Y A L L A I T IL MENSILE DELLE SECONDE GENERAZIONI A L I A Nella foto: Un gesto galante di Ali Hassoun, siriano, pittore nei confronti della moglie Paola, calabrese. Sono sposati e hanno una bambina. HIJAB & JEANS Lo Hijab (cioè il velo) e insieme i Jeans. I ragazzi di seconda generazione sono consumatori nuovi, che sfuggono a molte delle regole del marketing classico. Sono consumatori trasversali, che hanno i gusti dei loro coetanei ma con un qualcosa che li smarca. In queste pagine si raccontano. E si confrontano, senza timidezze, con le proposte del mercato etnico e del marketing interculturale 22 Y A L L A I T A L I A EDITORIALE MARKETING E ISLAM, UNA RELAZIONE DA (DE)COSTRUIRE DI ENZO MARIO NAPOLITANO E LUCA MASSIMILIANO VISCONTI Q uesto numero di Yalla Italia nasce da un confronto aperto e franco con i redattori del giornale, l’islamista Paolo Branca e noi. Sul tavolo, il tema della relazione tra giovani musulmani e marketing: una relazione indubbiamente tutta da costruire. Le difficoltà non mancano, e su entrambi i fronti. Gli uomini di marketing soffrono spesso di una mancata conoscenza del mondo islamico, per lo più percepito come chiuso, misterioso, fanatico e pericoloso. I consumatori musulmani, a loro volta, possono percepire il marketing come invasivo, omologante, contaminante e finalizzato a etichettare e sfruttare. Insomma, uno scontro tra stereotipate visioni della controparte. Il risultato? I prodotti pensati da aziende italiane per musulmani sono pochissimi e praticamente sconosciuti, per lo più riconducibili all’alveo dei soli prodotti identitari (macellerie islamiche e negozi alimentari etnici). In prospettiva, tuttavia, si intravedono nuovi settori di sperimentazione, legati al bancario (islam banking) e alle grandi CHI SIAMO Y A L L A I T A L I A Il coordinamento di Yalla Italia è curato da Martino Pillitteri. Hanno collaborato a questo numero: Lubna Ammoune. 20 anni, di origine siriana. Studia farmacia Imane Barmaki: marocchina, 25 anni. Diplomata in Perito Aeronautico. Frequenta il quarto anno di economia. Meriem-Faten Dhouib, 28 anni, tunisina. È ricercatrice, insegnante e filologa. Ouejdane Mejri: 30 anni, tunisina. Insegna al Politecnico. Layla Joudè: 22 anni, di origine siriana. Frequenta specialistica in lingue e comunicazione per i media e il turismo. Akram Idries: 25 anni. Madre egiziana, padre sudanese. Iscritto all’ultimo anno di specialistica in Gestione del Costruito. Ouissal Mejri: 28 anni, di origine tunisina. Dottoranda in Studi Teatrali e Cinematografici Shabila Sufi Hamid: 22 anni, studia economia e gestione dei servizi turistici Rassmea Salah: 25 anni, laureanda in studi arabo islamici all’Orientale imprese mass-market, che in presenza di mercati spesso saturi hanno esigenza di intercettare segmenti vergini (si pensi a Vodafone con il piano tariffario “One Nation”). Se il rischio percepito nel rivolgersi esplicitamente al “target islamico” risulta ancora diffuso, si iniziano anche a registrare fenomeni in controtendenza. Rassicurazioni arrivano dal mondo delle ricerche di mercato e persino da organizzazioni come l’Abi, che identifica i migranti come clienti «affidabili e attivi». Persino una Barilla, marchio simbolo della tradizione italiana, ha lanciato il Cous Cous Barilla presentato come «modo nuovo e originale, moderno e contemporaneo di mangiare», diventando main sponsor dell’undicesima edizione del Cous Cous Fest tenutosi a fine settembre 2007 a San Vito Lo Capo. L’improvvisazione non è comunque destinata a durare. Con l’accendersi della competizione, alimentata dalla presa di coscienza delle specificità e del potenziale di questo mercato, le imprese dovranno attrezzarsi per gestire professionalmente questo segmento obiettivo. Del resto, l’economia islamica non si esaurisce nel consumo di carne o di kebab certificati halal. I precetti coranici trovano applicazione nel settore bancario e assicurativo, nel fashion, nel design, nell’architettura, nel turismo, nei servizi alla persona, nei servizi pubblici e in quelli professionali. Per altro, la crisi economica non farà che accelerare il processo di apertura al mercato “etnico” e, al suo interno, a quello islamico. Un fenomeno già evidente nel resto d’Europa, dove la strategia avviata da grandi banche per conquistare il target musulmano ha portato a unità di business separate, in linea con le dichiarazioni di Geert Boussuyt, manager della Deutsche Bank: «In pratica ora ci sono due Deutsche Bank: una islamica e una non islamica». Un pragmatismo sbeffeggiato da Trilussa nel lontano 1922 con la poesia intitolata La Fede in cui un banchiere decideva di investire «pè rifà la facciata d’una Chiesa e ripulì l’interno a ‘na Moschea» e ringraziava degli utili dicendo un’orazione mezzo in ginocchio e mezzo a pecorone. > a pagina 27 23 Y A L L A I T A L I A COSA COMPRO. DUE VENTENNI SI CONFESSANO IL MIO SHAMPOO PREFERITO HA IL PROFUMO DELL’EGITTO DI RASSMEA SALAH Q uando gli esperti sono venuti in redazione a parlarci del rapporto fra marketing e Islam, devo ammettere che se da una parte mi hanno svelato l’intrigante mondo del marketing, dall’altra mi hanno portata a riflettere nuovamente sulla mia identità. VI DICO CHI SONO... Dimmi chi sei e ti dirò cosa compri. Questo sembrava essere il loro slogan. E per vedere se avessero ragione, mi sono messa ancora una volta in discussione, facendo introspezione. Essendo figlia di coppia mista, rientro appieno nella cosiddetta Seconda generazione, categoria in cui di solito più mondi culturali o identitari sono paralleli, a volte integrandosi serenamente, altre invece entrando in conflitto. Questo comporta una continua negoziazione fra le diverse appartenenze culturali ma anche geografiche. Per quel che mi riguarda, nata e cresciuta in Italia, il mondo della società in cui vivo e quello delle mie origini convivono