni, in cui tutto era comune, gioie, dolori e sacrifici. Ciò nullameno non ci lasciamo abbattere: ancor ci rimangono due grandi cose: la fede nella nostra causa, che è pur quella della Chiesa e della Francia e la speranza del trionfo. Serbiamoci degno della causa, Dio ci darà il trionfo. Generale de Charette » Continuando a essere monarchico, non accetta l'elezione a deputato. Muore il 9 ottobre 1911 a Basse-Motte (Ille-et-Vilaine). Onorificenze Medaglia di Castelfidardo Croce di Mentana Voci correlate • François-Athanase Charette de La Contrie • Zuavi pontifici Collegamenti esterni • Articolo in inglese • Alcune sue foto e notizie biografiche La battaglia di Loigny" di C.Castellani (1879). Si noti al centro de Charette. Magloire Roussel, zuavo pontificio (1869) - Zuavo pontificio (foto D'Alessandri, circa 1865) - Nederlands: foto uit 1870 van Douwe en Matthijs Walta uit Workum. John Surratt, son of Mary Surratt, in Zouave uniform. Surratt conspired with John Wilkes Booth to kidnap Lincoln in 1865. Zuavo pontificio fotografato da Michele Mang (1870) Charles d'Argy Un article de Wikipédia, l'encyclopédie libre. Charles Henry Louis, comte d’Argy, né le 26 mai 1805 à Malmy Chémery-sur-Bar en Ardennes et décédé à Rome le 26 janvier 1870, est un colonel de l’armée française sous le Second Empire et le colonel fondateur de la Légion d’Antibes, dite Légion romaine. Biographie Fils de Charles-Louis d’Argy de Malmy, officier des gardes du corps du roi Louis XVIII et de Joséphine Rosine Schmidt de Bude. D’une très ancienne famille de la noblesse de Champagne, alliée aux Coucy d’Ambly, d’Alendhuy, Roucy, Maubeuge, il fut élevé dans un environnement militaire. Après des études au collège de Charleville, il commença sa carrière militaire en s’engageant à 18 ans dans la Garde royale, devint officier d’infanterie, fit la campagne d’Espagne en 1823 avec le duc d’Angoulème, puis participa à la prise d’Alger (1830). Fit ensuite la campagne de Kabylie sous le maréchal Randon. En 1852, il est cofondateur avec Napoléon Laisné de l’école normale de gymnastique militaire de Joinville. Lors de la bataille de Solférino, le 24 juin 1859, il fut nommé colonel du 53e de ligne. Ce régiment tint ensuite garnison à Besançon. En 1866, il fut choisi par le maréchal Randon, ministre de la Guerre, pour fonder et commander la Légion d’Antibes dite légion romaine, corps de volontaires français mis au service du pape. Cette légion, réunie à Antibes et forte de 1 200 hommes, embarqua pour l’Italie le 13 septembre 1866. Le 24 septembre la légion défile devant le pape Pie IX. Composée uniquement de volontaires, elle portait un uniforme du type en usage dans l’infanterie française, mais avec la coiffure et les insignes des chasseurs et des boutons portant la tiare pontificale et les clés de saint Pierre. Elle était équipée du très récent fusil Chassepot. Cette unité fut casernée à Viterbe et à Rome. En octobre 1867, Garibaldi et ses « chemises rouges » déclenchent une offensive contre les états pontificaux. Le général Kanzler, commandant en chef des troupes pontificales mène la contre-offensive. Le 3 novembre 1867 à Mentana, les zouaves pontificaux du colonel de Charette et la Légion romaine du colonel d’Argy (ou légion d'Antibes), suivis de la brigade de l'armée française du général Polhès, enfoncent la petite armée de Garibaldi et la mettent en déroute.(les troupes pontificales et françaises étaient armées du nouveau fusil Chassepot, qui permettait une cadence de tir très rapide pour l’époque). Cette victoire de Mentana assure à l'État pontifical un répit de trois ans. La Légion d’Antibes connaîtra la prise de Rome par les troupes italiennes et une capitulation avec les honneurs de la guerre, le 21 septembre 1870. Le 26 septembre 1870, elle est débarquée à Toulon et formera le 47e régiment de marche, aussitôt envoyé au feu contre les Prussiens pour participer à la tentative de déblocage de Belfort par le général Bourbaki. Il s’illustra en particulier à Villersexel. Plus tard, en avril 1871, durant les troubles de la commune, le ministre de la Guerre enverra le 47e à Marseille combattre les insurgés de cette ville, auxquels s’étaient jointes des « chemises rouges de Garibaldi ». Le colonel comte Charles d’Argy mourut à Rome le 26 janvier 1870. le saint-père l’assista sur son lit de mort. Les officiers de son régiment lui firent ériger un monument en l’église Saint-Louis des Français à Rome. DécorationsCommandeur de la Légion d’honneur, par décret du 29 décembre 1864, et décoré de : l'ordre de Pie IX, l'ordre de Saint-Grégoire-le-Grand, l’ordre de Saint-Ferdinand d’Espagne, l’ordre du Mérite militaire de Savoie, l’ordre de François Ier de Naples, l’ordre de l’Aigle rouge de Prusse, la médaille de Mentana. Bibliographie • Archives départementales des Ardennes. • Archives nationales, fond 2 empire. • Abbé Besson, le Comte Charles d’Argy, imprimerie J. Jacquin à Besançon • Abbé Staub, la Légion d’Antibes dite Légion romaine, imprimerie C. Paillart à Abbeville • D’Hozier, Grand Armorial de France. • L. F de Caumartin, procez verbal de la recherche de la Noblesse de Champagne. • Louis Adrien Roland, comte d’Argy, Histoire de la Maison d’Argy. Squadriglieri pontifici detti "Zampitti" Battaglia di Castelfidardo Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giovanni Gallucci - La battaglia di Castelfidardo palazzo comunale di Castelfidardo Data Luogo Esito Modifiche territoriali 18 settembre 1860 Castelfidardo (AN) vittoria delle truppe sabaude L'Umbria e le Marche entrano nel Regno d'Italia Schieramenti Regno di Sardegna Stato Pontificio Comandanti Enrico Cialdini Manfredo Fanti Effettivi Georges de Pimodan Christophe Lamoricière 10.000 39.000 Perdite 88 morti, 400 feriti e 600 morti: 55 uomini di truppa e 6 ufficiali prigionieri feriti: 173 uomini di truppa e 11 ufficiali Nella battaglia di Castelfidardo, il 18 settembre 1860, si scontrarono gli eserciti del Regno di Sardegna e quello dello Stato Pontificio. La battaglia si concluse con la vittoria dei piemontesi; le truppe papaline superstiti si asserragliarono nella piazzaforte di Ancona e furono definitivamente sconfitte dall'esercito sardo dopo un difficile assedio. Conseguenza diretta della vittoria piemontese fu l'annessione al Regno di Sardegna delle Marche e dell'Umbria. La battaglia di Castelfidardo è considerata spesso come l'episodio conclusivo del Risorgimento italiano; in effetti solo dopo essa fu possibile proclamare la nascita del Regno d'Italia, il 17 marzo 1861[1]. Storia Le cause dello scontro Il Regno di Sardegna, con la Seconda Guerra d'Indipendenza, aveva annesso la Lombardia. Nei mesi successivi, in seguito a plebisciti, anche l'Emilia-Romagna e la Toscana erano entrate a far parte dei domini di Vittorio Emanuele II. Dopo pochi mesi, Garibaldi, con la spedizione dei Mille, aveva liberato tutto il meridione d'Italia; le regioni meridionali erano però separate da quelle settentrionali dalla presenza dello Stato Pontificio. Vittorio Emanuele II decise allora di intervenire con il proprio esercito per annettere Marche ed Umbria, ancora nelle mani del papa. La conquista delle due regioni centrali aveva dunque lo scopo di unire il nord e il sud d'Italia. Non si poteva certo ancora pensare ad un annullamento totale dello stato del papa, al quale, secondo i piani del re, sarebbe stato lasciato il Lazio. Due eserciti in marcia forzata I due eserciti che presero parte alla battaglia si radunarono l'uno in Romagna (quello sardo), l'altro nel Lazio (quello pontificio), ma avevano lo stesso obiettivo: giungere nella piazzaforte di Ancona. I pontifici volevano asserragliarsi nella città adriatica perché là avrebbero potuto resistere per mesi attendendo rinforzi da parte delle potenze cattoliche europee; i piemontesi volevano impedire proprio questo. Cominciarono così due marce forzate: ciascun esercito si concedeva poche ore di riposo notturno per arrivare prima dell'altro. L'esercito pontificio era composto da circa 10.000 volontari che, rispondendo all'appello del papa, provenivano da Francia, Irlanda, Austria ed altri paesi cattolici d'Europa; lo comandava il francese Lamoricière, supportato dal valoroso Georges de Pimodan. Le truppe del papa dal Lazio mossero verso Narni e proseguirono per Spoleto, Tolentino e Macerata cercando di raggiungere più celermente possibile la piazzaforte di Ancona. L'esercito piemontese, forte di 14.000 uomini provenienti da tutta Italia, era al comando del generale Fanti; le truppe dalla Romagna si divisero in due tronconi. Uno marciò lungo la costa e a Pesaro[2] incontrò una forte resistenza pontificia per opera del tenente colonnello Giovanni Battista Zappi[3][4][5][6][7][8][9][10], l'altro avanzò pure verso sud, ma passando a ridosso degli Appennini attraverso Urbino. I due tronconi si riunirono a Jesi, attraversarono Osimo e quindi si diressero verso Ancona. La battaglia Prima di giungere ad Ancona, i piemontesi fecero un'ultima tappa a Castelfidardo, dove installarono il loro campo nella frazione delle Crocette, a 25 chilometri dalla loro meta finale. Alcuni soldati in ricognizione scopersero però al di là del fiume Musone le truppe pontificie, anch'esse accampate nella zona in attesa di trasferirsi nel capoluogo marchigiano. Iniziarono le prime schermaglie e il Generale Lamoricière, consapevole del fatto che il suo esercito era inferiore di numero, sapeva di non avere molta speranza di vittoria. Sfruttando il fatto che il grosso dell'esercito piemontese era ancora all'oscuro della presenza dei pontifici, decise subito di dividere le sue truppe in tre gruppi. Il primo gruppo, diretto da de Pimodan, doveva impegnare le truppe italiane in modo da consentire agli altri due, capitanati da Lamoricière, di proseguire verso Ancona, dove le forze pontificie si sarebbero potute rinchiudere in attesa di rinforzi da parte delle potenze cattoliche. Gli uomini al comando di Georges de Pimodan dovevano quindi sacrificarsi tra Castelfidardo e Loreto, sulle pendici del colle del Montoro e nella vallata del Musone, per favorire le truppe di Lamoricière. Tutto andò secondo i piani: mentre Lamoricière, non visto dagli italiani, con le sue truppe era già arrivato a Numana, sulla strada di Ancona, nel frattempo gli uomini di Georges de Pimodan, al grido di "Viva il Papa!" stavano impegnando seriamente gli ignari piemontesi, guadagnando terreno palmo a palmo, casa colonica per casa colonica. Il grosso dell'esercito sabaudo era ancora accampato alle Crocette. Quando Cialdini venne a conoscenza della presenza dei pontifici, inviò tutte le sue truppe, che al grido di "Viva il Re!" rovesciarono la situazione di iniziale vantaggio pontificio. Una alla volta, tutte le case coloniche già conquistate da Georges de Pimodan cadevano nelle mani dei piemontesi. Le sorti dello scontro subirono un rovesciamento a causa di una decisione davvero inaspettata di Lamoricière. Egli, resosi conto che le truppe lasciate a combattere stavano per subire una disfatta totale, decise di tornare a sostenere Georges de Pimodan che, già ferito più volte, stava battendosi valorosamente nonostante la situazione disperata. Questa fu una decisione sorprendente: sarebbero bastate poche ore di marcia e sarebbe stato possibile rinchiudersi dentro alla piazzaforte di Ancona, ma più che alla strategia Lamoricière pensò alla lealtà di de Pimodan e al fatto che non se la sentiva di sacrificarlo[11]. Così Lamoricière tornò sul campo di battaglia; de Pimodan però era stato già ferito a morte e spirava nell'ospedale da campo piemontese. Secondo alcune fonti sarebbe stato Cialdini in persona ad assisterlo negli ultimi istanti e a raccoglierne le volontà[12]. Secondo altre fonti Lamoricière riuscì a dare l'estremo saluto a de Pimodan, che gli disse: "Generale! Combattono da eoi, l'onore della Chiesa è salvo!"