Una poesia per la galleria ferroviaria del San Gottardo

Una poesia per la galleria ferroviaria del San Gottardo
Yari Bernasconi
(La roccia gli ha spaccato il petto, rotolando.
Né parole, né gesti: solo uno sbuffo secco,
terribile. Inutile l’affanno dei compagni,
accorsi con scarponi unti, le grida attenuate
dalla routine. La terra e le pietre, nel buio,
non hanno regole da rispettare. Nessun padrone.)
Qui sotto, tra le rocce, i sassi e questo fango rappreso,
l’oscurità sembra assorbire le nostre facce.
Per questo, forse, non guardiamo: gli occhi bassi,
ridicoli, paurosi delle ombre dei corpi. Eppure
il rumore è severo: lo sentiamo vibrare
con costanza.
Manca la luce e ne soffriamo. Non tanto sotto,
in questo esofago di terra, ma sopra, all’aria,
quando si esce dal buco e il grigiore del cielo
si accascia sul profilo delle montagne, il sole
si rabbuia nel ricordo ostentato di qualcosa di più,
qualcosa di diverso. Una speranza, sì: la speranza
rifiutata, respinta giorno dopo giorno.
Non è lontana, l’Italia, ma noi siamo bloccati
in questi gorghi di pietraie, incollati a questi attrezzi
logori e scuri, sporchi di detriti e di sangue, le mani
e le braccia incrostate da piccole ferite,
polvere ovunque. Siamo forse più svizzeri, adesso,
in questa nostra galleria.
All’interno il calore è quasi insopportabile,
però si avanza: il sudore diventa una seconda pelle,
viscida e scivolosa ma pur sempre tua. Fuori, invece,
Göschenen è fredda, è gelata, e ci respinge
come un germe pestifero.
(Vengono lenti. Sulla barella il morto si confonde
con i vuoti dello straccio, le pieghe improvvise.
Ci guardiamo distratti e ingenerosi,
sfiorati in superficie dalle cime indifferenti,
dalle gravi catene montagnose: quelle rocce impossibili
che forse già sappiamo e conosciamo.)
La poesia è tratta dalla
raccolta Nuovi giorni
di polvere. Poesie, pubblicata
dalle Edizioni Casagrande,
Bellinzona, nel 2015.
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