armoniosamente. Penso di essere riuscita a interiorizzare la mia duplice appartenenza anche se una finisce inevitabilmente per prevalere sull’altra, a seconda del Paese in cui mi trovo. ...E ORA VI DICO CHE COSA COMPRO Quando i nostri amici del marketing ci hanno espressamente parlato di “comportamenti di consumo delle 2G”, ho dapprima arricciato il naso, convinta del fatto che i nostri modelli di consumo fossero uguali a quelli MERIEM DHOUIB a cosmetica halal, la mecca-cola, il burkini sono prodotti che nascono da bisogni reali o funzionali oppure da esigenze artificiali imposte dalla comunicazione e della strategie di marketing? I prodotti fatti su misura per le comunità musulmane come quelli che si trovano nel reparto di macelleria halal nei supermercati, le bevande analcoliche come la birra zero, oppure l’ultima invenzione dei francesi, lo champagne senza alcol, sono in effetti utili alla comunità praticanti e possono anche essere un referente simbolico. Ma la regola non vale per tutti i prodotti certificati musulmani corretti. Ad esempio, un cellulare che squilla a suon di urlo del muezzin, oppure una bambola con il velo, sono realmente delle necessità o sono solamente degli oggetti simbolo creati volutamente dal mercato come simboli all’identità arabo-musulmana? Non esiste una riposta generica perché questi prodotti sono molto diffusi e i musulmani li comprano lo stesso pur non avendone bisogno ed è molto difficile stabilire le motivazioni. Alcuni di questi prodotti sono la Barbie con il velo e il burkini. DI L L’INQUIETANTE RAZANNE Per qualcuno, a quanto pare, la Barbie non si addice alle bambine musulmane, tanto che l’Arabia Saudita l’ha bandita da circa un decennio. In questo caso, lo scrupolo religioso si è trasformato in business, ed è nata Razanne, una bambola senza seno né fianchi, con un aspetto da Io sono uguale a tutti. Ho i gusti dei miei coetanei, alcol e maiale esclusi. Se c’è una cosa che mi distingue, è un ricordo delle mie estati cairote. Quando, in un molle pomeriggio di afa, le mie cugine mi hanno fatto conoscere l’henné (quello vero, in polvere!), facendomi un impacco ai capelli da salone di bellezza! E con il rimanente mi hanno decorato mani e piedi dei nostri coetanei “italiani doc” con cui condividiamo gusti culinari, mode, marche, negozi e supermercati. L’unica diversità mi sembrava rappresentata dalle restrizioni alimentari del maiale e dell’alcol e dall’imposizione della carne halal, abitudini alimentari dettate però da un’identità religiosa - non culturale - che ci portano a frequentare le macellerie islamiche in cui possiamo attingere ad altri prodotti delle nostre terre d’origine: succhi di mango, dolci, fuol in scatola ecc. Ero insomma persuasa che, escludendo carni e alcol, la nostra integrazione economica seguisse di pari passo quella culturale. E invece mi sento dire che oltre ai bisogni funzionali (degli alimenti) vi sono tutta una se- rie di bisogni simbolici che rimandano (in)consciamente l’acquirente al suo universo culturale di origine e che lo spingono a preferire un prodotto a un altro. Si pensi alle Barbie col velo o agli Swaroski a forma di moschea. E mi è venuto in mente solo allora come la mia scelta di alcuni prodotti sia la prova di questa tesi. Io stessa, infatti, compro uno shampoo all’henné non tanto perché sia affezionata a quella marca, ma perché mi fa venire in mente l’Egitto, le mie estati cairote, la prima volta in cui, in un molle pomeriggio di afa, le mie cugine mi hanno fatto conoscere l’henné (quello vero, in polvere!), facendomi un impacco ai capelli da salone di bellezza! E con il rimanente mi hanno decorato mani e piedi... IO SONO IL NOI E SONO IL LORO Ed è per lo stesso motivo, e cioè il collegamento del prodotto coi miei affetti e con alcuni ricordi, che scelgo una matita per occhi Kohl, perché mi viene sempre in mente come mia zia distribuisse quella polverina nera su uno stuzzicadenti di legno per poi applicarlo nell’occhio prima di uscire. Ecco che il prodotto, ancora una volta, rimanda ad un mio vissuto e alle mie origini. Mi auguro che questo marketing interculturale possa contribuire alla trasformazione reciproca dei comportamenti di consumo abbattendo i muri e la diffidenza. Mi auguro che non si crei un marketing esclusivo indirizzato a gruppi etnici poiché questo ostacolerebbe l’integrazione e implicherebbe la divisione fra un noi e un loro. Entrambi termini a cui mi sento di appartenere e fra cui mi rifiuto di scegliere. QUI CI VOGLIONO CHIUDERE IN UNA BELLA NICCHIA Hanno studiato la bambola certificata come pienamente ortodossa dal punto di vista musulmano. E c’è anche il burkini, mix tra burka e bikini. Lasciamo perdere... bambina, un solo abito, una tunica e il velo. Il fatto più inquietante, in quanto musulmana che ha giocato con la Barbie durante la mia infanzia, è che Razanne non ha avuto successo soltanto in Arabia Saudita ma si è diffusa smisuratamente in tutto il mondo arabo e in Europa. Un altro prodotto del quale la società occidentale fa fatica ad accettare e a ritenere utile è il burkini, nome che deriva dalla fusione di burka e bikini. La stilista Aheda Zanetti ha spiegato il perché l’ha disegnato: «Abbiamo studiato un sistema per riempire una nicchia di mercato ancora scoperta. Il nuovo costume è molto leggero, aderente e permette alle ragazze musulmane di fare sport in spiaggia giocando ad esempio a beach volley o di nuotare in libertà». Questi prodotti non godono di pubblicità in televisione, tuttavia, a livello di comunicazione, la promozione non manca. Infatti, si stanno diffondendo siti nel mondo arabo rivolti alle donne isla- miche nei quali vengono fornite indicazioni cosmetiche basate sulla sharia, sulla distinzione tra ciò che è halal (“permesso”) e ciò che è haram (“vietato”), sia per la produzione che per l’uso dei prodotti di bellezza. Dalla comunicazione