[13] Dopo alcune ore di battaglia, le truppe del generale Cialdini sconfissero disastrosamente l'avversario; i reduci, tra cui lo stesso Lamoricière, frettolosamente e disorganizzatamente ripiegarono verso Ancona passando, per non correre il rischio di essere catturati, per gli impervi sentieri del promontorio del Conero. Epilogo: la presa di Ancona Lamoricière e i soldati pontifici superstiti arrivarono quindi ad Ancona, dove si asserragliarono insieme alla guarnigione austriaca già presente in città come forza di occupazione per volontà del papa sin dal 1849. Cominciò presto l'assedio disperato: la città fu circondata dal lato di terra terra dai generali Manfredo Fanti ed Enrico Cialdini, mentre davanti all'imboccatura del porto c'era la flotta condotta dall'ammiraglio Persano. Ora si giocava il tutto per tutto: in gioco c'erano ideali opposti ed inconciliabili. I volontari papalini (francesi, irlandesi, slovacchi, polacchi...) lottavano per sostenere il dominio temporale del papa, ritenuto da essi necessario corollario del potere spirituale; gli Austriaci combattevano per impedire all'Italia di esistere come nazione, cosa che avrebbe comportato il rischio della disgregazione dell'Impero Austriaco; gli Italiani dovevano riunificare le terre liberate da Garibaldi con quelle annesse in seguito alla Seconda Guerra d'Indipendenza, altrimenti avrebbero avuto una nazione spezzata a metà. Ancona dopo un'accanita resistenza austriaca e pontificia, il 28 settembre 1860 fu presa dal mare con un'ardita manovra navale che portò all'esplosione della batteria della Lanterna che difendeva il porto e alla quale era agganciata la catena che ne chiudeva l'imboccatura. Solo il giorno dopo, però, 29 settembre, alle ore 14, a Villa Favorita sede del comando italiano, i pontifici firmarono la resa. Dopo tre giorni, il 3 ottobre alle 5 del pomeriggio, sbarcò nel porto di Ancona il re Vittorio Emanuele II accolto da una città in festa, ornata di centinaia di bandiere tricolore. La folla accorsa nelle strade percepiva la storicità del momento, che fu decisivo per la costruzione dell'unità d'Italia[14]. In città il re accolse le deputazioni delle varie province delle Marche e dell’Umbria che chiedevano l'annessione; rimase in Ancona sette giorni, per poi rimettersi in cammino verso Teano, dove Garibaldi avrebbe lasciato nelle sue mani tutto il Meridione appena liberato. Con la vittoria di Castelfidardo e con la successiva presa di Ancona, il regno di Vittorio Emanuele II poté includere le Marche e l'Umbria: il 4-5 novembre dello stesso anno un plebiscito segnava, in modo pressoché unanime[15] la volontà dei marchigiani e degli umbri di entrare nel Regno, sancita con Regio Decreto del 17 dicembre. L'annessione di queste regioni fu fondamentale per permettere di unire in una sola entità territoriale le terre prese da Garibaldi e quelle annesse in seguito alla Seconda guerra d'indipendenza. La Battaglia di Castelfidardo permise quindi che, di lì a poco, venisse proclamata solennemente la nascita del Regno d'Italia: il 17 marzo 1861. Monumenti commemorativi Nel 1910, in occasione del cinquantenario della battaglia, si decise di erigere a Castelfidardo un monumento nazionale per eternare il ricordo dell'evento. L'opera fu commissionata allo scultore Vito Pardo e ricorda i caduti di entrambi gli schieramenti. L'inaugurazione avvenne il 18 settembre 1912 alla presenza del Re Vittorio Emanuele III; oratore ufficiale fu Arturo Vecchini. Il monumento, sulla cima di una collina, è immerso in un rigoglioso parco di alberi sempreverdi ed è circondato da una cancellata artistica. Nei pressi della Selva di Castelfidardo, uno dei luoghi della battaglia, si può visitare l'ossario ove riposano i soldati caduti di entrambi gli schieramenti. Fu costruito a partire dal 1861, per raccogliere degnamente le spoglie precedentemente sepolte nella nuda terra e disperse in tutto il teatro degli scontri. I soldati del re e quelli del papa sono in avelli separati, in base alla posizione occupata durante il combattimento: verso il mare i pontifici e verso la collina di Montoro i piemontesi. Nei dintorni dell'ossario sono presenti targhe di pietra che ricordano, nei luoghi in cui sono realmente avvenuti, i più salienti episodi del combattimento; ciò rende possibile ricostruire sul campo le varie fasi della battaglia e gli spostamenti delle truppe pontificie e piemontesi e permette inoltre di identificare le case coloniche nei pressi delle quali tanto si combatté. A Castelfidardo è presente anche un Museo del Risorgimento, che raccoglie interessanti cimeli e documenti relativi alla battaglia. Curiosità • Le truppe pontificie venivano definiti con disprezzo "barbacani".[16][17] • La battaglia di Castelfidardo è ricordata nella toponomastica di moltissime città d'Italia. Tra esse Torino, Padova, Roma, Busto Arsizio, Ancona, Chiaravalle, Falconara Marittima, Osimo, Senigallia, Barbara, Recanati, Cingoli, Loreto, Jesi, Catanzaro, Civitanova, Firenze, Vicenza, Cagliari, Ravenna, Poggibonsi, Terni, Pesaro, Vittoria, Barcellona Pozzo di Gotto, Bologna, Castel San Pietro Terme, Imola, Castelvetrano. Note 1. ^ Paolo Pierpaoli - 2500 anni: le grandi battaglie nelle Marche Fornasiero editore - Roma 2004; Autori vari - Ai vittoriosi di Castelfidardo ristampa del 2002 del numero speciale della rivista Picenum edita in occasione del cinquantenario della battaglia; Massimo Coltrinari - La giornata di Castelfidardo 18 settembre 1860 vol. III edito nel 2008 a cura della Fondazione Ferretti, Italia nostra e Lions club 2. ^ 11 Settembre 1860 finisce il governo pontificio. 3. ^ Per una biografia del generale Zappi, vedasi Enciclopedia Cattolica, vol. 12, p. 1779 4. ^ Un ritratto del generale Zappi si trova presso l'archivio della biblioteca comunale di Imola, vedi Album n. 9: Raccolta fotografica imolese. Ritratti e ricordi di personaggi, p. 5. 5. ^ [1] 6. ^ [2] 7. ^ [3] 8. ^ [4] 9. ^ [5] 10. ^ [6] 11. ^ Paolo Pierpaoli - 2500 anni: le grandi battaglie nelle Marche Fornasiero editore - Roma 2004; Massimo Coltrinari La giornata di Castelfidardo 18 settembre 1860 vol. III edito nel 2008 a cura della Fondazione Ferretti, Italia nostra e Lions club 12. ^ Josepho Paschalio Marinellio - De Pugna ad Castrumficardum 13. ^ Antonio Bresciani - Olderico, ovvero lo zuavo pontificio - 1862 - vol II 14. ^ Mario Natalucci - La vita millenaria di Ancona vol. III, Città di Castello, Unione arti grafiche, 1975 ; www.altezzareale.com 15. ^ Marche: favorevoli 133 807, contrari 1 212. Umbria: favorevoli 97 040, contrari 380. Regno d'Italia - Plebisciti 1860, 1866, 1870 16. ^ [7] 17. ^ [8] Bibliografia • Autori vari Il marchese Giorgio Pimodan, generale della Santa Sede, morto nella battaglia di Castelfidardo. Roma, H. Gigli, 1860. • Autori vari - Ai vittoriosi di Castelfidardo ristampa del 2002 del numero speciale della rivista Picenum edita in occasione del cinquantenario della battaglia • Guido Bozzolini, Le forze armate sarde a Castelfidardo Italia Nostra Castelfidardo. • Padre Antonio Bresciani, Olderico, ovvero il zuavo pontificio Roma 1862. • Massimo Coltrinari, La vigilia della battaglia di Castelfidardo - 17 settembre 1860, Italia Nostra Castelfidardo, aprile 1961. • Massimo Coltrinari, Le manovre che determinarono la battaglia di Castelfidardo - 18 settembre 1860, Italia Nostra Castelfidardo. • Giuseppe Pasquale Marinelli, De pugna ad Castumficardum, poema in versi latini dell'umanista cameranese (17931875) • Lucio Martino, L'11 settembre della Chiesa. Intrighi, brogli e crimini per l'annessione di Umbria e Marche. L'assedio di Ancona e la battaglia di Castelfidardo, Eidon Edizioni. • Paolo Pierpaoli - 2500 anni: le grandi battaglie nelle Marche Fornasiero editore - Roma 2004. • Romano (pseud.); Narrazione delle battaglia di Castelfidardo e dell'assedio d'Ancona. Italia, 1862. • Marchese de Segur, I martiri di Castelfidardo • Stato maggiore del Regio Esercito, Ufficio Storico, La battaglia di Castelfidardo Roma 1903 • Attilio Vigevano; La campagna delle Marche e dell'Umbria. Roma, Stab. poligrafico, 1923. Voci correlate • Risorgimento • Unità d'Italia • Battaglia di Mentana • Museo del Risorgimento di Castelfidardo • Stato Pontificio Altri progetti Wikimedia Commons contiene file multimediali su Battaglia di Castelfidardo Collegamenti esterni • Informazioni dal comune di Castelfidardo • Fondazione Ferretti • Eugenio Paoloni. «Castelfidardo, la battaglia «dimenticata» dai vincitori.», Corriere della Sera, 20 dicembre 2010. URL consultato in data 10 gennaio 2011. Il monumento nazionale delle Marche Campagna dell'Agro romano per la liberazione di Roma Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La campagna dell'Agro romano per la liberazione di Roma fu una campagna militare condotta dai volontari Giuseppe Garibaldi con lo scopo di conquistare Roma, combattuta nel 1867 tra il Viterbese, Nerola, Montelibretti, Monte San Giovanni Campano, Monterotondo e Subiaco. La campagna si conclusei il 3 novembre a Mentana con la sconfitta di Garibaldi da parte dei pontifici e dei francesi. I volontari che vi parteciparono inizialmente erano circa ottomila, radunati tra Terni ed Orvieto, mentre Garibaldi era bloccato a Caprera dalla Regia Marina. Il figlio Menotti comandava l'area attigua a Roma, il generale Giovanni Acerbi la provincia di Viterbo, il barone Giovanni Nicotera l'area sud del frusinate. Vi furono numerosi scontri tra garibaldini e pontifici (a Bagnoregio, a Nerola, a Montelibretti). Garibaldi il 15 ottobre fuggì da Caprera e raggiunse i suoi volontari a Monterotondo, che conquistò al termine di un duro combattimento il 26 ottobre. Dopo aver atteso invano l'insurrezione di Roma, mentre le diserzioni si moltiplicavano, il 3 novembre decise di raggiungere Tivoli per sciogliere la legione. A Mentana avvenne lo scontro, prima con i pontifici e subito dopo con i francesi. Terminati i combattimenti 1300 garibaldini furono presi prigionieri, circa 150 furono i morti e numerosi i feriti, trasferiti all'ospedale Santo Spirito di Roma. Nel 1877 la "Società reduci patrie battaglie" con una sottoscrizione nazionale realizzò l'ara-ossario, opera dell'architetto Fallani in peperino di Viterbo, dove riposano i 300 caduti nell'intera campagna del 1867. A questo si aggiunse nel 1905 l'attiguo museo, con i cimeli garibaldini dal Brasile alla campagna di Grecia di Ricciotti Garibaldi, su progetto dell'architetto De Angelis. Nel 1898 il regno d'Italia riconobbe la campagna, concedendo a partire dal 1900 riconoscimenti, pensioni e medaglie a quanti vi avevano partecipato: tra i riconosciumenti tutti i partecipanti ebbero la medaglia dei "liberatori di Roma", analogamente ai bersaglieri che erano entrati nella capitale il 20 settembre del 1870. Giuditta Tavani Arquati Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giuditta Tavani Arquati (Roma, 30 aprile 1830 – Roma, 25 ottobre 1867) è stata una patriota italiana. Figlia di Adelaide Mambor e Giustino Tavani, un difensore della Repubblica Romana trasferitosi in esilio a Venezia dopo aver scontato una lunga pena nelle carceri pontificie, la Arquati crebbe in un ambiente che le fece acquisire saldi principi laici e repubblicani.