PiccoliebreicomePelènelfilm Unapartitapersalvarsilavita

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Maestrocantoredel paese
GigliolaCinquetti,anni felici in Lessinia
«Quiero lafiglia delLuigi,nonuna star»
GigiTomelleri,l’insegnante epoeta
capacedi coltivaretalenti letterari
RIVELAZIONE. IfratelliReichenbachnonl’avevanomairaccontato:evitaronoilagerconunafugachericordalacelebrestoriacinematografica
PiccoliebreicomePelènelfilm
Unapartitapersalvarsilavita
La realtà supera la fantasia
Sfuggono ai nazifascisti
dal campo da calcio, come
in «Fuga per la vittoria»
Anche quella dei fratelli Gian
Giacomo e Giancarlo Reichenbach è stata una fuga per la vittoria e una fuga per la vita. Ma
la loro partita — come nel film
Escape to Victory del 1981, diretto da John Huston — non è
stata una parata di assi del pallone a cui parteciparono attori
e fuoriclasse come il brasiliano Pelé, tre volte campione del
mondo, il capitano della nazionale inglese Bobby Moore, il
belga Van Himst, il polacco
Deyna, l’argentino Ardiles o
Sylvester Stallone. La partita
dei Reichenbach si giocava tra
ragazzi di Cerro e sfollati. Nessuno sapeva che in palio c’era
la vita, come invece nella finzione cinematografica o come
tragicamente è accaduto nella
partita della morte, a cui il film
si ispirò, giocata a Kiev il 9 agosto 1942 fra lo Start, una squadra mista di giocatori della Dinamo e del Lokomotiv, e la
squadra degli ufficiali tedeschi della Luftwaffe.
I Reichenbach erano figli dell’alta borghesia veronese. Nel
settembre 1943 la vacanza a
Cerro dei due ragazzi, 16 anni
Gian Giacomo e 13 Giancarlo,
ebbe una fine brusca. «Eravamo alla tradizionale partita domenicale», racconta Domenico Scala, medico odontoiatra,
allora studente ventenne a Padova e primo laureato di Cerro
in farmacia, uno che alla partita non mancava mai, sul campetto vicino al cimitero, oggi
diventato piazzale Alferia. «I
due Reichenbach li conoscevamo tutti. Sapevamo che erano
ebrei, ma nessuno di noi tradiva l’amicizia».
«Ero loro coetaneo», aggiunge Gaetano Zanella. «Ero salito a Cerro da Verona dove studiavo, ma quell’anno anticiparono la chiusura estiva delle
scuole e quando arrivai a Cerro loro erano già qui». Zanella
non sapeva che per le leggi razziali, promulgate nel 1938, a
Gian Giacomo e a Giancarlo
era preclusa la frequenza delle
scuole. Potevano dare gli esa-
mi come privatisti, ma non frequentare le lezioni. «A Cerro
non c’era nessuna discriminazione nei loro confronti», aggiunge Zanella, «ma poi sono
spariti improvvisamente e
non ho più saputo nulla».
A organizzare quelle partite
era Ferdinando Chiampan, il
futuro sindaco di Cerro e presidente dello scudetto dell’Hellas Verona. Già allora, sedicenne, coltivava la passione del
calcio. «Giocavano», racconta
Chiampan, «Emilio Folgore,
artista che aveva lavorato a Parigi, gli Isalberti, i Grazioli, i
Domenichini, Enzo Paris, gli
Scapini e gli Sterzi, titolari di
una grande cantina a San Martino Buon Albergo. I Reichenbach? Ricordo che avevano paura, come tutti noi del resto,
che eravamo in età a rischio di
essere mandati sotto le armi».
La fuga dei ragazzi ebrei passò quasi inosservata. Ricorda
Scala: «Eravamo verso la fine
della partita e i due ragazzi lasciarono il campo senza dare
spiegazioni. Non ricordo come si chiamassero: so solo che
non li ho più rivisti».