si è arrivati alla certificazione. Alcune grandi aziende produttrici e i gruppi di distribuzione mondiali che sono interessati al mercato femminile musulmano, infatti, vanno adeguandosi sempre di più a questi standard addirittura con l’introduzione di una figura professionale specifica, il “coordinatore halal”, il cui lavoro è quello di elaborare una sorta di “certificato” di qualità islamica per le consumatrici. Tra questi gruppi vi sono anche Givenchy e Healing Garden. Non ha bisogno di certificati una delle ultime frontiere del marketing religioso: i Jeans Al Quds (“Gerusalemme” in arabo), i primi jeans pensati per i fedeli di Allah. Vengono prodotti da un’azienda italiana, che risiede a Udine. Sono alti in vita per non lasciare la schiena scoperta, hanno la gamba larga per inginocchiarsi meglio e cuciture in filo verde per ricordare il colore sacro all’Islam. In un contesto mondiale dove molti Paesi arabi stanno vivendo l’era del consumismo, molti fedeli apprezzano questo tipo di approccio “su misura” che ci rende non soltanto succubi del mercato, ma ci fa credere che questi prodotti siano adatti a noi e ideati per il nostro bene. Io personalmente, come tante ragazze della mia età che hanno giocato con la Barbie in bikini e hanno usato i cosmetici occidentali senza guardare le etichette, da un lato mi ribello contro le strategie del marketing che mi tratta come un oggetto e dall’altro mi indigno nei confronti della nostra rassegnazione davanti al mondo che cambia e progredisce mentre noi ci limitiamo a pensare alla lunghezza delle gonne delle donne e ai prodotti religiosi corretti che vogliono farci usare. 24 Y A L L A I T A L I A UNA SFIDA. PROFESSIONISTA DEL MARKETING... ...PROVA A PRENDERMI (SE RIESCI) DI LAYLA JOUDÈ U na delle conseguenze più immediate della società multiculturale è il conformarsi del marketing alle esigenze delle nuove cittadinanze. Prendiamo l’esempio della comunità musulmana che vive in Italia, e che a mio parere si trova ad affrontare quotidianamente problematiche molto più serie della scelta del cibo o del piano tariffario adatto alla propria famiglia. La mia sensazione è che il nuovo mercato ad hoc conduca all’omologazione. Si tende a cadere nello stereotipo che “siamo tutti uguali”. CHI MI CONOSCE? Il primo esempio a cui penso è me stessa: musulmana, nata in Italia, cresciuta in Italia, vesto alla moda, non mangio carne di maiale e non porto il velo. Non credo affatto di essere un’eccezione, anzi. Sono una delle tante, e vi assicuro che siamo veramente molte, musulmane “normali”, o meglio: non ossessionata dalla religione ma che la vive con serenità, conciliandola con i miei “usi e costumi” italiani. Mi chiedo quale possa essere il mercato ad hoc per una ragazza come me. Ma soprattutto mi chiedo se gli esperti di marketing sappiano della mia esistenza. Amo la pasta, ma quando sento il pro- Siamo eterogenei. Tutti diversi l’uno dall’altro a seconda delle storie che abbiamo alle spalle. Guardate me. Adoro la pasta. Ma se mi mettete davanti un felafel praticamente mi commuovo. E vi spiego il perché fumo di falafel mi emoziono pensando alle mie origini arabe. Seguo la moda italiana per quanto riguarda l’abbigliamento, i profumi, la cosmetica, ma uso quasi sempre il sapone di Aleppo e aggiungo un “tocco arabo” per quanto riguarda gli accessori. Questo potrebbe essere il mercato da indirizzare alle 2G musulmane, ma potrebbe essere soprattutto un buon codice di comunicazione di massa per trasmettere il messaggio che esistono musulmane emancipate, velate o meno, non iperpraticanti o iperfissate. Questo tipo di mercato potrebbe quindi superare il suo ruolo troppo invasivo ed etichettatore. Un esempio come il mio è un target molto difficile da soddisfare per i professionisti del marketing, ma è anche utile per dar vita ad un marketing culturale di massa e diffondere un’immagine positiva, quasi sconosciuta ma sempre più attuale, delle musulmane. Le difficoltà non mancano: da una parte gli esperti di marketing soffrono spesso di una mancata conoscenza del mondo islamico e della sua eterogeneità. Quando si considera la comunità musulmana bisogna rendersi conto che si sta trattando un gruppo religioso composto da culture diverse, non si possono ad esempio associare in un unico gruppo arabi e indonesiani. Inoltre, la comunità musulmana è composta da prime generazioni di immigrati e da figli italiani che rappresentano l’essenza di entrambe le culture e sono spesso molto diversi dai ge- nitori. E ancora, una ragazza come me, non è associabile ad esempio ad un’altra coetanea di seconda generazione che frequenta solo la sua comunità, la sua moschea e le ragazze come lei e che magari in casa non ha mai mangiato gli spaghetti o la cotoletta. Devo ammettere che siamo i primi colpevoli dell’errata immagine che la società ha dei musulmani residenti in Italia. Lasciamo che i personaggi che si autoergono nostri rappresentanti adottino comunicazioni tutt’altro che positive e brillanti mettendo di conseguenza in cattiva luce anche ragazze come me. SGUARDI SUPERFICIALI Dall’altra parte i consumatori musulmani, a loro volta, percepiscono, forse troppo superficialmente, il marketing come omologante e finalizzato ad etichettare e sfruttare, molte volte senza prima informarsi e quindi senza capire. Il mio pensiero, infine, è che dovremmo essere noi i primi protagonisti nel cercare di costruire questo nuovo, e sicuramente complicato, rapporto tra 2G e marketing multiculturale, smettendo di essere un mondo che vive in isolamento e proponendoci positivamente come consumatori, e quindi persone con un reddito e che lavorano e producono. UN PARADOSSO. A MILANO UN NEGOZIO MOLTO EMBLEMATICO VENDERE CASHMIRE INDIANO. IL MARKETING DI MIO PAPÀ DI SHABILA HAMID M io padre è un commerciante da sempre. La passione per il commercio l’ha ereditata da mio