[1] Nel 1844 nella parrocchia romana di San Crisogono Si sposò a quattordici anni con Francesco Arquati seguendone il percorso politico. Insieme a lui si trasferì prima a Subiaco e poi nel 1865 a Roma. La battaglia nel lanificio Ajani La mattina del 25 ottobre 1867, giorno in cui Garibaldi prendeva Monterotondo nel corso della terza spedizione per liberare Roma, una quarantina di patrioti, di cui 25 romani, si riunirono in via della Lungaretta 97, nel rione romano di Trastevere, nella sede del lanificio di Giulio Ajani, per decidere sul da farsi. Il gruppo preparò una sommossa per far insorgere Roma contro il governo di Pio IX. Deteneva delle cartucce e un arsenale di fucili. Alla riunione partecipò anche la Arquati, con il marito e uno dei tre figli della coppia, Antonio. Verso le 12 e mezzo, una pattuglia di zuavi giunta da via del Moro attaccò la sede del lanificio. I congiurati cercarono di resistere al fuoco. In poco tempo, però, le truppe pontificie ebbero la meglio e riuscirono a farsi strada all'interno dell'edificio. Alcuni congiurati riuscirono a fuggire, mentre altri furono catturati. Sotto il fuoco rimasero uccise 9 persone, tra cui Giuditta Tavani Arquati, incinta del quarto figlio, il marito e il loro giovane figlio. [2][3] La memoria La figura di Giuditta Tavani Arquati divenne simbolo della lotta per la liberazione di Roma e per anni gli abitanti di Trastevere e le associazioni laiche e repubblicane commemorarono l'eccidio. Il 9 febbraio 1887 fu fondata l'Associazione democratica Giuditta Tavani Arquati, che fu sede di numerose iniziative laiche e anticlericali. L'associazione fu sciolta nel 1925 dal Fascismo e, in seguito, ricostituita dopo la Liberazione.[4] Grazie agli sforzi dell'Associazione e di altre istituzioni il 1º novembre 1909 piazza Romana, che si trovava nelle vicinanze del lanificio di via della Lungaretta, viene rinominata Piazza Giuditta Tavani Arquati. [5] Trastevere ricorda la patriota romana con una lapide posta accanto all'ex lanificio Ajani. L'episodio dell'eccidio al lanificio Ajani è citato nel film di Luigi Magni, In nome del Papa Re. Note 1. ^ 25 ottobre, cerimonia per il 139esimo anniversario della morte di Giuditta Tavani Arquati. URL consultato il 0112-2007. 2. ^ Augusto Sterlini, Ricordi del vecchio Trastevere , Arti grafiche e fotomeccaniche P. Sansoni, 1932. 3. ^ Giorgio Carpaneto, La grande guida dei rioni di Roma , Newton & Compton, 2004. 4. ^ «Cronaca di Roma». Il Messaggero, 8 febbraio 1887. 5. ^ «Cronaca di Roma». Il Messaggero, 1 novembre 1909. Bibliografia • Augusto Sterlini, Ricordi del vecchio Trastevere , Arti grafiche e fotomeccaniche P. Sansoni, 1932. • Claudio Fracassi, La ribelle e il papa re, Milano, Mursia, 2005 • Giorgio Carpaneto, La grande guida dei rioni di Roma , Newton & Compton, 2004. • Filippo Caraffa, Storia di Filettino , Biblioteca di Latium, Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale, 1989. Voci correlate • Francesco Arquati • Risorgimento • Questione Romana • Repubblica Romana Collegamenti esterni Il sito dell'Associazione Democratica Giuditta Tavani Arquati Carlo Ademollo (1824-1911). Eccidio della famiglia Tavani Arquati, 1880, olio su tela, 27 x 44 cm., Museo del Risorgimento, Milano Scontro di Villa Glori Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Lo scontro di Villa Glori ebbe luogo nel pomeriggio del 23 ottobre 1867, nel quadro delle iniziative di Giuseppe Garibaldi per liberare Roma dal governo pontificio. Antefatto Nel corso del 1867 Garibaldi, reduce dal successo contro gli austriaci alla battaglia di Bezzecca, diede avvio all'organizzazione di un piccolo esercito di 10.000 volontari, fra cui era il futuro Presidente del Consiglio Alessandro Fortis, per l'invasione del Lazio (ancora in mano al Papato) e predisponendo, al contempo, un piano per la sollevazione di Roma. Questa mobilitazione fu chiamata Campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma. Lo scontro a fuoco La notte del 23 ottobre 1867, un drappello di settantasei volontari guidati dal pavese Enrico Cairoli, partiti da Terni il 20 ottobre per portare aiuti alla giunta rivoluzionaria romana, dopo aver navigato il Tevere prese terra alla confluenza del Tevere con l'Aniene. Raggiunta una piccola altura alla sinistra del Tevere, presso i Monti Parioli, dove aveva appuntamento con altri congiurati, la colonna occupò un casale sui Monti Parioli. Nel frattempo, due volontari, Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, facevano saltare con una bomba la caserma Serristori; i due furono catturati e decapitati il 24 novembre 1868, nonostante la richiesta di grazia che Vittorio Emanuele II aveva inoltrato a Pio IX. Verso le cinque pomeridiane di quel 23 ottobre i volontari vennero agganciati da circa 300 "carabinieri esteri" (svizzeri) del Papa. Per circa un'ora si difesero in mezzo alle vigne e per due volte contrattaccarono alla baionetta. Negli scontri perse la vita Enrico Cairoli, mentre il fratello Giovanni fu gravemente ferito (Fratelli Cairoli). Giovanni morì l'11 settembre 1869 per le ferite riportate, in Belgirate, nella casa estiva di sua madre Adelaide. Michele Rosi scrive[1]: « Negli ultimi momenti gli parve vedere Garibaldi e fece vista di accoglierlo con trasporto. Udii (così narra un amico presente) che disse tre volte: "L'unione dei francesi ai papalini fu il fatto terribile!" pensava a Mentana. Chiamò più volte Enrico, suo fratello, 'perché lo aiutasse!' poi disse: "ma vinceremo di certo; andremo a Roma!" » Esito Morto Cairoli, il comando venne assunto da Giovanni Tabacchi che fece rientrare i volontari nella villa, da dove seguitarono a fare fuoco, finché i papalini, calata la sera, si ritirarono in Roma. I superstiti ripiegarono verso le posizioni di Garibaldi, al confine italiano. Tra i superstiti, Giulio Aiani e Pietro Luzzi vennero condannati a morte il 10 dicembre 1868; altri cinque rivoluzionari furono condannati all'ergastolo. L'azione garibaldina avrebbe registrato il suo ultimo esito alla battaglia di Mentana. Monumenti In cima alla collina di villa Glori, vicino al luogo dove morì Enrico Cairoli, c'è una semplice colonna dedicata ai Cairoli ed ai loro 70 compagni. Sul Pincio, vicino a Villa Medici (Accademia di Francia), c'è un altro monumento di bronzo con Giovanni che sostiene con un braccio il morente Enrico Cairoli (salita la scalinata di Piazza di Spagna, il monumento si trova una centinaia di metri a sinistra). Sul retro del monumento sono scritti i nomi dei loro compagni. Il Museo centrale della Campagna, con annessa Ara-Ossario dove riposano i resti di 300 volontari, è in comune di Mentana (Roma), luogo dove il 3 novembre 1867 la Campagna stessa si concluse. Un frammento del mandorlo di Villa Glori fu donato al Museo dalla Società Reduci delle Patrie Battaglie ed è esposto a Mentana dal 1914, insieme ad altri cimeli dei Cairoli. Al fatto d'armi e alla morte di Cairoli è dedicata una grande tela del pittore Gerolamo Induno. Carducci e Pascarella Lo scontro di villa Glori ispirò la poesia In morte di Giovanni Cairoli, da Giambi ed Epodi di Giosuè Carducci e i venticinque sonetti che compongono Villa Gloria di Cesare Pascarella. Note 1. ^ M. Rosi, I Cairoli, L. Capelli Ed., Bologna 1929, pp. 223-224 Collegamenti esterni G. Cairoli, Spedizione dei monti Parioli (23 ottobre 1867), 1878 Battaglia di Mentana Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Data 3 novembre 1867 Luogo Mentana, Italia Esito Vittoria Franco-Papale Comandanti Giuseppe Garibaldi Balthazar Alban Gabriel Hermann Kanzler Effettivi [1] [2] [3] Incerti: 4.000 ; 8.100 ; 10.000 Incerti: 5.000[1][3]; 5.500 [4]; 22.000[5] Perdite 1.100 tra morti e feriti[3] tra 800 e 1000 prigionieri[1] 182 tra morti e feriti (144 papali, 38 francesi)[3] La battaglia di Mentana fu uno scontro a fuoco avvenuto presso la cittadina di Mentana, nel Lazio, combattuta il 3 novembre 1867, quando le truppe franco-pontificie si scontrarono con i volontari di Giuseppe Garibaldi, che era diretto a Tivoli per sciogliere la Legione essendo fallita la presa di Roma per la mancata insurrezione dei romani. Premesse Quando Vittorio Emanuele II di Savoia divenne re d'Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora non controllava né Venezia, né Roma. La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e la principale priorità della sua politica estera. A volte le tensioni assumevano particolare gravità, come accadde nel 1862 quando Garibaldi, in marcia dalla Sicilia verso Roma, venne fermato dall'esercito italiano alla giornata dell'Aspromonte: ferito, venne fatto prigioniero e messo agli arresti domiciliari a Caprera. La decisa azione italiana contro un eroe nazionale permise al governo di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia: con la convenzione di settembre del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a rispettare l'indipendenza del residuo Patrimonio di San Pietro e di difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno) e la Francia a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento. L'obiettivo della annessione di Roma rimaneva comunque assai popolare, né il Regno rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito, a suo tempo, dal Cavour in persona. Diverse furono, in effetti, gli scontri e le azioni dei garibaldini sui confini o nella stessa città eterna. L'organizzazione della spedizione garibaldina Il 12 agosto 1866, terminata la cosiddetta Terza guerra di indipendenza italiana (un segmento della Guerra Austro Prussiana) con l'Armistizio di Cormons, il Regno di Italia aveva guadagnato Mantova, Venezia ed una adeguata sistemazione dei confini orientali. Rimaneva aperta la questione di Roma e del Lazio, nucleo dello Stato Pontificio. Era rinviata a tempi migliori la questione di Trento e Trieste. A ciò si aggiunga che nel dicembre 1866, le ultime unità del corpo di spedizione francese si erano imbarcate a Civitavecchia per la Francia, in applicazione della convenzione del 1864. Particolarmente impegnato sulla "questione romana", ormai da due decenni Garibaldi andava dichiarando come fosse venuto il tempo di «far crollare la baracca pontificia» e, il 9 settembre 1867 ad un Congresso della Pace ospitato dalla protestantissima città di Ginevra, definiva il Papato «negazione