Altri in paese hanno raccontato l’episodio per anni, ma
senza poterne immaginare il
seguito. I protagonisti, infatti,
non avevano mai parlato. Solo
oggi, a distanza di quasi 66 anni, Gian Giacomo e Giancarlo
Reichenbach rievocano quei
momenti drammatici. Gian
Giacomo racconta che il momento della fuga dal campo da
calcio non gli è rimasto impresso come memorabile, al momento: «Dev’essere stato nostro padre a organizzare la cosa e a farci venire via dalla partita. Le date coincidono con la
fuga per la salvezza che compimmo in quei giorni di settembre verso la Svizzera». Della partita a Cerro Giancarlo ricorda che fu giocata sotto un
diluvio: «Non mi sono asciugato subito come avrei dovuto e
porto ancora le conseguenze
di forti dolori reumatici». Ma
sono i dolori che ha sopportato meglio. Altre ferite invece
non si sono più chiuse: «Mi
scuso, ma non mi sento di par-
SylvesterStallone e Pelènel filmFugaper lavittoria del1981: aCerronel 1943 si giocòdavvero unapartitache coprì unafugadainazisti
GianGiacomo Reichenbach
DomenicoScala e GaetanoZanella, testimonidellapartita
FerdinandoChiampan
lare di quegli anni. Mi è capitato di andare in alcune scuole
su insistenza di amici, ma si è
rinnovata una sofferenza che
faccio fatica ad accettare. Ho
perso nei campi di sterminio
gli zii materni Lina Arianna
Jenna e Ruggero Jenna, come
tutta la famiglia dei cugini
Sforni. Per me è un dolore troppo grande».
Gian Giacomo ricostruisce la
partenza precipitosa da Verona: «Dovevamo andarcene prima che a Verona si insediassero i tedeschi. Avevamo avuto
notizia delle morti e delle persecuzioni di ebrei attraverso le
segnalazioni delle fräulein che
frequentavano la nostra famiglia e che erano tutte ebree tedesche. Nostro padre conosceva un importante personaggio, direttore del Credito Italiano di Milano, con il quale aveva combattuto nella prima
guerra mondiale e che ci mise
in contatto con contrabbandieri che a pagamento favorivano
l’espatrio in Svizzera».
La famiglia Reichenbach si
trovò in un villaggio del Lago
Maggiore in attesa del momento buono per passare il confine, mentre si ingrossava il
gruppo dei transfughi. «Perché quell’assembramento di
persone estranee al paese non
desse nell’occhio», racconta
Gian Giacomo, «fu organizzato un finto matrimonio: una
coppia indossò gli abiti da sposi e tutti ci vestimmo a festa
per sembrare gli invitati. C’erano perfino i musicisti. La festa
durò fino alle 4 di mattina,
quando in silenzio e in fila indiana ci incamminammo verso il confine dove un buco nella rete ci permise di entrare in
Svizzera. Mio padre volle che
passassimo tutti prima di con-
prima che fossero aperte le
frontiere per il rientro dei profughi. «Trovai Palazzo Emilei
che era la casa della zia Lina
pieno di sfollati, la nostra casa
in lungadige Galtarossa completamente bombardata e la
villa di Santa Lucia saccheggiata, dopo essere stata occupata
dai tedeschi. Era rimasto un
cannone da contraerea trasferito su binari dentro il salone».
Conclude con amarezza Gian
Giacomo: «Non possiamo dire di aver ricevuto molta solidarietà a Verona dopo le leggi
razziali. Ci sono state sbattute
in faccia molte porte da quanti
consideravamo amici. Solo la
contessa Sparavieri, coniugata De Amicis, crocerossina con
mia madre Marcella Jenna sul
fronte della prima guerra mondiale, non si risparmiò per aiutarci». f
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segnare il denaro pattuito, perché non succedesse come ai nostri cugini Sforni, rivenduti
dai contrabbandieri ai tedeschi per 5000 lire». Gian Giacomo fu mandato in avanscoperta dal padre; insospettito da
strane ombre nel bosco, scoprì
che si trattava di militari indiani dell’esercito britannico che
si rimettevano il turbante e la
divisa, buttando via i vestiti civili indossati in Italia, per essere accolti come rifugiati di
guerra. Per gli ebrei invece
non era semplice il riconoscimento e ai Reichenbach fecero
da garanti dei loro parenti residenti a Zurigo. Lì si trasferì
Gian Giacomo per continuare
gli studi in una scuola italiana
fino alla maturità, mentre il padre Attilio trovò lavoro come
commercialista a Lugano.
Gian Giacomo tornò da clandestino in Italia, a fine guerra,
p
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Martedì 7 Aprile 2009
VOLTIVERONESI
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L'ARENA
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