nonno e grazie ai suoi consigli ha sviluppato una grande capacità di fidelizzazione dei suoi clienti e di essere sempre soddisfatto del proprio lavoro. Da quando si trova in Italia (mio padre è del Kashmir) ha affrontato diversi criteri di procedura e di approccio con la clientela. Visto che i primi anni della sua attività non aveva un esercizio suo ma frequentava soprattutto le fiere, quell’esperienza in giro per l’Italia lo ha aiutato a capire i clienti italiani e a interagire con loro. Poi, puntando sul fatto che non c’erano tanti negozi di handicraft indiano veri e propri nella zona dove abitavamo, otto anni fa ha aperto il suo negozio: la Galleria del Cashmere. IL GIALLO E IL ROSSO La condizione di partenza era molto semplice: differenziarsi dagli altri commercianti stranieri nella zona. I prodotti non devono essere troppo etnici e nello stesso tempo devono comunicare anche un pizzico di occidentalità; poi, per quanto riguarda il design dell’esercizio, papà ha cercato di allestire la vetrina e lo showroom diversamente dai concorrenti avvalendosi di un consulente italiano che ha abbellito il negozio con un mix tra il giallo e il rosso, tinte che rappresentano l’emblema del negozio. L’approccio con i clienti è stato la parte più semplice. Mio padre ha costruito un rapporto con grossisti e clienti che si basa sulla disponibilità e una comunicazione semplice. Per fidelizzare i clienti la strategia migliore è In una zona di negozi etnici, un immigrato dal Kashmir ha spiazzato tutti. Ha aperto una vetrina allestita con gusti italiani, con un buon design occidentale, per vendere prodotti della sua terra. Il successo è grande, a patto che ad entrare non siano gli stranieri... quella dello sconto. Oltre ad essere soddisfatti dai loro acquisti, i clienti ritornano sempre. E chi sono questi clienti? La maggioranza sono italiani mentre i rimanenti sono turisti che soggiornano negli albergi adiacenti alla Stazione centrale di Milano e vari immigrati. Quelli che mio padre non sopporta sono i clienti indiani, pachistani e bengladesi che noi chiamiamo “desi”. Sono tendenzialmente molto curiosi di vedere cosa vendiamo, di sapere da dove veniamo e la maggior parte delle volte non sono assolutamente interessati ad acquistare. Il fatto che vengono solo per vedere sciarpe o vestiti indiani che ovviamente non vengono acquistati e che invece di parlare di business si lamentano perché i prodot- ti sono più costosi di quelli in India e magari non corrispondono all’ultima moda e non c’è la grande scelta come c’è in un negozio in India, rende i desi, secondo le parole di mio padre, una categoria di clienti insopportabili. VIVA GLI ITALIANI Queste persone sono anche noiose in quanto stanno nel negozio come se fosse il bar sotto casa dove si ritrovano per ammazzare il tempo e costringono mio padre ad essere meno aperto e disponibile nei loro confronti magari anche di fronte ai clienti italiani che potrebbero così considerare mio padre una persona poco cordiale. Indubbiamente mio padre si trova meglio con i clienti Italiani che sono molto curiosi e aperti verso le novità. Questo è gran vantaggio in quanto a mio papà piace proporre sempre dei nuovi prodotti e quando la clientela li apprezza, papà prova una grande soddisfazione. Ovviamente ci sono anche delle esperienze negative. Certi clienti vogliono approfittarsi del cosidetto “commerciante straniero” che probabilmente, nella loro concezione stereotipata, è disposto a barattare al ribasso senza condizioni. Per far fronte a questi personaggi, oltre a dimostrarsi il più occidentalizzati possibile, conviene convincerli a instaurare un rapporto di compra-vendita a distanza basato su un catalogo e la classica spedizione. Le più grandi vittorie e soddisfazioni di mio padre sono il ritorno dei suoi clienti e il rapporto amichevole e informale che ha instaurato con loro. Quella è la prova che le sue strategie sono vincenti. 25 Y A L L A I T A L I A CAPOVOLGIMENTI. I DATI SORPRENDENTI DI UN’INDAGINE DELLA JWT E L’AMERICA SCOPRE CHE IL MUSULMANO È DANAROSO Due terzi delle famiglie di appartenenza islamica guadagnano più di 50mila dollari all’anno e un quarto guadagna oltre i 100mila dollari, quando la media nazionale è di 42mila dollari. Un dato che cambia le carte in tavola... DI OUEJDANE MEJRI I n questi ultimi anni i musulmani, come gruppo etnico, interessano molto sia agli studiosi e agli esperti di comunicazione e marketing. I musulmani immigrati in occidente sono, infatti, passati dall’essere un gruppo economicamente invisibile a quello di un’interessante fetta di mercato di potenziali consumatori. VESTIRE LE PRINCIPESSE I musulmani del Medio Oriente e in modo particolare della penisola arabica sono da decenni l’oggetto del desiderio di aziende di prodotti di lusso che hanno investito in strategie di marketing di altissimo livello. Gli abiti di alta moda dei migliori couturier italiani e francesi venduti alle principesse e alle donne dell’alta borghesia araba sono pubblicizzati in riviste specificatamente confezionate per un pubblico musulmano. Le modelle mai troppo scollate, i capi costosissimi sono riccamente ricamati come da tradizione araba e la scelta dei colori vivaci abbina l’eleganza occidentale con i gusti locali. Sfogliando i cataloghi del Salone del Lusso tenutosi a Dubai nel 2007 si riconoscono le strategie mirate di marketing delle maggiori aziende di gioielli, di orologi di lusso, di arredamento ma anche di costruttori di yacht e di auto. A Dubai, il mix perfetto tra strategie di marketing, qualità del prodotto, prezzo, distribuzione e pubblicità soddisfa pienamente i bisogni di un consumatore ampiamente studiato. La tradizione si sposa con il lusso per confezionare prodotti che piacciono ad una DI OUISSAL MEJRI C Nessuno può negare che il cinema e la televisione sono lo specchio della nostra epoca. Ma a volte