di Dio ... vergogna e piaga d'Italia». Da tenere ben presente, in questo contesto, è la rinnovata popolarità che Garibaldi aveva conquistato alla guerra del 1866, quale unico generale italiano che avesse saputo battere gli Austriaci alla battaglia di Bezzecca (mentre l'esercito e la marina del re avevano dovuto subire le duplici sconfitte alla battaglia di Custoza ed alla battaglia di Lissa). Ciò gli lasciava un rinnovato margine di manovra e rendeva assai più difficile al governo regio (comunque impegnato al rispetto della convenzione del 1864) fermare l'agitazione o i preparativi delle camicie rosse. Garibaldi ebbe così la libertà di organizzare, sostanzialmente indisturbato, un piccolo esercito di circa 10.000 volontari [6], predisponendo, al contempo, un piano per la sollevazione di Roma. La mobilitazione, tuttavia, era decisamente scoperta, ciò che permise all'Imperatore di Francia Napoleone III di programmare con congruo anticipo una spedizione di soccorso al pontefice, che sarebbe, infatti, giunta a Civitavecchia solo alcuni giorni dopo l'inizio dell'invasione del Lazio. Vennero inoltre messe in allarme le truppe a disposizione del Papa, costituite, per due terzi da italiani e poi da volontari francesi (specie la cosiddetta legione di Antibes, mentre degli Zuavi pontifici facevano parte anche volontari belgi, svizzeri, irlandesi e olandesi, oltre che francesi e perfino canadesi). L'invasione del Lazio L'invasione degli Stati Pontifici scattò, come programmato, alla fine di settembre 1867 nel viterbese con la colonna Acerbi. Il 22 ottobre Roma assistette ad un attentato alla caserma Serristori, causando la morte di ventitré degli zuavi pontifici che lì avevano quartiere e di due cittadini romani (Francesco Ferri e la figlia di sei anni, Rosa). L'attentato doveva dare il via ad una sollevazione che non ci fu, e portò, il 24 novembre 1868, alla decapitazione sottoscritta dal Papa-Re dei ribelli Giuseppe Monti (muratore di Fermo) ed il romano Gaetano Tognetti a Roma in largo dei Cerchi (vicino al Circo Massimo). Una ghigliottina in scala è esposta nel Museo. Il 23 ottobre 1867, ebbe luogo lo scontro di villa Glori, quando un drappello di settantasei volontari guidati da Enrico e Giovanni Cairoli (Fratelli Cairoli), giunti a prendere contatto con i rivoluzionari romani, non trovarono nessuno ad attenderli e vennero sopraffatti dai Carabinieri Esteri del Papa.Garibaldi paragonò il loro sacrificio a quello di Leonida alle Termopili in Grecia ed infatti l'architetto De Angelis che ha realizzato i disegni del Museo ne ha fatto un tempio greco-romano.( da "Giulio De Angelis Architetto, di Enza Zullo, Gangemi Editore, 2005 ) Numerosi i cimeli dei Cairoli nel Museo di Mentana. Il 25 ottobre la polizia papalina occupò, non senza perdite, il lanificio Aiani, a Trastevere, dove erano raccolte bombe a disposizione degli insorti. Il 26 ottobre Garibaldi, con il suo piccolo esercito di volontari circa 8'000 uomini, decise di occupare Monterotondo dove si fermò prima nella locanda Frosi e poi nel Castello Orsini ospite del principe, un garibaldino don Ignazio Boncompagni.* vedi G. Adamoli, Da S. Martino a Mentana, Treves, 1892 e F.Guidotti, "l'occupazione di Monterotondo, atti e documenti, 2006, Ed.Stampa Sabina. Qui, tuttavia, Garibaldi decise di arrestare la marcia, nella inutile attesa della sperata insurrezione in Roma. Solo alcuni reparti vennero inviati avanti verso Roma. Lo stesso generale il 29 ottobre avanzò sino a villa Spada ed al Ponte Nomentano, nella speranza di suscitare, con la sua presenza, una ribellione in Roma. La quale, in effetti, si limitò ad alcuni scontri a fuoco: il 30 Garibaldi tornava sui propri passi a Monterotondo. Lo stesso 26 ottobre un reparto isolato alla retroguardia, guidato dal maggiore siciliano Raffaele de Benedetto, venne agganciato da quattrocento papalini al Colle San Giovanni, rifiutò di cedere le armi e venne interamente massacrato. Nel frattempo, giunse conferma che truppe regolari italiane avevano anch’esse traversato il confine, con la missione ufficiale di arrestare Garibaldi: si sperò, forse, in qualche complicazione fra queste e la guarnigione di Roma. Nulla di tutto questo accadde. L'inazione del Garibaldi diede, al contrario, il tempo ad un corpo di spedizione francese, sotto il comando del Pierre Louis Charles de Failly, di prendere terra a Civitavecchia il 29 ottobre e di ricongiungersi a Roma con l'esercito del Papa al comando del generale Kanzler (carabinieri esteri o svizzeri, zuavi pontifici, legione di Antibes). Appariva ormai chiaro che l'invasione non si sarebbe tradotta in una marcia trionfale, e parte degli effettivi meno motivati a disposizione del Garibaldi approfittando di un proclama del Re Vittorio Emanuele II, disertarono, grandemente facilitati dalla prossimità del confine italiano: il fenomeno coinvolse, probabilmente, parecchie centinaia di unità, benché non vi sia nulla di certo. La battaglia Il 3 novembre, alle 2:00 del mattino, al comando del generale Hermann Kanzler, l'esercito del Papa con anticipo e poi le truppe regolari francesi del generale de Polhes uscirono da Roma in ordine di marcia verso le posizioni garibaldine a Monterotondo. Garibaldi disponeva di truppe ridotte dalle diserzioni male equipaggiate e sostanzialmente prive di cavalleria ed artiglieria. Egli aveva deciso di raggiungere Tivoli dove avrebbe sciolto la legione garibaldina. Erano state costituite sei brigate, ognuna composta da tre o quattro battaglioni, guidate rispettivamente dal Salomone, dal colonnello Frigyesi, dal maggiore Valzania, dal colonnello Elia e dal maggiore Achille Cantoni, il patriota forlivese che, avendo salvato la vita al Generale presso Velletri ed essendo poi caduto a Mentana, Garibaldi erse a protagonista del romanzo storico Cantoni, il volontario. Si aggiungeva uno squadrone di Guide a Cavallo, forte di circa 100 unità, guidato dal Ricciotti Garibaldi (l'ultimo figlio del generale con Anita Garibaldi defunta proprio mentre fuggiva da Roma e dai francesi) nel 1849 ed una singola batteria con due cannoni. L'armamento era costituito, probabilmente, per due terzi da fucili ad avancarica e per un terzo, addirittura, da moschetti a pietra focaia. Circa metà degli effettivi erano veterani di altre campagne risorgimentali, mentre la restante metà erano volontari privi di esperienza bellica anche se supportati da ufficiali piemontesi. I pontifici erano rappresentati da truppe anch’esse volontarie, ma veterane e di più prolungato inquadramento. L'Esercito pontificio era composto da circa 3000 uomini, oltre ai circa 2500 del corpo di spedizione francese, truppe regolari in parte mercenarie (il "soldo" era di 50 centesimi al giorno + minestra, pane e caffè). Quest’ultimo era equipaggiato con il nuovo fucile chassepot modello 1866 a retrocarica, munito di un otturatore e caricato a cartuccia di cartone: esso permetteva di caricare 12 colpi al minuto, un'enormità per l'epoca. Comunque non fece meraviglie e fu ritirato qualche mese dopo. La cavalleria era costituita da circa 150 dragoni e 50 cacciatori a cavallo; l'artiglieria di circa 10 pezzi. Proseguendo lungo l'antica Via Nomentana in direzione Monterotondo, pontifici prima e francesi poi giunsero in prossimità della tappa intermedia di Mentana nel primo pomeriggio. Di fronte a loro il villaggio si presentava sull'alto di una collina a forma di promontorio, cinto da un muraglione con in fronte un antico castello medioevale, volto proprio verso la Nomentana. Alcune miglia a sud tre compagnie di Zuavi pontifici vennero inviate lungo il Tevere verso Monterotondo ed il fianco destro del fronte garibaldino. La colonna principale, invece, con i dragoni all'avanguardia e i francesi in retroguardia proseguiva, sempre verso Monte Rotondo, lungo la Nomentana. Essi presero un primo, inaspettato, contatto con gli avamposti di Garibaldi già a sud di Mentana mentre era in corso il trasferimento dei Volontari in direzione di Tivoli. Li sospinsero verso la località Vigna Santucci, circa 1,5 km a sud-est del villaggio. Qui la posizione era difesa da tre battaglioni di camicie rosse, schierate a sinistra sul Monte Guarnieri ed a destra nell fattoria di Vigna Santucci. Entro le due del pomeriggio gli assalitori sloggiarono entrambe le posizioni e piazzarono l'artiglieria sul Monte Guarneri, in vista del villaggio e del vicino altopiano. Garibaldi schierò la modestissima artiglieria su una altura a nord, il Monte San Lorenzo e la gran parte delle truppe (Frigyesi, Valzania, Cantoni e Elia) all'interno ed intorno al villaggio murato ed al castello, in posizioni fortificate. Contro queste difese si infransero ripetuti assalti pontifici e francesi, con relativi contrattacchi, continuati sino all'inizio della notte. A questo punto venne programmato un contrattacco di aggiramento su entrambi i fianchi dello schieramento papalino, che non ebbe successo. Nel frattempo le tre compagnie di Zuavi che avevano marciato lungo il Tevere occuparono la strada fra Mentana e Monterotondo, inducendo Garibaldi a recarsi personalmente sul luogo, lasciando l'esercito a difendere Mentana. A questo punto il corpo francese attaccò le camicie rosse sul loro fronte sinistro, e sfondarono le linee. I difensori fuggirono verso Monterotondo o si rifugiarono asserragliandosi nel castello. Esito Garibaldino ferito. Dal Monumento ai caduti di Mentana a Milano. I difensori del castello si arresero ai papalini la mattina successiva. Garibaldi stesso ripiegò nel Regno d'Italia con 5.000 uomini, inseguito sino al confine dai Dragoni Pontifici. Al termine della giornata i franco-pontifici avevano registrato 32 morti e 140 feriti. I garibaldini 150 morti e 220 feriti più 1700 prigionieri.Sin dall'indomani della battaglia il merito della vittoria venne attribuita ai regolari francesi ( fu più una mossa di propaganda che una situazione reale smentita poi negli anni da studi e ricerche specifiche da parte dell'Istituto di ricerche storiche sulla Campagna del 1867 in Mentana,Rettore lo storico prof.Francesco Guidotti, vedi anche "Per il Papa Re" Lorenzo Innocenti, Esperia Editrice - Perugia, pp. 82-84 ) ed ai loro fucili chassepot. Ad esempio, quando il 6 novembre i vincitori rientrarono in Roma per la sfilata trionfale la folla li acclamava come i veri vincitori della giornata e gridava «viva la Francia». Un'altra prova che la vittoria dei Pontifici e dei Francesi non fu dovuta solo dal Fucile Chassepot è la testimonianza del garibaldino Mombello: «...Il Diritto riportava pure senza commenti il dispaccio di De Failly a Parigi nel quale parlando di Mentana diceva: "Les Chassepots on fait merveilles" - Ah bugiardo! esclamammo ad una voce Bonanni ed io. In tutto il tempo della battaglia non si udì un colpo di Chassepots.»[7] Il Mombello non solo riporta la sua testimonianza ma spiega anche militarmente per quale motivo gli Chassepots non furono l'unico motivo della vittoria dei pontifici: «Nel mio racconto ho dimostrato che il fucile francese a Mentana non ha fatto meraviglia alcuna. Il pregio maggiore del Chassepot era la lunga portata, quasi doppia del fucile ad ago dei prussiani; ma in terreno frastagliato di piccoli poggi e di avvallamenti la lunga portata vale molto meno della giustezza del tiro. Ora, volendo fare molti colpi al minuto, come facevano i francesi, la giustezza del tiro non può ottenersi con nessuna arma.»