è uno specchio che riflette un’immagine distorta della realtà e dei linguaggi, soprattutto quando il protagonista, ad esempio l’arabo medio, è sempre un testimonial di qualcosa associato al negativo o surreale. Basta vedere i film. Nella storia del cinema occidentale, ci sono due filoni che rappresentano gli arabi. Da una parte esiste quello dal “ciak si gira il lato magico incantevole della cultura araba” fatto di meravigliose favole riprodotte in cartoni animati tipo le Le mille e una notte e La lampada di Aladino. Questo lato fiabesco riproduce tutti gli stereotipi dell’arabo che Hollywood ha poi veicolato nei suoi film da Lawrence d’Arabia fino al recentissimo Zohan-Tutte Le donne vengono al pettine, film che prende in giro gli stereotipi non solo degli arabi in Medio Oriente ma anche i vicini di casa, gli israeliani. CAMMELLI E HAREM Si predilige sempre la rappresentazione di un popolo che proviene da terre lontane, di carovane, di cammelli e di harem, immagini che continuano ad essere usate non solo nel cinema di massa ma anche nelle pubblicità contemporanee. Infatti, nella nuova frontiera della pubblicità multietnica, i cliché del passato sono mescolati a situazioni moderne per cui è nor- clientela non solo molto facoltosa ma prima di tutto araba e musulmana. Grazie ai processi migratori e al fatto che molti immigrati per gli effetti non spiegabili della globalizzazione non de-ritualizzano le loro usanze nei Paesi dove vanno a lavorare, il marketing guarda ai gruppi etnici specifici non più fuori dalle frontiere nazionali ma al loro interno. Il termine tecnico è: “international market at home”. I marketer americani hanno iniziato a studiare la comunità islamica negli Usa solo a partire del 2006 quando la JWT, la prima azienda di pubblicità americana, ha fatto una ricerca specifica sulle capacità consumistiche degli americani di religione islamica scoprendo che i circa sei milioni di musulmani in America sono in media più istruiti e più ricchi della media della popolazione. Due terzi delle famiglie musulmane guadagnano più di 50mila dollari all’anno e un quarto guadagna oltre i 100mila dollari mentre la media nazionale è di 42mila dollari. A livello d’immagine, i musulmani d’America incontrano le stesse difficoltà che affrontiamo noi qui in Europa, ma nel pratico sono nettamente avanti. Come gli americani, la sensazione che hanno tanti musulmani in Italia è che dall’11 settembre da una parte si patisca una sovresposizione mediatica, ma dall’altra si sia quasi completamente assenti dai mezzi di comunicazione sia come produttori d’informazione sia come attenti consumatori. Infatti, pochissimi musulmani italiani sono giornalisti e quasi nessuno è il volto prediletto delle pubblicità. Gli intervistati dalla JWT hanno affermato che, pur sentendosi costantemente “sospettati”, continuano comunque a credere nel sogno americano e sono in sintonia con i valori tradizionali americani. NON METTETECI NEL GHETTO Sono certa che anche tantissimi immigrati in Italia di fede musulmana si sentono vicino alle tradizioni di questo Paese e vogliono contribuire al suo sviluppo. È vero che abbiamo in genere delle esigenze alimentari particolari, che preferiamo investire i nostri soldi in banche etiche e che l’abbigliamento per certe persone dovrà essere scelto con cura. Però, come per i musulmani d’America, non credo che si abbia bisogni specifici di consumo. In compenso, la domanda che mi viene subito in mente è: «Quanto noi musulmani vogliamo che la nostra religione sia al centro della discussione pubblica?». Io avrei risposto, prima dell’eccessiva esposizione mediatica che la mia comunità vive oggi, che la mia fede fa parte della mia sfera privata. Rispondo ora a chi vuole studiarci per capire come e che prodotti offrirci, che il tema della religione tornerà a far parte della sfera privata e che crearci una nicchia di mercato per prodotti “islamici” non agevola il processo d’integrazione. Disporre della carne halal al supermercato va benissimo, ma creare un mercato parallelo nel quale se sei musulmano allora sei il benvenuto altrimenti grazie, mi sa molto di ghetto consumistico. L’ARABO? È CATTIVO. VA BENE NEI FILM, NON NEGLI SPOT Il mondo dell’immigrazione musulmana ha molto spazio nel cinema. Invece la pubblicità chiude le porte. Ancora troppi prencocetti dominano. Anche se ultimamente... Steven Spielberg sul set di Munich. Un film senza pregiudizi sugli arabi male vedere in tv uno spot per un provider di telefonia nel quale una donna parla al cellulare da un harem. Manca ancora la jeep che scala le piramidi egiziane o la Sfin- ge che sostituisce la Gioconda e la Statua della libertà, ma prima o poi succederà. L’altro filone invece è quello del “bad arab” dove l’uomo arabo è un personaggio spietato, barbaro, molto ricco. Nella comunicazione di massa cinematografica occidentale l’uomo arabo è anche spesso dipinto come ossessionato dalle donne occidentali (La corsa più pazza d’America 2 del 1984). Gli egiziani sono stati identificati come nazi-simpatizzanti (I predatori dell’arca perduta, 1981); dei terroristi arabi hanno provato ad abbattere la macchina di Michael J. Fox in Ritorno al futuro; una setta egiziana rapinava giovani per bruciarli vivi in Piramide di paura del 1985. Questi sono alcuni esempi di rappresentazioni ricorrenti dell’arabo nel cinema di Hollywood. NIENTE PUBBLICITÀ Da quando l’immagine del terrorista è diventata un leitmotiv nei telegiornali dopo l’11 settembre, oggi si evita di far recitare gli arabi e i musulmani nelle pubblicità occidentali anche quando essi sono pienamente cittadini integrati con un reddito medio alto. Però riscontro ultimamente una nuova linea di tendenza. Sembra che il cinema stia cercando di riabilitare una certa realtà grazie a film come Syriana di S. Gaghan (2005) oppure Munich di Spielberg dello stesso anno. I due registi non mettono da parte i pregiudizi sugli arabi ma non esitano, però, a mostrare l’altra faccia della medaglia, evidenziando nel primo film i giochi di potere legati al petrolio e nel secondo film il ruolo degli israeliani nella gestione successiva della vicenda del settembre nero del 1972. 