[8] Conseguenze Mentana assicurò allo Stato Pontificio tre ultimi anni di vita, dei quali il sovrano pontefice profittò per tenere l'allora tanto discusso Concilio Vaticano I (giugno 1868 - luglio 1870). Lì Pio IX ottenne, fra l'altro, la sanzione dei princìpi già espressi nel Sillabo del 1864 e la costituzione apostolica Pastor Aeternus, che impone l'infallibilità del vescovo di Roma quando definisce solennemente un dogma. Mentana sancì, inoltre, il definitivo allontanamento di Napoleone III dalle simpatie del movimento nazionale italiano, ad esito di un processo già iniziato con l'Armistizio di Villafranca. Era facile, in quei giorni, ricordarlo come l'uomo che mise fine alla Repubblica Romana (1849). La storiografia contemporanea tende, con maggiore gratitudine, a ricordarlo come colui che permise ai Piemontesi di cacciare gli Austriaci dalla Lombardia, il vero alleato del Camillo Benso Conte di Cavour. Garibaldi, anche se ormai vecchio (era nato il 4 luglio 1807), ebbe la insperata fortuna di regolare i propri personali conti con Napoleone III a seguito della sconfitta di quest’ultimo alla battaglia di Sedan, nel corso della guerra franco-prussiana: raggiunta la Francia nell'ottobre del 1870, ottenne uno dei rari successi della campagna in difesa della neonata Repubblica Francese (battaglia di Digione). Anche Vittorio Emanuele II di Savoia aveva saputo attendere: il 20 settembre 1870 (18 giorni dopo la resa dell'imperatore a Sedan e pochi giorni prima della partenza di Garibaldi per la Francia) il regio esercito italiano aprì una breccia nelle mura aureliane nei pressi di Porta Pia, segnando la fine dello Stato Pontificio. Fotografi sul campo di battaglia di Mentana Sul campo di battaglia di Mentana furono presenti e operarono alcuni fotografi, il più noto dei quali è senz'altro Antonio D'Alessandri (L'Aquila, 1818 - Roma, 1895), titolare insieme al fratello Francesco Paolo dello studio fotografico Fratelli D'Alessandri. Nella mostra della fotografia romana del 1953 furono esposte le seguenti foto: Veduta del paese, I pagliai, Il campo di battaglia verso Monterotondo, Morti sulla strada, Vigna Santucci, (foto del 3 novembre 1867); Trofei presi ai garibaldini di Mentana (fotografia con la scritta Porta inferi non prevalebunt); Racconta Silvio Negro, storico della fotografia romana, che « sono del D'Alessandri le rarissime fotografie del campo di battaglia di Mentana … Don Antonio [D'Alessandri], recandosi a Mentana, portò con sé anche un nipotino, Alessandro, il quale mentre lo zio faceva il compito suo, badò a raccogliere le pallottole del fucile, che gli venivano sottomano e ne portò a Roma una collezione. » (Silvio Negro, Seconda Roma, p. 395) Caduti di Mentana Nell'elenco dei Caduti in quella che una legge del 1899 riconobbe come "Campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma" ci sono tutti i morti dai fratelli Cairoli alla Tavani Arquati nel 1867, caduti a Bagnoregio, Subiaco, Monte S. Giovanni Campano, ecc. L'Ara-Ossario inaugurata nel 1877 fu chiusa dalla Società Patrie Battaglie nel 1937 proprio per raccogliere tutti i caduti ovunque deceduti nel 1867. Caduti garibaldini Tutti o quasi (salvo i caduti sepolti nelle tombe di famiglia dei paesi d'origine) sono tumulati nell'Ara-Ossario di Mentana realizzata nel 1877 e chiusa nel 1937. Attiguo il Museo nazionale inaugurato nel 1905 (vedi www.museomentana.it) Soldati pontifici e francesi Luigi Belli, Monumento ai caduti di Mentana, a Milano (1880). • Pascal Henry, zuavo pontificio. • Veaux, capitano degli Zuavi. • Il Conte Ildebrando Pulvano Guelfi di Scansano, Ufficiale Volontario. • Conte Carlo Bernardini di Lucca L'elenco completo dei morti e rispettive località di provenienza sono nell'ala nuova del Museo inaugurata nel 2005 e gemellata con il Museo militare degli Alpini in Antrodoco (Ri). Note 1. ^ a b c Dupuy R.E. & Dupuy T.N. (1993) The Collins Encyclopedia of Military History (4th. edition) Harper Collins, NY: 1654 pp. 2. ^ Rosi, Michele (1929) I Cairoli, L. Capelli Ed., Bologna 3. ^ a b c d Bruce, George (1979) Harbottle's dictionary of Battles (2nd. revised edition) Granada, London: 303 pp. ISBN 0-246-11103-8 4. ^ Du Picq A.C.J. (1868) Etudes sur les combats: Combat antique et moderne Translated as Battle Studies by J.N. Greeley & R.C. Cotton, 1902; BiblioBazaar, Charleston SC, 2006: 238 pp. ISBN 1-4264-2276-8 5. ^ Cronologia: Leonardo.it (Storia - anno 1867) 6. ^ Benché vi sia generale incertezza in merito all'effettiva consistenza, in assenza di registri. 7. ^ Augusto Mombello, Mentana. Ricordi di un veterano, Mondadori, p. 142 8. ^ Augusto Mombello, Mentana. Ricordi di un veterano, Mondadori, p. 233 Il Conte Ildebrando Pulvano Guelfi di Scansano, Ufficiale Volontario dell'Esercito Pontificio, a tutti gli effetti viene annoverato fra i caduti di Mentana, in quanto deceduto a causa delle complicazioni e delle ferite riportate durante il combattimento. Bibliografia • Leroux; Narrazione della battaglia di Mentana e degli altri principali fatti avvenuti nello Stato Pontificio. Bologna, Mareggiani, 1868. • Ermanno Kanzler; Rapporto alla Santitla di Nostro Signore Papa Pio IX. felicemente regnante del Generale Ermanno Kanzler proministro delle armi sulla invasione dello Stato Pontificio nell'autunno 1867 . Roma, 1867. • Hercule De Sauclières; Il Risorgimento contro la Chiesa e il Sud. Intrighi, crimini e menzogne dei piemontesi. Controcorrente, Napoli, 2003. ISBN 978-88-89015-03-2 • Onia Ortensi, La Squadra Garibaldina Abruzzese del Capitano Onia Ortensi a Monterotondo ed a Mentana nel 1867, Torino, Roux e Viarengo, 1900."Da Mentana a Roma Capitale" di Francesco Guidotti, Monterotondo ed.ne stampa sabina, 1996 "Volontari della Padania e nord Italia con Garibaldi per Roma-Capitale" di Francesco Guidotti, edizione Centro Studi Risorgimentali di Monterotondo, 1997 Alberto Manca dell'Asinara "Garibaldi e Mentana" ed. Balzanelli-Comune, 1982 Francesco Guidotti, 1867-1992, 125° della Battaglia di Mentana,Assostampa Sabina e Comune di Mentana editori Voci correlate • Potere temporale • Donazione di Costantino • Dictatus Papae • Costituzioni egidiane • Costituzione della Repubblica Romana • Giuseppe Garibaldi • Questione romana • Repubblica Romana (1798-1799) • Repubblica Romana (Risorgimento) • Storia della Repubblica Romana • Giuditta Tavani Arquati • Convenzione di settembre • Presa di Roma • Legge delle Guarentigie • Non expedit • Patti lateranensi • Accordi di villa Madama • Concordato • Rapporti Stato-Chiesa • Campagna dell'Agro romano per la liberazione di Roma • Zuavi pontifici • Hermann Kanzler • Athanase de Charette • Giovanni Lepri Wikimedia Commons contiene file multimediali su Battaglia di Mentana Altri progetti Collegamenti esterni Museo nazionale della campagna garibaldina dell'Agro romano per la liberazione di Roma Fotografia dell'esecuzione di Monti e Tognetti Presa di Roma Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. « Perché questa smania di dare addosso ad una larva? D’inimicarsi per tal modo il clero nazionale e la galante ortodossia forestiera? Di metter a repentaglio la propria tranquillità per un acquisto piccolo ed incerto? Credo contuttociò, che qualche ragione da opporre ci fosse. » (Ippolito Nievo, Storia filosofica dei secoli futuri, 1860) « La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico. » (Camillo Benso, conte di Cavour, discorso al Parlamento italiano 11 ottobre 1860[1]) 10-25 settembre 1870 Data Stato Pontificio Luogo vittoria italiana Esito Modifiche territoriali Annessione dello Stato Pontificio all'Italia Schieramenti Regno d'Italia Stato Pontificio Francia volontari pontifici e da vari Paesi d'Europa Comandanti Raffaele Cadorna Hermann Kanzler Effettivi 65.000 uomini 13.624 uomini (8.300 pontifici e 5.324 volontari) Perdite 32 morti 143 feriti 15 morti 68 feriti La presa di Roma (20 settembre 1870), nota anche come Breccia di Porta Pia, fu l'episodio del Risorgimento che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, decretando la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale dei Papi. L'anno successivo la capitale d'Italia fu trasferita da Firenze a Roma (legge 3 febbraio 1871, n. 33). L'anniversario del 20 settembre è stato festività nazionale fino alla sua abolizione durante il Fascismo. Le premesse Il desiderio di porre Roma a capitale del nuovo regno d'Italia era già stato esplicitato da Cavour nel suo discorso al parlamento italiano nel 1860. Cavour prese poco dopo i contatti a Roma con Diomede Pantaleoni, un patriota romano, che aveva ampie conoscenze nell'ambiente ecclesiastico, per cercare una soluzione che assicurasse l'indipendenza del papa. Il principio era quello della "libertà assoluta della chiesa" cioè la libertà di coscienza, assicurando ai cattolici l'indipendenza del pontefice dal potere civile.[2] Inizialmente si ebbe l'impressione che questa trattativa non dispiacesse completamente a Pio IX e al cardinale Giacomo Antonelli, ma questi dopo poco, già nei primi mesi del 1861, cambiarono atteggiamento e le trattative non ebbero seguito.[2] Poco dopo Cavour affermò in parlamento che riteneva «necessaria Roma all'Italia», e che prima o poi Roma sarebbe stata la capitale, ma che per far questo era necessario il consenso della Francia. Sperava che l'Europa tutta sarebbe stata convinta dell'importanza della separazione tra potere spirituale e potere temporale, e quindi riaffermò il principio di «libera Chiesa in libero Stato».[2] Cavour già nell'aprile scrisse al principe Napoleone per convincere l'Imperatore a togliere da Roma il presidio francese che lì si trovava. Ricevette anche dal principe un abbozzo di convenzione: « Fra l'Italia e la Francia, senza l'intervento della corte di Roma, si verrebbe a stipulare quanto segue: 1º La Francia, avendo messo il Santo Padre al coperto d'ogni intervento straniero, ritirerebbe da Roma le sue truppe, in uno spazio di tempo determinato, di 15 giorni o al più di un mese. 2º L'Italia prenderebbe impegno di non assalire ed eziandio di impedire in ogni modo a chicchessia, ogni aggressione contro il territorio rimasto in possesso del Santo Padre. 3º Il governo italiano s'interdirebbe qualunque reclamo contro l'organamento di un esercito pontificio, anche costituito di volontari cattolici stranieri, purché non oltrepassasse l'effettivo di 10 mila soldati, e non degenerasse in un mezzo di offesa a danno del regno d'Italia. 4° L'Italia si dichiarerebbe pronta ad entrare in trattative dirette con il governo romano, per prendere a suo carico la parte proporzionale che le spetterebbe nella passività degli antichi stati della chiesa » (in Cadorna, La liberazione[2]) Il conte di Cavour vi acconsentiva in linea di massima, perché sperava che la stessa popolazione romana avrebbe risolto i problemi senza bisogno di repressioni da parte di governi stranieri, e che il Papa avrebbe infine ceduto alle spinte unitarie. Le uniche riserve espresse riguardavano la presenza di truppe straniere. La convenzione però non arrivò a conclusione per la morte di Cavour, il 6 giugno del 1861. Bettino Ricasoli, successore di Cavour, cercò di riaprire i contatti con il cardinale Antonelli già il 10 settembre 1861, con una nota in cui faceva appello «alla mente ed al cuore del Santo Padre, perché colla sua sapienza e bontà, consenta ad un accordo che lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità e grandezza della chiesa».[2] Ancora una volta Antonelli e Pio IX si mostrarono contrari. L'ambasciatore francese a Roma scrisse al suo ministro che il cardinale gli aveva detto: (FR) (IT) « Quant à pactiser avec les spoliateurs, nous ne le ferons « Quanto a fare accordi con gli espropriatori, noi non lo jamais. » faremo mai » (Card. Antonelli [2] ) Da quel momento ci fu uno stallo nelle attività diplomatiche, mentre rimaneva viva la spinta all'azione di Garibaldi e dei mazziniani. Ci furono una serie di tentativi tra cui quello più noto si concluse all'Aspromonte ove i bersaglieri fermarono, dopo un breve conflitto a fuoco, Garibaldi che stava risalendo la penisola con una banda di volontari diretto a Roma. Agli inizi del 1863, il governo Minghetti riprese le trattative con Napoleone III, ma dopo questi avvenimenti Napoleone pretese maggiori garanzie. Si arrivò quindi alla convenzione di settembre, un accordo con Napoleone che prevedeva il ritiro delle truppe francesi, in cambio di un impegno da parte dell'Italia a non invadere lo Stato Pontificio. A garanzia dell'impegno da parte italiana, la Francia chiese il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Entrambe le parti espressero comunque una serie di riserve, e l'Italia si riservava completa libertà d'azione nel caso che una rivoluzione scoppiasse a Roma, condizioni che furono accettate dalla Francia, che riconobbe in questo modo i diritti dell'Italia su Roma.[2] Nel 1867 Garibaldi fece un nuovo tentativo sbarcando nel Lazio, conclusosi con la sua sconfitta nella Battaglia di Mentana. Il 3 novembre i francesi sbarcarono a Civitavecchia e si unirono alle truppe pontificie scontrandosi con i garibaldini. Le truppe italiane, che in base alla convenzione avevano varcato i confini dello stato pontificio, lo abbandonarono; ma i soldati francesi, nonostante quanto previsto nella convenzione di settembre, rimasero a Roma e il ministro francese Eugène Rouher dichiarò al parlamento francese (FR) (IT) « que l'Italie peut faire sans Rome; nous déclarons qu'elle « che l'Italia può fare a meno di Roma; noi dichiariamo che ne s'emparera jamais de cette ville. La France ne supportera non si impadronirà mai di questa città. La Francia non jamais cette violence faite à son honneur et au catholicisme. sopporterà mai questa violenza fatta al suo onore ed al cattolicesimo. » » [2] (Rouher. ) In risposta, il 9 dicembre Giovanni Lanza, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera dei Deputati, dichiarò che «siamo unanimi a volere il compimento dell'unità nazionale; e Roma, tardi o tosto, per la necessità delle cose e per la ragione dei tempi, dovrà essere capitale d'Italia».[2] Alla fine del 1869 lo stesso Lanza, alla caduta del terzo gabinetto Menabrea, si insediò come nuovo capo del Governo. Nel frattempo continuava l'occupazione francese di Roma, "non rimanendo più traccia della oramai conculcata convenzione del 15 settembre 1864".[2] Il 14 luglio 1870 il governo di Napoleone III dichiarò guerra alla Prussia. L'occupazione di Roma fu una delle cause che impedì accordi di alleanza militare fra Francia e Italia. Girolamo Napoleone II in un discorso all'Assemblea Nazionale francese dichiarò il 24 novembre 1876 che la conservazione del potere temporale era costato alla Francia la perdita dell'Alsazia e della Lorena.[2] Il Papa lo stesso anno indisse a Roma un concilio ecumenico, che doveva anche risolvere il problema dell'infallibilità papale. Questa posizione destò preoccupazione per il timore che servisse al Papa per intromettersi negli affari politici.[2] Il 2 agosto la Francia, cercando di recuperare un rapporto amichevole con l'Italia, avvertì il governo italiano che era disponibile a ripristinare la convenzione del 1864 e a ritirare le truppe da Roma. Il 20 agosto alla Camera ci furono interpellanze di vari deputati tra cui Cairoli e Nicotera che chiedevano di denunciare definitivamente la convenzione del 15 settembre e di muovere su Roma.[2] La risposta governativa ricordava che la convenzione escludeva i casi straordinari e proprio questa clausola aveva permesso a Napoleone III di intervenire a Mentana. Nel frattempo comunque i francesi abbandonarono Roma. Di nuovo si mosse la diplomazia italiana chiedendo una soluzione della questione romana. L'imperatrice Eugenia, che aveva in quel momento le funzioni di reggente, spedì la nave da guerra Orénoque a stazionare davanti a Civitavecchia. Ma le vicende della guerra franco-prussiana peggiorarono per i francesi, e Napoleone III cercò soccorsi in Italia che, visto lo stato dei rapporti, gli furono negati.[2] Il 4 settembre 1870 cadeva il Secondo Impero, e in Francia veniva proclamata la Terza Repubblica. Questo stravolgimento politico aprì di fatto all'Italia la strada per Roma. La preparazione diplomatica Il 29 agosto 1870 il ministro degli affari esteri, il marchese Emilio Visconti Venosta inviò al ministro del Re a Parigi una lettera con cui espose i punti di vista del governo italiano da rappresentare al governo francese. Visconti Venosta rileva come le condizioni che hanno a suo tempo portato alla convenzione di settembre tra Italia e Francia siano completamente cadute. (FR) (IT) « Florence, 29 août 1870. « Firenze, 29 agosto 1870. Il Ministro degli Affari Esteri al Ministro del Re a Parigi … L'obiettivo che il Governo imperiale ha perseguito, cioè … Le but que le Gouvernement impérial poursuivait, celui di facilitare una conciliazione tra il Santo Padre, i Romani e de faciliter une conciliation entre le Saint-Père, les l'Italia, conformemente ai punti di vista espressi Romains et l'Italie, dans un sens conforme aux vues dall'Imperatore nella sua lettera a M. de Thouvenel del 26 exprimées par l'Empereur dans sa lettre à M. de Thouvenel maggio 1862, è stato non solo mancato, ma è addiritura du 26 mai 1862, a été non seulement manqué, mais même completamente fallito a causa di circostanze sulle quali è complètement perdu par suite de circonstances sur inutile insistere… » lesquelles il serait inutile d'appuyer… » (Visconti Venosta, in R. Cadorna, La liberazione di Roma, p. 331 ) Lo stesso giorno Visconti Venosta diramò a tutti i rappresentanti di Sua Maestà all'estero una lettera circolare con la quale si esponevano alle potenze europee le garanzie che venivano offerte al Pontefice a tutela della sua libertà; contemporaneamente si sottolineava l'urgenza di risolvere un problema che, secondo l'opinione del governo italiano, non poteva essere rimandato[3]. Il 7 settembre inviò un'altra lettera in cui le intenzioni del governo vengono nuovamente esplicitate e le motivazioni rafforzate.[4] L'8 settembre il ministro del Re a Monaco, il genovese Giovanni Antonio Migliorati, risponde a Visconti Venosta esponendo i risultati del colloquio con il conte di Bray: «Il Ministro degli Affari Esteri mi disse che le basi che porrebbe l'Italia alla Santa Sede ... gli sembrerebbero tali da dover essere accettate da Roma...».[4] Simili considerazioni arrivano da Berna spedite da Luigi Melegari. Anche i rappresentanti a Vienna, a Karlsruhe, presso il governo del Baden e a Londra esprimono opinioni simili. L'unico governo che esita in qualche modo a prendere posizione è quello di Bismarck che si trova a Parigi assieme al suo re, che in questi giorni sta per essere incoronato imperatore. Solo il 20 settembre da Berlino esprime una posizione di stretta non ingerenza.[4] Jules Favre ministro del nuovo governo francese invia il 10 settembre all'incaricato di Francia a Roma un'indicazione in cui afferma che il governo francese «ne peut approuver ni reconnaître le pouvoir temporel du Saint-Siège».[4] Il 20 agosto il cardinale Antonelli a sua volta aveva inviato una richiesta ai governi stranieri onde si opponessero «alla violenze dal governo sardo (sic!) minacciate». La maggior parte dei governi si limitò a non rispondere, altri invece espressero l'opinione che la cosa non li riguardava.[4] Preparativi militari Il governo procedette alla costituzione di un Corpo d'osservazione dell'Italia centrale. In questo contesto furono chiamate sotto le armi anche le classi 1842-45. Il 10 agosto il ministro della guerra Giuseppe Govone convocò il generale Raffaele Cadorna cui assegnò il comando del corpo con le seguenti disposizioni:[5] « 1° Mantenere inviolata la frontiera degli stati pontifici da qualunque tentativo d'irruzione di bande armate che tentassero di penetrarvi; 2° Mantenere l'ordine e reprimere ogni moto insurrezionale che fosse per manifestarsi nelle provincie occupate dalle divisioni poste sotto a' di Lei ordini; 3° Nel caso in cui moti insurrezionali avessero luogo negli stati pontifici, impedire che si estendano al di qua del confine. » Il dispaccio concludeva con: « La prudenza e l'energia altra volta da Lei dimostrata in non meno gravi circostanze[6], danno sicuro affidamento, che lo scopo che il governo si propone, sarà pienamente raggiunto. » Oltre a Cadorna il governo nominò anche i comandanti delle tre divisioni che costituivano il corpo nelle persone dei generali Emilio Ferrero, Gustavo Mazè de la Roche e Nino Bixio. Cadorna sollevò subito i suoi dubbi sulla presenza di Bixio, considerato troppo impetuoso e quindi inadatto ad una missione che «richiedeva somma prudenza». Govone, che si ritirerà pochi giorni dopo dal governo, accettò le opinioni di Cadorna e nominò al posto di Bixio il generale Cosenz.[5] Alla fine di agosto le tre divisioni furono portate a cinque ed il comando di questi nuovi reparti fu affidato al generale Diego Angioletti e Bixio, che non riscuoteva le simpatie del comandante del Corpo. Il totale dei militari del Corpo arrivò a superare le 50.000 unità. L'esercito pontificio era costituito da circa 15.000 militari di varie nazionalità. Circa 4.000 erano francesi, tra cui la legione di Antibes, forte di 1200 uomini, e circa 1.000 erano tedeschi. Vi erano inoltre 400 volontari pontifici. Con lo scoppio della guerra Franco-Prussiana parte dei militari francesi fu richiamata in patria. Il comandante era il generale Hermann Kanzler (badese), coadiuvato dai generali De Courten e Zappi.[5] I fatti L'8 settembre, alcuni giorni prima dell'attacco una lettera autografa del re Vittorio Emanuele II venne consegnata a papa Pio IX dal conte Gustavo Ponza di San Martino, senatore del Regno. Nell'epistola al "Beatissimo Padre" Vittorio Emanuele, dopo aver paventato le minacce del «partito della rivoluzione cosmopolita», esplicitava «l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine».[7] Il 10 settembre il conte San Martino scrivendo da Roma al capo del governo, Giovanni Lanza, descrive i suoi incontri con il cardinale Antonelli del giorno precedente e in particolare l'incontro con il Papa. Scrive il conte: « … che sono stato dal Santo Padre, che gli ho consegnato la lettera di Sua Maestà e la nota rimessami da V. Eccellenza.... Il Papa era profondamente addolorato, ma non mi parve disconoscere che gli ultimi avvenimenti rendono inevitabile per l'Italia l'azione su Roma… Esso [il Papa] non la riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo, ma espresse troppo raccapriccio per le carneficine francesi e prussiane, per non darmi a sperare che non siano i modelli che vuol prendere … fui fermo nel dirgli che l'Italia trova il suo proposito di avere Roma, buono e morale… Il Papa mi disse, leggendo la lettera, che erano inutili tante parole, che avrebbe amato di meglio gli si dicesse a dirittura che il governo era costretto di entrare nel suo Stato » (Ponza di San Martino[8]) La risposta del Papa fu succinta:[8] « Maestà, Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V.M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che V.M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii che contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo, renderla partecipe delle misericordie onde Ella ha bisogno. Dal Vaticano, 11 settembre 1870 » Il conte di San Martino riferì verbalmente la frase pronunciata da Pio IX: «Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà vi dico che non entrerete in Roma».[8] Quello stesso giorno il corpo di spedizione italiano stanziato in Umbria entrò nello Stato Pontificio marciando verso Roma, si trattava di circa 50000 uomini, agli ordini del generale Raffaele Cadorna mentre l'esercito pontificio contava 13000 unità, comandate dal generale Hermann Kanzler. Dopo tre giorni di inutile attesa (durante i quali si aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre (intorno alle nove) l'artiglieria [9] dell'esercito italiano, guidata dal generale Cadorna, aprì una breccia di circa trenta metri nelle mura della città, accanto a Porta Pia, che consentì a due battaglioni (uno di fanteria[10], l'altro di bersaglieri[11]) di occupare la città; una curiosità è che tra i partecipanti all'evento vi fu anche lo scrittore e giornalista Edmondo De Amicis, all'epoca ufficiale dell'esercito italiano che ha lasciato una particolareggiata descrizione dell'evento nel libro Le tre capitali: « [...] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d'armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. [...] » Sullo scontro, invece, ci offre alcune informazioni Attilio Vigevano che riferisce che mentre gli Zuavi pontifici combattevano, prima della resa, molti di essi intonarono il loro canto preferito quello dei Crociati di Cathelineau: « Intonato dal sergente Hue, e cantato da trecento e più uomini, l'inno echeggiò distinto per alcuni minuti; il capitano Berger ne cantò una strofa ritto sulle rovine della breccia colla spada tenuta per la lame e l'impugnatura rivolta al cielo quasi a significare che ne faceva omaggio a Dio; presto però illanguidì e si spense nel ricominciato stridore della fucilata, nel raddoppiato urlio, nel tumulto delle invettive » [12] Secondo la descrizione di Antonio Maria Bonetti (1849-1896), caporale dei Cacciatori Pontifici: « Stavamo sulle righe, quando alcune voci sulla Piazza di San Pietro gridarono: "Il Papa, il Papa!". In un momento, cavalieri e pedoni, ufficiali e soldati, rompono le righe e corrono verso l'obelisco, prorompendo nel grido turbinoso e immenso di: "Viva Pio IX, viva il Papa Re!", misto a singhiozzi, gemiti e sospiri. Quando poi il venerato Pontefice, alzate le mani al cielo, ci benedisse, e riabbassatele, facendo come un gesto di stringerci tutti al suo cuore paterno, e quindi, sciogliendosi in lacrime dirotte, si fuggì da quel balcone per non poter sostenere la nostra vista, allora sì veruno più poté far altro che ferire le stelle con urla, con fremiti ed esecrazioni contro coloro che erano stati causa di tanto cordoglio all'anima di un sì buon Padre e Sovrano » Pio IX condannò aspramente l'atto, con cui la Curia Romana vide sottrarsi il secolare dominio su Roma. Si ritirò in Vaticano, dichiarandosi "prigioniero" fino alla morte, e intimò ai cattolici - con il celebre decreto Non expedit - di non partecipare più da quel momento alla vita politica italiana. Il parlamento italiano, per cercare di risolvere la questione, promulgò nel 1871 la Legge delle Guarentigie, ma il Papa non accettò la soluzione unilaterale di riappacificazione proposta dal governo e non mutò il suo atteggiamento. Questa situazione, indicata come "Questione Romana", perdurò fino ai Patti Lateranensi del 1929. Il primo francobollo a portare per il mondo la notizia dell’unificazione della nazione fu il Vittorio Riquadrato di cui è giunto perfettamente conservato un esemplare su lettera timbrata proprio il 20 settembre 1870 a Roma.[13] Considerazioni belliche Nonostante l'importanza storica dei fatti (la riunione di Roma all'Italia e la fine dello Stato Pontificio), dal punto di vista militare l'operazione non fu di particolare rilievo. La assai debole resistenza opposta dall'esercito pontificio (complessivamente 15.000 uomini, tra cui dragoni pontifici, guardie svizzere, volontari provenienti per lo più da Francia, Austria, Baviera, Paesi Bassi, Irlanda, Spagna, ma soprattutto Zuavi, al comando dal generale Kanzler) ebbe in particolare valore simbolico.Sulle ragioni per cui papa Pio IX non esercitò un'estrema resistenza sono state fatte varie ipotesi: la più accreditata è l'ipotesi della rassegnata volontà da parte della Santa Sede di mettere da parte ogni ipotesi di una violenta risposta militare all'offesa. È infatti noto che l'allora segretario di stato, il cardinale Giacomo Antonelli, abbia dato ordine al generale Kanzler di ritirare le truppe entro le mura e di limitarsi ad un puro atto di resistenza simbolico. Giunta di governo Cadorna, che aveva «alta autorità conferitagli dal governo, anche all'effetto di promuovere la formazione della giunta della città di Roma», il 25 settembre decise di riconoscere la Giunta di Governo che si era formata ed era costituita sotto la presidenza di Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta.[14] L'organismo, che aveva le funzioni simili a quelle dell'attuale giunta comunale, prese il nome di Giunta provvisoria di governo di Roma e sua provincia. I componenti della Giunta, oltre a Michelangelo Caetani, erano i seguenti:[14] • principe Francesco Pallavicini • Emanuele Ruspoli, dei principi Ruspoli • duca Francesco Sforza Cesarini • principe Baldassarre Odescalchi • Ignazio Boncompagni Ludovisi, dei principi di Piombino • avvocato Biagio Placidi • avvocato Vincenzo Tancredi • avvocato Raffaele Marchetti • Vincenzo Tittoni • Pietro Deangelis • Achille Mazzoleni • Felice Ferri • Augusto Castellani • Alessandro Del Grande Plebiscito di annessione Il governo del Regno aveva "nei memorandum diramati all'estero", "proclamato il diritto dei romani di scegliersi il governo che desideravano".[15] Così come era stato fatto per le altre provincie italiane, anche a Roma fu quindi indetto un referendum per sancire l'avvenuta riunificazione della città con il Regno d'Italia. La formula inizialmente proposta vedeva all'inizio del quesito proposto la formula «Colla certezza che il governo italiano assicurerà l'indipendenza dell'autorità spirituale del Papa, ...».[15] Questa premessa fu poi giudicata inutile e la domanda posta fu: « Vogliamo la nostra unione al Regno d'Italia, sotto il governo del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori » Inizialmente il governo a Firenze aveva esclusa dalla votazione la città Leonina, ma le rimostranze della popolazione spinsero le autorità locali a permettere anche lì il normale svolgimento della consultazione.[15] Il plebiscito si svolse il 2 ottobre 1870. I risultati videro la schiacciante vittoria dei sì, 40.785, a fronte dei no che furono solo 46. Il risultato complessivo nella provincia di Roma fu di 77.520 "sì" contro 857 "no". In tutto il territorio annesso i risultati furono 133.681 "sì" contro 1.507 "no".[15][16] A ricordo dell'inizio del moderno Stato d'Italia come lo conosciamo oggi, il XX Settembre è riportato nella toponomastica di molte città italiane, talvolta dando il nome alla strada che porta al duomo, a rimarcare implicitamente la vittoria dello Stato laico del 1870. L'importanza del 20 Settembre 1870 come data di preteso vero inizio dell'Unità d'Italia è sottolineata dal fatto che il filosofo Benedetto Croce fece iniziare dal 1870 la sua Storia d'Italia. Ripercussioni internazionali Gli Stati europei non riconobbero ma accettarono l'azione italiana. Già il 21 settembre il rappresentante del re a Monaco scriveva che il conte Otto von Bray-Steinburg, ministro bavarese, avvertito degli avvenimenti gli aveva espresso la sua soddisfazione che tutto si fosse svolto senza spargimento di sangue. Launay da Berlino riportava il 22 settembre la posizione di neutralità del governo di Otto von Bismarck. Il 21 settembre da Tours il "Ministro del Re", cioè l'ambasciatore, in Francia, Costantino Nigra, inviava il seguente messaggio: « Ho ricevuto stamane il telegramma col quale l'E. V. mi fece l'onore di annunziarmi che le regie truppe sono entrate ieri a Roma, dopo una lieve resistenza delle milizie straniere, che cessarono il fuoco dietro ordine del Papa. Ho immediatamente comunicato questa notizia al signor Cremieux, membro del Governo della difesa nazionale, Guardasigilli e Presidente della Delegazione governativa stabilita in Tours. Il signor Cremieux mi ha espresso le sue vive felicitazioni per fatto annunziatogli. » (Costantino Nigra) Carlo Cadorna, fratello maggiore del generale, era ambasciatore a Londra e nel dispaccio spedito il 22 settembre, parlò del lungo colloquio che ebbe con il conte di Granville, ministro degli Esteri del gabinetto Gladstone. Granville non fece commenti data la novità della notizia, ma secondo Cadorna «la notizia che gli aveva data gli era riuscita gradita». Questa impressione fu poi confermata in un altro telegramma spedito il 27, in cui l'ambasciatore esprimeva la soddisfazione del ministro sulle modalità con cui si erano svolti gli avvenimenti. Reazioni del governo pontificio A pochi giorni dalla presa di Roma, il 1º novembre 1870 Pio IX emanò l'enciclica Respicientes ea nella quale dichiarava "ingiusta, violenta, nulla e invalida" l'occupazione dei domini della Santa Sede.