26 Y A L L A I T A L I A UN PO’ PER MODA. DAL VELO IN GIÙ, UNA RIVOLUZIONE IN VISTA L’ISLAMIC FASHION SI FA STRADA DI LUBNA AMMOUNE S e non si trova un mercato “religioso” in cui trovare risposta alle proprie esigenze, ci si lamenta o ci si arrangia? Di veline G2 (ragazze italiane di origine arabo-islamica che portano il velo) ce ne sono tante, molte di loro hanno nel proprio guardaroba più di trenta veli con accanto capi d’abbigliamento made in Italy. E potrebbe sorgere spontanea una domanda: come fanno ad averne così tanti se non esiste un negozio di hijab/chador in Italia? È un quesito a cui molte di loro hanno risposto con una parola: creatività. Per chi riesce ad andare ogni anno in un Paese arabo è facile fare acquisti, ma per chi non frequenta il Paese d’origine dei propri genitori? Negli ultimi anni si è potuta notare la varietà di veli che vengono indossati. Queste differenze non sono dettate esclusivamente da una diversità etnica, come si potrebbe pensare, o da una visione diversa della religione, bensì dalla pura fantasia e dal bon ton. In uno specifico Paese arabo vi sono vari tipi di veli ma il numero è limitato rispetto alla realtà che si presenta nell’Islam italiano ed europeo. In questo caso si può parlare di “marketing adattivo”. Se il prodotto non si trova, o lo si crea o se ne cerca uno simile e lo si adatta alle proprie esigenze. PUNTO DI VISTA UNA MODA FAI DA TE Si entra nei negozi d’abbigliamento e ci si arrangia cercando di improvvisare un collage senza rivolgere particolare attenzione a chi è, tra la clientela, il vero destinatario. Una moda fai da te, che a volte riesce, a volte meno rispetto alla carenza di modelli e vogue. Nella realtà virtuale troviamo cataloghi di Islamic fashion, sono nati siti e blog che dedicano le loro pagine ad aiutare e consigliare la vendita online di foulard, indicando negozi virtuali, da Al Muhajabat a Crescent Moon Boutique, da Artizara a Hijab Girl, un mondo a parte dove le veline hanno l’imbarazzo della scelta, da un abbigliamento allegro e coloratissimo sino all’estremo, un mondo non ancora presente nella realtà terrena. Eppure moda e Islam sono un binomio vincente nei Moda e Islam sono un binomio vincente nei Paesi a maggioranza islamica in cui si trovano veli griffati provenienti da case parigine e milanesi. Nonostante ciò, queste case di moda non hanno ancora disegnato modelli di veli per una nuova clientela occidentale che richiede per se stessa un tocco di stile arabo Paesi a maggioranza islamica in cui si trovano veli griffati provenienti da case di moda parigine e milanesi che distribuiscono i loro prodotti di marca nelle capitali mediorientali e del Golfo. Nonostante ciò, queste case di moda non hanno ancora disegnato modelli di veli per una nuova clientela occidentale che richiede un “islamic fashion” e allo stesso tempo moderno. Questa clientela, che può rappresentare sicuramente un potenziale acquirente, esiste ed è pure in continuo aumento. Contrariamente al luogo comune per cui nell’immaginario dominano donne avvolte in chador antiestetici e un’onda di veli neri o dai colori spenti che vuole solo passare inosservata, si potrebbe trovare di tutto, dalla scelta del tessuto al colore, alla modalità d’indossarli e di avvolgerli intorno al volto e al collo, a volte nascosto, a volte scoperto. I prodotti potrebbero essere rivolti solo a una clientela specifica (indice di valorizzazione e di consapevolezza di una società multiculturale e non di ghettizzazione), ma all’interno si presenterebbe un mosaico di volti che aspettano veli ad hoc, veli per varie occasioni perché non sono uguali a se stessi: per la casa quando ci sono ospiti, per andare in università o per lavorare, per uscire con gli amici, per particolari eventi come feste, cene importanti o conferenze, per andare a correre e così via. MAMMA MIA, IL LOOK! Al velo si aggiungono gli spilli che li tengono fermi, ciondolini, spille semplici o con diamantini colorati in coordinato col resto, spilli pensati per giacche da Hello Kitty ma che possono essere adattati per gli chador, per esempio. Così i veli seguono trend svelati e neanche tanto nascosti e possono anche essere indice di quanto una ragazza musulmana ci tenga al proprio look. La moda è arte e se personalizzata diventa anche cultura. È un segno che distingue e comprende tutti i dettagli, nulla passa inosservato. Lo hijab diventa qualcosa di più, può essere codice di comunicazione e attorno ad esso può dipendere l’intero codice di vestiario. Così come sta cambiando la società, così il settore di marketing potrebbe in termini di comparto economico della moda mostrarsi sensibile e al passo coi cambiamenti. Le diverse richieste che nascono anche da differenze culturali e religiose aprono uno spiraglio di opportunità per coloro che hanno coraggio di uscire dai confini di un’apparente e rassicurante monocultura. Il mondo dello hijab, se valorizzato, potrà dare inchiostro alle penne dei designer e aggiungerà FASHION. Burkini nelle vetrine, accanto model, mix ad altri capi, versioni tra burka e bikini di sé molto glamour. COM’È BUONA LA CITTÀ. DESIDERIO CHE HAI RISPOSTA CHE TROVI DI AKRAM IDRIES ammino per strada, quando mi assale una sensazione di fame! Mi aggiro per le vie di una caotica Milano ed i miei occhi riescono solo a notare scritte quali «macelleria islamica», «doner kebab», «carne halal»; la mancanza di un fast food nelle prossimità mi induce ad acquistare un succulento panino di kebab. Finito di mangiare mi ricordo che è da un po’ che non sento mia nonna in Egitto così la prima cosa che mi viene in mente è di raggiungere uno dei numerosi call center sparsi per la città. E il mio cuginetto? Lui che ha 17 anni ed è un ragazzo tecnologico? Nessun problema, perché la soluzione è sempre a portata di mano! Mi fondo nel primo internet point per chattare su msn o parlare su skype. Ovunque mi giro mi accorgo di un mercato rivolto esclusivamente alle esigenze di tutti i trapiantati qui in Italia, provenienti da ogni angolo del mondo. pitato spesso di notare volantini sulle vetrine di macellerie islamiche con vere e proprie pubblicità in arabo che reclamizzano: «Said tal dei tali, elettricista molto competente che tratta solo con stranieri», a volte specificando direttamente alcune nazionalità rispetto ad altre. È molto curiosa questa sorta di top chart che gli immigrati stilano fra di loro perché a fare la differenza di prezzo e di qualità del servizio, molte volte è la nomea che hanno i popoli di un Paese rispetto all’altro. L’ultimo servizio, nonché il più efficiente tra i sopraelencati, è quello immobiliare, in quanto fornisce assistenza all’immigrato nella ricerca di un degno alloggio in cui stare, venendo soprattutto incontro alle sue necessità. Servizi che funzionano perché si pensa che «solo chi è come me comprende la situazione in cui sono, di conseguenza adeguerà anche i prezzi e la qualità al mio standard di vita». TUTTO PER QUELLI COME ME Infatti, la maggior parte dei negozi di cui sto parlando sono gestiti da stranieri e rivolti principalmente a stranieri. Questo fenomeno non è circoscritto solo al mercato alimentare (vedi macellerie/ rosticcerie) o ai centri di telefonia, ma comprende anche altri campi, quali la riparazione (elettricisti, meccanici), il lavaggio (lavanderie a gettone) ma anche i settori incontaminati quali i servizi immobiliari rivolti agli immigrati. I servizi alimentari/ ristorazione e di telefonia sono stati i primi forniti sul mercato low cost, disseminandosi come funghi. Più recenti, invece, sono sia le lavanderie a gettone, rivolte principalmente ad una clientela che preferisce risparmiare tempo ed energia (quali stranieri, studenti, spesso turisti), che i servizi di riparazione. A proposito di quest’ultimo, mi è ca- I TREND DEL FUTURO Vi è poi un’incapacità di integrazione da parte dei nuovi arrivati, in quanto è più semplice relazionarsi con chi è “come me” rispetto a chi non lo è. Tutto ciò porta alla creazione di un mercato che sta prendendo sempre più quota attraendo verso sé l’attenzione di tutti. In base a questi trend, come sarà la nostra società proiettata nel futuro? Avremo dei mercati dove nessun altro oltre gli stranieri potranno accedervi? Non si rischia di circoscrivere il tutto rendendo esclusivi alcuni settori e luoghi? Magari l’intento non è questo, ma il messaggio che può trapelare può essere molto negativo per il nostro avvenire, dove la multietnicità dovrebbe essere un fattore di ricchezza per la collettività e non di distinzione. C 27 Y A L L A I T A L I A EDITORIALE Una relazione da (de)costruire > da p a g i n a 2 2 MARKETING & FINANZA. LA GRANDE CRISI FA SCOPRIRE CHE... CORANO E BIBBIA DANNO BUONI BOND La banca islamica non è destinata solo ai musulmani o agli arabi, è aperta a tutti. E offre prodotti che si basano su principi morali universali... «Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse». (Deuteronomio 23,20) «O voi che credete, temete Allah e rinunciate ai profitti dell’usura se siete credenti». (Corano, Al-Baqara, 278) DI IMANE BARMAKI L a finanza islamica si ispira alla religione musulmana attraverso la scelta di strumenti che riflettono la preferenza per la partecipazione azionaria rispetto ai finanziamenti basati sul debito e la preferenza per il divieto di interesse. In base a questo approccio, il denaro deve essere investito in business produttivi e non su derivate che promettono crescita solo sulla carta. La banca islamica, quindi, non è una banca destinata solo ai musulmani o agli arabi. La banca islamica è aperta a tutti: musulmani, cristiani, ebrei, buddisti e atei. È un prodotto universale perché i prodotti dell’islamic banking a disposizione della clientela si basano su principi morali universali, che hanno il loro riferimento in alcuni dettami etici della religione islamica come il divieto di farsi pagare gli interessi, di effettuare speculazioni, oppure ancora di non partecipare al rischio dell’investimento. Divieti espressi anche nella Bibbia, in particolare nell’Antico Testamento: in Ezechiele, (18, 8), si esprime il di- vieto del prestito con gli interessi. Nel IV secolo l’usura è stata definita dai padri della Chiesa come «un peccato diabolico» proprio in base a un passo del Vangelo di Luca (6, 34ss). Nel libro Ritorno alle virtùdi monsignor Gianfranco Ravasi, emerge un ottimo e semplice spaccato delle interpretazioni delle virtù cristiane. Da questo si desume che le quattro virtù cardinali dei cristiani hanno una totale assonanza e comunità di valori con la finanza islamica: la prudenza (che rispecchia il rifiuto della speculazione); la giustizia (che rispecchia la conpartecipazione al rischio); la fortezza (che è intesa dai cristiani anche come bontà e che rispecchia l’impegno alla solidarietà) e la temperanza (la giusta misura, l’equilibrio, il controllo ma anche la condivisione). A monte di queste precisazioni e poiché il mercato di potenziali consumatori italiani non è di fede islamica, per piazzare gli islamic bond nel mercato italiano, secondo me, può essere utile comunicare alle clientele interessate e anche a quelle scettiche come l’aggettivo “islamico” non è l’asset portante di questo tipo di finanza. Non è infatti la religione per sé che conta, ma la sua componente di “giustizia economica” che fa la differenza rispetto ai prodotti offerti dalle grandi banche di affari. Le attuali crisi finanziarie stanno rendendo la finanza islamica e il suo concetto di giustizia economica la nuova ricetta contro il crollo dei mercati o meglio la nuova alternativa etica al capitalismo liberale. Ma cosa dovrebbero fare le aziende italiane? Dovrebbero semplicemente applicare i fondamentali del marketing: conosci il tuo cliente, comprendine i bisogni, chiediti come puoi soddisfarli, presidia la sua soddisfazione. In altre parole, dovrebbero iniziare a conoscere la storia e la cultura dell’islam, e delle comunità islamiche italiane in particolare, avviando relazioni con queste comunità e con le loro più vivaci espressioni: gli imprenditori e i giovani. Potrebbero così comprendere come la maggior parte dei musulmani non intende chiudersi e vivere solo tra moschea e macelleria islamica. Il rischio è però in agguato. Se è vero che pensare di trattare tutti i consumatori allo stesso modo in virtù di un cieco principio di parità è folle, sarebbe altrettanto arrischiato islamizzare gli islamici. Non tutti i consumatori musulmani attingono alla loro fede per relazionarsi al mondo dei consumi e non tutti i consumi risentono dell’orientamento religioso. Va dunque immaginato un marketing nuovo. Un marketing non più monoculturale, che nega il diritto alle differenze, o multiculturale, che investe sulle diversità, ma un marketing interculturale in grado di riconoscere, valorizzare, responsabilizzare e far dialogare tutte le identità. Un marketing che si propone di accogliere i migranti e di accompagnarli nel processo d’integrazione sociale ed economica (welcome marketing), di rispondere alle esigenze dei giovani figli di coppie migranti, miste o adottive (g2marketing o cross generation marketing) o di soddisfare le specifiche esigenze delle comunità religiose che vivono in Italia. Un marketing in grado di proporre prodotti kasher alla comunità ebraica e prodotti halal alla comunità musulmana. Ma anche di renderli disponibili a tutti quelli interessati a provarli. Un marketing che inventa luoghi d’incontro e dialogo: prodotti, servizi, media, spazi, eventi. Un marketing che non teme di farsi mediatore tra culture e religioni che debbono mantenere una forte identità ma restare aperte al dialogo, al confronto e a una consapevole e giocosa contaminazione. FILO ROSSO DA LONDRA A MILANO Il «Guardian» ha aperto una I sezione dedicata agli stili di È sufficiente volgere lo sguardo a New York, con i suoi ristoranti che abbinano il kasher alla cucina persiana, araba, indiana, cinese, messicana, giapponese o italiana, e dove il più importante ristoratore kasher è Abdellatif Zegrani, un musulmano. vita della popolazione musulmana. A Milano un convegno cerca di scoprirne tendenze e gusti Se servono, dunque, nuovi marketer, nuovi comunicatori e nuovi relatori pubblici, servono altrettanto, e forse ancora di più, “voci native” da integrare in questo progetto. Non crediamo che il marketing interculturale possa inventarsi nel chiuso dei centri studio o delle agenzie di comunicazione. Pensiamo piuttosto che si possa basare solo sulla frequentazione dei luoghi in cui la nuova società italiana si sta formando (scuole, università, ipermercati, stazioni ferroviarie, metropolitane) e soprattutto sul coinvolgimento, sulla valorizzazione e sulla responsabilizzazione degli appartenenti alle minoranze in qualità di ricercatori, manager, designer, art director, copywriter e relatori pubblici. l Guardian ci guarda. Mulsim Life, il blog del quotidiano britannico, assomiglia a Yalla Italia. È un po’ un blog, un po’ letteratura, un po’ attualità, un po’ nostalgia per il Paese di origine, e anche un po’ nuova linfa e new life per il futuro dell’Europa; lo gestisce una ragazza asiatica di fede musulmana immigrata in Gran Bretagna. Il tema del mondo delle nuove cittadinanze, delle 2G, degli immigrati naturalizzati, il loro processo d’identità, come mitigano le loro aspirazioni con le aspettative delle loro famiglie e di come si può mantenere le radici in un Paese e far crescere i rami all’estero, sbarca anche sui media globali come il Guardian. In fondo, si tratta di una generazione che ha tanto da dire ma che spesso non sa come raccontarsi al grande pubblico. Una generazione poliedrica e dinamica che ha fatto sintesi di due mondi, che è un asset per lo sviluppo sia dei Paesi d’origine che dei Paesi d’adozione. Ma è anche un target, evitato ad arte dalla politica italiana che non si degna di cambiare una penalizzante legge sulla cittadinanza, ma sempre più messo a fuoco dalle strategie di vendita delle aziende e dal linguaggio dei professionisti del marketing che venerdì 24 ottobre a Milano hanno discusso di idee, di progetti e di prodotti della nuova economia interculturale, e lo hanno fatto coinvolgendo i diretti interessati tra cui anche una delle colonne di Yalla Italia, Imane Barmaki. Non trattandosi di una moda passeggera, ed essendo il rapporto tra il marketing e le 2G tutto da costruire, il punto di vista dei testimonial dei nuovi mercati viene trattato e ascoltato anche in altre tappe: il 31 ottobre a Biella sarà approfondito il tema dei consumi come strumento d’integrazione dei migranti; a Padova il 20 novembre quello della comunicazione d’impresa nell’Italia multietnica; mentre il rapporto tra nuovi italiani e nuovi marketing sarà approfondito il 23 gennaio in università Bocconi a Milano. Questo convegno itinerante sull’economia e sul marketing, che da un lato accoglie, valorizza e fa cooperare le identità ma dall’altro rischia anche di essere troppo invasivo, è promosso da Etnica, l’osservatorio del Welcomebank. Martino Pillitteri È quindi necessario individuare all’interno delle scuole e facoltà italiane giovani talenti musulmani interessati a lavorare in ruoli di marketer. E affiancarli alle associazioni dei ricercatori di mercato, dei professionisti del marketing, dei pubblicitari e dei relatori pubblici.