[17] Il cardinale Antonelli l'8 novembre diramò ai rappresentanti degli stati stranieri una nota che attaccava Visconti-Venosta ed in cui affermava: «Quando con un cinismo senza esempio, si pone in ogni cale ogni principio di onestà e giustizia, si perde il diritto di essere creduti». Pio IX si dichiarò «prigioniero politico del Governo italiano». Lo Stato Italiano promulgò nel maggio del 1871 la Legge delle guarentigie, con la quale assegnava alla chiesa l'usufrutto dei beni che ora appartengono alla Città del Vaticano, e si conferivano al Papa una serie di garanzie circa la sua indipendenza. Tuttavia tale compromesso non venne mai accettato né da Pio IX né dai suoi successori. Nel 1874 Pio IX emanò il Non expedit, con cui vietò ai cattolici italiani la partecipazione alla vita politica. Soltanto in età giolittiana tale divieto sarebbe stato eliminato progressivamente, fino al completo rientro dei cattolici "come elettori e come eletti" nella vita politica italiana: solo nel 1919, con la fondazione del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, i clericali furono presenti nel mondo politico italiano ufficialmente. La situazione venne sistemata nel 1929, in pieno Fascismo, con i Patti Lateranensi, mediante i quali si giunse ad una effettiva composizione bilaterale della vicenda. Reazioni dei cattolici modernisti Tra i cattolici che salutarono favorevolmente o entusiasticamente la Liberazione di Roma del 20 Settembre 1870 vi furono i "modernisti", tra cui Alessandro Manzoni e lord Acton, perché videro in ciò una molto maggiore libertà dei cattolici dal potere temporale del papato. La presa di Roma nel cinema • Nel 1905 viene realizzato il film La presa di Roma di Filoteo Alberini, uscito il 20 settembre per commemorare l'azione. Tra l'altro il film fu il primo proiettato pubblicamente in Italia. • Nel 1986 viene riproposta la presa di Roma in un episodio del film Superfantozzi, quando la famiglia di Fantozzi il giorno 20 settembre 1870 acquista una casa a Porta Pia, che viene distrutta poco dopo dai bersaglieri. Note 1. ^ Targa al Senato della Repubblica 2. ^ a b c d e f g h i j k l m n R. Cadorna: La liberazione, pp.1 sgg 3. ^ Il testo in Cadorna, La liberazione..., p. 333. 4. ^ a b c d e R. Cadorna: La liberazione, pp.33 e segg 5. ^ a b c R. Cadorna: La liberazione... pp.55 e segg. 6. ^ Le repressioni del 1866 a Palermo e del 1869 in Emilia, che Cadorna aveva guidato 7. ^ R. Cadorna: La liberazione.., pp. 36-38 8. ^ a b c R. Cadorna: La liberazione.., pp. 40-44 9. ^ Fu la 3ª batteria del 7º reggimento di artiglieria di stanza agli Arsenali di Pisa (la cosiddetta Cittadella fino alla fine della 2ª guerra mondiale), che aprì la breccia a Porta Pia il 20 settembre 1870. Il reggimento si venne costituendo durante il risorgimento - con unità di artiglieria del ducato di Parma e di Toscana ed in particolare con l'artiglieria guardacoste del Granducato di Toscana. L'onore venne concesso perché la 3ª batteria dell'unità di artiglieria guardacoste del Granducato di Toscana fu la prima ad aprire il fuoco nella battaglia di Curtatone e Montanara il 29 maggio 1848. 10. ^ L'Unità di Fanteria che entrò a Roma era il 39' Reggimento Fanteria del Regio Esercito 11. ^ Il 12' Battaglione Bersaglieri del Regio Esercito 12. ^ Attilio Vigevano, La fine dell'Esercito Pontificio, Albertelli, pg.571 13. ^ Cronaca filatelica n°314 – Pag. 66-Editoriale Olimpia -Febbraio 2005 14. ^ a b Cadorna pp. 229 e sgg. 15. ^ a b c d Cadorna pp. 265 e sgg. 16. ^ The Encyclopædia Britannica, 1911, p. 60. 17. ^ Testo dell’enciclica in italiano Bibliografia • Raffaele Cadorna, La liberazione di Roma nell'anno 1870, 3ª ed. 1898, Torino • Hercule De Sauclières, Il Risorgimento contro la Chiesa e il Sud. Intrighi, crimini e menzogne dei piemontesi. Controcorrente, Napoli, 2003. ISBN 978-88-89015-03-2 • Indro Montanelli, L'Italia dei Notabili, RCS, 1999. • Giovanni Di Benedetto, Claudio Rendina, Storia di Roma moderna e contemporanea, Newton Compton Editori, Roma. ISBN 88-541-0201-6 Voci correlate • Risorgimento • Questione romana • Guerre di indipendenza italiane • Storia di Roma • Regno d'Italia (1861-1946) • Rapporti Stato-Chiesa • La presa di Roma • I francobolli non emessi dello Stato Pontificio • Vincenzo Di Stefano Altri progetti • • Wikimedia Commons contiene file multimediali su Presa di Roma Articolo su Wikinotizie: Roma, celebrazioni per il 137º anniversario della breccia di Porta Pia I caduti pontifici del 20 settembre 1870 Prima della resa imposta da Pio IX, il 20 settembre 1870, durante la difesa di Roma, i pontifici recarono numerose perdite all’esercito invasore: tra gli ufficiali 4 morti e 9 feriti, tra la truppa 45 morti e 132 feriti. I papalini, invece, registrarono 19 morti, deceduti il 20 settembre 1870 e nei giorni successivi in seguito alle ferite, e 68 feriti. Ecco l’elenco dei caduti secondo il Vigevano (altri autori, come Keyes O’Clery, riportano un numero minore di caduti, perché non calcolano alcuni decessi avvenuti negli ospedali dopo il 20 settembre) : Zuavi: Sergente Duchet Emilio, francese, di anni 24, deceduto il 1 ottobre. Sergente Lasserre Gustavo, francese, di anni 25, deceduto il 5 ottobre. Soldato de l’Estourbeillon, di anni 28, deceduto il 23 settembre. Soldato Iorand Giovanni Battista, deceduto il 20 settembre. Soldato Burel Andrea, francese di Marsiglia, di anni 25, deceduto il deceduto il 27 settembre. Soldato Soenens Enrico, belga, di anni 34, deceduto il 2 ottobre. Soldato Yorg Giovanni, olandese, di anni 18, deceduto il 27 settembre. Soldato De Giry (non si hanno altri dati). altri tre soldati non identificati, deceduti il 20 settembre. Carabinieri: Soldato Natele Giovanni, svizzero, di anni 30, deceduto il 15 ottobre. Soldato Wolf Giorgio, bavarese, di anni 27, deceduto il 28 ottobre. Dragoni: Tenente Piccadori Alessandro, di Rieti, di anni 23, deceduto il 20 ottobre. Artiglieria: Maresciallo Caporilli Enrico, italiano, deceduto il 20 ottobre. Soldato Betti, italiano, deceduto il 20 settembre. Soldato Curtini Nazzareno, italiano, deceduto il 20 settembre. Soldato Taliani Mariano, di Cingoli, di anni 29, deceduto il 20 settembre. Soldato Valenti Giuseppe, di Ferentino, di anni 22, deceduto il 3 ottobre. (Attilio Vigevano, La fine dell’esercito pontificio, ristampa anastatica, Albertelli Editore, Parma 1994, pagg. 672-673; nel testo del Vigevano i nomi di battesimo sono stati italianizzati). Il maggiore Giacomo Pagliari, comandante del 34º Bersaglieri, colpito a morte durante la presa di Porta Pia Le mura abbattute accanto a Porta Pia La breccia, qualche decina di metri sulla destra della Porta Pia, in una foto dell'epoca. Medaglia di Castelfidardo Medaglia Pro Pedri Sede Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Tipologia Status Istituzione Barrette Gradi Medaglia commemorativa cessato Roma, 1860 VITERBO PESARO FANO SANT'ANGELO CASTELFIDARDO ANCONA Medaglia d'oro a smalti Medaglia d'oro Medaglia d'argento Medaglia di metallo bianco Nastro della medaglia La Medaglia di Castelfidardo fu una medaglia concessa dallo Stato Pontificio a tutte le truppe che avessero partecipato allo scontro di Castelfidardo contro i garibaldini. Storia La medaglia venne istituita con breve pontificio del 12 novembre 1860 ad opera di Pio IX il quale, su consiglio del maestro d'armi, Francesco Saverio de Mérode, fece coniare questa medaglia per premiare i soldati che si fossero battuti in suo nome contro l'esercito piemontese durante l'invasione dello stato pontificio del 1860. Gli insigniti della medaglia, da regolamento, ottenevano anche degli specifici privilegi morali e materiali: innanzitutto l'insignito era dichiarato benemerito della chiesa cattolica per aver contribuito alla salvezza ed all'integrità dello Stato della Chiesa e del Papa, oltre a ricevere l'abbuono di un anno di servizio verso la pensione. Gradi Questa medaglia è uno dei rari esempi concessi in molteplici gradi dallo stato pontificio, con differenziazioni a seconda del beneficiario: • Medaglia d'oro smaltata in blu per gli ufficiali generali • Medaglia d'oro per gli ufficiali superiori • Medaglia d'argento per gli ufficiali inferiori • Medaglia in metallo bianco per i sottufficiali e la truppa. Insegne • La medaglia era composta di un cerchio riportante circolarmente sul diritto il motto "VICTORIA, QUAE VICIT MUNDUM, FIDES NOSTRA", mentre sul retro era riportata la scritta “PRO PETRI SEDE, PIO IX P.M.A.XV”. Il cerchio riportava in centro una croce capovolta (simbolo non blasfemo come da alcuni studiosi è stato evidenziato, bensì del martirio di San Pietro, primo pontefice, il quale venne crocifisso a testa in giù per non eguagliare l'esempio di Cristo, condannato al medesimo martirio). Su questa croce era raffigurato un serpente che si mordeva la coda, simbolo del peccato mortale che attanagliava quanti osassero attaccare la chiesa. Popolarmente la medaglia venne definita anche la “ciambella” o il “Ciambellone” date le sue dimensioni fuori dalla norma medaglistica. • Il nastro era bianco con una striscia rossa in centro affiancata da due piccole strisce gialle. Sui bordi si trovavano invece una striscia rossa per parte affiancata da due piccole strisce gialle. Sul nastro potevano essere apposte delle barrette a seconda delle battaglie alle quali si era partecipati: VITERBO, PESARO, FANO, SANT'ANGELO, CASTELFIDARDO e ANCONA. Le barrette dovevano però essere comprate privatamente dagli insigniti della decorazione e come tale esse vennero realizzate in pochi esemplari. Croce di Mentana Croce fidei et virtuti Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Tipologia Medaglia commemorativa Status cessato Istituzione Roma, 14 novembre 1867 Barrette BAGNOREA VITERBO NEROLA MONTE ROTONDO MENTANA ROMA Gradi Croce d'argento Croce in metallo chiaro ACQUAPENDENTE MONTE LIBRETTI Nastro della medaglia La Croce fidei et virtuti (erroneamente ma più diffusamente indicata col nome di Croce di Mentana) fu una medaglia concessa dallo Stato Pontificio a tutte le truppe che avessero partecipato alle battaglie del 1867 contro Garibaldi. Storia La crode venne istituita dal papa Pio IX con la lettera apostolica "Ex quo infensissimi" del 14 novembre 1867, con l'intento di premiare le truppe pontificie e francesi che avessero partecipato agli scontri del 1867 contro le truppe piemontesi guidate da Giuseppe Garibaldi che miravano alla conquista dello stato pontificio ed alla presa di Roma. Insegne • La medaglia era costituita da una croce in metalli chiari (per la truppa) o in argento (per gli ufficiali), recante al centro un disco. Sul diritto era riportato al centro lo stemma pontificio con le due chiavi decussate e il triregno attorniato dalla scritta "FIDEI ET VIRTVTI". Sulle braccia, all'interno di appositi cartigli, stavano le seguenti scritte: a sinistra "PIVS", in alto "PP", a destra "IX", in basso "1867". Sul retro la medaglia era decorata solo nel disco centrale ove era riportata una croce latina con due rami d'alloro decussati al di sotto di essa, avente al di sopra la scritta "HINC VICTORIA". • Il nastro era bianco con due strisce azzurre in centro. Sul nastro potevano essere apposte delle barrette a seconda delle battaglie alle quali si era partecipati: BAGNOREA; VITERBO; NEROLA; ACQUAPENDENTE MONTE LIBRETTI; MONTE ROTONDO; MENTANA; ROMA. Le barrette dovevano però essere comprate privatamente dagli insigniti della decorazione e come tale esse vennero realizzate in pochi esemplari. Il Monumento ai Caduti Pontifici al CImitero del Verano. Fotografia scattata da Alessio Damato l'11 dicembre 2010 e licenziato in base ai termini della licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported